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PARTE I – L’EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO PENALE e LE FONTI SISTEMA INQUISITORIO, ACCUSATORIO E MISTO La legge penale definisce i “tipi di fatto” che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono, la legge processuale penale regola il procedimento mediante il quale si accerta se è stato commesso un fatto di reato, se l’imputato ne è l’autore e, nel caso, quale pena debba essergli applicata. Il processo penale, nell’applicare la legge sostanziale, deve perseguire contemporaneamente la funzione di tutelare la società contro la delinquenza e la funzione di difendere l’accusato dal pericolo di una condanna ingiusta; il legislatore si trova quindi costretto a inventare soluzioni che, nella ricerca di un coordinamento difficile, inevitabilmente possono sacrificare o la difesa della società o la difesa dell’imputato (si tratta cioè di scegliere se è più accettabile condannare un innocente o assolvere un colpevole). Esiste una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: ad un regime totalitario corrisponde un processo penale nel quale la difesa della società prevale su quella dell’imputato (sistema inquisitorio); mentre ad un regime garantista corrisponde un sistema processuale che dà all’imputato una tutela prevalente rispetto alla difesa della società (sistema accusatorio). Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità, secondo il quale la verità è tanto meglio accertata quanto più potere è dato al soggetto inquirente, nel quale di conseguenza si cumulano tutte la funzioni processuali (egli opera come giudice, come accusatore e come difensore); correlativamente si tende a non riconoscere alcun potere alle parti (l’offeso e l’imputato sono meri oggetti del giudizio); dal principio del cumulo dei poteri processuali derivano le principali caratteristiche del sistema inquisitorio: a) iniziativa d’ufficio : l’iniziativa del processo penale deve spettare al giudice; b) iniziativa probatoria d’ufficio : il giudice è in grado di ricercare le prove con pieni poteri coercitivi; c) segreto : l’inquisitore ricerca la verità senza utilizzare la contrapposizione dialettica tra le parti; d) scrittura : delle deposizioni raccolte dall’inquisitore è redatto un verbale, su cui si basa la decisione; e) nessun limite all’ammissibilità delle prove : è ammessa ogni modalità di ricerca, anche la tortura; f) presunzione di reità : è l’imputato che deve dimostrare la sua innocenza; g) carcerazione preventiva : poiché l’imputato è presunto colpevole, in mancanza di prove di innocenza può esser sottoposto a custodia preventiva in carcere; h) molteplicità delle impugnazioni . Il sistema accusatorio è costruito come modello contrapposto a quello inquisitorio; esso si basa su di un principio opposto a quello di autorità, il principio dialettico: al giudice, indipendente ed imparziale, spetta di decidere sulla base di prove ricercate dall’accusa e dalla difesa (quindi le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi antagonisti); dal principio di separazione delle funzioni processuali derivano le caratteristiche essenziali del sistema accusatorio, che vengono a delinearsi in contrapposizione logica con quelle che connotano il sistema inquisitorio: a) iniziativa di parte ; b) iniziativa probatoria di parte : i poteri di ricerca, ammissione e valutazione della prova sono divisi e ripartiti tra il giudice, l’accusa e la difesa in modo che nessuno possa abusarne; c) contraddittorio (audiatur et altera pars); d) oralità : chi ascolta può porre domande ed ottenere risposte da colui che ha reso una dichiarazione; e) limiti di ammissibilità delle prove ; f) presunzione di innocenza : il giudice può condannare l’imputato solo se l’accusa ha provato la sua reità al di la di ogni ragionevole dubbio g) limiti alla custodia cautelare : quella che può esser applicata è solo una misura cautelare se ed in quanto vi siano prove che dimostrino che in concreto esistono esigenze cautelari; h) limiti alle impugnazioni .

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PARTE I – L’EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO PENALE e LE FONTI

SISTEMA INQUISITORIO, ACCUSATORIO E MISTO La legge penale definisce i “tipi di fatto” che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono, la legge processuale penale regola il procedimento mediante il quale si accerta se è stato commesso un fatto di reato, se l’imputato ne è l’autore e, nel caso, quale pena debba essergli applicata. Il processo penale, nell’applicare la legge sostanziale, deve perseguire contemporaneamente la funzione di tutelare la società contro la delinquenza e la funzione di difendere l’accusato dal pericolo di una condanna ingiusta; il legislatore si trova quindi costretto a inventare soluzioni che, nella ricerca di un coordinamento difficile, inevitabilmente possono sacrificare o la difesa della società o la difesa dell’imputato (si tratta cioè di scegliere se è più accettabile condannare un innocente o assolvere un colpevole). Esiste una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: ad un regime totalitario corrisponde un processo penale nel quale la difesa della società prevale su quella dell’imputato (sistema inquisitorio); mentre ad un regime garantista corrisponde un sistema processuale che dà all’imputato una tutela prevalente rispetto alla difesa della società (sistema accusatorio). Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità, secondo il quale la verità è tanto meglio accertata quanto più potere è dato al soggetto inquirente, nel quale di conseguenza si cumulano tutte la funzioni processuali (egli opera come giudice, come accusatore e come difensore); correlativamente si tende a non riconoscere alcun potere alle parti (l’offeso e l’imputato sono meri oggetti del giudizio); dal principio del cumulo dei poteri processuali derivano le principali caratteristiche del sistema inquisitorio:

a) iniziativa d’ufficio: l’iniziativa del processo penale deve spettare al giudice; b) iniziativa probatoria d’ufficio: il giudice è in grado di ricercare le prove con pieni poteri coercitivi; c) segreto: l’inquisitore ricerca la verità senza utilizzare la contrapposizione dialettica tra le parti; d) scrittura: delle deposizioni raccolte dall’inquisitore è redatto un verbale, su cui si basa la decisione; e) nessun limite all’ammissibilità delle prove: è ammessa ogni modalità di ricerca, anche la tortura; f) presunzione di reità: è l’imputato che deve dimostrare la sua innocenza; g) carcerazione preventiva: poiché l’imputato è presunto colpevole, in mancanza di prove di innocenza

può esser sottoposto a custodia preventiva in carcere; h) molteplicità delle impugnazioni.

Il sistema accusatorio è costruito come modello contrapposto a quello inquisitorio; esso si basa su di un principio opposto a quello di autorità, il principio dialettico: al giudice, indipendente ed imparziale, spetta di decidere sulla base di prove ricercate dall’accusa e dalla difesa (quindi le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi antagonisti); dal principio di separazione delle funzioni processuali derivano le caratteristiche essenziali del sistema accusatorio, che vengono a delinearsi in contrapposizione logica con quelle che connotano il sistema inquisitorio:

a) iniziativa di parte; b) iniziativa probatoria di parte: i poteri di ricerca, ammissione e valutazione della prova sono divisi e

ripartiti tra il giudice, l’accusa e la difesa in modo che nessuno possa abusarne; c) contraddittorio (audiatur et altera pars); d) oralità: chi ascolta può porre domande ed ottenere risposte da colui che ha reso una dichiarazione; e) limiti di ammissibilità delle prove; f) presunzione di innocenza: il giudice può condannare l’imputato solo se l’accusa ha provato la sua

reità al di la di ogni ragionevole dubbio g) limiti alla custodia cautelare: quella che può esser applicata è solo una misura cautelare se ed in

quanto vi siano prove che dimostrino che in concreto esistono esigenze cautelari; h) limiti alle impugnazioni.

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I codici italiani di procedura penale Nel 1848 nello Stato del Piemonte fu promulgato lo Statuto ed entrò in vigore il nuovo codice di procedura penale, che accoglieva il modello napoleonico “misto”. Nel 1859 fu promulgato un nuovo codice basato sempre sul sistema misto, che con alcune modifiche fu esteso al Regno d’Italia nel 1865. Il primo codice di procedura penale italiano vide la luce nel 1913; esso, pur conservando il sistema misto, innovava rispetto al modello napoleonico in quanto riconosceva ampi diritti all’accusato già nel corso della fase istruttoria (praticamente nel corso dell’istruzione rimanevano segrete solo le testimonianze). Dopo la prima guerra mondiale Mussolini inizio la soppressione del sistema liberale e in coerenza con il nuovo regine si procedette alla riforma dei codici; il nuovo codice penale e il nuovo codice di procedura penale furono promulgati nel 1930 ed entrarono in vigore nel 1931; il sistema appariva formalmente misto, ma nella sostanza prevalevano le caratteristiche del sistema inquisitorio:

- il diritto di difesa fu eliminato nella fase istruttoria, che torno ad essere segreta - il p.m., dipendente dal potere esecutivo, ottenne i medesimi poteri coercitivi del giudice istruttore

(conduceva una sua istruzione, denominata sommaria, in cui poteva limitare la libertà personale dell’imputato, assumere le prove e decidere di rinviare a giudizio l’imputato) inoltre poteva archiviare direttamente le denuncie senza chiedere l’autorizzazione al giudice

- il giudice istruttore, nella sua istruzione, denominata formale, procedeva d’ufficio alla ricerca delle prove, che assumeva in segreto, e decideva se rinviare l’imputato a giudizio

- infine il giudice del dibattimento nella decisione poteva utilizzare tutti i verbali degli atti raccolti nelle fasi anteriori

- erano aumentati i casi di cattura obbligatoria - scompariva l’istituto della scarcerazione obbligatoria per decorrenza dei termini massimi - era abolita la giuria popolare (al suo posto di introdusse la corte d’assise, composta da giudici

togati e da cinque cittadini) Il codice quindi riuscì ad attuare un duplice cumulo di funzioni:

- dal un lato il giudice istruttore cumulava i poteri dell’accusa - dall’altro il p.m., pur essendo parte, cumulava i poteri del giudice

Inoltre anche la separazione delle fasi processuali era vanificata dalla utilizzabilità dibattimentale degli atti raccolti nell’istruttoria

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IL PROCESSO PENALE DALLA COSTITUZIONE AL CODICE VIG ENTE I PRINCIPI DEL PROCESSO PENALE NELLA COSTITUZIONE DEL 1948 Il ritorno al regime di libertà politica ha provocato ripercussioni sul processo penale e sull’ordinamento giudiziario; si identificano in particolare due ordini di conseguenze: - le conseguenze immediate sono dovute alla legislazione intervenuta tra la data dell’armistizio (8

settembre 1943) e la data di entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948); in particolare il governo Badoglio limitò i poteri della polizia in tema di fermo, sottrasse al p.m. il potere di archiviare le denuncie in modo insindacabile, restituì l’inamovibilità dei giudici e riconobbe alla magistratura nel suo complesso l’indipendenza dal governo (tutti i membri del CSM erano eletti da magistrati)

- le conseguenze riflesse vanno individuate nei nuovi principi consacrati nella Costituzione; in particolare i costituenti hanno posto solo le garanzie fondamentali che riguardavano i punti nevralgici del processo penale, dando per scontato che alcuni principi fondamentali (ad esempio la pubblicità del processo penale) costituissero ormai una conquista consolidata e che quindi non necessitassero di una espressa previsione.

All’orientamento liberale si devono: - le norme costituzionali che introducono la separazione dei poteri dello Stato, riaffermata con

particolare enfasi a garanzia dell’ordine giudiziario. - quelle disposizioni che stabiliscono la separazione delle funzioni nel processo penale: il diritto di

difesa, proclamato inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (24.2), l’azione penale spettante al p.m. (112), il principio del giudice naturale precostituito per legge (25.1).

All’orientamento personalistico si ricollegano le norme che riconoscono i diritti inviolabili della persona umana (articolo 2). L’elenco è dettagliato anche nelle garanzie di riserva di legge e di giurisdizione, precisate in singoli articoli a tutela della libertà personale (13), della libertà di domicilio (14) e di circolazione (16). Il quadro è completato dalla presunzione di innocenza, affermata nel 27.2, che voleva salvare la legittimità della custodia cautelare applicabile in pendenza del processo penale (13.2). Infine, l’orientamento solidaristico trova la sua consacrazione negli articoli 2 e 3 della Costituzione. A tale orientamento si possono ricondurre tutte le norme che tendono a rimuovere gli ostacoli di carattere economico che impediscono l’eguaglianza sostanziale: il 24.3; il 24.4; il 112. LE RIFORME PARZIALI AL CODICE DEL 1930 E I LAVORI PREPARATORI PER IL NUOVO CODICE DI PROCEDURA PENALE Negli anni successivi all’entrata in funzione della Corte Costituzionale (dopo il 1956) hanno preso corpo due orientamenti differenti: 1) dal un lato si sono effettuate modifiche parziali al codice del 1930; tale orientamento è prevalso

almeno fino al 1968; si reintrodussero in sostanza le garanzie già sperimentare nel codice liberale del 1913; l’unico aspetto che non fu toccato è stata la struttura mista del processo e di conseguenza il principio del cumulo delle funzioni processuali (il giudice istruttore poteva procedere d’ufficio alla ricerca delle prove, il p.m. poteva condurre una sua istruzione, in cui esercitava i poteri coercitivi e istruttori che spettavano al giudice, infine il giudice del dibattimento nella decisione definitiva poteva utilizzare tutti i verbali degli atti raccolti nelle fasi anteriori)

2) dall’altro si è pensato ad un nuovo processo penale; questo secondo orientamento cominciò a manifestarsi nel 1962. Nella sesta legislatura il parlamento approvò in via definitiva un disegno di legge e la relativa legge delega fu promulgata il 3 aprile 1974 con il numero 108; una commissione istituita dal Ministro della Giustizia e presieduta da Gian Domenico Pisapia presentò il testo del Progetto preliminare nel marzo del 1978; tuttavia il Governo interruppe l’iter della delega, a causa principalmente del particolare momento storico politico (le brigate rosse rapirono Aldo Moro sempre nel marzo del 1978 e in una situazione del genere l’introduzione di un processo più garantista non era apparsa ragionevole)

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Dopo che il pentimento di centinaia di terroristi aveva consentito di debellare le più agguerrite bande criminali ei i fiancheggiatori delle stesse, riprendeva in Parlamento un dibattito che si concluse con l’approvazione della seconda e definitiva legge delega 16 febbraio 1987 n. 81. Il 22 settembre 1988 il Governo ha approvato il testo del nuovo codice, che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 24 ottobre 1988 ed è entrato in vigore il 24 ottobre 1989. LE LINEE GENERALI DEL NUOVO PROCESSO PENALE Il nuovo processo penale è fondato su tre principi fondamentali. Il principio della separazione delle funzioni; esso impone che il giudice abbia soltanto il compito di dirigere l’assunzione delle prove e di decidere (senza cumulare in se l’ulteriore potere di svolgere indagini) e che il p.m. si limiti a ricercare le prove (senza cumulare in se il potere di assumerle); in questo modo si assicura una situazione di tendenziale equilibrio tra accusa e difesa, sotto il controllo del giudice, che si trova in una posizione di imparzialità. Il principio della netta ripartizione delle fasi processuali; il processo penale vede susseguirsi: • le indagini preliminari

Nella fase delle indagini preliminari il p.m. svolge funzioni investigative (ricerca di elementi di prova e identificazione del colpevole) e a tal fine può predisporre perquisizioni, sequestri e accertamenti tecnici ed ha il potere di ordinare il fermo di un soggetto gravemente indiziato quando vi è pericolo di fuga (tutte le altre misure coercitive nei confronti dell’imputato, custodia in carcere, arresto domiciliare, misure obbligatorie o interdittive, possono essere disposte soltanto dal giudice, su richiesta del p.m.); il p.m. di regola non ha il potere di assumere prove direttamente utilizzabili per la decisione finale (se occorre assumere subito prove non rinviabili al dibattimento, il p.m. o l’indagato possono farne domanda al giudice e se questi la accoglie, le prove sono assunte davanti al giudice in una udienza denominata “incidente probatorio” e possono essere successivamente utilizzate ai fini della decisione). Quando sono concluse le indagini il p.m. deve valutare se gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio e deve quindi scegliere entro un termine prefissato se chiedere al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Se il p.m. ritiene che gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non siano idonei, deve chiedere al giudice per le indagini preliminari l’archiviazione; il giudice può adottare tre diversi provvedimenti: - se ritiene che la notizia di reato sia infondata, dispone l’archiviazione - se ritiene necessarie ulteriori indagini, le indica al p.m., fissando il termine per il loro compimento - se ritiene che gli elementi raccolti siano idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ordina al p.m. di

formulare l’imputazione e fissa la data dell’udienza preliminare (c.d. imputazione coatta) Se invece il p.m. terminate le indagini ritiene che gli elementi acquisiti siano idonei e intende chiedere quindi il rinvio a giudizio, egli deve depositare il fascicolo e notificare all’indagato e al suo difensore un “avviso di conclusione delle indagini”; dopo di che presenta una richiesta di rinvio a giudizio e formula l’imputazione.

• l’udienza preliminare Dopo la richiesta di rinvio a giudizio da parte del p.m. il giudice fissa la data dell’udienza preliminare (che si svolge in contraddittorio ma senza il pubblico) dove il giudice deve verificare se esistono elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio; ove tali elementi non sussistano il giudice pronuncia sentenza di non luogo a precedere; viceversa, se esistono elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento, il giudice emana il decreto che dispone il giudizio e suddivide l’originario fascicolo delle indagini in due distinti fascicoli: - un primo fascicolo per il dibattimento, che contiene i verbali degli atti assunti in contraddittorio ed

i verbali degli atti non ripetibili assunti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria - un secondo fascicolo, denominato del p.m., che ha un contenuto residuale, in quanto in esso sono

contenuti i verbali degli atti assunti dal p.m., dalla polizia giudiziaria e dal difensore; esso è conosciuto soltanto dalle parti e non dal giudice e gli atti in esso contenuti non sono utilizzabili per la decisione dibattimentale

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• il dibattimento. Nel dibattimento il principio del contraddittorio è attuato attraverso l’istituto dell’esame incrociato, per cui le domande sono poste direttamente dalle parti; il presidente del collegio giudicate ha il potere di ammettere o meno le domande, può intervenire per assicurare la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni, può rivolgere direttamente domande e perfino indicare temi di prova nuovi o più ampi che siano utili alla completezza dell’esame.

Il principio della semplificazione del procedimento; la procedura più garantita è riservata solo ai casi veramente controversi o ai reati gravi; per il resto il codice prevede sei riti semplificati:

1) patteggiamento 2) giudizio abbreviato 3) giudizio immediato (richiesto dal p.m. o dall’imputato) 4) giudizio direttissimo 5) procedimento per decreto

LE MODIFICHE SUCCESSIVE AL 1989 La legge delega 81/1987 aveva conferito al Governo l’ulteriore delega ad emanare, entro tre anni dall’entrata in vigore del codice, disposizioni integrative e correttive nel rispetto dei criteri direttivi fissati e su conforme parere di una commissione parlamentare; tuttavia il Governo ha utilizzato tale strumento in modo eccessivamente cauto. La carenza di iniziativa del Governo e l’inerzia del Parlamento sono state superate dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni del codice in quanto contrarie al principio di ragionevolezza. Le declaratorie di incostituzionalità e la situazione di emergenza provocata dagli omicidi dei magistrati Livatino (1991) e Borsellino (1992) hanno indotto il Governo a modificare alcuni punti fondamentali della disciplina del processo penale (d.l. 306/1992 convertito con la legge 356/1992); in particolare il testo originario del codice limitava in modo eccessivo la possibilità di utilizzare ai fini della decisione i verbali delle dichiarazioni rese in segreto prima del dibattimento e il legislatore ha ecceduto nel senso opposto, estendendone soverchiamente l’utilizzabilità (ledendo in tal modo il principio del contraddittorio, che costituisce il fulcro del sistema accusatorio). Un parziale ritorno alla tutela del contraddittorio si è avuto: - per la fase anteriore al dibattimento con la legge 332/1995 “Modifiche al codice di procedura penale

in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa”, che ha aumentato i poteri di controllo spettanti al giudice per le indagini preliminari sugli atti che devono essere valutati al fine di applicare le più gravi misure cautelari e ha riconosciuto espressamente la legittimità delle indagini svolte dal difensore (dell’indagato o dell’offeso), sancendo che la relativa documentazione potesse essere presentata al giudice per le indagini preliminari.

- per la fase dibattimentale con la legge 267/1997 “Modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle prove”, che, occupandosi dell’ipotesi in cui un imputato nel corso delle indagini renda dichiarazioni contro un altro imputato, ha limitato l’utilizzabilità di tali dichiarazioni ai fini della decisione sulla reità dell’imputato accusato.

Ma la Corte Costituzionale ha ridimensionato il contraddittorio introdotto con la legge 267/1997 e con la sentenza 361/1998 ha assimilato la situazione dell’imputato accusatore, chiamato a deporre su di un “fatto altrui”, a quella del testimone, rendendo quindi applicabili a tale ipotesi le norme che permettevano di utilizzare le precedenti dichiarazioni del testimone che fosse rimasto in silenzio. Ma in realtà la somiglianza con il testimone era solo formale, in quanto il silenzio del testimone configura un’ipotesi delittuosa, mentre il silenzio di un soggetto imputato (in questa ipotesi l’imputato accusatore) costituisce l’esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge.

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LA COSTITUZIONALIZZAZIONE DEI PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO Poiché la Corte Costituzionale si rifiutava di riconoscere valore costituzionale alle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Commissione bicamerale aveva proposto di inserire direttamente nella Costituzione il nucleo centrale delle garanzie, cioè i principi del giusto processo; in Parlamento le legge di revisione costituzionale dell’articolo 111 (legge cost. 23 novembre 1999, n. 2) è stata approvata con una maggioranza superiore ai due terzi. Articolo 111 I. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

II. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

III. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.

IV. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.

V. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

VI. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. VII. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o

speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.

VIII. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

Il primo comma prevede una riserva di legge, per cui il legislatore ha voluto affermare un principio di legalità processuale omologo a quello che vale nel diritto penale sostanziale. Il secondo comma enuncia una serie di principi che non riguardano solo il processo penale, ma tutti processi, quindi anche quello civile e amministrativo: - principio del contraddittorio nella sua accezione classica, comportante la necessità che la decisione

del giudice sia emanata audita altera parte - principio della parità tra le parti , che ha una potenzialità diversa nel processo civile e nel processo

penale: nel processo civile è possibile attuare la piena parità delle armi tra attore e convenuto, nel processo penale invece parità significa equilibrio di poteri

- principio della terzietà e della imparzialità del giudice - principio della ragionevole durata del processo, la cui attuazione è rimessa al legislatore I commi successivi enunciano principi che si riferiscono esclusivamente al processo penale. Il comma III contiene il catalogo dei diritti spettanti nel processo penale alla persona accusata di un reato: - la persona sottoposta alle indagini deve essere informata riservatamente della natura e dei motivi

dell’accusa, nel più breve tempo possibile (cioè non immediatamente, ma non appena l’avviso all’indagato è compatibile con l’esigenza di genuinità e di efficacia delle indagini)

- l’imputato ha il diritto di disporre del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa - l’imputato ha il diritto, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono

dichiarazioni a suo carico (diritto a confrontarsi con l’accusatore) - l’imputato ha il diritto di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle

stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore (in base ad una interpretazione ispirata al principio di ragionevolezza e di parità delle parti, anche le prove richieste dall’imputato devono superare il vaglio giudiziale dell’ammissibilità)

- l’imputato ha diritto di farsi assistere da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo (da intendersi in senso lato, come procedimento)

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Il termine “contraddittorio” nel 111 non è usato in un unico senso, ma in due significati diversi: • per quanto riguarda il contraddittorio in senso oggettivo, si tratta del contraddittorio nella

formazione della prova (enunciato all’inizio del comma IV “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”) che consacra il contraddittorio come metodo di conoscenza (lo strumento al quale si fa esplicito riferimento è l’esame incrociato). Esso tuttavia non è affermato in modo assoluto, ma soffre di eccezioni, poiché viene bilanciato con altre esigenze ritenute prevalenti in determinati casi; nel comma V infatti si afferma che “La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”

• Per quanto riguarda il contraddittorio in senso soggettivo, esso è recepito nel III comma, che garantisce all’imputato il diritto di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico e nel comma IV che recita “La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”. Questi due commi effettuano un bilanciamento tra due diritti di difesa, il diritto dell’accusatore e quello dell’accusato: a una determinata situazione (sottrazione al contraddittorio da parte dell’accusatore) corrisponde una determinata conseguenza (inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni rese in segreto); si ritiene che si tratti di una inutilizzabilità relativa, che si riferisce alla sola prova di reità, non anche alla prova di innocenza

L’attuazione di nuovi principi costituzionali L’entrata in vigore dei principi del giusto processo ha imposto al Parlamento di predisporre in tempi brevi una modifica del sistema probatorio; per ciò con la legge 63/2001 il legislatore ha cercato di dare attuazione all’articolo 111 operando essenzialmente su due fronti: - per un verso è intervenuto sulla disciplina delle qualifiche dei dichiaranti ed ha previsto una riduzione

dell’area del diritto al silenzio - per un altro verso ha modificato la normativa in materia di dichiarazioni raccolte unilateralmente nel

corso delle indagini ed ha affermato che esse sono di regola inutilizzabili in dibattimento come prova dei fatti in esse affermati.

SUCCESSIONE DELLE NORME PROCESSUALI NEL TEMPO In più occasioni il parlamento è intervenuto con nuove leggi apportando modifiche alle norme del codice di procedura penale; in tutte queste situazioni si pone il problema inerente alla disciplina da applicare ai procedimenti pendenti al momento in cui si verifica la successione tra norme. Nell’ipotesi meno problematica in cui le legge predisponga una apposita disciplina per i rapporti giuridici pendenti al momento della sua entrata in vigore, è possibile prospettare una distinzione tra: - norme intertemporali: hanno natura strumentale in quanto non regolano la materia interessata dalle

norme che si sono succedute, ma indicano il criterio in base al quale si individua la disciplina per il caso concreto; in altre parole di tratta di norme che si limitano ad individuare, nell’ambito dei rapporti pendenti, quali tra di essi saranno regolati dalla nuova disciplina e quali invece resteranno sotto il regime della disciplina previgente

- norme transitorie: sono norme materiali di diretta applicazione, che regolano le situazioni giuridiche coinvolte nella successione di leggi e recano una disciplina peculiare per il caso concreto (di solito intermedia tra quella contenuta nella nuova legge e quella dettata dalla normativa abrogata).

Nell’ipotesi in cui invece la nuova legge non rechi alcuna previsione circa i rapporti giuridici pendenti al momento della sua entrata in vigore, non è dato riscontrare una lacuna del diritto, poiché vale il principio di irretroattività sancito dall’articolo 11 disp. Prel. c.c. in base al quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.

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LE FONTI INTERNAZIONALI DEL DIRITTO PROCESSUALE PEN ALE L’articolo 10.1 della Costituzione sancisce che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”; questa norma è chiamata “trasformazione permanente” poiché ha la funzione di adattare automaticamente il diritto interno al diritto internazionale consuetudinario (sono quindi escluse dalla sua applicazione le Convenzioni tra gli Stati, di cui sono ricomprese solo quelle che si limitano a codificare consuetudini internazionali). Ad una parte del diritto internazionale pattizio si applica l’articolo 11 della Costituzione, in base al quale “l’Italia consente…alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”; infatti questa disposizione riguarda i Trattati internazionali che istituiscono organizzazioni volte al mantenimento della pace e della giustizia tra gli Stati e comporta che una legge interna che si ponga in contrasto con tali trattati sia passibile di una dichiarazione di incostituzionalità. Per quanto riguarda il diritto comunitario , il giudice italiano applica direttamente i regolamenti e le direttive self – executing e valuta se la legge nazionale è compatibile con la norma comunitaria e la disapplica nel momento i cui risulti incompatibile con essa; per quanto riguarda le decisioni quadro (simili alle direttive) la Corte di Giustizia ha affermato che il giudice nazionale è obbligato ad interpretare le norme interne in modo conforme ad esse, anche se ancora non sia stata data loro attuazione. Per quanto riguarda infine le norme internazionali pattizie comuni, al di fuori delle materie contemplate negli articoli 10 e 11 della Costituzione vale la regola generale secondo la quale il rango delle norme dei trattati introdotte nel nostro ordinamento è quello proprio della legge contenente l’ordine di esecuzione del trattato stesso. Tuttavia la legge costituzionale 131/2003 ha portato delle novità in quanto il nuovo articolo 117 primo comma impone al legislatore italiano il rispetto…dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali; da ciò deriva che le norme contenute nei trattati assumono la denominazione di norme interposte, con un rango inferiore a quello della Costituzione e superiore a quello delle legge ordinaria; quindi il giudice nazionale deve interpretare la legge nazionale in modo conforme alla norma internazionale e se la legge nazionale contrasta con la norma internazionale il giudice italiano deve investire della questione la Corte Costituzionale, invocando come parametro l’articolo 117 primo comma. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è una norma pattizia che, in virtù del suo particolare contenuto e della peculiarità dei meccanismi di tutela da essa istituiti, assume una posizione speciale nel nostro sistema; infatti la protezione dei diritti umani all’interno di ciascuno stato membro non è riflessa, bensì diretta, in quanto la Convenzione riconosce formalmente la loro titolarità in capo alle singole persone e attribuisce alle medesime le legittimazione attiva al ricorso alla Corte di Giustizia europea dei diritti dell’uomo, una volta esaurite le vie di ricorso interno; al tempo stesso la Corte europea ha la competenza sulle questioni concernenti l’interpretazione e applicazione della Convenzione al fine di garantire una interpretazione uniforme negli Stati membri. Da tutto ciò deriva che il giudice italiano deve interpretare la norma nazionale in modo conforme alla CEDU nel limite del testo della norma nazionale; se nonostante tale attività ermeneutica la norma nazionale contrasta con la CEDU il giudice italiano deve investire della questione la Corte costituzionale la quale ha un duplice compito: - da un lato deve valutare la compatibilità della norma nazionale con la CEDU; in caso di contrasto con la norma

CEDU la norma nazionale deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima con riferimento all’articolo 117 primo comma

- dall’altro deve valutare che le norme CEDU siano compatibili con la Costituzione italiana; in caso di contrasto con la nostra costituzione la Corte deve provvedere ad espungere la norma CEDU dal nostro ordinamento mediante la dichiarazione di illegittimità della legge di esecuzione.

Per quanto riguarda gli effetti nell’ordinamento italiano delle sentenze della Cote europea, gli Stati devono impegnarsi a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti, nel senso che gli Stati che si siano resi responsabili di una violazione accertata dalla Corte di Strasburgo devono adempiere a due ordini di obblighi: - devono adottare tutte le misure necessarie a cancellare le conseguenze dannose del comportamento non

conforme alla Convenzione, cioè lo Stato ha il dovere di adottare misure a carattere individuale che assicurino ove possibile la restituito in integrum nei confronti del soggetto leso.

- devono adoperarsi, nel miglior modo possibile, al fine di evitare il ripetersi della violazione in futuro, cioè lo Stato deve adottare delle misure, a portata generale, che siano idonee a far cessare la situazione lesiva dei diritti dell’uomo, impedendone la reiterazione.

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Parte seconda – PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE

I SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE

Il processo penale ha lo scopo di accertare:

a) se una determinata persona ha commesso un reato, cioè accertare i fatti storici che costituiscono reato e identificarne gli autori

b) quale è la personalità dell’autore del reato; l’accertamento della personalità dell’autore del reato è reso necessario dalla caratteristica che distingue la sanzione penale: l’essere proporzionata, oltre che alla gravità bel bene offeso, alla personalità dell’autore del fatto illecito

c) quali sono le sanzioni che devono essergli applicate; se la sanzione penale ha unicamente una funzione retributiva, l’esecuzione della stessa può essere affidata alla pubblica amministrazione (e il processo si disinteressa da questo momento); se invece la pena ha, fra le sue molteplici funzioni, anche quella rieducativa, è indispensabile che un giudice accerti l’evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva.

Procedimento penale == Processo penale

serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla porzione del procedimento penale; fanno parte pronuncia di una decisione penale, ciascuno dei del processo le fasi dell’udienza preliminare e quali, in quanto validamente compiuto, fa sorgere del giudizio; il momento iniziale del processo il dovere di porre in essere il successivo e, al corrisponde all’esercizio dell’azione penale, il contempo, è esso stesso realizzato in adempimento momento finale si ha quando la sentenza di un dovere posto dal suo antecedente. diventa irrevocabile (cioè non più impugnabile Il procedimento penale è diviso in tre fasi: perché nessuna parte ha presentato ricorso nei le indagini preliminari, l’udienza preliminare ed termini o perché tutte le impugnazioni ordinarie il giudizio. sono state esperite). L’ azione penale è la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull’imputazione; ex articolo 405 comma I, nel procedimento ordinario il p.m. esercita l’azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell’imputato; la richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell’imputazione. L’imputazione consiste nell’addebitare ad un determinato soggetto un fatto di reato. Gli elementi dell’imputazione sono:

1) l’enunciazione del fatto storico di reato addebitato ad una persona 2) l’indicazione degli articoli di legge che si ritiene siano stati violati 3) le generalità della persona alla quale è addebitato il reato

Circa i soggetti, il primo libro del codice ricomprende tra i soggetti del procedimento penale:

- il giudice - il pubblico ministero - la polizia giudiziaria - l’imputato - la parte civile - il responsabile civile - il civilmente obbligato per la pena pecuniaria - la persona offesa - il difensore.

Si ritiene che possano esser definiti “soggetti” coloro che sono titolari di poteri di iniziativa nel procedimento; il concetto di parte invece è correlato a quello di “azione”: ne consegue che sono parti il soggetto attivo e quello passivo dell’azione penale (sono parti necessarie il p.m. e l’imputato).

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La parte civile è una parte “eventuale” del processo penale, poiché chiede al giudice una decisione in relazione all’imputazione; parte eventuale è anche il responsabile civile, il soggetto responsabile civilmente per il fatto dell’imputato (al quale la parte civile può chiedere il risarcimento dei danni). IL GIUDICE (Libro I “Soggetti” – Titolo I “Giudice”) Le caratteristiche dell’indipendenza e dell’imparzialità distinguono il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato:

- l’ indipendenza del giudice (sia come potere giudiziario, sia come persona fisica) è garantita dalla Costituzione attraverso un apposito organo, il CSM (articolo 104 Cost.); questo è eletto per due terzi dai magistrati ordinari e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra cittadini aventi una precisa competenza giuridica.

- l’ imparzialità del giudice è stabilità dall’articolo 111 comma II, in base al quale “ogni processo si svolge…davanti ad un giudice terzo e imparziale”; infatti in determinate situazioni nelle quali il giudice è o può apparire “parziale”, egli ha il dovere di astenersi e se non lo fa le parti possono ricusarlo (articoli 36 e 37 c.p.p.); inoltre quando una grave situazione locale può pregiudicare la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo o l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente, il processo stesso è rimesso ad un altro ufficio giudicante predeterminato dalla legge (articolo 45 c.p.p.)

La giurisdizione (quella funzione dello Stato che consiste nell’applicare la legge al caso concreto con forza cogente da parte di un giudice terzo) non è impersonata da un organo unitario, ma è diffusa, cioè frazionata, in più organi ciascuno dei quali ha una competenza limitata.

Si può definire competenza quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta dal singolo organo; essa è individuata per approssimazioni successive che tengono conto della materia (titolo del reato), del territorio (luogo in cui è stato compiuto il reato), della funzione che deve essere svolta in una determinata fase o grado del procedimento e della eventuale connessione con altri procedimenti.

Ma il termine giurisdizione può essere utilizzato anche con un altro significato: esso indica le regole che permettono di distinguere i procedimenti di competenza della magistratura ordinaria dai procedimenti di competenza della magistratura speciale. Distinzione tra giudici ordinari e giudici speciali: - sono organi giudiziari “ordinari” quelli che hanno una competenza generale a giudicare tutte le

persone e che, inoltre, sono composti da magistrati ordinari; i magistrati ordinari sono magistrati che fanno parte dell’ordinamento giudiziario ed ai quali la Costituzione garantisce l’indipendenza, l’autonomia (104) e l’inamovibilità (107). Sono giudici penali ordinari di primo grado: il tribunale in composizione collegiale (tre magistrati di carriera, c.d. togati) o in composizione monocratica (un magistrato togato), la corte d’assise (due magistrati togati e sei giudici popolari), il giudice di pace (un magistrato non togato) ed il tribunale per i minorenni (due magistrati togati e due esperti), giudice ordinario specializzato con competenza sui reati commessi dai minori degli ani diciotto. Sono giudici penali ordinari d’appello: la corte d’appello (tre magistrati togati), la corte d’assise d’appello (due magistrati togati e sei giudici popolari) e la sezione della corte d’appello per i minorenni (tre magistrati togati e due esperti). Vi è poi la Corte di cassazione, che ha sede a Roma ed è unica per tutto il territorio nazionale; davanti ad essa possono essere impugnate tutte le sentenza per motivi di legittimità (la corte può controllare se vi è stata inosservanza della legge e se il giudice inferiore ha motivato in modo corretto; non può condurre un esame di merito)

- sono organi giudiziari speciali quelli che sono competenti a giudicare solo alcune persone e che inoltre sono composti da magistrati speciali, cioè non appartenenti all’ordinamento giudiziario; giudici penali speciali sono i giudici militari (che in tempo di pace sono competenti soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate) e la Corte Costituzionale (che è competente a

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giudicare i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione commessi dal presidente della repubblica)

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La competenza In generale con il termine competenza si intende l’insieme delle regole che consentono di distribuire i procedimenti all’interno della giurisdizione ordinaria (o all’interno delle giurisdizione speciali); ma per competenza si intende anche quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta da un determinato organo giudiziario e in questo senso la competenza è distribuita in base a tre criteri:

- criterio della materia - criterio del territorio - criterio della connessione

La COMPETENZA PER MATERIA è ripartita tra la Corte d’assise, il Tribunale per i minorenni, il Giudice di pace ed il Tribunale, in base a due criteri:

• un criterio qualitativo (con riferimento al tipo di reato) • un criterio quantitativo (con riferimento alla misura della pena edittale); circa questo criterio

devono essere tenute presenti le regola generali dettate dall’articolo 4: “Per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”

Alla Corte d’assise (giudice collegiale composto da due giudici di carriera e sei giudici popolari) è attribuita la competenza a giudicare i più gravi fatti di sangue ed i più gravi delitti politici, es: strage, omicidio volontario, epidemie. In particolare è competente per delitti per i quali la legge stabilisce la pena di ergastolo o reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni. Il Tribunale per i minorenni (composto da due giudici togati e da due esperti in psicologia, pedagogia e materie analoghe, nominati con decreto del capo dello Stato, su proposta del ministro della Giustizia, previa deliberazione del CSM) è competente per i reati commessi dai minori degli anni diciotto; si tratta di una competenza esclusiva, per cui la cognizione resta attribuita al tribunale per i minorenni anche se il minore ha commesso un reato che sarebbe di competenza della Corte d’assise, del giudice di pace o del tribunale e anche se il minore ha commesso un reato insieme ad adulti. Il Giudice di pace è una figura creata dalla l. 468/1999 e Dlgs 274/2000. E’ un giudice non professionale, nominato a tempo determinato. Ha una competenza funzionale per particolari reati, in ordine a microconflittualità individuale, soprattutto tra privati. E’ competente a conoscere una serie di fattispecie attribuite qualitativamente In generale il criterio per la determinazione della competenza di tale organo è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dell’accertamento. In caso di condanna non applica pene detentive, ma esclusivamente:

- pene pecuniarie - permanenza domiciliare: nei casi più gravi - pena al lavoro di pubblica utilità: su richiesta dell’imputato

In base all’art. 5 Dlgs 274/2000 è competente per i seguenti reati:

- percosse - furti punibili a querela dell’offeso - lesioni personali e colpose - sottrazione cose comuni - omissione di soccorso - usurpazione - ingiuria - appropriazione cose smarrite - diffamazione - somministr bevande alcoliche a minori, infermi di mente e ubriachi - minaccia - atti contrari a decenza pubblica, ecc.

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Per i reati procedibili a querela, la persona offesa può chiedere l’esercizio dell’azione penale attraverso:

- querela: non preclude un successivo ricorso, nel termine di 3 mesi - ricorso immediato al giudice di pace

Il Tribunale è competente a giudicare i reati che non appartengono alla competenza della Corte d’assise, del Tribunale per i minorenni e del Giudice di pace; oltre a questa competenza “residuale”, il Tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da singole norme di legge e che presuppongono una conoscenza in materie tecniche o di una qualche complessità; infine il tribunale conosce i reati che appartengono alla competenza del giudice di Pace se ricorre una delle aggravanti ad effetto speciale in materia di terrorismo, mafia e discriminazione razziale. Per quanto riguarda le ripartizioni delle attribuzioni tra tribunale in composizione collegiale e tribunale in composizione monocratica:

- il Tribunale in composizione collegiale (cioè formato da tre giudici) conosce i reati puniti, anche nelle ipotesi di tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a 10 anni, ma inferiore a 24 anni, purché non si tratti di reati di competenza della corte d’assise (criterio quantitativo); inoltre conosce una serie di fattispecie indicate nominativamente nell’articolo 33 – bis comma I (criterio qualitativo)

- il Tribunale in composizione monocratica (cioè composto da un solo giudice) conosce dei delitti di produzione e traffico illecito di sostanza stupefacenti e dei reati puniti con pena detentiva fino a 10 anni nel massimo, purché non siano di competenza del Giudice di pace.

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La COMPETENZA PER TERRITORIO è determinata dal luogo nel quale il reato è stato commesso Art. 8. Regole generali

I. La competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato. II. Se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del

luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione. III. Se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la

consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone. IV. Se si tratta di delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto

diretto a commettere il delitto. Art. 9. Regole suppletive

I. Se la competenza non può essere determinata a norma dell'articolo 8, è competente il giudice dell'ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione.

II. Se non è noto il luogo indicato nel comma 1, la competenza appartiene successivamente al giudice della residenza, della dimora o del domicilio dell'imputato.

III. Se nemmeno in tale modo è possibile determinare la competenza, questa appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall'articolo 335.

Inoltre singole leggi speciali prevedono criteri di determinazione della competenza per territorio diversi dal luogo nel quale è commesso il reato. Infine una importante deroga alle norme ordinarie sulla competenza territoriale è prevista nei procedimenti in cui un magistrato (giudice o p.m.) assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato, quando in base alle regole ordinarie tale procedimenti sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello nel quale il magistrato esercita le sue funzioni, ovvero le esercitava al momento del fatto; in questi casi la competenza è attribuita al giudice competente per materia che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d’appello individuato dalla tabella A annessa alla legge 420/1998; tale regola vale anche in caso di procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato (articolo 11). Per quanto riguarda la COMPETENZA PER CONNESSIONE, vi è connessione di procedimenti di competenza del tribunale e della corte d’assiste in tre casi (articolo 12):

1) quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro oppure quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento;

2) quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale di reati) ovvero con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso (reato continuato);

3) quando si procede per più reati, se gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri. Quando vi è connessione, un solo giudice è competente a giudicare tutti i reati connessi; il giudice competente in caso di connessione viene individuato in base ai seguenti criteri:

- fra i giudici competenti per materia, la corte d’assise prevale sul tribunale (articolo 15: “Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza della corte di assise ed altri a quella del tribunale, è competente per tutti la corte di assise”)

- applicata questa regola, se più giudici sono egualmente competenti per materia ed hanno quindi una diversa competenza per territorio, prevale il giudice competente per il reati più grave; in caso di pari gravità, prevale il giudice competente per il reato commesso per primo (articolo 16)

Vi sono regole particolari per la connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali e per la connessione di procedimenti appartenenti alla competenza di giudici ordinari e di giudici di pace.

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Esiste una importante deroga alla connessione in presenza di procedimenti contro imputati minorenni; costoro devono esser sempre e comunque giudicati dal tribunale per i minorenni. Art. 14.Limiti alla connessione nel caso di reati commessi da minorenni. I. La connessione non opera fra procedimenti relativi a imputati che al momento del fatto erano

minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni. II. La connessione non opera, altresì, fra procedimenti per reati commessi quando l'imputato era

minorenne e procedimenti per reati commessi quando era maggiorenne. Distinta dalla disciplina appena descritta è la normativa sulle indagini che, pur relative a reati di competenza di differenti giudici, sono collegate; vi è collegamento (articolo 371): - se i procedimenti sono connessi a norma del 12; - se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguire o

assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza;

- se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte. In presenza delle predette situazioni gli uffici del p.m. hanno l’obbligo di coordinarsi tra di loro; da precisare però che il collegamento fra le indagini opera per i soli fini investigativi e non influisce sulla competenza. Quando i procedimenti sono connessi, di regola essi saranno riuniti (articolo 17), ma potranno anche svolgersi separatamente (articolo 18). Art. 17. Riunione di processi. I. La riunione di processi pendenti nello stesso stato e grado davanti al medesimo giudice può

essere disposta quando non determini un ritardo nella definizione degli stessi: a) nei casi previsti dall'articolo 12; c) nei casi previsti dall'articolo 371, comma 2, lettera b).

I-bis. Se alcuni dei processi pendono davanti al tribunale collegiale ed altri davanti al tribunale monocratico, la riunione è disposta davanti al tribunale in composizione collegiale. Tale composizione resta ferma anche nel caso di successiva separazione dei processi.

Art. 18. Separazione di processi. I. La separazione di processi è disposta, salvo che il giudice ritenga la riunione assolutamente

necessaria per l'accertamento dei fatti: a) se, nell'udienza preliminare, nei confronti di uno o più imputati o per una o più imputazioni

è possibile pervenire prontamente alla decisione, mentre nei confronti di altri imputati o per altre imputazioni è necessario acquisire ulteriori informazioni a norma dell'articolo 422;

b) se nei confronti di uno o più imputati o per una o più imputazioni è stata ordinata la sospensione del procedimento;

c) se uno o più imputati non sono comparsi al dibattimento per nullità dell'atto di citazione o della sua notificazione, per legittimo impedimento o per mancata conoscenza incolpevole dell'atto di citazione ;(ed occorre quindi rinnovare l’atto di citazione)

d) se uno o più difensori di imputati non sono comparsi al dibattimento per mancato avviso ovvero per legittimo impedimento;

e) se nei confronti di uno o più imputati o per una o più imputazioni l'istruzione dibattimentale risulta conclusa, mentre nei confronti di altri imputati o per altre imputazioni è necessario il compimento di ulteriori atti che non consentono di pervenire prontamente alla decisione;

e-bis) se uno o più imputati dei reati previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a)(reati di criminalità organizzata e ipotesi assimilate), è prossimo ad essere rimesso in libertà per scadenza dei termini per la mancanza di altri titoli di detenzione. (ed è quindi necessario definire con urgenza la fase o il gradi per evitare la scarcerazione automatica)

II. Fuori dei casi previsti dal comma 1, la separazione può essere altresì disposta, sull'accordo delle parti, qualora il giudice la ritenga utile ai fini della speditezza del processo.

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Il principio del giudice naturale In base al 25 comma I Cost. nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge; dal questa norma deriva: - il principio della riserva assoluta di legge in materia di competenza, per cui la competenza del giudice

può essere determinata soltanto dalla legge e non da fonti secondarie - il contenuto che devono avere le disposizione di legge che sono destinate a regolare la competenza: le

norme non devono conferire un potere di scelta discrezionale - il divieto di applicazione retroattiva delle norme concernenti la competenza (infatti si parla di giudice

“precostituito”) I conflitti di giurisdizione e di competenza Vi è conflitto quando in qualsiasi stato e grado del processo (articolo 28 “Casi di conflitto”) • uno o più giudici ordinari e uno o più giudici speciali contemporaneamente prendono o ricusano di

prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona (conflitto di giurisdizione, che interviene quindi tra un giudice ordinario ed un giudice speciale)

• due o più giudici ordinari contemporaneamente prendono o ricusano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona (conflitto di competenza, che interviene quindi tra giudici ordinari.

Si ha conflitto positivo quando due o più giudici contemporaneamente prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona; mentre si ha conflitto negativo quando due o più giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona, ritenendo la propria incompetenza. I conflitti previsti dall'articolo 28 cessano per effetto del provvedimento di uno dei giudici che dichiara, anche di ufficio, la propria competenza o la propria incompetenza (articolo 29 “Cessazione del conflitto”) Il conflitto può essere proposto in diversi modi (articolo 30 “Proposizione del conflitto); può essere: - denunciato dal p.m. presso uno dei giudici in conflitto o dalle parti private ; in questo caso la

denuncia è presentata nella cancelleria di uno dei giudici in conflitto, con dichiarazione scritta e motivata alla quale è unita la documentazione necessaria; il giudice trasmette immediatamente alla corte di cassazione la denuncia e la documentazione nonché copia degli atti necessari alla risoluzione del conflitto, con l'indicazione delle parti e dei difensori e con eventuali osservazioni.

- rilevato d’ufficio da uno dei giudici; il giudice che rileva un caso di conflitto pronuncia ordinanza con la quale rimette alla corte di cassazione copia degli atti necessari alla sua risoluzione con l'indicazione delle parti e dei difensori

Il giudice che ha pronunciato l'ordinanza o ricevuto la denuncia previste dall'articolo 30 ne dà immediata comunicazione al giudice in conflitto; questi trasmette immediatamente alla corte di cassazione copia degli atti necessari alla risoluzione del conflitto, con l'indicazione delle parti e dei difensori e con eventuali osservazioni (articolo 31 “Comunicazione al giudice in conflitto)

Comunque la denuncia o l’ordinanza non hanno effetto sospensivo sui procedimenti in corso. I conflitti sono decisi dalla corte di cassazione in camera di consiglio con sentenza, che indica quale giudice è competente a procedere; la decisione della corte è vincolante, salvo che risultino nuovi fatti che comportino una diversa definizione giuridica da cui derivi la modificazione della giurisdizione o la competenza di un giudice superiore. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo, tuttavia: - il conflitto di giurisdizione è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, mentre - il conflitto di competenza è rilevabile entro termini perentori

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La dichiarazione di incompetenza L’inosservanza delle diposizione che regolano la competenza comporta che il giudice dichiari la propria incompetenza; mentre differenti sono i termini entro i quali il giudice può rilevare d’ufficio la propria incompetenza a seconda che si tratti di incompetenza per materia, per territorio o per connessione, identica è la normativa sull’efficacia degli atti che siano stati compiuti dal giudice incompetente: � di regola le prove acquisite restano efficaci, invece le dichiarazioni, se ancora ripetibili, diventano

utilizzabili in giudizio solo col meccanismo delle contestazioni probatorie � le misure cautelari già disposte conservano un’efficacia provvisoria limitata a 20 giorni dalla

ordinanza che dichiara l’incompetenza e che trasmette gli atti; entro tale termina il giudice competente deve disporre, se lo ritiene necessario, una nuova misura cautelare

Per quanto riguarda l’INCOMPETENZA PER MATERIA: - quando si tratta di incompetenza “per difetto” (cioè quando un giudice inferiore sta procedendo per

un reato di competenza di un giudice superiore), questa può essere eccepita o rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del processo; quindi ad esempio se un Tribunale procede per un reato di competenza della Corte d’assise, l’incompetenza è rilevabile fin quando non si è pervenuti ad una sentenza irrevocabile.

- quando si tratta di incompetenza “per eccesso” (cioè quando un giudice “superiore” sta procedendo per un reato di competenza di un giudice inferiore), questa può essere eccepita o rilevata d’ufficio non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento; inoltre se il giudice di primo grado, errano, avesse ritenuto di essere competente, la corte d’appello che accerti un incompetenza per eccesso deve decidere nel merito.

L'INCOMPETENZA PER TERRITORIO deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare; quando l’udienza preliminare non ha luogo, l’incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento. L’INCOMPETENZA PER CONNESSIONE (anche quando incida sulla competenza per materia) deve essere eccepita o rilevata entro gli stessi termini previsti per l’incompetenza per territorio (cioè prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa non abbia luogo, nel corso delle questioni preliminari al dibattimento). La declaratoria di incompetenza può assumere diverse forme: - nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l’incompetenza con ordinanza e si limita a

restituire gli atti al pubblico ministero che in quel momento sta conducendo le indagini; l’ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto e non impedisce al p.m. di svolgere le indagini (per cui vi è ancora la possibilità che nuovi elementi di prova dimostrino la fondatezza della sua asserzione circa la competenza del giudice)

- dopo la chiusura delle indagini il giudice dichiara l’incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente

La capacità de giudice Quando si parla di capacità del giudice si fa riferimento al complesso dei requisiti indispensabili per un legittimo esercizio della funzione giudicante; in base all’articolo 33 comma I sono condizioni di capacità del giudice quelle che appaiono “stabilit(e) dalle leggi di ordinamento giudiziario” Bisogna però precisare che non tutte le disposizioni finalizzate a regolare l’attribuzione e lo svolgimento della funzione giurisdizionale sono previste a pena di nullità. L’articolo 33 comma II stabilisce che “Non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, sulla formazione dei collegi e sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici”

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L’articolo 33 comma III stabilisce che“Non si considerano altresì attinenti alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l'organo giudicante le disposizioni sull'attribuzione degli affari penali al tribunale collegiale o monocratico” La violazione delle norme sulla corretta composizione del tribunale non incidono sulla capacità dell’organo giudicante quindi i rapporti tra le due articolazioni del tribunale sono configurati come un modulo organizzativo interno e di conseguenza l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale viene considerata come una questione di forma o di rito attinente alla cognizione (e non come una questione di competenza) Il regime delle inosservanze si riferisce a due ordini si violazioni: • violazioni relative ai rapporti tra le attribuzioni del tribunale in composizione collegiale e in

composizione monocratica; l'inosservanza delle disposizioni relative all'attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione collegiale o monocratica e delle disposizioni processuali collegate è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manca, nel corso delle questioni preliminari in dibattimento (art. 33 – quinquies)

• violazione relative all’udienza preliminare, cioè le ipotesi in cui si sia erroneamente omessa l’udienza preliminare in relazione a reati per i quali viceversa detta udienza sia prevista (infatti dinanzi al tribunale in composizione monocratica sono previsti due modelli procedurali: un primo rito, relativo ai reati più gravi, che prevede l’udienza preliminare dove il giudice controlla la fondatezza dell’accusa formulata dal p.m.; un secondo rito, relativo ai reati meno gravi, che non prevede l’udienza preliminare, per cui il p.m. esercita l’azione penale con citazione diretta in giudizio senza alcun controllo giurisdizionale)

Nell’ambito delle inosservanze per eccesso possono verificarsi due ipotesi: a) può accadere che nell’udienza preliminare il giudice rilevi (d’ufficio o su eccezione di parte) che per

il reato doveva procedersi con citazione diretta in giudizio, senza udienza preliminare: in tal caso il giudice deve trasmettere gli atti al p.m. perché questi emetta il decreto di citazione a giudizio (articolo 33 – sexies);

b) può accadere che il giudice collegiale in dibattimento rilevi che il procedimento spetti al tribunale monocratico: in tal caso non si ha regressione del procedimento, il collegio deve trasmettere con ordinanza gli atti al giudice competente per il dibattimento (articolo 33 – septies comma I)

Anche nell’ambito delle inosservanze per difetto possono porsi due ipotesi: a) se il giudice monocratico, nel dibattimento instaurato a seguito di citazione diretta, rileva che si tratta

di un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, si ha una regressione del procedimento: il giudice trasmette gli atti al p.m. (sia ove ritenga che il reato spetti al tribunale collegiale, sia ove ritenga che il reato sia attribuito al tribunale monocratico) in modo che il p.m. eserciti nuovamente l’azione penale

b) se il giudice monocratico in dibattimento ritiene che il procedimento spetti al tribunale collegiale, deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento (articolo 33 – septies comma I)

Nel caso in cui, nonostante l’eccezione di parte, il giudice ritenga corretta la propria cognizione, spetterà ad una delle parti proporre appello (articolo 33 – octies) - se la corte d’appello ritiene che la cognizione era del giudice collegiale, annulla la sentenza del

giudice monocratico e trasmette gli atti al p.m. presso il tribunale - se la corte d’appello ritiene che la cognizione era del giudice monocratico, decide direttamente nel

merito (soluzione simile a quella prevista per l’incompetenza per materie in eccesso) Una norma di chiusura stabilisce che l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli atti del procedimento né l’inutilizzabilità delle prove già acquisite (articolo 33 – nonies)

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L’imparzialità del giudice – incompatibilità, astensione e ricusazione L’imparzialità del giudice persona fisica per essere effettiva deve essere fondata sui seguenti principi: - la soggezione del giudice soltanto alla legge - la separazione delle funzioni processuali - la presenza di garanzie procedimentali che permettano di assicurare l’imparzialità del giudice sia

come persona fisica che come organo giudicante nel suo complesso e che quindi consentano di estromettere il giudice che sia o appaia imparziale.

Per assicurare la garanzia nei confronti del giudice come persona fisica sono stati predisposti gli istituti della astensione e della ricusazione; nei confronti dell’ufficio giudicante nel suo complesso è previsto l’istituto della rimessione.

Dal punto di vista teorico la garanzia dell’imparzialità può essere definita solo in senso negativo (non parzialità) sulla base di due fondamentali criteri: • vi è imparzialità in senso oggettivo quando è assente qualsiasi legame tra il giudice ed una delle parti

o tra il giudice e la questione da decidere • vi è imparzialità in senso soggettivo quando il giudice appare in una situazione di impregiudicatezza

rispetto alla questione da decidere Le situazioni di pre – giudizio che sono previste dal codice come causa di incompatibilità (che può essere definita come una incapacità a svolgere una determinata funzione in relazione ad un determinato procedimento) possono essere ricomprese in tre grandi categorie, per cui la situazione pregiudicante può consistere: 1) nel fatto che un magistrato abbia già svolto la funzione di giudice nel medesimo procedimento penale

In base all’articolo 34 comma I e comma II costituisce situazione di incompatibilità: - l’aver pronunciato e concorso a pronunciare la sentenza in un precedente grado del procedimento - l’aver emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare - l’aver emesso il decreto penale di condanna - l’aver disposto il giudizio immediato - l’aver deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere

Poi in base al comma II – bis il giudice che nel medesimo procedimento ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari (salvo che si sia limitato a svolgere funzioni di tipo non decisorio indicate nei commi II – ter e II – quater, come l’assunzione dell’incidente probatorio) non può: - emettere il decreto penale di condanna - tenere l’udienza preliminare - partecipare al giudizio

2) nel fatto che il magistrato abbia svolto nel medesimo procedimento una qualche funzione che deve essere distinta da quella di giudice (articolo 34 comma III “Chi ha esercitato funzioni di pubblico ministero o ha svolto atti di polizia giudiziaria o ha prestato ufficio di difensore, di procuratore speciale, di curatore di una parte ovvero di testimone, perito, consulente tecnico o ha proposto denuncia, querela, istanza o richiesta o ha deliberato o ha concorso a deliberare l'autorizzazione a procedere non può esercitare nel medesimo procedimento l'ufficio di giudice”)

3) nel fatto che un parente o un affine (fino al secondo grado) del magistrato, che è stato designato a

giudicare, abbia esercitato nel medesimo procedimento sia la funzione di giudice, sia altre funzioni “separate o diverse” (articolo 35 “Nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado”; ulteriori situazioni di incompatibilità sono previste dal’ordinamento giudiziario e dalla legge sulla corte d’assise)

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Il giudice deve astenersi (articolo 36) e può essere ricusato (articolo 37) anzitutto se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 e 35 del codice di procedura penale o dalle leggi sull’ordinamento giudiziario. Il giudice inoltre ha l’obbligo di astenersi (articolo 36) e può essere ricusato (articolo 37): a) se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di

lui, del coniuge o dei figli; b) se è tutore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore

o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; c) se ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio

delle funzioni giudiziarie; d) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; e) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata; f) se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di p.m. La dichiarazione di astensione è valutata da un altro giudice, che di regola è il presidente dell’organo giudicante al quale appartiene il magistrato; essa infatti non può essere accolta automaticamente, costituendo l’astensione un eccezione alla regola secondo cui il giudice, una volta investito di un procedimento, ha il dovere di decidere; la dichiarazione di astensione viene accolta se si accerta che in concreto esistono le situazioni che mettono in pericolo l’imparzialità. Il codice fa un elenco minuzioso dei motivi che obbligano il giudice ad astenersi; poi indica una situazione tramite una clausola aperta, cioè quando vi siano “gravi ragioni di convenienza”. Per quanto riguarda la ricusazione, le parti possono ricusare il giudice in base ai medesimi motivi previsti per l’astensione, con due precisazioni: - non è possibile ricusare per gravi ragioni di convenienza: quindi le parti possono ricusare il giudice

soltanto in presenza di situazioni tassative previste dalla legge. La ragione è grave se incide sulla libertà di autodeterminazione del giudice

- mentre è possibile ricusare il giudice che nell’esercizio delle sue funzioni abbia manifestato

indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione. Sulla ricusazione di un giudice del tribunale, della corte d’assise o della corte d’assise d’appello decide la corte d’appello; sulla ricusazione della corte d’appello decise una sezione della corte stessa, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato; sulla ricusazione di un giudice della corte di cassazione decise una sezione della corte, diversa da quella cui appartiene il giudice ricusato. Il procedimento è giurisdizionale; una volta accertata la situazione pregiudizievole, viene designato un altro magistrato in base alle norme sull’ordinamento giudiziario. Nel frattempo il giudice ricusato non deve sospendere la sua attività, ma non può pronunciare sentenza. L’imparzialità del giudice – la rimessione del processo Quando è pregiudicata l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente a prescindere da situazioni che riguardino il singolo magistrato, il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un altro organo giurisdizionale (con la medesima competenza per materia) situato presso quel capoluogo del distretto di Corte d’appello individuato in base all’11 (caso in cui un magistrato sia imputato, persona offesa o danneggiato). La richiesta motivata di rimessione può esser presentata solo dall’imputato, dal p.m. presso il giudice che procede e dal Procuratore generale presso la Corte d’appello. La decisione spetta alla corte di cassazione che decide lo spostamento se ed in quanto accerti l’esistenza di almeno uno dei requisiti della rimessione; l’ordinanza che accoglie la richiesta di rimessione è

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comunicata senza ritardo al giudice che procede e a quello designato; il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rinnovazione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione. Nei tre casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili ; la situazione deve quindi essere:

- grave, cioè occorre che sia presente una obbiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire un esisto non imparziale e non sereno del giudizio

- locale, cioè non diffusa sull’intero territorio nazionale - esterna rispetto al processo, cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica

processuale - non eliminabile con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo

1) Il primo caso di rimessione si ha quando sono pregiudicate la sicurezza e l’incolumità pubblica. 2) Il secondo caso di rimessione sussiste quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone

che partecipano al processo. 3) Il terzo caso di rimessione consiste in gravi situazioni locali che determinano motivi di legittimo

sospetto. Le questioni pregiudiziali alla decisione penale Nel momento in cui si deve accertare la responsabilità dell’imputato, il giudice penale può avere la necessità di risolvere una questione pregiudiziale: - in senso lato, è pregiudiziale una questione che si pone come antecedente logico-giuridico per

pervenire alla decisione; - in senso stretto, una questione può dirsi pregiudiziale quando l’iter logico per approdare alla decisione

sull’imputazione presuppone la risoluzione di una controversia non appartenente alla diretta cognizione del giudice procedente.

Principio di autosufficienza della giurisdizione panale: il codice accoglie la regola secondo la quale il giudice penale ha il potere di risolvere ogni questione da cui dipenda la sua decisione, salvo che una norma di legge disponga diversamente; ovviamente il giudice penale si limita a risolvere la questione in via incidentale (articolo 2 comma II “La pronuncia del giudice penale che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia vincolante in nessun altro processo”) Nel risolvere la questione pregiudiziale il giudice penale di regola non è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili; il codice quindi accetta un eventuale contrasto con decisioni di altri giudici penali, civili o amministrativi e quale “valvola si sicurezza” prevede in casi tassativi la possibilità di revisione della sentenza penale di condanna (articolo 630). Soltanto in due casi il giudice penale deve seguire le regole probatorie speciali vigenti per la specifica materia e quindi deve osservare i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili: si tratta delle questioni pregiudiziali sulla stato di famiglia e di cittadinanza Autosufficienza totale → le questioni pregiudiziali penali Il giudice penale gode di una totale autosufficienza nell’accertare le questioni pregiudiziali penali; il rapporto tra la questione penale pregiudicante e pregiudicata è così regolato nel codice: la eventuale sentenza irrevocabile circa la questione pregiudiziale non ha efficacia di giudicato nel processo principale (se mai può essere utilizzata come prova documentale in presenza di riscontri e salvo prova contraria); a sua volta la risoluzione della questione pregiudiziale all’interno del giudizio principale, non vincola altro giudice che in futuro sarà chiamato ad esaminare la questione in via principale. Autosufficienza parziale → le questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia o di cittadinanza Il sorgere di una questione pregiudiziale sullo stato di famiglia o di cittadinanza può comportare la sospensione del processo penale; il giudice penale non ha l’obbligo di sospendere, ma ha soltanto il potere

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– dovere di valutare la necessità della sospensione, che può avere luogo solo quando la questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza abbia due requisiti concorrenti, e cioè: - la questione deve essere “seria”; - l’azione a norma delle leggi civili deve essere già in corso. Autosufficienza quasi totale → le altre controversie civili ed amministrative In casi limitatissimi il codice consente al giudice penale di sospendere il processo per devolvere la decisione di una questione pregiudiziale civile o amministrativa “diversa” da quelle sullo stato di famiglia o di cittadinanza; in particolare è posto come condizione che il giudice civile o amministrativo pronunci una sentenza irrevocabile entro un anno dal momento della sospensione del processo penale. Art. 479. Questioni civili o amministrative. I. Fermo quanto previsto dall'articolo 3, qualora la decisione sull'esistenza del reato dipenda dalla

risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice competente, il giudice penale, se la legge non pone limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa, può disporre la sospensione del dibattimento, fino a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato.

II. La sospensione è disposta con ordinanza, contro la quale può essere proposto ricorso per cassazione. Il ricorso non ha effetto sospensivo.

III. Qualora il giudizio civile o amministrativo non si sia concluso nel termine di un anno, il giudice, anche di ufficio, può revocare l'ordinanza di sospensione.

Per quanto riguarda le altre questioni pregiudiziali che possono sorgere nel corso del processo penale: - quanto alle controversie attinenti alla proprietà dei beni sequestrati o confiscati, il codice ne affida la

soluzione al giudice civile - sulle questioni relative alla conformità delle leggi (o di atti aventi forza di legge) alla Costituzione, il

giudice penale deve provocare l’intervento della Corte costituzionale se la questione è “rilevante” e “non manifestamente infondata” (c.d. pregiudiziale di costituzionalità)

- il giudice penale può rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità europee le questioni relative all’interpretazione del diritto comunitario, previste dal 234 del Trattato istitutivo della Comunità (c.d. pregiudiziale comunitaria); tuttavia il giudice nazionale ha l’obbligo di adire la Corte di giustizia qualora la questione sorga dinanzi ad un organo giurisdizionale di ultima istanza oppure verta sulla validità di un atto delle istituzioni comunitarie. Il rinvio della questione al giudice comunitario determina la sospensione automatica del processo penale, in quanto la pronuncia della Corte ha efficacia vincolante per il giudice a quo.

IL PUBBLICO MINISTERO (Libro I “Soggetti” – Titolo II “Pubblico Ministero”)

Il pubblico ministero è quel complesso di uffici pubblici che rappresentano nel procedimento penale l’interesse generale dello Stato – comunità alla repressione dei reati; distinta è la situazione soggettiva dello Stato – persona, che è rappresentato dall’avvocatura dello Stato, che rappresenta il Ministero costituito parte civile nell’ipotesi in cui il reato abbia cagionato un danno ad un bene dello Stato. Il p.m. non è un organo unitario ed è frazionato in tanti uffici ciascuno dei quali svolge le sue funzioni, di regola, soltanto davanti all’organo giudiziario presso cui è costituito:

Ufficio del p.m. davanti al giudice ordinario. L’ufficio unitario denominato “procura della repubblica presso il tribunale” svolge le funzioni di p.m. nelle indagini preliminari, nei procedimenti di primo grado presso il tribunale, la corte d’assise e il giudice di pace; presso il Tribunale per i minorenni vi è un apposito ufficio di procura della repubblica; pre i giudizi d’appello vi è una procura generale presso la corte d’appello; presso la corte di cassazione vi è un ufficio di procura generale.

Ufficio del p.m. davanti al giudice speciale. Presso il giudice militare vi sono la procura militare presso il tribunale e la procura generale militare presso la corte d’appello militare; presso la corte di cassazione vi è un apposito ufficio denominato, “procura generale militare”

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Per i delitti commessi dal Presidente della Repubblica (90 Cost.) le funzioni di p.m. sono svolte da uno o più commissari eletti dal Parlamento in seduta comune dopo che quast’ultimo ha deliberato l’atto d’accusa. La funzioni svolte dal p.m. sono indicate nell’ordinamento giudiziario; in particolare il p.m.: • veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei

diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci • promuove la repressione dei reati e cioè svolge le indagini necessarie per valutare se deve chiedere il

rinvio a giudizio o l’archiviazione • esercita l’azione penale in ogni caso in cui non debba richiedere l’archiviazione e cioè quando dalla

indagini sono emersi elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio • fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice, nei casi stabiliti dalla legge Per quanto riguarda lo status del p.m., il p.m. è configurato nel nostro ordinamento come un magistrato con garanzie di indipendenza simili a quelle dei giudici: il magistrato che fa parte dell’ufficio del p.m. ha una piena indipendenza di status (articolo 105 Cost.); è inamovibile nel grado e nella sede (articolo 107 Cost.); è nominato a seguito di pubblico concorso (articolo 106 comma I Cost.); i provvedimenti disciplinari e le promozioni che lo riguardano sono deliberati dal C.S.M. (articolo 105 Cost.) I rapporti all’interno dell’ufficio La principale differenza rispetto al giudice sta nel fatto che l’ufficio del p.m. ha alcune caratteristiche della organizzazione gerarchica (assente all’interno degli uffici del giudice); la materia dei rapporti di dipendenza gerarchica ha cambiato la configurazione che aveva nel 1988 a seguito della legge delega 150/2005 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla quale è seguito il d.lgs. 106/2006 e la legge 269/2006 che hanno introdotto ulteriori modifiche; in sostanza si è passati da un sistema classificabile come “personalizzazione delle funzioni” ad un sistema definibile “gerarchia attenuata” . In base al principio di “personalizzazione delle funzioni” il titolare dell’ufficio designava il magistrato in modo automatico in base al sistema tabellare vigente per i giudici che il CSM aveva esteso all’ufficio della pubblica accusa; esisteva un rapporto di subordinazione, ma il magistrato designato conservava una vera e propria autonomia operativa (infatti il titolare dell’ufficio poteva dare soltanto direttive di carattere generale per l’organizzazione dell’ufficio); la revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi (quando il magistrato intendeva formulare richieste in contrasto con le direttive di carattere generale o quando le richieste erano insostenibili sul piano tecnico). In base alle norme vigenti i criteri automatici non costituiscono più l’unica modalità di attribuzione di un caso e l’assegnazione da parte del procuratore può essere nominativa; il principio generale sta nella titolarità esclusiva spettante al procuratore della repubblica, che esercita l’azione penale “personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all’ufficio”; la natura giuridica del nuovo istituto dell’assegnazione consiste nel conferire poteri operativi con limitata autonomia funzionale. Infatti con l’atto di assegnazione il procuratore può stabilire criteri (generali o particolari per il singolo procedimento) ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività; quando i criteri generali o particolari sono violati o comunque quando si verifica un contrasto con il titolare dell’ufficio, questi può revocare l’assegnazione con provvedimento motivato; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della repubblica e il titolare e il magistrato possono segnalare il provvedimento al CSM. Comunque in udienza il magistrato del p.m. esercita le sue funzioni con piena autonomia (articolo 53) Per quanto riguarda la sostituzione, il capo dell’ufficio vi provvede soltanto su consenso dell’interessato ovvero, se manca il consenso, nel caso di grave impedimento, di rilevanti esigenze di servizio e nei casi di obbligo di astensione previsti dall’articolo 36 comma 1 lettere a), b), d), e).

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In questo ultimo caso il titolare dell’ufficio deve trasmettere al CSM copia del provvedimento motivato con cui ha disposto la sostituzione del magistrato; sempre in questo caso, se il capo dell’ufficio non provvede alla sostituzione, il procuratore generale presso la corte di appello designa un magistrato appartenente al suo ufficio (è un caso di avocazione obbligatoria) Circa le misure cautelari, il magistrato del p.m. quando intende chiedere al giudice una misura cautelare personale o reale o intende disporre il fermo di persona indiziata di un delitto, deve ottenere l’assenso scritto dal procuratore della repubblica. Circa infine i rapporti con gli organi di informazione: - il procuratore della repubblica mantiene personalmente i rapporti con gli organi di informazione e

ogni informazione inerente alle attività della procura della repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnati al procedimento;

- è fatto divieto ai magistrati della procura di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio;

- il procuratore della repubblica ha l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto con il divieto fissato dalla legge

I rapporti tra gli uffici In generale ogni ufficio del pubblico ministero è competente a svolgere le sue funzioni esclusivamente presso l’organi giudiziario davanti al quale è costituito; a tale regola sono però poste delle eccezioni che danno vita a rapporti di tipo gerarchico (da precisare che non vi è comunque un potere generale di sovraordinazione tra ufficio superiore ed ufficio inferiore, ma l’ufficio superiore ha in via eccezionale singoli e limitati poteri di sorveglianza riguardanti la disciplina e l’organizzazione). Il procuratore generale presso la Corte di cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare l’azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente o giudicante (la decisione spetterà poi al CSM); lo stesso procuratore generale può essere chiamato a risolvere un contrasto negativo o positivo tra uffici del p.m. appartenenti a diversi distretti di Corte d’appello. Il procuratore generale presso la Corte d’appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale ed il rispetto delle norme del giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, ha il potere di acquisire dati e notizie dalle procure della repubblica del distretto ed il potere di inviare al procuratore generale presso la corte di cassazione una relazione almeno annuale; inoltre in relazione agli uffici sotto ordinati svolge una funzione di sorveglianza, in particolare: • ha il potere di dirimere i contrasti tra due uffici del p.m. appartenenti al distretto di corte d’appello che

ritengano contemporaneamente di affermare o negare la propria competenza in un singolo caso Si ha contrasto negativo tra p.m. quando due uffici durante le indagini preliminari in relazione ad un determinato reato, negando la competenza per materia o per territorio del giudice presso il quale ciascuno di essi esercita le funzioni, ritenendo la competenza di un altro giudice (articolo 54). Si ha contrasto positivo tra uffici del p.m. quando due uffici stanno svolgendo indagini a carico della stessa persona ed in relazione al medesimo fatto e ciascuno di essi ritenga la propria competenza esclusiva (articolo 54 – bis).

• nei confronti del procuratore della repubblica presso il tribunale ha il potere di avocare un singolo affare in casi tassativamente previsti dalla legge (potere di avocazione); sono previsti casi di avocazione obbligatoria e casi di avocazione discrezionale, in generale si procede ad avocazione quando il titolare o un magistrato dell’ufficio inferiore hanno omesso un’attività doverosa o quando comunque il procedimento penale rischia una stasi per l’inerzia del magistrato del p.m. In concreto in base al provvedimento di evocazione un sostituto del procuratore generale sostituisce il singolo magistrato del p.m. nel compimento di quella attività che quest’ultimo sta svolgendo.

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Sono previste delle garanzie: il provvedimento di avocazione deve essere motivato e deve essere trasmesso al CSM e ai procuratori della repubblica avocati; inoltre il magistrato interessato può proporre reclamo al procuratore generale presso la corte di cassazione.

L’astensione Il magistrato del p.m. ha, dal punto di vista disciplinare, l’obbligo di astenersi quando esistono gravi ragioni di convenienza (e ciò avviene quando egli abbia un interesse privato in un determinato procedimento e la sua funzione di parte pubblica vuole che egli sia mosso soltanto da un interesse pubblico); in realtà il codice (articolo 52) parla di facoltà di astenersi, ma in modo improprio in quanto se il magistrato non si astiene quando ha un interesse privato tale comportamento è sanzionato dal CSM come illecito disciplinare; a sostegno di questa interpretazione (obbligo di astenersi e non semplice facoltà) l’articolo 53 comma II che pone al capo dell’ufficio l’obbligo di sostituire il magistrato del p.m. che abbia un interesse privato nel procedimento (l’obbligo di sostituzione comporta implicitamente l’obbligo di astenersi); i casi di sostituzione per questo motivo sono quelli indicati nell’articolo 36 comma I lettere a), b), d), e) i quali possono essere così sintetizzati:

1) se il magistrato ha interesse nel procedimento come parte anche soltanto potenziale ovvero se è creditore o debitore di una delle parti private

2) se il magistrato è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se uno di costoro è prossimo congiunto di lui o del coniuge

3) se vi era già in precedenza una inimicizia grave tra il magistrato e una delle parti private 4) se un prossimo congiunto del magistrato è offeso o danneggiato o parte privata

In conclusione il p.m. è un magistrato indipendente che svolge la funzione di una parte pubblica; egli quindi persegue un interesse pubblico che gli impone un obbligo di lealtà processuale. Le procure distrettuali e la procura nazionale antimafia Dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale (24 ottobre 1989) è apparso evidente che la struttura degli uffici del p.m. provocava difficoltà agli inquirenti che conducevano indagini sui delitti di criminalità organizzata; infatti il codice auspicava che vi fosse un coordinamento tra gli uffici del p.m. impegnati in indagini collegate (articolo 371), ma tale coordinamento non era reso controllabile e coercibile e la mancanza di coordinamento impediva di impostare le investigazioni in modo efficace. Art. 371. Rapporti tra diversi uffici del pubblico ministero.

I. Gli uffici diversi del pubblico ministero che procedono a indagini collegate, si coordinano tra loro per la speditezza, economia ed efficacia delle indagini medesime. A tali fini provvedono allo scambio di atti e di informazioni nonché alla comunicazione delle direttive rispettivamente impartite alla polizia giudiziaria. Possono altresì procedere, congiuntamente, al compimento di specifici atti.

II. Le indagini di uffici diversi del pubblico ministero si considerano collegate: a) se i procedimenti sono connessi a norma dell'articolo 12; b) se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per

conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza;

c) se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte. III. Salvo quanto disposto dall'articolo 12, il collegamento delle indagini non ha effetto sulla

competenza. Solo con le leggi 356/1991 e 8/1992 il legislatore ha sanzionato la violazione dell’obbligo di coordinamento mediante l’istituto dell’avocazione previsto: - nell’articolo 371 – bis comma III lettera h)

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- nell’articolo 372 comma I – bis La soluzione, proposta da Giovanni Falcone è stata quella di istituire le procure distrettuali e di porle sotto il controllo e lo stimolo del procuratore nazionale antimafia (legge 8/1992). La procura distrettuale non è un nuovo ufficio del p.m., ma è l’ufficio della procura della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello nel cui ambito ha sede il giudice competente; a tale ufficio sono attribuite le funzioni del p.m. in primo grado in relazione: - ai delitti di criminalità organizzata mafiosa ed assimilati (articolo 51 comma III – bis) - ai delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo (articolo 51 comma III – quater) - ai delitti consumati o tentati in materia di pedopornografia, di reati informatici, di intercettazione

abusiva (articolo 51 comma III – quinquies introdotto dalla legge 48/2008) All’interno della procura distrettuale è costituita una direzione distrettuale antimafia D.D.A., che è un gruppo (pool) di magistrati che hanno chiesto di dedicarsi esclusivamente ai procedimenti riguardanti la criminalità organizzata mafiosa; questi magistrati hanno l’obbligo di ordinarsi in modo stretto sia tra di loro, sia con il procuratore capo; inoltre possono essere applicati temporaneamente presso altre procure distrettuali. La direzione nazionale antimafia è un ufficio con sede in Roma; capo dell’ufficio è il procuratore nazionale antimafia, sottoposto alla sorveglianza del procuratore generale presso la corte di cassazione; l’ufficio è composto di 20 magistrati del p.m. nominati dal CSM, sentito il procuratore nazionale antimafia, a sua volta nominato dal CSM in seguito ad un accordo con il Ministro della Giustizia. Il procuratore nazionale antimafia ha poteri di coordinamento (cioè ha compiti di controllo che gli permettono di verificare se sia effettivo il coordinamento tra i singoli uffici del p.m. che stanno compiendo indagini per i delitti di criminalità organizzata ed assimilati), poteri di impulso nei confronti dei procuratori distrettuali e poteri di controllo sull’attività degli organi centralizzati di polizia giudiziaria. Il procuratore nazionale non può dare direttive vincolanti nel merito alle procure distrettuali, né compiere direttamente indagini (ma può avocare le indagini condotte da quella procura distrettuale che abbia dimostrato una grave inerzia o che non abbia voluto coordinarsi con gli altri uffici) LA POLIZIA GIUDIZIARIA Polizia giudiziaria e polizia amministrativa sono le due fondamentali funzioni svolte dalle forze di polizia • la polizia amministrativa si occupa dell’osservanza della legge e dei regolamenti amministrativi, in

esecuzione delle funzioni proprie del potere esecutivo. La funzione di polizia amministrativa si distingue a sua volta in molte specializzazioni, quali ad es. la polizia tributaria, la polizia sanitaria, la polizia stradale e la polizia di sicurezza La funzione di polizia di sicurezza è quella funzione che possiamo definire di “prevenzione dei reati”. Per quanto riguarda la dipendenza, a funzione di polizia di sicurezza è diretta da un organo unitario che è il ministro dell’interno; in sede locale la direzione spetta al prefetto e al questore.

• la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale (articolo 55 c.p.p.); quindi svolge la funzione che possiamo definire di “repressione dei reati” e a tal fine la polizia giudiziaria (a differenza della polizia di sicurezza) gode di poteri coercitivi (cioè può direttamente limitare le libertà fondamentali). Per quanto riguarda la dipendenza, la funzione di polizia giudiziaria è svolta sotto la direzione del p.m. e sotto la sorveglianza del procuratore generale presso la corte d’appello (che può dare inizio al procedimento disciplinare contro l’ufficiale o l’agente); per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata, la funzione di polizia giudiziaria è svolta da un organo centrale chiamato “direzione

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investigativa antimafia” D.I.A. che è posto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore nazionale antimafia.

La dipendenza “organica” spetta in ogni caso al potere esecutivo; quindi colui che svolge funzioni di polizia giudiziaria dipende funzionalmente dal pubblico ministero e organicamente dal potere esecutivo. La dipendenza dall’autorità giudiziaria Per evitare il pericolo che le direttive dell’autorità giudiziaria siano ostacolate da direttive in senso contrario provenienti dagli organi del potere esecutivo sono previsti vari strumenti che rafforzano la direzione funzionale spettante all’autorità giudiziaria al fine anche di attuare il principio costituzionale secondo cui “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria (articolo 109 Cost.). Il codice distingue tre strutture che svolgono funzioni di polizia giudiziaria che, fermo restando la dipendenza organica dal potere esecutivo, si differenziano per il diverso grado di dipendenza funzionale dall’autorità giudiziaria: 1) le sezioni di polizia giudiziaria; si tratta di organi costituiti presso gli uffici del p.m. di primo grado e

composti, di regola, da ufficiali ed agenti della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza, in cui si riscontra il maggior grado di dipendenza dall’autorità giudiziaria; infatti le sezioni svolgono esclusivamente funzioni di polizia giudiziaria sotto la dipendenza del capo del singolo ufficio del p.m. che dirige e coordina la attività e dispone direttamente del personale della sezione (cioè incarica delle indagini nominativamente un ufficiale di polizia giudiziaria)

2) i servizi di polizia giudiziaria; questi sono costituiti presso i corpi di appartenenza (questore, comandi dei carabinieri e della guardia di finanza); a prescindere dalla loro denominazione, si considerano servizi tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle rispettive amministrazioni il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni di polizia giudiziaria; il minor grado di dipendenza funzionale consiste nel fatto che il magistrato del p.m., che dirige le indagini preliminari, da un incarico non personalmente ad un ufficiale di polizia giudiziaria, bensì impersonalmente all’ufficio; sarà poi il responsabile dell’ufficio (il dirigente del servizio) e scegliere l’ufficiale che condurrà le investigazioni.

3) gli altri uffici di polizia giudiziaria ; gli organi di polizia giudiziaria che non sono ricompresi nelle sezioni e nei servizi restano comunque sotto la dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria.

Art. 59. Subordinazione della polizia giudiziaria.

I. Le sezioni di polizia giudiziaria dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i quali sono istituite.

II. L'ufficiale preposto ai servizi di polizia giudiziaria è responsabile verso il procuratore della Repubblica presso il tribunale dove ha sede il servizio dell'attività di polizia giudiziaria svolta da lui stesso e dal personale dipendente.

III. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a eseguire i compiti a essi affidati inerenti alle funzioni di cui all'articolo 55, comma 1. Gli appartenenti alle sezioni non possono essere distolti dall'attività di polizia giudiziaria se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono a norma del comma 1.

Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono avere una competenza generale per tutti i reati o una competenza limitata all’accertamento di determinati reati: Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti previsti nell’articolo 57 c. I e II: - le persone alle quali l’ordinamento dell’amministrazione pubblica riconosce tale qualità - gli ufficiali superiori ed inferiori (non i generali) ed i sottoufficiali del carabinieri, della guardia di

finanza, del corpo di polizia penitenziaria e del corpo forestale dello stato - in via residuale, il sindaco dei comuni ove non abbia sede un ufficio della polizia di Stato ovvero un

comando dell'arma dei carabinieri o della guardia di finanza.

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- gli agenti di polizia giudiziaria Sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria con competenza limitata i soggetti previsti dall’articolo 57 comma III: “Sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall'articolo 55” (cioè le funzioni di polizia giudiziaria). L’IMPUTATO All’inizio del procedimento penale le indagini possono svolgersi o contro ignoti o contro un “indagato”. Quando la denuncia è presentata contro ignoti la polizia giudiziaria trasmette la denuncia al p.m. e questi ordina alla segreteria di iscriverla nell’apposito registro, denominato “registro delle notizie di reato”; svolte le indagini, può darsi che gli elementi raccolti consentano di addebitare il reato alla responsabilità di una determinata persona: allora il p.m. ordina alla segreteria di iscrivere nel registro, accanto all’indicazione della denuncia, il nome del soggetto al quale il reato “è attribuito”.

Importante è la differenza tra Indagato e Imputato

il soggetto che il codice denomina persona la persona alla quale è attribuito il reato nella sottoposta alle indagini preliminari; il p.m. nel imputazione formulata con la richiesta di corso delle indagini preliminari può formulare rinvio a giudizio o con l’atto omologo un “addebito provvisorio” nei suoi confronti, nell’ambito del singolo procedimento speciale. ma ciò avviene soltanto a fini di garanzia in L’imputazione è composta dalla enunciazione quanto mette in grado l’indagato di esercitare in forma chiara e precisa del fatto storico di il diritto di difesa reato e dalla indicazione delle norme di legge violate e della persona alla quale il reato è addebitato. Art. 60. Assunzione della qualità di imputato.

I. Assume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell'articolo 447 comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo.

II. La qualità di imputato si conserva in ogni stato e grado del processo, sino a che non sia più soggetta a impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna o sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna.

III. La qualità di imputato si riassume in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere e qualora sia disposta la revisione del processo.

A fini garantistici il codice opera un’ampia equiparazione (che opera anche negli aspetti pregiudizievoli); ovviamente tale equiparazione non è totale in quanto risente del fatto che la fase delle indagini preliminari è di regola segreta, mentre le successive fase dell’udienza preliminare e del giudizio si svolgono in contraddittorio. Art. 61. Estensione dei diritti e delle garanzie dell'imputato.

I. I diritti e le garanzie dell'imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari. II. Alla stessa persona si estende ogni altra disposizione relativa all'imputato, salvo che sia

diversamente stabilito. L’interrogatorio dell’indagato Il codice prevede che l’interrogatorio possa essere svolto da vari soggetti; per comodità di esposizione, facciamo l’ipotesi che l’interrogatorio sia svolto dal p.m. nelle indagini preliminari. Regole generali (articolo 64)

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In base al comma I dall’interrogatorio si potranno ottenere dichiarazioni solo se e nei limiti in cui l’indagato decida liberamente di renderle (libertà di scelta dell’indagato) Secondo il comma II “Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti” (indisponibilità della libertà di scelta dell’indagato) Ex comma III prima che abbia inizio l'interrogatorio, l’indagato deve ricevere una serie di avvisi; in particolare l’indagato deve essere avvertito che:

a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; b) ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso

(ha tuttavia l’obbligo di rispondere secondo verità sulla sua identità personale) Altrimenti le dichiarazioni rese dalla persona interrogata saranno inutilizzabili.

c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone Altrimenti le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l'ufficio di testimone.

Regole dell’interrogatorio sul “merito (articolo 65) Il p.m., prima di rivolgere domande all’indagato, deve: - rendergli noto in forma chiara e precisa il fatto che gli è attribuito; quindi - indicargli gli elementi di prova esistenti contro di lui; infine - comunicargli le fonti di prova, salvo che ciò comporti un pregiudizio per le indagini. L’indagato ha tre possibilità: 1) prima di tutto, l’indagato può rifiutare di rispondere a tutte le domande o ad alcune soltanto di esse; in

tal caso il p.m. dà atto nel verbale che l’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere; 2) in secondo luogo, l’indagato può rispondere; se i fatti che egli ammette sono a lui sfavorevoli, si ha

una “confessione”; 3) in terzo luogo, l’indagato può rispondere dicendo il falso; infatti l’indagato non ha un obbligo,

penalmente sanzionato, di dire la verità (non essendo sentito come testimone) ed inoltre, in relazione ai reati che si integrano rendendo dichiarazioni mendaci, è protetto dalla causa di non punibilità prevista dall’articolo 384 comma I c.p.; tuttavia è punibile quando compie simulazione di reato (cioè afferma falsamente che è avvenuto un reato, che nessuno ha commesso) e quando calunnia un’altra persona (cioè incolpa di un reato taluno che egli sa essere innocente).

La distinzione tra l’indagato e la persona informata (possibile testimone) Differenza tra indagato – imputato e persona informata – testimone: - l’indagato o l’imputato hanno il diritto al silenzio e non sono punibili se mentono - la persona informata – testimone ha l’obbligo di dire la verità La persona che ha conoscenza di fatti che devono essere accertati nel procedimento penale è denominata: • “ testimone” quando depone davanti al giudice; se il testimone di fronte al giudice dice il falso o tace

ciò che sa, commette il reato di “falsa testimonianza” • “persona che può riferire circostanze utili ai fini delle indagini” quando è esaminata dal p.m. o dalla

polizia giudiziaria; se la c.d. persona informata (meglio possibile testimone) di fronte al p.m. o alla polizia giudiziaria dice il falso o tace ciò che sa commette il reato di “false informazioni”

Nell’ipotesi di dichiarazioni indizianti , cioè nel vaso in cui nel corso della deposizione il testimone o il possibile testimone renda, più o meno consapevolmente, dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente deve (articolo 63 comma I)

a) interrompere l’esame;

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b) avvertire la persona che a seguito delle dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti;

c) invitarla a nominare un difensore. Le dichiarazioni rilasciate fino a quel momento non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese; viceversa possono essere utilizzate a suo favore o contro altre persone. Nel caso di elusione della qualità di indagato, cioè nel caso in cui un soggetto inquirente (p.m. o polizia giudiziaria) interroghi un indagato senza riconoscergli tale qualità e senza quindi rispettare il suo diritto di non rispondere, le dichiarazioni della persona ascoltata come testimone o possibile testimone quando invece doveva essere sentita sin dall’inizio come imputato o persona sottoposta alle indagini non possono essere utilizzate (articolo 63 comma II). La verifica della identità fisica e anagrafica dell’indagato Poiché può accadere che nel corso delle indagini ci si trovi di fronte ad una persona fisica e non si sappia con certezza se si tratta davvero del soggetto al quale l’inquirente attribuisce il reato, occorre procedere a verificare l’identità di tale persona; la verifica dell’identità dell’indagato/imputato (a riguardo il codice opera una completa assimilazione) comporta due accertamenti:

1) l’ accertamento dell’identità fisica; si tratta di stabilire se la persona che di fatto si trova di fronte agli inquirenti coincide con quella contro la quale si sta procedendo; a tale accertamento si può pervenire se si prova che le impronte digitali o il DNA sono identici e se la persona offesa o un testimone oculare riconoscono l’indagato. Non esiste un diritto dell’indagato a non essere identificato, al massimo egli può scegliere di non collaborare con l’inquirente nella raccolta delle prove che comportano la propria identificazione; tuttavia l’indagato può essere costretto a subire il prelievo del materiale biologico.

2) l’ accertamento dell’identità anagrafica; si tratta di attribuire un nome ed un volto all’indagato; il principale strumento per accertare l’identità anagrafica dell’indagato è l’interrogatorio; infatti fin dall’inizio del procedimento il p.m. e la polizia giudiziaria procedono all’identificazione dell’indagato, che viene invitato a dichiarare le proprie generalità e viene ammonito circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false (è sanzionato penalmente il rifiuto di dare indicazione sulla propria identità personale e il dichiarare una falsa identità)

Una volta operato l’accertamento dell’identità fisica dell’indagato il processo nei suoi confronti può svolgersi anche se resta incerta la sua identità anagrafica. Art. 66. Verifica dell'identità personale dell'imputato.

I. Nel primo atto cui è presente l'imputato, l'autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant'altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false.

II. L'impossibilità di attribuire all'imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell'autorità procedente, quando sia certa l'identità fisica della persona.

III. Le erronee generalità attribuite all'imputato sono rettificate nelle forme previste dall'articolo 130. La sospensione del procedimento per incapacità processuale dell’imputato Quando il giudice non può pronunciare una sentenza di proscioglimento (in giudizio) o di non luogo a procedere (in udienza preliminare), cioè quando il giudice, in base allo stato degli atti, si trova nella condizione di dover accertare la responsabilità penale e di conseguenza è probabile una condanna perché l’imputato era imputabile o semi-imputabile al momento del fatto, il giudice deve valutare se l’imputato, a causa di una infermità mentale esistente al momento, non è in grado di partecipare consciamente al procedimento penale. Ove sia accertata l’incapacità il giudice deve sospendere il procedimento penale con ordinanza ricorribile per cassazione (la sospensione tuttavia non determina una totale paralisi delle attività processuali e

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consente il compimento degli atti tassativamente previsti dalla legge) e contestualmente nominare un curatore speciale (preferibilmente il apprestante legale dell’imputato). Allo scopo di ridurre il fenomeno degli eterni giudicabili, il giudice ogni sei mesi dispone perizia per accertare lo stato psichico dell’imputato; l’ordinanza di sospensione è revocata qualora l’imputato risulti in grado di partecipare consciamente al procedimento penale oppure se, durante la sospensione, sono assunte prove che legittimano una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. IL DIFENSORE Afferma il 24 comma II Cost. che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. In generale, si può definire difesa la tutela contro un attacco che venga mosso ai diritti di un soggetto con qualsiasi procedura giudiziaria; in particolare la difesa penale è quella forma di tutela che permette all’imputato di ottenere il riconoscimento della piena innocenza o comunque di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella applicabile secondo la legge. Per quanto riguarda la titolarità del diritto di difesa, sono titolari del diritto di difesa le parti ed alcuni fra i soggetti del procedimento penale. Per quanto riguarda le modalità di esercizio, tale diritto può essere esercitato sia personalmente (autodifesa), sia per mezzo del difensore (difesa tecnica). Il difensore è una persona che ha particolarmente competenza tecnico – giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico e processuale: - la qualifica penalistica è quella di esercente un servizio di pubblica necessità (infatti alla funzione di

avvocato si accede mediante una speciale abilitazione dello Stato e i privati sono per legge obbligati ad avvalersi dell’opera del difensore)

- la qualifica privatistica si individua nel rapporto di prestazione di opera intellettuale che lega il difensore al cliente

- la qualifica processuale è quella di rappresentante tecnico della parte La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali “per conto” (cioè nell’interesse) del cliente, sempre che gli atti processuali non siano personali, e cioè che non siano dalla legge espressamente riservati alla parte; essa è conferita dal cliente al difensore mediante una procura ad litem: - l’imputato e l’indagato e la persona offesa conferiscono tale rappresentanza mediante la nomina che è

contenuta in una dichiarazione che può essere resa oralmente (davanti all’autorità procedente che ne redige verbale) ovvero essere effettuata per iscritto (in tal caso la dichiarazione scritta deve essere consegnata all’autorità procedente dal difensore o deve essere trasmessa dall’interessato con raccomandata all’autorità procedente)

- le altre parti (parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria) conferiscono tale rappresentanza mediante una procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata

Comunque per quanto riguarda i rapporti tra difensore e imputato, la rappresentanza tecnica assume la forma della “assistenza” che può essere definita come quella particolare forma di rappresentanza tecnica che non esclude l’autodifesa del soggetto assistito; infatti l’imputato può sempre compiere personalmente gli atti che non siano per legge riservati al difensore; inoltre l’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione allo stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice. Il rapporto fra cliente e difensore ha natura fiduciaria, con determinate conseguenze: - prima dell’accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina; il rifiuto deve essere

comunicato a colui che ha effettuato la nomina e all’autorità procedente; la non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata all’autorità procedente.

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- dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare al mandato; la rinuncia deve essere comunicata a colui che ha effettuato la nomina e all’autorità procedente, ma essa non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termina a difesa, non inferiore a sette giorni, che sia stato concesso a quest’ultimo Lo stesso avviene quando il cliente revoca il mandato al difensore.

Perché il difensore possa disporre di un diritto “in nome” del cliente, deve esseregli attribuita una rappresentanza volontaria per gli atti personali, che può essere conferita soltanto mediante una procura speciale a compiere un determinato atto; la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce. Se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. Difensore di fiducia e difensore d’ufficio In base all’articolo 96 comma I L’imputato ha diritto di nominare non più di due difensori di fiducia. La nomina è un atto a forma libera e può essere effettuata in tre modi:

1) con dichiarazione, scritta od orale, resa dall’indagato all’autorità procedente; 2) con dichiarazione scritta consegnata all’autorità procedente dal difensore; 3) con dichiarazione scritta trasmessa all’autorità procedente con raccomandata.

Quando l’indagato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo, il codice prevede (solo per tale soggetto) l’istituto della difesa d’ufficio (articolo 97). La designazione del difensore d’ufficio spetta al consiglio dell’ordine degli avvocati di ciascun distretto di Corte d’appello, che predispone gli elenchi dei difensori idonei sulla base di turni di reperibilità. Quando il giudice, il p.m. o la polizia giudiziaria devono compiere un atto per il quale è prevista l’assistenza del difensore e l’imputato o l’indagato ne sia privo, essi devono chiedere il nominativo del difensore a d’ufficio al consiglio dell’ordine degli distretto; il magistrato o l’ufficiale di polizia danno avviso dell’atto al difensore così individuato. Il difensore della persona offesa L’offeso può nominare il difensore nelle medesime forme semplificate che sono previste per il difensore dell’imputato. Il difensore della persona offesa dal reato svolge un’attività che si può inquadrare nella rappresentanza, ma che ha anche alcune caratteristiche della assistenza: - da un lato l’offeso, che pure può nominare un difensore per essere da lui rappresentato, ha tuttavia il

potere di esercitare quei diritti e facoltà che siano a lui espressamente riconosciuti dalla legge e in tali casi può agire anche personalmente nel procedimento (in particolare può presentare memorie ed indicare elementi di prova)

- da un altro lato, l’offeso non può togliere effetto ad un atto del proprio difensore; l’unico modo che ha per evitare una difesa tecnica non gradita è quello di revocare la nomina del difensore e nominarne un altro.

Il difensore delle parti private diverse dall’imputato Ai sensi del 100, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria stanno in giudizio col ministero di un difensore. Tale soggetti nominano il proprio difensore mediante il conferimento di una procura speciale, la c.d. procura ad litem. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata. Quando la procura speciale è apposta in calce o a margine della dichiarazione di

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costituzione di parte civile, l’autografia della sottoscrizione può essere certificata soltanto dal difensore. Quando non è apposta in calce o a margine dell’atto di costituzione, la procura deve essere depositata in cancelleria o presentata in udienza unitamente alla dichiarazione di costituzione di parte civile. In forza della procura ad litem il difensore può compiere e ricevere nell’interesse della parte rappresentata tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono a essa espressamente riservati. Vi è comunque un limite: il difensore non può compiere atti che comportino una disposizione del diritto in contesa, salvo che ne abbia ricevuto espressamente il potere. L’incompatibilità del difensore La difesa di più imputati può essere assunta da un difensore comune, purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili; affinché ci sia incompatibilità deve sussistere in concreto un nesso di interdipendenza in base al quale un imputato abbia effettivamente interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole all’altro imputato. Quando l’autorità giudiziaria rileva la sussistenza di una situazione di incompatibilità deve indicarla, esporne i motivi e fissare un termine per rimuoverla; l’incompatibilità può essere eliminata in due modi:

1) mediante la rinuncia del difensore a sostenere una o più difese 2) mediante la revoca della nomina da parte dell’imputato

Nel caso in cui l’incompatibilità non venga rimossa entro il termine fissato il giudice la dichiara e provvede a sostituire il difensore incompatibile con un difensore d’ufficio. L’abbandono e il rifiuto della difesa Il consiglio dell’ordine forense ha la competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative ai casi di abbandono della difesa o di rifiuto della difesa di ufficio; al tal fine l’autorità giudiziaria riferisce al consiglio dell’ordine i casi di abbandono della difesa, di rifiuto della difesa di ufficio e i casi nei quali il difensore abbia violato i doveri di lealtà e probità, e infine se il difensore ha assunto la difesa di più imputati in una situazione di incompatibilità presunta per legge. Se l’abbandono o il rifiuto sono motivati da violazioni del diritto di difesa (che l’avvocato addebita all’autorità giudiziaria) e il consiglio dell’ordine ritiene giustificato il comportamento del difensore, la sanzione non si applica anche se il giudice ha escluso la sussistenza della violazione del diritto di difesa (ciò conferma l’indipendenza dell’ordine forense rispetto all’ordine giudiziario). Le garanzie per il libero esercizio dell’attività difensiva La scelta del legislatore è stata quella di assicurare al difensore la possibilità di svolgere la propria attività di patrocinio e consulenza in favore del cliente senza subire alcun condizionamento: - le garanzie di carattere generale consistono nella tutela del segreto professionale (gli avvocati non

possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero) - le garanzie di carattere speciale riguardano la tutela dell’ufficio e dei colloqui con i clienti e sono

finalizzate ad assicurare la libertà di predisposizione delle strategie difensive Per quanto riguarda la tutela dell’ufficio del difensore, le ispezioni, le perquisizioni ed i sequestri sono di regola vietati e sono ammessi in casi tassativi previsti dalla legge; in particolare:

a) le ispezioni e le perquisizioni sono ammesse quando i difensori risultano essere imputati e comunque devono essere disposte limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito; per rilevare le tracce o altri effetti materiali del reato (es. rapina in uno studio legale); per ricercare cose o persone specificatamente predeterminate che siano nascoste nell’ufficio di un avvocato

b) il sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa è vietato nell’ufficio del difensore o dei suoi ausiliari incaricati in relazione al procedimento (investigatore privato autorizzato e consulente tecnico) e il sequestro è ammesso soltanto in relazione ad oggetti che costituiscono corpo del reato.

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Inoltre devono essere effettuati con modalità da osservarsi a pena di inutilizzabilità dei risultati: devono essere compiuti soltanto da un magistrato e con modalità che sottopongono l’iniziativa del magistrato al controllo del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati: - Nell'accingersi a eseguire una ispezione, una perquisizione o un sequestro nell'ufficio di un difensore, l'autorità

giudiziaria a pena di nullità avvisa il consiglio dell'ordine forense del luogo perché il presidente o un consigliere da questo delegato possa assistere alle operazioni. Allo stesso, se interviene e ne fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento

- Alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri negli uffici dei difensori procede personalmente il giudice ovvero, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero in forza di motivato decreto di autorizzazione del giudice.

Per quanto riguarda la tutela dei colloqui con i clienti per esigenze difensive: - è previsto il divieto di intercettare le conversazioni o comunicazioni che intrecorrono tra i difensori,

gli investigatori privati, i consulenti tecnici ed i loro ausiliari in relazione al procedimento e le conversazioni tra i predetti ed i loro assistiti

- è previsto il divieto di sequestrare la corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che la corrispondenza stessa costituisca corpo del reato

- la possibilità di conferire con il difensore viene garantita anche in favore dell’imputato che sia sottoposto all’arresto, al fermo o alla custodia cautelare e deve potersi esercitare fin dall’inizio dell’esecuzione della misura

LA PERSONA OFFESA DAL REATO E LA PARTE CIVILE La persona offesa dal reato è il titolare dell’interesse giuridico protetto, anche in modo non prevalente, da quella norma incriminatrice che si assume sia stata violata dal reato. Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di “soggetto” del procedimento; la qualifica di “parte” le viene riconosciuta solo se, nella veste di danneggiato dal reato, la persona offesa abbia esercitato l’azione risarcitoria costituendosi parte civile (spesso infatti la stessa persona riveste le qualifiche di offeso e di danneggiato) La persona offesa dal reato La persona offesa dal reato, nella sua qualità di soggetto del procedimento, può esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge. Poteri sollecitatori dell’attività dell’autorità inquirente, come:

- presentare memorie - indicare elementi di prova nel corso del procedimento, escluso il giudizio di cassazione

Poteri di carattere informativo, per cui l’offeso: - quando il p.m. sta per compiere un atto garantito nei confronti di un indagato riceve da questi

l’informazione di garanzia contenente l’avviso della facoltà di nominare un difensore; - quando il p.m. procede al compimento di un accertamento tecnico non ripetibile, riceve da questi

avviso del luogo e dell’ora del conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare un consulente tecnico di parte

- deve essere avvisato della data e del luogo nel quale si svolgerà l’udienza preliminare - riceve notifica del decreto che dispone il giudizio

Poteri di partecipazione al procedimento: - la persona offesa (personalmente o per mezzo del difensore) può chiedere per iscritto al p.m. di

promuovere un incidente probatorio, nel quale venga assunta una prova non rinnovabile in dibattimento

- la persona offesa (solo per mezzo del difensore) può assistere agli atti di indagine per i quali è ammessa la sua presenza e può svolgere le c.d. “investigazioni difensive”

Poteri di controllo sulla eventuale inattività del p.m., che consentono all’offeso di mettersi in contato con il giudice per le indagini preliminari e presentargli le proprie conclusioni in due ipotesi:

- quando il p.m. abbia chiesto al giudice la proroga delle indagini - quando il p.m. abbia chiesto al giudice l’archiviazione

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La parte civile Il reato, oltre a costituire un offesa ad un bene giuridico (illecito penale), può provocare in concreto un danno (illecito civile) e in tal caso colui che ha commesso il reato è obbligato a risarcire il danno; il danno risarcibile può manifestarsi in diverse forme:

1) il danno patrimoniale consiste nella privazione o diminuzione del patrimonio nelle forme del danno emergente e del lucro cessante; esso viene quantificato per equivalente pecuniario nel senso che si deve ripristinare quella situazione economica e patrimoniale del danneggiato che era preesistente e che avrebbe dovuto proseguire se non fosse stato commesso il reato

2) il danno morale soggettivo (danno non patrimoniale, detto comunemente “danno morale”) consiste nelle sofferenze fisiche e psichiche patite e nel pregiudizio sociale subìto a causa dell’offesa; esso non può essere quantificato per equivalente in quanto non è possibile ripristinare la situazione anteriore al reato, quindi viene calcolato con modalità di tipo satisfattivo (il giudice in via equitativa individua il prezzo della sofferenza determinando una cifra in denaro che possa dare una soddisfazione tale da compensare le sofferenza patite)

3) il danno biologico consiste nella menomazione dell’integrità fisico-psichica del soggetto, leso nel suo diritto alla salute (riconosciuto dal 32 Cost. quale fondamentale diritto dell’individuo); esso è valutato in proporzione all’invalidità provocata ed è determinato in base a tabelle che tengono conto sia del tipo di invalidità, sia dell’età della persona lesa (da precisare che non entra in giuoco la capacità di reddito dell’individuo, già considerata nel determinare il lucro cessante)

4) il danno esistenziale è frutto di un’elaborazione giurisprudenziale e dottrina prevalente recente e consiste in un peggioramento non temporaneo delle qualità di vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini, dei suoi rapporti personali e familiari; esso è liquidato in via equitativa dal giudice

Il soggetto che ha subito uno di questi danni in conseguenza del reato è definito “danneggiato dal reato” ed egli ha diritto di ottenere ad ottenere che il responsabile del reato sia condannato a risarcire il danno; l’azione tendente a conseguire l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento può essere esercitata in alternativa: - davanti al giudice civile in un autonomo procedimento; se il danneggiato esercita l’azione risarcitoria

in modo tempestivo (cioè prima che il giudice penale abbia pronunciato una decisione in primo grado), l’azione civile può svilupparsi senza subire sospensioni e un eventuale assoluzione dell’imputato nel processo penale non ha la forza del giudicato (cioè non vincola il giudice civile né gli impedisce eventualmente di condannare l’imputato – convenuto al risarcimento del danno, ove siano raccolte le prove della sua responsabilità)

- davanti al giudice penale, ma soltanto dopo che il p.m. ha esercitato l’azione penale; in questo caso il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile nel processo penale

Se invece il danneggiato resta inerte (cioè non esercita l’azione risarcitoria né in sede panale, né in sede civile) corre il rischio che il giudice penale assolva l’imputato con una formula ampia, che acquisisca la forza del giudicato; infatti quando il danneggiato è stato messo in grado di partecipare al processo penale e non ha voluto costituirsi parte civile, la sentenza di assoluzione con formula ampia ha efficacia vincolante in relazione al fatto che sia stato accertato . La costituzione di parte civile avviene con una apposita dichiarazione di costituzione di parte civile resa per iscritto, che svolge la funzione dell’atto di citazione in un processo civile; essa prima dell’udienza può essere depositata nella cancelleria del giudice che procede (in questo caso essa deve essere notificata a cura della parte civile alle altre parti, cioè al pubblico ministero e all’imputato), oppure può essere presentata in udienza (preliminare o dibattimentale) all’ausiliario del giudice. Circa il contenuto della dichiarazione di costituzione di parte civile, essa deve contenere, a pena di inammissibilità: a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell'associazione o dell'ente che si costituisce

parte civile e le generalità del suo legale rappresentante;

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b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo;

c) il nome e il cognome del difensore e l'indicazione della procura; d) l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda (la domanda, c.d. petitum consiste nella

richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno; le ragioni, c.d. causa petendi, consistono nei motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno);

e) la sottoscrizione del difensore. Termini per la costituzione di parte civile: vi sono due termini per costituirsi parte civile: 1) il termine iniziale scatta all’inizio dell’udienza preliminare nel momento in cui il giudice accerta la

regolare costituzione delle parti. 2) il termine finale è il momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti, prima di

dichiarare aperto il dibattimento; dopo tale termine la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile (infatti il termine è stabilito a pena di decadenza)

Principio di immanenza la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado della costituzione del processo e ciò comporta che la parte civile non ha la necessità di di parte civile rinnovare la costituzione nelle successive fasi o nei successivi gradi del processo, finché la sentenza non sia divenuta irrevocabile Esclusione della parte civile: se non esistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali per la costituzione di parte civile, il giudice con ordinanza (non impugnabile) ne dispone l’esclusione su richiesta motivata del p.m., dell’imputato o del responsabile civile ovvero d’ufficio. Revoca della parte civile: la presenza della parte civile viene meno anche nell’ipotesi di revoca: - è espressa la revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza (dalla parte civile personalmente o da

un suo procuratore speciale) ovvero con atto scritto depositato in cancelleria e notificato alle altre parti

- si ha invece revoca tacita quando la parte civile non presenta le proprie conclusioni in dibattimento al momento della discussione finale ovvero quando essa promuove l’azione civile davanti al giudice civile

Regole per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale L’esercizio dell’azione civile nel processo penale è fondato su due regola non espressa, ma che si ricavano dalla normativa del codice:

1) l’azione civile resta “ospite” nel processo penale L’azione civile mantiene la sua natura e le sua caratteristiche civilistiche: l’azione resta facoltativa e disponibile (il danneggiato può in ogni momento del processo penale revocare la costituzione di parte civile) e il giudice penale nell’accertare i danni e condannare l’imputato colpevole al risarcimento non può andare oltre i limiti della domanda (cioè della quantità del risarcimento richiesto dalla parte)

2) l’azione civile subisce la regolamentazione del processo penale Al di fuori di quanto attiene alla natura civilistica dell’azione, i poteri e il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal c.p.p.: le prove dell’illecito penale e dei dani cagionati sono ricercate d’ufficio dal p.m. nel corso delle indagini preliminari; la parte civile ha l’obbligo di dire la verità quando sia citata come testimone

Confronto tra le posizioni processuali dell’offeso e del danneggiato

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La distinzione tra persona offesa e danneggiato dal reato è importante perché ad essa è ricollegato l’esercizio di differenti poteri: - nelle indagini preliminari è tutelata soltanto la persona offesa del reato nel suo interesse “penalistico”

ad ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato; la situazione soggettiva del danneggiato dal reato non viene tutelata in nessun modo

- dopo la formulazione dell’imputazione i ruoli appaiono capovolti: la persona offesa può solo presentare memorie ed indicare elementi di prova e non ha la possibilità di partecipare attivamente al processo; la parte civile può invece partecipare attivamente.

GLI ENTI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI DAL REATO L’ente rappresentativo di interessi lesi dal reato è un soggetto che si può qualificare come “persona offesa di creazione politica”; esso può esercitare in ogni stato e grado del procedimento i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato; quindi il difensore che rappresenta l’ente può partecipare all’udienza preliminare e al dibattimento e in tale sede può chiedere al presidente di rivolgere domande alle persone sottoposte ad esame incrociato e può anche chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova. Da ciò si ricava che l’ente è un “soggetto” del procedimento, che si colloca come accusatore a fianco del p.m., senza poter esercitare né l’azione penale né l’azione civile (cioè non può diventare “parte”). Il codice lascia aperta la strada alla possibilità che, in base a future leggi, enti esponenziali di interessi lesi intervengano nel procedimento penale, ma ancora tale possibilità a rigidi requisiti: - si richiede che l’ente collettivo sia riconosciuto in forza di legge e che tale riconoscimento sia

intervenuto anteriormente alla commissione del reato - si impone che l’ente sia rappresentativo, cioè abbia come finalità la tutela dell’interesse (collettivo o

diffuso) leso dal reato - si richiede il consenso della persona offesa dal reato, se essa sia identificabile; essa può prestare il

proprio consenso ad un solo ente e può revocare il consenso con il limite che, in caso di revoca, il consenso non potrà più essere prestato né allo stesso ente né ad altri enti.

IL RESPONSABILE CIVILE Il responsabile civile è il soggetto obbligato a risarcire il danno causato dall’autore del reato; il codice di procedura penale fa riferimento all’istituto civilistico della responsabilità civile per un fatto altrui quindi il responsabile civile è un soggetto che non ha partecipato al compimento dell’illecito penale, ma è chiamato a risarcire il danno provocato dalla persona che ha commesso tale fatto illecito. Esso può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile oppure può intervenire volontariamente quando vi è stata costituzione di parte civile. Il responsabile civile è parte fin dal momento in cui è stato citato o è intervenuto volontariamente,; si tratta però di una parte eventuale del processo penale in quanto la sua presenza richiede: - in primo luogo che il danneggiato si sia costituito parte civile - in secondo luogo che il responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto volontariamente LA PERSONA CIVILMENTE OBBLIGATA PER LA PENA PECUNIARIA Si tratta di una particolare forma di responsabilità verso lo Stato a carico di un soggetto diverso dall’autore del reato: la responsabilità è civile (cioè attiene al pagamento di una somma di denaro) ma la fonte è la condanna penale alla multa o all’ammenda; tuttavia si tratta di una responsabilità sussidiarie ed eventuale per il caso dell’insolvibilità del condannato in relazione al pagamento della multa o dell’ammenda; essa infatti si attiva quando l’autore del reato, che sia stato condannato e sottoposto ad esecuzione per una pena pecuniaria (multa o ammenda), sia insolvibile; in tale caso l’obbligo di pagare la multa o l’ammenda è posto a carico della persona fisica o giuridica indicata dagli articoli 196 e 197 c.p.:

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- ex articolo 196 sono le persone che sono rivestite di autorità, direzione o vigilanza sull’autore del reato, se si tratta di violazioni di disposizioni che esse erano tenute a far osservare

- ex articolo 197 sono gli enti forniti di personalità giuridica, responsabili qualora sia pronunciata condanna contro chi ne abbia la rappresentanza o l’amministrazione o nei sia dipendente, quando si tratta di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica

La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è una “parte eventuale” del processo penale: essa è citata a richiesta del p.m. o dell’imputato. GLI ENTI RESPONSABILI IN VIA AMMINISTRATIVA PER I REATI COMMESSI DA LORO RAPPRESENTANTI O DIRIGENTI In seguito al d.lgs. 231/2001 il processo penale può avere come oggetto eventuale, oltre alla responsabilità civile per danni derivanti da reato, anche la responsabilità amministrativa dell’ente giuridico; questa responsabilità è attribuita alle persone giuridiche ed alle società ed associazioni in relazione ai reati commessi, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente medesimo o che ne assumono, anche di fatto, la gestione e il controllo; o ancora, da persone in posizione subordinata in caso di omesso controllo da parte dei soggetti in posizione apicale. Nei procedimenti per determinati reati previsti nel decreto il p.m. cita l’ente in qualità di parte; l’ente che intende partecipare attivamente al procedimento penale si costituisce con una dichiarazione scritta che deve contenere, a pena di inammissibilità, la propria denominazione e le generalità del legale rappresentante, il nome il cognome del difensore, l’indicazione della procura, la sottoscrizione del difensore e l’elezione del domicilio.

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GLI ATTI Viene tradizionalmente definito “atto del procedimento penale” quell’atto che è compiuto da uno dei soggetti e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale. (sentenza, ordinanza o decreto). Il primo atto del procedimento penale è quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del p.m. La forma degli atti: - Atti a forma vincolata. Gli atti più importanti del procedimenti penale hanno una forma vincolata; il libro secondo prevede

i “modelli legali” che sono prefissati in via generale per gli atti del procedimento, mentre nei libri successivi vi sono “modelli legali” speciali che sono previsti per singoli tipi di atti.

- Atti a forma libera. Quando il codice non impone una forma vincolata, l’atto ha una forma libera. La lingua degli atti. Gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana; davanti all'autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta, il cittadino italiano che appartiene a questa minoranza è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madrelingua e il relativo verbale è redatto anche in tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui indirizzati successivamente alla sua richiesta. Restano salvi gli altri diritti stabiliti da leggi speciali e da convenzioni internazionali. Sottoscrizione degli atti. Quando è richiesta la sottoscrizione di un atto, se la legge non dispone altrimenti, è sufficiente la scrittura di propria mano, in fine dell'atto, del nome e cognome di chi deve firmare. Non è valida la sottoscrizione apposta con mezzi meccanici o con segni diversi dalla scrittura. Se chi deve firmare non è in grado di scrivere, il pubblico ufficiale, al quale è presentato l'atto scritto o che riceve l'atto orale, accertata l'identità della persona, ne fa annotazione in fine dell'atto medesimo. Data e luogo di formazione degli atti. Quando la legge richiede la data di un atto, sono indicati il giorno, il mese, l'anno e il luogo in cui l'atto è compiuto. L'indicazione dell'ora è necessaria solo se espressamente descritta. Se l'indicazione della data di un atto è prescritta a pena di nullità , questa sussiste soltanto nel caso in cui la data non possa stabilirsi con certezza in base ad elementi contenuti nell'atto medesimo o in atti a questo connessi. Copie estratti e certificati. Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti. Sulla richiesta provvede il pubblico ministero o il giudice che procede al momento della presentazione della domanda ovvero, dopo la definizione del procedimento, il presidente del collegio o il giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza. Il rilascio non fa venire meno il divieto di pubblicazione stabilito dall'articolo 114. Quando il difensore, anche a mezzo di sostituti, presenta all'autorità giudiziaria atti o documenti, ha diritto al rilascio di attestazione dell'avvenuto deposito, anche in calce ad una copia. Richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del pubblico ministero. Quando è necessario per il compimento delle proprie indagini, il pubblico ministero può ottenere dall'autorità giudiziaria competente, anche in deroga al segreto investigativo, copie di atti relativi ad altri procedimenti penali e informazioni scritte sul loro contenuto. L'autorità giudiziaria provvede senza ritardo e può rigettare la richiesta con decreto motivato. Il procuratore nazionale antimafia, nell'ambito delle funzioni previste dall'articolo 371-bis, accede al registro delle notizie di reato e alle banche dati istituite appositamente presso le direzioni distrettuali antimafia realizzando se del caso collegamenti reciproci. Richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del ministro dell'interno. Il ministro dell'interno, direttamente o a mezzo di un ufficiale di polizia giudiziaria o del personale della Direzione investigativa antimafia appositamente delegato, può ottenere dall'autorità giudiziaria competente, anche in deroga al segreto investigativo, copie di atti di procedimenti penali e informazioni scritte sul loro contenuto, ritenute indispensabili per la prevenzione dei delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. Ai medesimi fini l'autorità giudiziaria può autorizzare i soggetti delegati dal ministro dell’interno all'accesso diretto al registro delle notizie di reato. L'autorità giudiziaria provvede senza ritardo e può rigettare la richiesta con decreto motivato. Partecipazione del sordo, muto o sordomuto ad atti del procedimento. Quando un sordo, un muto o un sordomuto vuole o deve fare dichiarazioni, al sordo si presentano per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni ed egli risponde oralmente; al muto si fanno oralmente le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni ed egli risponde per iscritto; al sordomuto si presentano per iscritto le domande, gli avvertimenti e le ammonizioni ed egli risponde per iscritto. Se il sordo, il muto o il sordomuto non sa leggere o scrivere, l'autorità procedente nomina uno o più interpreti, scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui. Testimoni ad atti del procedimento. Determinate persone possono assistere ad atti del procedimento penale (in quanto persone di fiducia di uno dei soggetti interessati allo svolgimento del relativo atto, del quale garantiscono la regolarità e sul quale possono essere chiamate a testimoniare); ciò avviene per l’ispezione personale, per la perquisizione personale e locale. Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento:

a) i minori degli anni quattordici e le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope. La capacità si presume sino a prova contraria;

b) le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione.

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Obbligo di osservanza delle norme processuali. I magistrati, i cancellieri e gli altri ausiliari del giudice, gli ufficiali giudiziari, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a osservare le norme di questo codice anche quando l'inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale. I dirigenti degli uffici vigilano sull'osservanza delle norme anche ai fini della responsabilità disciplinare. GLI ATTI DEL GIUDICE Gli atti del giudice sono la sentenza, l’ordinanza e il decreto: - la sentenza è l’atto con cui il giudice adempie al dovere di decidere, che gli è posto a seguito

dell’esercizio dell’azione penale; la sentenza esaurisce una fase o un grado del processo; con essa il giudice si spoglia del caso. Dal punto di vista della forma, la sentenza deve essere sempre motivata (cioè deve dare conto del processo logico seguito dal giudice per giungere alla decisione); l’obbligo della motivazione è posto direttamente dalla Costituzione (111.6) e ripetuto dal codice, che prevede la sanzione della nullità (relativa) per l’eventuale inosservanza.

- l’ ordinanza è il provvedimento col quale il giudice risolve singole questioni senza definire il procedimento; essa deve essere sempre motivata a pena di nullità; di regola, è revocabile dal giudice.

- il decreto è un “ordine” dato dal giudice; deve essere motivato solo se la legge lo precisa espressamente.

L’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità Il giudice in ogni stato e grado del processo ha l’obbligo di dichiarare immediatamente d’ufficio determinate cause di non punibilità; si tratta di quelle che concernono: l’assenza di responsabilità dell’imputato, l’estinzione del reato la mancanza di una condizione di procedibilità; più precisamente, il codice enumera le seguenti formule terminative che comportano la declaratoria immediata: - il fatto non sussiste - l’imputato non lo ha commesso - il fatto non costituisce reato - il fatto non è previsto dalla legge come reato. Il codice pone una gerarchia tra le formule di proscioglimento che il giudice è tenuto ad emettere: - quando ricorre una causa di estinzione del reato (es. prescrizione) ma dagli atti risulta evidente la non

responsabilità penale dell’imputato (risulta cioè che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato), il giudice pronuncia sentenza di assoluzione (se pronunciata in giudizio) o di non luogo a procedere (se emessa nell’udienza preliminare)

- quando ricorre una causa di estinzione del reato, ma non è stata già acquisita agli atti la prova evidente circa la mancanza di responsabilità dell’imputato, il giudice pronuncia l’estinzione del reato

La correzione di errori materiali Il codice prevede la procedura di correzione degli errori materiali; occorrono quattro requisiti:

1) deve trattarsi di un atto del giudice riferibile al modello delle sentenza, delle ordinanze o del decreto 2) l’errore non deve essere causa di nullità dell’atto 3) l’errore deve essere materiale, cioè deve consistere in una difformità tra il pensiero del giudice (contenuto

dell’atto) e la formulazione esteriore di tale pensiero 4) l’eliminazione dell’errore non deve comportare una modifica essenziale dell’atto (si devono quindi

escludere le correzioni che incidono sul dispositivo) Il procedimento di correzione dell’errore si svolge in camera di consiglio e si conclude con un’ordinanza di correzione, che deve essere annotata sull’originale dell’atto. La competenza spetta al giudice autore dell’atto, ma nel corso delle impugnazioni spetta al giudice ad quem; l’iniziativa spetta al giudice, che provvede anche su richiesta del p.m. e della parte interessata.

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I poteri coercitivi del giudice Al giudice spettano poteri coercitivi nell’esercizio delle sue funzioni, e cioè al fine del sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede; essi comportano la possibilità di ottenere comportamenti anche contro la volontà dei singoli interessati. Si tratta dei poteri di “polizia processuale” in base ai quali spetta al giudice il potere di chiedere l’intervento della polizia giudiziaria e se necessario anche l’intervento della forza pubblica; per l’esercizio di questi poteri la legge non impone l’osservanza di particolari formalità: l’ordine può essere anche soltanto orale ed è riportato nel verbale di udienza. Tra gli atti che costituiscono espressione del potere coercitivo vi è ad es. l’accompagnamento coattivo; esso ha lo scopo di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile l’acquisizione di un contributo probatorio; per potersi procedere all’accompagnamento coattivo è necessario che la legge preveda espressamente l’intervento di una determinata persona per il compimento di uno specifico atto. Tra i destinatari del procedimento di accompagnamento coattivo vi sono l’imputato (o indagato), il testimone, il perito, il consulente tecnico, l’interprete ed il custode di cose sequestrate, i quali citati, omettono di comparire senza addurre un legittimo impedimento. L’accompagnamento non deve però diventare una misura cautelare camuffata; a tale fine il codice prevede che la persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione oltre il compimento dell’atto previsto e quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua presenza; in ogni caso la persona non può essere trattenuta oltre le ventiquattro ore. GLI ATTI DELLE PARTI Per quanto riguarda i modelli generali, il libro secondo enuncia solo due atti delle parti:

1) la richiesta; assume tale forma ogni tipo di domanda che le parti (sia quella pubblica, sia quelle private) rivolgono al giudice al fine di ottenere una decisione; sulle richieste ritualmente formulate il giudice deve provvedere senza ritardo e comunque entro 15 giorni, salvo specifiche disposizioni di legge.

2) la memoria; essa ha un contenuto meramente argomentativo teso ad illustrare questioni in fatto o in diritto.

IL PROCEDIMENTO IN CAMERA DI CONSIGLIO (articolo 127) Il procedimento in camera di consiglio è una modalità di svolgimento di un’attività giurisdizionale, alla quale le parti e le altre persone interessate hanno il diritto di partecipare; esso presenta due caratteristiche: - l’assenza del pubblico - la non necessaria partecipazione delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori Nel modello ordinario, l’atto iniziale del procedimento è un decreto di fissazione dell’udienza; alle parti, agli interessati ed ai loro difensori è dato avviso della data fissata per l’udienza almeno 10 giorni prima dell’udienza stessa; fino a 5 giorni prima dell’udienza gli interessati possono presentare memorie presso la cancelleria del giudice. Tuttavia all’udienza il contraddittorio è soltanto eventuale, perché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa; il giudice ha comunque l’obbligo di ascoltare, a pena di nullità, tutti coloro che intervengono all’udienza. Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume, di regola, la forma dell’ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per cassazione

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LA DOCUMENTAZIONE DEGLI ATTI Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale documentazione si provveda “mediante verbale”, che viene redatto dall’ausiliario che assiste il giudice o il p.m. Circa il contenuto, il verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, l'indicazione delle cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire, la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui da altro pubblico ufficiale che egli assiste; per ogni dichiarazione è indicato se è stata resa spontaneamente o previa domanda e, in tal caso, è riprodotta anche la domanda; se la dichiarazione è stata dettata dal dichiarante, o se questi si è avvalso dell'autorizzazione a consultare note scritte, ne è fatta menzione. Circa le modalità, la documentazione può essere effettuata con almeno tre modalità differenti: 1) di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento

meccanico ovvero, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale. 2) Una seconda modalità di documentazione è il verbale in forma riassuntiva con riproduzione

fonografica; in tal caso spetta al giudice vigilare che sia riprodotta nell’originaria genuina espressione, la parte essenziale delle dichiarazioni, quindi il termine riassuntivo non significa riassunto del concetto delle dichiarazioni, ma solo sommaria esposizione degli elementi extradichiarativi

3) Infine, vi è una terza modalità di documentazione che si effettua quando vi sia una contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici o anche quando gli atti da verbalizzare hanno contenuto semplice o limitata rilevanza: si tratta della verbalizzazione in forma riassuntiva senza riproduzione fonografica.

LA NOTIFICAZIONE La notificazione è lo strumento previsto dalla legge per render noto al destinatario un atto (o un’attività) del procedimento. Essa è eseguita, di regola, mediante la consegna al destinatario della copia dell’atto (o dell’avviso); l’organo che esegue la notificazione è di regola l’ufficiale giudiziario (ausiliare del giudice) o chi ne esercita le funzioni. Della consegna dell’atto è redatto un verbale, chiamato “relazione di notificazione” in cui l’ufficiale giudiziario (o altro soggetto legittimato) scrive, in calce all'originale e alla copia notificata, la relazione in cui indica l'autorità o la parte privata richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona alla quale è stata consegnata la copia, i suoi rapporti con il destinatario, le funzioni o le mansioni da essa svolte, il luogo e la data della consegna della copia, apponendo la propria sottoscrizione. I soggetti legittimati a disporre le notificazioni Notificazioni disposte dal giudice. Di regola le notificazioni disposte dal giudice sono eseguite dall’ufficiale giudiziario; nei procedimenti con detenuti ed in quelli davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre che, in caso d’urgenza, le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti. Sono previste forme equipollenti alla notifica: - la consegna di copia dell’atto all’interessato da parte della cancelleria - la lettura dei provvedimenti e gli avvisi dati verbalmente dal giudice agli interessati che siano presenti Notificazioni disposte dal p.m. Le notificazioni di atti del p.m. nel corso delle indagini preliminari sono eseguite dall’ufficiale giudiziario ovvero dalla polizia giudiziaria nei soli casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire. Sono previste forme equipollenti: - la consegna di copia dell’atto da parte della segreteria - la lettura di provvedimenti e avvisi in presenza degli interessati

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Notificazioni chieste dalle parti private. Le parti private possono effettuare le notificazioni di loro interesse secondo le regole ordinarie (richiesta all’ufficiale giudiziario), oppure valersi di una modalità semplificata (invio di copia dell’atto da parte del difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento) I destinatari delle notificazioni Notificazioni al p.m. Le notificazioni al p.m. sono eseguite nel modo ordinario ovvero direttamente dalle parti mediante consegna di copia dell’atto alla segreteria; allo stesso modo vengono notificati gli atti e i provvedimenti del giudice, a cura della cancelleria Notificazioni al difensore. Le notificazioni al difensore possono essere eseguite nel modo ordinario; tuttavia una forma semplificata può essere disposta sia dal giudice sia dal p.m.: l’autorità giudiziaria può disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei. Notificazioni all’imputato detenuto. Le notificazioni all’imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona; se questa si rifiuta di ricevere l’atto o non è comunque possibile la consegna diretta, l’atto è consegnato al direttore dell’istituto. Notificazioni all’imputato o all’indagato non detenuto. Per rendere più celere ed agevole l’attività di notificazione all’indagato ed all’imputato non detenuto, il codice disciplina la dichiarazione o l’elezione di domicilio: nel primo atto compiuto con l’intervento dell’imputato o dell’indagato, l’autorità procedente lo invita a dichiarare o eleggere il proprio domicilio: - dichiarare il domicilio significa indicare quel luogo, ove l’imputato abita o lavora, nel quale gli atti

saranno a lui notificati - eleggere il domicilio comporta l’indicazione di un domiciliatario, cioè di una persona differente

dall’imputato che viene da lui scelta per ricevere copia degli atti da notificare L’imputato è avvertito che, ove egli si rifiuti di ottemperare alla dichiarazione o elezione o successivamente ometta di comunicare un eventuale mutamento del domicilio dichiarato o eletto, le notificazioni saranno eseguite mediante consegna al difensore. Nel caso in cui non sia stato possibile invitare l’imputato a dichiarare o eleggere il domicilio, il codice distingue tra la prima notificazione e le successive notificazioni: Prima notificazione all’imputato non detenuto: - di regola la prima notificazione è eseguita mediante consegna di copia alla persona (c.d. consegna a

mani proprie); - se non è possibile la consegna a mani proprie, la notificazione avviene nel luogo in cui l’imputato è

reperibile (cioè nella sua abitazione o nel luogo di lavoro, se conosciuti); se tali luoghi non sono conosciuti, la notificazione avviene ove l’imputato ha temporanea dimora o recapito; nei predetti luoghi la notificazione è eseguita mediante consegna di copia dell’atto ad una persona che conviva anche temporaneamente con l’imputato o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci.

- se non è possibile consegnare la copia alle predette persone, si procede a nuova ricerca e in caso negativo la notificazione è effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale di abituale residenza o lavoro, con affissione dell’avviso di deposito alla porta della casa di abitazione o del luogo di lavoro; l’avvenuto deposito è altresì comunicato all’imputato mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento

- nell’ipotesi in cui, malgrado l’attivazione delle modalità sopra indicate, non sia comunque possibile effettuare la notificazione all’imputato perché questi non è reperibile, il giudice o il p.m. devono disporre nuove ricerche dell’imputato particolarmente nel luogo di nascita, dell'ultima residenza anagrafica, dell'ultima dimora, in quello dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa e presso l'amministrazione carceraria centrale; qualora non sia possibile rintracciare l’imputato, il giudice o il p.m. emettono un decreto di irreperibilità: con tale provvedimento viene designato un difensore all’imputato che ne sia privo e viene ordinato che le notificazioni siano eseguite mediante consegna di copia al difensore, che rappresenta l’ireperibile.

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Successive notificazioni all’imputato non detenuto: esse sono eseguite in relazione all’esito della prima notificazione e quindi rispettivamente - nel domicilio indicato o eletto - nel luogo in cui è stata effettuata la prima notificazione - presso il difensore, se l’imputato è stato dichiarato irreperibile Notificazioni all’imputato all’estero . Se risulta dagli atti notizia precisa del luogo di residenza o di dimora all'estero della persona nei cui confronti si deve procedere, il giudice o il pubblico ministero le invia raccomandata con avviso di ricevimento, contenente l'indicazione della autorità che procede, il titolo del reato e la data e il luogo in cui è stato commesso nonché l'invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato. Se nel termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata non viene effettuata la dichiarazione o l'elezione di domicilio ovvero se la stessa è insufficiente o risulta inidonea, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Quando dagli atti risulta che la persona nei cui confronti si deve procedere risiede o dimora all'estero, ma non è nota la residenza o la dimora dell’imputato, il giudice o il pubblico ministero, prima di pronunciare decreto di irreperibilità, dispone le ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali. Le notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile, al civilmente obbligato per la pena pecuniaria e agli altri soggetti. Le notificazioni alla persona offesa e agli altri soggetti diversi dalle parti private (es. testimoni e consulenti tecnici), nonché la prima citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono eseguite con le modalità della prima notificazione all’imputato non detenuto, e cioè mediante consegna di copia alla persona. Le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile e al civilmente obbligato, già costituiti in giudizio, sono eseguite presso i difensori. LA TRADUZIONE DEGLI ATTI: L’INTERPRETE La materia è regolamentata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che pone tre garanzie in favore dell’accusato che non comprende la lingua del processo:

1) il diritto di essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico

2) il diritto, spettante ad ogni persona che non comprenda o non parli la lingua impiegata in udienza, di farsi assistere gratuitamente da un interprete

3) il diritto, spettante, specificamente all’arrestato, di essere informato dei motivi dell’arresto Tale normativa è stata recepita nell’articolo 111 comma III Cost. con l’enunciato generale secondo cui l’accusato deve essere assistito da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il c.p.p. a sua volta prevede le due funzioni dell’interprete: - quella tradizionale di tradurre per il giudice gli atti processuali: essa impone la nomina dell’interprete

quando occorre tradurre per l’autorità procedente un documento scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intelligibile o quando la persona che vuole fare o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana (quindi la persona offesa, la parte civile e le altre parti processuali beneficiano soltanto della funzione tradizionale dell’interprete)

- quella innovativa, consistente nel rendere comprensibili per le parti e soprattutto per l’imputato lo svolgersi del procedimento penale: l’imputato che non conosce la lingua italiana ha il diritto di farsi assistere dall’interprete sotto due profili: 1) al fine di comprendere l’accusa contro lui formulata; sotto questo profilo gli atti scritti che

costituiscono veicolo dell’addebito devono essere tradotti nella lingua conosciuta dall’imputato 2) al fine di seguire il compimento degli atti ai quali partecipa; sotto questo secondo profilo deve

essere assicurato l’interprete per quegli atti orali ai quali l’imputato partecipa

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Situazioni di incompatibilità : innanzi tutto non può svolgere il ruolo di interprete colui che è incompatibile come teste; poi l’interprete è incompatibile con il ruolo di testimone, perito, consulente tecnico e più in generale con tutte quelle persone che hanno la facoltà di astenersi dal testimoniare (quali il prossimo congiunto dell’imputato ed il titolare di un segreto professionale). La prestazione dell’ufficio è obbligatoria; in caso di mancata prestazione può essere disposto l’accompagnamento coattivo dell’interprete. LE CAUSE DI INVALIDITÀ DEGLI ATTI Il codice prevede dettagliatamente i requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale, che danno luogo al “modello legale” del singolo atto: L’ atto perfetto è quello che è conforme al modello descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge, primo fra tutti quello di essere utilizzato dal giudice nella decisione L’atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. • è irregolare se la difformità dal modello legale non rientra in una delle cause di invalidità che sono

previste dalla legge; pertanto l’atto irregolare è valido e quindi il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione.

• è invalido quando la singola difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti da codice, e cioè quando la singola inosservanza di legge è prevista come causa di decadenza, di inammissibilità, di nullità o di inutilizzabilità; nella materia in esame vige uno stretto principio di tassatività: l’inosservanza della legge processuale è causa di invalidità solo quando una norma espressamente vi ricollega una delle invalidità appena citate.

L’inammissibilità L’inammissibilità è una causa di invalidità che impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale del procedimento, quando la richiesta non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità . Il requisito può riguardare: - il tempo entro il quale deve essere compiuto l’atto - il contenuto dell’atto - un aspetto formale - la legittimazione al compimento dell’atto. L’inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte od anche d’ufficio; quando il giudice rileva l’inammissibilità dichiara l’inammissibilità della domanda (con ordinanza o sentenza) e non decide sul merito delle stessa. Per quanto riguarda il termine entro il quale la domanda deve essere dichiarata inammissibile, di regola il giudice può rilevare tale invalidità fino a che la sentenza sia divenuta irrevocabile salvo che non sia previsto espressamente un termine anteriore. La decadenza e la restituzione nel termine La decadenza denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio Gli strumenti che impongono una determinata cadenza al procedimento sono denominati termini. Sono denominati termini perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo; superato tale periodo, il soggetto decade dal potere di compierlo validamente per cui l’atto eventualmente compiuto oltre il termine perentorio è giuridicamente invalido. I termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge.

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Ma qual è il tipo di invalidità che colpisce l’atto compiuto oltre il termine perentorio??? Il codice di regola stabilisce che gli atti compiuti oltre un termine perentorio sono inammissibili; da ciò si desume che al decorso di un termine perentorio sono ricollegate due sanzioni processuali: - dal punto di vista soggettivo, relativo all’estinzione del potere di compiere l’atto, si fa riferimento al

concetto di decadenza - dal punto di vista oggettivo, relativo al regime dell’atto compiuto oltre i termini, il codice prevede la

sanzione dell’inammissibilità La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l’inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza; il codice prevede tre differenti istituti, uno di carattere generico e due di carattere specifico, sul comune presupposto che l’imputato può avere avuto conoscenza soltanto presuntiva e non effettiva del procedimento o del provvedimento. • restituzione nel termine generica, che permette la restituzione in un termine processuale previsto a

pena di decadenza, quando la parte prova di non averlo potuto osservare per caso fortuito o forza maggiore, cioè per situazioni di impossibilità oggettiva non imputabile alla parte (l’onere della prova incombe quindi su colui che chiede il beneficio); sono legittimati a chiedere la restituzione in termini il pubblico ministero, le parti private e i difensori

• restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale; dal punto di vista oggettivo, la sentenza contumaciale aggredibile con le restituzione nel termine deve avere il carattere della irrevocabilità; dal punto di visto soggettivo, la richiesta può essere presentata soltanto dall’imputato. La particolarità del rimedio contro la sentenza contumaciale sta nel capovolgimento dell’onere della prova, per cui una volta che l’imputato ha presentato richiesta di restituzione nel termine il rimedio deve essergli concesso, salvo che sia accertata una delle seguenti situazioni: 1) che l’imputato abbia avuto conoscenza effettiva del procedimento e al contempo abbia rinunciato

a comparire 2) che l’imputato abbia avuto conoscenza effettiva del provvedimento e al contempo abbia rinunciato

volontariamente a proporre impugnazione Ciò che l’imputato ottiene dalla decisione, che concede la restituzione nel termine, è la possibilità di presentare una impugnazione contro la sentenza contumaciale; la sentenza quindi non è annullata, bensì viene eliminato il carattere di irrevocabilità.

• restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna; essa è costruita sul modello predisposto per la sentenza contumaciale con i necessari adattamenti; ottenuta la restituzione l’imputato potrà proporre opposizione.

Le norme procedurali sono comuni ai tre rimedi. Di regola decide sulla richiesta di restituzione quel giudice che procede al tempo della presentazione della stessa; ma ci sono delle eccezioni: - prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari - dopo che sono stati pronunciati sentenza o decreto di condanna, decide il giudice che sarebbe

competente sulla impugnazione o sulla opposizione Per quanto riguarda i termini (previsti a pena di decadenza) - la richiesta di restituzione generica deve essere presentata al giudice competente entro 10 giorni da

quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore - le richieste di restituzione specifica devono essere presentate al giudice competente entro 30 giorni da

quello in cui l’imputato ha avuto conoscenza effettiva del provvedimento La restituzione non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento; l’ordinanza che concede la restituzione nel termine deve essere motivata; essa può essere impugnata non autonomamente, bensì soltanto con la sentenza che decide sulla impugnazione o sulla opposizione; al contrario l’ordinanza che respinge la richiesta è autonomamente impugnabile (contro di essa può essere proposto ricorso in cassazione)

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La nullità La nullità è una causa di invalidità che colpisce un atto del procedimento compiuto senza l’osservanza di quelle disposizioni che sono imposte dalla legge appunto a pena di nullità; anche per la nullità vale il principio di tassatività: l’inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla legge (articolo 177) Sulla base delle modalità di previsione dell’inosservanza si distingue tra: - le nullità speciali sono quelle previste per una determinata inosservanza, precisata nella species (ad es.

le inosservanze relative alla lingua degli atti del procedimento); - le nullità generali sono previste per ampie categorie di inosservanze e sono indicate nell’articolo 178

Art. 178. Nullità di ordine generale. È sempre prescritta a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti:

a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario;

b) l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale e la sua partecipazione al procedimento;

c) l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio, della persona offesa dal reato e del querelante.

Per quanto riguarda il regime giuridico, le nullità si distinguono in tre tipi: Le nullità assolute sono quelle nullità generali indicate nell’articolo 179 come appunto nullità assolute; esse: - riguardano i soggetti necessari del procedimento - sono rilevabili anche d’ufficio - in ogni stato e grado del procedimento - sono insanabili (esse sono sanate dall’irrevocabilità della sentenza) L’articolo 179 indica quali fra nel nullità generali sono assolute (tuttavia vi possono essere delle nullità speciali che prevedono espressamente il regime giuridico nella nullità assoluta; ad es. alla deliberazione della sentenza concorrono a pena di nullità assoluta gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento); rientrano nella categoria delle nullità assolute: a) le violazioni delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice, intese nel senso di

capacità generica all’esercizio della funzione giurisdizionale b) la violazione delle disposizioni concernenti il numero dei giudici necessario per costituire i collegi

stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario c) la violazione delle disposizioni concernenti l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio

dell’azione penale; in tale nozione rientrano i vizi che si risolvono nel mancato promovimento dell’azione penale, ma può essere ricompreso anche l’invalido promovimento dell’azione penale esercitata in modo non conforme al modello legale

d) l’omessa citazione dell’imputato; la citazione ricomprende il decreto di citazione a giudizio e la sua comunicazione all’imputato mediante notificazione: la loro omissione da luogo a nullità assoluta (mentre non comporta nullità assoluta qualsiasi vizio della notificazione oppure l’erronea valutazione del giudice sulla probabilità che l’imputato non abbia avuto effettiva conoscenza del decreto)

e) l’assenza del difensore dell’imputato nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza; la presenza del difensore dell’imputato è obbligatoria nelle udienza dibattimentali ed inoltre nelle altre occasioni nelle quali è prescritta espressamente (a pena di nullità assoluta è necessario in queste ipotesi l’avviso al difensore e se il difensore non è comparso deve essere nominato un sostituto)

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Le nullità intermedie sono quelle nullità generali che non sono ricomprese nell’articolo 179 fra quelle assolute (sono indicate nell’articolo 180 con l’espressione “altre nullità”); esse: - riguardano una sfera più ampia di soggetti - sono rilevabili anche d’ufficio - entro determinati limiti di tempo: se verificatesi prima del giudizio devono essere dedotte dalle parti

entro la chiusura del dibattimento ovvero devono essere rilevate dal giudice al momento della deliberazione della sentenza di primo grado; se invece si sono verificate nel giudizio, non possono essere dedotte né rilevate dopo la sentenza del grado successivo

- sono sanabili. Fra le nullità a regime intermedio rientrano: a) l’inosservanza delle disposizioni attinenti alla “partecipazione” del p.m. al procedimento (quindi

anche prima del processo); b) l’inosservanza delle disposizioni concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza

dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante.

Le nullità relative sono quelle nullità speciali che non rientrano tra quelle assolute e quelle intermedie; esse: - sono dichiarate dal giudice su eccezione della parte interessata (anche se poi singola disposizioni del

codice prevedono la rilevabilità d’ufficio di determinate nullità speciali) - entro brevi limiti di tempo: le nullità concernenti gli atti delle indagini preliminari e quelli compiuti

nell'incidente probatorio e le nullità concernenti gli atti dell'udienza preliminare devono essere eccepite prima che sia pronunciato il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare (quando manchi l’udienza preliminare devono essere eccepite subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti in giudizio); le nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio ovvero gli atti preliminari al dibattimento devono essere eccepite subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti in giudizio; le nullità verificatesi nel giudizio devono essere eccepite con l'impugnazione della relativa sentenza.

- sono sanabili. Il limite di deducibilità (istituto relativo alle nullità intermedie ed assolute) dà luogo ad un difetto di legittimazione della parte, di modo che quest’ultima trova un ostacolo ad eccepire la nullità; in particolare • le nullità intermedie e quelle relative non possono essere eccepite

- da colui che vi ha dato o ha concorso a darvi causa; - da colui che non ha interesse all’osservanza della disposizione violata.

• quando una parte assiste ad un atto, la nullità dello stesso deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se non è possibile, immediatamente dopo (quando la parte non assiste al compimento dell’atto valgono gli ordinari limiti temporali per eccepire e rilevare le nullità intermedie e relative

La sanatoria (istituto anch’esso relativo alle nullità intermedie ed assolute) è quel fatto giuridico ulteriore e successivo rispetto all’atto viziato che affiancato a quest’ultimo lo rende equivalente all’atto valido; quindi la sanatoria, se si verifica, impedisce a qualsiasi parte di eccepire e al giudice di rilevare la nullità dell’atto; il codice distingue tra sanatorie generali e speciali. Le sanatorie generali si applicano alle nullità di tipo intermedio o relativo (non si applicano alle nullità generali per espressa disposizione del 179 comma I); le cause di sanatoria generale sono le seguenti: - la nullità è sanata se la parte interessata a rinunciato espressamente ad eccepire la nullità ovvero ha

accettato gli effetti dell’atto anche tacitamente (si tratta di una forma di acquiescenza tipizzata) - la nullità è sanata quando la parte si è avvalsa della facoltà. Al cui esercizio l’atto omesso o nullo è

preordinato

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La sanatoria speciale riguarda la nullità di citazioni, avvisi e notificazioni; la nullità di una citazione (o di un avviso o delle relative comunicazioni o notificazioni) è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire; la comparizione deve essere personale e volontaria, ma non occorre che sia accompagnata dalla consapevolezza del vizio che si è verificato La dichiarazione di nullità: il giudice dichiara la nullità di un atto quando, nel caso concreto, non vi sono limiti di deducibilità né si sono verificate sanatorie applicabili al quel tipo di nullità; si pongono a questo punto due problemi: 1) l’ estensione della nullità: l’invalidità colpisce l’atto non conforme al modello legale; inoltre ex

articolo 185 comma I la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo (quindi la nullità si estende soltanto agli atti che siano successivi e dipendenti dall’atto viziato, in senso logico e giuridico); l’estensione della nullità produce effetti gravi quando il vizio colpisce un atto propulsivo del procedimento, cioè un atto di impulso che deve necessariamente essere compiuto perché il procedimento possa validamente proseguire: infatti ove tale atto sia dichiarato nullo, risultano travolti tutti quelli compiuti successivamente

2) la rinnovazione dell’atto nullo: ex articolo 185 comma II il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave; la rinnovazione non è possibile quando l’atto è all’origine non ripetibile o lo è diventato successivamente. Il codice pone una distinzione quando la nullità è dichiarata in uno stato o grado del processo diverso da quello in cui la stessa si è verificata: - se si tratta di una prova, il medesimo giudice provvede alla rinnovazione se necessaria e possibile. - se non si tratta di una prova (ma ad esempio di un atto propulsivo, la dichiarazione di nullità

comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito.

L’inutilizzabilità Il termine inutilizzabilità descrive due aspetti del medesimo fenomeno: da un lato il “vizio” da cui può essere affetto un atto o un documento, da un altro lato il “regime giuridico” al quale l’atto viziato è sottoposto; in questo senso l’inutilizzabilità è quel tipo di invalidità che colpisce non l’atto in se, ma il suo “valore probatorio” : l’atto pur valido dal punto di vista sostanziale è colpito nel suo aspetto sostanziale, poiché l’inutilizzabilità impedisce ad esso di produrre il suo effetto principale, che è quello di essere posto a fondamento di una decisione del giudice oppure di un atto del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. Inutilizzabilità assoluta e relativa: - l’inutilizzabilità è assoluta quando il giudice non può basarsi su di esso per emettere un qualsiasi

provvedimento; - l’inutilizzabilità è relativa quando la legge indica le persone nei confronti delle quali non può essere

utilizzato un determinato atto o la categoria di provvedimenti che non possono basarsi su tale atto. Inutilizzabilità speciale e generale: - si ha inutilizzabilità speciale (disciplinata nella species) quando una norma del codice commini

espressamente tale sanzione per il mancato rispetto delle condizioni previste per l’acquisizione di una determinata prova

- l’inutilizzabilità generale si riferisce a categorie di inosservanze delineate nel genere Vi è poi una fondamentale distinzione tra due tipi di inutilizzabilità: - quella patologica, che consegue ad alcuni dei vizi più gravi del procedimento probatorio - quella fisiologica, deriva invece dall’inosservanza del principio della separazione delle fasi del

procedimento e tende ad evitare che siano utilizzate per la decisione prove raccolte dalle parti in modo unilaterale

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L’inutilizzabilità patologica di tipo generale è disciplinata dal 191 comma I: Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate; quindi l’inutilizzabilità è la conseguenza dell’aver acquisito una prova violando un “divieto probatorio” che può essere: - relativo all’an: il giudice ha esercitato nella acquisizione di una proba un “potere” che la legge

processuale vietava; soltanto se dalla norma processuale è ricavabile con certezza un vero e proprio divieto probatorio è possibile applicare l’articolo in quastione; occorre che in base ad una determinata disposizione sia sottratto in modo assoluto al giudice il potere di ammettere, assumere o valutare quella determinata prova.

- relativo al quomodo: è stata violata un semplice “modalità” di assunzione di una prova; tuttavia la prova diventa inutilizzabile solo se tale sanzione è prevista espressamente dalla legge come conseguenza della violazione di quella modalità di assunzione (casi di inutilizzabilità speciale); viceversa le modalità di assunzione non espressamente poste a pena di inutilizzabilità non sono idonee a fare scattare tale sanzione ove siano violate.

Circa il regime giuridico, in base all’articolo 191 comma II l’inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento; inoltre l’inutilizzabilità non può essere sanata (e ciò perché l’atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale) e non è possibile procedere alla rinnovazione (e ciò per la stessa struttura logica del vizio, che consiste nella violazione di un divieto probatorio). Circa l’inutilizzabilità fisiologica, alcune norme del codice prevedono l’inutilizzabilità di determinate categorie di atti non perché questi siano stati compiti in violazione di un divieto probatorio, ma soltanto perché sono stati acquisiti prima del dibattimento; infatti il codice pone la regola in base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione solo le prove legittimamente acquisite nel dibattimento. Con questo strumento si munisce di una sanzione processuale il principio del contraddittorio: le proche siano state raccolte durante le indagini preliminari, ma che non siano state legittimamente acquisite in dibattimento nelle specifiche ipotesi nelle quali è ammessa la lettura non sono utilizzabili nella decisione poiché non hanno subito il vaglio del contraddittorio. L’atto inesistente Dottrina e giurisprudenza hanno creato un’ulteriore causa di invalidità chiamata “inesistenza; in particolare la inesistenza di una sentenza impedisce che si formi il giudicato, di modo che il giudice può rilevare tale vizio anche dopo che la sentenza sia diventata irrevocabile, e cioè non più impugnabile. Fra i casi di inesistenza, comunemente riconosciuti, possiamo ricordare i seguenti: - la carenza di potere giurisdizionale del giudice (ad es., sentenza penale emessa dal prefetto); - la sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto dall’immunità. L’atto abnorme La giurisprudenza ha creato l’ulteriore diversa categoria del provvedimento abnorme, che può essere sottoposto a ricorso per cassazione prima dell’irrevocabilità della sentenza. È affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. Il provvedimento giudiziario abnorme è ricorribile per cassazione, applicandosi direttamente il 111.7 Cost. (Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra).

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PRINCIPI GENERALI SULLA PROVA Il codice del 1988 ha accolto, sia pure con temperamenti, la scelta del sistema accusatorio: al giudice è riservato il potere di decidere; alle parti è attribuito il potere di ricercare le prove, di chiederne l’ammissione, di contribuire alla formazione delle stesse. Il ragionamento del giudice Il giudice prima accerta se è avvenuto il fatto storico che è stato addebitato all’imputato e se questi ne è responsabile; poi interpreta la norma incriminatrice al fine di ricavarne quale è il fatto tipico punibile; infine, valuta se il fatto storico, che ha accertato, è “conforme” al fatto tipico previsto dalla legge. Dal punto di vista formale, la decisione pronunciata dal giudice si presenta come una “sentenza”. Essa è composta da una motivazione e da un dispositivo: - nella motivazione il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel corso del processo,

ricostruisce il fatto storico commesso dall’imputato (motivi “in fatto”); quindi interpreta la legge e precisa il “fatto tipico” previsto dalla norma penale incriminatrice (“motivi “in diritto”); infine valuta se il fatto storico rientra nel fatto tipico (giudizio di conformità).

- nel dispositivo il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto storico commesso dall’imputato è conforme al fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice, il giudice condanna; se il fatto storico non è conforme al fatto tipico, il giudice assolve l’imputato con una delle formule previste dal codice.

Accertamento del fatto storico. All’inizio del processo il “fatto storico commesso dall’imputato” non è certo (l’accusa ne afferma l’esistenza e la difesa in tutto o in parte la nega) e deve quindi essere verificato mediante un accertamento basato su principi razionali; perché l’accertamento sia razionale deve avere le seguenti caratteristiche:

1) deve essere basato su prove; “provare” vuol dire indurre nel giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un determinato modo. Tale fatto deve essere rappresentato al giudice mediante altri fatti; la prova è quel procedimento logico in base al quale da un fatto noto si deduce l’esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali si è verificato

2) deve essere oggettivo; l’accertamento perché sia oggettivo non deve fondarsi sulla conoscenza privata del giudice, bensì su elementi esterni e cioè su prove

3) deve essere basato sui principi della logica; l’accertamento deve essere logico, cioè basato sui principi razionali che regolano la conoscenza; il giudice deve riportare nella motivazione il percorso logico che ha seguito nella ricostruzione del fatto storico.

Individuazione della norma penale incriminatrice. Il giudice esamina la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice; il ragionamento svolto dal giudice è di tipo giuridico perché ha ad oggetto le disposizioni di legge e perché usa il metodo dell’interpretazione per chiarire il significato esatto della legge e per ricostruire il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Giudizio di conformità . Il giudice valuta se il fatto storico ricostruito mediante prove è conforme al fatto tipico previsto e sanzionato dalla norma penale incriminatrice Prova rappresentativa e indizio Il termine prova può avere almeno quattro diversi significati: - fonte di prova sono le persone ce le cose che forniscono un elemento di prova, cioè le persone o le

cose dalle quali possono essere tratte le informazioni utili per ricostruire il fatto di reato - mezzo di prova è lo strumento col quale si acquisisce al processo un elemento che serve per la

decisione (ad es. mezzo di prova è una testimonianza); - elemento di prova è l’informazione (intesa come dato grezzo) che si ricava dalla fonte di prova,

quando ancora non è stata valutata dal giudice; - risultato probatorio è l’elemento di prova valutato in base ai criteri della credibilità e della attendibilità

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Si distingue tra prova rappresentativa ed indizio: • con il termine prova rappresentativa (definita anche prova storica) si fa riferimento a quel

procedimento logico che dal fatto noto ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare; il giudice accertato il grado di credibilità della finte ed il grado di attendibilità della rappresentazione, valuta quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente

• con il termine indizio (definito anche prova critica) si allude a quel procedimento (detto ragionamento inferenziale) mediante il quale, partendo da un fatto provato (la circostanza indiziante), si ricava, attraverso massime di esperienza o leggi scientifiche, l’esistenza di un fatto storico da provare, che può essere sia il fatto principale (il fatto storico addebitato all’imputato), sia un fatto secondario (un’altra circostanza indiziante) dal quale, con una ulteriore inferenza, si può ricavare l’esistenza del fatto principale

La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi; più precisamente essa è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto noto (circostanza indiziante); la massima di esperienza è una regola, cioè non appartiene al mondo dei fatti e di conseguenza dà luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. Riteniamo che il meccanismo con cui è costruita la prova indiziaria (detta anche critica) debba essere configurato nel modo seguente: il giudice applica un ragionamento di tipo induttivo quando esamina casi simili e formula una regola di esperienza (cioè da casi particolari ricava l’esistenza di una regola generale); successivamente il giudice svolge un ragionamento deduttivo, cioè applica al caso in esame la regola generale che ha ricavato in precedenza. Anche le leggi scientifiche c.d. universali che appartengono al patrimonio conoscitivo comune dell’uomo medio possono essere usate dal giudice nel suo ragionamento sul fatto. Viceversa, in materie che richiedono specifiche competenze tecniche, il giudice deve affidarsi a persone che hanno conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina, i quali valuteranno quale legge della natura è applicabile ad un determinato fatto, al fine di individuarne le cause. Nel processo penale sono utilizzate anche leggi probabilistiche (ad esempio le leggi della scienza medica); non bisogna però confondere la probabilità statistica con la probabilità logica (denominata anche certezza processuale al di la del ragionevole dubbio), apprezzata dal giudice sulla base degli elementi di prova raccolti in un determinato processo. Le leggi scientifiche universali hanno la caratteristica della generalità (non ammettono eccezioni o comunque il margine di errore è esattamente conosciuto), della sperimentabilità (il fenomeno scientifico è riconducibile ad esperimenti misurabili quantitativamente) e della controllabilità (la loro formulazione è sottoposta alla critica della comunità di esperti); mentre le regole di comune esperienza sembrano essere carenti dei predetti caratteri: non sono generali perché le regole del comportamento umano ammettono eccezioni, non sono sperimentabili in quanto il reato è un fatto umano che per sua natura non è ripetibile, non sono controllabili perché non ci sono tecnici del diritto in grado di seguire il nascere di una regola di esperienza ed il suo livello di generalità; per questi motivi sia nella formulazione di una regola di esperienza, sia nella sua applicazione il giudice deve essere molto cauto. L’indizio comunque non è una prova minore, bensì una prova che deve essere verificata. Esso è idoneo ad accertare l’esistenza di un fatto storico di reato solo quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell’accaduto. Il principio è formulato nel 192.2: L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. - la gravità degli indizi attiene al grado di convincimento: è grave l’indizio resistente alle obiezioni. - gli indizi sono precisi quando non sono suscettibili di altre diverse interpretazioni. - gli indizi sono concordanti quando convergono tutti verso la medesima conclusione. Gli indizi devono essere gravi precisi e concordanti solo quando tendono a dimostrare l’esistenza di un fatto; viceversa se l’oggetto della prova è un fatto incompatibile con la ricostruzione del fatto storico operata nell’imputazione (ci si riferisce all’alibi ), è sufficiente anche un solo indizio; naturalmente la circostanza indiziante su cui si basa l’alibi deve essere sottoposta al vaglio di attendibilità da parte del giudice come ogni altro elemento di prova.

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Il procedimento probatorio e il diritto alla prova Il procedimento probatorio è regolamentato dal codice nei fondamentali momenti della ricerca, dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione della prova; i poteri in materia di prova risentono del principio della separazione dei poteri: - alle parti spetta esclusivamente il potere di ricerca e di domanda - al giudice spetta il potere di decidere l’ammissione e di emettere una valutazione sulle prove Tutti i poteri sono comunque regolati dalla legge, affinché i soggetti non ne abusino; in proposito si può affermare che esiste un vero e proprio “principio di legalità processuale in materia probatoria” La RICERCA DELLA PROVA . La ricerca delle fonti di prova spetta alle parti: - in primo luogo al p.m., sul quale incombe l’onere della prova, e cioè l’onere di convincere il giudice

della reità dell’imputato; - successivamente spetta all’imputato, al fine di confutare le tesi dell’accusa, ricercare sia quelle prove

che possano convincere il giudice della non credibilità della fonte o della inattendibilità dell’elemento di prova a carico, sia quelle tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente.

L’ AMMISSIONE DELLA PROVA . L’ammissione del singolo mezzo di prova, di regola, deve essere chiesta dalle parti al giudice (principio di dispositivo in materia probatoria); il giudice deve provvedere sulla richiesta di ammissione senza ritardo con ordinanza motivata; ciò significa che egli deve motivare le’eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter riservarsi di decidere successivamente sull’ammissione (ciò perché le parti hanno il diritto di affrontare l’istruzione dibattimentale avendo ben chiaro il quadro probatorio di cui possono disporre). Il giudice decide di ammettere la prova in base a quattro criteri. 1) la prova deve essere pertinente, cioè essa deve tendere a dimostrare l’esistenza del fatto storico

enunciato nell’imputazione o l’esistenza di uno dei fatti indicati nell’articolo 187 Oggetto della prova: “Sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza. Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. Se vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato”

2) la prova non deve essere vietata dalla legge 3) la prova non deve essere superflua, cioè non deve tendere ad ottenere un risultato conoscitivo già

acquisito. 4) la prova deve essere rilevante, e cioè tale che il suo probabile risultato sia idoneo a dimostrare

l’esistenza del fatto da provare. Il diritto alla prova contraria: ove siano stati ammessi i mezzi di prova richiesti dall’accusa, l’imputato ha il diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico; il medesimo diritto spetta al p.m. in ordine alle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico; quindi il codice prevede che la prova contraria sia sempre pertinente. Limiti al diritto all’ammissione della prova: il diritto di ottenere l’ammissione della prova di tipo dichiarativo è stato limitato nelle ipotesi di imputazione avente ad oggetto il delitto di associazione mafiosa, delitti ad esso collegati o alcuni reati in materia di violenza sessuale e di pedofilia; se la persona che una parte vuole sentire in dibattimento ha già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio l’esame è ammesso soltanto in due casi:

1) se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni 2) se il giudice o una delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze

Poteri di iniziativa probatoria del giudice: nella fase dell’ammissione della prova il giudice, di regola, non può assumere un mezzo di prova d’ufficio e ha soltanto il potere di decidere se ammettere o meno il mezzo di prova chiesto da una delle parti; la legge tuttavia prevede dei casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio, in deroga al principio dispositivo in materia probatoria; ad esempio nel corso del dibattimento il giudice, se risulta assolutamente necessario, ha un potere di supplenza della inerzia delle parti e può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova

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L’ ASSUNZIONE DELLA PROVA . L’assunzione della prova avviene, se si tratta di dichiarazioni, col metodo dell’esame incrociato; spetta alle parti (al p.m. e ai difensori) il compito di rivolgere le domande al dichiarante; il presidente ha il potere di porre domande soltanto dopo che le parti hanno concluso l’esame incrociato e successivamente alla domande poste dal giudice le parti possono riprendere l’esame. L’ acquisizione della prova. Il termine acquisizione riferito alla prova è utilizzato in due significati: - in senso stretto il termine acquisizione indica l’ammissione della prove precostituita, cioè formata

prima o fuori del dibattimento - in senso lato il termine acquisizione è utilizzato per ricomprendere anche l’ammissione della prova

non precostituita qual è la dichiarazione La VALUTAZIONE DELLA PROVA . Le parti hanno il diritto di argomentare, cioè di offrire al giudice la valutazione degli elementi di prova; ciò avviene al momento della discussione finale, quando le parti illustrano le proprie conclusioni in un ordina che rispetta le cadenze dell’onere della prova (al p.m. seguono i difensori dell’eventuale parte civile e dell’imputato). Al diritto delle parti spetta il dovere del giudice di dare una valutazione logica degli elementi di prova raccolti; infatti il codice, per rendere effettivo il diritto alla valutazione, prescrive che il giudice nella sentenza debba indicare le prove poste a base della decisione e le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie. Il principio del libero convincimento. Questa espressione significa che il giudice è libero di convincersi in relazione alla attendibilità degli elementi di prova ed alla credibilità delle fonti, nonché in merito all’idoneità di una massima di esperienza o di una legge scientifica a sostenere l’inferenza sulla quale si basano le ricostruzioni dell’accusa e della difesa; tale principio tuttavia deve passare attraverso le norme che disciplinano la valutazione delle prove e la motivazione della sentenza e da ciò deriva che il convincimento del giudice deve consistere in una valutazione razionale delle prove e in una ricostruzione del fatto conforme ai canoni della logica ed aderente alle risultanze processuali. La non configurabilità della prova legale. Nel processo penale non esiste l’istituto della prova legale; quindi la confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile. L’onere della prova L’articolo 27.2 Cost. dichiara che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva; in un’unica formula si sono volute combinare una regola di trattamento ed una regola di giudizio: - la regola di trattamento vuole che l’imputato non sia assimilato al colpevole sino al momento della

condanna definitiva; e cioè impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione di misure cautelari nei suoi confronti

- la regola di giudizio vuole che l’imputato sia presunto innocente, vuole cioè l’effetto del 2728.1 c.c.: Le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite; infatti la presunzione di innocenza è una presunzione legale relativa, cioè valida finché non sia stato dimostrato il contrario; pertanto l’onere della prova ricade sulla parte che sostiene la reità dell’imputato, cioè sul pubblico ministero.

L’onere della prova costituisce una regola probatoria, nel senso che individua la parte sulla quale ricadono le conseguenze del non aver convinto il giudice dell’esistenza del fatto affermato (la conseguenza è il rigetto della domanda). Se colui che accusa (cioè il p.m. che chiede la condanna) ha provato la reità dell’imputato (cioè gli elementi costitutivi del reato) l’onere della prova può considerarsi soddisfatto; a questo punto incombe sull’imputato l’onere della prova contraria: alla difesa spetta di provare la mancanza di credibilità delle fonti o l’inattendibilità delle prove d’accusa ovvero spetta di dare la prova dell’esistenza di fatti favorevoli alla difesa (ad es. di una causa di giustificazione o di non punibilità); l’imputato può anche provare direttamente che egli non ha tenuto la condotta asserita dall’accusa o che un evento non è avvenuto (si tratta della c.d. prova negativa che tende a dimostrare la fondatezza dell’affermazione che nega l’esistenza di un fatto).

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L’espressione “onere della prova” può essere intesa in due significati: • in senso sostanziale, l’onere della prova impone alla parte di convincere il giudice dell’esistenza del

fatto storico da essa affermato • in senso formale, l’onere della prova impone alla parte di chiedere al giudice l’ammissione della prova

che reputa utile per adempiere all’onere sostanziale; in questo senso le parti hanno l’onere di ricercare le fonti di prova, di valutare la necessità del mezzo di prova al fine di dimostrare l’esistenza del fatto affermato e di introdurre nel processo i mezzi di prova, chiedendone al giudice l’ammissione

Onere formale e sostanziale e confronto: - l’aver soddisfatto l’onere della prova in senso formale non comporta automaticamente l’aver

soddisfatto l’onere della prova in senso sostanziale; una parte soddisfa l’onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il giudice dell’esistenza del fatto storico da essa affermato;

- a sua volta, la mancata osservanza dell’onere di introdurre un determinato mezzo di prova non comporta inevitabilmente il rigetto della domanda (un’altra parte del processo potrebbe chiedere l’ammissione di quel determinato mezzo di prova, ovvero il giudice potrebbe disporne d’ufficio l’assunzione)

Esistono particolari tipi di fatti che non necessitano di essere provati: - il fatto notorio, che è un fatto di pubblica conoscenza in un determinato ambito territoriale la cui

esistenza è conosciuta dal giudice senza la necessita che le parti chiedano l’ammissione di un determinato messo di prova; occorre naturalmente che il fatto sia indubitabile ed incontestabile

- il fatto pacifico, che è un fatto di conoscenza non pubblica, affermato da una parte ed ammesso esplicitamente o implicitamente dalla controparte

Il quantum della prova: il c.d. standard probatorio La quantità di prova che è necessaria a convincere il giudice è diversa nel processo civile ed in quello penale: nel processo civile lo standard probatorio è identico per l’attore e per il convenuto e viene di solito indicato con la regola del “più probabile che no”; viceversa nel processo penale colui che accusa ha l’onere di provare la reità dell’imputato in modo da eliminare ogni ragionevole dubbio Fino al 2006 tale standard probatorio è rimasto privo di espressa previsione; infatti l’articolo 530 comma II relativo alla sentenza di assoluzione si limitava a stabilire che il giudice doveva pronunciare sentenza di assoluzione quando era insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persone imputabile, senza che nessuna altra norma espressa prevedesse il parametro in base al quale valutare l’insufficienza o la contraddittorietà della prova d’accusa; tuttavia la giurisprudenza interpretava la norma nel senso che: - le prove d’accusa erano insufficienti quando il p.m. non aveva dimostrato la reità eliminando ogni

ragionevole dubbio - le prove d’accusa erano contraddittorie quando, pur essendo prevalenti rispetto alle prove di

innocenza, lasciavano residuare uno o più ragionevoli dubbi La legge 46/2006 il Parlamento ha modificato l’articolo 533 comma I relativo alla sentenza di condanna e ha stabilito che il giudice pronuncia sentenza di condanna quando l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio; tale modifica si ripercuote sull’interpretazione della norma relativa alla sentenza di assoluzione, confermando l’interpretazione giurisprudenziale. L’aggettivo ragionevole significa comprensibile da una persona razionale e dunque oggettivabile attraverso una motivazione che faccia riferimento ad argomentazioni logiche, cioè che rispetti il principio della non contraddizione; quindi si può ritenere che: - l’accusa ha adempiuto all’onere della prova quando ogni differente spiegazione del fatto addebitato,

basata sulle prove, appare non ragionevole - l’accusa non ha adempiuto all’onere della prova quando le risultanza processuali non sono idonee ad

escludere una ragionevole ricostruzione alternativa prospettata dalla difesa sulla base delle prove acquisite

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Circa la posizione dell’imputato, il dubbio va a favore dell’imputato anche quando questi abbia l’onere della prove, cioè quando egli deve convincere il giudice dell’esistenza di un fatto favorevole: infatti in base all’articolo 530 comma III “se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione”; quindi l’imputato avrà soddisfatto l’onere della prova e sarà prosciolto se, attraverso la prova delle scriminanti, avrà fatto sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sulla propria reità. Il principio di oralità In prima approssimazione al termine oralità si può attribuire il significato di “comunicazione del pensiero mediante la pronuncia di parole destinate ad essere udite”. Si ha oralità in senso pieno solo quando coloro che ascoltano possono porre domande ed ottenere risposte a viva voce dal dichiarante. Il principio di immediatezza Il principio di immediatezza è attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l’assunzione della prova e la decisione finale sull’imputazione: - da un lato si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova - dall’altro si tende ad assicurare che vi sia identità fisica tra il giudice che assiste al’assunzione della

prova e colui che prende la decisione di condanna o assoluzione Il principio del contraddittorio Il principio del contraddittorio comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova (Articolo 111.4 Cost. “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”) Eccezioni al contraddittorio: l’articolo 111.5 ha tipizzato le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del contraddittorio: esso dichiara che La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Questioni pregiudiziali e limiti probatori Si parla di “questione pregiudiziale”, quando vi è una questione dalla cui soluzione dipende o meno l’esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice che deve essere applicata. Il codice di regola attribuisce al giudice penale il potere di risolvere ogni questione da cui dipende la decisione sia sull’esistenza del reato, sia sull’applicazione di una norma processuale. Quando la questione pregiudiziale ha per oggetto una controversia sullo stato di famiglia e di cittadinanza, il giudice penale è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili; quando la questione pregiudiziale ha un qualsiasi altro oggetto, il giudice penale non è vincolato ai limiti di prova posti dalla relativa materia e quindi applica soltanto le regole probatorie del processo penale.

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I MEZZI DI PROVA Con l’espressione “mezzo di prova” si vuole indicare quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova. Il codice prevede sette mezzi di prova tipici, per i quali le modalità di assunzione sono predisposte in maniera tale da permettere al giudice ed alle altre parti di valutare nel modo migliore la credibilità della fonte e l’attendibilità dell’elemento di prova che si ricava dall’esperimento del singolo mezzo; pertanto i mezzi di prova tipi sono considerati dal codice idonei a permettere l’accertamento dei fatti; essi sono:

- la testimonianza - l’esame delle parti - i confronti - le ricognizioni - gli esperimenti giudiziali - la perizia - i documenti.

Il codice tuttavia non impone la tassatività dei mezzi di prova e a determinate condizioni prevede la possibilità di mezzi di prova atipici, cioè dei mezzi di prova aventi una componente non regolamentata dalla legge; in particolare l’articolo 189 stabilisce che la prova atipica può essere ammessa soltanto se presenta due requisiti:

1) deve essere idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti, cioè deve essere in concreto capace di fornire elementi attendibili e di permettere una valutazione sulla credibilità della fonte di prova

2) deve assicurare la libertà morale della persona – fonte di prova, cioè deve lasciare integra la facoltà di determinarsi liberamente rispetto agli stimoli

Inoltre occorre che il giudice senta le parti sulle modalità di assunzione della prova prima di decidere con ordinanza sulla richiesta di ammissione e sulle modalità di assunzione della prova; l’ordinanza del giudice che accoglie o respinge la richiesta è controllabile mediante l’impugnazione della sentenza. Configurabilità dei mezzi di ricerca della prova atipici: le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che è possibile configurare mezzi di ricerca della prova atipici e a tal fine occorre procedere ad una interpretazione adeguatrice dell’articolo 189: qualora si tratti di mezzi di ricerca della prova atipici, anziché configurare un contraddittorio anticipato sulla ammissione nel corso delle indagini preliminari si potrà svolgere un contraddittorio successivo sulla utilizzabilità degli elementi acquisiti. LA TESTIMONIANZA Testimoni e parti sono in grado di dare un rilevante contributo conoscitivo al processo penale; essi sono esaminati sui fatti che costituiscono oggetto di prova e cioè sulla responsabilità dell’imputato e sui fatti che servono a valutare la credibilità delle fonti e l’attendibilità degli elementi di prova. La loro deposizione avviene nella forma dell’esame incrociato, ma il codice distingue pone una netta distinzione tra i due mezzi di prova: la testimonianza (art. 194 ss.) e l’esame delle parti (art. 208 ss.), distinzione che riguarda aspetti sia di diritto processuale, sia di diritto penale sostanziale:

- il testimone ha l’obbligo penalmente sanzionato di presentarsi al giudice e di dire la verità. - viceversa l’imputato, e più in generale le parti private, quando vengono esaminate ai sensi del 208

non hanno l’obbligo di presentarsi, né l’obbligo di rispondere alle domande, né l’obbligo di dire la verità.

Infatti la qualità di testimone è di regola incompatibile con la qualità di parte privata e, in particolare, di imputato; un’eccezione è la parte civile, che può esser sentita come testimone coi relativi obblighi penali. Le altre parti private (responsabile civile e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria) non possono essere chiamate a deporre come testimoni, né possono offrirsi spontaneamente in tale ruolo.

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La qualità di testimone la qualità di testimone può essere assunta dalla persona che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova ma che al tempo stesso non riveste una delle qualifiche alle quali il codice riconduce l’incompatibilità a testimoniale; tale persona diventa testimone soltanto se e quando su richiesta di parte (o d’ufficio nei casi previsti) è chiamata a deporre davanti ad un giudice.

Gli obblighi del testimone: il testimone ha i seguenti obblighi: • l’obbligo di presentarsi al giudice; se non si presenta senza un legittimo impedimento, il giudice può

ordinare il suo accompagnamento coattivo e può condannarlo al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende nonché alle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa.

• l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le esigenze processuali; • l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte: se tace ciò che sa, afferma il

falso o nega il vero, commette il delitto di falsa testimonianza. Divieto probatorio circa le modalità di assunzione della prova dichiarativa

Ex articolo 188 non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata (il divieto opera oggettivamente) metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione (tortura) o ad alterare la capacità di ricordare i fatti (narcoanalisi e l’ipnosi) o di valutare i fatti (macchina della verità); tale divieto se violato comporta l’invalidità dell’atto acquisitivo

La deposizione La deposizione è resa in dibattimento. Forma della deposizione → la deposizione è resa in dibattimento con le forme dell’esame incrociato. Oggetto della deposizione → il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova. In particolare le domande devono:

• essere pertinenti, e cioè devono riguardare sia i fatti che si riferiscono all’imputazione, sia i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali.

• avere ad oggetto “fatti determinati”; di conseguenza, il testimone di regola non può esprimere valutazioni né apprezzamenti personali (salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti) e non può deporre su voci correnti nel pubblico.

Inoltre:

- l’esame del testimone può estendersi ai rapporti di parentela o di interesse che lo legano alle parti o ad altri testimoni

- l’esame del testimone può avere ad oggetto le circostanze che servono ad accertare la credibilità sia delle parti, sia dei testimoni

- le deposizioni sulla moralità dell’imputato sono ammesse ai soli fini di qualificare la personalità dello stesso in relazione al reato ed alla pericolosità e sempre che si tratti di fatti specifici.

- le domande che riguardano la persona offesa dal reato incontrano due limiti: il primo consiste nel fatto che La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell’imputato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona; il secondo riguarda i procedimenti per i delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e di tratta di persone: le domande aventi ad oggetto la vita privata o la sessualità della persona offesa dal reato sono di regola vietate; sono consentite se sono necessarie alla ricostruzione del fatto.

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La testimonianza indiretta Dei fatti da provare il testimone può avere una conoscenza diretta o indiretta:

- si ha una conoscenza diretta quando il testimone ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi

- si ha una conoscenza indiretta quando il testimone ha appreso il fatto da una rappresentazione che altri ha a lui riferito a voce, per iscritto o con altro mezzo;

Quindi si ha una testimonianza indiretta quando il fatto da provare non è stato percepito personalmente dal soggetto che lo narra, ma costui è stato rappresentato da un’altra fonte; la persona dai cui il testimone si è sentito dire è comunemente indicata con l’espressione “teste di riferimento”; egli può avere percepito personalmente il fatto (e allora è chiamato teste diretto) oppure può averlo sentito dire da un’altre persone (e allora è chiamato teste indiretto) Il problema della testimonianza indiretta sta nel fatto che quando il fatto è conosciuto dal testimone per sentito dire occorre che sia possibile accertare l’attendibilità sia del testimone indiretto, sia del testimone diretto (cioè della persona da cui si è sentito dire); per questo motivo il codice pone alcune condizioni all’utilizzabilità della deposizione indiretta che permettono di effettuare il controllo sulla credibilità del teste diretto e sull’attendibilità di quanto è stato riferito: 1) il testimone indiretto deve indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto

dell’esame; quando non è individuato il teste diretto o comunque la fonte da cui si è appreso il fatto riferito la testimonianza non è utilizzabile

2) quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto, il giudice è obbligato a disporne la citazione; se questa norma non è osservata la testimonianza indiretta di regola non è utilizzabile; in via eccezionale è utilizzabile quando l’esame del testimone diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità; l’irreperibilità presuppone che sia stato impossibile notificare la citazione a comparire al testimone già identificato (l’identificazione compito della polizia giudiziaria). Comunque il giudice può disporre la citazione del testimone diretto anche d’ufficio, senza che vi sia stata richiesta da alcuna delle parti.

Divieto di testimonianza indiretta sulla dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato: la prova delle dichiarazioni rese dall’imputato e dall’indagato in un atto del procedimento deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento; per quanto riguarda l’ambito del divieto:

- in primo luogo, il divieto ha natura oggettiva, e cioè pare riferirsi a chiunque riceva le dichiarazioni. - in secondo luogo, il divieto ha per oggetto dichiarazioni in senso stretto, e cioè espressioni di

contenuto narrativo: risultano quindi riferibili per sentito dire quelle dichiarazioni che costituiscono espressioni di volontà o meri comportamenti.

- in terzo luogo, le dichiarazioni nei cui confronti opera il divieto sono quelle rese nel corso del procedimento: l’espressione deve essere intesa nel senso di “in occasione” di un atto tipico e non “durante la pendenza” del procedimento.

- infine, il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che abbiano una valenza di prove, e non quelle che siano rilevanti come fatti storici di reato (che devono essere accertati mediante un processo penale).

La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre

- sul contenuto delle sommarie informazioni assunte da testimoni o imputati connessi, - sul contenuto delle denunce, querele o istanze, - sul contenuto delle informazioni e delle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato.

Fuori da queste ipotesi di espresso divieto la testimonianza indiretta della polizia è ammessa (si applicano tuttavia le condizioni sopra descritte); si tratta dei casi nei quali la polizia giudiziaria è chiamata a riferire su dichiarazioni ricevute fuori dall’esercizio delle sue funzioni, oppure su dichiarazioni percepite nel corso di attività tipiche (come identificazioni, ricognizioni informali, sequestri) o atipiche (quali appostamenti, pedinamenti)

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Le dichiarazioni rese alla polizia e non verbalizzate: poiché il codice nel disciplinare le dichiarazioni rese alla polizia si riferisce a determinate “modalità” di acquisizione (e cioè il verbale), ci si chiede se sia consentita la testimonianza indiretta sulla informazioni per qualunque motivo non verbalizzate; in seguito alla sentenza 305/2008 della Corte Costituzionale la normativa è la seguente: è inutilizzabile non soltanto la dichiarazione che la polizia ha appreso dalla persona informata e ha regolarmente verbalizzato, ma anche la medesima dichiarazione quando la polizia non ha adempiuto all’obbligo di verbalizzazione pur ricorrendone le condizioni; quindi le dichiarazioni indirette non verbalizzate sono utilizzabili soltanto quando non vi erano le condizioni per adempiere all’obbligo di verbalizzazione. L’incompatibilità a testimoniare Il codice pone, in via generale, la regola secondo cui ogni persona ha la capacità di testimoniare; possono quindi essere assunti come testimoni sia l’infermo di mente, sia il minore; in questi casi tuttavia il giudice dovrà valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l’attendibilità della dichiarazione; inoltre il giudice può verificare l’idoneità fisica o mentale del soggetto chiamato a deporre ordinando gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge. Il codice prevede poi una serie di eccezioni che consistono in situazioni di incompatibilità relative ad un determinato procedimento; l’incompatibilità a testimoniare ricorre quando una persona, pur capace di deporre, non è legittimata a svolgere la funzione di testimone in un determinato procedimento penale a causa della posizione assunta in tale procedimento o a causa dell’attività ivi esercitata. Non possono essere assunti come testimoni (bensì sono sentiti con l’esame ai sensi del 210):

• gli imputati concorrenti nello stesso reato (o situazioni assimilate: cooperazione colposa o condotte indipendenti che hanno determinato un unico evento)

• gli imputati in procedimenti legati di una connessione debole, cioè nel caso in cui i reati per cui si procede sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri (c.d. connessione teleologica);

• gli imputati in procedimenti probatoriamente collegati ai sensi del 371.2 lettera b) (se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza)

A tali regole sono state poste due eccezioni: - gli imputati concorrenti nello stesso reato possono essere chiamati a rendere testimonianza quando nei

loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento

- gli imputati in procedimenti legati di una connessione debole e gli imputati in procedimenti probatoriamente collegati possono deporre come testimoni quando nei loro confronti è stata emessa sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento; inoltre essi divengono compatibili con la qualifica di teste se, nel corso dell’interrogatorio, hanno reso dichiarazioni su fatti altrui, cioè concernenti la responsabilità di altri imputati collegati o connessi teleologicamente (in questo caso la compatibilità è parziale perché è limitata ai fatti altrui)

Non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e di civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Esse possono rendere dichiarazioni, su loro consenso o richiesta, in qualità di parti e, quindi, senza l’obbligo penalmente sanzionato di dire il vero. Non possono essere assunti come testimoni coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario. Sono altresì incompatibili il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione dell’intervista.

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Il privilegio contro l’autoincriminazione Il codice accoglie la regola generale in base alla quale il testimone ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte nel corso dell’esame; tuttavia può accadere che le parti, durante l’esame incrociato, formulino domande che potrebbero indurre il testimone ad autoincolparsi di qualche reato: in una situazione del genere il codice tutela il testimone e stabilisce che egli non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale (tuttavia alla posizione soggettiva del teste non corrisponde, a carico di chi lo interroga, l’obbligo di informarlo che può non rispondere, né è vietato alle parti fare domande autoincriminanti al testimone); quindi quando il testimone rifiuta di rispondere ad una domanda autoincriminante, la legge vieta al giudice di costringerlo a parlare; si tratta di un divieto probatorio la cui violazione comporta l’inutilizzabilità del dato che è stato acquisito: se il giudice costringe il teste a deporre e successivamente si riconosce l’esistenza del privilegio, le dichiarazioni rese sono inutilizzabili. Ovviamente il testimone che oppone il privilegio deve dare una giustificazione allo stesso; il giudice valuta le giustificazione addotte e se le ritiene infondate può rinnovare al testimone l’avvertimento che ha l’obbligo di dire la verità; se il testimone ritiene di aver correttamente eccepito il privilegio, può persistere nel rifiuto ovvero dichiarare il falso.

Il testimone quindi rischia che gli sia contestato il reato di falsa testimonianza; tuttavia se nel procedimento per falsa testimonianza si accerta che il soggetto effettivamente aveva il privilegio contro l’autoincriminazione, egli dovrà essere assolto.

In ogni caso il testimone è libero se crede di rispondere alle domande autoincriminanti; nel caso in cui il testimone sceglie liberamente di rendere dichiarazioni contro se stesso il codice appresta una apposita regolamentazione: entra il gioco la norma sulla dichiarazioni indizianti rese davanti ad una autorità giudiziaria da una persona che non sia imputata o indagata, in base alla quale il giudice deve:

- in primo luogo interrompere l’esame - in secondo luogo avvertire il soggetto che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte

indagini nei suoi confronti - invitare il soggetto a nominare un difensore

Il testimone prossimo congiunto dell’imputato I prossimi congiunti dell’imputato non possono essere obbligati a deporre come testimoni. Sono prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; fra i prossimi congiunti non si comprendono gli affini allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole; sono assimilati ai prossimi congiunti:

- colui che è legato all’imputato da vincoli di adozione - chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso - il coniuge separato dell’imputato - la persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione

degli effetti civili del matrimonio contratto con l’imputato Il codice di procedura penale impone che il testimone prossimo congiunto dell’imputato sia avvisato dal giudice della facoltà di astenersi dal rendere la deposizione. Se l’avviso è omesso, la dichiarazione resa è affetta da nullità relativa e l’eventuale reato di falsa testimonianza non è punibile. Nel caso in cui il prossimo congiunto decida di non astenersi e, quindi, deponga come testimone, egli va incontro all’obbligo di verità e non può più rifiutarsi di rispondere alle singole domande. Da precisare che i prossimi congiunti e i soggetti equiparati non possono astenersi e quindi sono obbligati a deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi od un loro prossimo congiunto sono offesi dal reato.

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La violazione degli obblighi del testimone Prima che inizi l’esame incrociato, il giudice avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale; il testimone legge la formula con la quale si impegna a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua conoscenza; dopodiché è invitato a fornire le sue generalità e ha quindi inizio l’esame incrociato. Quando appare che il testimone violi l’obbligo di rispondere secondo verità (rende dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite), solo il giudice può rivolgergli l’ammonimento a rispettare l’obbligo di dire il vero (le parti non possono ammonire il testimone, ma possono sollecitare il giudice ad esercitare tale potere); ove il p.m. non prenda un’immediata iniziativa (cioè non chieda subito copia del verbale d’udienza) il giudice potrà attivarsi soltanto alla fine del dibattimento; in particolare con la decisione che definisce la fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio, il giudice, se ravvisa indizi del reato di falsa testimonianza, ne informa il p.m. trasmettendogli i relativi atti. Quando il testimone rifiuta di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, il giudice provvede ad avvertirlo sull’obbligo di deporre secondo verità; se il testimone persiste nel rifiuto, il giudice dispone l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge. Il segreto professionale Alcuni testimoni con determinate qualifiche di tipo privatistico hanno la facoltà di non rispondere a determinate domande quando la risposta comporti la violazione dell’obbligo del segreto professionale; tali soggetti sono i c.d. “professionisti qualificati” espressamente indicati dall’articolo 200: il professionista “qualificato” può rifiutarsi di rispondere alla singola domanda che lo induca a narrare un fatto segreto appreso per ragione del proprio ministero, ufficio o professione. Possono opporre il segreto professionale, quando sono sentiti in qualità di testimoni:

a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai; c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre

determinata dal segreto professionale (cioè accaduto in relazione ai consulenti del lavoro, ai dipendenti dei servizi pubblici o privati convenzionati che si occupano del recupero dei tossico dipendenti, ai dottori commercialisti, ai ragionieri e periti commerciali, agli assistenti sociali iscritti all’albo professionale.

Il segreto professionale è poi esteso ai giornalisti, con alcuni limiti: - esso può essere mantenuto relativamente ai nomi delle persone dalle quali è stata appresa una notizia di carattere fiduciario

nell’esercizio della professione; - possono opporre questo segreto solo i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale; - il giornalista è comunque obbligato ad indicare al giudice la fonte delle sue informazioni quando le notizie sono

indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia.

Il professionista comune (non rientrante nelle categorie indicate nel 200) ha l’obbligo di deporre nel processo penale anche se al di fuori di questo è tenuto al segreto professionale; egli è penalmente tenuto a non rivelare senza giusta causa i segreti dei quali è venuto a conoscenza per ragione della propria professione, arte, stato od ufficio quando ciò possa nuocere al cliente, ma deve rispondere secondo verità quando è sentito come testimone nel processo penale (giusta causa). Per “segreto” si intende una notizia che non deve essere portata alla altrui conoscenza e che, pertanto, non è già di per sé notoria.

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Il segreto d’ufficio e di Stato Il segreto d’ufficio vincola il pubblico ufficiale e l’incaricato di un pubblico servizio e mantenere il segreto su alcune specie di notizie che concernono lo svolgimento del servizio pubblico; ad essi è imposto di non rispondere alle domande sui fatti coperti dal segreto, ma l’obbligo di astenersi viene meno quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio hanno l’obbligo di riferire all’autorità la notizia di reato (e cioè in sostanza quando hanno l’obbligo di denuncia); quindi tali soggetti non possono mantenere segreti sui quei fatti che concernono reati. Se il testimone (pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio) oppone il segreto d’ufficio, il giudice valuta se tale eccezione è fondata e ove non lo sia ordina al testimone di deporre. Una particolare specie di segreto d’ufficio è il segreto di Stato, che copre gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno alla integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato; i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato. Quando la persone che ha una delle predette qualifiche e che è sentita in qualità di testimone oppone l’esistenza del segreto di stato, l’autorità giudiziaria procedente (p.m. o giudice) ha due obblighi:

- deve informare il presidente del consiglio dei ministri, chiedendo l’eventuale conferma del segreto - deve sospendere ogni iniziativa volta ad acquisire la notizia oggetto del segreto

Se entro 30 giorni dalla notificazione della richiesta il presidente del consiglio dei ministri non da una conferma del segreto l’autorità giudiziaria acquisisce la notizia e provvede per l’ulteriore corso del procedimento; viceversa l’opposizione del segreto di Stato confermata con atto motivato dal presidente del consiglio dei ministri inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto di Stato e se la prova è essenziale per la definizione del processo, il giudice deve dichiarare di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato. Un’altra specie di segreto il segreto di polizia che consente di non rivelare i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza (ma tutto quello che si afferma di aver “sentito dire” da loro non può essere acquisito né utilizzato, se non quando l’informatore sia stato esaminato). L’ESAME DELLE PARTI È denominato esame delle parti il mezzo di prova mediante il quale le parti private possono contribuire all’accertamento dei fatti nel processo penale. Alcune norme del codice forniscono una regolamentazione generale dell’esame delle parti; possono definirsi “generali” le seguenti regole:

a) il dichiarante non ha l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità, né di essere completo nel narrare i fatti; inoltre egli ha la facoltà di non rispondere alle domande;

b) le dichiarazioni sono rese secondo le norme sull’esame incrociato; pertanto le domande sono formulate di regola dal p.m. e dai difensori delle parti private nell’ordine indicato nel 503.1 (parte civile, responsabile civile, persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e imputato);

c) le domande devono riguardare i fatti oggetto di prova. Altre norme del codice riguardano specificatamente determinati soggetti, per cui l’esame delle parti è sottoposto a regimi giuridici diversi in ragione della persona che rilascia la dichiarazione:

- il primo regime giuridico riguarda l’esame dell’imputato nel proprio procedimento - il secondo regime giuridico riguarda le parti private diverse dall’imputato - il terzo regime giuridico riguarda gli imputati in procedimenti connessi o collegati

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L’esame dell’imputato L’esame dell’imputato nel proprio procedimento ha luogo solo su richiesta o consenso dell’interessato; il mancato consenso non può essere valutato dal giudice in senso negativo per l’imputato. L’imputato che ha chiesto l’esame (o vi ha consentito) non è vincolato all’obbligo di rispondere secondo verità (infatti egli non è testimone); l’imputato può dire il falso senza incorrere in conseguenze penali finché è coperto dalla causa di non punibilità prevista dal 384.1 c.p.; viceversa, è punibile se incolpa di un reato un’altra persona, sapendola innocente (368 c.p.: Calunnia) o se afferma falsamente essere avvenuto un reato che nessuno ha commesso (367 c.p.: Simulazione di reato); tuttavia il dire il falso può provocare delle conseguenze dal punto di vista processuale: se durante l’esame incrociato o successivamente risulta che l’imputato ha mentito, da quel momento egli può essere ritenuto non credibile. Nel corso dell’esame l’imputato può rifiutarsi di rispondere ad una qualsiasi domanda (e cioè, su di un fatto proprio o altrui); del suo silenzio deve essere fatta menzione nel verbale. L’imputato ha il privilegio di poter affermare di aver “sentito dire” qualcosa, senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità poste dal 195 (Testimonianza indiretta); infatti egli può non indicare la fonte (persona o documento) da cui ha appreso l’esistenza di un fatto. L’esame delle parti private diverse dall’imputato L’esame del responsabile civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria e della parte civile che non debba essere esaminata come testimone si svolge con regole identiche a quelle che valgono per l’imputato, salvo un particolare: se le parti private diverse dall’imputato affermano di aver “sentito dire”, valgono le ordinarie condizioni di utilizzabilità previste dal 195. Occorre sottolineare che la parte civile, quando è chiamata a testimoniare, è obbligata a deporre in tale qualità e non come parte privata; di conseguenza, assume l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. L’esame di persone imputate in procedimenti connessi o collegati Possiamo definire “imputato connesso o collegato” l’imputato di quel procedimento che ha rispetto al procedimento principale un rapporto di connessione (12: Casi di connessione) o di collegamento probatorio (371.2 lett. b) a prescindere dalla circostanza che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati. L’esame dell’imputato concorrente nel medesimo reato L’imputato di un procedimento connesso nelle ipotesi di concorso nel medesimo reato e situazioni assimilate (cooperazione colposa o unico evento causato da condotte indipendenti), che d’ora in poi chiameremo “imputato concorrente”, è incompatibile con la qualifica di testimone fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. In linea generale l’imputato concorrente gode delle stesse garanzie riconosciute all’imputato principale. Tuttavia egli è chiamato a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui e sotto questo profilo l’imputato concorrente viene assimilato al testimone perché ha l’obbligo di presentarsi; quindi l’imputato del procedimento connesso è sottoposto all’esame senza che sia necessario il suo consenso (ciò che conta è che il suo esame sia stato richiesto da una delle parti del procedimento principale o, nei casi previsti dalla legge, sia stato disposto d’ufficio dal giudice). Nel caso in cui l’imputato del procedimento connesso non si presenti il giudice ne ordina l’accompagnamento coattivo a mezzo della forza pubblica.

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Per tutto il resto l’imputato concorrente è assimilato alla figura base dell’imputato: - ha la facoltà di non rispondere; l’imputato concorrente è avvisato che ha la facoltà di non

rispondere, salvo che si tratti di una domanda sulla sua identità personale; da sottolineare che l’imputato concorrente può tacere anche se la domanda non è suscettibile di assumere un significato autoincriminante

- se decide di rispondere, non ha l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità (restano punibili solo la calunnia e la simulazione di reato)

- è obbligatoriamente assistito da un difensore. L’esame dell’imputato connesso teleologicamente o collegato Gli imputati connessi teleologicamente o collegati che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato sono avvisati che hanno la facoltà di non rispondere e sono altresì avvertiti che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno la qualifica di teste limitatamente a tali fatti (tali soggetti, se hanno reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, possono essere chiamati a deporre come testimoni assistiti). L’imputato connesso teleologicamente o collegato ha facoltà di tacere e, se parla, non ha obbligo di verità. Tuttavia, se rende dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altro imputato (collegato o connesso teleologicamente), da quel momento egli diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito limitatamente ai fatti dichiarati e deve rispondere su di essi con obbligo di verità. Stante la vaghezza del concetto di “fatti concernenti la responsabilità altrui”, in concreto il discrimine tra l’area degli obblighi testimoniali e l’area coperta dai privilegi riconosciuti dall’articolo 210 deve essere individuato dal giudice di volta in volta. L’obbligo di riscontro Il codice pone un obbligo di riscontro come condizione per valutare le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato, dall’imputato di un procedimento connesso teleologicamente o collegato e dal testimone assistito; il codice di esprime in questo modo “le dichiarazioni…sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”; quindi non occorre che gli elementi di prova siano tali da permettere di provare da soli il fatti affermato, ma è sufficiente che gli altri elementi di prova siano tali da permettere semplicemente di affermare l’attendibilità del dichiarante. Da sottolineare che il codice pone questo obbligo di riscontro senza pero eliminare in alcun modo il libero convincimento del giudice; infatti non afferma che se il riscontro ha esito positivo, il fatto affermato deve ritenersi vero. Il codice precisa che il riscontro deve avere ad oggetto altri elementi di prova; da ciò si ricava ch’egli elementi devono essere esterni o estrinseci rispetto alla dichiarazione stessa; tuttavia la giurisprudenza ha ragionato in questo modo: se si è imposto il più (cioè il riscontro esterno o estrinseco), si è dato per scontato che debba essere fatto il meno (riscontro interno o intrinseco alla medesima dichiarazione); quindi in primo luogo la dichiarazione deve essere valutata al sua interno al fine di valutare se essa è precisa, coerente in se stessa, costante e spontanea. La testimonianza assistita Quando è sentito eccezionalmente in qualità di testimone, l’imputato è assistito obbligatoriamente dal proprio difensore di fiducia (o d’ufficio) in ragione del collegamento tra il reato, che gli è addebitato, e quello che è oggetto del procedimento nel quale è chiamato a deporre. Il legislatore ha introdotto due categorie di testimonianza assistita:

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1) La testimonianza assistita dell’imputato giudicato, che scatta dopo che è concluso con sentenza irrevocabile (di proscioglimento di condanna o di patteggiamento) il procedimento a carico dell’imputato collegato o connesso di qualsiasi tipo: l’imputato giudicato può essere “sempre” chiamato come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui o non ha ricevuto l’avviso previsto dal 64.3 lett. c). L’imputato connesso o collegato giudicato è testimone “permanete”, in quanto l’obbligo di rispondere secondo verità non è limitato al fatto altrui su cui ha già reso dichiarazioni ed egli potrà essere esaminato anche su fatti ulteriori rispetto a quelli già dichiarati ed anche sul fatto proprio. Nel corso della deposizione egli gode del normale privilegio contro l’autoincriminazione, in relazione ad ulteriori reati che abbia commesso. Viceversa, il testimone assistito “giudicato” di regola non gode di alcun privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto proprio coperto dalla sentenza irrevocabile, a meno che nel procedimento originario abbia negato la propria responsabilità o non abbia reso alcuna dichiarazione.

A seguito della sentenza 381/2006 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionali i commi 3 e 6 dell’articolo 197 – bis, l’imputato, assolto con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto deve essere esaminato quale testimone senza l’assistenza di un difensore e senza che sia indispensabile acquisire un riscontro esterno.

2) La testimonianza assistita dell’imputato prima della sentenza irrevocabile, che opera quando non è ancora concluso con sentenza irrevocabile il procedimento a carico dell’imputato collegato o connesso teleologicamente: affinché scatti l’obbligo di deporre come testimone è necessario: - in primo luogo che l’imputato sia stato ritualmente avvisato che se renderà dichiarazioni su fatti

che concernono la responsabilità di altri, assumerà l’ufficio di testimone; - in secondo luogo, una volta avvertito, l’imputato collegato o connesso teleologicamente deve

aver reso dichiarazioni su un fatto altrui. L’imputato collegato o connesso teleologicamente prende l’impegnativa di deporre secondo verità, sia pure limitatamente al fatto altrui già dichiarato; per fatto altrui si deve intendere un fatto che concerne la responsabilità di altri per un reato connesso teleologicamente o collegato con quello addebitato al dichiarante. Anche qui il testimone assistito può non rispondere sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede; ma poiché l’obbligo testimoniale è limitato ai fatto altrui già dichiarati, l’unico caso in cui l’escussione del teste assistito può inerire la propria responsabilità è l’ipotesi in cui la precedenti dichiarazioni vertano su fatti inscindibili; quindi quando i fatti sono inscindibili, la facoltà di non rispondere si estende inevitabilmente anche al fatto altrui, ma se il teste assistito decide di rispondere, egli ha un obbligo penalmente sanzionato di dire la verità (in sostanza perde la facoltà di mentire).

Disposizioni comuni alle due ipotesi:

- Le dichiarazioni dei teste assistiti sono utilizzabili solo in presenza di riscontri che ne confermino l’attendibilità (gli imputati connessi o collegati sono ritenuti poco affidabili).

- Le dichiarazioni rese da coloro che depongono come testimoni assistiti non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto o ggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette.

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La deposizione degli indagati connessi o collegati oggetto archiviazione o di non luogo a procedere Gli imputati concorrenti, gli imputati in procedimenti legati di una connessione debole e gli imputati in procedimenti probatoriamente collegati possono deporre come testimoni quando nei loro confronti è stata emessa sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento; tale norma non menziona né l’archiviazione né la sentenza di non luogo a procedere, quindi per quagli indagati nei confronti dei quali sia stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o di non luogo a procedere per un reato connesso o collegato a quello per cui si procede valgono le regole generali sulla prova dichiarativa; ne deriva che:

- gli imputati connessi per concorso nel medesimo reato, che siano stati oggetto di archiviazione o sentenza di non luogo a procedere sono radicalmente incompatibili con la qualifica di teste e sono esaminati ai sensi dell’articolo 210 comma I

- gli indagati collegati o connessi teleologici, che siano stati oggetto di archiviazioni o sentenza di non luogo a procedere, sono sentiti come testimoni assistiti se hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui precedute da rituale avvertimento; in caso contrario essi sono esaminati ai sensi dell’articolo 210 comma I

CONFRONTI, RICOGNIZIONI ED ESPERIMENTI GIUDIZIALI Questi mezzi di prova hanno una caratteristica comune: nella fase di assunzione esiste un vero e proprio potere di direzione spettante al giudice e rispetto a tali atti le parti hanno un ruolo marginale 8si limitano a controllare che l’atto si svolga in modo regolare, in particolare non possono procedere ad esame incrociato nello svolgimento del singolo atto. Il CONFRONTO consiste nell’esame congiunto di due persone (testimoni o parti) che siano già state esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo tra di esse su fatti e circostanze importanti; per poter ammettere questo mezzo di prova devono sussistere quindi due presupposti:

- esistenza di un disaccordo tra due o più persone su fatti e circostanze importanti - che le persone da mettere a confronto siano già state esaminate o interrogate; protagonisti quindi

possono essere sia imputati (o indagati), sia testimoni, sia altre parti private e il confronto può realizzarsi fra soggetti in posizione processuale omogenea o eterogenea

Momento in cui può essere disposto il confronto: nella fase delle indagini preliminari, quando si siano già raccolte dichiarazioni; in udienza preliminare; in dibattimento; in appello; nel giudizio di rinvio; nel giudizio di revisione Il confronto di regola è richiesto dalle parti ma in dibattimento può anche essere disposto dal giudice. I caratteri della pertinenza e della rilevanza sono legati ai presupposti di ammissibilità:

- il confronto non è manifestamente irrilevante quando vi è un disaccordo fra dichiaranti - il confronto è pertinente quando il disaccordo verte su fatti e circostanze importanti, e cioè oggetto

di prova ai sensi dell’articolo 187 Modalità di svolgimento: il giudice richiama ai soggetti le precedenti dichiarazioni discordanti e chiede se le confermano; ove il disaccordo persista li invita a contestare reciprocamente le dichiarazioni contrastanti. Tutto ciò che avviene durante il confronto deve essere verbalizzato, in particolare deve anche essere annotato il contegno dei partecipanti. La RICOGNIZIONE è il mezzo di prova mediante il quale ad una persona che abbia percepito coi propri sensi una persona o una cosa si chiede di riconoscerla individuandola tra altre simili. L’atto può essere compiuto nel corso del dibattimento o nell’incidente probatorio e si svolge nel rispetto del contraddittorio.

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Accertamenti sull’attendibilità : il giudice invita chi deve eseguire la ricognizione (c.d. ricognitore) a descrivere la persona indicando tutti i particolari che ricorda; gli chiede poi:

a) se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento b) se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti,

la persona da riconoscere c) se la stessa gli sia stata indicata o descritta d) se vi siano altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento

Nel verbale deve essere fatta menzione degli adempimenti previsti e delle dichiarazioni rese, il tutto a pena di nullità della ricognizione. La predispostone della scena: Allontanato colui che deve eseguire la ricognizione, il giudice procura la presenza di almeno due persone (c.d. distrattori) il più possibile somiglianti, anche nell’abbigliamento, a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre, curando che si presenti, sin dove è possibile, nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata alla ricognizione. Il tentativo di riconoscimento: Nuovamente introdotta la persona chiamata alla ricognizione, il giudice le chiede se riconosca taluno dei presenti e, in caso affermativo, la invita a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certa. Se vi è fondata ragione di ritenere che la persona chiamata alla ricognizione possa subire intimidazione o altra influenza dalla presenza di quella sottoposta a ricognizione il giudice dispone che l’atto sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima. Quando occorre procedere alla ricognizione del corpo del reato o di altre cose pertinenti al reato, si osservano modalità analoghe a quelle esposte (per cui il giudice dispone che siano procurati almeno due oggetti simili a quello da riconoscere) L’ ESPERIMENTO GIUDIZIALE è ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo. L’esperimento consiste nella riproduzione, per quanto è possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso; ovviamente il fatto storico di reato è irripetibile: scopo dell’esperimento è quello di valutare la verosimiglianza della ricostruzione dello stesso riproducendone le modalità di svolgimento. Questo mezzo di prova può essere disposto in dibattimento, ma può essere condotto anche durante le indagini preliminari con lo strumento dell’incidente probatorio, quando debba svolgersi su di una cosa o un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile. Il giudice dirige lo svolgimento delle operazioni; può anche d’ufficio designare un esperto per l’esecuzione di quelle tra esse che richiedono specifiche conoscenze. L’attendibilità dell’esperimento è subordinata alla possibilità di riprodurre esattamente e a posteriori tutte le condizioni nelle quali si afferma essere avvenuto il fatto da ricostruire e che abbiano ragionevolmente influito sulla dinamica dello stesso; l’impossibilità di riprodurre fedelmente siffatte condizioni potrebbe costituire il limite naturale dell’esperimento. Tuttavia oggi è possibile ricostruire un fatto naturale mediante computer nella realtà virtuale sulla base delle prove raccolte (computer generated evidence); l’animazione sostituisce la rappresentazione vivente del fatto da provare e permette di simulare la successione degli accadimenti secondo le medesime regole fisiche che governano il mondo reale. Tale strumento può essere comunque ammesso solo se sussistono le condizioni richieste per l’assunzione della prova atipica; infatti occorre garantire che siano controllate in contraddittorio:

- l’accuratezza e completezza dei dati reali raccolti - l’affidabilità dell’hardware e del software utilizzati - la qualificazione professionale dell’operatore che inserisce i dati e li elabora

Inoltre il giudice deve determinare sentire le parti quali modalità di assunzione siano adatte.

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LA PROVA SCIENTIFICA Il diritto alla prove scientifica : il concetto di diritto di difesa, ricavabile dalla Costituzione, deve essere ampliato: oggi si accetta una concezione post-positivistica secondo la quale la scienza non rappresenta più una verità inconfutabile, essendo essa limitata, incompleta e fallibile; di conseguenza il diritto di difesa si deve estendere a quel particolare tipo di prova che è la prova scientifica (non pio essere accettata la tesi secondo cui il contraddittorio per la ricerca e l’acquisizione della prova opera soltanto in razione alla prova orale e dichiarativa) e le parti devono potersi avvalere di esperti che si trovino in condizioni di parità con il perito.

le parti (p.m., indagato/imputato e offeso/parte civile) possono: - nel corso delle indagini preliminari e in dibattimento richiedere al giudice la nomina di un

perito e designare i propri consulenti tecnici all’interno della perizia; in dibattimento il giudice può procedere alla nomina di un perito anche d’ufficio, mentre nella fase delle indagini preliminari il giudice non ha poteri di iniziativa probatoria d’ufficio e non può quindi nominare un perito senza richiesta di parte

- fin dalle indagini preliminari direttamente nominare un consulente tecnico di parte al fine di svolgere indagini al di fuori della perizia e anche se non è stata disposta la perizia; egli sarà poi sentito in dibattimento con lo strumento dell’esame incrociato; quindi la consulenza tecnica di parte è oggi un vero e proprio mezzo di prova

L’ammissione della prova scientifica. Il legislatore non fornisce al giudice un criterio espresso che indichi quando una prova è scientifica e, di conseguenza, quando questa può essere introdotta nel processo; in altre parole il codice non indica al giudice il criterio per valutare in positivo o in negativo la scientificità di un metodo proposto da un tecnico nominato dal giudice medesimo o da una parte. Il vuoto dell’articolo 220 è stato tradizionalmente colmato con il criterio del “consenso della comunità scientifica”; ma questo criterio pone dei problemi quando si tratta di ammettere un medito nuovo sul quale ancora non si è formata una generale accettazione da parte della comunità scientifica. Nella giurisprudenza americana il criterio tradizionale è stato superato nel 1993 dalla sentenza Daubert, in cui sono stati elaborati i criteri sulla base dei quali il giudice deve valutare quando un determinato metodo scientifico costituisce o meno una conoscenza scientifica; la sentenza indica questi criteri di affidabilità:

1) verificabilità del metodo: una teoria è scientifica se può essere controllata mediante esperimenti 2) falsificabilità: la teoria scientifica deve essere stata sottoposta a tentativi di falsificazione i quali, se

hanno avuto esito negativo, la confermano nella sua credibilità 3) sottoposizione al controllo della comunità scientifica: il metodo deve essere stato reso noto in riviste

specializzate in modo dal essere controllato dalla comunità scientifica 4) conoscenza del tasso di errore: occorre che al giudice sia resa nota la percentuale di errore accertato

o potenziale 5) generale accettazione: il giudice deve tener conto, come criterio ausiliario e non indispensabile, se il

metodo proposto doge di una generale accettazione nella comunità di esperti Un orientamento dottrinale propone di colmare la lacuna del nostro ordinamento mediante lo strumento dell’integrazione analogica: ci sarebbe identità di ratio tra il mezzo di prova atipico e il nuovo metodo scientifico per cui i nuovi metodi scientifici devono essere ammessi dal giudice sulla base dei criteri dell’articolo 189; di essi il primo (idoneità del mezzo di prova ad assicurare l’accertamento del fatto) è cosi generale che può essere integrato dai criteri elaborati dalla sentenza Daubert; sono stati quindi proposti questi criteri, che il giudice deve valutare quando ammette il mezzo di prova scientifico:

- se il metodo è in astratto valido per ottenere un elemento utile - se il metodo in concreto è idoneo a ricostruire il fatto da provare - se il metodo è controllabile nei momento dell’assunzione e valutazione - se l’esperto è qualificato - se lo strumento è comprensibile, perché il giudice e le parti devono poterlo dominare

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LA PERIZIA La perizia è un mezzo di prova finalizzato ad integrare le conoscenze del giudice con quelle di un esperto; essa è infatti disposta quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche; sono quindi tre le sue funzioni:

1) svolgere indagini per acquisire dati probatori 2) acquisire dati probatori selezionandoli e interpretandoli 3) acquisire valutazioni sui dati assunti

La perizia non è l’unico strumento che permette di raggiungere le finalità indicate: esiste anche la consulenza tecnica di parte entro e fuori dei casi di perizia: sia il p.m. sia le parti private possono avvalersi dell’opera di esperti fin dalla fase delle indagini preliminari. Quindi il giudice si trova di fronte ad una alternativa:

- utilizzare le valutazioni operate da un consulente tecnico di parte ovvero - disporre una perizia.

La perizia si caratterizza per essere un mezzo di prova particolarmente garantito: sin dalla fase del conferimento dell’incarico si instaura un contraddittorio tra il perito ed i consulenti delle parti, i quali possono assistere alle operazioni ed avanzare osservazioni e richieste (tuttavia ogni potere decisionale e valutativo compete unicamente al perito) L’ammissione della perizia Di regola la perizia è disposta a richiesta di parte; può essere però disposta d’ufficio nel dibattimento. Durante le indagini preliminari la perizia può essere svolta nella forma dell’incidente probatorio e quindi soltanto a richiesta di parte (p.m. o indagato); essa è disposta dal giudice per le indagini preliminari:

- quando la persona, le cose o i luoghi da esaminare sono soggetti a modificazione non evitabile - quando si prevede che la perizia durerà più di sessanta giorni - quando l’accertamento tecnico determina esso stesso modificazioni delle cose o delle persone tali da

rendere l’atto non ripetibile La scelta del perito Il giudice sceglie il perito in base a precisi vincoli: tra gli iscritti negli appositi albi o (al di fuori di tali albi) tra persone fornite di particolare competenza (sulla quale dovrà dare congrua motivazione). Sono previste situazioni di incompatibilità, simili a quelle previste per il giudice; in particolare non può prestare ufficio di perito, a pena di nullità:

- il minorenne, l'interdetto, l'inabilitato e chi è affetto da infermità di mente; - chi è interdetto anche temporaneamente dai pubblici uffici ovvero è interdetto o sospeso dall'esercizio di una

professione o di un'arte; - chi è sottoposto a misure di sicurezza personali o a misure di prevenzione; - chi non può essere assunto come testimone o ha facoltà di astenersi dal testimoniare o chi è chiamato a prestare

ufficio di testimone o di interprete; - chi è stato nominato consulente tecnico nello stesso procedimento o in un procedimento connesso.

Il perito ha l’obbligo di prestare il suo ufficio, salvo che sussista una dei motivi di astensione dell’art. 36. Il conferimento dell’incarico Il perito deve presentarsi in udienza ed impegnarsi ad adempiere al proprio ufficio secondo verità; la formulazione dei quesiti spetta al giudice, ma con la più ampia garanzia del contraddittorio: il giudice sentite le parti presenti (il perito, le parti e i loro consulenti tecnici) formula i quesiti. Da questo momento i consulenti possono assistere allo svolgimento della perizia, presentare al giudice osservazioni e riserve e, infine, proporre specifiche indagini.

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L’attività del perito Una volta che il giudice ha precisato i quesiti il perito gode di propri poteri di direzione e di impulso; tuttavia egli resta sotto il controllo del giudice sia nel momento in cui prende contatto con il materiale probatorio, sia quando occorre risolvere questioni relative ai propri poteri; in particolare:

- il perito può prendere visione del materiale probatorio, ma può conoscere solo gli atti acquisibili al fascicolo per il dibattimento (viceversa il consulente di parte può leggere gli atti del fascicolo del p.m.)

- il giudice può autorizzare il perito ad assistere all’esame delle parti o all’assunzione di prove - il perito può chiedere notizie all’imputato, all’offeso e ad altre persone informate, con il limite che

gli elementi acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell’accertamento peritale - il giudice ha il potere di adottare tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per

l’esecuzione delle operazioni peritali La relazione peritale Il prodotto finale di questo particolare mezzo di prova è la relazione che il perito (di regola) svolge oralmente ovvero (eccezionalmente, su autorizzazione del giudice) formula per iscritto; dopo aver svolto la relazione orale ovvero dopo aver presentato la relazione scritta, il perito è sottoposto all’esame incrociato su richiesta di parte. Al pari di quanto avviene per gli altri mezzi di prova, il giudice non è vincolato dalla perizia: può disattenderne le conclusioni dando adeguata motivazione del proprio dissenso. Il divieto di perizia criminologica Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche; in definitiva sono ammesse sull’imputato soltanto quelle perizie che tendono ad accertare una malattia mentale. Il divieto di accertamento corporale coattivo Alla sentenza 238/1996 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 224 comma II nella parte in cui la disposizione non prevede i casi e i modi nel quali il giudice può ordinare coattivamente misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’imputato o dell’indagato o di terzi idonee a consentire lo svolgimento della perizia, non ha avuto seguito un intervento legislativo in tal senso. Di conseguenza oggi, nonostante che l’esigenza di acquisire una prova di un reato costituisca un valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità, il prelievo ematico può essere disposto soltanto su consenso dell’interessato. In base alla sentenza l’accertamento corporale può essere disposto in modo coattivo soltanto in presenza di alcuni requisiti di forma e di sostanza:

- dal punto di vista formale occorre che la legge indichi i casi ed i modi dell’accertamento (riserva di legge c.d. rinforzata) ed è necessario che un giudice autorizzi l’accertamento stesso (riserva di giurisdizione)

- dal punto di vista sostanziale l’accertamento non deve violare la dignità della persona umana né porre in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute dell’interessato

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IL CONSULENTE TECNICO DI PARTE Le parti possono nominare consulenti tecnici:

- in relazione ad una perizia già disposta (articolo 225); disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti private hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti; i consulenti tecnici possono assistere al conferimento dell'incarico al perito e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve, delle quali è fatta menzione nel verbale; possono poi partecipare alle operazioni peritali, proponendo al perito specifiche indagini e formulando osservazioni e riserve, delle quali deve darsi atto nella relazione.

- per contrastare il risultato di una perizia già svolta; se sono nominati dopo l'esaurimento delle

operazioni peritali, i consulenti tecnici possono esaminare le relazioni e richiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa e il luogo oggetto della perizia.

- al di fuori della perizia (articolo 233)

L’oggetto della consulenza tecnica di parte è identico a quella della perizia: svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche Sono richiamate le incompatibilità previste per il perito. Il perito svolge indagini ed acquisisce risultati probatori per conto del giudice; gli esiti delle operazioni tecniche sono destinati a confluire direttamente nel fascicolo per il dibattimento e sono utilizzabili nella decisione finale. Il consulente di parte propone valutazioni tecniche, che si traducono in un parere esposto oralmente o in memorie. Identico è lo strumento col quale il perito ed il consulente tecnico sono sentiti in dibattimento: essi sono sottoposti all’esame incrociato, che si svolge in forme simili a quelle con le quali è escusso il testimone. A differenza del perito, che assume l’obbligo penalmente sanzionato di far conoscere la verità, nessun obbligo del genere è previsto dal codice per il consulente di parte. Il consulente tecnico della parte privata e il consulente tecnico del p.m. fuori dalla perizia Il codice detta una regolamentazione unitaria della consulenza di parte al di fuori della perizia (cioè quando il giudice non ha disposto la perizia), alla quale sfugge soltanto il consulente del p.m. limitatamente alla fase delle indagini preliminari. Il consulente nominato da una parte provata può:

- svolgere investigazioni difensive per riconoscere ed individuare elementi di prova; - conferire con le persone che possono dare informazioni; - visionare, previa autorizzazione, il materiale che l’autorità giudiziaria ha posto sotto sequestro

Di regola gli elementi di prova, che siano stati raccolti, possono essere prodotti o meno dalla parte privata in dibattimento; essi devono necessariamente esser prodotti ed entrano a far parte del fascicolo per il dibattimento qualora si tratti di accertamenti tecnici non ripetibili. Circa il consulente tecnico del p.m., la differenza rispetto a quello di parte sta nell’interesse che muove l’attività del p.m.: l’obbligo spettante al p.m. di svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato deve intendersi riferito al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica. Poi nella sola fase delle indagini preliminari il p.m. può nominare consulenti tecnici in base ad una normativa che costituisce una specificazione del 233. I risultati delle consulenze devono essere inseriti nel fascicolo delle indagini.

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LA PROVA DOCUMENTALE La definizione di documento Il codice non contiene una definizione espressa di “documento”, ma fornisce due requisiti:

- requisito positivo: perché vi sia un documento è sufficiente in alternativa che si tratti di uno “scritto” o di un oggetto comunque “idoneo a rappresentare” un fatto, una persona o una cosa; non è rilevante l’operazione mediante la quale la rappresentazione è incorporata e che quindi può essere “la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”

- requisito negativo: l’oggetto rappresentato deve essere un atto compiuto “fuori” dal procedimento nel quale si chiede o si dispone che il documento faccia ingresso: infatti, se l’oggetto rappresentato è un atto del medesimo procedimento, il codice non utilizza il termine “documento”, bensì il termine “documentazione”. Per “atto del procedimento” si intende comunemente quell’atto che persegue le finalità del procedimento e che è compiuto da uno dei soggetti legittimati.

Dal codice può comunque ricavarsi una definizione: può essere definito documento quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico o digitale; quindi il concetto di documento comprende quattro elementi:

1) il fatto rappresentato; nel concetto di fatto rappresentato devono essere ricompresi sia i “fatti persone o cose”, sia i contenuti che sono espressi nelle dichiarazioni di scienza o di volontà; quindi il fatto rappresentato è tutto ciò che può essere oggetto di prova

2) la rappresentazione; essa è la riproduzione di un fatto; le modalità possono essere le più varie (parole, immagini suoni ecc.)

3) l’incorporamento; esso è l’operazione mediante la quale la rappresentazione è fissata su di una base materiale; il codice prevede le forme più varie di incorporamento (scrittura, fotografia, cinematografia, fonografia o qualsiasi altro mezzo); visti i progressi della tecnica possiamo affermare che oggi i metodi di incorporamento sono due: analogico e digitale

4) la base materiale; essa può essere la più varia: è sufficiente la idoneità a conservare la rappresentazione al fine di riprodurla quando occorra

Il documento anonimo La prova documentale può esser valutata dal giudice nella sua attendibilità quando è noto l’autore del documento, il quale viene chiamato a deporre al fine di valutare la sua credibilità; un tale accertamento non è possibile quando l’autore del documento è ignoto; ma il codice fa una distinzione:

- documento anonimo contenente una dichiarazione: il codice prevede la sanzione dell’inutilizzabilità - documento anonimo contenente una rappresentazione diversa dalla dichiarazione: il codice non dà

alcuna regolamentazione; poiché vale la regola generale del libero convincimento del giudice, da cui deriva che le ipotesi di inutilizzabilità di elementi di prova devono essere previste espressamente, i documenti anonimi che siano diversi dalle dichiarazioni possono essere utilizzati dal giudice.

Sono però previste due eccezioni al divieto di utilizzare il documento anonimo contenente dichiarazioni:

1) sono utilizzabili le dichiarazioni che costituiscono corpo del reato, cioè le dichiarazioni mediante le quali o sulla quelli è stato commesso il reato oppure le dichiarazioni che ne costituiscono “il prodotto, il profitto o il prezzo”

2) sono utilizzabili le dichiarazioni che provengono comunque dall’imputato, nel senso di dichiarazioni che sono presentate (“prodotte”) dall’imputato; ovviamente il valore probatorio sarà limitato poiché sarà difficile dimostrare l’attendibilità della dichiarazione

Verifica della provenienza: l’autore della rappresentazione può essere identificato attraverso:

- riconoscimento espresso; il documento cessa di essere anonimo quando il suo autore ne riconosce la paternità; in particolare il documento (che sia anonimo) può essere sottoposto alle parti private o ai testimoni se occorre verificarne la provenienza

- un mezzo di prova (es. una perizia) Si porrà ovviamente un problema di credibilità della fonte e di attendibilità della rappresentazione quando si tratti di una dichiarazione non sottoscritta dall’autore con il proprio nome.

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La disciplina di determinati documenti Il codice vieta l’acquisizione di documenti aventi determinati oggetti. La violazione del divieto comporta l’inutilizzabilità dell’elemento di prova che se ne potrebbe ricavare. Documenti dei quali è vietata l’acquisizione: è vietata l’acquisizione di:

- documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti dei quali si tratta nel processo

- documenti concernenti la moralità delle persone che partecipano al processo; sono tuttavia previste delle eccezioni

Documenti dei quali è obbligatoria l’acquisizione: il codice pone l’obbligo di acquisire i documenti che costituiscono corpo del reato qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga; inoltre è consentita l’acquisizione, anche di ufficio, di qualsiasi documento proveniente dall’imputato, anche se sequestrato presso altri o da altri prodotto; tale disposizione trova un limite nel divieto di sequestro in presenza di segreti tutelati dal codice di procedura penale (quale è ad es. il segreto professionale) e nel divieto di sequestrare presso il difensore carte o documenti relativi all’oggetto della difesa e la corrispondenza tra l’imputato ed il proprio difensore. L’uso di atti di altri procedimenti Il codice permette alle parti di ottenere, a determinate condizioni, che siano acquisite le prove e gli atti che sono stati assunti in un altro procedimento penale o civile; in tal caso la “documentazione” delle prove e degli atti viene considerata dal codice come “documento”, poiché è stata assunta in un altro procedimento; essa è valutata dal giudice ad quem in base ai consueti criteri di credibilità e attendibilità. Diritto di esaminare l’aurore delle dichiarazioni: le parti del procedimento ad quem hanno il diritto di ottenere l’esame della persona le cui dichiarazioni sono state acquisite. Vige un regime differente a seconda della ripetibilità o meno nel procedimento ad quem:

• se gli atti assunti nel procedimento a quo non sono ripetibili nel procedimento ad quem, i relativi verbali sono utilizzabili in due ipotesi:

- se si tratta di impossibilità di ripetizione originale; - se si tratta di non ripetibilità sopravvenuta, purché essa sia dovuta a circostanze non

prevedibili nel momento in cui l’atto è stato compiuto. • se gli atti assunti nel procedimento a quo sono ripetibili nel procedimento ad quem:

- i verbali degli atti di indagine o i verbali degli atti assunti in udienza preliminare sono utilizzabili in due ipotesi: 1) se l’imputato del procedimento ad quem vi consente; 2) se la persona che ha reso le dichiarazioni viene esaminata nel procedimento ad quem e

risulta che essa è stata sottoposta a condotta illecita; - i verbali delle dichiarazioni assunte in incidente probatorio o in dibattimento sono utilizzabili

sia nelle due ipotesi appena menzionante (consenso dell’imputato o minaccia sul dichiarante), sia, in assenza di tali condizioni, se il difensore dell’imputato del procedimento ad quem ha partecipato all’assunzione della prova;

Un principio peculiare è stato stabilito in merito alle prove formate in un giudizio civile chiuso con sentenza irrevocabile: se si tratta di dichiarazioni, esse sono utilizzabili contro l’imputato, se nei suoi confronti fa stato la sentenza civile (il giudicato civile fa stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa) Infine si consente che le sentenze irrevocabili possano essere acquisite allo scopo di accertare l’esistenza di fatti oggetto di prova; naturalmente le parti sono ammesse a provare il contrario.

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I documenti illegali Il codice prevede la sanzione dell’inutilizzabilità rafforzata dall’obbligo di distruzione in relazione a due categorie di documenti, che in sintesi possiamo definire spionaggio e dossieraggio illegali: - ciò che definiamo spionaggio illegale è indicato con la seguente espressione: “dati e contenuti di

conversazioni o comunicazioni relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti”; ci si riferisce alle intercettazioni non autorizzate dall’autorità giudiziaria, quindi non rientrano non rientrano in questa definizione quelle intercettazioni che sono disposte dall’autorità giudiziaria e che sono illegittime in quanto compiute al di fuori dei casi previsti dalla legge.

- ciò che definiamo dossieraggio illegale è indicato con la seguente espressione: “documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni”; dall’oggetto della condotta (raccolta di informazioni) si ricava che si tratta del trattamento illecito di dati personali che è punito dagli articoli 167 – 171 del codice della privacy

Il p.m. deve disporre l’immediata decretazione e custodia in luogo protetto dei documenti illegali; è vietato effettuare copie in qualunque forma e in qualunque fase del procedimento. Il p.m. poi entro 48 ore deve chiedere al giudice per le indagini preliminari di disporre la distruzione dei relativi documenti, supporti ed atti; le operazioni di distruzione si svolgono nel contraddittorio tra le parti. Il giudice per le indagini preliminari, entro 48 ore dalla richiesta del p.m. fissa un’udienza in camera di consiglio da tenersi entro dieci giorni con la partecipazione facoltativa delle parti interessate. Sentite le parti comparse, il giudice per le indagini preliminari legge il provvedimento in udienza e, qualora ne ravvisi i presupposti, dispone la distruzione e vi da esecuzione subito dopo alla presenza del p.m. e dei difensori delle parti; nel verbale di distruzione si da atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita, delle sua modalità e dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto delle stesse. La distruzione del corpo del reato: la normativa in esame dispone la distruzione dei materiali illegali senza contemplare alcuna eccezione per il corpo del reato; la distruzione è automatica: una volta accertata l’illegalità, il giudice è obbligato a disporre la distruzione senza alcuna valutazione discrezionale sulla utilità probatoria dei dati contenuti.

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I MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA Il codice denomina mezzi di ricerca della prova:

• le ispezioni • le perquisizioni • i sequestri • le intercettazioni di comunicazioni

Tali atti si distinguono dai mezzi di prova sotto numerosi profili:

- l’elemento probatorio si forma in seguito all’esperimento del mezzo di prova, mentre attraverso il mezzo di ricerca della prova entra nel procedimento un elemento probatorio che preesiste allo svolgersi del mezzo stesso;

- i mezzi di prova possono essere assunti solo davanti al giudice nel dibattimento o nell’incidente probatorio; i mezzi di ricerca della prova possono essere disposti dal giudice, dal p.m. e, in alcune ipotesi, possono essere compiuti dalla polizia giudiziaria;

- i mezzi di ricerca della prova si basano di regola sul fattore “sorpresa” e quindi non consentono il preventivo avviso al difensore dell’indagato quando sono compiuti nella fase delle indagini; mentre i mezzi di prova possono essere assunti durante le indagini preliminari solo con la piena garanzia del contraddittorio mediante l’istituto dell’incidente probatorio

L’ISPEZIONE L’ispezione è disposta dall’autorità giudiziaria con decreto motivato quando occorre accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato; essa consiste nell’osservare e descrivere persone luoghi o cose allo scopo appunto di accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato. L'autorità giudiziaria può disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ogni altra operazione tecnica, anche in relazione a sistemi informatici o telematici, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione. Se il reato non ha lasciato tracce o effetti materiali, o se questi sono scomparsi o sono stati cancellati o dispersi, alterati o rimossi, l'autorità giudiziaria descrive lo stato attuale e, in quanto possibile, verifica quello preesistente, curando anche di individuare modo, tempo e cause delle eventuali modificazioni. Se necessario l’ispezione si svolge con l’impiego di poteri coercitivi: sia il giudice che il p.m. possono chiedere l’intervento della polizia giudiziaria e, se necessario, della forza pubblica. L’ispezione personale Prima di procedere all’ispezione personale l’interessato è avvertito della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, purché questa sia prontamente reperibile e idonea a norma dell’articolo 120. L’ispezione è eseguita nel rispetto della dignità e, nei limiti del possibile, del pudore di chi vi è sottoposto. L’ispezione può essere eseguita anche per mezzo di un medico. In questo caso l’autorità giudiziaria può astenersi dall’assistere alle operazioni. L’ispezione di luoghi o di cose All’imputato e in ogni caso a chi abbia l’attuale disponibilità del luogo in cui è eseguita l’ispezione è consegnata, nell’atto di iniziare le operazioni e sempre che essi siano presenti, copia del decreto che dispone tale accertamento. Nel procedere all’ispezione dei luoghi, l’autorità giudiziaria può ordinare, enunciando nel verbale i motivi del provvedimento, che taluno non si allontani prima che le operazioni siano concluse e può far ricondurre coattivamente sul posto il trasgressore.

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L’ispezione è disposta con decreto motivato: � nel corso dell’udienza preliminare o dibattimentale l’ispezione è disposta dal giudice � durante le indagini preliminari l’ispezione è disposta di regola dal p.m., che può delegare la

polizia giudiziaria; è compiuta dalla polizia di propria iniziativa in situazione di urgenza sotto la forma di “accertamenti e rilievi” (rilievi sulle perone che sono diversi dall’ispezione personale)

Quando il p.m. procede ad ispezione personale, il difensore dell’indagato deve essere preavvisato almeno 24 ore prima; tuttavia nei casi di assoluta urgenza:

- quando vi è fondato motivo di ritenere che il ritardo possa pregiudicare la ricerca o l’assicurazione della prova, il p.m. può procedere anche prima del termine fissato dandone avviso al difensore senza ritardo

- se vi è fondato motivo di ritenere che le tracce possano essere alterate, il p.m. può procedere prima del termine fissato anche senza darne avviso

E’ fatta salva in ogni caso la facoltà del difensore di intervenire. Inoltre quando omette l’avviso o procede prima del termine, il p.m. deve specificamente indicare, a pena di nullità, i motivi della deroga e le modalità dell’avviso. LA PERQUISIZIONE La perquisizione consiste nel ricercare una cosa da assicurare al procedimento o una persona da arrestare; in particolare:

• la perquisizione personale è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona (cioè le cose che hanno la funzione di provare il reato o la responsabilità del suo autore)

• la perquisizione locale è disposta Quando vi è fondato motivo di ritenere che il corpo del reato o cose pertinenti al reato si trovino in un determinato luogo ovvero che in esso possa eseguirsi l’arresto dell’imputato o dell’evaso

• la perquisizione informatica è disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza; devono essere adottate misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione

Nel compiere una perquisizione devono essere osservate alcune formalità a tutela dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione: - se deve essere eseguita la perquisizione di una persona, occorre consegnare a questa una copia del decreto con l’avviso

della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, purché prontamente reperibile ed almeno quattordicenne - se deve essere eseguita la perquisizione di un luogo, va consegnata copia del decreto all’interessato ed a colui che abbia la

disponibilità del luogo, se costoro sono presenti. Ad essi deve essere dato avviso della facoltà di farsi assistere o rappresentare da una persona di fiducia, alle solite condizioni che questa sia prontamente reperibile ed idonea.

Le cose rinvenute nel corso della perquisizione, se costituiscono corpo del reato o sono pertinenti al reato sono sottoposte a sequestro; se nel corso della perquisizione si trova la persona ricercata, si da esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare o ai provvedimento di arresto e di fermo. La ricerca di una cosa determinata: quando si cerca una cosa determinata l’autorità giudiziaria può limitarsi ad invitare taluno a consegnare la cosa: se l’invito è accolto non si fa luogo a perquisizione, salvo che sia utile procedervi per la completezza delle indagini. La perquisizione è disposta dall’autorità giudiziaria (cioè dal giudice o dal p.m.) con decreto motivato:

- nel corso dell’udienza preliminare o dibattimentale la perquisizione è disposta dal giudice - nel corso delle indagini preliminari la perquisizione è ordinata dal p.m., che vi provvede

personalmente o delegandola ad un ufficiale di polizia giudiziaria; la polizia giudiziaria può procedere di sua iniziativa a perquisizione personale o locale, ma solo in flagranza di reato o nel caso di evasione; la polizia giudiziaria deve trasmettere il verbale delle operazioni senza ritardo al p.m. del luogo nel quale la perquisizione è stata eseguita e la pubblica accusa convalida la perquisizione nelle 48 ore successive, se ne ricorrono i presupposti

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IL SEQUESTRO PROBATORIO Il codice prevede tre distinte forme di sequestro: il sequestro probatorio, il sequestro preventivo ed il sequestro conservativo: il primo è un mezzo di ricerca della prova, gli altri due sono misure cautelari; comune ai tre tipi di sequestro è la caratteristica di creare un vincolo di indisponibilità su una cosa mobile od immobile, attraverso uno spossessamento coattivo. Il sequestro probatorio consiste nell’assicurare una cosa mobile o immobile al procedimento per finalità probatorie, mediante lo spossessamento coattivo della cosa e la creazione di un vincolo di indisponibilità sulla medesima (il vincolo di indisponibilità serve per conservare immutate le caratteristiche della cosa, al fine dell’accertamento dei fatti); devono sussistere due requisisti:

- requisito naturalistico: è necessario che vi sia un bene materiale - requisito giuridico: occorre che si tratti del corpo del reato o di una cosa pertinente al reato e,

soprattutto, che la cosa sia necessaria per l’accertamento dei fatti. Il sequestro è mantenuto fin quando sussistono le esigenze probatorie; il limite massimo è la sentenza irrevocabile, dopodiché la cosa deve essere restituita, salvo che ne sia stata ordinata la confisca. Il sequestro è disposto dall’autorità giudiziaria con decreto motivato; al sequestro procede personalmente l'autorità giudiziaria ovvero un ufficiale di polizia giudiziaria delegato con lo stesso decreto

- nel corso del dibattimento il sequestro probatorio è disposto dal giudice. - nel corso delle indagini preliminari il decreto è emanato, di regola, dal p.m.; la polizia giudiziaria,

se vi è fondato pericolo nel ritardo e il p.m. non può intervenire tempestivamente ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, essa effettua il sequestro; il relativo verbale è trasmesso entro 48 ore al p.m. del luogo dove il sequestro è stato eseguito, il quale, nelle 48 ore successive, convalida il sequestro con decreto motivato, se ne ricorrono i presupposti

Quando si contesta la legittimità o il merito del provvedimento di sequestro, contro il decreto di sequestro (ovvero il decreto di convalida) l’indagato, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre richiesta di riesame, sulla quale decide in composizione collegiale il tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento. Quando invece sorge la questione sulla necessita di mantenere o meno il sequestro (in quanto si discute se questo è ancora utile a fini probatori), durante le indagini preliminari la persona interessata può presentare al p.m. richiesta motivata di restituzione della cosa sequestrata; il p.m. decide con decreto motivato, contro il quale l’interessato può presentare opposizione al giudice per le indagini preliminari, che provvede in camera di consiglio; è possibile infine impugnare il provvedimento del giudice con ricorso per cassazione ex articolo 127 comma VII. La cose sequestrate sono affidate in custodia alla cancelleria o alla segreteria; quando ciò non è possibile o non è opportuno, l’autorità giudiziaria dispone che la custodia avvenga in luogo diverso, determinandone il modo e nominando un altro custode, idoneo a norma dell’articolo 120. L’INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI Per intercettazione si intende quell’attività che si effettua mediante strumenti tecnici di percezione e che tende a captare il contenuto di una conversazione o di una comunicazione segreta in corso tra due o più persone, quando l’apprensione medesima è operata da parte di un soggetto che nasconde la sua presenza. L’intercettazione può avere ad oggetto sia le conversazioni o comunicazioni telefoniche e altre forme di telecomunicazione, sia il flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici i telematici ovvero intercorrente tra più sistemi. Differiscono dalle intercettazioni perché non hanno per oggetto una comunicazione: - il pedinamento mediante apparecchiatura satellitare GPS, che può essere disposto dalla

polizia giudiziaria come mera attività atipica - l’acquisizione di tabulati del traffico telefonico

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I requisiti per disporre intercettazioni L’articolo 15 della Costituzione tutela la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, segretezza la cui violazione è ammessa soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge (riserva di legge e riserva di giurisdizione); di conseguenza le intercettazioni di comunicazioni e di conversazioni sono ammesse con molti limiti: - le intercettazioni possono essere disposte in procedimenti relativi ai soli reati previsti nell’articolo 266 - l’intercettazione di comunicazioni tra presenti (da parte di una persona non presente) è ammessa di

regola fuori del domicilio privato; in via eccezionale l’intercettazione di comunicazioni tra presenti è consentita anche nel domicilio privato se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa

- devono essere autorizzate dal giudice su richiesta del p.m. - sono ammesse solo quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente

indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini - sono previsti divieti di utilizzazione e garanzie in favore dei difensori, consulenti tecnici e loro

ausiliari (ad esempio è vietata l’intercettazione relativa a comunicazioni dei difensori o a comunicazioni tra i medesimi e le persone da loro assistite

Il procedimento Il p.m. chiede al giudice per le indagini preliminari l’ autorizzazione a disporre le intercettazioni; l’autorizzazione è data dal giudice con decreto motivato quando vi sono gravi indizi di reato e l’intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini. Una volta ottenuto il provvedimento, il p.m. emana un decreto col quale regola le modalità e la durata delle operazioni; tale durata non può superare i 15 giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di 15 giorni qualora permangono i presupposti. Nei casi di urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, l’intercettazione è disposta dal p.m. con decreto motivato che deve essere comunicato al giudice per le indagini preliminari non oltre 24 ore. Il giudice entro le 48 ore successive decide sulla convalida con decreto motivato. In caso di mancata convalida, l’intercettazione non può essere proseguita ed i risultati non possono essere utilizzati. Utenze intercettabili: in base ai requisiti previsti dal codice sono intercettabili:

- sia le utenze riferibili agli indagati - sia quelle riferibili ai testimoni - sia infine le utenze riferibili a persone estranee ai fatti, quando queste ultime possono essere

destinatarie di comunicazioni provenienti da indagati o da testimoni. Esecuzione delle operazioni:

1) registrazione: le comunicazioni intercettate sono registrate; delle operazioni è redatto verbale, in cui è trascritto anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate (si tratta dei “brogliacci d’ascolto”, utilizzabili già durante le indagini preliminari per chiedere al giudice le misure cautelari). La registrazione delle intercettazioni ed i verbali sommari sono trasmessi immediatamente al p.m. e devono essere depositati in segreteria; una volta effettuato il deposito, deve essere dato avviso ai difensori che possono ascoltare le registrazioni ed esaminare gli atti.

2) udienza di stralcio: il giudice ha un limitato potere di filtro, si limita infatti a: - stralciare le registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione - disporre l’acquisizione delle registrazioni indicate dalle parti che non appaiano

manifestamente irrilevanti (spetta infatti alle parti indicare le conversazioni da acquisire); le registrazioni non rilevanti sono conservate dal p.m.

3) trascrizione delle registrazioni: successivamente il giudice dispone la trascrizione delle registrazioni con le garanzie previste per la perizia; i difensori sono avvisati delle operazioni e possono ottenere copia dei verbali

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Divieti di utilizzazione

Il codice dispone l’inutilizzabilità delle intercettazioni che sono state compiute: - fuori dei casi consentiti - senza osservare i presupposti e le forme del provvedimento di autorizzazione - senza redigere il verbale delle operazioni - eseguendo le operazioni al di fuori degli impianti installati nella procura della Repubblica, senza

motivare le ragioni di urgenza Le registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione sono distrutte su ordine del giudice, salvo che costituiscano corpo del reato (ad es. calunnia od ingiuria mediante telefono). I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. Divieti concernenti il segreto di Stato Quando accade che l’autorità giudiziaria abbia acquisito, tramite intercettazioni, comunicazioni di servizio di appartenenti ai servizi segreti, la medesima autorità deve disporre l’immediata segregazione e la custodia in luogo protetto dei documenti, sei supporti e degli atti concernenti tali comunicazioni. Deve essere chiesto al presidente del consiglio dei ministri se le informazioni ottenute diano coperte dal segreto di Stato; in caso di risposta positiva è inibita all’autorità giudiziaria l’utilizzazione delle notizie coperte dal segreto. I NUOVI STRUMENTI DELLA TECNICA: i tabulati telefonici e le videoriprese Per quanto riguarda i tabulati telefonici:

- periodo di conservazione: i tabulati relativi al traffico telefonico sono conservati dal fornitore per 24 mesi dalla data in cui la comunicazione ala quale essi si riferiscono è intervenuta; i dati relativi al traffico telematico sono conservati per 12 mesi

- procedura di acquisizione: entro i predetti termini il p.m. dispone con decreto motivato la acquisizione dei dati presso il fornitore, anche su istanza dell’imputato, dell’indagato, dell’offeso e delle altre parti private; il difensore dell’imputato o dell’indagato può chiedere direttamente al fornitore i dati relativi alle utenze intestate al proprio assistito

Per quanto riguardale videoriprese, in assenza di una espressa regolamentazione legislativa, la Corte Costituzionale e la Sezioni unite della Cassazione hanno regolato la materia in questo modo: • la ripresa di comportamenti comunicativi costituisce una forma di intercettazione e quindi ne segue la

disciplina • la rispesa di comportamenti non comunicativi

- se effettuata in un luogo pubblico, si tratta di un atto non ripetibile della polizia giudiziaria che nel dibattimento può essere utilizzato come prova atipica;

- se effettuata in un luogo non pubblico bisogna distinguere: a) se si tratta di luoghi rientranti nel concetto di domicilio, le riprese devono considerarsi

vietate in assenza di una espressa regolamentazione legislativa dei casi e modi di tale apprensione

b) se si tratta di luoghi diversi dal domicilio, ma comunque caratterizzati da una particolare aspettativa di riservatezza, la videoripresa è utilizzabile come prova atipica, purché sia autorizzata con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria

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LE MISURE CAUTELARI Le misure cautelari sono quei provvedimenti provvisori, ma immediatamente esecutivi, che tendono ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare uno dei seguenti pericoli, definiti dal codice “esigenze cautelari”

• il pericolo per l’accertamento del reato; • il pericolo per l’esecuzione della sentenza; • il pericolo che si aggravino le conseguenze del reato o che venga agevolata la commissione di

ulteriori reati. Le principali CARATTERISTICHE DELLE MISURE CAUTELARI sono:

1) strumentalità rispetto al procedimento penale: le misure cautelari hanno lo scopo di evitare che si verifichino determinati pericoli per il procedimento penale (le esigenze cautelari di cui sopra);

2) urgenza: essa ricorre quando un ritardato intervento rende probabile il verificarsi di uno dei fatti

temuti (che sono sempre le esigenze cautelari di cui sopra);

3) prognosi di colpevolezza allo stato degli atti: l’applicazione di una misura cautelare personale richiede l’accertamento di “gravi indizi di colpevolezza” basato sugli elementi di prova che l’accusa è riuscita a raccogliere sin dall’inizio delle indagini; tale accertamento non deve essere sommario, anzi il codice impone che esso sia fondato su elementi di prova e adeguatamente motivato;

4) immediata esecutività: il provvedimento è immediatamente esecutivo (e rimane tale anche nel

caso in cui contro di esso sia stata proposta impugnazione); ciò significa che la polizia giudiziaria ha il potere di adempiere al relativo comando in modo coercitivo, cioè anche contro la volontà di colui che vi si oppone;

5) provvisorietà: gli effetti del provvedimento sono provvisori, cioè non condizionano la decisione

finale del giudice; da tale caratteristica derivano due corollari: - in primo luogo, il provvedimento cautelare mantiene la sua esecutività fino a che non sia

divenuta esecutiva la sentenza definitiva; - in secondo luogo, il provvedimento cautelare è revocabile o modificabile in attesa della

sentenza definitiva.

6) previsione per legge: la Costituzione esige che la legge preveda espressamente i casi ed i modi nei quali il provvedimento dell’autorità giudiziaria può porre limiti alle libertà personale e domiciliare (articoli 13 e 14 Cost.), si tratta dei principi di riserva di legge e di passività;

7) giurisdizionalità : le misure cautelari sono disposte con un provvedimento emanato dal giudice,

perciò di regola il p.m. e la polizia giudiziaria non hanno il potere di disporre misure cautelari; tuttavia la riserva di giurisdizione non è assoluta: infatti sia la Costituzione (articolo 13.3) sia il codice ammettono che i provvedimenti temporanei possano esser disposti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria; tali provvedimenti sono definiti “precautelari”: essi devono essere sottoposti a convalida da parte del giudice entro un tempo predeterminato, altrimenti l’indagato deve essere rimesso in libertà;

8) impugnabilità : nei confronti dei provvedimenti cautelari è possibile presentare impugnazione. La

Costituzione (111.7) impone al legislatore, quanto meno, il ricorso per cassazione per violazione di legge contro tutti i provvedimenti che comportano una limitazione della libertà personale. Il codice ha esteso questa garanzia perché ha previsto per tutti i provvedimenti cautelari anche un’impugnazione di merito, e cioè l’appello od il riesame.

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Il codice prevede varie CATEGORIE DI MISURE CAUTELARI: Le misure personali comportano limiti alla libertà personale o alla libertà di determinazione nei rapporti familiari e sociali; esse si dividono in tre ulteriori categorie: 1) misure coercitive:

• obbligatorie: - divieto di espatrio, che impone all’imputato di non uscire dal territorio nazionale senza

l’autorizzazione del giudice - obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria, che impone all’imputato di presentarsi preso gli

uffici della polizia giudiziaria nei giorni e nelle ore indicati dal giudice - allontanamento dalla casa familiare, che impone all’imputato di lasciare subito la casa

familiare ovvero di non farvi rientro e di non accedervi senza autorizzazione - divieto di dimora, che impone all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non

accedervi senza l’autorizzazione del giudice - obbligo di dimora, che impone all’imputato di non allontanarsi, senza l’autorizzazione del

giudice, da un comune o da una sua frazione • custodiali: esse comportano per l’imputato una situazione di custodia, dalla quale derivano due

conseguenze: quella negativa consiste nella configurabilità del delitto di evasione, ove l’imputato si allontani dal luogo di custodia; quella positiva sta nel fatto che il periodo trascorso in custodia sarà computato come esecuzione della pena detentiva, nel caso in cui questa debba essere eseguita in seguito a condanna: - arresto domiciliare, che impone all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da

altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza; si possono aggiungere limiti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano; è poi possibile un’attenuazione della misura

- custodia in carcere; con il relativo provvedimento il giudice dispone che l’imputato venga condotto in un istituto di custodia a disposizione dell’autorità giudiziaria

- custodia in luogo di cura; se l’imputato necessita di cure specialistiche che non possono essere fatte in un luogo di detenzione, il giudice ne dispone la custodia cautelare in un luogo di cura; se la malattia è un infermità mentale e l’imputato non è socialmente pericoloso, il giudice dispone il ricovero presso il servizio psichiatrico ospedaliero 8cioè in un centro di igiene mentale); se invece l’imputato è socialmente pericoloso (cioè può commettere nuovi reati) il giudice deve disporre il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (se l’infermità è totale) o in una casa di cura e custodia (se l’infermità è parziale)

2) misure interdittive : consistono nell’applicazione provvisoria a scopo cautelare di determinati divieti.

Sono previsti tre tipi di misure interdittive che il giudice può adattare alle particolarità del caso concreto su richiesta del p.m.:

- la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori, - la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio - il divieto di esercitare determinate professioni, imprese o uffici direttivi delle persone

giuridiche e delle imprese 3) misure di sicurezza applicate provvisoriamente a titolo di provvedimento cautelare; la persona

nei cui confronti è applicata provvisoriamente la misura di sicurezza è un soggetto ritenuto incapace di intendere e volere al momento del fatto; egli è ricoverato (in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia) in attesa di una sentenza che lo dichiarerà non punibile per infermità totale o parziale; per la loro applicazione occorre che siano presenti i seguenti presupposti:

- gravi indizi di commissione del fatto; - che l’imputato sia socialmente pericoloso (probabilità di commissione di reati); - che non siano applicabili in concreto le cause di giustificazione di non punibilità o di

esenzione del reato

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Le misure reali toccano singoli beni mobili o immobili ed impongono il divieto di disporre di tali beni; il codice prevede:

- il sequestro conservativo è posto a tutela della garanzia del pagamento delle somme dovute, tra l’altro, per le spese del procedimento penale o per i danni cagionati dal reato;

- il sequestro preventivo è posto al fine di evitare l’aggravamento delle conseguenze del reato. LE DISPOSIZIONI GENERALI SULLE MISURE CAUTELARI PERSONALI La Costituzione permette la restrizione della libertà personale solo nei casi e modi previsti dalla legge solo con atto motivato dell’autorità giudiziaria (articolo 13.2: Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge). La riserva di giurisdizione è attuata dell’articolo la riserva di legge è attuata dall’articolo 272 il quale 279 del codice, secondo cui sull’applicazione, afferma che le libertà della persona possono essere revoca o modifica delle misure cautelari provvede limitate con misure cautelari soltanto a norma delle il giudice che procede; infatti le misure cautelari delle disposizioni del presente titolo (titolo I libro IV) possono essere soltanto richieste dal p.m. Poiché il giudice deve motivare il suo provvedimento, ne deriva che il p.m. ha l’onere di convincerlo che sussistono in concreto i presupposti che fondano la singola misura; dopo che la misura coercitiva è stata eseguita (o notificata), l’imputato ha diritto di essere sentito dal giudice in un interrogatorio definito “di garanzia”, in cui il difensore ha la possibilità di conoscere la richiesta del p.m. e gli atti che quest’ultimo ha presentato al giudice. Quindi le misura cautelari sono applicate inaudita altera parte: per cui il

contraddittorio è posticipato al un momento successivo all’applicazione della misura

I presupposti che consentono di disporre le misure cautelari sono suddivisi nelle seguenti categorie: Condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali: • una determinata gravità del delitto addebitato all’imputato

Non sono applicabili le misure coercitive ed interdittive nei procedimenti per le “contravvenzioni” (si possono solo adottare misure cautelari reali). Inoltre non si possono applicare misure coercitive ed interdittive al di sotto di una soglia minima di gravità del delitto addebitato; tale soglia fa riferimento alla pena detenuta stabilita del massimo per il delitto; il codice distingue tre fondamentali categorie di delitti: - nella prima categoria rientrano i delitti punibili con la reclusione fino a tre anni, per i quali di

regola nessuna misura cautelare personale può essere disposta - nella seconda categoria rientrano i delitti punibili nel massimo con la reclusione superiore a tre

anni, ma inferiore a quattro, per i quali sono applicabili le misure coercitive diverse dalla custodia in carcere

- nella terza categorie rientrano i delitti punibili nel massimo con la reclusione di almeno quattro anni o con l’ergastolo, per i quali è applicabili anche la misura della custodia in carcere

• la presenza di gravi indizi di reità; il termine indizio qui comprende sia le prova logiche che quelle rappresentative e quindi indica un elemento acquisito durante le indagini a prescindere dalla sua natura di prova rappresentativa o logica; ovviamente, poiché in genere le misure cautelare vengono applicate nella fase delle indagini preliminari, si tratta di una base probatoria provvisoria, in attesa di ricevere una piena conferma attraverso il contraddittorio dibattimentale; il giudice quindi deve formulare il giudizio prognostico concernente la probabilità che si pervenga alla condanna sugli elementi esistenti “allo stati degli atti”, i quali (in ragione del principio della presunzione di innocenza) devono prospettare come molto probabile la reità dell’indagato.

• la punibilità in concreto del delitto: nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato ovvero una causa di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata.

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Passando alle esigenze cautelari, le misure personali possono essere applicate solo quando esiste in concreto almeno una delle esigenze cautelari indicate tassativamente dal 274, cioè: • il pericolo di inquinamento della prova: il p.m. deve dimostrare che vi sono in concreto situazioni di

attuale pericolo sia per l’acquisizione della prova (pericolo di occultamento), sia per l’acquisizione in modo genuino (pericolo di alterazione); la situazioni di pericolo deve essere fondata su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità

• il pericolo di fuga: questa esigenza ricorre quando l’imputato di è dato alla fuga o vi è in concreto il pericolo che si dia alla fuga; occorre tuttavia che il giudice ritenga possibile che all’imputato possa essere irrogata con la sentenza una pena superiore a due anni di reclusione;

• il pericolo che vengano commessi determinati delitti: - gravi delitti con l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale; - gravi delitti diretti contro l’ordine costituzionale; - delitti di criminalità organizzata; - delitti della stessa specie di quello per il quale si procede (tuttavia la custodia cautelare, in carcere

o agli arresti domiciliari, può essere disposta soltanto quando per tali delitti è prevista la pena della reclusione di almeno quattro anni nel massimo

Il pericolo deve essere desunto da specifiche modalità del fatto di reato e dalla personalità pericolosa dell’autore del fatto, con il limite che la pericolosità deve essere ricavata dai precedente penali e da comportamenti o atti concreti, che devono essere specificatamente indicati

Passando ai criteri di scelta delle misure, il giudice, dopo aver ricevuto la richiesta del p.m. e dopo aver accertato che esistono sia i gravi indizi di reità, sia almeno una delle esigenze cautelari, dispone la misura con ordinanza; tuttavia il suo potere è vincolato dalla legge a limiti formali e sostanziali: - sotto un profilo formale, il giudice non può disporre una misura più grave di quella richiesta dal p.m. - da un punto di vista sostanziale, egli ha il potere-dovere di scegliere la misura cautelare in base ai

criteri che sono espressamente indicati nel 275 La misura da applicarsi deve essere:

1) “adeguata” alle esigenze cautelari presenti in concreto; in base al principio di adeguatezza il giudice deve valutare la specifica idoneità ci ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto: una volta che il p.m. ha adempiuto all’onere di provare l’esistenza di una determinata esigenza cautelare, occorre che vi sia piena corrispondenza funzionale tra la misura da adottare e il pericolo che si vuole evitare;

2) “proporzionata” alla gravità del fatto e della sanzione che potrà essere irrogata; in base al principio di proporzionalità ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata;

3) “graduata”; in base al principio di gradualità la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo quando ogni altra misura risulti essere inadeguata; nella motivazione dell’ordinanza il giudice deve esporre le concrete e specifiche ragioni per la quali le esigenze cautelari non possono essere soddisfatte con altre misure.

Deroga per i delitti di criminalità mafiosa: in un caso il principio di gradualità va incontro ad un’eccezione: si tratta dei delitti di criminalità mafiosa, per i quali è previsto un regime speciale:

- presunzione relativa: il codice presume esistente almeno una delle esigenze cautelari; tale presunzione può essere superata quando siano già stati acquisiti elementi che dimostrino che non ne sussiste neanche una

- presunzione assoluta: il codice impone di applicare obbligatoriamente la custodia in carcere, perché presume che nessun’altra misura risulterebbe adeguata.

Situazioni incompatibili con la custodia in carcere: la custodia in carcere non può essere disposta quando l’imputato è affetto da malattia che si trova in una fase così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili e alle terapie curativa; vi sono poi delle situazioni che di regola impediscono la custodia in carcere, salvo che sussistano esigenza cautelari di eccezionale rilevanza (donna incinta, madre di prola di età inferiore a tre anni con lei convivente, padre in analoghe condizioni, se la madre è assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prola, persona che ha superato l’età di sessantenni.

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L’APPLICAZIONE DELLE MISURA CAUTELARI PERSONALI L’applicazione delle misure cautelari personali avviene in due fasi.

1) nella prima vi è una decisione del giudice fondata su una richiesta che viene presentata dal p.m. senza che sia sentita la difesa;

2) nella seconda fase il g.i.p. deve interrogare l’indagato ed il difensore ha diritto di esaminare i verbali degli atti che sono stati valutati dal giudice.

All’indagato non è riconosciuto il diritto alla prova ed il giudice decide solo su atti e documenti scritti. La prima fase: la richiesta del pubblico ministero e la decisione del giudice La prima fase del procedimento applicativo ha inizio quando il p.m. chiede per scritto al g.i.p. l’adozione di una misura cautelare personale, presentandogli gli elementi su cui la richiesta si fonda (cioè i verbali degli atti delle indagini preliminari) e termina quando il giudice prende una decisione sulla richiesta (il giudice provvede con un’ordinanza. La procedura è segreta, e cioè deve svolgersi all’insaputa dell’indagato e del suo difensore. Correttivi introdotti dalla legge 322/1995:

• il p.m. ha l’obbligo di presentare al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate

• il giudice ha un limite al suo potere di decidere sulla richiesta presentata dal p.m.: non può applicare una misura più grave di quella richiesta; viceversa, il giudice può applicare sia la misura richiesta, sia una misura meno grave; ma può anche non applicare misura alcuna, se ritiene che non sussistano le esigenze cautelari o le condizioni di applicabilità

• la motivazione dei provvedimenti cautelari deve essere esaustiva e deve rispettare una struttura prefissata: l’ordinanza deve contenere

- l'esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli specifici indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza;

- l'esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti rilevanti gli elementi a carico e dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa; l’ordinanza è nulla se non contiene la valutazione degli elementi a carico ed a favore dell’imputato

- in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze cautelari non possono essere soddisfatte con altre misure;

Esecuzione del provvedimenti cautelare:

- l’ordinanza che dispone la custodia cautelare è eseguita, su incarico del p.m., dalla polizia giudiziaria mediante consegna all’imputato di copia del provvedimento, con avvertimento della facoltà di nominare un difensore di fiducia.

- l’ordinanza che dispone una misura non custodiale è notificata all’imputato. La seconda fase: l’interrogatorio di garanzia La seconda fase del procedimento applicativo ha inizio nel momento in cui la misura cautelare personale è eseguita; si conclude con l’interrogatorio davanti al giudice che ha deciso l’applicazione della misura cautelare coercitiva o interdittiva. In seguito all’interrogatorio dell’indagato, il giudice valuta se permangono le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari e quando ne ricorrono le condizioni, deve provvedere alla revoca o alla sostituzione della misura disposta.

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Il g.i.p. deve depositare immediatamente, insieme all’ordinanza applicativa della misura, anche la richiesta del p.m. e gli “atti presentati con la stessa”. Un avviso di deposito deve essere notificato al difensore, che può esaminare gli atti in cancelleria. L’interrogatorio condotto dal giudice deve avvenire entro un termine breve:

- 5 giorni se è disposta la custodia in carcere; - 10 giorni per tutte le altre misure); inoltre, deve svolgersi entro 48 ore se il p.m. ne fa istanza nella

richiesta di custodia cautelare. LE VICENDE SUCCESSIVE Il codice prevede tre ipotesi nelle quali può esser modificata la misura cautelare applicata: 1) la revoca, che deve essere immediatamente disposta:

- quando si accerti che le condizioni generali di applicabilità (gravità del delitto, gravi indizi di reità, punibilità in concreto del delitto) risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti;

- quando si accerti che siano venute meno completamente le esigenze cautelari (pericolo di inquinamento delle prova, pericolo di fuga o pericolo del compimento di gravi delitti)

2) la sostituzione in melius della misura (o la sua applicazione con modalità meno gravose), che deve esser disposta:

- quando le esigenze cautelari, pur non essendo venute meno, risultano “attenuate”; - quando la misura non appare più proporzionata all’entità del fatto od alla sanzione che si ritiene

potrà essere inflitta; La revoca e la sostituzione in meluis di regola possono essere disposte dal giudice su richiesta dell’imputato o del p.m. ed eccezionalmente possono essere disposte anche d’ufficio nel corso dell’interrogatorio di garanzia, oppure in udienza o in situazioni ad essa equiparate.

3) la sostituzione in peius della misura (o la sua applicazione con modalità piu gravose), che può esser disposta dal giudice solo su richiesta del p.m.; ciò avviene:

- quando le esigenze cautelari risultano essersi aggravate - quando l’imputato ha trasgredito alle prescrizioni che concernono la misura.

LE CAUSE DI ESTINZIONE DELLE MISURE CAUTELARI PERSONALI Le misure cautelari personali si estinguono in due modi differenti: • ope iudicis, cioè in seguito ad un provvedimento del giudice che accerta il modificarsi dei presupposti

applicativi (un provvedimento di revoca o di sostituzione) • ope legis, cioè per perdita di efficacia dovuta al verificarsi di determinati eventi previsti dalla legge;

l’estinzione del diritto si verifica in vari casi, questi i principali: - quando per il medesimo fatto e nei confronti della medesima persona, alla quale è stata applicata

la misura, intervenga un provvedimento anche non definitivo che esclude l’addebito (decreto o ordinanza di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o sentenza di proscioglimento)

- quando sia decorso il termine massimo di durata della singola misura cautelare prima della definizione del procedimento con sentenza di condanna irrevocabile;

- quando una misura disposta per esigenze probatorie non sia rinnovata entro il termine fissato dal giudice nel provvedimento con sentenza di condanna irrevocabile;

- quando, disposta la misura cautelare coercitiva o interdittiva, l’imputato non sia stato interrogato dal giudice nel termine indicato dalla legge;

- quando la misura, disposta dal giudice dichiaratosi incompetente, non è confermata dal giudice competente entro 20 giorni

- quando a seguito di condanna la pena irrogata è stata dichiarata estinta, è stata condizionalmente sospesa, è inferiore o eguale alla custodia cautelare già subita.

Quando il giudice accerta la caducazione automatica della misura cautelare per uno dei motivi appena elencati, egli adotta i provvedimenti necessari per l’immediata cessazione degli effetti della misura stessa e, se si tratta di custodia cautelare, dispone l’immediata liberazione della persona interessata.

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Le più importanti cause di estinzione delle misure cautelari personali sono: La sentenza di proscioglimento Essa comporta l’immediata perdita di efficacia della misura che sia stata applicata in riferimento ad un determinato fatto di reati, quando per il medesimo sia stata pronunciata una sentenza di proscioglimento o un provvedimento analogo (sentenza di non luogo a procedere o l’archiviazione). La decorrenza del termine massimo di durata della misura Il termine massimo è stato posto allo scopo di attuare due garanzie costituzionali:

• articolo 13.5 Cost.: La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva; • articolo 27.2 Cost.: L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Esaminiamo solo i termini massimi delle misure coercitive custodiali; per le misure obbligatorie i termini sono doppi rispetto a quelli previsti per le misure custodiali; le misure interdittive perdono efficacia dopo due mesi dall’inizio della loro esecuzione Il codice prevede varie tipologie di termini: i termini massimi intermedi (o di fase), ricollegati a determinate fasi (o gradi) del procedimento (che sono autonomi tra loro, cioè operano soltanto in quella determinata fase o grado del procedimento), ed il termine massimo complessivo:

• il primo termine intermedio copre il periodo di tempo che va dall’inizio delle indagini preliminari al rinvio a giudizio o all’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato; in relazione ai più gravi delitti, entro un anno deve intervenire il decreto che dispone il giudizio;

• il secondo termine intermedio copre il periodo di tempo che va dal rinvio a giudizio fino alla sentenza di condanna di primo grado; in relazione ai più gravi delitti, la condanna deve intervenire entro un anno e sei mesi;

• il terzo termine intermedio copre il periodo di tempo dell’appello; la condanna in grado di appello deve intervenire entro un anno e sei mesi;

• il quarto termine intermedio copre il periodo di tempo del ricorso per cassazione; la sentenza irrevocabile deve intervenire entro un anno e sei mesi;

• il termine massimo complessivo si riferisce alla durata dell’intero procedimento; esso costituisce il limite entro il quale deve intervenire la sentenza di condanna irrevocabile ed opera a prescindere dalla durata dei singoli termini intermedi; per i delitti più gravi il termine è di sei anni.

Ove la custodia cautelare superi i termini massimi previsti dal codice, la stessa si estingue di diritto e l’imputato deve essere liberato immediatamente. La custodia è ripristinata se l’imputato ha trasgredito le prescrizioni della nuova misura cautelare o se è stata emessa sentenza di condanna in primo o secondo grado e vi è pericolo di fuga. Le contestazioni a catena. Con tale espressione si allude a quelle ipotesi, patologiche, nelle quali in tempi successivi il p.m. chieda ed ottenga l’emissione di più ordinanze applicative della custodia cautelare nei confronti del medesimo imputato in relazione al medesimo fatto o a fatti comunque già noti ab initio all’autorità giudiziaria. Tale comportamento persegue lo scopo di spostare in avanti l’inizio della decorrenza dei termini di custodia cautelare, così da prolungare la durata della misura ed aggirare i limiti stabiliti dalla legge. Il codice prevede una apposita disciplina in relazione a tale prassi illegittima, infatti stabilisce che se nei confronti del medesimo imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, anche se diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione qualificata, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati alla imputazione più grave (retrodatazione automatica); il codice precisa altresì che tale disciplina “non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste il vincolo di connessione sopra precisato”. Per la Corte Costituzionale la retrodatazione può operare solo se sussistono le seguenti condizioni:

- i procedimenti sono in corso di fronte alla stessa autorità giudiziaria; - la separazione è frutto di una scelta operata dal p.m.

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La sospensione del decorso dei termini Il decorso dei termini di custodia cautelare può essere sospeso soltanto in ipotesi tassativamente indicate; sono previste dal codice • tre cause sospensive generali, che si riferiscono a tutti i reati e sono disposte dal giudice con ordinanza

appellabile: 1) in caso di sospensione o rinvio del dibattimento, dell’udienza preliminare o del giudizio

abbreviato per impedimento dell’imputato o del suo difensore oppure su richiesta di questi ultimi 2) nelle ipoetesi di sospensione o rinvio del dibattimento, dell’udienza preliminare o del giudizio

abbreviato dovuti alla mancata presentazione, all’allontanamento o alla mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati

3) nel giudizio ordinario o nel rito abbreviato durante la pendenza dei termini per la redazione della motivazione

• una causa sospensiva speciale, che è applicabile soltanto nei procedimento relativi ai delitti di criminalità organizzata, terrorismo e simili e che è disposta dal giudice su richiesta del p.m. con ordinanza appellabile; essa è prevista qualora l’accertamento risulti particolarmente complesso; la sospensione per complessità opera durante il tempo in cui sono tenute le udienze o si delibera la sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulla impugnazioni

Inoltre il decorso dei termini di custodia cautelare può essere sospeso per una durata che non può comunque eccedere un ammontare prefissato: si tratta dei termini finali, calcolati in relazione all’ammontare dei termini intermedi e complessivi

la durata della custodia non può superare il doppio dei termini intermedi o il termine complessivo aumentato della metà; vi è poi un termine finale detto “sussidiario” che opera soltanto se più favorevole rispetto agli altri termini finali ed è pari a 2/3 del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza.

LE IMPUGNAZIONI CONTRO LE MISURE CAUTELARI PERSONALI Il codice prevede tre mezzi di impugnazione dei provvedimenti che applicano, modificano o revocano le misure cautelari: il riesame, l’appello ed il ricorso per cassazione. Il procedimento relativo al singolo mezzo di impugnazione si svolge in modo autonomo rispetto al procedimento penale, che segue il suo corso, quindi l’impugnazione contro una misura cautelare costituisce un procedimento incidentale, che si sviluppa parallele mante al procedimento penale. Caratteristica comune: i mezzi di impugnazione non hanno efficacia sospensiva sul provvedimento

cautelare Il riesame Il riesame è ammesso di regola soltanto contro le ordinanze che applicano per la prima volta (ab initio) una misura coercitiva. La richiesta di riesame può esser proposta esclusivamente dall’imputato o dal suo difensore Competente a decidere sul riesame è il tribunale (in composizione collegale) del capoluogo del distretto di corte d’appello nel quale ha sede il giudice che ha disposto la misura, detto “tribunale della libertà” Il riesame è una impugnazione completamente devolutiva, che permette all’imputato di ottenere il controllo giurisdizionale sulla legittimità e sul merito del provvedimento che applica una misura coercitiva ab initio; in particolare il tribunale delle libertà ha il potere di valutare la legittimità ed il merito della misura coercitiva senza essere vincolato né dagli eventuali motivi del ricorso dell’imputato, né dalla motivazione del provvedimento che ha applicato la misura..

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Procedimento: - la richiesta di riesame deve essere presentata nella cancelleria del tribunale della libertà

dall’imputato o dal suo difensore entro il termine di 10 giorni a pena di inammissibilità; tale termine decorre per l’imputato dall’esecuzione o dalla notificazione del provvedimento, per il difensore dalla notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la misura

- il presidente fa dare immediato avviso all’autorità procedente (che durante le indagini preliminari è il p.m.), la quale entro cinque giorni dalla richiesta di riesame deve trasmettere al tribunale sia gli atti presentati quando aveva chiesto la misura cautelare, sia tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini; inoltre il difensore può presentare direttamente al tribunale delle libertà i risultati delle indagini private

- l’ udienza si svolge in camera di consiglio, cioè con un contraddittorio facoltativo: il p.m. e il difensore dell’imputato devono essere preavvisati e possono (non devono) partecipare all’udienza; se presenti, essi hanno il diritto di esporre oralmente le proprie conclusioni.

- entro 10 giorni dalla ricezione degli atti il tribunale deve depositare il dispositivo della sua decisione; il tribunale ha un potere cognitivo limitato poiché decide sulla base degli atti scritti e dei documenti presentati (e non su tutti gli atti di indagine raccolti fino a quel momento); non si può quindi disporre l’audizione di persone, né l’assunzione di prove non rinviabili, né imporre al p.m. di svolgere determinate indagini. Il tribunale valuta i presupposti della misura coercitiva tenendo conto sia degli atti che erano conosciuti dal giudice che ha emanato il provvedimento, sia degli atti e documenti che le parti hanno presentato successivamente al tribunale stesso

Il tribunale della libertà può pronunciare quattro tipi di decisione: 1) può dichiarare l’inammissibilità della richiesta di riesame (ad es. se è stata presentata oltre i termini); 2) può annullare l’ordinanza per carenza di uno degli elementi essenziali o per vizi di merito; 3) può riformare, e cioè modificare la misura, ma solo in modo più favorevole all’imputato; 4) può confermare la misura coercitiva anche per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del

provvedimento originario. L’appello L’appello è ammesso nei confronti di tutti gli altri provvedimenti in tema di misure cautelari personali ; quindi l’appello è un mezzo di impugnazione residuale rispetto al riesame e riguarda tutte quelle ordinanze che non applicano per la prima volta una misura coercitiva. L’appello può essere proposto dall’imputato, dal suo difensore e dal p.m.:

- il p.m. (che non dispone dello strumento dei riesame) può presentare appello contro l’ordinanza del giudice che aveva negato l’applicazione di una misura cautelare ovvero contro l’ordinanza che aveva applicato una misura cautelare meno grave di quella da lui richiesta ovvero contro l’ordinanza che ha concesso la revoca o la sostituzione della misura su richiesta dell’imputato

- l’imputato e il suo difensore possono presentare appello contro i provvedimenti cautelari diversi da quelli che applicano per la prima volta una misura

Competente a decidere è sempre il “tribunale della libertà”. L’appello è una impugnazione ad effetto parzialmente devolutivo, in quanto il controllo esercitabile dal tribunale è limitato a quei punti del provvedimento che sono oggetto dei motivi di doglianza esposti nella dichiarazione di impugnazione dall’imputato o dal p.m. Procedimento: - l’appello deve essere proposto entro 10 giorni dall’esecuzione o notificazione del provvedimento, a

pena di inammissibilità; la dichiarazione con cui le parti redigono l’appello deve precisare (a pena di inammissibilità) i motivi per i quali il soggetto interessato ritiene che il provvedimento debba essere annullato o modificato

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- le modalità di svolgimento del procedimento di appello ed i poteri di cognizione del tribunale sono in buona parte simili a quelli previsti per il riesame.

- il tribunale della libertà decide sull’appello entro 20 giorni dalla ricezione degli atti (i termini sono ordinatori e non perentori: il loro eventuale superamento non comporta l’inefficacia della misura cautelare impugnata).

Il ricorso per cassazione Il ricorso per cassazione costituisce una impugnazione esperibile contro le decisioni che il tribunale della libertà ha pronunciato sulla richiesta di riesame o sull’appello; i motivi sono quelli previsti dall’art. 606 (tra cui la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione) Legittimati a proporre il ricorso sono: l’imputato, il suo difensore, il p.m. che ha richiesto l’applicazione della misura e il p.m. presso il tribunale della libertà. E’ possibile anche il ricorso per cassazione per saltum contro le sole ordinanze che dispongono una misura coercitiva, ma tale impugnazione è concessa soltanto all’imputato e al suo difensore. Costoro, invece di presentare la richiesta di riesame al tribunale della libertà, possono direttamente proporre il ricorso per cassazione contro l’ordinanza che applica per la prima volta una misura coercitiva: i motivi possono riguardare soltanto la “violazione di legge”. La Corte decide in camera di consiglio entro 30 giorni dalla ricezione degli atti osservando le forme previste dall’art. 127. Il giudicato cautelare Dal momento che il legislatore non ha riconosciuto all’imputato il diritto di ottenere un controllo in contraddittorio sulla persistenza delle esigenze cautelari e della gravità degli indizi, alla difesa è consentito solo di sollecitare il giudice ad emettere un provvedimento de plano e di impugnare il diniego di revoca o di modifica migliorativa della custodia cautelare: ma questo sistema avrebbe consentito all’imputato di impugnare ripetutamente il diniego pronunciato dal giudice con conseguente intasamento dell’organo delle impugnazioni. ↓ La giurisprudenza, per evitare questo problema, ha esteso per analogia l’applicabilità dell’art. 649, disposizione eccezionale che prevede l’effetto preclusivo del giudicato. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha elaborato una inedita figura di “giudicato cautelare” al fine di garantire una qualche forma di stabilità per le ordinanze nella materia in oggetto; l’effetto di tale giudicato consiste nell’impedire al giudice, adito successivamente, di valutare nuovamente le questioni già esaminate in una precedente impugnazione cautelare: si tratta di giudicato “allo stato degli atti” nel senso che non produce un effetto giudicato in senso proprio (che coprirebbe anche il deducibile) bensì di un effetto preclusivo non definitivo, superabile in presenza di elementi nuovi rispetto alla situazione di fatto o di diritto su cui è basata la precedente decisione. La riparazione per l’ingiusta custodia cautelare All’imputato è riconosciuto il diritto ad ottenere un’equa riparazione per l’ingiusta custodia cautelare. La domanda di riparazione è presentata dall’imputato dopo che la sentenza è divenuta irrevocabile; sulla richiesta decide la Corte d’appello con un procedimento in camera di consiglio. Il presupposto del diritto ad ottenere l’equa riparazione consiste nell’ingiustizia sostanziale o formale della custodia cautelare subita (nelle due forme della custodia in carcere o dell’arresto domiciliare). Il codice non impone di accertare se essa sia dovuta ad un atto illecito compiuto dall’autorità giudiziaria: ciò avrebbe comportato un onere della prova molto pesante per il richiedente; per questo motivo la somma di denaro è chiamata riparazione e non risarcimento.

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La prima ipotesi, di tipo sostanziale, è prevista dal 314.1: Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. Alla sentenza di assoluzione sono parificati:

- la sentenza di non luogo a procedere pronunciata al termine dell’udienza preliminare - il provvedimento di archiviazione emesso all’esito delle indagini preliminari

La seconda ipotesi, di tipo formale, è prevista dal 314.2: Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità. Tuttavia il codice pone al diritto alla riparazione alcuni ostacoli.

1) Il primo ostacolo consiste nel fatto che: Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo.

2) Il secondo è dato dal fatto che l’imputato non ha diritto alla riparazione se ha “dato causa” o ha “concorso a dare causa” all’ingiusta custodia cautelare per dolo o colpa grave.

Procedimento

- la domanda di riparazione deve essere proposta alla Corte d’Appello entro 2 anni dal giorno in cui la sentenza è diventata irrevocabile (o è stato notificato il provvedimento di archiviazione).

- la corte decide in via equitativa in considerazione del fatto che si tratta di una somma indennitaria e non risarcitoria; si ritiene che siano applicabili i criteri dettati dall’art. 643 comma 1.

LE MISURE CAUTELARI REALI Le misure cautelari reali comportano un vincolo di indisponibilità su cose mobili od immobili. Le misure in oggetto possono esser disposte, di regola, solo dal giudice. Il codice prevede due tipi di misure reali: il sequestro preventivo ed il sequestro conservativo, applicabili nei procedimenti per qualsiasi genere di reato: quindi anche per le contravvenzioni. Il sequestro conservativo Il sequestro conservativo ha lo scopo di garantire l’adempimento delle obbligazioni civili sorte in conseguenza sia del compimento del reato, sia del costo del procedimento penale; esso mira ad evitare che nell’attesa della condanna definitiva si disperdano le garanzie patrimoniali, e cioè i beni mobili od immobili. Soggetti legittimati a chiedere al giudice il sequestro conservativo sono il p.m. e la parte civile. Il sequestro conservativo ha la caratteristica di poter essere richiesto solo contro l’imputato od il responsabile civile; e cioè dopo che l’azione penale è già stata esercitata. Procedimento: il sequestro è disposto dal giudice con ordinanza, senza che venga sentita la controparte; egli valuta se la pretesa del richiedente è fondata e se sussiste l’esigenza cautelare (cioè vi sia il pericolo che vengano a disperdersi le garanzie patrimoniali); il sequestro è eseguito dall’ufficiale giudiziario.

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Dopo l’esecuzione del provvedimento chiunque vi abbia interesse può proporre richiesta di riesame; su di essa decide in composizione collegiale il tribunale del capoluogo della provincia in cui ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento. Revoca: il sequestro conservativo può essere revocato, come avviene per tutte le misure cautelari, se ne vengono meno i presupposti. Il sequestro preventivo Il sequestro preventivo pone su di una cosa mobile od immobile un vincolo di indisponibilità che ha la finalità di interrompere il compimento di un reato o di impedire il compimento di nuovi reati. L’ unico soggetto legittimato a chiedere al giudice il sequestro preventivo è il p.m. Il codice prevede tre ipotesi di sequestro preventivo:

1) quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso;

2) quando vi è il pericolo che la cosa possa agevolare la commissione di altri reati; 3) quando la cosa è pericolosa in sé, poiché di essa è consentita od imposta la confisca.

Procedimento: il sequestro preventivo è disposto (su richiesta del p.m.), dal giudice il quale valuta l’esistenza dei presupposti senza sentire il possessore della cosa (che può essere l’imputato, la persona offesa o un altro soggetto). E’ tuttavia prevista un eccezione nel corso delle indagini preliminari: quando non è possibile attendere il provvedimento del gip, il sequestro preventivo è disposto con decreto motivato del p.m. Prima dell’intervento di quest’ultimo, in caso di urgenza, procedono al sequestro gli ufficiali di polizia giudiziaria, che trasmettono il verbale al p.m. stesso, il quale, se non dispone la restituzione delle cose, chiede al giudice la convalida e l’emissione del decreto di sequestro. Entro 10 giorni il giudice, inaudita altera parte, emette ordinanza di convalida e dispone il decreto di sequestro. Contro il decreto di sequestro emesso dal giudice possono presentare richiesta di riesame l’imputato, il difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione. Sulla richiesta decide (in composizione collegiale) il tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento. Revoca: la revoca del sequestro preventivo può esser chiesta al giudice dal p.m., dall’imputato o da chiunque ne abbia interesse. Il sequestro deve essere revocato quando sono venute meno le esigenze preventive previste dalla legge.

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Parte terza – IL PROCEDIMENTO ORDINARIO

LE INDAGINI PRELIMINARI Le indagini preliminari costituiscono la prima fase del procedimento penale; essa:

- inizia nel momento in cui una notizia di reato perviene alla polizia giudiziaria o al p.m.; - termina quando il p.m. esercita l’azione penale od ottiene dal giudice l’archiviazione richiesta.

Le indagini preliminari consistono in investigazioni svolte dal p.m. e dalla polizia giudiziaria; ma la direzione delle indagini spetta al p.m. (tale norma attua il principio costituzionale dell’articolo 109 per cui “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”). Principio della separazione delle fasi: gli atti di indagine sono svolti in segreto dal soggetto che investiga e sono perciò assunti in modo unilaterale e senza il contraddittorio; per questo motivo di regola gli atti di indagine non sono utilizzabili ai fini della decisione pronunciata in dibattimento Le indagini svolgono varie funzioni: gli elementi di prova acquisiti

- in primo luogo sono valutati dal p.m. per decidere se esercitare l’azione penale; - in secondo luogo sono utilizzati dal g.i.p. nel momento in cui questi pronuncia i provvedimenti di

sua competenza; - infine sono utilizzati, sia pure in via eccezionale e con determinate cautele, dal giudice del

dibattimento per emettere la decisione finale; in particolare la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per non ripetibilità oggettiva o per effetto di condotta illecita sul dichiarante.

Nella fase delle indagini preliminari è previsto l’intervento del giudice per le indagini preliminari; la sua funzione si caratterizza come una “giurisdizione semipiena”, perché è esercitata soltanto nei casi previsti dalla legge e su richiesta di parte; in sostanza il g.i.p. svolge una funzione di controllo imparziale sui provvedimenti più importanti, senza esercitare poteri di iniziativa (che in questa fase spettano al p.m.) Inoltre il g.i.p. ha una cognizione limitata, in quanto di regola decide soltanto sulla base di verbali di atti presentatigli dal p.m., dalla polizia e dal difensore dell’indagato o dell’offeso. Eccezionalmente di fronte al g.i.p. sono assunte le prove non rinviabili al dibattimento: ciò avviene in una udienza in contraddittorio, denominata incidente probatorio (392 ss.). LA NOTIZIA DI REATO La notizia di reato è un’informazione che permette alla polizia giudiziaria ed al p.m. di venire a conoscenza di un illecito penale. La presenza di una notizia di reato produce tre effetti:

1) segna il passaggio dalla funzione di polizia di sicurezza alla funzione di polizia giudiziaria; 2) impone alla polizia giudiziaria che abbia appreso la notizia l’obbligo di informare il p.m.; 3) impone al p.m. l’obbligo di provvedere all’immediata iscrizione della notizia nel registro delle

notizie di reato. la denuncia

Il codice regola espressamente due notizie di reato il referto Inoltre prevede le condizioni di procedibilità

- la querela questi atti contengono sia l’informativa sull’illecito penale, - l’istanza sia la manifestazione della volontà che si proceda contro il - la richiesta di procedimento responsabile dello stesso; la loro mancanza impedisce al p.m. - l’autorizzazione a procedere di esercitare l’azione penale

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La denuncia La denuncia può esser presentata da qualsiasi persona che abbia avuto notizia di un reato (un cittadino, uno straniero o lo stesso autore del fatto illecito); può essere scritta od orale e può essere presentata sia ad un ufficiale di polizia giudiziaria, sia direttamente al p.m. Contenuto della denuncia: la denuncia contiene � la esposizione degli elementi essenziali del fatto e indica il giorno dell’acquisizione della notizia

nonché le fonti di prova già note; � quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona

alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti.

Di regola, la denuncia è facoltativa, ma vi sono delle ipotesi in cui essa costituisce un obbligo sanzionato penalmente:

• una persona privata ha l’obbligo di denuncia in questi casi: - quando sia cittadino italiano e abbia avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato

per il quale la legge stabilisce l’ergastolo; - quando abbia ricevuto cose provenienti da delitto; - quando abbia notizia di materie esplodenti situate nel luogo da lui abitato; - quando abbia subito un furto di armi o esplosivi; - quando abbia avuto conoscenza di un delitto di sequestro di persona a fini di estorsione.

• i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di presentare denuncia quando vi è una determinata relazione tra la funzione o il servizio da loro svolto e la conoscenza del reato; l’obbligo infatti scatta per i reati non procedibili a querela di cui il soggetto abbia avuto conoscenza nell’esercizio delle funzioni (cioè durante l’orario di lavoro) o a causa della sua funzione o servizio. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, data la particolare qualifica rivestita, sono tenuti ad informare il p.m. di tutti i reati procedibili d’ufficio dei quali sono venuti comunque a conoscenza; quindi anche fuori del servizio svolto.

La definizione delle due qualifiche è data dagli artt. 357 e 358 del codice penale. - Aspetti comuni alle due qualifiche:

- la funzione ed il servizio sono “pubblici” quando sono disciplinati da “norme di diritto pubblico e da atti autoritativi”

- ciò che rileva non è l’esistenza di un rapporto di impiego pubblico, ma l’esercizio in concreto di una funzione o servizio pubblici.

- Definizione di pubblico ufficiale: sono funzioni pubbliche (ed in quanto tali integrano la qualifica di pubblico ufficiale) le funzioni legislative, giudiziarie ed amministrative; Al fine di consentire una precisa delimitazione del concetto di pubblica funzione, con particolare riferimento a quella amministrativa, il 357.2 c.p. afferma che la stessa deve avere almeno una di queste caratteristiche: deve consistere nella “formazione” o “manifestazione” della volontà della pubblica amministrazione o deve svolgersi per mezzo di “poteri autoritativi” o “certificativi”.

- Definizione di incaricato di pubblico servizio: nell’articolo 358 c.p. l’incaricato viene definito mediante un requisito positivo e due requisiti negativi: il servizio deve essere disciplinato da norma di diritto pubblico e da atti autoritativi (come la funzione pubblica); poi devono mancare le caratteristiche proprie della funzione pubblica (cioè lo svolgimento di poteri certificativi o autoritativi o la formazione o la manifestazione della volontà della p.a.) e il servizio non deve comportare l’esercizio di semplici mansioni d’ordine, né la prestazione di un’opera meramente materiale.

Esenzione dall’obbligo di denuncia: il difensore e i suoi ausiliari non hanno obbligo di denuncia nemmeno in relazione ai reati dei quali abbiano avuto notizia nel corso delle attività investigative da essi svolte; tale disposizione deve intendersi nel senso che, rispetto all’obbligo di denuncia, il difensore e i suoi ausiliari sono trattati come privati anche quando svolgono investigazioni difensive (nonostante le attività difensive comportino l’esercizio di funzioni quali la certificazione o la verbalizzazione)

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Il referto Il referto è una particolare forma di denuncia alla quale è tenuto colui che, nell’esercizio di una professione sanitaria, ha prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto procedibile d’ufficio; questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale (pertanto, se dal medico si fa assistere la persona offesa dal reato, il sanitario ha l’obbligo del referto; mentre se il responsabile del reato si fa assistere da un medico privato, l’obbligo di referto non sussiste). Se il medico è dipendente pubblico, anche in quest’ultimo caso egli ha sempre l’obbligo di denuncia-referto, in quanto è un incaricato di pubblico servizio. Il soggetto obbligato deve far pervenire il referto entro 48 ore (o se vi è pericolo del ritardo, immediatamente) al p.m. o alla polizia giudiziaria. L’obbligo di informare il pubblico ministero Una volta che la polizia giudiziaria abbia ricevuto una notizia di reato, scatta l’obbligo per la polizia stessa di informare il p.m., cioè di trasmettergli l’ informativa , la quale deve:

- precisare gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi di prova e le attività compiute - contenere l’indicazione precisa circa il giorno e l’ora in cui la notizia è stata acquisita

Termini per la trasmissione dell’informativa: come regola il codice pone l’obbligo di riferire la notizia di reato senza ritardo e per iscritto al p.m.; sono previste poi alcune eccezioni:

- l’informativa deve essere data immediatamente anche in forma orale quando sussistono ragioni di urgenza o quando si tratta di determinati delitti gravi o di criminalità organizzata .

- l’informativa deve essere data entro di 48 ore nel caso in cui la polizia giudiziaria abbia compiuto atti per i quali è prevista l’assistenza del difensore dell’indagato.

- l’informativa deve essere data immediatamente in caso di arresto in flagranza Le condizioni di procedibilità Il codice pone la regola della procedibilità d’ufficio; quindi i reati sottoposti a condizione di procedibilità devono essere espressamente previsti dalla legge. Le condizioni di procedibilità sono atti ai quali la legge subordina l’esercizio dell’azione penale in relazione a determinati reati per i quali non si debba procedere d’ufficio. In realtà in mancanza di una condizione di procedibilità possono essere compiuti soltanto gli atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo, possono essere assunte le prove previste dall’articolo 392. La QUERELA è un atto col quale la persona offesa manifesta la volontà che si persegua penalmente il fatto di reato che essa ha subito, a prescindere dal soggetto che risulterà esserne l’autore; essa contiene:

� la notizie di reato � la manifestazione della volontà che si proceda penalmente in ordine al medesimo

Termine per l’esercizio del diritto di querela: il diritto di querela deve essere esercitato, di regola, entro il termine di tre mesi dal giorno in cui la persona offesa ha avuto notizia del fatto che costituisce reato (ma nel caso di delitti contro la libertà sessuale il termine è di sei mesi). Rinuncia alla querela: il codice consente alla persona offesa di rinunciare al diritto di querela; la rinuncia è un atto irrevocabile ed incondizionato con cui la persona offesa, prima di aver proposto querela, manifesta la volontà che non si proceda penalmente per il reato subìto. Rimessione di querela: di regola, la querela una volta proposta può esser revocata; a tal fine il codice penale prevede l’istituto della remissione: si tratta di quell’atto irrevocabile ed incondizionato con cui la persona offesa, dopo aver proposto querela, manifesta la volontà che non si proceda penalmente per il fatto di reato; la remissione estingue il reato. La remissione non produce effetto se il querelato non l’ha accettata espressamente o tacitamente.

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L’ ISTANZA è un atto col quale la persona offesa manifesta la volontà che si proceda per un reato che è stato commesso all’estero e che, se fosse stato commesso in Italia, sarebbe procedibile d’ufficio. La RICHIESTA DI PROCEDIMENTO è l’atto con cui il ministro della Giustizia manifesta la volontà che si proceda per un determinato reato commesso all’estero o per altri reati espressamente previsti da alcuni articoli del codice penale (delitti contro il Presidente della Repubblica, alcuni delitti contro la personalità dello Stato) L’ AUTORIZZAZIONE A PROCEDERE è un atto discrezionale ed irrevocabile emanato da un organo dello Stato; la legge pone l’autorizzazione come condizione per l’esercizio dell’azione penale e per il compimento di singoli atti del procedimento in considerazione della qualità dell’imputato (che è un rappresentante di un organo pubblico e che si vuole proteggere contro le “azioni di disturbo” del potere giudiziario) ovvero della qualità della persona offesa dal reato (che è un organo pubblico del quale si vuole evitare che venga compromesso il prestigio in un processo penale) In mancanza delle condizioni di procedibilità, la polizia giudiziaria di regola non ha l’obbligo di informare il p.m. della notizia di reato; l’obbligo scatta solo se vengono compiute indagini. IL SEGRETO INVETIGATIVO (c.d. segreto interno, che riguarda i soggetti del procedimento) Art. 111.3 Cost.: Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più

breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico.

Purtroppo gli istituti che garantiscono la difesa dell’indagato aprono falle nella tutela della società e viceversa i mezzi che servono a proteggere la società ostacolano la difesa dell’indagato; il codice ha operato un bilanciamento tra le contrapposte esigenze della protezione della società e della difesa dell’indagato: ha previsto la regola della segretezza e vi ha posto varie eccezioni in favore della difesa. Gli atti segreti Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria (fra i quali rientrano ad esempio gli accertamenti tecnici ripetibili, l’individuazione di persone o di cose, l’assunzione di informazioni da possibili testimoni) sono coperti dal segreto investigativo fino all’avviso di conclusione delle indagini. Tale vincolo concerne lo svolgimento e la documentazione dell’atto del procedimento (viceversa, esso non si estende al fatto storico oggetto di indagine); esso comporta che l’atto di indagine non debba essere rivelato e si riferisce a tutte le persone che hanno partecipato o assistito al compimento dell’atto; esso inoltre opera in modo oggettivo, nel senso che grava su tutti i soggetti che siano a conoscenza dell’atto segreto (essi sono comunque obbligati a non rivelare l’atto, a prescindere dalla loro qualifica). Ovviamente l’atto può essere rivelato dall’inquirente a soggetti “autorizzati” a conoscerlo; ma il soggetto autorizzato a conoscere l’atto è, a sua volta, vincolato dall’obbligo del segreto. La violazione dell’obbligo del segreto investigativo può rientrare in almeno due fattispecie incriminatrici:

- la prima fattispecie consiste nella rivelazione di notizie segrete inerenti ad un procedimento penale e punisce con la reclusione fino ad un anno chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimenti penale, da lui apprese per aver partecipato o assistito ad un atto (segreto) del procedimento stesso (art. 379-bis c.p.)

- la seconda fattispecie consiste nella rivelazione del segreto d’ufficio e punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio il quale riveli un atto segreto violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della propria qualità (art. 326 c.p.); rientrano nella categorie dei pubblici ufficiali, i magistrati e la polizia giudiziaria

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Durata del segreto investigativo: il divieto di rivelazione permane fino a che l’atto è coperto dal segreto; il codice indica due momenti nei quali viene meno l’obbligo del segreto:

- in primo luogo l’obbligo del segreto cade avviene quando l’indagato può avere conoscenza dell’atto; deve trattarsi ovviamente di una possibilità “legale” di conoscenza

- in secondo luogo l’obbligo del segreto cade quando si perviene alla chiusura delle indagini preliminari; l’espressione di riferisce all’avviso di conclusione delle indagini

Gli atti conoscibili dall’indagato Alla regola della segretezza sono state poste varie deroghe in favore della difesa. Gli ATTI GARANTITI : atti ai quali il difensore ha diritto di assistere previo avviso; quindi quando il p.m. intende compiere un atto garantivo deve preavvisare il difensore dell’indagato del compimento dell’atto, altrimenti l’atto sarebbe nulla per violazione dei diritti di intervento e di assistenza spettanti all’indagato; l’avviso deve essergli dato almeno 24 ore prima del compimento dell’atto stesso; si tratta dell’interrogatorio, dell’ispezione e del confronto ai quali partecipa l’indagato e dell’ispezione alla quale non deve partecipare l’indagato e dell’accertamento tecnico non ripetibile disposto dal p.m. su persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto modificazione o la modificazione dei quali è determinata dall’accertamento stesso. Eccezioni: - quando vi è fondato motivo di ritenere che il ritardo nel compimento dell’interrogatorio o del

confronto possa pregiudicare la ricerca o l’assicurazione delle fonti di prova, il p.m. può compiere l’atto prima del termine (ma deve cmq dare tempestivamente avviso al difensore)

- l’avviso può essere omesso quando il p.m. procede ad ispezione e vi è fondato motivo di ritenere che le tracce o gli altri effetti materiali del reato possano essere alterati; è fatta salva in ogni caso la facoltà del difensore di intervenire.

Quando il p.m. ritiene di compiere un atto garantito, ha inoltre il dovere di inviare (per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno, ovvero, in caso d’urgenza tramite notificazione dell’ufficiale giudiziario) all’indagato ed alla persona offesa l’informazione di garanzia, in cui è presente:

- l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto - l’invito a esercitare la facoltà di nominare un difensore di fiducia

Se l’indagato non procede alla nomina, il p.m. designa il difensore d’ufficio, richiedendo il nominativo all’ufficio appositamente istituito presso i consiglio dell’ordine degli avvocati; in questa ipotesi in occasione del primo tra gli atti garantiti che si svolgono su iniziativa del p.m., questi deve notificare all’indagato la comunicazione della nomina del difensore d'ufficio (c.d. informazione sul diritto di difesa), a pena di nullità degli atti successivi; nella comunicazione sono indicati:

a) l’informazione della obbligatorietà della difesa tecnica nel processo penale “con indicazione delle facoltà e dei diritti attribuiti dalla legge all’indagato”.

b) il nominativo del difensore d’ufficio e il suo indirizzo e recapito telefonico. c) l’indicazione della facoltà di nominare un difensore di fiducia con l’avvertimento che, in mancanza,

“l’indagato sarà assistito da quello nominato d’ufficio”. d) l’indicazione dell’obbligo di retribuire il difensore d’ufficio, a meno che l’indagato non ottenga

l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. e) l’indicazione delle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Il difensore di fiducia (o d’ufficio) ha la facoltà, ma non il dovere, di assistere all’atto garantito; quindi l’atto è validamente compiuto anche se il difensore, regolarmente preavvisato, non si presenta. Gli ATTI A SORPRESA sono gli atti ai quali il difensore ha facoltà di assistere senza tuttavia aver diritto al preavviso; si tratta delle perquisizioni e dei sequestri, che sono atti per loro natura non ripetibili fin dall’origine.

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Quando il difensore assiste agli atti di indagine (garantiti o a sorpresa), il suo intervento è limitato (si parla a tale proposito di contraddittorio debole): il difensore può presentare al pubblico ministero richieste, osservazioni e riserve delle quali è fatta menzione nel verbale. Deposito: degli atti garantiti e degli atti a sorpresa è previsto il deposito del verbale a prescindere dal fatto che il difensore abbia partecipato o meno all’atto medesimo; il deposito avviene presso la segreteria del p.m. entro il terzo giorno successivo al compimento dell’atto e il difensore ha la facoltà di esaminare il verbale ed estrarne copia nei cinque giorni successivi. Il potere di segretazione (attribuito al p.m.)

- il potere di segretare lo “svolgimento” di atti di indagine conoscibili: l’obbligo del segreto può essere disposto per singoli atti in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini.

- il potere di segretare i “fatti” oggetto di indagine: esso si esercita su atti segreti (ma concerne solo gli atti di indagine che comportano l’assunzione di dichiarazioni da parte di testimoni o imputati) e consiste in un ampliamento dell’oggetto del segreto: esso non è limitato al solo svolgimento dell’atto, ma anche ai fatti storici oggetto di indagine; in particolare se sussistono specifiche esigenze attinenti alle indagini, il p.m. può vietare, alle persone sentite, di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza; il divieto è disposto con decreto motivato e non può avere una durata superiore a due mesi.

IL DIVIETO DI PUBBLICAZIONE (c.d. segreto esterno) Il codice pone il divieto di pubblicare determinati atti del procedimento penale con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione; il divieto è di tipo assoluto o attenuato. Nei confronti degli atti di indagine che sono segreti è posto il divieto assoluto di pubblicazione, e cioè è vietato pubblicarne sia la riproduzione totale o parziale, sia il riassunto, sia il contenuto generico; tuttavia quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il p.m. può consentire, con decreto motivato, la pubblicazione di singoli atti o di parte di essi. Per gli atti di indagine che non siano segreti, cioè per gli atti conoscibili (gli atti che sin dall’origine nascono come conoscibili dall’indagato e gli atti che divengono successivamente conoscibili) vige un divieto attenuato di pubblicazione, nel senso che è vietato pubblicare l’“atto”, e cioè il testo parziale o totale dell’atto stesso, però è consentito pubblicare il “contenuto” dello stesso, cioè notizie di stampa può o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il contenuto di atti. Questo vale fino al termine dell’udienza preliminare; poi, in seguito alla emissione del decreto che dispone il giudizio, il giudice forma due fascicoli sottoposti a due regimi differenti: 1) il fascicolo per il dibattimento: gli atti in esso contenuti sono di regola pubblicabili attraverso la

riproduzione totale o parziale del loro testo. 2) il fascicolo del p.m.: gli atti in esso contenuti sono pubblicabili soltanto nel loro contenuto generico;

può essere pubblicato il loro testo soltanto dopo che è stata pronunciata la sentenza in grado d’appello (il legislatore vuole garantire la corretta formazione del convincimento del giudice)

La pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale è punita con la sanzione irrisoria dell’arresto fino a 30 giorni in alternativa con l’ammenda di 258 euro nel massimo: scarsa efficacia deterrente della norma (art. 684 cp). Regole particolari Gli atti del dibattimento a porte chiuse per esigenze di segretezza. Il codice impone il divieto di pubblicazione degli atti che sono compiuti nel dibattimento quando questo viene celebrato a porte chiuse per esigenze di segretezza; si tratta delle seguenti ipotesi:

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- Quando la pubblicità può nuocere al buon costume; - Quando la pubblicità può comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse

dello Stato, se l’autorità competente richiede che si proceda a porte chiuse; - Quando devono essere assunte prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni

ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione e l’interessato chiede che si proceda a porte chiuse;

Il divieto cessa quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato (40 anni) ovvero quando sono trascorsi 10 anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal Ministro della Giustizia. Il divieto di divulgazione di determinati atti. E’ vietato pubblicare le generalità e l’immagine dei minorenni in relazione a qualsiasi atto del procedimento penale, il divieto vige nei confronti del minorenne imputato; se il minorenne è testimone, persona offesa o danneggiato dal reato, il divieto concerne altresì gli elementi che anche indirettamente possano portare alla sua identificazione. Le generalità e l’immagine della persona offesa. L’art. 734-bis cp sanziona con la pena dell’arresto da 3 a 6 mesi chiunque divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa, le generalità o l’immagine della persona offesa dai reati di violenza sessuale, pedofilia e pedopornografia, senza il consenso di questa. Le persone private della libertà personale. La legge 479/99 ha introdotto nell’art. 114 il co. 6-bis, che vieta la pubblicazione dell’immagine delle persone private della libertà personale, ritratte con le manette ai polsi o mentre sono sottoposte ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che questa vi consenta. La pubblicazione di documenti concernenti lo spionaggio ed il dossieraggio illeciti. L’art. 4 del d.l. 259/2006 recante “Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tea di intercettazioni telefoniche” ha introdotto il divieto di pubblicare gli atti o i documenti di cui al co. 2 dell’art. 240 cpp:

- documenti supporti ed atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico che siano stati illegalmente formati o acquisiti (spionaggio illecito);

- documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni (dossieraggio illecito). L’ATTIVITÀ DI INIZIATIVA DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA E L’ATTIVITÀ DEL P.M. All’interno delle indagini preliminari il codice distingue tra attività ad iniziativa della polizia giudiziaria ed attività del p.m.; la distinzione non vuole isolare una fase autonoma attribuita alla polizia giudiziaria, bensì ha lo scopo di precisare la differente regolamentazione degli atti sotto vari profili, tra cui l’esercizio di poteri coercitivi e la tutela del diritto di difesa. L’ATTIVITÀ AD INIZIATIVA DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA Nell’ambito dell’attività d’iniziativa dalla polizia giudiziaria si possono tracciare ulteriori distinzioni: • l’ iniziativa autonoma: è un’attività di iniziativa in senso stretto che consiste nel raccogliere ogni

elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole; tale attività prende avvio dal momento in cui è pervenuta la notizia di reato e termina nel momento in cui il p.m. ha impartito le sue direttive;

• l’ iniziativa successiva: è un’attività di iniziativa in senso ampio che la polizia giudiziaria svolge dopo aver ricevuto le direttive dal p.m.; tale attività può ancora distinguersi in: - iniziativa guidata, che consiste nella stretta esecuzione delle direttive del p.m. - iniziativa parallela, che comprende tutte le altre attività di indagine per accertare i reati che la

polizia può eseguire purché ne informi prontamente il p.m. Infine, è prevista la c.d. attività integrativa, ossia svolta di iniziativa ma sulla base dei dati emersi a seguito del compimento di atti delegati dal p.m., per assicurarne la massima efficacia.

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Atti tipici svolti d’iniziativa dalla polizia giudi ziaria senza esercizio di poteri coercitivi 1) le sommarie informazioni dall’indagato

Con l’espressione “sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini” il codice ricomprende tre diverse modalità con cui l’indagato può rendere dichiarazioni alla polizia giudiziaria, molto differenti nei presupposti e nel regime di utilizzabilità: - le informazioni con la presenza del difensore: l’ufficiale di polizia (non quindi un semplice

agente) può assumere informazioni dall’indagato (e cioè porre domande) solo se quest’ultimo è libero e se comunque il suo difensore è presente (ciò presuppone che la polizia abbia invitato l’indagato a nominare un difensore e che questi, nominato e quindi preavvisato tempestivamente, sia potuto intervenire; se l’indagato non ha proceduto alla nomina di un difensore di fiducia, la polizia avverte il difensore d’ufficio di turno); le formalità di questo atto sono inferiori rispetto all’interrogatorio svolto dal p.m., infatti è sufficiente che l’indagato riceva quegli avvertimenti che sono disciplinati dal 64.3 (e cioè che le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti, che salvo quanto disposto dal 66.1 ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso, e che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone);

- le dichiarazioni spontanee: l’ufficiale o l’agente di polizia può ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini; Questa seconda modalità comporta che la polizia non abbia posto domande: occorre che l’iniziativa sia venuta dall’indagato;il codice non pone espressamente alla polizia l’obbligo di dare gli avvisi contenuti nel 64.3;

- le informazioni per la prosecuzione delle indagini: gli ufficiali di polizia giudiziaria possono porre domande all’indagato libero o arrestato anche in assenza del difensore, tuttavia delle notizie assunte è vietata sia la documentazione, sia l’utilizzazione in dibattimento ed in fasi precedenti; inoltre il codice pone due limiti:

a) le domande possono esser rivolte all’indagato solo sul luogo o nell’immediatezza del fatto di reato (ad es. nella stazione di polizia, ma subito dopo)

b) deve trattarsi di notizie utili ai fini della immediata prosecuzione delle indagini Il codice non impone alla polizia di avvertire l’indagato che ha facoltà di restare silenzioso. Le notizie non sono utilizzabili nel procedimento, ma possono servire per “indirizzare” le indagini

2) le sommarie informazioni da persone informate (possibili testimoni)

Le persone informate sono indicate dal codice con l’espressione “persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini”; obblighi della persona informata: - il possibile testimone ha l’obbligo di presentarsi alla polizia, se convocato; ove non si presenti,

può essere incriminato per inosservanza di un provvedimento della pubblica autorità (art. 650 c.p.) - inoltre, egli ha l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date (ad es. identificare cose o persone) - infine egli ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte; tale

obbligo di dire il vero non è penalmente sanzionato, tuttavia esso può dar luogo ad una differente responsabilità penale se, davanti alla polizia giudiziaria, il possibile testimone agisce allo scopo di aiutare taluno ad eludere le investigazioni dell’Autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa: l’aiuto così fornito ad una persona (purché diversa dal concorrente nel medesimo reato) integra gli estremi del delitto di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.).

La persona informata è titolare del privilegio contro l’autoincriminazione: può rifiutarsi di rispondere su fatti dai quali potrebbe emergere una propria responsabilità penale; inoltre può opporre all’inquirente l’esistenza di un segreto nei casi previsti dalla legge; infine se è un prossimo congiunto dell’imputato o dell’indagato deve essere avvisata della facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni. Le sommarie informazioni sono documentate mediante verbale; di regola non sono utilizzabili in dibattimento; eccezionalmente sono utilizzabili in dibattimento, se ripetibili, mediante contestazione nei limiti previsti dall’art. 500; se sono divenute non ripetibili, mediante lettura alle condizioni previste dall’art. 512.

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Un caso particolare costituiscono le sommarie informazioni dall’imputato di un procedimento connesso o collegato. L’ufficiale di polizia giudiziaria può porre domande all’imputato (o all’indagato) di un procedimento connesso o collegato: questi ha diritto ad essere assistito da un difensore, in caso di mancata nomina di quello di fiducia, gli è designato un difensore d’ufficio. Il difensore deve essere tempestivamente avvisato ed ha diritto di assistere all’atto.

2) atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche

Il codice legittima la polizia giudiziaria a compiere di propria iniziativa “atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche”; la norma autorizza la polizia giudiziaria ad avvalersi dell’opera di “persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera”: sono i c.d. ausiliari di polizia giudiziaria. Vi è differenza tra ausiliario e consulente tecnico: l’ausiliario svolge l’atto insieme alla polizia giudiziaria in funzione di semplice aiuto materiale, perciò si tratta di un atto compiuto dalla polizia giudiziaria; il consulente tecnico svolge attività in proprio dietro mandato del p.m., al quale dovrà riferire i risultati.

Atti tipici svolti d’iniziativa dalla polizia giudi ziaria con esercizio di poteri coercitivi 1) identificazione dell’indagato e di altre persone

2) la perquisizione in caso di flagranza o evasione

3) acquisizione di plichi o di corrispondenza;

4) accertamenti urgenti e sequestro;

5) arresto in flagranza;

6) fermo di persona gravemente indiziata.

L’identificazione L’identificazione è l’atto col quale viene dato un nome ad un volto (oggetto dell’identificazione è una persona fisica individuata, della quale non si conoscono le generalità); oggetto di identificazione possono essere tutte le persone che hanno avuto a che fare col reato direttamente o indirettamente (indagato, offeso e possibili testimoni).

Ogni volta che una persona rifiuta di farsi identificare, oppure fornisce generalità o documenti di cui si possa ritenere la falsità, è possibile un accompagnamento coattivo per identificazione; questo consiste nel portare la persona identificata negli uffici di polizia ed ivi trattenerla per il tempo strettamente necessario per l’identificazione e comunque non oltre le 12 ore. La persona può essere trattenuta non oltre le 24 ore nel caso in cui “l’identificazione risulti particolarmente complessa oppure occorra l’assistenza dell’autorità consolare o di un interprete”, ma la polizia deve dare previamente avviso orale o scritto al p.m. e la persona ha la facoltà di “chiedere di avvisare un familiare o un convivente”. In ogni caso dell’accompagnamento e dell’ora in cui questo è stato compiuto occorre dare immediata notizia al p.m. che può ordinare in qualsiasi momento che la persona trattenuta sia rilasciata qualora non sussistano le condizioni sopra indicate. Norme particolari valgono per l’identificazione dell’indagato La persona sottoposta alle indagini è invitata a dichiarare le proprie generalità, con l’avviso che costituisce reato sia il rifiutarsi di fornirle, sia il darle false; in particolare per la completa identificazione la polizia richiede all’indagato oltre alle generalità: il soprannome o lo pseudonimo; le condizioni di vita individuale, familiare o sociale; se è sottoposto ad altri processi; le condanne riportate nello Stato o all’estero; i beni patrimoniali dei quali è proprietario; le cariche pubbliche rivestite, gli uffici o servizi pubblici o di pubblica utilità prestati anche in passato.

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Il prelievo di materiale biologico. La polizia può procedere, ove occorra a rilievi antropometrici, fotografici o dattiloscopici; in particolare se gli accertamenti comportano il prelievo di capelli o saliva e manca il consenso dell’interessato, la polizia giudiziaria procede al prelievo coattivo nel rispetto della dignità personale del soggetto, previa autorizzazione del p.m. scritta oppure resa oralmente e confermata per iscritto. L’elezione di domicilio per le notificazioni. La persona sottoposta alle indagini viene inoltre invitata ad eleggere un domicilio per le notificazioni che si renderanno necessarie nel corso del procedimento.

Dall’identificazione è redatto verbale integrale, conservato nel fascicolo del pubblico ministero. La perquisizione affinché la polizia giudiziaria possa procedere a perquisizione di propria iniziativa, occorre al sussistenza di quattro requisiti:

- il primo requisito consiste nell’oggetto da ricercare: cose o tracce pertinenti al reato ovvero la persona dell’indagato o dell’evaso;

- il secondo requisito riguarda la situazione in cui la perquisizione avviene; questa può essere eseguita solo nei seguenti casi: nella flagranza del reato; in caso di evasione se si deve procedere al fermo di una persona indagata, ovvero all’esecuzione di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare ovvero la carcerazione per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza;

- il terzo requisito è dato dal pericolo nel ritardo: occorre ricercare subito cose o tracce che si possono cancellare o disperdere; altrimenti l’elemento di prova potrebbe andare perduto sia casualmente, sia per volontà dell’autore del reato o dei suoi complici;

- il quarto requisito è il fondato motivo di ritenere che nel luogo o sulla persona vi siano le cose o le persone ricercate; la polizia giudiziaria deve avere a disposizione elementi obbiettivi dai quai emerga con sufficiente probabilità che le cose o persone ricercate si trovano nel posto dove viene effettuata la perquisizione

La perquisizione di sistemi informatici o telematici è disposta, in presenza dei requisiti menzionati, quando gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno fondato motivo di ritenere che in tali sistemi si trovino occultati dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato che possono essere cancellati o dispersi. Procedimento: la polizia deve dare avviso all’indagato che sia presente della facoltà di nominare un difensore di fiducia; inoltre essa deve trasmettere al p.m. del luogo ove la perquisizione è stata eseguita, entro 48 ore, il relativo verbale affinché questi, nelle 48 ore successive, possa disporre la convalida. I rilievi e gli accertamenti urgenti (il sopralluogo); il sequestro probatorio Gli atti fondamentali di tipo investigativo sono i rilievi e gli accertamenti urgenti; essi hanno le seguenti finalità:

a) comprendere la dinamica del fatto dalla quale spesso dipende l’esistenza o meno del reato; b) raccogliere gli elementi di prova presenti; c) cercare spunti per la successiva attività di indagine.

L’ attività generica di conservazione consiste nel curare che le cose o tracce pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi non sia mutato prima dell’intervento del p.m.; quindi la polizia giudiziaria deve impedire:

- da un lato che vengano asportate cose o cancellate tracce - da un altro che cose o tracce vengano aggiunte o che siano spostate di posizione

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I rilievi consistono nell’attività di osservazione dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone, nonché nella descrizione delle tracce o degli effetti materiali del fatto-reato; i rilievi devono esser compiuti di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria in presenza di due presupposti:

- che il p.m. non possa intervenire tempestivamente - che vi sia il pericolo che nel frattempo lo stato dei luoghi cambi o le tracce vadano perdute (c.d.

urgenza). L’ accertamento urgente è un’operazione di tipo tecnico che deve essere compiuta dalla polizia in presenza dei presupposti sopra indicati; ad essa può procedere di regola solo un ufficiale e, in casi eccezionali di urgenza, anche un agente; qualora debbano esser compiute attività che richiedono specifiche competenze tecniche, la polizia giudiziaria può avvalersi dell’opera di esperti: i c.d. ausiliari di polizia giudiziaria. La polizia giudiziaria pero può compiere soltanto quegli accertamenti che non comportano modifiche all’elemento di prova; un accertamento che comporti la modifica dell’elemento di prova è riservato al p.m., che lo compirà nelle forme garantite del 360 (accertamento non ripetibile da svolgersi con preavviso all’indagato e all’offeso). Per quanto concerne il prelievo di materiale biologico, se gli accertamenti lo rendono necessario e vi è il consenso dell’indagato, la polizia giudiziaria agisce autonomamente, se il consenso manca, la polizia procede al prelievo coattivo nel rispetto della dignità personale dell’interessato, ma deve ottenere una previa autorizzazione del p.m. Il sequestro probatorio è la tipica attività di assicurazione delle fonti di prova; la polizia giudiziaria compie il sequestro se il p.m. non può intervenire tempestivamente e se vi è pericolo nel ritardo I rilievi, gli accertamenti urgenti e il sequestro sono atti non ripetibili, e quindi saranno inseriti nel fascicolo per il dibattimento dopo che il g.i.p. avrà deciso il rinvio a giudizio. Essi sono atti a sorpresa ai quali può assistere il difensore. La relazione di servizio Gli ufficiali di polizia giudiziaria, in ragione della loro doppia qualifica (essi di regola cumulano anche la funzione di polizia di sicurezza) devono redigere una relazione di servizio: atto avente rilevanza interna al corpo di appartenenza destinato al dirigente dell’ufficio, al quale viene riferito tutto ciò che è emerso durante il servizio; poiché nella pratica non è sempre chiara la distinzione tra le due funzoni, gli operatori pratici ritengono che la polizia, nell’esercizio della funzione di polizia giudiziaria, possa trasmettere tale atto anche al p.m. L’ATTIVITÀ DI INIZIATIVA DEL PUBBLICO MINISTERO Il registro delle notizie di reato L’arrivo dell’informativa proveniente dalla polizia giudiziaria fa sorgere a carico del p.m. l’obbligo di iscrivere la notizia di reato nell’apposito registro; al p.m. spetta il potere di indicare alla segreteria in quale registro debba essere iscritta la notizia di reato e se, eventualmente, debba essere annotato a fianco il nome di un indagato. Esistono tre tipi di registri.

1) il registro delle notizie di reato: si tratta del registro ordinario, e cioè di quello che contiene le notizie di reato. Il p.m. nel momento in cui ordina che sia iscritta nel registro la singola notizia di reato può non essere in grado di individuare la persona alla quale debba essere addebitato il medesimo. Quando ritiene di formulare un addebito nei confronti di una persona il p.m. ordina alla segreteria di iscrivere il nominativo dell’indagato nel registro, accanto alla notizia di reato già inserita.

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Successivamente l’iscrizione può essere aggiornata sia se muta la qualificazione giuridica del fatto, sia se ne risultano modificate le circostanze. Viceversa, si dovrà procedere ad iscrizioni del tutto nuove se a carico della medesima persona sono addebitati reati concorrenti ovvero se il medesimo fatto è addebitato anche ad altre persone. Dalla data in cui è iscritto nel registro il nome della persona alla quale il reato è attribuito, decorre il termine (di regola, sei mesi) entro cui il p.m. deve decidere se esercitare l’azione penale, chiedere l’archiviazione o chiedere la proroga delle indagini.

2) registro degli atti non costituenti notizia di reato: in esso il p.m. ordina che siano iscritti tutti quegli esposti dai quali non sia possibile ipotizzare in alcun modo un fatto di reato.

3) registro delle notizie anonime; di queste non può esser fatto alcun uso nel procedimento penale, almeno di regola; in via eccezionale, l’art. 240 prevede che “I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato”.

La conoscibilità del registro su iniziativa del soggetto interessato. Una volta che il nome dell’indagato è stato iscritto nel registro delle notizie di reato, le indagini continuano a svolgersi di regola in segreto (se non vengono compiuti atti conoscibili e non viene disposta alcuna misura cautelare, l’indagato non ha conoscenza “ufficiale” che è in corso un procedimento penale). Prima che gli pervenga l’informazione di garanzia (od atto equivalente), l’indagato può avere una notizia “ufficiale” dell’esistenza di un procedimento nei suoi confronti solo se si attiva, e cioè se chiede alla segreteria del p.m. di avere conoscenza delle iscrizioni a suo carico. (tuttavia, in casi eccezionali, le iscrizioni restano segrete). Il segreto sulle iscrizioni nel registro: occorre distinguere:

1) Se si procede per delitti di criminalità mafiosa le iscrizioni restano segrete fino a due anni: infatti per tali reti le iscrizioni non sono conoscibili a richiesta, la proroga viene data in segreto e due anni è il termine massimo di durata delle indagini.

2) Se si procede per gravi delitti non mafiosi, le iscrizioni restano segrete fino ad un anno: infatti per tali reati anche se le iscrizioni non sono conoscibili, la durata iniziale delle indagini è eccezionalmente di un anno (anziché 6 mesi), ma l’eventuale richiesta di proroga deve essere comunicata all’indagato.

3) Infine, se si procede per altri reati, il p.m. può disporre la segretazione fino ad un massimo di 3 mesi quando sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività d’indagine, e cioè quando vi è pericolo di inquinamento delle prove.

Quando non esistono iscrizioni nei confronti dell’interessato richiedente ovvero quando esistono ma non sono conoscibili, l’ufficio di segreteria, su indicazione del p.m., risponde alla richiesta con la seguente frase: “non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione”. Gli atti compiuti personalmente o su delega Il p.m. può compiere atti di indagine personalmente o può delegarli alla polizia giudiziaria; la delega può riguardare sia gli atti “atipici”, sia gli atti “tipici”, purché questi ultimi siano specificamente delegati; inoltre il p.m. può imporre alla polizia giudiziaria una direttiva, cioè l’indirizzo generale da dare alle indagini, all’interno del quale la polizia giudiziaria opera con gli atti di propria iniziativa. La delega è di regola consentita; sono previsti alcuni divieti:

- è previsto in modo esplicito il divieto di compiere ispezioni, perquisizioni e sequestri, che si svolgono negli uffici dei difensori e che sono disposti nel corso delle indagini preliminari; ad essi provvede personalmente il p.m. in forza di un motivato decreto di autorizzazione del giudice;

- è previsto in modo implicito il divieto di delegare l’interrogatorio dell’indagato arrestato ed i confronti con il medesimo;

- è ricavabile dalla natura dell’atto il divieto di delegare l’accertamento tecnico non ripetibile.

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La documentazione: gli atti assunti dal p.m. vengono documentati in vari modi, a prescindere dal fatto che siano stati compiuti personalmente o per delega alla polizia giudiziaria:

1) il verbale in forma integrale (che contiene sia le domande sia le risposte); la redazione del verbale in forma integrale riguarda alcuni atti in considerazione della loro importanza (si tratta delle denunce e delle querele presentate oralmente, degli interrogatori e dei confronti con l’indagato, delle ispezioni, delle perquisizioni, dei sequestri, delle sommarie informazioni, degli interrogatori degli imputati connessi e degli accertamenti tecnici non ripetibili)

2) il verbale in forma riassuntiva (che contiene la narrazione delle parti essenziali delle dichiarazioni); in tal modo sono verbalizzate le attività di indagine diverse da quelle sopra menzionate

3) l’annotazione, prevista per gli atti che hanno un contenuto semplice o una limitata rilevanza. Il fascicolo delle indagini: l’atto contenente la notizia di reato e la documentazione delle indagini sono conservati in un apposito fascicolo preso l’ufficio del p.m. assieme agli atti trasmessi dalla polizia giudiziaria. Le informazioni assunte dal possibile testimone Le sommarie informazioni possono essere assunte dal p.m. personalmente o dalla polizia giudiziaria da lui delegata. Coloro che rendono le informazioni sono indicate dal 362 con l’espressione “persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini”; vengono denominate nella prassi “persone informate”; tuttavia riteniamo che l’espressione “possibile testimone” sia più appropriata in quanto l’art. 362 estende alla persona informata quella incompatibilità a testimoniare prevista in relazione all’imputato dell’art. 197 (ne deriva che colui che risulta indagato non può essere sentito come persona informata). Regolamentazione Al possibile testimone sono applicabili gli artt. 197-203 del codice, per cui egli: - ha i medesimi doveri processuali del testimone: deve presentarsi ed attenersi alle prescrizioni date e

deve rispondere secondo verità - è titolare del privilegio contro l’autoincriminazione: può rifiutarsi di rispondere su fatti dai quali

potrebbe emergere una propria responsabilità penale; - può opporre all’inquirente l’esistenza di un segreto nei casi previsti dalla legge Il possibile testimone gode anche della garanzia contro l’autoincriminazione: se dalle informazioni rese emergono indizi di reità a carico del possibile testimone, l’autorità inquirente ne interrompe l’esame e lo avvisa che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; inoltre lo invita a nominare un difensore; le dichiarazioni rese in precedenza dal possibile testimone non possono essere utilizzate contro di lui, se mai possono essere utilizzate contro l’indagato Inoltre il p.m. e la polizia giudiziaria non possono chiedere alle persone già sentite dal difensore o dal suo sostituto informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date nel corso dell’intervista; il codice stabilisce un limite al potere di indagine dell’autorità inquirente, limite che è stabilito a tutela della segretezza degli atti di investigazione difensiva. Infine il codice pone un’ulteriore garanzia allo scopo di evitare che l’inquirente senta come possibile testimone una persona che dovrebbe interrogare in qualità di imputato con il rispetto delle garanzie difensive: “Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate” Documentazione Le sommarie informazioni sono documentate mediante verbale; di regola non sono utilizzabili in dibattimento; eccezionalmente sono utilizzabili, se ripetibili, mediante contestazione nei limiti posti dall’art. 500 mentre se sono divenute non ripetibili, sono utilizzabili mediante lettura alle condizioni previste dall’art. 512.

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L’interrogatorio dell’indagato Il p.m. che intenda sottoporre l’indagato ad interrogatorio (o a confronto o ad ispezione) deve fargli notificare un “invito a presentarsi” di regola, almeno 3 giorni prima di quello fissato per l’interrogatorio, salvo che, per ragioni di urgenza, il pubblico ministero ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire; l’invito a presentarsi deve contenere: a) le generalità dell’indagato; b) il giorno, l’ora e il luogo della presentazione e l’autorità davanti alla quale la persona deve presentarsi; c) l’indicazione che si darà luogo ad interrogatorio (o a confronto o ad ispezione) d) l’avvertimento che il p.m. potrà disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato nel caso di

mancata presentazione di questi senza che sia stato addotto un legittimo impedimento; e) la sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute (nella

prassi si denomina ciò “addebito provvisorio”). L’ avviso al difensore: il difensore deve essere preavvisato dell’atto almeno 24 ore prima del suo compimento; nei casi di assoluta urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che il ritardo possa pregiudicare la ricerca o l’assicurazione delle fonti di prova, il p.m. può procedere a interrogatorio (o a ispezione o a confronto) anche prima del termine fissato dandone avviso al difensore senza ritardo e comunque tempestivamente. L’interrogatorio dell’indagato libero può essere compiuto dal p.m. personalmente o su delega alla polizia giudiziaria; se è condotto personalmente dal p.m. l’atto può svolgersi anche senza la presenza del difensore, che tuttavia deve essere stato preavvisato; se l’interrogatorio è svolto dalla polizia giudiziaria delegata, il difensore dell’indagato deve essere necessariamente presente. L’interrogatorio dell’imputato sottoposto a fermo, arresto o custodia cautelare può esser condotto solo dal p.m. (non è ammessa la delega alla polizia giudiziaria. L’avviso di conclusione delle indagini = condizione per la richiesta di rinvio a giudizio Quando il p.m. ritiene di chiedere il rinvio a giudizio, deve far notificare all’indagato ed al suo difensore un atto dal contenuto piuttosto articolato: l’“avviso di conclusione delle indagini preliminari”; tale avviso, che deve essere notificato prima della scadenza del termine per le indagini, contiene: � la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede con l’indicazione delle norme di legge

che si assumono violate, della data e del luogo del fatto. � l’avvertimento che l’indagato ed il suo difensore hanno la facoltà di prendere visione del fascicolo

delle indagini, depositato presso la segreteria del p.m. � l’avvertimento che entro il termine di 20 giorni l’indagato può esercitare le seguenti facoltà:

a) può presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore;

b) può chiedere al p.m. il compimento di atti di indagine; c) può presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di esser sottoposto ad interrogatorio.

Il p.m. non è vincolato ad adempiere alle richieste dell’indagato, salvo quando quest’ultimo chiede di esser sottoposto ad interrogatorio, allora l’inquirente ha l’obbligo di procedervi, notificando all’imputato l’invito a presentarsi per rendere interrogatorio, pena la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di citazione diretta. In tutti gli altri casi, il p.m. valuta discrezionalmente la necessità di compiere nuove indagini a seguito delle richieste dell’indagato: se ritiene di svolgerle, esse devono essere compiute entro il termine di 30 giorni dalla presentazione della richiesta (termine che può essere prorogato dal giudice su richiesta del p.m. “per una sola volta e per non più di 60 giorni”). Nessun avviso deve essere dato alla persona offesa.

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L’interrogatorio di una persona imputata in un procedimento commesso o collegato Il p.m. nel corso delle indagini preliminari può interrogare un imputato di un procedimento connesso o collegato, che si svolga separatamente. La regolamentazione dell’atto si ricava per relationem dalla disciplina dell’esame dibattimentale di persone imputate in un procedimento connesso o collegato (infatti l’art. 363 impone di osservare le forme previste dall’art. 210). L’imputato (o indagato) di un procedimento connesso o collegato citato dal p.m. ha l’obbligo di presentarsi e riceve il medesimo avvertimento che viene dato al possibile testimone: in caso di mancata comparizione senza legittimo impedimento, la pubblica accusa può ordinare direttamente l’accompagnamento coattivo. Il p.m. ha l’obbligo di preavvisare il difensore del soggetto in questione del compimento dell’interrogatorio; invece il difensore dell’indagato del procedimento principale nel quale è assunto l’interrogatorio dell’imputato di un procedimento connesso non può partecipare all’interrogatorio, né ha diritto ad esaminarne il verbale in segreteria. Il 210 prevede una disciplina differenziata a seconda che il soggetto sentito sia un concorrente nel medesimo reato o un imputato connesso teleologicamente o collegato:

- interrogatorio dell’imputato concorrente nel medesimo reato Il p.m. ha l’obbligo di avvisare l’imputato concorrente che questi ha la facoltà di non rispondere, salvo che sulla propria identità personale; ciò al fine di rispettare il privilegio contro l’autoincriminazione (infatti, ciò che viene dichiarato potrà poi essere utilizzato in base all’art. 238 contro (o a favore di) questo soggetto nel procedimento che lo vede indagato od imputato); inoltre l’imputato concorrente nel medesimo reato non ha un obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità.

- interrogatorio dell’imputato in un processo connesso teleologicamente o collegato L’imputato in un procedimento connesso teleologicamente o collegato è avvertito che se renderà dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumerà la qualifica di testimone assistito limitatamente a tali fatti.

L’accertamento tecnico operato dal consulente del pubblico ministero Qualora le parti abbiano l’esigenza di svolgere accertamenti che comportano specifiche conoscenze scientifiche, tecniche o artistiche, è possibile per la pubblica accusa e per l’indagato chiedere al giudice la nomina di un perito con quell’istituto che è denominato “incidente probatorio”; in alternativa il codice predispone uno strumento più agevole, la consulenza tecnica di parte. Il p.m. durante le indagini preliminari può nominare consulenti tecnici quando occorre procedere ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze. Il consulente non può rifiutare la sua opera. La consulenza ha due distinte regolamentazioni in base al seguente criterio: si tratta di valutare se, nel momento in cui è disposto, l’accertamento appare ripetibile, o meno, in dibattimento:

• qualora l’accertamento tecnico appaia ripetibile , il p.m. nomina un consulente tecnico e fa svolgere l’accertamento in segreto; il verbale di tale atto è collocato nel fascicolo delle indagini ed è destinato ad essere inserito nel fascicolo del p.m. se e quando, in seguito all’udienza preliminare, sarà disposto il rinvio a giudizio

• qualora l’accertamento tecnico appaia non ripetibile, il codice attribuisce a tale atto un’efficacia

simile alla perizia, subordinandolo ad un controllo ad opera dell’indagato.

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La non ripetibilità può derivare da varie situazioni: 1) l’accertamento tecnico riguarda persone, cose o luoghi “il cui stato è soggetto a modificazione” 2) può essere lo stesso accertamento a determinare la modifica di cose, luoghi o persone In detti casi il p.m. deve dare un previo avviso all’indagato, all’offeso ed ai difensori in quanto costoro possono nominare consulenti tecnici come avviene per la perizia; i difensori e i consulenti tecnici eventualmente nominati hanno diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve

L’indagato ha l’ulteriore potere di formulare, prima del conferimento dell’incarico, riserva di promuovere incidente probatorio; in tal caso il p.m. deve disporre che non si proceda agli accertamenti (salvo che si tratti di accertamenti che, se differiti, non potranno più essere utilmente compiuti); se l’accertamento tecnico non ripetibile è differibile ed è egualmente compiuto nonostante la riserva, il relativo verbale è inutilizzabile nel dibattimento, ma è utilizzabile a tutti gli altri fini; se l’accertamento è non differibile perché in un momento successivo non può più essere utilmente compiuto, il relativo verbale è utilizzabile in dibattimento

L’individuazione di persone e di cose Durante le indagini preliminari il p.m. può procedere all’individuazione di persone o cose personalmente o mediante delega alla polizia giudiziaria. Il codice si limita a prescrivere che il p.m. proceda ad individuazione di persone o cose “quando è necessario per la immediata prosecuzione delle indagini”; l’indicazione temporale “quando” fa comprendere che non si è voluto restringere l’utilizzabilità ai soli fini investigativi. ↓ Ne deriva che l’individuazione, svoltasi senza le cautele della ricognizione e senza la presenza del difensore, è utilizzabile dal giudice nel momento in cui prende una decisione nel corso delle indagini; L’individuazione non è utilizzabile ai fini della decisione dibattimentale: essa è sempre ripetibile in un momento successivo davanti al giudice nella forma della ricognizione. Poiché l’atto di individuazione è ritenuto essere ripetibile:

- il p.m. nell’eseguire l’individuazione non è tenuto a rispettare le regole che nella ricognizione sono poste a pena di nullità al fine di assicurare l’attendibilità del risultato.

- non è prevista la presenza del difensore; il difensore non conosce neanche il verbale dell’atto perché questo è segreto.

- il verbale dell’atto di individuazione, in quanto documentazione di un atto ripetibile, deve essere inserito nel fascicolo del p.m.

Altre attività ad iniziativa del pubblico ministero Le perquisizioni: si tratta in genere di un atto delegabile alla polizia giudiziaria con decreto, nel quale devono essere specificati i luoghi e/o le persone, ed in particolare se sia consentito l’ingresso coattivo e se la perquisizione si possa estendere anche agli altri luoghi di cui il perquisito abbia la disponibilità. Devono essere eseguite personalmente dal p.m. le perquisizioni ed i sequestri negli studi dei difensori, l’apertura di plichi o di corrispondenza e le perquisizioni presso banche nel caso in cui queste rifiutino la consegna dei documenti richiesti. Il sequestro probatorio: il p.m., quando delega l’esecuzione del sequestro alla polizia giudiziaria, indica l’oggetto da sequestrare; se non lo fa ma dispone genericamente il sequestro di quanto rinvenuto costituente corpo o pertinenza del reato, si ritiene che la polizia giudiziaria debba chiedere la convalida al magistrato ai sensi dell’art. 355.

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L’ispezione personale è un atto che, per la sua particolare invasività della sfera personale del soggetto ad esso sottoposto, è stato riservato all’iniziativa del p.m. Il soggetto sottoposto ad ispezione ha il diritto di farsi assistere da una persona di sua fiducia. Le operazioni sotto copertura possono essere svolte da alcuni corpi di polizia autorizzati dal p.m. i quali, al fine di acquisire elementi di prova relativi a delitti di terrorismo, tratta di persone, pedopornografia e assimilati, armi stupefacenti e riciclaggio godono di una clausola di non punibilità; infatti nell’ambito di tali attività è possibile che gli infiltrati si rendano autori di reati, che vengono appunto considerati non punibili. Il controllo sulla legittimazione del pubblico ministero La legge 479/1999 ha introdotto un procedimento che consente all’ufficio superiore di accertare se il p.m. che svolge le indagini sia “legittimato” (e cioè sia quello che è collocato presso il giudice competente); il controllo è di natura non giurisdizionale ed opera su richiesta di parte. L’indagato, l’offeso e i rispettivi difensori hanno la facoltà di chiedere al p.m. procedente di trasmettere gli atti al suo omologo presso il giudice ritenuto competente. Il richiedente ha l’onere di indicare, a pena di inammissibilità, il giudice competente; ciò costituisce un’autentica probatio diabolica se si considera che tali soggetti non hanno una conoscenza completa degli atti delle indagini preliminari, che restano di regola segreti. Legittimazione: per essere legittimato a presentare la richiesta è necessario che il soggetto privato abbia avuto una conoscenza “ufficiale” dell’esistenza del procedimento mediante gli istituti dell’informazione di garanzia o della comunicazione dell’iscrizione sul registro delle notizie di reato. Qualora il p.m. rigetti la richiesta (oppure non decida entro il termine di 10 giorni), l’originario richiedente può riproporre la richiesta nei successivi 10 giorni. La richiesta deve essere presentata al procuratore generale presso la Corte d’Appello o, qualora il giudice competente appartenga ad un diverso distretto, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ai quali spetta di determinare l’ufficio del p.m. legittimato ad indagare. Il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni e ottenuta la copia degli atti, decide entro 20 giorni con decreto motivato, dandone comunicazione ai soggetti e agli uffici interessati; la decisione del procuratore generale non vincola il giudice il quale può sempre dichiararsi incompetente, ove ne ravvisi gli estremi. La richiesta non può essere riproposta a pena di inammissibilità salvo che sia basata su fatti nuovi e diversi. L’ARRESTO IN FLAGRANZA ED IL FERMO Il codice accoglie il principio generale per cui solo il giudice è competente ad applicare una misura cautelare limitativa della libertà personale. La polizia giudiziaria ha il potere di disporre misure coercitive temporanee denominate arresto e fermo, che limitano la libertà personale dell’indagato in situazioni di urgenza, fino a quando non interviene la convalida del giudice; se la convalida non è emessa entro il termine perentorio indicato dall’art. 391 co. 7, tali misure cessano di avere efficacia. Queste misure sono dette sinteticamente “precautelari” per indicare che consistono in un anticipo della tutela predisposta mediante le misure cautelari.

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L’arresto in flagranza L’arresto in flagranza è un provvedimento che di regola è disposto dalla polizia giudiziaria ed eccezionalmente dai privati. È in situazione di flagranza (detto stato di flagranza in senso pieno) colui che viene colto nell’atto di commettere il reato. È in situazione di “quasi flagranza” il soggetto che, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che abbia commesso il reato immediatamente prima. L’arresto in flagranza è obbligatorio per la polizia giudiziaria: • in presenza di un delitto non colposo (consumato o tentato) per il quale la legge stabilisce la pena

dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni e nel massimo a 20 anni. • in presenza di certi delitti (ad es. associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, furto aggravato, rapina,

estorsione, pornografia minorile e altri) per i quali sono presenti esigenze di tutela della collettività, anche se tali delitti non rientrano nei limiti edittali sopra indicati

Arresto ad opera di persone private: negli stessi casi in cui è obbligatorio per la polizia, l’arresto può essere effettuato da “ogni persona” se il delitto è procedibile d’ufficio. Il soggetto che ha eseguito l’arresto in flagranza deve senza ritardo consegnare la persona ristretta nella libertà e le cose costituenti il corpo del reato alla polizia giudiziaria, che redige il verbale della consegna e ne rilascia copia. Arresto facoltativo: l’altra ipotesi di arresto è denominata “facoltativa” dal codice, nel senso che è rimesso alla discrezionalità dell’ufficiale od agente di polizia valutare se la misura è giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto; in presenza di tali condizioni l’arresto in flagranza è consentito quando si procede:

- per un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni

- per un delitto colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni

L’arresto obbligatorio o facoltativo non è mai consentito quando tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità . Qualora si tratti di un delitto perseguibile a querela, l’arresto può essere eseguito se la querela viene proposta anche con dichiarazione resa oralmente all’ufficiale o agente di polizia presente sul luogo. Il fermo Il fermo è un provvedimento che può esser disposto di regola dal p.m. quando sono presenti queste condizioni : a) che vi siano gravi indizi a carico dell’indagato;

b) che sussistano specifici elementi di prova che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga; c) che si proceda per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della

reclusione non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono procedere al fermo in via sussidiaria nei seguenti casi: a) prima che il p.m. abbia assunto la direzione delle indagini;

b) qualora sia successivamente individuato l’indiziato; c) qualora sopravvengano specifici elementi che rendano fondato il pericolo che l’indiziato sia per

darsi alla fuga e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del p.m.

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Il p.m. non è titolare del potere di arresto in flagranza, tuttavia può disporre il fermo anche nelle ipotesi nelle quali vi sia la flagranza, purché il delitto rientri nei limiti edittali del fermo e siano presenti le condizioni che legittimano quest’ultimo provvedimento. La convalida dell’arresto e del fermo Il procedimento di convalida dell’arresto e del fermo attua due principi fondamentali posti dalla Costituzione: → art. 13.3 Cost: il principio in base al quale le misure limitative della libertà personale possono essere

applicate soltanto dal giudice, pertanto l’arresto e il fermo, quali provvedimenti provvisori e temporanei, devono essere sottoposti alla convalida del giudice.

→ art. 109 Cost: il principio in base al quale la polizia giudiziaria è sotto la diretta disponibilità dell’autorità giudiziaria.

Il procedimento di convalida dell’arresto e del fermo può esser suddiviso in tre fasi: 1) Nella prima fase la polizia giudiziaria pone l’arrestato a disposizione del p.m.

Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria hanno questi doveri: - danno immediata notizia del provvedimento al p.m. e trasmettono l’informativa di reato; - avvertono l’arrestato od il fermato della facoltà di nominare un difensore di fiducia; se non è

nominato un difensore di fiducia, chiedono al p.m. la designazione del difensore d’ufficio; - informano immediatamente dell’arresto o del fermo il difensore; - col consenso dell’arrestato danno ai familiari di quest’ultimo notizia dell’esecuzione della misura. - devono porre l’arrestato od il fermato a disposizione del p.m. al più presto e, comunque, non oltre

le 24 ore. - devono trasmettere al p.m. il verbale dell’arresto sempre entro le 24 ore. Il p.m. può autorizzare

una dilazione, in modo che comunque sia possibile presentare al giudice il verbale entro 48 ore dall’arresto.

2) Nella seconda il p.m. chiede la convalida dell’arresto (o del fermo) al giudice.

Il p.m. può procedere all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato dando previo avviso al difensore, che ha facoltà di essere presente all’atto. All’inizio dell’interrogatorio l’inquirente, dopo aver dato l’avviso della facoltà di non rispondere, informa l’arrestato del fatto per cui si procede e delle ragioni che hanno determinato il provvedimento, comunicandogli inoltre gli elementi a suo carico e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, le fonti.

Il p.m. ordina la liberazione senza chiedere la convalida al giudice quando:

a) risulta evidente che l’arresto od il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dai casi consentiti dalla legge;

b) la misura è divenuta inefficace perché sono decorsi i termini per porre l’arrestato a disposizione del p.m. o per chiedere la convalida al giudice.

Il p.m. ordina la liberazione (ma deve egualmente chiedere al giudice la convalida) quando, pur considerando giustificato l’arresto od il fermo, ritiene di non dover chiedere al giudice l’applicazione di una misura cautelare coercitiva.

3) La terza fase consiste nell’udienza di convalida che si svolge davanti al giudice. Essa inizia con la richiesta di convalida che deve essere presentata dal p.m. al giudice entro 48 ore dall’arresto. Ricevuta la richiesta, il g.i.p. fissa l’udienza di convalida entro le 48 ore successive. L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione facoltativa del p.m. e necessaria del difensore dell’arrestato. L’arrestato non è obbligato ad intervenire, ma se è presente deve essere interrogato dal giudice. L’arresto o il fermo cessa di avere efficacia se l’ordinanza di convalida non è pronunciata o depositata nelle 48 ore successive al momento in cui l’arrestato o il fermato è stato posto a disposizione del giudice (e cioè dal momento in cui il giudice ha ricevuto la richiesta di convalida).

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In sede di convalida vengono prese due distinte decisioni: • in primo luogo, il giudice accerta se l’arresto o il fermo è stato legittimamente eseguito e se sono

stati osservati i termini perentori per porre l’arrestato a disposizione del p.m. e per chiedere la convalida; quindi decide con ordinanza se convalidare o meno l’arresto o il fermo; tale provvedimento può essere oggetto di ricorso per cassazione.

• in secondo luogo, il giudice valuta se sussistono i presupposti della misura cautelare richiesta dal p.m. L’ordinanza è impugnabile presso il tribunale della libertà.

I due accertamenti sono indipendenti fra di loro. La cognizione del giudice è limitata al fatto di reato, come appare nella richiesta di convalida formulata dal p.m.; infatti il giudice non può modificare il fatto storico addebitato, ma soltanto valutare la sua esistenza in base agli elementi addotti; gli è inoltre consentito di attribuire al fatto storico una qualificazione giuridica diversa da quella data dal p.m., ma ciò vale solo ai fini della decisione in oggetto e non influisce sulle successive indagini. L’INCIDENTE PROBATORIO Il legislatore, di regola, riserva la formazione della prova al dibattimento, poiché in tale sede è garantito il contraddittorio nella sua più ampia manifestazione. Ciò permette anche di tutelare il principio di immediatezza tra l’assunzione della prova e la decisione sulla medesima: ai sensi dell’art. 525 co. 2 la deliberazione della sentenza è affidata “agli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”. Tuttavia non sempre si può attendere la formazione della prova in dibattimento, poiché questo si può svolgere a distanza di tempo dal fatto di reato: a tal fine è stato predisposto l’incidente probatorio, un’udienza che si svolge in camera di consiglio senza la presenza del pubblico e nella quale, davanti al g.i.p., si assumono le prove nelle medesime forme prescritte per il dibattimento. I casi di incidente probatorio Casi tassativi di non rinviabilità: alcuni mezzi di prova possono essere assunti nell’incidente probatorio solo se sono presenti i casi tassativi di non rinviabilità previsti nel 392: si tratta:

1) della testimonianza e del confronto, che possono essere ammessi solo se il dichiarante non potrà deporre in dibattimento a causa di un grave impedimento (ad es. infermità) o di una minaccia in atto affinché non deponga o deponga il falso;

2) dell’esperimento giudiziale e della perizia “breve”, che possono essere ammessi solo se la prova riguarda una persona, una cosa od un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile;

3) della perizia di lunga durata, che può essere ammessa quando, se disposta nel corso del dibattimento, determinerebbe una sospensione superiore a 60 giorni;

4) della ricognizione, che può essere ammessa se particolari ragioni di urgenza non consentono di rinviare l’atto al dibattimento.

Casi di incidente probatorio su richiesta di parte: vi sono poi altri mezzi di prova che possono essere assunti nell’incidente probatorio sulla base del mero presupposto che il p.m. o l’indagato lo abbiano chiesto al g.i.p., senza che sia necessario il requisito della non rinviabilità; i casi più importanti riguardano

- l’esame dell’indagato quando questi debba deporre su fatti concernenti la responsabilità altrui e - l’esame dell’imputato (o indagato) connesso o collegato ai sensi del 210 - la testimonianza di un minore di 16 anni in procedimenti per delitti di violenza sessuale, tratta di

persone e assimilati (al fine di permettere un controllo sulla credibilità ed attendibilità della deposizione nel momento in cui la memoria è ancora fresca)

Infine, occorre ricordare che il difensore può chiedere che siano assunti con incidente probatorio la testimonianza o l’esame delle persone che si siano avvalse della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione scritta nel corso dell’intervista svolta dal difensore o dai suoi ausiliari.

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L’incidente probatorio si svolge in varie fasi. 1) il contraddittorio sull’ammissibilità dell’incidente; 2) la decisione del giudice sull’ammissibilità e fondatezza della richiesta; 3) lo svolgimento dell’udienza in camera di consiglio; 4) l’eventuale integrazione del contraddittorio.

Il contraddittorio sull’ammissibilità dell’incident e Possono fare richiesta di incidente probatorio il p.m., l’indagato ed il suo difensore; la persona offesa non può rivolgersi direttamente al giudice, ma può solo fare richiesta al p.m. I soggetti che chiedono al giudice l’incidente probatorio hanno l’onere di precisare nella richiesta:

- la prova da assumere, i fatti che ne costituiscono l’oggetto e le ragioni della sua rilevanza; - le persone nei confronti delle quali si procede per i fatti oggetto della prova; - i motivi per cui la prova non è rinviabile al dibattimento.

La richiesta di incidente è presentata alla cancelleria del g.i.p. ed è notificata alla controparte, la quale può presentare al giudice deduzioni scritte sull’ammissibilità e fondatezza della richiesta e sull’estensione oggettiva e soggettiva dell’incidente. La decisione del giudice A seguito dell’eventuale contraddittorio scritto, il giudice decide sulla richiesta di incidente con un’ordinanza non impugnabile:

- in caso di accoglimento fissa la data dell’udienza ed indica (entro i limiti delle richieste delle parti) l’oggetto della prova e le persone interessate all’assunzione della stessa; a queste, alla persona offesa e ai loro difensori viene dato avviso della data dell’udienza

- nel caso inverso il giudice dichiara inammissibile la richiesta o la rigetta perché infondata; l’ordinanza è comunicata al p.m. e alle persone interessate, ma non è impugnabile

Il differimento dell’incidente probatorio : il p.m. ha il potere di chiedere al giudice il differimento dell’incidente quando la sua esecuzione pregiudicherebbe uno o più atti di indagine preliminare; la decisione sulla richiesta è presa dal giudice senza contraddittorio ed è comunicata al p.m. e notificata per estratto (e cioè, senza la motivazione) alle persone interessate; il differimento non è consentito quando pregiudicherebbe l’assunzione della prova. Lo svolgimento dell’udienza Poiché la conoscenza degli atti di indagine è indispensabile per condurre in modo efficace l’esame incrociato e per controllare la credibilità del dichiarante e il difensore dell’indagato nella fase delle indagini preliminari conosce di regola soltanto i pochi atti che siano stati depositati presso la segreteria del p.m., il codice pone al p.m. l’obbligo di depositare prima dell’udienza i verbali delle dichiarazioni che la persona da esaminare ha rilasciato in precedenza alla polizia giudiziaria ed al p.m.; a tal fine il giudice fa notificare all’indagato, all’offeso e ai difensori l’avviso del giorno in cui avverrà l’incidente probatorio “con l’avvertimento che nei due giorni precedenti l’udienza” costoro potranno “prendere cognizione ed estrarre copia delle dichiarazioni già rese dalla persona da esaminare”. L’udienza si svolge in camera di consiglio, e cioè senza la presenza del pubblico. È richiesta la partecipazione necessaria del p.m. e del difensore (di fiducia o d’ufficio) dell’indagato; il difensore dell’offeso ha il diritto, ma non l’obbligo, di partecipare all’udienza: in tale sede non può porre domande direttamente al dichiarante, bensì può chiedere al giudice di rivolgerle. A loro volta l’indagato e l’offeso hanno diritto di assistere personalmente all’udienza quando si deve esaminare un testimone o un’altra persona; negli altri casi possono assistere solo su autorizzazione del giudice.

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Le prove sono assunte con le forme stabilite per il dibattimento; il g.i.p. non ha il potere di assumere d’ufficio nuove prove, tuttavia egli può rivolgere domande alle persone “già esaminate”. L’incidente probatorio ha la funzione di anticipare la formazione della prova garantendo il diritto di difesa dell’indagato nei confronti del quale la prova stessa potrà essere successivamente utilizzata in dibattimento; per assicurare questa esigenza il codice vieta:

- di usare in dibattimento nei confronti dell’imputato le prove assunte nell’incidente senza la partecipazione del suo difensore e, quindi, senza la garanzia del contraddittorio

- di estendere l’oggetto della prova a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all’incidente e di verbalizzare le dichiarazioni aventi tale oggetto. A tali i divieti si può derogare soltanto se si provvede ad integrare il contraddittorio in favore delle nuove persone interessate; la richiesta è rivolta al giudice, il quale, se l’accoglie, rinvia l’udienza per il tempo strettamente necessario per effettuare le notifiche nei confronti delle persone indiziate e comunque non oltre i 30 giorni; l’integrazione non è disposta quando il rinvio dell’udienza pregiudica l’assunzione della prova.

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LA CONCLUSIONE DELLE INDAGINI PRELIMINARI IL TERMINE PER LE INDAGINI PRELIMINARI La finalità delle indagini preliminari è quella di permettere al p.m. di assumere “le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”: il p.m. deve decidere se esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione. Le indagini preliminari hanno un termine di durata sia quando si procede contro ignoti, sia quando è stato identificato un indagato; i termini possono essere prorogati dal g.i.p. su richiesta del p.m.; la proroga è consentita dal codice soltanto entro un termine massimo ed invalicabile che di regola consiste in 18 mesi e, in casi eccezionali, può arrivare fino a 2 anni per i reati più gravi o per le indagini più complesse. Il termine nel procedimento contro un indagato Il termine per le indagini nei confronti di un indagato inizia a decorrere dal momento in cui il nome di questi è iscritto nel registro delle notizie di reato. Il termine ordinario è di sei mesi; in via eccezionale il termine è di un anno se si procede per delitti gravi o di criminalità organizzata. Entro il termine il p.m. deve chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione; se non è in grado di formulare una delle due richieste chiede la proroga al g.i.p. Il termine può essere prorogato una o più volte, prima di ciascuna scadenza, con ordinanza del giudice e su richiesta del p.m.:

- la prima proroga può essere motivata con una “giusta causa”, mentre - successive proroghe possono essere chieste al p.m. “nei casi di particolare complessità delle

indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato”). Procedimento avente ad oggetto la proroga dei termini Prima della scadenza del termine il p.m. può chiederne la proroga al g.i.p. indicando le ragioni che giustificano il proseguimento delle indagini stesse. Il codice prevede: - un procedimento di proroga di tipo speciale, avente ad oggetto le indagini per i delitti di criminalità

organizzata mafiosa, per i delitti in materia di terrorismo e per quelli concernenti la violenza e la pedofilia; in esso non vi è alcun contraddittorio sulla richiesta del p.m. ed il giudice decide sempre senza udienza (de plano, con ordinanza emessa entro 10 giorni dalla richiesta) anche quando, per ipotesi, non dovesse accogliere la richiesta di proroga;

- un procedimento di proroga di tipo ordinario; in esso è necessario in primo luogo instaurare il contraddittorio; il g.i.p. cura che la richiesta di proroga, formulata dal p.m., sia notificata all’indagato ed alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente, abbia dichiarato di volerne essere informata (costoro sono poi avvisati che possono presentare memorie entro 5 giorni dalla notificazione); il giudice decide entro 10 giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie. La decisione del giudice è presa senza udienza (de plano) qualora egli allo stato degli atti ritenga di accogliere la richiesta di proroga; in caso contrario, egli fissa la data di una udienza e ne fa dare avviso al p.m. Il procedimento si svolge in camera di consiglio e la decisione è presa con ordinanza non impugnabile: Se il giudice concede la proroga questa “può essere autorizzata per un tempo non superiore a 6 mesi”. Se il giudice respinge la richiesta, il p.m. deve formulare l’imputazione o chiedere l’archiviazione. Se il termine per le indagini preliminari è già scaduto il giudice fissa un termine “non superiore a 10 giorni” per le determinazioni del p.m.

Gli atti compiuti dopo la scadenza del termine sono di regola inutilizzabili ; sono utilizzabili soltanto se il p.m. ha esercitato l’azione penale o richiesto l’archiviazione o la proroga al giudice (proroga che deve poi essere accettata). L’inosservanza del termine obbliga il procuratore generale presso la corte d’appello ad avocare il procedimento: in tal caso un sostituto del procuratore generale svolge le indagini indispensabili e formula le sue richieste entro 30 giorni.

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Il termine massimo: il codice pone alle indagini preliminari un termine massimo comprensivo delle proroghe; il termine generico è di 18 mesi; è previsto il termine di due anni nei seguenti casi: a) se le indagini preliminari riguardano delitti gravi o di criminalità organizzata, indicati specificamente; b) se le investigazioni sono particolarmente complesse per il numero di reati collegati o di indagati o di

persone offese; c) se le indagini richiedono il compimento di atti all’estero; d) se si tratta di procedimenti collegati. Il termine massimo per le indagini preliminari non può essere prorogato; alla sua scadenza il p.m. deve chiedere o l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Se non presenta una delle due richieste, i successivi atti di indagine sono inutilizzabili. Il termine nel procedimento contro ignoti Quando si procede contro ignoti, il termine per le indagini preliminari decorre dalla data di iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro. Entro il termine di 6 mesi il p.m. deve chiedere alternativamente:

- l’archiviazione perché è ignoto l’autore del reato, ovvero - la proroga del termine per poter proseguire le indagini.

La decisione del giudice sulla richiesta di proroga del termine perché “è ignoto l’autore del reato” è presa de plano (senza formalità), qualora egli allo stato degli atti ritenga di concedere la proroga; in caso contrario il giudice fissa la data di una udienza (così come avviene nel procedimento contro un indagato noto). Il giudice può prendere tre diverse decisioni:

a) può non autorizzare la proroga ed in tal caso il p.m. deve chiedere l’archiviazione; b) può autorizzare il p.m. a proseguire le indagini. c) se ritiene che il reato sia da attribuire ad una persona già individuata ordina che il nome di questa sia

iscritto nel registro delle notizie di reato. L’AZIONE PENALE L’ azione penale è stata definita come la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull’imputazione. Il p.m. esercita l’azione penale formulando l’imputazione; essa consiste nell’addebitare ad un soggetto un fatto di reato. Nel procedimento ordinario l’imputazione è ricompresa nella richiesta di rinvio a giudizio; nei riti speciali è ricompresa nell’atto che instaura il singolo procedimento. Elementi dell’imputazione sono: 1) l’enunciazione del fatto storico in forma chiara e precisa; 2) l’indicazione degli articoli di legge violati (il c.d. titolo del reato); 3) le generalità della persona alla quale è addebitato il reato. Effetti dell’azione penale: l’esercizio dell’azione penale determina due effetti:

- pone al giudice l’obbligo di decidere su di un determinato fatto storico - fissa in modo tendenzialmente immutabile l’oggetto del processo, e cioè impone al giudice il

divieto di decidere su di un fatto storico differente da quello precisato nell’imputazione. Il codice non indica espressamente qual è la misura degli elementi probatori che sono necessari per formulare l’imputazione; tuttavia tale criterio può essere ricavato a contrario dall’espressa indicazione del requisito che deve essere presente quando viene richiesta l’archiviazione; poiché il p.m. presenta richiesta di archiviazione allorché “gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”, ne deriva che l’imputazione è formulata quando il p.m. ha raccolto “elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio” e cioè quando i risultati delle indagini sono in grado di permettere al p.m. di dimostrare la fondatezza dell’accusa.

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Le caratteristiche dell’azione penale L’azione penale è: • OBBLIGATORIA: ai sensi dell’art. 112 Cost. “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare

l’azione penale”. Il principio di obbligatorietà impone che il p.m. valuti la fondatezza di ciascuna notizia di reato e che compia le indagini necessarie per decidere se occorre formulare l’imputazione ovvero chiedere l’archiviazione (non impone che il p.m. debba necessariamente “accusare”) L’obbligatorietà dell’azione penale ha il fine di assicurare due principi fondamentali: il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) ed il principio di legalità (art. 25.2 Cost.: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso).

Il controllo sul mancato esercizio dell’azione penale: se l’azione penale è obbligatoria, è necessario che sia previsto uno strumento tecnico che renda effettivo l’adempimento di tale dovere: la scelta del p.m. di non esercitare l’azione penale si traduce nella richiesta di archiviazione, che è sottoposta al controllo del g.i.p. Il giudice può indicare al p.m. le indagini che egli reputi necessarie; può altresì ordinargli di formulare l’imputazione (non può, tuttavia, sostituirsi al p.m. nel precisare il contenuto dell’imputazione, lo vieta il principio i separazione tra le funzioni processuali).

• MONOPOLIO DEL P.M.: il monopolio dell’azione penale in capo al p.m. non è imposto dalla

Costituzione; esso è una scelta del legislatore ordinario: il codice di procedura penale ha attribuito unicamente al p.m. il potere di esercitare l’azione penale. Tuttavia oggi il principio del monopolio vige solo per i reati rientranti nella competenza del giudice professionale: la riforma che ha attribuito competenze penali al giudice di pace ha infranto per la prima volta nel nostro sistema processuale il predetto monopolio limitatamente ai reati procedibili a querela (la persona offesa ha la facoltà di chiedere con ricorso diretto al giudice di pace la citazione a giudizio del responsabile del reato);

• IRRETRATTABILE : ai sensi dell’art. 50.3 “l’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o

interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge”; il codice quindi pone una regola o pone ad essa una eccezine: ex art. 71 se risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento, il giudice dispone con ordinanza che questo sia sospeso; in ogni caso, si può avere sospensione solo quando l’imputato rischia di essere condannato.

• PROCEDIBILE D’UFFICIO : ex art. 50.2 “Quando non è necessaria la querela, la richiesta,

l’istanza o l’autorizzazione a procedere, l’azione penale è esercitata di ufficio”; da ciò si ricava che di regola il p.m. non è vincolato nella sua azioni all’iniziativa di atri soggetti; non occorre nemmeno che al p.m. pervenga una denuncia: il p.m. può direttamente prendere notizia dei reati di propria iniziativa.

L’ARCHIVIAZIONE Quando il p.m. ritiene che non vi siano elementi per esercitare l’azione penale, formula una richiesta di archiviazione, sottoposta al controllo del g.i.p.; i regola, il controllo è effettuato de plano (e cioè senza udienza), ma può diventare complesso e penetrante quando il giudice non accoglie la richiesta di archiviazione o quando la persona offesa vi si oppone. Funzioni dell’istituto dell’archiviazione: 1) essa permette al p.m. di operare una prima importantissima selezione dei procedimenti al fine di non

appesantire il successivo filtro, rappresentato dall’udienza preliminare; 2) attua il controllo del giudice sul corretto adempimento dell’obbligo di esercitare l’azione penale da

parte del p.m. 3) riconosce dalla persona offesa dal reato il diritto di far controllare dal giudice in una udienza in

camera di consiglio le ragioni di un’eventuale inerzia del p.m.

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L’archiviazione è pronunciata dal g.i.p. in presenza di presupposti di fatto o di diritto: o l’archiviazione è pronunciata in presenza di presupposti di fatto, quando la notizia di reato è

“infondata”; in questo caso il giudice effettua una prognosi sull’esito di un eventuale dibattimento, in quanto ritiene probabile la pronuncia di una sentenza di assoluzione perché il fatto di reato non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, o il fatto non costituisce reato o il fatto non è punibile;

o l’archiviazione è pronunciata in presenza di presupposti di diritto, quando: - manca una condizione di procedibilità (ad es. la querela); - il reato è estinto (ad es. per prescrizione); - il fatto non è previsto dalla legge come reato (ad es. è un illecito amministrativo depenalizzato).

Infine, è disposta l’archiviazione quando sono rimasti ignoti gli autori del reato. La richiesta di archiviazione nei confronti di un indagato Il pubblico ministero, se la notizia di reato è infondata, presenta al giudice richiesta di archiviazione. Con la richiesta è trasmesso il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari . Il p.m. che chiede l’archiviazione ha l’onere di instaurare un contraddittorio scritto con la persona offesa, che abbia dichiarato in precedenza di voler essere informata circa l’eventuale archiviazione.

L'avviso della richiesta è notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Nell'avviso è precisato che, nel termine di dieci giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari.

Se l’offeso non presenta opposizione, il g.i.p. effettua un controllo de plano, e cioè senza udienza: - se accoglie la richiesta presentata dal p.m., il giudice emette decreto di archiviazione; - se non la accoglie, fissa la data di una udienza in camera di consiglio, alla quale possono partecipare il

p.m., la persona offesa, l’indagato e il suo difensore. Se invece l’offeso presenta opposizione:

- se l’opposizione è ammissibile (cioè contiene l’indicazione dell’oggetto delle ulteriori indagini richieste “e i relativi elementi di prova”) la medesima udienza ha luogo;

- se invece l’opposizione è inammissibile il giudice, dopo averne dichiarato l’invalidità, si limita ad operare un controllo de plano che potrà dare gli esiti sopra menzionati.

Nei casi in cui sia disposta l’udienza in camera di consiglio (cioè se la persona offesa si oppone o se il giudice non accoglie del plano la richiesta di archiviazione) viene attivato un ulteriore controllo di tipo “gerarchico” operato dal procuratore generale presso la corte d’appello. Udienza in camera di consiglio. Nell’udienza il giudice può scegliere fra tre diversi provvedimenti: in via interlocutoria, può indicare al p.m. le ulteriori indagini che ritiene necessarie; in via definitiva, può ordinare che il p.m. formuli l’imputazione o può disporre l’archiviazione. Le ulteriori indagini. Quando il giudice ritiene necessarie ulteriori indagini, le indica con ordinanza al p.m., fissando il termine indispensabile per il compimento delle stesse. Il p.m. è vincolato al compimento delle indagini ma gode di un potere discrezionale nello stabilire le concrete modalità di svolgimento delle stesse. Compiute le indagini, egli può valutare diversamente i risultati e formulare l’imputazione, ma può anche optare nuovamente per la richiesta di archiviazione e depositare i verbali delle indagini svolte.

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L’imputazione coatta. Il massimo grado di controllo si ha quando, a seguito dell’udienza in camera di consiglio, il giudice dispone con ordinanza che il p.m. formuli l’imputazione entro 10 giorni: si parla di “imputazione coatta” (ma è comunque il p.m. che sceglie l’imputazione che ritiene conforme alla legge). ↓ Entro 2 giorni dalla formulazione dell’imputazione coatta il giudice deve fissare con decreto la data dell’udienza preliminare; si tratta di una forma particolare di udienza preliminare, che non è preceduta da una richiesta di rinvio a giudizio. In tale sede un diverso giudice controllerà la fondatezza dell’accusa e potrà, se del caso, ordinare ulteriori indagini o assumere prove. La richiesta di archiviazione perché il reato è stato commesso da persone ignote La richiesta di archiviazione perché il reato è stato commesso da persone ignote è regolata dalle medesime norme che disciplinano l’archiviazione contro gli indagati. Il p.m. deve avvisare della richiesta di archiviazione contro ignoti la persona offesa che ne abbia fatto istanza, informandola del suo diritto di presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini. Se l’offeso non si oppone, il g.i.p. può accogliere la richiesta de plano; Se l’offeso si oppone o comunque il giudice non accoglie la richiesta, deve svolgersi una udienza in camera di consiglio. Decisioni: a seguito dell’udienza il g.i.p. può prendere tre diverse decisioni.

- può accogliere la richiesta del p.m. e disporre l’archiviazione con ordinanza. - se ritiene che il reato sia da attribuire a persona già individuata, ordina che il nome di questa sia

iscritto nel registro delle notizie di reato. - se ritiene necessarie ulteriori indagini, le indica con ordinanza al p.m., fissando il termine

indispensabile per il compimento delle stesse. La riapertura delle indagini a seguito dell’archiviazione Quando il procedimento contro un indagato è stato archiviato, il p.m. può compiere nuove indagini solo dopo essere stato autorizzato con decreto motivato del g.i.p. La richiesta del p.m. è basata sulla “esigenza di nuove investigazioni”; per ottenere l’autorizzazione non è necessario che siano presenti nuovi elementi è sufficiente che il p.m. prospetti al giudice un nuovo piano di indagine che può scaturire dalla diversa interpretazione degli elementi già acquisiti. Ottenuta l’autorizzazione, il p.m. procede ad una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato: da tale momento decorrono nuovamente i termini ordinari. La riapertura è un “atto dovuto” a carico del giudice; tuttavia un eventuale diniego non è impugnabile.

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L’UDIENZA PRELIMINARE L’udienza preliminare è una delle fasi del procedimento penale; essa ha la funzione di assicurare che un giudice controlli la legittimità ed il merito della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal p.m.; l’udienza preliminare può anche fungere da sede di definizione anticipata del procedimento: infatti, nel corso del suo svolgimento il giudice può accogliere la richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento. Il giudice dell’udienza preliminare deve essere un giudice diverso da quello che nel medesimo procedimento ha esercitato le funzioni di g.i.p.: l’art. 34 co. 2 bis pone una incompatibilità che può essere superata soltanto quando il g.i.p. si è limitato a svolgere funzioni di tipo non decisorio. LA FASE INTRODUTTIVA DELL’UDIENZA PRELIMINARE La richiesta di rinvio a giudizio formulata dal p.m. (che segna il passaggio dalla fase delle indagini preliminari alla fase dell’udienza preliminare) contiene l’imputazione (cioè l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto storico, il titolo di reato le generalità della persona alla quale il fatto è addebitato) nonché l’indicazione delle fonti di prova acquisite. La richiesta (che non deve essere motivata) è trasmessa al g.u.p. al quale spetta fissare giorno, ora e luogo dell’udienza; tra la data in cui la richiesta perviene al giudice e la data fissata per l’udienza non può intercorrere un termine superiore a 30 giorni. Le parti devono essere avvisate della data dell’udienza in modo da avere un termine libero di almeno 10 giorni; l’avviso della data dell’udienza è - notificato all’imputato ed alla persona offesa unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio; l’imputato

è avvertito altresì che, se non compare, sarà giudicato in contumacia - comunicato al p.m. e notificato al difensore dell’imputato con l’avvertimento della facoltà di prendere

visione degli atti e delle cose depositate in cancelleria, di presentare memorie e produrre documenti. Con la richiesta di rinvio a giudizio il p.m. deve trasmettere il fascicolo delle indagini; inoltre dal momento della richiesta di rinvio a giudizio ogni ulteriore atto integrativo delle indagini preliminari deve essere immediatamente reso conoscibile alle altre parti (infatti il p.m. e i difensori possono svolgere indagini suppletive: la documentazione di tali atti è trasmessa al giudice e depositata in modo che la altre parti ne possano prendere visione) La presenza dell’imputato e del difensore L’udienza preliminare si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del p.m. e del difensore dell’imputato. Il giudice deve controllare se vi è stata regolare costituzione delle parti: non sorgono problemi se le parti sono comparse; ove invece l’imputato non sia presente, il giudice deve accertare che ciò sia dovuto ad una scelta volontaria e non derivi, viceversa, da una mancata conoscenza incolpevole dell’avviso dell’udienza preliminare; egli deve quindi verificare l’effettiva conoscenza dell’avviso - quando esiste la prova che l’imputato non se il giudice accerta l’effettiva conoscenza dell’avviso

ha avuto “effettiva conoscenza” dell’avviso deve valutare la causa dell’assenza dell’imputato senza sua colpa (ad esempio in caso di nullità - se l’assoluta impossibilità a comparire è dovuta a dell’avviso e della sua notificazione) ovvero legittimo impedimento dell’imputato (oppure è anche

- quando appare solo “probabile” la mancata solo probabile che sia dovuta a caso fortuito o a forza conoscenza incolpevole dell’avviso maggiore) il giudice deve disporre il rinvio ad una

nuova udienza e disporre la rinnovazione dell’avviso il giudice deve rinnovare l’avviso - se invece non vi è legittimo impedimento, il giudice

dichiara la contumacia con ordinanza e l’imputato è rappresentato dal difensore

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La contumacia La contumacia è la situazione processuale dell’imputato il quale, benché ritualmente avvisato o citato, non compare all’udienza senza che sussista un suo legittimo impedimento Differenza con l’assenza: nelle ipotesi di assenza l’imputato manifesta la rinuncia a partecipare al processo; mentre si ha contumacia (e non assenza) allorché l’imputato non è presente all’inizio dell’udienza senza aver manifestato una rinuncia a comparire. Come accennato sopra se l'imputato, libero o detenuto, non compare all'udienza e non risulta la sussistenza di un legittimo impedimento o l’ignoranza colpevole dell’avviso), il giudice, sentite le parti, ne dichiara la contumacia con ordinanza e l’imputato è rappresentato dal suo difensore. Una volta che l’udienza si è conclusa, al contumace deve essere notificato il decreto che dispone il giudizio; al decreto è allegata la dichiarazione di contumacia. Eventi successivi:

- può accadere che l’imputato compaia prima della decisione; in tal caso il giudice deve revocare l’ordinanza e l’imputato può rendere dichiarazioni spontanee e chiedere di essere interrogato

- può accadere che prima della decisione pervenga la prova che l’imputato non era comparso a causa della mancata conoscenza incolpevole dell’avviso p per legittimo impedimento; il giudice deve revocare l’ordinanza contumaciale e, se l’imputato non è comparso, deve rinviare l’udienza si richiesta di parte o d’ufficio; se l’imputato che la prova tardiva non è dovuta a sua colpa, il giudice deve disporre l’assunzione o la rinnovazione degli atti che ritiene rilevanti ai fini della decisione (ciò non è possibile in caso di prova tardiva per colpa dell’imputato)

- l’ordinanza contumaciale è nulla se al momento della pronuncia vi è la prova che l’assenza dell’imputato è dovuta a mancata conoscenza dell’avviso di udienza o ad impossibilità di comparire per legittimo impedimento

L’assenza dell’imputato e del difensore L’assenza • dell’imputato : l’imputato può chiedere o consentire che l’udienza preliminare si svolga in sua

assenza; allo stesso modo l’imputato detenuto può rifiutare di assistervi; in tali casi l’imputato è considerato assente in quanto ha manifestato espressamente o implicitamente la sua rinuncia a comparire; se invece l’imputato dopo essere comparso si allontana dall’aula di udienza, è considerato presente ed è rappresentato dal difensore.

• del difensore: se il difensore dell’imputato non è presente, il giudice designa un sostituto che sia immediatamente reperibile, il quale esercita i diritti e assume i doveri del difensore di fiducia o d’ufficio. Nel caso in cui risulta che l’assenza del difensore è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento (purché prontamente comunicato), il giudice fissa con ordinanza la data della nuova udienza e ne dispone la notificazione all’imputato.

LO SVOLGIMENTO ORDINARIO DELL’UDIENZA L’udienza preliminare si svolge in camera di consiglio (e cioè senza la presenza del pubblico); all’udienza devono comunque essere presenti il p.m. ed il difensore dell’imputato. La persona offesa è avvisata della data dell’udienza e può essere presente personalmente e per mezzo del proprio difensore (quest’ultimo però può partecipare all’udienza presentando richieste solo se la persona offesa si è costituita parte civile). Il verbale di udienza è redatto di regola in forma riassuntiva; tuttavia è possibile che l’udienza assuma caratteri di complessità e in tal caso può risultare opportuna una verbalizzazione integrale sia ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, sia al fine di permettere una migliore valutazione di attendibilità dell’atto assunto.

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Lo svolgimento ordinario dell’udienza vede susseguirsi i seguenti momenti: a) l’ammissione di atti o documenti: all’inizio dell’udienza le parti possono chiedere al giudice

l’ammissione di atti o documenti; eventuali memorie potevano essere presentate dalle parti in cancelleria fino a cinque giorni prima dell’udienza;

b) l’esposizione del p.m.: il p.m. espone sinteticamente i risultati delle indagini preliminari e gli elementi di prova che giustificano la richiesta di rinvio a giudizio;

c) le dichiarazioni spontanee e l’eventuale interrogatorio dell’imputato: l’imputato può rendere dichiarazioni spontanee e può chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio; l’interrogatorio è condotto dal giudice, ma su richiesta di una delle parti il giudice deve disporre che esso si svolga nelle forme dell’esame incrociato;

d) l’esposizione dei difensori delle parti private: i difensori delle parti private svolgono le proprie argomentazioni; l’ordine dell’esposizione rispetta le cadenze dell’onere della prova (parte civile, responsabile civile, persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, imputato); il p.m. e i difensori possono replicare una sola volta;

e) le conclusioni: il p.m. e i difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni utilizzando gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari ed i documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione;

La modifica dell’imputazione: in base agli elementi emersi nel corso dell’udienza e alla discussione che si svolge in tale sede, può sorgere l’esigenza di apportare modificazioni all’imputazione originaria; la modifica è possibile in presenza di due condizioni:

- l’iniziativa del p.m. - il rispetto di determinati limiti di modificabilità

↓ Fatto diverso: finché si tratta di variare la descrizione del fatto storico (che comunque deve restare inalterato negli elementi essenziali della fattispecie), il p.m. è legittimato a contestare all’imputato un fatto “diverso” da quello contestato nella richiesta di rinvio a giudizio; lo stesso vale se si tratta di aggiungere una circostanza aggravante, un fatto commesso in esecuzione del medesimo disegno criminoso (reato continuato) o un altro reato commesso con la medesima condotta (concorso formale). Fatto nuovo: viceversa, quando risulta a carico dell’imputato un fatto “nuovo”, purché procedibile d’ufficio, la parola passa all’imputato, che può consentire o meno; ove consenta il giudice autorizza la contestazione.

f) la decisione del giudice (che può essere definitiva o interlocutoria):

- il giudice adotta una decisione definitiva quando pronuncia la sentenza di non luogo a procedere o il decreto che dispone il giudizio;

- il giudice prende una decisione interlocutoria quando dichiara di non poter decidere allo stato degli atti: in tal caso indica al p.m. le ulteriori indagini oppure dispone anche d’ufficio l’assunzione di prove, dando inizio allo svolgimento eccezionale dell’udienza preliminare.

LE INDAGINI SU INIZIATIVA DEL GIUDICE Il giudice, quando ritiene di non poter decidere allo stato degli atti perché le indagini preliminari sono incomplete, pronuncia ordinanza con la quale indica al p.m. “le ulteriori indagini fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare”. Il provvedimento deve essere comunicato al procuratore generale presso la corte d’appello, il quale può disporre l’avocazione delle indagini. Una volta che il p.m. abbia provveduto all’adempimento, si terrà una nuova udienza, che avrà come oggetto di discussione i risultati delle indagini. All’esito di tale udienza è possibile che: - il giudice ritenga di poter decidere allo stato degli atti il rinvio a giudizio o il non luogo a procedere; - in caso contrario il giudice può emettere una nuova ordinanza per l’integrazione delle indagini oppure

disporre una forma di assunzione di prove denominata dal codice “integrazione probatoria”.

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L’ATTIVITÀ DI INTEGRAZIONE PROBATORIA DEL GIUDICE Essa consiste nel potere di assumere prove nel corso dell’udienza preliminare laddove vi sia impossibilità di decidere allo stato degli atti (presupposto valutato discrezionalmente dal giudice):il giudice, se non ordina al p.m. l’integrazione delle indagini, può disporre anche d’ufficio l’assunzione delle prove delle quali “appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere”. Lo svolgimento dell’udienza vede susseguirsi i seguenti momenti: a) la richiesta di ammissione delle prove o l’indicazione d’ufficio delle medesime; il criterio in base al

quale il giudice dispone l’ammissione delle prove è quello della “evidente decisività” delle stesse ai fini della sentenza di non luogo a procedere; se non è possibile procedere immediatamente all'assunzione delle prove, il giudice fissa la data della nuova udienza e dispone la citazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle persone indicate nell'articolo 210 di cui siano stati ammessi l'audizione o l'interrogatorio

b) l’assunzione delle prove; l’audizione dei testimoni, consulenti tecnici e periti e l’interrogatorio degli

imputati connessi sono condotti dal giudice; le parti possono proporre domande a mezzo del giudice nel seguente ordine: per primo il p.m. e successivamente i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato.

c) l’eventuale interrogatorio dell’imputato; l’imputato può chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio

“in ogni caso” e cioè senza che il giudice possa sindacare l’ammissibilità di tale atto; anche l’interrogatorio deve essere condotto dal giudice, tuttavia il codice prevede che se una parte ne fa richiesta esso può svolgersi con le forme dell’esame incrociato.

d) le conclusioni delle parti e) la decisione del giudice (di rinvio a giudizio o di non luogo a procedere). LA SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE La sentenza di non luogo a procedere è pronunciata in base a motivi di diritto o di fatto, ossia quando:

• sussiste una causa che estingue il reato (es. prescrizione); • sussiste una causa per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita (es. manca

la querela); • il fatto non è previsto dalla legge come reato; • esiste la prova che l’imputato è innocente (perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha

commesso o non costituisce reato); • è accertato che la persona non è punibile per qualsiasi causa, ivi compreso il difetto di

imputabilità; tuttavia il giudice non può pronunciare la sentenza di non luogo a procedere se “ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca (ratio: le misure di sicurezza personali, con le quali si possono imporre pesanti limiti alla libertà possono essere applicate soltanto sulla base di un provvedimento che consegue al più completo controllo svolto dal giudice del dibattimento).

• quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti (cioè tali da far ritenere allo stato degli atti che non possano essere integrati dalla attività istruttoria tipica del dibattimento), contraddittori (cioè quando tra le prova raccolte c’è un contrasto che probabilmente non potrà essere superato dallo svolgimento del dibattimento) o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.

Avverso la sentenza di non luogo a procedere deve ritenersi esperibile il rimedio del ricorso per cassazione in sensi del principio di cui all’articolo 568.2).

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IL DECRETO CHE DISPONE IL GIUDIZIO Il decreto che dispone il giudizio è emesso nei casi nei quali il g.u.p. non pronuncia la sentenza di non luogo a procedere (quantum di prova necessario: quando gli elementi forniti dal p.m. a sostegno della richiesta e le prove eventualmente raccolte nell’udienza preliminare fanno ritenere prevedibile una condanna in dibattimento). Il decreto svolge due funzioni: • una funzione di decisione che accoglie la richiesta formulata dal p.m.; tuttavia esso non è motivato (si

vuole evitare il pregiudizio che deriverebbe all’imputato ove un giudice prima del dibattimento affermasse l’attendibilità degli elementi di prova a carico); in particolare il decreto contiene:

- l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto e delle circostanze, con l’indicazione dei relativi articoli di legge;

- l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono. • una funzione di ordine di citazione a giudizio, poiché convoca le parti per il dibattimento; il giudice

precisa la data ed il luogo dell’udienza dibattimentale con l’avvertimento per l’imputato che, non comparendo, sarà giudicato in contumacia.

Il decreto deve essere notificato sia all’imputato contumace all’udienza preliminare, sia all’imputato ed alla persona offesa comunque non presenti alla lettura del decreto stesso. La notifica deve essere effettuata almeno 20 giorni prima della data fissata per il giudizio. Subito dopo aver emesso il decreto che dispone il giudizio, il g.u.p. provvede a formare nel contraddittorio delle parti: ► il fascicolo per il dibattimento

Nel fascicolo per il dibattimento sono raccolti quegli atti, compiuti prima del dibattimento, che si sono formati nel contraddittorio delle parti o che sono nati fin dall’origine come “non ripetibili”.

• gli atti relativi alla procedibilità dell’azione penale ed all’esercizio dell’azione civile; • i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria; • i verbali non ripetibili compiuti dal p.m. • i documenti acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale ed i verbali degli atti non

ripetibili assunti con le stesse modalità; • i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio; • i verbali degli atti assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale ai quali i difensori sono

stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana; • il certificato generale del casellario giudiziale e gli altri documenti relativi al giudizio sulla

personalità dell’imputato, dell’offeso e dei testimoni; • il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere custodite altrove.

Il fascicolo per il dibattimento è conosciuto dal giudice (collegiale o singolo) e dalle parti; gli atti in esso contenuti possono essere usati ai fini della decisione.

► il fascicolo del pubblico ministero

Il fascicolo del p.m. ha un contenuto residuale: vi sono raccolti gli atti “diversi” da quelli inseriti nel fascicolo per il dibattimento, che siano stati fino a quel momento compiuti (infatti in esso entrano la documentazione di tutti gli atti compiuti dal p.m. e dalla polizia giudiziaria, gli atti acquisiti all’udienza preliminare, unitamente al verbale dell’udienza e il fascicolo del difensore, che contiene quegli atti di investigazione difensiva che il difensore abbia presentato direttamente al giudice) Il fascicolo del pubblico ministero è conosciuto dalle parti ( p.m. e difensori ) e non dal giudice del dibattimento. Di regola infatti gli atti contenuti in questo fascicolo non possono essere letti e quindi usati per la decisione (salvo quanto previsto negli articoli 500, 503, 512, 512 – bis, 513, 514).

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L’acquisizione concordata di atti di indagine Le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva. Una volta inserito nel fascicolo per il dibattimento il singolo atto può essere letto in base all’art. 511 e, in tal caso, diventa utilizzabile per la decisione. Tipologie: - acquisizione concordata sostitutiva: le parti con il loro accordo permettono al giudice di utilizzare

l’atto di indagine e al tempo stesso non chiedono l’esame orale del dichiarante - acquisizione concordata aggiuntiva: almeno una delle parti presta il consenso all’utilizzabilità

dell’atto di indagine e si riserva il diritto di sentire oralmente il dichiarante dell’esame incrociato Quindi le parti tramite accordo possono rinunciare in modo totale o parziale al contraddittorio per la formazione della prova; tuttavia il loro accordo non ha effetti totalmente dispositivi: il giudice al termine dell’istruzione dibattimentale, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti su accordo delle parti. L’impugnazione contro la sentenza di non luogo a procedere La legge 46/2006 ha eliminato la possibilità di proporre appello contro la sentenza di non luogo a procedere: l’unico rimedio è il ricorso per cassazione. Soggetti: possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere:

• il procuratore della repubblica e il procuratore generale presso la corte d’appello; • l’imputato, ma non quando con sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che

l’imputato non lo ha commesso; • la persona offesa non costituita parte civile ma solo quando è stata omessa nei suoi confronti la

notifica dell’avviso dell’udienza preliminare oppure l’avviso non le è stato notificato con un anticipo di almeno 10 giorni.

• la persona offesa costituita parte civile (è l’unico caso in cui la legge richiede che il danneggiato rivesta altresì la qualifica di persona offesa dal reato).

Sul ricorso presentato dai soggetti menzionati decide la cassazione in camera di consiglio con le forme previste dall’art. 127; rispetto all’omologo procedimento previsto dall’art. 611, il p.m. e i difensori delle parti possono essere presenti e concludere oralmente);

Queste le possibili decisioni della corte se la corte di cassazione accoglie il ricorso se invece la corte non accoglie il ricorso • pronuncia sentenza di annullamento con rinvio pronuncia sentenza di inammissibilità oppure

al medesimo tribunale (l’udienza preliminare sentenza di rigetto del ricorso, confermando in sarà svolta da un giudice differente da quello tal modo la sentenza di non luogo a procedere che ha emanato la sentenza impugnata, che si dovrà uniformare al principio di diritto affermato dalla corte);

• pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio - se il fatto non è previsto dalla legge come reato, - se il reato è estinto, - se l’azione penale non poteva essere iniziata o

proseguita;

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La revoca della sentenza di non luogo procedere Se la cassazione rigetta il ricorso, lo dichiara inammissibile o se le parti non hanno presentato ricorso, la sentenza di non luogo a procedere non diventa irrevocabile né passa in giudicato (a differenza di quella pronunciata in dibattimento): si tratta di una sentenza emessa “allo stato degli atti” per cui il p.m. può in qualsiasi momento chiedere al gip la revoca della sentenza (egli è l’unico soggetto legittimato). La revoca è chiesta all’ufficio del g.i.p. quando siano presenti nuove “fonti di prova” che, da sole o unitamente a quelle già acquisite, possono determinare il rinvio a giudizio; la novità può consistere sia nel fatto che la fonte di prova (persona o cosa) è stata individuata dopo la sentenza, si nel fatto che l’elemento non era stato acquisito in precedenza Il gip, se non dichiara inammissibile la richiesta, designa un difensore all’imputato che ne sia privo, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al p.m., all’imputato, al difensore e alla persona offesa. Al termine dell’udienza, il giudice prende una delle seguenti decisioni: a) dichiara inammissibile o rigetta la richiesta del p.m. b) revoca la sentenza di non luogo a procedere e fissa l’udienza preliminare, ma soltanto quando il p.m.

ha chiesto il rinvio a giudizio c) Revoca la sentenza di non luogo a procedere e dispone la riapertura delle indagini, stabilendo un

termine improrogabile non superiore a 6 mesi entro il quale il p.m. deve concludere le indagini; quindi potrà formulare la richiesta di rinvio a giudizio oppure chiedere l’archiviazione.

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L’INVESTIGAZIONE DIFENSIVA In un sistema processuale di tipo accusatorio la prova non è del giudice, bensì la prova sono di parte, nel senso che in relazione ad esse la parti esercitano il potere di ricerca, di richiesta, di ammissione, di assunzione; da ciò deriva che le parti (tutte, pubbliche e private) hanno quello che è stato definito diritto alla prova (hanno cioè il diritto di ricercare la prova sulla quali basare le proprie richieste, di valutare fino a che punto gli elementi raccolti posano essere utilizzati vantaggiosamente, di giustificare al giudice le necessità che sia ammesso il relativo mezzo di prova, di vagliare la credibilità della fonte e l’attendibilità dell’elemento di prova che sia stato acquisito). È necessario quindi che il sistema processuale consenta l’investigazione difensiva, cioè deve permettere ai difensori delle parti private di ricercare le fonti, di acquisire gli elementi di prova e di presentarli al giudice; l’ordinamento italiano è pervenuto ad una espressa disciplina solo di recente, col la legge 397/2000, che ha introdotto nel libro V un titolo VI – bis dedicato alla materia in esame. Il fondamento costituzionale delle indagini difensive Il fondamento dell’investigazione difensiva penale è stato individuato da tempo nel diritto di difesa, riconosciuto dalla Costituzione (art. 24) come inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (esso non viene meno neanche quando l’imputato sia sottoposto a custodia cautelare). E’ necessario poi tener conto di nuovi enunciati introdotti nell’articolo 111 dalla legge cost. 2/1999: - l’ art. 111 co. 2 Cost. I pt. (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di

parità, davanti a giudice terzo e imparziale) contiene l’espresso riconoscimento del principio di parità delle parti;

- l’ art. 111 co. 3 riconosce all’imputato il diritto di disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa.

Finalità delle investigazioni difensive Il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni “per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito” (articolo 327-bis); pertanto, si tratta di attività compiute per un interesse di tipo privato da un libero professionista. L’investigazione difensiva costituisce al tempo stesso un diritto e un dovere dell’avvocato: è un diritto nei rapporti con l’autorità giudiziaria, che deve permetterne la libera esplicazione, è un dovere nei rapporti con il cliente, in quanto l’attività difensiva può richiedere, per essere efficace, che vengano svolte indagini. La differente regolamentazione delle investigazioni pubbliche e private Il p.m. durante le indagini si configura come una parte “potenziale”, che nella sua caratterizzazione “pubblica” ha un obbligo di lealtà processuale: egli deve svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favor della persona sottoposta alle indagini. Nel condurre le indagini su di una notizia di reato il p.m. gode di poteri coercitivi su persone o cose: può disporre perquisizioni e sequestri probatori sul presupposto che vi sono indizi del compimento di un reato; può anche disporre il fermo di una persona gravemente indiziata; deve depositare nel fascicolo tutti i verbali delle indagini compiute. Il difensore delle parti private ha invece un dovere di correttezza, ma non ha l’obbligo di presentare al giudice gli elementi sfavorevoli alla parte assistita: egli collabora all’accertamento della verità limitandosi a presentare gli elementi a favore del cliente. I difensori, mentre svolgono investigazioni private non hanno poteri coercitivi (perciò possono raccogliere informazioni finché il titolare di un diritto lo consente; in caso di dissenso il difensore può unicamente rivolgersi all’autorità giudiziaria al fine di ottenere il riconoscimento del proprio diritto alla prova mediante l’esercizio di un potere coercitivo da parte, secondo i casi, del giudice o del p.m.).

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I SOGGETTI DELL’INVESTIGAZIONE DIFENSIVA Il titolare del potere di svolgere investigazioni difensive è il difensore; la titolarità deriva dal conferimento dell’incarico professionale, purché questo risulti da atto scritto. Il potere di investigazione è riconosciuto dalla legge in ogni stato e grado del processo, nel corso dell’esecuzione penale e per promuovere il giudizio di revisione. Inoltre, la legge 397/2000 ha riconosciuto espressamente la legittimità dell’attività investigativa c.d. “preventiva” e cioè svolta “per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”; in tal caso, la nomina deve essere effettuata mediante un mandato con sottoscrizione autenticata, recante l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce; in sede di indagini preventive il difensore ha la facoltà di svolgere gli atti disciplinati dal codice, fatti salvi quelli che richiedono l’autorizzazione o l’intervento dell’autorità giudiziaria. Le attività di investigazione possono essere svolte, su incarico del difensore (che rimane quindi titolare esclusivo del relativo potere investigativo): • dal sostituto • da investigatori privati autorizzati (si tratta di un’ulteriore autorizzazione rispetto alla licenza,

concessa dal prefetto a colui che è già investigatore privato e che abbia maturato una specifica esperienza professionale che garantisca il corretto esercizio dell’attività)

• quando sono necessarie specifiche competenze, da consulenti tecnici Il difensore ha facoltà di delegare ai suoi ausiliari (consulenti ed investigatori) le attività di investigazione difensiva; ma con un limite: anche gli ausiliari possono conferire in modo informale con le persone informate sui fatti, ma solo il difensore ed il suo sostituto possono assumere informazioni o ricevere dichiarazioni scritte da tali persone (cioè possono effettuare l’intervista) L’investigatore privato autorizzato L’investigatore privato autorizzato a compiere indagini difensive è obbligato a tenere un apposito registro che si differenzia nei contenuti rispetto a quello dell’investigatore generico; in esso: - devono essere annotate le generalità del difensore committente, e non del cliente; - deve essere precisata “la specie degli atti investigativi richiesti” e non il tipo di affare o di operazione; - deve essere indicata “la durata delle indagini, determinata al momento del conferimento dell’incarico”

e non dell’esito dell’operazione; I privilegi riconosciuti all’investigatore privato autorizzato dalla legge 397/2000: - può opporre all’autorità il segreto professionale: non può essere obbligato a deporre su quanto ha

conosciuto per ragione della propria professione (in tal modo egli è parificato all’avvocato, al suo sostituto ed al consulente tecnico).

- a tale soggetto sono state inoltre estese quelle garanzie che l’art. 103 prevede in favore del difensore e del consulente tecnico: vi sono quindi restrizioni nella possibilità sia si procedere a sequestro presso l’investigatore privato, sia di intercettare le conversazioni e comunicazioni effettuate da tale soggetto.

LA PRESENTAZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE DIFENSIVA Il difensore ha la facoltà, e non l’obbligo, di presentare agli inquirenti pubblici e al giudice la documentazione dell’attività di indagine difensiva svolta. Durante le indagini la documentazione, presentata dal difensore, è inserita in un apposito fascicolo, formato e conservato presso l’ufficio del g.i.p. e denominato fascicolo del difensore, di cui il p.m. può prendere visione ed estrarre copia soltanto quando deve essere adottata una decisione su richiesta delle altre parti o con il loro intervento.

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INVESTIGAZIONI TIPICHE E ATIPICHE L’articolo 327 – bis riconosce al difensore il potere di svolgere indagini nelle forme disciplinate dal titolo relativo alle investigazioni difensive; si tratta delle investigazioni “tipiche”, che consistono:

- nell’intervista a possibili testimoni ed imputati connessi, - nella richiesta di documenti alla pubblica amministrazione, - nell’accesso ai luoghi per raccogliere elementi di prova, - nella consulenza tecnica fuori dei casi di perizia, - nell’esame delle cose sequestrate.

Ma il 327 – bis non esclude la facoltà di svolgere investigazioni anche mediante “atti atipici”, come pedinamenti, registrazioni di colloqui in luoghi pubblici, conversazioni informali mediante telefono, etc. L’indagine atipica dovrebbe spettare di regola all’investigatore privato. L’INTERVISTA DIFENSIVA L’ intervista difensiva di possibili testimoni e di indagati connessi è il più importante tra gli atti di indagine; l’art. 391 – bis disciplina tre distinte modalità di acquisizione: 1) lo svolgimento di un colloquio non documentato il colloquio informale può essere svolto sia dal

difensore sia dai suoi ausiliari 2) l’ assunzione di informazioni da verbalizzare; le informazioni e del dichiarazioni possono

esse acquisite solo dal difensore e dal suo 3) il rilascio di una dichiarazione scritta. sostituto L’art. 391-bis esclude dall’intervista alcune persone che sono incompatibili con la qualifica di teste (ad es. il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, il giudice, il p.m., etc.). Gli avvisi: in ogni caso, prima che il colloquio abbia inizio (in una delle tre forme sopra dette) il difensore o il suo ausiliario deve avvertire la persona intervistata, a pena di inutilizzabilità dell’atto:

a) della propria qualità e dello scopo del colloquio: b) se intende semplicemente conferire o ricevere dichiarazioni o assumere informazioni indicando, in

tal caso, le modalità e la forma di documentazione; c) dell’obbligo di dichiarare se è sottoposta ad indagini o imputata nello stesso procedimento, in un

procedimento connesso o per un reato collegato; d) della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione e) del divieto di rivelare le domande eventualmente rivoltegli dalla polizia giudiziaria o dal p.m. e le

risposte date (specularmente il difensore non può richiedere alle persone già sentite dalla polizia o dal p.m. notizie sulle domande formulate o sulle risposte date; l’inosservanza comporta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ottenute)

f) delle responsabilità penali conseguenti alla falsa dichiarazione. È prevista inoltre una disciplina speciale per l’intervista di persone indagate od imputate nel medesimo procedimento o in procedimento connesso o collegato: l’atto, a pena di inutilizzabilità, deve svolgersi con la necessaria presenza del difensore dell’intervistato, che è preavvisato almeno 24 ore prima; se la persona è priva di difensore, colui che vuole procedere all’intervista deve chiedere al giudice di disporre la nomina di un difensore di ufficio. Le dichiarazioni ricevute e le informazioni assunte in violazione di una delle disposizioni generali sopra descritte non possono essere utilizzate. La violazione di tali disposizioni costituisce illecito disciplinare ed è comunicata dal giudice che procede all'organo titolare del potere disciplinare.

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Il colloquio non documentato La prima modalità dell’intervista consiste nello svolgimento di un colloquio non documentato; di regola esso è finalizzato a vagliare il possibile testimone (o altro dichiarante) allo scopo di verificare quali sono i fatti che conosce e se egli può fornire elementi di prova a favore della persona assistita dal difensore; quindi il colloquio è funzionale ad un’eventuale assunzione di informazioni oppure alla richiesta di una dichiarazione scritta. L’assunzione di informazioni da verbalizzare Le informazioni devono essere verbalizzate dal difensore o dal sostituto secondo le regole generali di documentazione degli atti del procedimento penale “in quanto applicabili”; per la materiale redazione del verbale il difensore può avvalersi di persone di sua fiducia. All’assunzione delle informazioni non possono assistere l’indagato, l’offeso e le altre parti private. Le dichiarazioni autoincriminanti: nell’ipotesi in cui la persona, che sia stata sentita in qualità di possibile testimone, renda nel corso delle informazioni una dichiarazione dalla quale emergano indizi a proprio carico, la normativa è analoga a quella vigente per l’autorità giudiziaria: dal momento in cui la persona intervistata rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, il difensore o il sostituto devono interrompere l’assunzione di informazioni e le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese. Il difensore, una volta assunte le informazioni, può ritenere che le dichiarazioni non siano utili per la posizione del proprio cliente: in tal caso non è obbligato a produrre il verbale nel corso del procedimento; tuttavia, se il difensore decide di produrlo, il verbale non può essere manipolato e deve essere presentato nella sua interezza (cioè non si possono eliminare le dichiarazioni sfavorevoli) La dichiarazione scritta L’ultima modalità di intervista consiste nel richiedere al possibile testimone o all’imputato il rilascio di una dichiarazione scritta; questa la disciplina sul modo di procedere alla documentazione: • la dichiarazione resa dalla persona intervistata deve essere da lei sottoscritta; il difensore o il sostituto

autenticano la firma; • l’intervistatore deve redigere una relazione, allegata alla dichiarazione, in cui devono essere riportati:

- la data in cui la dichiarazione è stata ricevuta; - le generalità del difensore (o del sostituto) e della persona che ha rilasciato la dichiarazione; - l’attestazione di aver rivolto gli avvertimenti previsti dalle disposizioni relative all’intervista; - i fatti sui quali verte la dichiarazione.

Le modalità di utilizzazione della dichiarazione sono identiche a quelle previste in relazione al verbale relativo all’assunzione di informazioni. L’audizione della persona che si è avvalsa della facoltà di non rispondere Il difensore ha due strumenti procedurali attivabili nell’ipotesi che la persona convocata si avvalga della facoltà di non rispondere: può chiedere che la persona sia sentita con incidente probatorio, oppure chiedere al p.m. di disporre l’audizione del possibile testimone. → l’incidente probatorio: nel primo caso si procede con incidente probatorio all’escussione del testimone

o all’esame dell’imputato connesso che si siano avvalsi della facoltà di non rispondere. → l’audizione presso il p.m.: nel secondo caso, il difensore può chiedere al p.m. l’audizione del

dichiarante che si sia avvalso della facoltà di non rispondere (tuttavia la richiesta può essere rivolta alla pubblica accusa soltanto in relazione al possibile testimone, mentre non spetta un potere analogo nei confronti dell’imputato connesso, che sia rimasto silenzioso)

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LE ALTRE ATTIVITÀ DI INVESTIGAZIONE DIFENSIVA La richiesta di documenti alla pubblica amministrazione Si tratta di un atto che appare riservato alla titolarità esclusiva del difensore, il quale può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione ed estrarne copia a sue spese, se risulta necessario per le indagini. La richiesta deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o lo detiene stabilmente. L’amministrazione ha il dovere di esibire il documento, in quanto esso serve ai fini dell’esercizio della difesa in una procedura giudiziaria; se l’amministrazione rifiuta esibizione il codice rinvia alla disciplina relativa alla richiesta di sequestro nel corso delle indagini preliminari.

il difensore può chiedere al p.m. di disporre l’acquisizione coattiva dei documenti della p.a.; se il p.m. accoglie la richiesta, procede a sequestro, se invece rifiuta egli deve trasmettere la richiesta con il suo parere negativo al g.i.p. e quest’ultimo, ove ritenga di accogliere la richiesta, può superare l’opposizione e disporre il sequestro dei documenti presso la p.a.

L’esame delle cose sequestrate Un’altra facoltà spettante ex lege al difensore consiste nella possibilità di effettuare l’esame delle cose sequestrate nel luogo in cui si trovano e, se si tratta di documenti, di estrarne copia. Il p.m. con decreto motivato può disporre, per gravi motivi, che l’esercizio della facoltà di esaminare le cose sia ritardato per non oltre 30 giorni, senza pregiudizio di ogni altra attività del difensore; contro il decreto del p.m. l’indagato e il difensore possono proporre opposizione al giudice che decide utilizzando il procedimento in camera di consiglio. L’accesso ai luoghi Nel corso dell’investigazione, il difensore o i suoi ausiliari possono avere necessità di visionare i luoghi o le cose pertinenti al reato ovvero di procedere alla descrizione degli stessi o infine di eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi. L’esame o il sopralluogo hanno come esito, ma non necessariamente, la redazione di un verbale nel quale sono riportati:

a) la data e il luogo dell’accesso b) le generalità delle persone intervenute e quelle del verbalizzante c) la descrizione dello stato dei luoghi e delle cose d) l’indicazione degli eventuali rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi eseguiti.

Il verbale è sottoscritto dalle persone intervenute. Quando l’accesso ai luoghi concerne luoghi pubblici o aperti al pubblico, il difensore non incontra alcun ostacolo; i problemi sorgono quando l’accesso riguarda luoghi privati o non aperti al pubblico.

Il difensore ed i suoi ausiliari hanno l’onere di sollecitare il consenso di chi ne ha la disponibilità. Se il consenso non è rilasciato, il difensore può chiedere l’intervento del giudice, il quale autorizza l’accesso con decreto motivato che ne specifica le concrete modalità. Non è consentito l’accesso ai luoghi di abitazione o alle loro pertinenze, salvo che sia necessario accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato.

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La consulenza tecnica privata fuori dei casi di perizia La legge n. 397/2000 è intervenuta anche in relazione alla consulenza tecnica extraperitale e ha riconosciuto anche in ambito tecnico-scientifico il principio generale del diritto alla prova, escludendo che la parte pubblica possa nascondere elementi probatori alle parti private. Da un lato il legislatore ha ampliato i poteri partecipativi della difesa, e cioè ha permesso al difensore, mediante un proprio esperto, di venire a conoscenza e di operare valutazioni sul materiale già raccolto dal p.m. (in tal modo si evita che l’accusa, giungendo per prima alla raccolta di elementi probatori, possa legittimamente frustrare le esigenze investigative della difesa fino al momento dell’esercizio dell’azione penale, con ritardi talvolta disastrosi); la nuova disciplina infatti:

1) consente al consulente della difesa “di esaminare le cose sequestrate nel luogo in cui esse si trovano”; il termine esaminare allude a quella attività che consta di rilievi tali da non comportare una alterazione irreversibile dell’oggetto.

2) permette al consulente di “intervenire alle ispezioni” compiute dagli organi di accusa, sia alle ispezioni personali che a quelle locali; le ispezioni sono infatti atti garantiti, ai quali il difensore dell’indagato ha il diritto di assistere, ma spesso il difensore è privo delle conoscenze tecniche necessarie per comprendere appieno ciò che accade.

3) prevede la facoltà di “esaminare l’oggetto delle ispezioni alle quali il consulente non è intervenuto”. In tutte queste ipotesi il consulente può intervenire soltanto previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Da un altro lato, il legislatore ha previsto la possibilità che la difesa proceda, in piena autonomia ed in alternativa al p.m., al compimento di atti irripetibili ; infatti l’indagato (e anche l’offeso) mediante il proprio difensore può nominare consulenti tecnici di parte al fine di svolgere investigazioni specialistiche al di fuori della perizia e anche se non è stata disposta perizia. I rilievi sono quegli atti “urgenti” che non implicano né una valutazione di tali dati, né una modificazione dello stato delle cose: l’urgenza è data dal fatto che i dati sono soggetti ad alterazione per il passaggio del tempo; mentre gli accertamenti tecnici sono attività di acquisizione e valutazione compiute su persone, cose o luoghi “il cui stato è soggetto a modificazione”, ovvero attività che determinano esse stesse la modifica delle cose, luoghi o persone. Atti non ripetibili : possiamo distinguere, in relazione agli atti sopra menzionati, due tipi di irripetibilità:

- un primo tipo di irripetibilità, legato al concetto di “urgenza” e consegue al naturale deperimento ad opera di agenti naturali o comunque estranei al procedimento penale.

- un secondo tipo di irripetibilità, “assoluta” in quanto consegue all’esperimento dell’atto stesso, sicché esso non può più essere utilmente compiuto; solo in questa ipotesi la parte che procede all’atto può ledere il diritto alla prova spettante alle controparti.

Quando il difensore sta per compiere un accertamento tecnico non ripetibile deve darne avviso senza ritardo al p.m. “per l’esercizio delle facoltà previste, in quanto compatibili, dall’art. 360”. A questo punto il p.m. ha tre possibilità: a) può assistere all’accertamento condotto dal consulente privato, personalmente o mediante un proprio

consulente; b) può procedere ad un proprio accertamento tecnico non ripetibile, che si ritiene prevalga su quello

disposto dal difensore; in tal caso l’indagato può avanzare riserva di incidente probatorio c) può esercitare le facoltà previste, in quanto compatibili, dall’art. 360: il p.m., una volta avvisato dal

difensore, può formulare riserva di incidente probatorio; si ritiene che in questo caso la difesa ha la possibilità di procedere ugualmente all’accertamento tecnico, ove ritenga tale atto non differibile.

Il verbale degli accertamenti tecnici non ripetibili è inserito nel fascicolo del dibattimento; in tal caso il risultato dell’attività non ripetibile deve essere acquisito al processo anche se si rivela sfavorevole all’assistito.

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LE MODALITÀ DI UTILIZZAZIONE DEGLI ATTI DI INVESTIG AZIONE DIFENSIVA Il fascicolo del difensore. La documentazione presentata dal difensore è inserita in un apposito fascicolo, formato e conservato presso l’ufficio del g.i.p. e denominato fascicolo del difensore. Di tale documentazione il p.m. può prendere visione ed estrarre copia solo quando deve essere adottata una decisione su richiesta delle altre parti o col loro intervento. Dopo la chiusura delle indagini preliminari il fascicolo del difensore confluisce nel fascicolo unico delle indagini La formazione dei fascicoli. Una volta conclusa l’udienza preliminare col decreto che dispone il giudizio, il giudice provvede nel contraddittorio delle parti a formare il fascicolo per il dibattimento. In detto fascicolo sono inseriti:

1) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dal difensore 2) la documentazione degli atti non ripetibili compiuti in occasione dell’accesso ai luoghi, presentata

nel corso delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare 3) la documentazione degli accertamenti tecnici non ripetibili compiuti dal consulente tecnico di

parte privata su iniziativa del difensore. Gli altri atti di investigazione difensiva non menzionati, in quanto sono ripetibili in dibattimenti, sono inseriti in quel fascicolo del p.m. che ha carattere residuale. L’INVESTIGAZIONE DIFENSIVA E LA LEGGE SULLA PRIVACY. Assume rilievo il d. lgs. 196/2003, “Codice in materia di protezione dei dati personali” (d’ora in poi “legge privacy”); esso indice sulla indagini difensive penali sotto due profili:

- da un lato le investigazioni devono svolgersi in modo da garantire al loro interno la riservatezza dei dati raccolti

- da un altro lato le investigazioni all’esterno incontrano i limiti di riservatezza con i quali gli interessati proteggono i dati della propria vita privata

La clausola della inutilizzabilità: l’art. 11 del codice in materia di protezione dei dati personali stabilisce che “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”; si ritiene che il termine “utilizzati” sia impiegato in senso atecnico a indicare tutte quelle finalità che sono differenti dall’utilizzazione di una prova nel processo penale; in questa sede infatti il valore degli interessi in gioco impone di considerare irrilevanti le violazioni della disciplina sulla privacy. Le investigazioni difensive su dati personali “non sensibili” Quando l’investigazione difensiva ha per oggetto dati personali non sensibili, sono superabili, a determinate condizioni, i più importanti limiti posti dalla legge sulla privacy:

- non è necessario che l’interessato esprima il consenso al trattamento - all’interessato non deve essere data la comune informativa perché egli non ha il diritto di

opporsi al trattamento. Condizioni che autorizzano la deroga: - i dati devono essere “trattati esclusivamente” per le finalità concernenti l’investigazione difensiva o la

tutela giudiziaria di un diritto e “per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”; Il titolare del potere processuale di compiere l’investigazione difensiva non è il cliente, ma il difensore. Questi svolge personalmente l’indagine o incarica un altro avvocato (denominato “sostituto”), un consulente tecnico o un investigatore privato autorizzato. Il potere del difensore deriva dall’incarico professionale, risultante da atto scritto.

- il soggetto deve essere informato sulla finalità dell’intervista e sulla identità di colui che opera il trattamento

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Le parti private possono svolgere indagini personalmente, cioè senza l’ausilio di un difensore; tuttavia l’indagine svolta dall’imputato o dalla persona offesa non gode delle facilitazioni e dei poteri previsti per le investigazioni “difensive”: il 327-bis si limita a regolare l’attività investigativa del difensore. La investigazioni difensive su dati “personali sensibili” La legge privacy permette che siano investigabili per mezzo di indagini difensive tutti i dati personali “sensibili” (quali sono quelli che riguardanti ad esempio l’origine razziale, le convinzioni religiose, filosofiche o politiche, lo stato di salute e la vita sessuale). Anche qui vale il principio generale secondo cui, se vengono violati i limiti funzionali, torna in vigore l’ordinario regime del trattamento. I dati sensibili relativi a persone diverse dal cliente possono essere trattati ove ciò sia strettamente indispensabile per l’esecuzione di specifiche prestazioni professionali richieste dai clienti per scopi determinati e legittimi; inoltre il trattamento dei dati sensibili è ammesso solo se le investigazioni non possono essere svolte mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa. I dati possono essere comunicati “nei limiti strettamente pertinenti all’espletamento dell’incarico conferito e nel rispetto, in ogni caso, del segreto professionale”.

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IL GIUDIZIO La fase del giudizio è ripartita in tre momenti:

1) atti preliminari al dibattimento 2) dibattimento 3) atti successivi al dibattimento

Il dibattimento è la fase del procedimento che più di ogni altra rispetta le caratteristiche del sistema accusatorio; infatti accoglie una serie di garanzie:

• la formazione della prova avviene nel contraddittorio : le parti pongono direttamente le domande alle persone esaminate.

• si vuole assicurare un rapporto di immediatezza tra la formazione delle prove e la decisione: il giudice che decide deve aver assistito all’assunzione delle prove

• il dibattimento dovrebbe tendenzialmente svolgersi in udienze concentrate nel tempo. Tuttavia il dibattimento non recepisce tutte le caratteristiche del sistema accusatorio; in particolare non accoglie la struttura del processo delle parti (che si ha quando queste ultime dispongono sia dell’oggetto del processo, sia delle prove) per vari motivi:

- l’azione penale non è disponibile, bensì obbligatoria; - una volta che sono state acquisite le prove richieste dalle parti, il giudice può assumere nuove

prove d’ufficio se risulta “assolutamente necessario”; - il giudice nel decidere non è vincolato nei limiti delle richieste delle parti, ma solo alla legge;

l’unico limite al potere decisionale del giudice consiste nel fatto storico enunciato nell’imputazione: il giudice può dare al fatto storico una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza; pertanto può modificare solo il titolo di reato (cioè la qualificazione giuridica del fatto storico); quando viceversa il giudice accerta che il fatto storico è diverso da quello descritto nell’imputazione o comunque contestato in dibattimento, egli deve ordinare la trasmissione degli atti al p.m. perché questi eserciti nuovamente l’azione penale.

1) GLI ATTI PRELIMINARI AL DIBATTIMENTO La fase degli atti preliminari al dibattimento:

- ha inizio nel momento in cui la cancelleria del giudice competente riceve il decreto che dispone il giudizio ed il fascicolo per il dibattimento

- termina nel momento in cui, in udienza, il presidente dell’organo giudicante dichiara aperto il dibattimento.

In questa fase sono compiute attività dalle parti e dal presidente; l’intervento del collegio è soltanto eventuale e si verifica nell’ipotesi in cui sia pronunciato il proscioglimento anticipato. Il compito di fissare la data dell’udienza dibattimentale è demandato al g.u.p. - al termine dell’udienza, il giudice, nel momento in cui redige il decreto che dispone il giudizio, chiede

al presidente dell’organo competente il giorno e l’ora dell’udienza dibattimentale - di essi è data comunicazione alle parti presenti all’udienza preliminare mediante lettura del decreto

che dispone il giudizio - all’imputato, alla persona offesa e alle altre parti private, che siano state assenti in tale sede, è

notificato il decreto che dispone il giudizio. In ogni caso il codice tiene conto della possibilità che si verifichino fatti imprevisti ed attribuisce al presidente dell’organo giudicante il potere di anticipare o differire l’udienza per giustificati motivi, dandone comunicazione alle parti.

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LE FUNZIONI DELLA FASE DEGLI ATTI PRELIMINARI AL DIBATTIMENTO La fase degli atti preliminari al dibattimento svolge varie funzioni. La funzione necessaria. La funzione che viene necessariamente espletata è quella di svelare quali sono i testimoni, consulenti tecnici, periti e imputati connessi e collegati dei quali una parte intende chiedere l’ammissione in dibattimento al momento delle richieste di prova ↓ A tale scopo ogni parte ha l’onere, a pena di inammissibilità, di depositare in cancelleria , almeno 7 giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con l’indicazione dei nomi delle persone menzionate e delle circostanze su cui deve vertere l’esame. Il presidente deve in ogni caso disporre la citazione del perito nominato nell’incidente probatorio. La funzione più importante delle liste è quella di mettere in grado ciascuna delle parti di esercitare il proprio diritto all’ammissione della prova contraria: infatti, in relazione alle circostanze indicate nelle liste, ciascuna parte può chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti, consulenti tecnici e imputati connessi o collegati “non compresi nella propria lista, ovvero presentarli al dibattimento”. Altra funzione della lista è quella di permettere alle parti di preparare il controesame che intendono svolgere nei confronti dei dichiaranti. Le funzioni eventuali 1) ottenere dal presidente del collegio giudicante l’autorizzazione alla citazione dei testimoni, consulenti

tecnici, periti ed imputati connessi. Le parti, nel momento in cui presentano le liste, hanno la possibilità di chiedere al presidente dell’organo giudicante la citazione delle persone delle quali intendono ottenere l’esame in dibattimento; esse, in verità, potrebbero presentare testimoni e consulenti tecnici direttamente in udienza, ma se vogliono renderne obbligatoria la presenza, hanno l’onere di chiederne la citazione.

2) permettere l’assunzione delle prove “urgenti”, e cioè non rinviabili al dibattimento; l’assunzione delle prova è richiesta al presidente del collegio giudicante nei casi previsto dall’articolo 392, cioè quando è possibile procedere ad incidente probatorio; qualora il presidente accolga la richiesta, le prove urgenti sono assunte in una udienza che si svolge in forme diverse da quelle previste per l’incidente probatorio: si tratta di in una vera e propria udienza dibattimentale anticipata, che si celebra con la presenza del pubblico; tuttavia non interviene il collegio, ma solo il presidente

3) permettere la pronuncia di una sentenza anticipata di proscioglimento nei casi nei quali l’azione

penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita o nei casi in cui il reato è estinto; questa sentenza può essere emessa solo quando, per accertare l’improcedibilità o l’estinzione del reato, non è necessario assumere prove in dibattimento; occorre inoltre che l’imputato ed il p.m. non si oppongano. La sentenza di non doversi procedere è emessa dal collegio giudicante in camera di consiglio “sentiti il p.m. e l’imputato” ed è inappellabile. Ove dagli atti appaia evidente l’innocenza dell’imputato il giudice non può pronunciare sentenza predibattimentale, bensì deve procedere a dibattimento.

LE INDAGINI INTEGRATIVE Una volta emesso il decreto che dispone il giudizio, il p.m. ed il difensore delle parti private e dell’offeso possono compiere attività integrativa di indagine con esclusione degli “atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore di questo” (se è necessario assumere un atto che prevede il contraddittorio e tale atto non è rinviabile, l’unico strumento è l’assunzione della prova “urgente”). Le indagini integrative sono sottoposte ad un contraddittorio successivo; la documentazione delle indagini integrative è inserita nei fascicoli del p.m. e del difensore soltanto quando di essa le parti si sono servite per la formulazione di richieste al giudice del dibattimento e quest’ultimo le ha accolte.

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2) IL DIBATTIMENTO LE DISPOSIZIONI GENERALI SUL DIBATTIMENTO I poteri del presidente e dell’organo giudicante Quando l’organo giudiziario è collegiale vi è una netta ripartizione tra i poteri del presidente e quelli dell’organo giudicante (che il codice definisce sinteticamente “giudice”) � al presedente spettano i poteri di “direzione” del dibattimento; � al collegio spettano invece i poteri “decisori”. Se il giudice è monocratico i poteri sopra menzionati si cumulano nel medesimo magistrato. L’udienza Definizioni: - l’ udienza è il tempo di una singola giornata dedicato allo svolgimento di uno o più processi; - il dibattimento è la trattazione in udienza di un determinato processo Quindi un dibattimento complesso può anche durare più udienze; viceversa in una udienza posono essere trattati più processi. Durante la fase degli atti preliminari al dibattimento, si svolgono in udienza le seguenti attività: - la costituzione delle parti ed eventualmente la dichiarazione di contumacia - la discussione delle questioni preliminari Il verbale di udienza è redatto dall’ausiliario che assiste il giudice ed è inserito nel fascicolo per il dibattimento; tale fascicolo può essere consultato dal giudice in camera di consiglio; devono essere riprodotte non solo le risposte, ma anche le domande rivolte alla persona esaminata. La pubblicità delle udienze Uno dei principi fondamentali del dibattimento è la pubblicità delle udienze, essa concerne la possibilità che il cittadino conosca quanto si svolge in dibattimento. La PUBBLICITÀ IMMEDIATA si realizza quando soggetti estranei al processo sono presenti in aula ed assistono direttamente all’udienza; essa è assicurata dalla modalità di svolgimento dell’udienza che di regola è aperta al pubblico, a pena di nullità. Il codice prevede categorie di persone che non sono ammesse nell’aula di udienza (es. minori di 18 anni). La PUBBLICITÀ MEDIATA si attua attraverso la possibilità di pubblicare gli atti del dibattimento tramite la stampa o altro mezzo di diffusione; essa svolge una duplice funzione: da un lato permette il controllo dell’opinione pubblica sul funzionamento della Giustizia; da un altro lato, costituisce una forma di manifestazione del pensiero mediante la cronaca e la critica giudiziaria. Eccezione

la pubblicità immediata subisce un’eccezione quando il giudice dispone che si proceda “a porte chiuse” in presenza di ipotesi previste tassativamente dalla legge; in alcune di queste ipotesi è limitata anche la pubblicità mediata; pertanto la decisione di procedere a porte chiuse per l’intero dibattimento (o per alcune parti di esso) non costituisce per il giudice l’espressione di una facoltà, bensì di un dovere imposto dalla legge.

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L’obbligo di procedere a porte chiuse con divieto di pubblicazione degli atti: si deve procedere a porte chiuse ed è altresì vietata la pubblicazione degli atti del dibattimento

a) quando la pubblicità può nuocere al buon costume (è il c.d. buon costume sessuale) ovvero, b) se vi è richiesta dell’autorità competente, quando la pubblicità può comportare la diffusione di

notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato; c) quando l’assunzione di determinate prove può causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni

ovvero delle parti private “in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione” (in questo caso occorre la richiesta dell’imputato che si proceda a porte chiuse)

L’obbligo di procedere a porte chiuse senza divieto di pubblicazione degli atti: si procede a porte chiuse, ma è consentita la pubblicazione degli atti del dibattimento:

d) quando la pubblicità può nuocere alla pubblica igiene e) quando avvengono da parte del pubblico manifestazioni che turbano il regolare svolgimento delle

udienze f) quando è necessario salvaguardare la sicurezza di testimoni o di imputati

Le riprese televisive del dibattimento Vi è un caso in cui le riprese o le trasmissioni del dibattimento sono sempre vietate: si tratta di quelle ipotesi nelle quali si procede a porte chiuse per motivi di segretezza o riservatezza; in questi casi, la deroga alla pubblicità immediata comporta anche l’impossibilità di attuare la pubblicità mediata ed implica l’esclusione dei mezzi audiovisivi dall’aula di udienza. Si tratta dei seguenti casi:

a) quando la pubblicità possa nuocere al buon costume b) quando possa comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato c) quando si devono assumere prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o

delle parti private “in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione” d) quando il giudice dispone che l’esame dei minorenni si svolga a porte chiuse

Salvi i divieti menzionati la legge consente le riprese televisive dei dibattimenti, lasciano dl giudice (inteso come organo giudicante) la valutazione delle condizioni di ammissibilità. Ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca, il giudice con ordinanza, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa fotografica, fonografica o audiovisiva ovvero la trasmissione radiofonica o televisiva del dibattimento, purché non ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza o alla decisione; in questa norma convergono tre principi che la norma cerca di contemperare: il diritto di cronaca giudiziaria, il diritto alla riservatezza e l’interesse alla retta amministrazione della Giustizia (quest’ultimo è l’interesse ritenuto prevalente). L’autorizzazione può essere data anche senza il consenso delle parti quando sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento. Anche quando autorizza la ripresa o la trasmissione il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti, testimoni, periti, consulenti tecnici, interpreti e di ogni altro soggetto che deve essere presente, se i medesimi non vi consentono o la legge ne fa divieto. Il principio del contraddittorio Nel suo significato debole (attuato negli atti garantiti durante la fase delle indagini preliminari) il principio del contraddittorio assicura il diritto del difensore ad essere presente ad un atto di indagine o a conoscere il relativo verbale; la conoscenza degli atti è completa nel momento in cui il p.m. invia l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Nel suo significato forte (attuato nella fase del dibattimento) il principio del contraddittorio comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova. L’attuazione piena del principio del contraddittorio necessità che alle parti sia riconosciuta tutta una serie di diritti strumentali (i principali sono il diritto ad ottenere dal giudice l’ammissione della prova, il diritto ad ottenere l’ammissione della prova contraria rispetto alla prova principale chiesta da altri, il diritto di porre le domande nell’esame diretto e nel controesame).

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Il principio di oralità Per “oralità” può intendersi la forma verbale di comunicazione del pensiero consistente nella pronuncia di parole destinate ad essere udite. Ciò che è espresso oralmente può essere oggetto di documentazione; essa comprende sia i verbali o le dichiarazioni scritte sia altri mezzi di documentazione. L’oralità è la regola che il codice di procedura penale accoglie per le dichiarazioni. Il principio di immediatezza Tale principio comporta un rapporto privo di intermediazione tra l’acquisizione delle prove e la decisione dibattimentale; da esso derivano due corollari:

• l’identità tra il giudice che assiste alla assunzione delle prove in dibattimento e quello che decide (posto dall’articolo 525.2)

• la decisione basata su prove legittimamente acquisite in dibattimento (ex art. 526) Il principio della concentrazione Esso impone che non vi siano intervalli di tempo tra l’assunzione delle prove in udienza, la discussione finale e la deliberazione della sentenza. - per quanto concerne lo svolgersi del dibattimento il principio della concentrazione è posto dall’art.

477 co. 1: “quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo”;

- per quanto concerne il rapporto tra l’assunzione della prova e la deliberazione l’art. 525 co. 1 dispone che “la sentenza è deliberata subito dopo la chiusura del dibattimento”.

Il rinvio della trattazione dei processi nei quali l’indulto esaurisce la pena da eseguire. Poiché è ormai evidente che la ordinaria gestione dei processi non riesce ad essere assorbita dal sistema, il legislatore ha introdotto un meccanismo che dovrebbe permettere di lasciare spazio e tempo ai procedimenti per i reati di maggiore gravità e di più spiccato allarme sociale. Il meccanismo consiste nel rendere palese l’opera di scrematura mediante la regolamentazione di un istituto denominato “rinvio della trattazione dei processi” (l. 241/2006). Il rinvio deve avere ad oggetto “i reati commessi fino al 2 maggio 2006, in ordine ai quali ricorrono le condizioni per l’applicazione dell’indulto”, quando “la pena eventualmente da infliggere può essere contenuta nei limiti dei tre anni e, quindi, non deve essere eseguita”. Il rinvio del singolo processo non è imposto direttamente dal legislatore bensì è rimesso alla indicazione che sarà operata dai dirigenti degli uffici giudicanti, i quali possono individuare i criteri e le modalità della trattazione dei processi, tenendo conto: a) della gravità e della concreta offensività del reato b) del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei

fatti c) dell’interesse della persona offesa Regolamentazione del rinvio: il legislatore si è comunque riservato la regolamentazione del rinvio: - il rinvio non può avere durata superiore a 18 mesi - il termine di prescrizione del reato rimane sospeso per tutta la durata del rinvio - la parte civile costituita può trasferire l’azione in sede civile; in tal caso, i termini a comparire sono

abbreviati fino alla metà e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita (naturalmente in tal caso non opera la sospensione del processo civile in attesa dell’esito di quello penale)

- è fatto divieto di procedere al rinvio se l’imputato si oppone o se è già stato dichiarato chiuso il dibattimento

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GLI ATTI INTRODUTTIVI AL DIBATTIMENTO In udienza, prima che inizi il dibattimento, si svolgono alcune attività:

• il controllo della regolare costituzione delle parti (compiuto dal presidente del collegio giudicante) • la discussione di eventuali questioni preliminari sollevate dal p.m. o dai difensori delle parti

La costituzione delle parti Il presidente controlla se si sono verificate le condizioni indispensabili per la costituzione in giudizio delle parti; se il difensore dell’imputato non è presente nonostante il regolare avviso, il presidente designa come sostituto un altro difensore: è questo il termine ultimo entro il quale il danneggiato dal reato ha facoltà di costituirsi parte civile, comparendo per mezzo di un difensore. Il diritto dell’imputato a partecipare al dibattime nto. Il codice vuole garantire in modo rigoroso il diritto dell’imputato a partecipare al processo; per tutelare in modo concreto tale diritto, ove l’imputato non sia presente, impone al giudice di accertare che ciò sia dovuto ad una scelta volontaria e non derivi da una mancata conoscenza incolpevole del decreto che dispone il giudizio. Il giudice deve rinnovare la citazione in 2 casi: - quando esiste la prova che l’imputato non ha avuto “effettiva conoscenza” della stessa senza sua colpa - quando tale prova non sussiste e tuttavia appare “probabile” la mancata conoscenza incolpevole Quindi il giudice deve valutare la causa dell’assenza dell’imputato: - se l’assoluta impossibilità a comparire è dovuta a legittimo impedimento dell’imputato (oppure è

anche soltanto probabile che sia dovuta a caso fortuito o a forza maggiore), il giudice deve disporre il rinvio ad una nuova udienza e ordinare la rinnovazione della citazione;

- se risulta che non vi è stata assoluta impossibilità a comparire (e che quindi l’assenza è volontaria), il giudice dichiara la contumacia dell’imputato; quest’ultimo è rappresentato dal difensore; la contumacia è quindi la situazione processuale dell’imputato il quale, benché ritualmente citato, non compare all’udienza, senza che sussista un suo legittimo impedimento.

La contumacia presenta collegamenti con una serie di istituti tra loro eterogenei: � Il giudice può disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato contumace, quando la presenza

di costui è necessaria per l’assunzione di una prova diversa dall’esame. � Se l’imputato, dichiarato contumace, compare prima della decisione, il giudice deve revocare

l’ordinanza � Nei casi in cui nel corso del giudizio contumaciale sia necessario procedere alla modifica

dell’imputazione perché il fatto risulta diverso o alla contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante, il p.m. deve chiedere che la contestazione sia inserita nel verbale del dibattimento e che esso sia notificato per estratto all’imputato; il presidente sospende il dibattimento e fissa una nuova udienza per la prosecuzione.

� Una volta che il giudizio si sia concluso e la sentenza sia stata depositata in cancelleria, al contumace deve essere notificato l’avviso di deposito con estratto della sentenza.

L’assenza dell’imputato. L’imputato può chiedere o consentire che l’udienza si svolga in sua assenza; se comunque questi, dopo essere comparso, si allontana dall’aula di udienza, è considerato presente. Come nell’ipotesi di contumacia, l’imputato assente è rappresentato dal difensore. L’assenza del difensore. Se il difensore dell’imputato non è presente, il presidente designa un sostituto che sia immediatamente reperibile (questi esercita i diritti ed assume i doveri del sostituto).Nel caso in cui risulti che l’assenza del difensore è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento (purché prontamente comunicato), il giudice fissa con ordinanza la data della nuova udienza e ne dispone la notificazione all’imputato.

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Le questioni preliminari Dopo che è stato compiuto l’accertamento della costituzione delle parti, vi è la possibilità per le parti stesse di proporre eventuali questioni preliminari; vi è l’onere di proporre tali questioni “subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti”, dopodiché esse sono di regola precluse, cioè non possono più formare oggetto di discussione Questioni preliminari che sono precluse in momenti successivi (art. 491 co. 1): 1) Le questioni concernenti “la competenza per territorio o per connessione” incidono sulla rituale

investitura dell’organo giurisdizionale. Nel processo ordinario le questioni che toccano i punti indicati devono essere già poste in sede di udienza preliminare; ove siano state respinte in tale sede, possono essere riproposte come “questioni preliminari” (viceversa, l’incompetenza per materia è rilevabile “in ogni stato e grado del procedimento”, pertanto essa sfugge al regime delle questioni preliminari).

2) Le questioni concernenti “le nullità indicate nell’art. 181 co. 2 e 3” riguardano le nullità relative intervenute negli atti d’indagine, nell’incidente probatorio e nell’udienza preliminare. Nel procedimento ordinario esse devono essere eccepite prima che si concluda l’udienza preliminare; soltanto nei procedimenti speciali, nei quali manchi tale fase, l’eccezione deve essere posta in sede di questioni preliminari.

3) Sono ricomprese tra le questioni preliminari quelle concernenti la regolare costituzione delle parti private diverse dall’imputato.

Questioni preliminari che non sono precluse in momenti successivi: esse possono essere discusse successivamente se la possibilità di proporle sorga soltanto nel corso del dibattimento. 1) “questioni concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento” 2) I problemi che riguardano “la riunione o la separazione dei giudizi” sono discussi immediatamente tra

le questioni preliminari; tuttavia può darsi che l’occasione per porre un problema del genere sorga soltanto nel corso del dibattimento; in tal caso il problema è discusso

IL DIBATTIMENTO Queste sono le fasi del dibattimento: • lettura del capo di imputazione • richieste di prove • istruzione dibattimentale • discussione delle parti

a) L’APERTURA DEL DIBATTIMENTO Il controllo della costituzione delle parti e la discussione e decisione delle eventuali questioni preliminari sono le ultime attività della fase predibattimentale; a questo punto il presidente dichiara aperto il dibattimento e fa dare lettura dell’imputazione.

b) LA RICHIESTA DI PROVA L’esposizione introduttiva. Spetta alle parti, titolari del diritto alla prova, di presentare le richiesta di ammissione dei mezzi di prova. La richiesta di ammissione è valutata dal giudice nella sua pertinenza e rilevanza in relazione al fatto che deve essere provato (tema di prova) Le richieste di prova. Le richieste di prova sono presentate dal p.m. e, nell’ordine, dai difensori delle parti private eventuali (parte civile, responsabile civile, persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria) e dal difensore dell’imputato. Nelle richieste la singola parte indica i fatti che intende provare e chiede l’ammissione delle relative prove.

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Nel momento delle richieste di prova occorre che ciascuna parte chieda l’ammissione di tutte le prove delle quali intende servirsi; in particolare le parti devono precisare anche le fonti che intendono assumere “a prova contraria”, e cioè per contrastare prove richieste da un’altra parte. L’ordine delle richieste. L’ordine in cui le parti formulano le proprie richieste rispecchia il principio dell’onere della prova: per primi parlano il p.m. e la parte civile; la difesa ha il diritto di sapere quali sono le prove che l’accusa intende presentare, prima di dover chiedere l’ammissione delle proprie. Il divieto di lettura di atti di indagine. Nel corso delle richieste di prova il presidente “impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione e ogni lettura o esposizione del contenuto degli atti compiuti durante le indagini preliminari”. L’espressa previsione intende contrastare la prassi, seguita da alcuni p.m., di leggere memorie nelle quali si dava ampio spazio ad atti di indagine, la conoscenza dei quali è preclusa al giudice del dibattimento. I criteri di ammissione delle prove. Il giudice deve ammettere la prova quando è pertinente e quando vi sia anche solo il dubbio che possa essere rilevante e non sovrabbondante; deve essere esclusa la prova vietata dalla legge. Le parti (ai sensi dell’art. 190) hanno un vero e proprio “diritto alla prova”: ciò comporta per il giudice il dovere di motivare l’ordinanza che rigetta la richiesta di ammissione. L’impugnazione contro l’ordinanza potrà essere proposta solo unitamente a quella contro la sentenza. L’ammissione della prova contraria. L’imputato ha dritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico; lo stesso diritto spetta al p.m. in ordine alle prove a carico dell’imputati sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico. La prova può essere definita contraria quando tende a negare l’esistenza del fatto affermato dalla prova principale: se essa tende a negare l’esistenza del medesimo fatto è per legge pertinente (occorre solo accertare se è rilevante, e cioè se è idonea a formare un elemento di prova), se invece tende ad affermare l’esistenza di un fatto diverso, ma incompatibile con l’esistenza del fatto principale, siamo in presenza di una prova negativa: in tal caso resta al giudice il compito di accertare se il fatto da provare è in concreto incompatibile con il fatto principale. Le dichiarazioni spontanee. Dopo che le parti hanno formulato le proprie richieste di prova, il presidente informa l’imputato che egli ha la facoltà di rendere in ogni stato del dibattimento le “dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all’oggetto dell’imputazione e non intralcino l’istruzione dibattimentale”. La decisione sulla richiesta di ammissione. Il giudice decide sulle richieste di ammissione delle prove senza ritardo con ordinanza. Ove il nome del singolo dichiarante (testimone, imputato connesso, perito o consulente tecnico) non sia stato inserito nella lista testimoniale, la richiesta di sentirlo in dibattimento è inammissibile. Tuttavia, è ammessa l’acquisizione di prove non comprese nella lista prevista dall’articolo 468 quando la parte che le richiede dimostra di non averle potute indicare tempestivamente. A parte questa ipotesi, le parti che non abbiano adempiuto all’onere di presentare le liste possono ancora chiedere l’ammissione di prove, ma non hanno il diritto di ottenere un provvedimento in tal senso, poiché la loro richiesta è subordinata al potere discrezionale del giudice di ammettere le nuove prove nei limiti previsti dal codice, cioè quanto esse siano assolutamente necessarie per accertare il fatto storico. L’acquisizione concordata di atti di indagine. Le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva (si tratta di una previsione identica a quella che opera al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento al termine dell’udienza preliminare).

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c) L’ISTRUZIONE DIBATTIMENTALE L’istruzione dibattimentale è il momento in cui sono assunte le prove; essa è a sua volta suddivisa in porzioni di tempo (denominati “casi”) all’interno delle quali ciascuna parte provvede all’assunzione delle prove richieste (ed ammesse dal giudice); in particolare ’istruzione dibattimentale:

- inizia con l’assunzione delle prove richieste dal pubblico ministero - prosegue con l’assunzione delle prove richieste da altre parti

L’ordine dei “casi”. L’ordine nel quale si svolge l’istruzione dibattimentale rispetta i due principi generali dell’onere della prova (art. 27 co. 2 Cost.) e della disponibilità della prova (art. 190 cpp); quindi il caso dell’accusa precede il caso della difesa (spetta a colui che accusa provare la reità dell’imputato)e l’ultimo caso è quello dell’imputato, poiché questi ha il diritto di conoscere l’esito delle prove a carico. La successione dei casi prevista dal codice può essere modificata ove tutte le parti concordino un ordine diverso: ciò costituisce espressione del principio di disponibilità della prova. L’esame delle parti. Quello che il codice denomina “esame delle parti” non è inserito né nel caso dell’accusa, né nel caso della difesa. Ricordiamo che l’esame di una parte può essere chiesto dalla stessa; se è chiesto da un’altra parte, può avvenire solo col consenso della parte che deve esservi sottoposta. L’esame delle parti ha luogo “appena terminata l’assunzione delle prove a carico dell’imputato” e cioè subito dopo il caso del p.m. (ed, eventualmente, quello della parte civile): in tal modo l’esame dell’imputato avviene prima del caso della difesa. Le parti che hanno richiesto l’esame o vi hanno consentito vengono escusse nel seguente ordine:

- per prima la parte civile che non sia stata citata come testimone - il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria - per ultimo l’imputato

L’ordine delle prova all’interno del singolo caso. All’interno del singolo “caso” l’ordine nel quale vengono assunte le prove è stabilito dalla parte che ha chiesto le stesse (principio argomentativo della prova: la parte “argomenta” le sue richieste provando i fatti; la successione e la concatenazione delle prove è la sua argomentazione). Fra le prove “richieste” vi sono tutti i mezzi di prova, eccettuato solo l’esame delle parti, per il quale vi è un momento apposito nel corso dell’istruzione dibattimentale. Le prove orali: l’esame incrociato Le prove orali sono tutte assunte mediante l’esame incrociato. Le regole poste dal codice valgono per tutti (testimoni, imputati connessi o collegati, periti, consulenti tecnici e parti che abbiano consentito all’esame o lo abbiano richiesto); sono però differenti gli obblighi cui sono sottoposti i predetti soggetti: - il testimone ha l’obbligo, penalmente sanzionato, di rispondere secondo verità; deve essere avvisato dal presidente

dell’esistenza di tale obbligo e delle responsabilità previste dalla legge per i testimoni falsi o reticenti; quindi il presidente invita il testimone a rendere solennemente e pubblicamente una dichiarazione con la quale si impegna a dire la verità; dopodiché il presidente invita il testimone a fornire le proprie generalità;

- il perito, al momento in cui gli viene conferito l’incarico da parte del giudice, assume l’obbligo di “far conoscere la verità”; tale obbligo è sanzionato penalmente e permane al momento in cui il perito è sentito con l’esame incorciato;

- il consulente tecnico di parte può esser nominato da una delle parti anche quando non è disposta perizia; è esaminato su richiesta della parte che lo ha nominato; le altre parti possono sottoporlo a controesame; egli può non rispondere su oggetti che coinvolgono il segreto professionale.

- le parti sono sottoposte ad esame solo su loro richiesta o col loro consenso; non hanno un obbligo penalmente sanzionato di dire la verità; se rifiutano di rispondere ad una domanda, ne è fatta menzione nel verbale; il rifiuto può essere valutato dal giudice come argomento di prova, e cioè può incrinare la credibilità del soggetto esaminato.

Per il testimone il codice prevede un’ulteriore e specifica disciplina: l’esame del testimone deve avvenire in modo che nel corso dell’udienza nessuna delle persone citate possa, prima di deporre, comunicare con alcuna delle parti o coi difensori o consulenti tecnici, assistere agli esami degli altri o vedere o udire o essere altrimenti informata di ciò che si fa nell’aula di udienza.

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I soggetti che pongono le domande sono il p.m. ed i difensori delle parti private; il presidente dell’organo giudicante ha la funzione di assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni. L’esame incrociato si articola nei tre momenti dell’esame diretto, del controesame e del riesame.

1) l’ esame diretto è condotto dalla parte che ha chiesto di interrogare il soggetto che rende dichiarazioni; esso tende ad ottenere la manifestazione dei fatti conosciuti da lui conosciuti (che dovrebbero essere utili a dimostrare la tesi di colui che lo ha citato); poiché lo scopo dell’esame diretto è quello di dimostrare che il teste è attendibile e credibile, sono vietate le domande – suggerimento;

2) il controesame è eventuale, nel senso che le parti che non hanno chiesto l’ammissione di quel teste hanno la “facoltà” di porre domande alla persona già sentita nell’esame diretto; esso è quindi condotto dalla parte che ha un interesse contrario a quella che ha chiesto l’esame del testimone (od altro dichiarante). Il controesame può avvenire sui fatti, sulla credibilità del testimone, o su entrambi tali oggetti; il controesame sui fatti tende a far dichiarare al testimone un fatto diverso o contrario a quello esposto dell’esame diretto ovvero ad ottenere una spiegazione alternativa del fatto stesso ovvero a far ammettere fatti che contraddicono le conclusioni alle quali è pervenuta la controparte; il contro esame sulla credibilità tende a far dichiarare al testimone fatti che dimostrano la non credibilità di quest’ultimo. Nel controesame sono ammesse le domande-suggerimento perché il loro scopo è sia quello di saggiare come reagisce il testimone, sia quello di far cadere quest’ultimo in contraddizione

3) il riesame è doppiamente eventuale, perché si svolge solo se vi è stato il controesame e soltanto se la parte che ha condotto l’esame diretto intende procedervi; in esso la parte che ha condotto l’esame diretto può proporre nuove domande; lo scopo del riesame è quello di consentire il recupero della sequenza dei fatti, dopo che il controesame ha cercato di mettere in dubbio la loro esistenza, ovvero consente di esporre la ragione di contraddizioni nelle quali il testimone è caduto.

L’esame incrociato non può esser sottoposto ad interruzioni. Nel corso del suo svolgimento le parti hanno unicamente la possibilità di formulare opposizioni sulle quali il presidente decide immediatamente senza formalità. Solo al termine della sequenza “esame diretto – controesame – riesame” il presidente può porre d’ufficio domande al testimone (o altro dichiarante); in tal caso le parti hanno diritto a concludere l’esame secondo l’ordine prescritto (cioè si può rinnovare in tutto o in parte la sequenza) Il codice pone regole che riguardano sia il modo di rivolgere le domande, sia il modo di rispondere alla stesse da parte del soggetto dichiarante; esse valgono in generale per tutti i momenti; hanno lo scopo di tutelare sia la genuinità della prova, sia la dignità della persona sottoposta ad esame: Le regole per le domande sono queste: 1) sono ammesse domande su fatti specifici; tale regola non vieta che una parte chieda al dichiarante di

narrare ciò che ha percepito, ma vuole semplicemente evitare che il testimone venga a riferire una lezione imparata a memoria

2) la domanda deve avere ad oggetto un fatto determinato e non un apprezzamento del dichiarante; il deponente può fare apprezzamento soltanto quando è impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti

3) sono vietate le domande “nocive”che possono nuocere alla sincerità delle risposte: non sono ammesse le domande intimidatorie o, viceversa, suadenti;

4) sono vietate le domande che violano il rispetto della persona umana, e cioè che ledono l’onore o la reputazione del deponente; tuttavia nel controesame quando occorre saggiare la credibilità del dichiarante il diritto alla prova prevale sul rispetto della persona e il codice non prevede materie non indagabili; al massimo su richiesta dell’interessato, il presidente dispone che il dibattimento si svolga a porte chiuse.

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Fra le regole che riguardano le risposte, il testimone ha facoltà di non deporre: 1) su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale; 2) su fatti coperti da segreto professionale; 3) su fatti coperti da segreto d’ufficio o di Stato; 4) in certi casi, previsti dall’art. 199, quando è prossimo congiunto dell’imputato. Durante l’esame, il presidente, anche di ufficio, interviene per assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni, ordinando, se occorre, l’esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state utilizzate per le contestazioni. La testimonianza protetta del minorenne. Quando deve essere esaminato un testimone minorenne (o un maggiorenne infermo di mente) il codice prevede forme particolari, che escludono l’esame incrociato e che proteggono il dichiarante. L’esame del minorenne è condotto dal presidente dell’organo collegiale, al quale le parti possono chiedere di porre domande o di fare contestazioni al minorenne (nel condurre l’interrogatorio il presidente può avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto di psicologia infantile) Se una parte lo chiede o il presidente lo ritiene necessario, si devono applicare le ulteriori “protezioni” previste dall’art. 398 co. 5-bis, richiamato dall’art. 498 co. 4-bis; il giudice stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere; a tal fine l'udienza può svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l'abitazione dello stesso minore; le dichiarazioni testimoniali debbono essere documentate integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva Quando si procede per i reati di violenza sessuale e assimilati, l’esame del minorenne (ma soltanto se si tratta di vittima e non di mero testimone) deve essere effettuato, su richiesta del minorenne stesso o del suo difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico. Le dichiarazioni rese prima del dibattimento e loro utilizzabilità. Il nuovo art. 111 della Costituzione afferma il principio del contraddittorio nella formazione della prova; in particolare il comma IV: “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”. Al principio del contraddittorio il comma V pone tre eccezioni, per cui la prova è utilizzabile anche se si è formata fuori dal contradditorio 1) per consenso dell’imputato; tale eccezione ha due ambiti applicativi

• il primo si riferisce ai riti semplificati che omettono il dibattimento, in cui l’imputato rinuncia al contraddittorio in via anticipata (nel giudizio abbreviato o nel patteggiamento) o in via successiva (nel procedimento per decreto)

• il secondo ambito applicativo riguarda la disciplina della prova nell’ambito del rito ordinario: col consenso dell’imputato è possibile acquisire al dibattimento prove formate fuori dal contraddittorio; malgrado la formulazione letterale dell’art. 111 co. 5 (da cui sembra che l’imputato valga a rendere utilizzabili elementi assunti unilateralmente dalla difesa), probabilmente l’uso di atti raccolti in modo unilaterale può essere ammesso solo se vi consentono quelle parti che non hanno partecipato all’acquisizione dell’elemento di prova e che potrebbero subire un pregiudizio dalla utilizzabilità dello stesso.

2) per accertata impossibilità di natura oggettiva; Il termine “oggettiva” sembra alludere a quelle cause indipendenti dalla volontà di taluno, che sembrano assimilabili alle situazioni di forza maggiore. L’impossibilità di natura oggettiva non deve apparire “a sorpresa” per la prima volta nella motivazione della sentenza, bensì deve essere oggetto di prova e di discussione tra le parti. Sul punto vi deve essere un apposito provvedimento incidentale del giudice.

3) per effetto di provata condotta illecita: si tratta di comportamenti contrari al diritto finalizzati ad indurre il dichiarante a sottrarsi (lecitamente o meno) al contraddittorio.

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Il principio generale della inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni L’art. 526 comma 1 stabilisce che “Il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento” . Tale norma deve essere letta congiuntamente all’art. 514, secondo il quale non costituisce “legittima acquisizione” la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese fuori del dibattimento, salvo i casi espressamente menzionati.

Se ne desume che le norme che consentono l’utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni hanno natura eccezionale e, come tali, non sono estensibili per analogia.

In ogni caso, anche laddove la legge consente l’acquisizione delle precedenti dichiarazioni, resta fermo il principio secondo cui “La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore” (art. 526 comma I-bis) Queste le ipotesi eccezionali dove il codice consente di usare dichiarazioni formate fuori del dibattimento. LA CONSULTAZIONE DI DOCUMENTI IN AIUTO ALLA MEMORIA Ai sensi dell’art. 499co. 5 “Il testimone può essere autorizzato dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti”. Tale diritto può essere esercitato su autorizzazione del presidente in presenza di precisi requisiti:

- l’oggetto che può essere consultato deve essere un documento redatto dal dichiarante - il documento può essere consultato “in aiuto della memoria” - il documento deve essere reso conoscibile alle controparti, le quali hanno il diritto di utilizzarlo ai

fini del controesame LA CONTESTAZIONE PROBATORIA A colui che depone (sia egli testimone o parte) viene contestato di aver reso una differente dichiarazione in un momento anteriore al dibattimento. Essa deve essere contenuta nel fascicolo del p.m. e quindi consisterà in un atto delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare o in una documentazione raccolta durante le investigazioni difensive. Sono posti alcuni requisiti:

- deve trattarsi di precedenti dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero; - le precedenti dichiarazioni devono essere state rese dalla stessa persona che in dibattimento sta

cambiando versione; - la contestazione deve avvenire solo se sui fatti e sulle circostanze da contestare il testimone o la

parte ha già deposto; - la modalità di effettuazione della contestazione consiste nel leggere la dichiarazione rilasciata

prima del dibattimento e nel “chiedere conto” al deponente dei motivi della diversità. Quando persiste una difformità di versione da parte dell’interrogato (o questi non risponde), si pone il problema se quanto è stato in precedenza dichiarato possa essere utilizzato ai fini della decisione; il codice, distingue tra i vari tipi di dichiaranti, esaminiamo le diverse ipotesi: 1) Precedenti dichiarazioni rese dal testimone.

Ai sensi dell’art. 500 co. 2: “Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”; quindi è regola generale che la precedente dichiarazione sia utilizzabile dal giudice soltanto per valutare la credibilità del soggetto (e non come prova del fatto narrato); in altre parole la contestazione serve al massimo per togliere valore alla dichiarazione dibattimentale, ma non è utile per formare la prova dell’esistenza del fatto narrato, come è ricavabile dal verbale.

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Eccezioni: una volta operata la contestazione, vi sono alcune eccezioni, in presenza delle quali le precedenti dichiarazioni sono utilizzabili come prova del fatto narrato; in base al principio del libero convincimento resta fermo che la valutazione in punto di attendibilità è rimessa al giudice. � La minaccia sul dichiarante. La prima eccezione è consentita quando si accerti che il teste è

stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro affinché non deponga o deponga il falso; in tal caso “le dichiarazioni contenute nel fascicolo del p.m. precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento e possono costituire prova del fatto narrato” (si tratta di un’applicazione del 111.5 Cost., che consente un’eccezione al principio del contraddittorio in caso di provata condotta illecita). Nelle ipotesi di intimidazione o offerta di denaro, devono essere acquisite al fascicolo per il dibattimento non solo le precedenti dichiarazioni utilizzate per la contestazione, bensì l’intero verbale.

� Le dichiarazioni rese nell’udienza preliminare. In secondo luogo, le dichiarazioni rese in udienza preliminare e lette per le contestazioni dibattimentali sono utilizzabili come prova del fatto solo nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione; contro le altre parti sono utilizzabili come prova della credibilità o, in caso di accertata intimidazione o offerta di denaro, come prova del fatto.

� L’ accordo delle parti. Vi è infine una terza eccezione, in base alla quale le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero sono utilizzabili se vi è accordo delle parti. Anche l’acquisizione col consenso delle parti si riferisce all’intero verbale.

2) Precedenti dichiarazioni rese dall’imputato di un procedimento connesso o collegato.

Nel caso in cui l’imputato di un separato procedimento connesso sia chiamato a rendere l’esame ai sensi dell’art. 210 nel procedimento contro l’imputato, il codice impone di applicare la norma sulla contestazione probatoria che vale per il testimone (art. 500).

- Se il dichiarante rifiuta di rispondere o cambia versione rispetto al passato, le precedenti dichiarazioni possono essere contestate a colui che le ha rese;

- Se l’imputato connesso, nonostante la contestazione, continua a dare una versione diversa, le precedenti dichiarazioni sono utilizzabili soltanto come prova della credibilità

3) Precedenti dichiarazioni rese dalle parti private.

L’art. 503 co. 3 permette di effettuare la contestazione nel corso dell’esame delle parti private: imputato, coimputato, responsabile civile e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Anche in questo caso siamo dinanzi ad una contestazione probatoria; essa:

- è ammessa se sussiste una difformità tra la dichiarazione dibattimentale e quella precedente; - riguarda dichiarazioni che sono state rese in precedenza dalla stessa persona che viene esaminata

ed il cui verbale è contenuto nel fascicolo del p.m. - la lettura può essere effettuata soltanto dopo che la persona esaminata ha deposto sulle

circostanze da contestare L’effetto è analogo a quello della contestazione probatoria: la precedente dichiarazione resa dalla parte privata è utilizzabile soltanto per valutare la credibilità del dichiarante.

4) Le precedenti dichiarazioni rese dall’imputato.

L’art. 503 co. 5 considera le sole dichiarazioni alle quali il difensore dell’imputato, che le ha rese, aveva diritto di assistere, purché esse siano state assunte dal p.m. o dalla polizia giudiziaria delegata Una volta contestate esse sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e, di conseguenza, sono utilizzabili come prova del fatto narrato.

L’art. 530 co. 6 estende l’effetto appena menzionato a determinate dichiarazioni rilasciate dall’imputato prima del dibattimento e alle dichiarazioni assunte dal giudice: a) nell’interrogatorio di garanzia che segue l’esecuzione di una misura cautelare personale b) nell’interrogatorio in sede di revoca della misura cautelare personale c) nell’interrogatorio reso in sede di convalida dell’arresto o del fermo d) nell’interrogatorio intervenuto nel corso dell’udienza preliminare

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Il testimone che rifiuta l’esame di una delle parti Se il testimone (o altro dichiarante) “rifiuta di sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti, nei confronti di questa non possono essere utilizzate, senza il suo consenso, le dichiarazioni rese ad altra parte, salve restando le sanzioni penali eventualmente applicabili al dichiarante” (art. 500 co. 3). Ratio →tutela del diritto alla prova di quella parte che non ha potuto partecipare all’esame incrociato; nei suoi confronti non è stato attuato il contraddittorio, di conseguenza essa non può subire un pregiudizio da quella prova, alla cui formazione è rimasta estranea. LA CONTESTAZIONE DI QUALSIASI ALTRA RISULTANZA La contestazione probatorio non è l’unico strumento per verificare la credibilità del soggetto dichiarante; in particolare le prove precedentemente acquisite, raccolte sia nel dibattimento, sia in momenti anteriori, possono costituire oggetto di un altro tipo di contestazione: può essere contestato ciò che è contenuto nel fascicolo per il dibattimento e anche gli atti e i documenti che sono collocati nel fascicolo del p.m. (ovviamente solo al fine di demolire la credibilità del soggetto dichiarante). Ad esempio ad un teste possono essere contestate le precedenti dichiarazioni di un altro teste, oppure al soggetto dichiarante può essere contestato un documento (ad esempio una foto); non è necessario che il documento sia stato ammesso all’inizio del dibattimento (in quella sede infatti non era rilevante, poiché non si sapeva ancora come il soggetto dichiarante avrebbe risposto alle domande), in quanto esso diventa rilevante quando il soggetto dichiarante da una versione non compatibile con esso; queste prove definite ex adverso (che diventano rilevanti in seguito a ciò che afferma il dichiarante) possono essere contestate al dichiarante in quanto, ex articolo 194 comma 2 l’esame può estendersi alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità. LA LETTURA DEGLI ATTI La “contestazione” delle precedenti dichiarazioni presuppone che sia in corso l’esame del dichiarante che le ha rese, mentre la “lettura” viene disposta quando tale esame non ha avuto luogo. La lettura è la modalità residuale di utilizzazione delle dichiarazioni rese in momenti precedenti al dibattimento; essa deroga al principio di immediatezza, che impone al giudice di decidere in base alle prove assunte nel corso del dibattimento. L’oggetto delle letture: • Gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento sono consultabili dal giudice; se consistono in

dichiarazioni, occorre distinguere tra due situazioni. - Se l’esame del dichiarante ha luogo, i verbali contenuti nel fascicolo per il dibattimento possono

esser letti solo dopo l’esame della persona e, pertanto, danno luogo ad un istituto simile alla contestazione.

- Se l’esame del dichiarante non ha luogo, si procede alla lettura integrale dell’atto. Nei due casi predetti, gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento possono esser posti a fondamento della motivazione della sentenza.

• Gli atti contenuti nel fascicolo del p.m.; tale fascicolo può esser consultato solo dalle parti e non dal giudice e la lettura degli atti è permessa con certe restrizioni che hanno il presupposto comune che l’atto sia diventato “non ripetibile” in dibattimento (applicazione dell’art. 111 co. 5 Cost.): - alcuni limiti riguardano l’oggetto dell’elemento contenuto nel fascicolo - altri limiti riguardano la persona che ha reso le dichiarazioni anteriormente al dibattimento. Il

codice distingue quattro gruppi di persone: a) I testimoni. Le dichiarazioni rese dai testimoni alla polizia giudiziaria, al p.m., al difensore

nella fase delle indagine o al giudice nell’udienza preliminare possono essere lette soltanto se sono diventate non ripetibili per fatti o circostanze non ripetibili nel momento in cui sono state assunte.

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b) Le persone residenti all’estero. Le lettura delle dichiarazioni rese da tali soggetti nel corso delle indagini “anche a seguito di rogatoria internazionale”, può essere disposta se ricorrono due presupposti concorrenti, che integrano la situazione di non ripetibilità: - occorre che la persona sia stata citata per deporre e non sia comparsa - l’esame dibattimentale di tale soggetto deve risultare assolutamente impossibile Se ricorrono tali presupposti il giudice, a richiesta di parte e tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, può disporre la lettura delle dichiarazioni in oggetto.

c) L’imputato esaminato sul fatto proprio. Le dichiarazioni precedentemente rese possono essere lette a richiesta di parte se l’imputato è contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all’esame. Esse tuttavia sono utilizzabili soltanto contro l’imputato che abbia tenuto il comportamento indicato; non lo sono nei confronti di un altro coimputato salvo che quest’ultimo vi consenta o che sussista un’ipotesi di intimidazione o “subornazione” del dichiarante.

d) La persona imputata in un procedimento connesso o collegato, esaminata sul fatto altrui. In questo caso il codice impone al giudice di sperimentare tutte le possibilità di intervento coatto di queste persone al dibattimento: l’imputato connesso o collegato, che sia stato citato e che non si è presentato, deve essere sottoposto ad un provvedimento di accompagnamento coattivo o eventualmente deve essere sentito con esame a domicilio, con rogatoria internazionale o con esame a distanza. Soltanto “se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante” (ovvero procedere all’esame in uno dei modi suddetti) il giudice può leggere, su richiesta di parte, le precedenti dichiarazioni, ma unicamente se la non ripetibilità dipende da fatti o circostanze imprevedibili al momento della dichiarazione; se invece essa era prevedibile, i soggetti menzionati avrebbero dovuto essere sentiti con incidente probatorio su richiesta di parte. Infine, se il dichiarante rifiuta di rispondere, le precedenti dichiarazioni sono utilizzabili soltanto con l’accordo delle parti.

Principio dispositivo e poteri di iniziativa probatoria esercitabili dal giudice Lo scopo del procedimento è quello di accertare i fatti di reato e le relative responsabilità in base alle prove, e poiché le parti in conflitto possono in concreto non essere eguali in capacità ed in mezzi, il legislatore attribuisce al giudice un potere di supplenza che incide sull’iniziativa probatoria. Tale potere si configura come un’eccezione rispetto alla regola posta dall’art. 190 co. 1 (principio dispositivo), pertanto deve essere previsto espressamente dal codice. L’attività di supplenza dell’iniziativa probatoria delle parti ha un’intensità che varia nelle diverse fasi Al termine delle indagini preliminari, quando è stata presentata richiesta di archiviazione, il giudice può ordinare al p.m. di compiere nuove indagini e può costringerlo a formulare l’imputazione. Nel corso dell’udienza preliminare il giudice, se ritiene di non poter decidere allo stato degli atti, può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Nel dibattimento, al termine del quale viene presa una decisione idonea a formare il giudicato, i poteri di iniziativa probatoria spettanti al giudice sono ancora più ampi, ma devono rispettare due regole: 1) Regola del carattere successivo dei poteri: l’iniziativa spetta alle parti e soltanto dopo che esse hanno

avuto la possibilità di esercitare i loro poteri, il giudice può svolgere la sua attività di supplenza. 2) Regola del carattere non esaustivo dei poteri: i poteri esercitabili dal giudice non sono esaustivi di

altri poteri, sia nel senso che possono essere sollecitati da altri soggetti diversi dalle parti, quali sono gli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato, sia nel senso che, una volta che siano stati esercitati dal giudice, le parti possono riprendere l’iniziativa probatoria.

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Questi i poteri di iniziativa probatoria spettanti al giudice nella fase del dibattimento: � Il giudice, anche d’ufficio, può disporre che sia data lettura integrale o parziale degli atti contenuti nel

fascicolo per il dibattimento; tuttavia la lettura delle dichiarazioni può essere disposta soltanto dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non si svolga.

� Il presidente dell’organo giudicante “anche su richiesta di altro componente del collegio”, può indicare alle parti “temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell’esame” (si tratta di un potere di “suggerimento” esercitabile in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle parti o a seguito delle letture, e cioè dopo che si sono svolti i casi dell’accusa e della difesa; al seguito della sollecitazione, l’iniziativa probatoria spetta alle parti, che possono accogliere o meno il suggerimento e possono scegliere quali mezzi di prova richiedere).

� Il giudice, nel corso dell’istruzione dibattimentale “sentite le parti, può revocare con ordinanza l’ammissione di prove che risultano superflue a ammettere prove già escluse”.

� Il giudice può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova “se risulta assolutamente necessario” per l’accertamento dei fatti. Il potere è esercitabile “terminata l’acquisizione delle prove”, e cioè dopo che si sono conclusi i casi dell’accusa e della difesa. Il requisito della assoluta necessità può dirsi integrato quando il mezzo di prova risulti dagli atti del giudizio e la sua assunzione appaia decisiva.

� La legge n. 479/1999 ha introdotto nell’art. 507 il comma 1-bis che consente al giudice di disporre “l’assunzione dei mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento” su accordo delle parti (anche in quest’ipotesi deve ricorrere il presupposto dell’assoluta necessità).

Il principio dispositivo attenuato. Sulla base dell’orientamento giurisprudenziale finora emerso e, come le stesse Sezioni Unite hanno affermato nel 2006, è possibile ritenere che il codice accoglie in materia probatoria un principio dispositivo “attenuato”: esso consente la libera esplicazione del diritto alla prova spettante alle parti, ma non preclude i poteri di iniziativa probatoria d’ufficio, semmai limita il potere discrezionale del giudice nel respingere le richieste di ammissione delle prove formulate dalle parti. Conclusioni: 1. I poteri esercitabili dal giudice d’ufficio costituiscono un’eccezione al potere dispositivo delle parti

sulla prova: essi non incidono sull’onere sostanziale di convincere il giudice. 2. Restano salve le regole di valutazione della prova (e cioè spetta pur sempre a chi accusa l’onere di

provare i fatti al di fuori di ogni ragionevole dubbio) e gli altri vincoli probatori ricavabili dal codice. La rinuncia alla prova Può accadere che una parte, ottenuta l’ammissione di un mezzo di prova, rinunci alla sua assunzione. La rinuncia alla prova è espressamente disciplinata dall’art. 495 co. 4-bis, introdotto dalla legge n. 397/2000, in base al quale “nel corso dell’istruzione dibattimentale ciascuna delle parti può rinunciare, con il consenso dell’altra parte, all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta”; inoltre in base all’articolo 507 il giudice ha il potere di disporre d’ufficio l’assunzione di quella prova che sia stata rinunciata dalle parti (comunque l’assunzione deve essere assolutamente necessaria) La partecipazione e l’esame “a distanza” Il codice consente di utilizzare due istituti che permettono di superare l’unità di luogo nel quale si deve svolgere il dibattimento: essi hanno in comune il collegamento televisivo e il fatto che le parti siano comunque messe in grado di valutare l’attendibilità delle prove che vengono assunte. LA PARTECIPAZIONE “A DISTANZA” : l’imputato rimane nel luogo di detenzione e partecipa all’udienza attraverso un collegamento a distanza che presuppone l’installazione di due terminali (uno nell’aula e l’altro nella postazione remota) e di un sistema di comunicazione che permette di ricevere e trasmettere i segnali audiovisivi provenienti da entrambi i terminali.

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Essa è disposta dal giudice in due ipotesi:

1) Quando si procede per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico o assimilato nei confronti di un imputato che si trovi, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere. In questo caso, essa può essere disposta soltanto se ricorrono determinate condizioni: a) se sussistono gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico; b) se si tratta di dibattimenti particolarmente complessi e la partecipazione a distanza risulta

necessaria ad evitare ritardi nello svolgimento dell’udienza.

2) Quando si proceda nei confronti di un imputato che si trovi in stato di detenzione e sia sottoposto a quel regime di “carcere duro” che comporta la sospensione delle misure trattamentali. In questo caso, la partecipazione a distanza è disposta a prescindere dal reato oggetto del procedimento e non occorre che si verifichino ulteriori condizioni.

Una volta accertata la sussistenza dei suddetti requisiti, la partecipazione deve essere obbligatoriamente disposta; il relativo provvedimento: - nella fase degli atti preliminari è adottato anche d’ufficio dal presidente del tribunale o della corte di

assise e assume la forma del decreto motivato, che, essendo emanato in assenza di contraddittorio, deve essere comunicato alle parti e ai difensori almeno dieci giorni prima dell’udienza

- nel corso del dibattimento è pronunciato dal giudice e assume la forma dell’ordinanza. L’ESAME “A DISTANZA” prevede che mediante collegamento televisivo si possa svolgere a distanza l’esame di un testimone o di una parte. Ove siano disponibili strumenti tecnici idonei ad effettuare un collegamento audiovisivo, il giudice, sentite le parti, può disporre anche d’ufficio che l’esame si svolga a distanza. L’esame deve svolgersi obbligatoriamente a distanza nei seguenti casi:

a) se i collaboratori di Giustizia sono esaminati nell’ambito di un processo di criminalità organizzata mafiosa o terroristica;

b) se nei confronti dell’esaminato è stato emesso un decreto di cambiamento delle generalità; c) se un imputato, anche non collaboratore di Giustizia, ma accusato di un delitto di criminalità

mafiosa o terroristica, deve essere esaminato in un processo per tale tipo di delitti. Connesso al proprio.

In tali casi l’obbligatorietà è temperata dalla possibilità, lasciata al giudice, di ritenere “assolutamente necessaria” la presenza della persona da esaminare. Il giudice può disporre l’esame a distanza, ma solo su richiesta di parte (casi facoltativi):

a) se il dichiarante è già stato esaminato nell’incidente probatorio o in un altro procedimento ed è stata disposta una nuova assunzione di tale prova;

b) se comunque vi sono gravi difficoltà ad assicurare la presenza della persona da esaminare. In tali casi l’esame a distanza viene impiegato per soddisfare esigenze di semplificazione processuale e non per proteggere l’incolumità del dichiarante. Le nuove contestazioni. La correlazione tra imputazione e sentenza. Nel corso dell’istruzione dibattimentale le prove assunte possono indurre il p.m. a modificare l’imputazione sotto vari profili attinenti al diritto o al fatto. Per quanto riguarda il diritto, è sancito il principio fondamentale secondo cui il giudice può dare al fatto storico una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza; in tal caso la diversa definizione è data direttamente dal giudice in sentenza

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Per quanto riguarda il fatto storico: - Il fatto diverso. In primo luogo il fatto storico può risultare “diverso” da quello contestato, nel senso

che risultano modificate le modalità del fatto di reato; in questi casi il p.m. provvede direttamente a modificare l’imputazione e a contestarla all’imputato (se il reato non appartiene alla competenza di un giudice superiore); l’imputato ha diritto che il dibattimento venga sospeso e ha anche la facoltà di chiedere l’ammissione di nuove prove;

- La contestazione suppletiva. In secondo luogo nel corso dell’istruzione dibattimentale può risultare l’esistenza di una circostanza aggravante oppure il compimento di un reato connesso ai sensi dell’art. 12 lett. b (concorso formale o reato continuato); in questa ipotesi il p.m. contesta all’imputato il reato concorrente, purché la cognizione non appartenga alla competenza di un giudice superiore; anche in questi casi l’imputato ha diritto ad ottenere la sospensione del dibattimento e l’ammissione di nuove prove;

- Il fatto nuovo. Infine nel corso del dibattimento può risultare a carico dell’imputato un “fatto nuovo non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e per il quale di debba procedere d’ufficio”. Esso può essere contestato solo in presenza delle seguenti condizioni:

a) deve trattarsi di un reato procedibile d’ufficio b) l’imputato deve essere presente e consentire alla contestazione c) il presidente deve accertare che da tale contestazione non derivi un pregiudizio per la speditezza

del procedimento Anche in questo caso l’imputato ha diritto ad ottenere la sospensione del dibattimento e l’ammissione di nuove prove. In mancanza, delle condizioni il p.m. procede nelle forme ordinarie e cioè svolge le indagini ed esercita l’azione penale per il fatto nuovo.

Quindi il codice attribuisce il potere di modificare il fatto storico di cui all’imputazione esclusivamente al p.m. (il giudice può solo operare un controllo successivo nel momento in cui delibera la sentenza). L’inosservanza delle disposizioni a tutela della correlazione tra accusa e sentenza è causa di nullità; ai sensi dell’art. 522 co. 2 “la sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante senza che siano state osservate le predette disposizioni è nulla soltanto nella parte relativa al fatto nuovo, al reato concorrente o alla circostanza aggravante”.

d) LA DISCUSSIONE FINALE La discussione finale, che ha inizio quando è terminata l’istruzione probatoria, permette al p.m. ed ai difensori delle parti private di formulare le proprie conclusioni (art. 523). La discussione finale è diretta dal presidente dell’organo giudicante, che ha il potere di impedire ogni divagazione, ripetizione ed interruzione. L’ordine degli interventi è disciplinato dal codice in modo che l’accusa pubblica e privata precedano la difesa dell’imputato, attuando così il principio dell’onere della prova; inoltre le conclusioni del p.m. sono formulate prima di quelle della parte civile, quasi a sottolineare la posizione di accessorietà della stessa (che vede il suo intervento tendenzialmente limitato al tema del risarcimento del danno derivante dal reato). Le conclusioni del difensore del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria precedono quelle del difensore dell’imputato. Le conclusioni sono formulate oralmente; tuttavia, è posto a carico della parte civile l’onere di presentare comunque “conclusioni scritte, che devono comprendere, quando sia richiesto il risarcimento dei danni, anche la determinazione del loro ammontare” (art. 523.2): se il difensore non adempie all’onere delle conclusioni scritte, la costituzione di parte civile si intende revocata ex lege.

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Le repliche. Il p.m. ed i difensori delle parti private possono replicare, ma la replica è ammessa una sola volta e deve essere contenuta nei limiti strettamente necessari per la confutazione degli argomenti avversari. La discussione non può essere interrotta per l’assunzione di nuove prove, se non in caso di assoluta necessità; se questa si verifica, il giudice provvede ai sensi dell’art. 507 e cioè sia su richiesta di parte sia d’ufficio. Se la prova richiesta da una parte è decisiva, il giudice è obbligato ad ammetterla (un eventuale diniego può essere sottoposto a controllo mediante l’impugnazione della sentenza). L’imputato ed il suo difensore devono avere (a pena di nullità) la parola per ultimi, se la chiedono. Una volta che sia stata esaurita la discussione finale, il presidente dichiara chiuso il dibattimento e l’organo giudicante si ritira in camera di consiglio per deliberare la sentenza.

3) GLI ATTI SUCCESSIVI AL DIBATTIMENTO. LA SENTENZA . Il codice regolamenta sia l’aspetto procedimentale attraverso il quale il giudice delibera, sia la struttura che deve avere la decisione; le regola poste dal codice non toccano il libero convincimento del giudice, ma pongono limiti alle modalità con le quali il convincimento si forma e si manifesta. TEMPI E MODI DELLA DELIBERAZIONE PUBBLICAZIONE E DEPOSITO DELLA SENTENZA Per quanto riguarda l’aspetto procedimentale la sottofase degli “atti successivi al dibattimento”: - inizia nel momento in cui l’organo giudicante si ritira per deliberare in segreto in camera di consiglio - termina nel momento in cui la sentenza è depositata in cancelleria Le modalità della deliberazione si riassumono nel principio di immediatezza, secondo cui deve esservi identità tra il giudice che ha assistito all’assunzione della prova e quello che decide; infatti secondo l’art. 525.2, parte I, “Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”. Sotto il profilo dei tempi della deliberazione, il codice pone la regola della concentrazione: - da un lato, la sentenza è deliberata “subito dopo la chiusura del dibattimento”; - dall’altro, la deliberazione non può esser sospesa “se non in caso di assoluta impossibilità”. Le regole per la deliberazione Il codice regola minuziosamente la procedura con cui l’organo collegiale deve deliberare Per quanto riguarda i tempi:

1) in primo luogo il collegio, sotto la direzione del presidente, decide separatamente le questioni preliminari non ancora risolte e ogni altra questione relativa al processo; si tratta di quelle questioni processuali che potrebbero sfociare in decisioni che precludono l’esame nel merito;

2) qualora l'esame del merito non risulti precluso, sono poste in decisione le questioni di fatto che concernono l’imputazione (il giudice valuta se i fatti affermati dalle parti sono dimostrati dalle prova acquisite);

3) successivamente sono affrontate le questioni di diritto concernenti l'imputazione (cioè i problemi interpretativi posti dalle norme penali

4) se occorre (cioè se il giudice accerta la responsabilità dell’imputato e decide di condannarlo) sono poste in discussione le questioni relative all'applicazione delle pene e delle misure di sicurezza;

5) se vi è stata costituzione di parte civile, sono esaminate anche le questioni relative alla responsabilità civile.

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Per quanto riguarda le modalità con cui l’organo giudicante deve deliberare: - tutti i giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione qualunque

sia stato il voto espresso sulle altre. - Il presidente raccoglie i voti cominciando dal giudice con minore anzianità di servizio e vota per

ultimo. Nei giudizi davanti alla corte di assise votano per primi i giudici popolari, cominciando dal meno anziano per età.

Principio del favor rei: se nella votazione sull'entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più di due opinioni, i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si riuniscono a quelli per la pena o la misura gradatamente inferiore, fino a che venga a risultare la maggioranza. In ogni altro caso, qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all'imputato La deliberazione si svolge in segreto in camera di consiglio. Il dispositivo della sentenza Conclusa la deliberazione, il presidente dell’organo giudicante redige il dispositivo e lo sottoscrive (in esso è riassunto il “comando “ nel quale si traduce la decisione e che può essere, in sintesi, il proscioglimento o la condanna). → Se il giudice ha deciso il proscioglimento, deve riassumere i motivi in una delle formule tipiche. → Se ha deciso di condannare, il capo penale del dispositivo contiene l’indicazione della pena che viene

applicata al colpevole; se vi è stata costituzione di parte civile, il capo civile del dispositivo contiene la decisione sul risarcimento del danno.

PUBBLICAZIONE E DEPOSITO DELLA SENTENZA Pubblicazione della sentenza Una volta sottoscritto il dispositivo, l’organo giudicante rientra nell’aula di udienza ed il presidente (od altro giudice) lo legge. Di regola, accade che la motivazione non possa esser redatta immediatamente (se il caso è giunto fino al dibattimento, esso deve essere di una qualche complessità): il codice prescrive il termine entro cui l’intera sentenza (motivazione e dispositivo) deve esser depositata in cancelleria. In termine ordinario per il deposito è di 15 giorni; se la motivazione è “particolarmente complessa” il giudice indica nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia. Il deposito della sentenza L’intera sentenza (comprensiva di motivazione e dispositivo) è sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Essa deve essere depositata in cancelleria entro i termini indicati a sua tempo nel dispositivo. Quando la sentenza non è depositata entro i termini, l’avviso di deposito deve essere comunicato al p.m. e notificato alle parti private (cui spetta il diritto di impugnare) e al difensore dell’imputato. L’avviso di deposito con estratto della sentenza è in ogni caso notificato all’imputato contumace ed è comunicato al procuratore generale presso la corte d’appello.

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I REQUISITI DELLA SENTENZA Requisiti formali Ai sensi dell’art. 546, la sentenza ha il seguente contenuto: 1) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata; 2) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo nonché le

generalità delle altre parti private; 3) l’imputazione (comprensiva dell’enunciazione del fatto storico addebitato e delle norme di legge che

lo prevedono come reato); 4) l’indicazione delle conclusioni delle parti; 5) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione

delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie;

6) il dispositivo con l’indicazione degli articoli di legge applicati; 7) la data e la sottoscrizione del giudice (e cioè del presidente e dell’estensore della sentenza). La sentenza è nulla : - se manca la sottoscrizione del giudice o la motivazione - se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo. Requisiti sostanziali Dal punto di vista del contenuto sostanziale, la prassi giudiziaria distingue tra: - capi della sentenza; il capo della sentenza è identificabile con la singola imputazione; - punti della sentenza; il punto della sentenza è costituito da una tematica di fatto o di diritto che deve

essere trattata e risolta per giungere alla decisione in merito ad una o più imputazioni Nel caso in cui occorra completare la motivazione insufficiente ovvero manchino o siano insufficienti gli altri requisiti previsti dal codice, purché si tratti di errori od omissioni che non determinano nullità, e la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto, si deve attivare il procedimento per la correzione degli errori materiali: questo procedimento è disposto d’ufficio o su richiesta di parte dal giudice che ha emesso il provvedimento (questi procede in camera di consiglio previo avviso alle parti che possono intervenire); se la sentenza è stata impugnata, la correzione è disposta dal giudice competente a conoscere l’impugnazione. LA MOTIVAZIONE Ai sensi dell’art. 192 co. 1: “Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”; inoltre ai sensi dell’articolo 546, comma 1, lett. e) il giudice espone i motivi del suo convincimento indicando le “prove poste a base della decisione” ed enunciando le ragioni della loro attendibilità e le ragioni della non attendibilità delle prove contrarie. La valutazione delle prove costituisce un’attività legale e razionale: - legale perché si esercita su prove legittimamente acquisite: soltanto ciò che è validamente acquisito deve essere valutato ai

fini decisori; - razionale perché implica l’obbligo di motivare, di giustificare la decisione secondo criteri di ragionevolezza nel rispetto di

tre ordini di regole: della logica, della scienza e dell’esperienza corrente, i quali devono essere messi in correlazione con lo standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio ex art. 533 co. 1.

Ai sensi dell’art. 111 co. 6 Cost. “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” quindi la motivazione è una componente strutturale necessaria dei provvedimenti del giudice. Infine, il requisito della completezza della motivazione deve riguardare sia la decisione in fatto sia quella in diritto.

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LE TIPOLOGIE DI SENTENZE Le sentenze di proscioglimento All’interno della generale categoria delle sentenze di proscioglimento, il codice pone una fondamentale distinzione tra - sentenza di assoluzione, che contengono un vero e proprio accertamento che il giudice ha operato

mediante le prove, pertanto esse sono idonee a fondare l’efficacia del giudicato nei processi civili, amministrativi e disciplinari)

- sentenza di non doversi procedere, che non contengono un accertamento del fatto storico e si limitano a statuire su aspetti processuali che impediscono tale accertamento

Vi è tuttavia un aspetto formale, comune ai due tipi di sentenza: quando il giudice pronuncia una sentenza di proscioglimento, egli deve precisarne la causa, cioè la c.d. formula terminativa , che costituisce una sorta di riassunto della motivazione della decisione. Le formule terminative sono previste dalla legge in modo tassativo negli artt. 529-531; il codice impone al giudice di precisarle nel dispositivo non soltanto perché alcune di esse sono idonee a determinare gli effetti del giudicato, ma anche perché tutte favoriscono una maggiore intelligibilità del contenuto e della motivazione della decisione. Le formule terminative della sentenza di non luogo a procedere: 1) Sentenza di non doversi procedere perché l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve

essere proseguita: la sentenza ha questa formula terminativa quando manca la condizione di procedibilità prevista dalla legge per quella determinata fattispecie incriminatrice (querela, istanza, richiesta, autorizzazione a procedere) oppure in presenza di altre cause di improcedibilità che non sono espressamente menzionate nell’articolo 529;

2) Sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato: il codice penale prevede varie cause di

estinzione del reato (la morte del reo prima della condanna; l’amnistia; la remissione di querela; la prescrizione del reato; l’oblazione nelle contravvenzioni; il perdono giudiziale per i minorenni); ulteriori cause estintive sono previste in relazione a singoli reati. Il riconoscimento delle predette cause estintive non vincola il giudice civile nel momento in cui questi accerterà la sussistenza del fatto coi conseguenti effetti civili (obbligo del risarcimento del danno ex art. 185 c.p.).

In entrambi i casi di applica il principio in dubiio pro reo, per cui il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere: - per quanto riguarda la prima formula, sia nel caso in cui manca la condizione di procedibilità, sia nel

caso in cui la prova dell’esistenze della medesima è insufficiente o contraddittoria - per quanto riguarda la seconda formula, sia quando vi è la prova dell’esistenza della causa estintiva,

sia quando vi è il dubbio sull’esistenza delle medesima L’interesse dell’imputato all’assoluzione. L’imputato ha interesse ad ottenere l’assoluzione nel merito perché questa formula è oggettivamente più vantaggiosa rispetto alla sentenza di non doversi procedere; il codice cerca di contemperare l’interesse dell’imputato con le esigenze di economia processuale che impongono di non proseguire oltre col processo in presenza di una causa di improcedibilità: il giudice ha l’obbligo di pronunciare sentenza di assoluzione se dagli atti risulta evidente l’innocenza dell’imputato per uno dei motivi sopra elencati (cioè perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato); quindi l’assoluzione nel merito rimane comunque subordinata ad una situazione in cui l’innocenza sia evidente e ciò risulti dagli atti: non è infatti consentito al giudice acquisire nuovi mezzi di prova, dovendo l’innocenza risultare dagli atti “esistenti” nel momento in cui si verifica il fatto estintivo, anche se sulle risultanze che derivano da tali atti sarà doveroso che il giudice compia le valutazioni logiche che si rendono necessarie.

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Formule terminative della sentenza di assoluzione (nelle situazioni in cui sarebbe possibile applicare insieme più formule, il giudice deve pronunciare quella più ampiamente liberatoria) 1) Assoluzione perché il fatto non sussiste: tale formula deve essere usata ove il fatto storico ricostruito

mediante le prove non rientri nella fattispecie incriminatrice dal punto di vista degli elementi oggettivi, poiché non risultano presenti gli elementi di fatto che dovrebbero integrare la condotta, l’evento o il rapporto di causalità.

2) Assoluzione perché “l’imputato non ha commesso il fatto”: la formula è usata quando il fatto,

addebitato all’imputato, sussiste dal punto di vista del solo elemento oggettivo, ma il reato non è stato commesso dall’imputato, bensì da un’altra persona.

3) Assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”: in questo caso il fatto addebitato nell’imputazione

è stato commesso dall’imputato e sussiste nei suoi elementi oggettivi, tuttavia il fatto non è un illecito penale, in quanto manca:

- quello specifico elemento soggettivo che è richiesto dalla norma incriminatrice (dolo, colpa, preterintenzione), oppure

- uno degli elementi oggettivi che costituiscono il presupposto della condotta o dell’evento Il giudice usa la formula “il fatto non costituisce reato” anche quando sono integrati sia l’elemento oggettivo, sia quello soggettivo, ma il fatto è stato commesso in presenza di una delle cause di giustificazione: infatti, queste eliminano l’antigiuridicità e rendono lecito il fatto.

4) Assoluzione perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”: in questo caso il fatto storico indicato nell’imputazione non rientra in alcuna fattispecie incriminatrice né sotto il profilo oggettivo, né sotto quello soggettivo: siamo di fronte ad un’assoluzione in punto di diritto (in iure). La formula è utilizzata anche quando il fatto era previsto come reato, ma la relativa norma di legge ha perso efficacia (ciò avviene quando la Corte Costituzionale dichiara illegittima una norma penale o quando una legge depenalizza determinati reati, trasformandoli in illeciti amministrativi).

5) Assoluzione perché “il reato è stato commesso da una persona non imputabile o non punibile per

un’altra ragione”: la formula è usata quando il giudice accerta che il fatto è stato commesso ed è penalmente illecito, ma l’imputato non è punibile in concreto: egli può essere non imputabile, o coperto da una causa di non punibilità, o penalmente immune.

Tali formule assolutorie devono essere applicate dal giudice sia quando manca la prova della reità dell’imputato, sia quando tale prova è insufficiente o contraddittoria. Le disposizioni eventuali della sentenza di proscioglimento Con la sentenza di proscioglimento (e cioè sia di non doversi procedere che di assoluzione) il giudice ordina la liberazione dell’imputato in stato di custodia cautelare e dichiara la cessazione delle altre misure cautelari personali eventualmente disposte. Con la sentenza che assolve l’imputato “per cause diverse dal difetto di imputabilità” il giudice, se ne è fatta richiesta, condanna la parte civile alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’imputato e dal responsabile civile (se non ricorrono giustificati motivi per la compensazione totale o parziale). Se il danneggiato ha esercitato l’azione civile nel processo penale “per colpa grave”, il giudice può condannare la parte civile al risarcimento dei danni causati all’imputato assolto e all’eventuale responsabilità civile ex art. 541 co. 2. Nel caso di assoluzione da un reato perseguibile a querela con le formule ampiamente liberatorie “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”, il giudice condanna il querelante al pagamento delle spese del procedimento anticipate dallo Stato ed alla rifusione delle spese ed al risarcimento del danno a favore dell’imputato assolto.

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La sentenza penale di condanna Ai sensi dell’art. 533 co. 1, così come integrato dalla legge n. 46/2006, il giudice pronuncia sentenza di condanna quando ritiene che l’imputato sia colpevole del reato contestatogli “al di là di ogni ragionevole dubbio”. I punti essenziali della sentenza penale di condanna sono: • l’accertamento della sussistenza del fatto storico, • la sua qualificazione come illecito penale, • l’affermazione che l’imputato lo ha commesso • la determinazione della pena; se la condanna penale riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per

ciascuno di essi e, quindi, ne determina la misura in osservanza delle norme sul concorso di reati o di pene sulla continuazione

Vi sono poi altri punti eventuali: fra gli aspetti penali ricordiamo l’applicazione delle pene accessorie, delle misure di sicurezza, della sospensione condizionale, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e la dichiarazione di falsità di documenti od atti; fra gli aspetti civili importante è la pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno formulata dalla parte civile nelle sue conclusioni. La separazione dei procedimenti in sede di condanna Con il decreto legge n. 341/2000, convertito con modificazioni nella l. n. 4/2001, il legislatore ha introdotto un nuovo istituto, la “separazione in sede di condanna”: il giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna può disporre la separazione dei procedimenti per i reati previsti dall’art. 407 co. 2 lett. a (gravi delitti in tema di criminalità organizzata) anche se si tratta di più procedimenti a carico del medesimo imputato. La separazione può essere disposta quando taluno dei condannati si trova in stato di custodia cautelare e sussiste il pericolo di scarcerazione per decorrenza dei termini. In tali ipotesi, ai sensi dell’art. 544 co. 3-bis, il giudice deve provvedere alla stesura della motivazione separatamente per ciascuno dei procedimenti, accordando precedenza alla motivazione della condanna degli imputati in stato di custodia cautelare; in tal modo sarà possibile anticipare la decorrenza dei termini per impugnare, che inizia al momento del deposito della motivazione. Le statuizioni sulle questioni civili Quando pronuncia sentenza di condanna e vi è stata costituzione di parte civile, il giudice è tenuto a decidere sulla domanda relativa alle restituzioni ed al risarcimento del danno. La domanda risarcitoria non è accolta automaticamente: il giudice deve valutare se il danneggiato era legittimato a costituirsi parte civile e se ha subìto un danno derivante dal reato. La liquidazione del danno da reato. Se la parte civile ha subito un danno, il giudice condanna l’imputato a risarcirlo; il “punto” della sentenza che liquida il danno non è provvisoriamente esecutivo; la provvisoria esecutività è dichiarata solo su richiesta di parte “quando ricorrono giustificati motivi”. La condanna generica. Quando le prove acquisite non consentono la liquidazione del danno, il giudice “pronuncia condanna generica e rimette le parti davanti al giudice civile” (art. 539 co. 2). La provvisionale immediatamente esecutiva. In previsione di una simile eventualità il difensore della parte civile, nelle conclusioni che presenta al termine del dibattimento, chiede che il giudice penale conceda una provvisionale, e cioè liquidi una determinata somma “nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova” ( art. 539 co. 2). Se il giudice accoglie la richiesta, la condanna al pagamento della provvisionale è immediatamente esecutiva (540.2). Inoltre, con la sentenza che accoglie la domanda sulle restituzioni e sul risarcimento del danno il giudice penale condanna l’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile “salvo che ritenga di disporre, per giusti motivi, la compensazione totale o parziale” (541.1). Infine, il giudice su richiesta della parte civile ordina la pubblicazione della sentenza di condanna qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato.

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Parte IV – I PROCEDIMENTI PENALI DIFFERENZIATI E SP ECIALI Fino a questo momento l’esposizione ha avuto ad oggetto il procedimento penale ordinario che si svolge presso il tribunale collegiale e la corte d’assise. Esistono due fondamentali “tipi” di modelli processuali che si distinguono da quello ordinario. I procedimenti differenziati : si tratta di quei riti che si staccano dal procedimento presso il tribunale collegiale nel senso che hanno una struttura completa (dalle indagini preliminari alle impugnazioni), ma rispetto al modello base si caratterizzano per alcune particolarità; essi si pongono come strutture parallele rispetto al procedimento presso il tribunale collegiale. Sono procedimenti “differenziati”: - quello presso il tribunale monocratico - quello presso il giudice di pace - quello presso il tribunale per i minorenni - quello che accerta la responsabilità amministrativa dell’ente I procedimenti speciali: sono quei riti che si distaccano dal modello base perché si limitano ad omettere una delle fasi processuali, e cioè l’udienza preliminare o il dibattimento o entrambe; sono “speciali”: - il giudizio abbreviato ed il patteggiamento (che omettono il dibattimento), - il giudizio immediato ed il procedimento direttissimo (che omettono l’udienza preliminare) - il procedimento per decreto (che omette entrambe le fasi) Sistema accusatorio e procedimenti semplificati Dall’esame del diritto comparato alcuni studiosi hanno tratto il convincimento che l’adozione del sistema accusatorio debba comportare l’accettazione di una pluralità di procedimenti semplificati: se si vuole permettere l’affermarsi di un processo penale garantito, questo deve essere limitato ai pochi casi in cui vi sia un serio contrasto tra accusa e difesa. Poiché nei procedimenti semplificati l’imputato gode di minori garanzie, l’unica soluzione è quella di offrirgli un qualche incentivo perché accetti un affievolimento del diritto di difesa; i vantaggi consistono prevalentemente in una diminuzione della pena che dovrebbe essere scontata in caso di condanna. La indispensabilità di strumenti deflativi del dibattimento è stata di recente recepita anche a livello costituzionale: il nuovo art.111 co. 5 Cost. permette di derogare su consenso dell’imputato al principio del contraddittorio nella formazione della prova. Nell’ordinamento italiano i procedimenti semplificati devono rispettare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: la decisione sulla semplificazione deve intervenire ad opera di un giudice e dopo che sia stata comunque esercitata l’azione penale.

I PROCEDIMENTI SPECIALI La “specialità” dei procedimenti alternativi a quello ordinario Da un punto di vista meramente formale i procedimenti speciali si dividono in due gruppi. a) Il primo comprende quelli che si limitano ad eliminare l’udienza preliminare per pervenire in modo

più veloce al dibattimento: il giudizio direttissimo ed il giudizio immediato. Nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato su richiesta del p.m. l’eliminazione dell’udienza preliminare (e quindi del controllo del giudice su rinvio a giudizio) avviene in modo imperativo, e cioè in base ad un provvedimento emesso senza il consenso dell’imputato.

b) Il secondo gruppo di procedimenti speciali comprende i riti che omettono il dibattimento, in cui il

giudice compie le sue valutazioni utilizzando gli atti raccolti in modo unilaterale dalle parti: il giudizio abbreviato, il patteggiamento ed il procedimento per decreto (in qualche misura). In questi casi la semplificazione opera solo con il consenso dell’imputato.

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IL GIUDIZIO ABBREVIATO Il giudizio abbreviato è quel procedimento speciale che consente al giudice, su richiesta dell’imputato, di pronunciare già al momento dell’udienza preliminare quella decisione di merito (condanna o proscioglimento) che di regola è emanata nella fase dibattimentale; esso è applicabile a tutti i reati, compresi quelli punibili con l’ergastolo. Il rito abbreviato ha luogo sull’unico presupposto della richiesta dell’imputato, che può essere - semplice: l’imputato si limita a chiedere che il processo sia definito nell’udienza preliminare sulla

base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini - condizionata alla concessione di una integrazione probatoria: l’imputato subordina lo svolgimento del

rito all’assunzione di determinate prova Ai fini della decisione il giudice utilizza, di regola, gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini; tuttavia se all’esito del giudizio abbreviato, il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti, può disporre anche d’ufficio quella integrazione probatoria che ritiene necessaria In caso di condanna: - la pena è ridotta di un terzo - all’ergastolo è sostituita la reclusione di anni 30 - alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è

sostituita quella dell’ergastolo. Il giudizio abbreviato su richiesta non condizionata Il termine finale per la presentazione della richiesta non condizionata è la formulazione delle conclusioni nell’udienza preliminare; a seguito della richiesta il giudice deve necessariamente disporre il giudizio abbreviato. Il giudizio, di regola, si svolge in camera di consiglio; tuttavia è possibile procedere in pubblica udienza se tutti gli imputati ne fanno richiesta. Devono osservarsi le disposizioni previste per l’udienza preliminare, fatta eccezione per quella sull’integrazione probatoria disposta dal giudice e per quella relativa alla modifica dell’imputazione (che non è possibile, salvo il caso in cui il giudice provveda all’integrazione probatoria) ↓ Al termine del procedimento, svoltosi con le predette forme, il giudice valuta discrezionalmente la possibilità di decidere allo stato degli atti:

• qualora lo ritenga possibile, il giudice pronuncia sentenza utilizzando come base probatoria gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini e quelli eventualmente assunti nell’udienza preliminare fino a quel momento.

• qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, assume su richiesta di parte o

d’ufficio “gli elementi necessari ai fini della decisione”; quindi sollecita le parti a presentare le proprie conclusioni e decide. All’assunzione delle prove deve procedersi con le forme stabilite dall’art. 442 in relazione allo svolgimento eccezionale dell’udienza preliminare e cioè: l’audizione delle persone è condotta, di regola, dal giudice, al quale il p.m. e i difensori possono chiedere di porre determinate domande.

A seguito dell’integrazione probatoria il p.m. potrà modificare l’imputazione ed effettuare nuove contestazioni in udienza, con le regola previste per l’udienza preliminare.

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Il giudizio abbreviato su richiesta condizionata L’imputato, anziché limitarsi a chiedere semplicemente il giudizio abbreviato, può subordinare la richiesta ad un’integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. In tal caso il giudice, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria richiesta dall’imputato risulta:

a) necessaria ai fini della decisione; secondo le Sezioni Unite il giudice deve accogliere la richiesta condizionata se la prova è necessaria in relazione ad un qualsiasi aspetto rilevante della regiudicanda e cioè se è integrativa quanto alla fonte e alle circostanze; viceversa il giudice deve rigettare la richiesta se la prova tende a fare entrare in forma diversa un elemento già esistente negli atti scritti

b) compatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito in questione (la Corte Costituzionale, sent. 115/2001, ha neutralizzato la portata di tale requisito, precisando che il giudizio abbreviato va posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale e, quindi, in relazione a quest’ultimo, si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto alla più onerosa formazione della prova in contraddittorio)

Accoglimento della richiesta condizionata. Se il giudice accoglie la richiesta si fa luogo a giudizio abbreviato con assunzione di tutte quelle prove che sono state indicate dall’imputato; in tal caso il p.m. “può chiedere l’ammissione di prova contraria”. Quando, dopo aver procedute all’assunzione delle prove richieste dall’imputato, il giudice ritiene ancora di non poter decidere, può assumere anche d’ufficio ulteriori prove. Rigetto della richiesta condizionata. Ove il giudice rigetti la richiesta condizionata di giudizio abbreviato, l’imputato può proporre una nuova richiesta entro il termine ordinario e cioè fino alle conclusioni in udienza preliminare. La rinnovazione della richiesta di giudizio abbreviato. Qualora il rito proceda nelle forme ordinarie, l’originaria richiesta condizionata, rigettata dal giudice dell’udienza preliminare, può comunque essere rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. In tal caso il giudice del dibattimento in limine litis deve prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. e all’esito, verificare la doglianza relativa alla oggettiva ed effettiva necessità dell’integrazione probatoria: - Se la si ritiene fondata, instaura giudizio abbreviato nella fase introduttiva del dibattimento. - Altrimenti il giudice rigetta la richiesta rinnovata dall’imputato; tuttavia se poi, al termine del

dibattimento, accerta che esistevano i presupposti per accoglierla, egli deve applicare la riduzione di pena.

Vicende del giudizio abbreviato a seguito di nuove contestazioni Sia nel giudizio abbreviato su richiesta condizionata, sia in quello su richiesta non condizionata, è possibile che, a seguito dell’integrazione probatoria, emerga la necessità di modificare l’imputazione. Ove il p.m. contesti un fatto “diverso”, un reato connesso o una circostanza aggravante, l’imputato ha la possibilità di attivarsi e di chiedere che “il procedimento prosegua nelle forme ordinarie”

- La richiesta di procedersi con il rito ordinario. Se l’imputato chiede che si prosegua con giudizio ordinario, il giudice revoca l’ordinanza con la quale ha disposto il giudizio abbreviato e fissa l’udienza preliminare o la prosecuzione della stessa. Una volta scelta la prosecuzione con il rito ordinario non è più possibile chiedere il giudizio abbreviato.

- Il perseguimento nelle forme del rito abbreviato. Se l’imputato non si è attivato chiedendo lo svolgimento del rito ordinario, il procedimento prosegue nelle forme del giudizio abbreviato; l’imputato può chiedere l’ammissione di ulteriori prove in relazione alla nuova contestazione (in questo caso non operano i limiti di ammissione stabiliti dall’art. 438.5 in merito alla richiesta condizionata: non occorrono i requisiti della necessità e compatibilità). Inoltre, il p.m. ha diritto alla prova contraria in relazione alle prove ammesse su richiesta dell’imputato, salva la possibilità per il giudice di assumere d’ufficio le ulteriori prove che egli consideri necessarie ai fini della decisione, alla luce delle nuove risultanze.

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Il ruolo della parte civile Una volta che il giudice abbia accolto la richiesta di giudizio abbreviato, la parte civile può: - non accettare il giudizio abbreviato; in questo caso, se il giudice pronuncia una sentenza di

assoluzione, tale provvedimento non ha efficacia di giudicato e la parte civile può esercitare l’azione risarcitoria davanti al giudice civile senza dover subire la sospensione del processo ex art. 75 co. 3.

- accettare il giudizio abbreviato in modo espresso od implicito; in questo caso essa subisce la sospensione del processo civile (eventualmente promosso) fino alla sentenza penale irrevocabile e subisce altresì la conseguente efficacia del giudicato di assoluzione.

La decisione di condanna nel giudizio abbreviato invece ha sempre efficacia di giudicato, salva l’ipotesi in cui la parte civile, che non abbia accettato il rito, si opponga a tale efficacia. Se il giudice procede ad integrazione probatoria d’ufficio o in seguito all’accoglimento della richiesta condizionata dell’imputato o in seguito a nuova contestazione, il diritto alla prova contraria è riconosciuto esclusivamente in capo al p.m.; la parte civile può solamente sollecitare i poteri esercitabili dal giudice (cioè i poteri di integrazione probatoria) La sentenza di condanna contiene il capo civile sul risarcimento dei danni; su richiesta del danneggiato, può essere pronunciata la condanna provvisionale immediatamente esecutiva. I giudizi abbreviati atipici L’imputato può chiedere il giudizio abbreviato non solo nell’udienza preliminare (e cioè nel corso del procedimento ordinario), ma anche quando vengono disposti quei riti speciali che eliminano l’udienza preliminare: giudizio direttissimo, giudizio immediato e procedimento per decreto; al momento della loro instaurazione l’imputato può chiedere il giudizio abbreviato, il quale presenta aspetti di specialità rispetto al modello base appena esaminato. 1) Ove sia stato disposto il giudizio direttissimo, l’imputato può chiedere il rito abbreviato prima della

dichiarazione di apertura del dibattimento: - se la richiesta è incondizionata il giudice deve ordinare la prosecuzione del giudizio con il rito

abbreviato; - se la richiesta è condizionata ad una integrazione probatoria, il giudice deve valutarne

l’ammissibilità in base ai criteri sopra esposti. 2) Per quanto riguarda invece l’instaurazione del rito abbreviato in caso di giudizio immediato chiesto

dal p.m. e disposto dal giudice per le indagini preliminari, l’imputato può chiedere il rito abbreviato depositando nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari la richiesta scritta con la prova della avvenuta notifica al p.m. entro 15 giorni dalla notifica del decreto che dispone il giudizio immediato Il g.i.p. valuta l’ammissibilità della richiesta dell’imputato: se essa è condizionata ad una integrazione probatoria, il giudice la valuta adottando i criteri elaborati dalla sentenza delle Sezioni Unite sopra menzionata.

- se il g.i.p. accoglie la richiesta, fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio e ne dà avviso almeno 5 giorni prima al p.m. all’imputato al difensore e alla persona offesa. Se, a seguito di sopravvenuta modifica dell’imputazione, l’imputato revochi la richiesta di giudizio abbreviato, il giudice dispone che si proceda al dibattimento nelle forme del giudizio immediato.

- Se invece il g.i.p. rigetta la richiesta, in tal caso l’imputato può rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado e il giudice dibattimentale, ritenuto irragionevole il rigetto, può disporre il rito abbreviato.

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3) Quando è stato disposto il decreto penale di condanna l’imputato può presentare opposizione scritta e, in tale atto, può chiedere il giudizio abbreviato. Ricevuta la richiesta, il giudice fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio dandone avviso almeno 5 giorni prima al p.m. all’imputato al difensore e alla persona offesa: in detta udienza sarà valutata la richiesta e ove sia accolta, si procederà a giudizio abbreviato con le consuete norme dell’udienza preliminare in quanto applicabili. Se si tratta di richiesta condizionata di giudizio abbreviato ed il giudice la rigetta, il medesimo emette il decreto di giudizio immediato, quindi, si procederà al dibattimento. In tal caso l’imputato può rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e il giudice, ritenuto irragionevole il rigetto, può disporre il rito abbreviato. Al dibattimento si perviene anche quando, a seguito di sopravvenuta modifica dell’imputazione, l’imputato revochi la richiesta di giudizio abbreviato.

Investigazioni difensive e giudizio abbreviato La normativa sul giudizio abbreviato, modificata dalla legge n. 479/1999, può dare luogo ad alcuni problemi di compatibilità con la nuova regolamentazione delle investigazioni difensive, così come modificate dalla legge n. 397/2000. � Nel corso delle indagini preliminari la documentazione delle investigazioni difensive può essere

presentata; ove sia esercitata l’azione penale, la documentazione delle medesime segue il fascicolo delle indagini, che viene depositato presso la cancelleria del giudice dell’udienza preliminare. In questo momento il p.m. e il difensore (dell’imputato e dell’offeso) possono ancora svolgere un supplemento investigativo; il p.m. è invitato a trasmettere la documentazione relativa alle immagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio.

� All’inizio dell’udienza preliminare i difensori (dell’imputato e della parte civile) possono chiedere l’ammissione di atti e documenti, e tra questi può esservi la documentazione delle investigazioni difensive. Dopo che il giudice ha ammesso la documentazione, questa diventa utilizzabile per la decisione sul rinvio a giudizio.

� Se, prima che siano formulate le conclusioni nell’udienza preliminare, l’imputato chiede il giudizio abbreviato non condizionato, il p.m. può valutare il quadro probatorio non sufficiente per tale rito; se l’accusa chiede un rinvio per compiere indagini, il giudice deve concederglielo e il p.m. ha diritto alla prova contraria.

� L’imputato può chiedere il giudizio abbreviato presentando contestualmente la documentazione di investigazioni difensive: l’atto compiuto dall’imputato deve essere considerato una “richiesta condizionata di rito abbreviato” e se il giudice la accoglie il p.m. ha diritto alla prova contraria.

I limiti all’appello nel giudizio abbreviato Il codice pone dei limiti all’appellabilità della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato: Sentenze di condanna→ in base alle regole generali le sentenze di condanna alla sola pena pecuniaria dell’ammenda non sono appellabili; l’imputato può proporre appello contro la condanna pronunciata nel rito abbreviato; il p.m. può proporre appello contro la medesima condanna solo quando il giudice ha modificato il titolo di reato. Sentenze di proscioglimento→la corte costituzionale, con sent. N. 320/2007 ha dichiarato la incostituzionalità del divieto, posto al p.m. dalla l. 46/2006, di appellare il proscioglimento pronunciato nel rito abbreviato (mancato rispetto del principio di “parità delle parti”). Al di fuori dei limiti menzionati valgono le regole ordinarie sulle impugnazioni, in particolare: la decisione emessa al termine del giudizio abbreviato è assimilabile a quella dibattimentale (stessa disciplina sui termini prevista per le sentenze dibattimentali). Le sentenze pronunciate nel giudizio abbreviato, quando non sono sottoponibili ad appello, sono comunque passibili di ricorso per cassazione. L’appello, quando è ammesso, si svolge in camera di consiglio e non in pubblica udienza.

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L’APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI Il giudice con sentenza applica quella pena che è stata precisata da una concorde “richiesta delle parti (imputato e p.m.); al giudice spetta di controllare:

- la correttezza della qualificazione giuridica del fatto e - la congruità della pena richiesta.

La decisione avviene “allo stato degli atti”, e cioè sulla base del fascicolo delle indagini e dell’eventuale fascicolo del difensore (contenente la documentazione delle investigazioni difensive). La sentenza di regola non è appellabile, ma può essere sottoposta a ricorso per cassazione. La semplificazione consiste nell’eliminare l’assunzione orale delle prove in dibattimento e nell’utilizzare i verbali degli atti di indagine ai fini della decisione. Il sacrificio del diritto alla prova è compensato dal fatto che l’imputato, accordandosi col p.m. incide direttamente sulla qualità e quantità della pena, in modo da poter valutare in concreto se gli convenga abbandonare le garanzie che il dibattimento offre. L’incentivo per l’imputato sta nel fatto che nel determinare la pena, sulla quale si forma l’accordo, si deve applicare una diminuzione “fino ad un terzo”; la diminuzione opera dopo che è stato effettuato il computo delle circostanze. La differenza tra patteggiamento e giudizio abbreviato:

- l’imputato, nel momento in cui chiede il giudizio abbreviato, non conosce l’entità della pena base che il giudice sceglierà e sulla quale sarà operata la riduzione di un terzo

- nel patteggiamento, invece, l’imputato sa in anticipo qual è la quantità di pena che sarà applicata se il giudice accoglierà l’accordo.

Oggi sono configurabili due distinti tipi di patteggiamento, quello “tradizionale” e quello “allargato”; si tratta di due configurazioni di un medesimo istituto che hanno un nucleo comune di disposizioni che regolano la disciplina procedimentale e gli effetti, ma che hanno anche normative distinte per quanto concerne i requisiti ed i benefici. Il PATTEGGIAMENTO TRADIZIONALE permette all’imputato ed al p.m. di accordarsi su di una sanzione sostitutiva o pecuniaria o su di una pena detentiva fino a due anni sola o congiunta a pena pecuniaria; non vi sono limiti oggettivi né soggettivi, di modo che il patteggiamento tradizionale si può applicare sia ai reati gravi, sia ai delinquenti abituali, professionali, per tendenza e recidivi reiterati; l’unico vero requisito di questo tipo di rito semplificato sta nel massimo di pena detentiva sulla quale l’imputato e il p.m. possono accordarsi al netto della riduzione fino ad un terzo. Vari sono i benefici per l’imputato che stipuli il patteggiamento tradizionale col p.m.:

• la parte (di regola l’imputato) può subordinare l’efficacia dell’accordo alla concessione della sospensione condizionale ad opera del giudice; questi, se ritiene di non concedere il beneficio, deve rigettare la richiesta di patteggiamento (infatti il giudice non può intervenite sul “progetto di sentenza approntato dalle parti)

• la sentenza che applica la pena non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento penale; viceversa, l’imputato è tenuto al pagamento delle eventuali spese di mantenimento in custodia cautelare e al pagamento delle spese c.d. di giustizia, ad es. di conservazione dei beni sequestrati;

• la sentenza che applica la pena non comporta l’irrogazione di pene accessorie di matrice penalistica; • la sentenza che applica la pena non comporta l’applicazione di misure di sicurezza; viceversa,

consente di applicare la confisca nelle ipotesi nelle quali ai sensi del 240 c.p. è obbligatoria o facoltativa;

• il reato è estinto se l’imputato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole entro il termine di 5 anni in caso di patteggiamento per delitto, o di due anni in caso di patteggiamento per contravvenzione.

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Nel PATTEGGIAMENTO ALLARGATO l’imputato ed il p.m. possono accordarsi su di una sanzione da due anni ed un giorno fino a 5 anni di pena detentiva sola o congiunta a pena pecuniaria; quindi siamo in presenza di un patteggiamento allargato quando la pena detentiva, che è stata concordata, si colloca tra due anni ed un giorno e cinque anni. Il patteggiamento allargato è escluso in certi casi: 1) cause di esclusione oggettive, che riguardano i delitti consumati o tentati di associazione mafiosa, di

sequestro di persona a scopo di estorsione e i delitti commessi avvalendosi delle condizioni dell’associazione mafiosa o per agevolare tale associazione; i delitti di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope ed il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri; alcuni delitti di violenza sessuale e i delitti legati alla prostituzione e pornografia minorile; i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo;

2) cause di esclusione soggettive, che riguardano determinati tipi di imputati, e cioè coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali, per tendenza ed i recidivi reiterati.

Ambito di applicazione: nonostante le menzionale cause di esclusione, i reati che possono diventare oggetto di pena concordata sono numerosi; si tratta di tutti quei reati per i quali la pena da concordare, prima di operare la riduzione fino ad un terzo, si colloca fino a sette anni e sei mesi. La disciplina comune Possono prendere l’iniziativa tendente all’accordo sia l’imputato, sia il difensore munito di procura speciale, sia il p.m. Una richiesta unilaterale, che provenga da una sola delle parti potenziali nel corso delle indagini preliminari obbliga il giudice a fissare un termine perché la controparte esprima un eventuale consenso: prima della scadenza la richiesta non è revocabile. Se il p.m. dissente rispetto ad una richiesta di accordo formulata dall’imputato, deve enunciarne le ragioni; il diniego del p.m. impedisce al giudice dell’udienza preliminare di decidere sulla richiesta unilaterale dell’imputato. La sede naturale per l’esplicarsi dell’accordo è l’udienza preliminare, quando già l’imputato ha avuto modo di conoscere l’intero fascicolo delle indagini e di ponderare la sua strategia difensiva. Il termine finale per la presentazione della richiesta di patteggiamento (o per dare il consenso originariamente negato) è la “presentazione delle conclusioni” nell’udienza preliminare; occorre pro precisare che la richiesta può essere presentata anche al termine della nuova udienza fissata con l’ordinanza per l’integrazione delle indagini. Nel nostro ordinamento la richiesta di patteggiamento da parte dell’imputato non equivale ad un’ammissione di reità; se anche questi avesse reso una confessione, questa sarebbe liberamente valutabile dal giudice. Il controllo operato dal giudice. Il giudice valuta la legittimità e la fondatezza dell’accordo delle parti e deve valutare se sia “congrua la pena indicata”; si tratta quindi di un controllo di carattere sostanziale. Le decisioni del giudice. In presenza di una concorde richiesta dell’imputato e del p.m., il giudice: a) se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle

circostanze prospettate dalle parti nonché congrua la pena richiesta, con sentenza dispone l’applicazione della pena ed enuncia nel dispositivo che vi è stata richiesta delle parti;

b) in caso contrario, con ordinanza rigetta la richiesta ed ordina di procedersi con il rito ordinario; c) infine, può ritenere che, sulla base degli atti, l’imputato deve essere prosciolto; in tal caso pronuncia

d’ufficio sentenza con una delle formule terminative previste dall’art. 129 perché riconosce “che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità”.

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La mancata tutela della parte civile. Il giudice, quando accoglie la concorde richiesta dell’imputato e del p.m., non può decidere sulla richiesta di risarcimento del danno derivante da reato; il danneggiato può proporre l’azione di danno in sede civile, senza che vi sia sospensione di tale processo. Il giudice, quando accoglie la concorde richiesta di applicazione della pena, deve condannare l’imputato a risarcire le spese processuali sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi di compensazione totale o parziale. Nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dall’interessato non devono essere riportati i provvedimenti previsti dal 445 c.p.p. Gli effetti comuni Nell’art. 445 si afferma che “Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”. L’equiparazione fa sì che la sentenza abbia gli effetti processuali e sostanziali della condanna, salvo che la legge disponga diversamente. Effetti processuali. La sentenza di patteggiamento non ha l’efficacia del giudicato nei giudici civili o amministrativi, salvo per i procedimenti per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità. Effetti penali. - la sospensione concessa con la sentenza di patteggiamento può essere revocata cosi come avviene per

la sospensione concessa con la sentenza di condanna - la sentenza di patteggiamento è equiparata alla sentenza di condanna ai fini della possibilità di

revisione La natura della sentenza di patteggiamento. Secondo le Sezioni unite della Cassazione la sentenza che accoglie il patteggiamento contiene un accertamento quanto meno implicito della responsabilità dell’imputato. Il diritto di difendersi “negoziando” Il dissenso manifestato dal p.m. o il rigetto della richiesta da parte del g.u.p. comportano l’obbligatorio proseguimento del rito ordinario. In ciascuna delle due ipotesi l’imputato può “rinnovare” la richiesta prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, ma la richiesta non è ulteriormente rinnovabile dinanzi ad altro giudice. Il consenso del p.m. in dibattimento. Se il p.m. presente in udienza consente, il giudice del dibattimento ha il potere di valutare la richiesta: se la ritiene fondata, pronuncia immediatamente sentenza. Il potere del giudice di pronunciare sentenza malgrado il dissenso del p.m. può essere esercitato solo dopo la chiusura del dibattimento quando il giudice stesso è in grado di valutare, alla luce delle prove raccolte, se le ragioni del dissenso della pubblica accusa erano giustificate. Il dissenso del p.m. in dibattimento. In caso di dissenso, il p.m. può proporre appello; negli altri casi la sentenza è inappellabile. Il controllo da parte del giudice dell’impugnazione. Il giudice dell’impugnazione può emettere sentenza di applicazione della pena se ed in quanto ritenga ingiustificato il precedente rigetto da parte del giudice di primo grado: ciò significa che l’ordinanza di rigetto emessa dal giudice del dibattimento di primo grado può diventare oggetto di impugnazione da parte dell’imputato unitariamente alla sentenza di condanna.

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IL GIUDIZIO IMMEDIATO Il giudizio immediato ha la caratteristica di eliminare l’udienza preliminare: pertanto dalle indagini preliminari si passa direttamente all’udienza dibattimentale; quindi la semplificazione comporta il sacrificio del diritto al controllo giurisdizionale sulla necessitò del rinvio a giudizio. Sono previsti due procedimenti assai diversi: � Il giudizio immediato chiesto dall’imputato L’imputato può presentare richiesta di giudizio immediato soltanto dopo che il p.m. ha formulato l’imputazione ed il giudice ha fissato l’udienza preliminare (pertanto il difensore dell’imputato ha già avuto la possibilità di prendere visione del fascicolo degli atti di indagine); la richiesta di giudizio immediato va presentata nella cancelleria del giudice almeno 3 giorni prima della suddetta udienza e deve essere notificata al p.m. ed alla persona offesa. Con la richiesta di giudizio immediato l’imputato perde la possibilità di ottenere il rito abbreviato o il patteggiamento. Di fronte alla richiesta formulata dall’imputato, il giudice è obbligato a disporre il giudizio immediato. � Il giudizio immediato chiesto dal pubblico ministero Ipotesi tradizionale di giudizio immediato (caratterizzata dalla brevità delle indagini e dall’evidenza della prova di reità): il p.m. può chiedere il giudizio immediato se concorrono i seguenti presupposti:

a) che la prova appaia evidente; b) che la persona sottoposta alle indagini sia stata interrogata sui fatti dai quali emerge l’evidenza della

prova o comunque sia stata invitata a presentarsi per rendere interrogatorio ai sensi del 375 comma 3 e abbia omesso di comparire

c) che non siano decorsi più di 90 giorni dall’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.

Nuova ipotesi di giudizio immediato (introdotta dal decreto legge sulla sicurezza pubblica n. 92/2008 ha) caratterizzata dalla presenza di una situazione di custodia cautelare in atto (la situazione probatoria sottostante è costituita dalla esistenza di gravi indizi di reità dell’indagato, accertati in un provvedimento giurisdizionale, tali da giustificare l’applicazione della misura cautelare); in questa ipotesi non è richiesto il requisito temporale della brevità delle indagini: il legislatore ha dato per scontato che possano esservi svolte indagini di una durata anche considerevole. Il p.m. deve chiedere al g.i.p. il rito immediato se concorrono i seguenti requisiti : a) che l’indagato sia “in stato di custodia cautelare”; b) che il provvedimento custodiale, adottato nel relativo procedimento, abbia raggiunto un grado di

stabilità, e cioè sia stato definito dalla decisione in sede di riesame o siano decorsi i “termini per la proposizione” di tale rimedio;

c) che non siano decorsi “180 giorni dall’esecuzione della misura”; d) non deve essere stata pronunciata un’ordinanza che dispone la revoca della custodia cautelare o

l’annullamento della sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (in tal caso il giudice deve rigettare la richiesta di rito immediato).

Sulla richiesta del p.m. decide il g.i.p. in segreto, sulla base degli atti trasmessi dal p.m. e senza sentire la difesa (infatti il codice non prevede che il p.m. debba preventivamente aver inviato all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini); il g.i.p., dopo aver esaminato gli atti contenuti nel fascicolo: - se non ritiene sussistenti i requisiti di cui sopra, rigetta la richiesta e restituisce gli atti al p.m. - ove ritenga esistenti i presupposti, dispone con decreto il rito immediato. Il decreto “è comunicato al pubblico ministero e notificato all’imputato e alla persona offesa almeno trenta giorni prima della data fissata per il giudizio” ; all’imputato è dato l’ulteriore avviso che egli può chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento entro 15 giorni dall’ultima notificazione.

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IL GIUDIZIO DIRETTISSIMO Sotto il profilo strutturale, il giudizio direttissimo presenta una forte somiglianza con il giudizio immediato richiesto dal p.m.; in entrambi i casi l’iniziativa della pubblica accusa consente di passare rapidamente dalla fase delle indagini a quella del dibattimento, omettendo l’udienza preliminare. Sotto il profilo dei presupposti invece, il giudizio direttissimo si differenzia dal giudizio immediato chiesto dal p.m., infatti: - l’instaurazione del giudizio immediato consegue, in alternativa, o ad una valutazione giurisdizionale di esistenza dei gravi

indizi che fondano una misura custodiale o ad una valutazione del p.m., che ritenga evidente la prova di reità; la richiesta di rito immediato è controllata dal giudice, che decide in segreto sulla base di atti scritti

- mentre per instaurare il rito direttissimo sono richiesti presupposti di tipo oggettivo che consistono nell’arresto in flagranza o nella confessione resa dall’indagato, sulla cui esistenza il giudice si pronuncia in udienza nel pieno del contraddittorio.

Le ipotesi di giudizio direttissimo: 1) il p.m. deve procedere con giudizio direttissimo (salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini)

quando l’indagato è stato arrestato in flagranza di reato e l’arresto è stato convalidato dal g.i.p.; inoltre, come ulteriore condizione di ammissibilità, la giurisprudenza richiede che all’arrestato sia stata applicata una misura cautelare custodiale.

2) Il p.m. deve procedere con giudizio direttissimo anche quando l’indagato abbia reso confessione all’autorità giudiziaria nel corso di un interrogatorio. L’imputato libero è citato a comparire ad una udienza entro il trentesimo giorno dalla iscrizione nel registro delle notizie di reato.

3) Il p.m. ha la facoltà di procedere con giudizio direttissimo con la modalità della presentazione al giudice del dibattimento quando ritiene di chiedere al giudice del dibattimento la convalida dell’arresto. In tal caso l’arrestato in flagranza deve essere condotto direttamente nell’aula dibattimentale non oltre il termine di 48 ore dall’inizio della limitazione della libertà personale. La convalida dell’arresto è un presupposto del rito, pertanto: → se l’arresto è convalidato, si procede a giudizio direttissimo; → se l’arresto non viene convalidato, il giudizio direttissimo non ha luogo e gli atti sono restituiti al

p.m. Tuttavia, pur in mancanza di convalida, ai sensi dell’art. 449 co. 2, si deve procedere comunque con il rito direttissimo quando la pubblica accusa e l’imputato vi consentono.

L’instaurazione del giudizio direttissimo. All’instaurazione del rito provvede il p.m.: - se l’accusato si trova in stato di arresto o di custodia cautelare, il p.m. fa condurre la persona in

vinculis direttamente in udienza, ove gli contesta oralmente l’imputazione - se l’accusato è libero o sottoposto a misure cautelari custodiali, il p.m. fa notificare all’imputato una

citazione a comparire, nella quale deve essere enunciato il fatto addebitato In tutti i casi di giudizio direttissimo è la pubblica accusa a formare il fascicolo per il dibattimento; gli atti delle indagini sono depositati presso la segreteria del p.m.: il difensore può prenderne visione. Una volta introdotto il rito direttissimo, il giudice del dibattimento ha il potere-dovere di valutare la sussistenza dei presupposti del medesimo: se la verifica dà esito negativo, egli deve rimettere gli atti al p.m. con ordinanza; altrimenti, il giudice è vincolato a procedere al dibattimento. Le forme del dibattimento. Il dibattimento si svolge nelle forme ordinarie, anche se vi sono alcune particolarità: per esempio le parti possono far citare oralmente la persona offesa e i testimoni, o presentarli direttamente in udienza. In ogni caso, il presidente avverte l’imputato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento, oppure, in alternativa, un termine (non superiore a 10 giorni) per preparare la difesa. Se l’imputato si avvale di tale facoltà, il giudice deve sospendere il dibattimento sino all’udienza successiva alla scadenza del termine. Il giudizio direttissimo previsto da leggi speciali. Alcune leggi hanno introdotto nell’ordinamento figure particolari di giudizio direttissimo obbligatorio, per le quali si prescinde dall’esistenza dei presupposti sopra indicati; tuttavia, se vi è la necessità di compiere speciali indagini, il p.m. deve procedere nei modi ordinari.

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IL PROCEDIMENTO PER DECRETO Il procedimento per decreto ha lo scopo di evitare sia l’udienza preliminare, sia il dibattimento. Il p.m., se ritiene che possa irrogarsi una pena pecuniaria, sia pure in sostituzione di pena detentiva (e salvo che risulti la necessità di applicare una misura di sicurezza personale) può esercitare l’azione penale, chiedendo al g.i.p. l’emissione di un decreto di condanna nei confronti dell’imputato. La richiesta deve essere motivata e va formulata entro 6 mesi dall’iscrizione del nome dell’indagato nel registro delle notizie di reato. Su di essa decide il g.i.p., senza sentire la difesa, pertanto la decisione si fonda unicamente sugli elementi di prova raccolti dall’accusa, che deve trasmettere al giudice il fascicolo delle indagini. Gli incentivi. Per “indurre” l’imputato ad accettare la condanna, il codice consente al p.m. di chiedere l’applicazione di una pena diminuita sino alla metà rispetto al minimo edittale; inoltre per accentuare il carattere premiale del rito, è previsto: a) che il decreto penale esecutivo non abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile od amministrativo; b) che non possono essere applicate pene accessorie e può esser disposta solo la confisca obbligatoria; c) che il decreto non comporta condanna al pagamento delle spese del procedimento ed il reato è estinto

se “nel termine di cinque anni, quando il decreto concerne un delitto, ovvero di due anni, quando il decreto concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole”

d) che la condanna non deve essere menzionata nei certificati richiesti dai privati.. Il procedimento per decreto è applicabile anche ai reati “perseguibili a querela se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi”; il querelante, con la sua opposizione, ottiene la possibilità di costituirsi parte civile. Il controllo ad opera del giudice. Rigetto della richiesta. La richiesta di decreto penale di condanna può essere rigettata dal giudice per insussistenza dei presupposti oppure perché la pena risulta eccessiva o inadeguata. Ove ricorra una delle ipotesi indicate dall’art. 129 c.p.p. (innocenza o improcedibilità) il giudice deve prosciogliere l’imputato. Accoglimento della richiesta. Quando accoglie la domanda, il giudice emette decreto di condanna, applicando la pena pecuniaria nella misura proposta dal p.m. Il giudice non ha la possibilità di modificare la pena indicata dalla pubblica accusa. L’opposizione. Contro il decreto, che deve essere motivato, il condannato e la persona civilmente obbligata, anche tramite il difensore, possono formulare un’opposizione; questa va presentata, a pena di inammissibilità, entro 15 giorni dalla notificazione del decreto. Se l’opposizione non è proposta o è dichiarata inammissibile, il giudice ordina l’esecuzione del decreto. Con la dichiarazione di opposizione si può chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento, oppure il giudizio immediato; l’imputato contestualmente all’opposizione può altresì presentare domanda di oblazione; in mancanza di una specifica richiesta l’imputato è citato per il dibattimento mediante l’istituto del giudizio immediato. Se manca la richiesta di un rito speciale nell’atto di opposizione Nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato non può più chiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena su richiesta, né presentare domanda di oblazione.

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L’OBLAZIONE Tra i procedimenti speciali che hanno la funzione di deflazionare il dibattimento può essere ricompresa l’oblazione; essa è quel pagamento volontario di una somma che produce l’effetto di estinguere il reato; si differenzia dalle altre cause di estinzione del reato in quanto ha ulteriore effetti processuali. Tra tutte le cause di estinzione del reato previste dal c.p. l’oblazione è l’unica legata all’iniziativa volontaria dell’imputato e che deve necessariamente intervenire “prima dell’apertura del dibattimento”. Possiamo distinguere due forme di oblazione: a) L’oblazione obbligatoria concerne le contravvenzioni punite con la sola ammenda. Il contravventore

è ammesso a pagare una somma pari ad 1/3 del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione che gli è addebitata, oltre alle spese del procedimento. Il giudice è tenuto ad accogliere la richiesta se l’imputato l’ha presentata entro il termine prescritto.

b) L’oblazione facoltativa si applica alle contravvenzioni punite alternativamente con la pena

dell’arresto o dell’ammenda; il contravventore può essere ammesso a pagare una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda, oltre alle spese del procedimento; ressa comporta un maggiore onere per l’imputato:

- già all’atto della richiesta l’imputato deve depositare una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge per la contravvenzione

- l’oblazione facoltativa è subordinata alla discrezionalità del giudice che la concede; il giudice infatti può respingere la richiesta se ritiene che il fatto sia grave, che l’imputato si trovi in condizioni soggettive tali da farne presumere la pericolosità (recidivo reiterato, delinquente abituale o professionale) o che permangono le conseguenza dannose o pericolose del reato

L’indagato può proporre domanda di oblazione già nel corso delle indagini preliminari; in tal caso il p.m. trasmette la domanda, unitamente agli atti del procedimento, al g.i.p. che decide. Iniziato il processo (cioè dopo l’esercizio dell’azione penale) la domanda di oblazione deve essere presentata direttamente al giudice, che decide dopo aver sentito il p.m.; l’istanza deve essere presentata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Il giudice quando ammette l’oblazione fissa con ordinanza l’ammontare della somma che l’imputato è tenuto a versare e ne da avviso all’interessato; successivamente il medesimo giudice, verificato il pagamento della somma in questione, pronuncia sentenza di proscioglimento dichiarando il reato estinto per intervenuta oblazione. Se invece il giudice ritiene inammissibile l’istanza di oblazione, deve indicarne i motivi pronunciando ordinanza e disponendo la restituzione degli atti al p.m.; il procedimento prosegue nella forma ordinaria, ma l’imputato può proporre la domanda fino all’inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado.

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IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE MONOCRATICO Nell’ambito dei reati che appartengono alla cognizione del giudice monocratico si sono distinte due fasce di gravità alle quali sono correlati due differenti tipi di procedimento penale: • Nella prima fascia rientrano reati per i quali è predisposto un rito apposito, caratterizzato dalla

mancanza dell’udienza preliminare; in esso il p.m. esercita l’azione penale mediante citazione diretta a giudizio; - le contravvenzioni, purché non siano di competenza del giudice di pace; - i delitti puniti con la sola multa, purché non siano di competenza del giudice di pace; - i delitti puniti con pena detentiva fino a quattro anni nel massimo, anche congiunta a multa,

purché non siano di competenza del giudice di pace; - altri reati puniti con pena superiore, indicati nominativamente nell’art. 550 comma 2

• Nella seconda fascia, determinata in via residuale, rientrano tutti gli altri reati che appartengono alla cognizione del tribunale in composizione monocratica (e cioè i delitti puniti, nel massimo, con pena detentiva superiore a 4 anni e fino a 10 anni): per tali reati è predisposto un procedimento che è eguale a quello collegiale e che prevede lo svolgimento dell’udienza preliminare.

Quando vi è connessione tra reati rientranti nella prima fascia e reati rientranti nella seconda, trova applicazione per tutti il procedimento che prevede lo svolgimento dell’udienza preliminare Per quanto riguarda le regola processuali, i procedimenti davanti al tribunale monocratico sono modellati sul procedimento dinanzi al tribunale in composizione collegiale, che è concepito come rito ordinario. IL PROCEDIMENTO MONOCRATICO CON UDIENZA PRELIMINARE Poiché non viene dettata alcuna regolamentazione specifica in merito alla fase che precede il giudizio, trovano integrale applicazione le norme sul procedimento collegiale; si applica quindi la disciplina comune alle indagini preliminari e alla proroga dei relativi termini; all’indicente probatorio; all’archiviazione e all’esercizio dell’azione penale; all’udienza preliminare. Per quanto riguarda il dibattimento, esso si svolge secondo le norme stabilite per il procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale, in quanto applicabili; sono previste pero delle peculiarità:

• di regola, i dichiaranti sono sentiti con esame incrociato; tuttavia, su concorde richiesta delle parti, l’esame può essere condotto direttamente dal giudice sulla base delle domande e contestazioni proposte dal pubblico ministero e dai difensori.

• inoltre, il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva se le parti vi consentono e il giudice non ritiene necessaria la redazione in forma integrale.

I procedimenti speciali Anche con riferimento ai riti semplificati la disciplina è quasi interamente modellata su quella prevista nell’ambito del procedimento dinanzi al tribunale collegiale, solo per il giudizio direttissimo è predisposta una regolamentazione speciale. Per il giudizio abbreviato, il patteggiamento ed il procedimento per decreto il codice effettua un rinvio alla disciplina predisposta dal libro VI (Procedimenti speciali) con riguardo al tribunale in composizione collegiale. Per quanto riguarda il giudizio immediato, nel titolo terzo del libro VIII, che disciplina i procedimenti speciali nell’ambito del rito monocratico, non è dato rinvenire alcuna menzione del giudizio immediato, ma tale rito deve ritenersi applicabile nel procedimento monocratico con udienza preliminare, in forza del rinvio alle disposizioni relative al tribunale in composizione collegiale contenuto nell’art. 549.

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Per quanto riguarda infine il giudizio direttissimo, in caso di arresto in flagranza, l’imputato deve essere condotto davanti al giudice del dibattimento per la convalida dell’arresto ed il contestuale giudizio, direttamente dagli ufficiali od agenti che hanno eseguito l’arresto o che hanno avuto in consegna l’arrestato; i testimoni e la persona offesa sono citati anche oralmente; il difensore (d’ufficio o di fiducia) deve essere avvisato. In udienza l’ufficiale o l’agente che presenta l’arrestato è autorizzato dal giudice ad una relazione orale che non ha carattere di testimonianza; successivamente viene sentito l’arrestato. La formulazione dell’imputazione è comunque riservata al p.m. Se l’arresto non è convalidato, il giudice deve restituire gli atti al p.m., salvo che questi e l’imputato consentano al giudizio direttissimo. Se l’arresto è convalidato, si deve svolgere il rito direttissimo. Subito dopo l’udienza di convalida, l’imputato può chiedere il rito abbreviato od il patteggiamento; in tal caso “il giudizio si svolge davanti allo stesso giudice del dibattimento”. PROCEDIMENTO MONOCRATICO CON CITAZIONE DIRETTA Il procedimento monocratico con citazione diretta è un procedimento che ha una disciplina identica a quella tratteggiata in relazione al rito monocratico predisposto per i reati più gravi; Vi è una sola differenza: nel rito in oggetto non è previsto lo svolgimento dell’udienza preliminare. Il p.m. esercita l’azione penale con citazione diretta a giudizio. Non è previsto alcun controllo del giudice sulla fondatezza dell’iniziativa del p.m., il quale emette un decreto di citazione a giudizio e lo fa notificare all’imputato ed alla persona offesa almeno 60 giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione; esso ha un contenuto più complesso rispetto al decreto che dispone il giudizio nel rito collegiale e nel rito monocratico per i reati più gravi; in particolare deve contenere tre elementi ulteriori: 1) L’avviso all’imputato che ha la facoltà di nominare un difensore di fiducia e che, in mancanza, sarà

assistito dal difensore d’ufficio; 2) L’avviso all’imputato che prima della dichiarazione di apertura del dibattimento può chiedere il

giudizio abbreviato o il patteggiamento, o presentare domanda di oblazione; 3) L’avviso che il fascicolo delle indagini è depositato nella segreteria del p.m. e che le parti e i loro

difensori possono prenderne visione ed estrarne copia. Prima di emettere il decreto di citazione a giudizio il p.m., a pena di nullità, deve aver fatto notificare all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, nonché, ove l’indagato abbia chiesta di essere interrogato, l’invito a presentarsi per rendere interrogatorio. Immediatamente dopo la notificazione, il p.m. forma il fascicolo per il dibattimento e lo trasmette al giudice (del dibattimento) unitamente al decreto. All’imputato non è riconosciuta la garanzia dell’udienza preliminare che consente un vaglio preventivo sulla idoneità degli elementi raccolti nel corso delle indagini a sostenere l’accusa in giudizio; inoltre egli è estromesso dalla formazione del fascicolo per il dibattimento; viceversa, in quel tipo di procedimento monocratico che si applica per i reati più gravi, il fascicolo è formato nel contraddittorio delle parti in udienza preliminare. L’ udienza di comparizione ha almeno due funzioni:

- da un lato, essa costituisce la sede nella quale l’imputato ha la possibilità di scegliere un rito alternativo;

- da un altro lato, ove comunque si vada al dibattimento, nell’udienza di comparizione le parti svolgono una serie di attività che altrimenti troverebbero la loro sede nell’udienza dibattimentale.

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In ogni caso è previsto che le parti, a pena di inammissibilità, debbano depositare 7 giorni prima della data fissata per l’udienza le liste “dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 di cui intendono chiedere l’esame.” . Accertata la regolare costituzione delle parti, ha luogo la discussione delle questioni preliminari. Terminata la discussione, le parti hanno la possibilità di richiedere un rito speciale (prima della dichiarazione di aperture del dibattimento, l’imputato o il p.m. possono chiedere l’applicazione della pena si richiesta delle parti; l’imputato può altresì chiedere il giudizio abbreviato o presentare domanda di oblazione; inoltre quando il reato è perseguibile a querela, il giudice deve procedere ad un tentativo obbligatorio di conciliazione verificando se il querelante è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione. Ove non si pervenga ad uno degli epiloghi suddetti, il giudice dichiara aperto il dibattimento: in tal caso le parti, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento, indicano i fatti che intendono provare e chiedono l’ammissione delle prove. Successivamente il dibattimento si svolge con le forme descritte analizzando il procedimento monocratico per i reati più gravi. Dinanzi al tribunale in composizione monocratica le funzioni del p.m. sono svolte dal procuratore della repubblica presso il tribunale; questi può delegare lo svolgimento delle sue funzioni nell’udienza dibattimentale ad uditori giudiziari, a vice procuratori onorari addetti all’ufficio, a personale in quiescenza da non più di 2 anni che nei 5 anni precedenti abbia svolto le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria, o a laureati in giurisprudenza che frequentano il secondo anno della scuola di specializzazione.

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IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE Il giudice di pace è una figura che trova il suo fondamento nell’art. 106 co. 2 Cost. “La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli” (ratio: diminuire il carico di lavoro del giudice professionale) Per la nomina a giudice di pace è necessario aver superato l’esame da avvocato o, in sostituzione, l’aver svolto funzioni giudiziarie, anche onorarie, per almeno due anni, o funzioni notarili o, infine, aver insegnato materie giuridiche nelle università o svolto funzioni inerenti alle qualifiche dirigenziali e all’ex carriera direttiva delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie. Al magistrato onorario è stata affidata la cognizione di quei reati non gravi espressione di una micro-conflittualità tra privati. Le sanzioni applicabili dal giudice di pace La pena irrogata dal giudice di pace si ispira al principio di effettività: non è mai ammessa la sospensione condizionale della pena; inoltre l’applicazione della sanzione penale non rappresenta la finalità primaria per il giudice di pace, che è chiamato principalmente a favorire la conciliazione delle parti. Il sistema sanzionatorio si caratterizza, da un lato, per l’eliminazione della pena detentiva e, da un altro lato, per la valorizzazione della pena pecuniaria e di pene alternative a quella detentiva. Il giudice di pace può irrogare quattro specie di pene:

- la multa e l’ammenda (pene pecuniarie), - l’ obbligo di permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità (pene limitative della

libertà personale). Procedimento La mitezza delle sanzioni e la finalità conciliativa hanno ispirato un criterio di massima semplificazione del rito; l’art. 2 co. 1 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274 disciplina il procedimento davanti al giudice di pace mediante il richiamo delle disposizioni contenute nel c.p.p. e nelle relative norme di attuazione “in quanto applicabili” e per tutto ciò che non è previsto dal decreto; mentre è espressamente esclusa l’applicabilità di una serie di istituti ritenuti ex lege incompatibili con il processo davanti al giudice di pace (arresto in flagranza e fermo, misure cautelari personali, proroga del termine per le indagini, udienza preliminare, giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta, giudizio direttissimo, giudizio immediato, decreto penale di condanna, incidente probatorio). La semplificazione del procedimento davanti al giudice di pace è stata attuata: a) mediante l’eliminazione dell’udienza preliminare e della figura del g.i.p.: al suo posto vi è la figura

del giudice di pace circondariale, competente a decidere in merito alla assunzione di prove non rinviabili al dibattimento, sulla richiesta di archiviazione del p.m. e sulla opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla persona offesa;

b) attraverso l’ampliamento dei poteri della polizia giudiziaria, con una corrispondente riduzione dell’intervento del p.m.

c) mediante l’estensione dei poteri spettanti alla persona offesa che acquisisce un ruolo di primo piano sia in sede di attivazione del giudizio, sia quando il giudice di pace cerca di definire il procedimento senza arrivare alla condanna.

La competenza La competenza per materia Il giudice di pace conosce una serie di fattispecie attribuite qualitativamente: si tratta di alcuni delitti e contravvenzioni disciplinati nel codice penale e di un ricco elenco di reati previsti da leggi speciali, che presentano la caratteristica di costituire espressione di situazioni di microconflittualità individuale; il denominatore comune è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dell’accertamento.

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La competenza per territorio è determinata mediante il tradizionale criterio costituito dal luogo nel quale il reato è stato consumato. - nel caso che più reati connessi siano stati compiuti in luoghi diversi, la competenza per territorio

spetta al giudice del luogo nel quale è stato commesso il primo reato. - se non è possibile determinare in tal modo la competenza, essa appartiene al giudice di pace del luogo

nel quale è iniziato il primo dei procedimenti connessi. La competenza per connessione Nel rito dinanzi al giudice di pace viene accolto un principio di tendenziale irrilevanza della connessione tra procedimenti (a tale regola si deroga soltanto in presenza di eccezioni tassative). Se i procedimenti sono tutti di competenza del giudice di pace, la connessione opera solo in due casi: a) quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra

loro; b) quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso

formale di reati). Quando un procedimento è di competenza del giudice di pace ed un altro è di competenza del giudice professionale (Corte d’assise o Tribunale), la connessione opera solo se si tratta di reati commessi con una sola azione od omissione ed unicamente se è possibile in concreto la riunione dei procedimenti. La competenza spetta al giudice superiore. Infine, la connessione non opera in relazione a procedimenti di competenza di un giudice speciale. LE INDAGINI PRELIMINARI L’ufficio del p.m. Dinanzi al giudice di pace, le funzioni di p.m. sono svolte dal procuratore della repubblica presso il tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace. Il giudice di pace circondariale. Competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari è il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente. Per quanto riguarda la disciplina delle indagini preliminari, previste in modo alquanto sintetico la decreto, occorre innanzitutto distinguere tra le ipotesi nelle quali la notizia di reato è stata acquisita dalla polizia giudiziaria e le ipotesi nelle quali essa è stata acquisita dal p.m. La notizia di reato acquisita dalla polizia giudiziaria La polizia giudiziaria, una volta acquisita la notizia di reato, svolge direttamente le indagini di propria iniziativa, in modo autonomo. Una differente normativa è prevista quando è necessario procedere ad accertamenti tecnici irripetibili, ad interrogatori o confronti ai quali partecipi l’indagato od alle perquisizioni e sequestri fuori dei casi di flagranza o urgenza: per compiere tali atti la polizia giudiziaria deve chiedere l’autorizzazione al pubblico ministero (non una delega); ricevuta la richiesta, il p.m. può prendere le seguenti decisioni:

- può limitarsi a concedere o a negare l’autorizzazione - può compiere personalmente il singolo atto - può trattenere le indagini

Le indagini compiute dalla polizia giudiziaria devono concludersi con una relazione al p.m. entro il termine di quattro mesi dall’acquisizione della notizia di reato. La relazione è un atto scritto col quale, se la notizia di reato risulta fondata, la polizia giudiziaria enuncia il fatto in forma chiara e precisa, indica gli articoli che si ritengono violati e richiede l’autorizzazione a disporre la citazione della persona sottoposta ad indagini di fronte al giudice di pace.

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Una volta ricevuta la relazione, il p.m. deve provvedere all’iscrizione sul registro delle notizie di reato. Quindi decide se esercitare l’azione penale, chiedere l’archiviazione o procedere ad ulteriori indagini. In quest’ultima ipotesi, il p.m. può trasmettere il fascicolo alla polizia giudiziaria, se del caso, impartendo direttive o delegando il compimento di specifici atti; oppure può trattenere le indagini e svolgerle personalmente. La notizia di reato acquisita direttamente dal p.m. Nelle ipotesi in cui è il p.m. ad aver acquisito direttamente la notizia di reato, egli

- se non ritiene necessari atti di indagine, può immediatamente esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione;

- in caso contrario, non può procedere personalmente alle indagini, ma deve trasmettere la notizia di reato alla polizia giudiziaria; in ogni caso egli può impartire le sue direttive alla polizia. Una volta che la polizia giudiziaria ha ricevuto gli atti, la disciplina delle indagini è identica a quella esposta sopra, in relazione alle ipotesi in cui la notizia di reato è acquisita direttamente dalla polizia; l’iscrizione nel registro delle notizia di reato avviene al momento in cui il p.m. riceve la relazione (quindi non immediatamente come nel procedimento ordinario)

L’assunzione di prove non rinviabili al dibattimento Le parti possono chiedere al giudice di pace l’assunzione di prove non rinviabili al dibattimento. Competente all’assunzione delle prove non rinviabili nel corso delle indagini è il giudice di pace circondariale, mentre dopo la chiusura delle indagini stesse e nel procedimento avviato su ricorso della persona offesa è competente il giudice di pace del dibattimento. L’assunzione avviene nel pieno contraddittorio delle parti. I verbali degli atti compiuti devono essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento. La conclusione delle indagini preliminari. La relazione al p.m. Il termine posto per le indagini effettuate dalla polizia giudiziaria è di 4 mesi dalla acquisizione della notizia di reato; entro detto termine la polizia giudiziaria trasmette al p.m. una relazione che può avere differenti contenuti:

- se la notizia di reato risulta infondata, la polizia espone i motivi per i quali deve essere chiesta l’archiviazione.

- se la notizia di reato risulta fondata, la relazione è una comunicazione funzionale all’esercizio dell’azione penale: la polizia giudiziaria deve enunciare il fatto storico in forma chiara e precisa, con l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati

L’iscrizione nel registro delle notizie di reato. Ricevuta la relazione, il p.m. deve provvedere all’iscrizione nel registro delle notizie di reato (iscrizione cui deve provvedere anche prima di ricevere la relazione, fin da primo atto di indagine svolto personalmente) Quindi il p.m. ha tre possibilità: 1) Le ulteriori indagini : il p.m. dispone ulteriori indagini (il p.m. può trasmettere il fascicolo alla

polizia giudiziaria, se del caso, impartendo direttive o delegando il compimento di specifici atti, oppure può trattenere il fascicolo o svolgere le indagini personalmente); esse devono concludersi nel termine di quattro mesi dall’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro. Tuttavia è possibile una proroga del termine: nei casi di particolare complessità il p.m. dispone, con provvedimento motivato, la prosecuzione delle indagini per un periodo di tempo non superiore a 2 mesi; il provvedimento è comunicato al giudice di pace circondariale che, se non ritiene sussistenti le ragioni addotte, dichiara entro 5 giorni la chiusura delle indagini o riduce il termine indicato. In ogni caso le indagini preliminari devono essere completate, a pena di inutilizzabilità, nei termini indicati (4 mesi dall’iscrizione della notizia di reato prorogabili dal giudice).

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2) L’archiviazione : il p.m. chiede l’archiviazione al giudice di pace circondariale quando la notizia di

reato è infondata, quando mancano i presupposti di diritto e nel caso di particolare tenuità del fatto. Nel caso in cui decida di chiedere l’archiviazione, il p.m. deve notificare alla persona offesa, che abbia dichiarato di volerne essere informata, copia della richiesta. Nei successivi 10 giorni dalla notifica, l’offeso può presentare al giudice di pace circondariale una richiesta di prosecuzione delle indagini, indicando a pena di inammissibilità gli elementi di prova che giustificano il rigetto della richiesta di archiviazione o le ulteriori indagini da compiere. Il giudice può:

- accogliere la richiesta del p.m. e disporre quindi l’archiviazione con decreto; - rigettare la richiesta del p.m.: in tal caso restituisce con ordinanza gli atti al p.m., indicando le

ulteriori indagini necessarie e fissando il termine indispensabile per il loro compimento, ovvero disponendo che entro 10 giorni il p.m. formuli l’imputazione.

3) La citazione a giudizio: il p.m. decide di esercitare l’azione penale formulando l’imputazione e

disponendo la citazione a giudizio dell’imputato; essa deve essere sottoscritta, a pena di nullità, dal p.m. o dall’assistente giudiziario; essa è notificata, a cura dell’ufficiale giudiziario, all’imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno 30 giorni prima della data dell’udienza. Merita segnalare che nel procedimento davanti al giudice di pace non vi è l’obbligo di inviare all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

LA CITAZIONE A GIUDIZIO SU RICORSO DELLA PERSONA OFFESA Per tutti i reati che sono di competenza del giudice di pace e che sono procedibili a querela, è ammesso, in alternativa a questa, l’istituto della citazione a giudizio su ricorso della persona offesa; la presentazione della querela non preclude la possibilità di presentare ricorso. Con il ricorso l’offeso manifesta la volontà che si proceda contro il soggetto cui è addebitato il fatto previsto dalla legge come reato; egli non lo può citare direttamente a giudizio (come nel processo civile) ma è obbligato a chiedere al giudice la fissazione dell’udienza e l’emissione del decreto di convocazione. I termini per la presentazione del ricorso sono coincidenti con quelli previsti per la querela dall’art. 124 c.p.: 3 mesi da quando la persona offesa ha avuto notizia del fatto che costituisce reato. Il ricorso non deve essere comunicato subito alla persona nei cui confronti il ricorrente chiede che si proceda (la legge impone all’offeso la previa comunicazione del ricorso al p.m. ed il suo deposito nella cancelleria del giudice di pace); la notifica alla persona citata avviene successivamente soltanto se il giudice di pace nel dispone la convocazione. . La persona alla quale il fatto è addebitato non assume la qualifica di imputato: tale status si acquisisce solo allorché il giudice emette decreto di convocazione per l’udienza dibattimentale. Contenuto del ricorso. Il ricorso della persona offesa deve contenere, a pena di inammissibilità: a) l’indicazione del giudice b) le generalità del ricorrente e se si tratta di persona giuridica o di associazione non riconosciuta, la

denominazione dell’ente c) l’indicazione del suo difensore e la relativa nomina d) l’indicazione delle altre persone offese dal medesimo reato, delle quali il ricorrente conosca l’identità e) le generalità della persona citata a giudizio f) la descrizione, in forma chiara e precisa, del fatto che si addebita alla persona citata a giudizio, con

l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati g) i documenti di cui si chiede l’acquisizione h) l’indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta nonché delle circostanze su cui deve

vertere l’esame dei testimoni e dei consulenti tecnici i) la richiesta di fissazione dell’udienza per procedere nei confronti della persona citata a giudizio.

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Il ruolo del p.m. Il ricorrente deve dare comunicazione del ricorso al p.m. prima di depositarlo nella cancelleria del giudice di pace; il p.m. può:

• trasmettere al giudice di pace, entro 10 giorni dalla comunicazione del ricorso, parere contrario alla citazione nel caso in cui ritenga il ricorso

- manifestamente infondato - inammissibile - presentato di fronte a giudice incompetente per territorio

• altrimenti formulare l’imputazione confermando o modificando l’addebito contenuto nel ricorso. Il p.m. comunque non è titolare di un potere di veto: il suo parere negativo non vincola infatti la successiva valutazione del giudice di pace sull’inammissibilità e sulla manifesta infondatezza. Il filtro operato dal giudice di pace. Il giudice di pace ha diritto di sapere fin dall’inizio se e quando il p.m. ha ricevuto copia del ricorso: la mancata presentazione della prova dell’avvenuta comunicazione è causa di inammissibilità. Il giudice, trascorsi i 10 giorni entro i quali il p.m. può depositare il proprio parere, decide de plano (senza formalità) sul ricorso della persona offesa:

- nel caso in cui ritenga il ricorso manifestamente infondato o inammissibile, lo trasmette al p.m. per l’ulteriore corso del procedimento.

- nel caso di incompetenza per territorio, restituisce gli atti al ricorrente che può reiterare il ricorso di fronte al giudice di pace competente entro 20 giorni a pena di inammissibilità

- Ove non decida in alcuno dei modi menzionati, il giudice emette il decreto di convocazione (cioè convoca le parti in udienza con decreto); il giudice di pace quindi emette il decreto di convocazione quando non valuta inammissibile o manifestamente infondato il ricorso della persona offesa e, al tempo stesso, ritiene che il fatto addebitato rientri nella propria competenza.

L’offeso deve notificare il decreto di convocazione unitamente al proprio ricorso almeno 20 giorni prima dell’udienza al p.m., all’imputato e al suo difensore; da questo momento la persona citata in giudizio assume la qualità di imputato. Destinatari della notificazione del solo decreto sono le altre persone offese di cui il ricorrente conosca l’identità; esse hanno la possibilità di intervenire nel processo con l’assistenza di un difensore, aderendo al ricorso a godendo degli stessi diritti del ricorrente principale; la mancata comparizione delle persone offese alle quali è stato notificato il decreto di convocazione viene considerata rinuncia tacita al diritto di querela ovvero remissione della stessa, se già presentata. La costituzione di parte civile. La citazione a giudizio su ricorso dell’offeso è istituto a tendenziale natura mista, poiché mira all’attivazione del procedimento penale e può svolgere una funzione di tutela civilistica: è sufficiente a tal fine che il ricorso contenga la semplice richiesta motivata di risarcimento del danno. Se il ricorrente intende chiedere il risarcimento del danno, deve a pena di decadenza, costituirsi parte civile con la presentazione del ricorso; non è quindi ammessa la possibilità di costituirsi in un momento successivo, contrariamente a quanto è consentito nel procedimento penale ordinario. Le persone offese intervenute possono costituirsi parte civile prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. IL GIUDIZIO L’udienza di comparizione è il momento di raccordo tra la chiusura delle indagini ed il giudizio. L’udienza consente alle parti di scegliere i riti di definizione alternativa del procedimento o, nel caso di reati procedibili a querela, di aderire all’attività di conciliazione svolta dal giudice di pace. L’ufficio del p.m. Il procuratore della repubblica può delegare lo svolgimento delle sue funzioni nell’udienza dibattimentale ad uditori giudiziari, a vice procuratori onorari addetti all’ufficio, a personale in quiescenza da non più di due anni che nei 5 anni precedenti abbia svolto le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria, o a laureati in giurisprudenza che frequentano il secondo anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni legali.

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La fase antecedente alla celebrazione dell’udienza: - la parte che ha attivato il procedimento ha l’onere di depositare nella cancelleria del giudice di pace

l’atto di citazione a giudizio con le relative notifiche, almeno 7 giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione.

- nello stesso termine di 7 giorni le parti diverse da quella che ha attivato il procedimento devono depositare le liste testimoniali con l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame. La norma non riguarda la parte che ha attivato il procedimento; infatti il ricorrente o il p.m. dovevano aver già indicato i propri testi (e le relative circostanze) nell’atto di vocatio in ius.

Il tentativo di conciliazione. Aperta l’udienza di comparizione, il giudice deve promuovere la conciliazione tra le parti nel caso in cui il reato sia perseguibile a querela. Nel caso in cui sia raggiunta la conciliazione, viene redatto verbale in cui si attesta la remissione della querela e la relativa accettazione da parte dell’imputato. La rinuncia al ricorso produce gli stessi effetti della remissione della querela. Vi sono definizioni alternative del procedimento: • Una di esse è l’esclusione della procedibilità per tenuità del fatto: il fatto è di particolare tenuità

quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato. Il rito semplificato può trovare applicazione sia nel corso delle indagini, sia nel dibattimento.

- nel corso delle indagini il p.m., che rileva la tenuità del fatto, presenta una richiesta di archiviazione e il giudice può disporre l’archiviazione con la formula di “non doversi procedere”; tale provvedimento non può essere pronunciato quando risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimenti; non è richiesto il consenso dell’indagato.

- dopo l’esercizio dell’azione penale, viceversa, il giudice di pace può dichiarare con sentenza la particolare tenuità del fatto solo se l’imputato e l’offeso non si oppongono.

• Altra figura è quella dell’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie: il giudice, sentite

le parti e la persona offesa, dichiara l’estinzione del reato quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno o all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose. Il giudice oltre alla riparazione in se stessa deve anche accertare che l’imputato abbia tratto dall’esperienza di reintegrazione forti motivazioni per non reiterare l’illecito: se non ritiene sussistenti questi elementi, il giudice dispone la prosecuzione del procedimento. Non occorre il consenso delle parti: il giudice può dichiarare l’estinzione anche se l’offeso si oppone.

Il dibattimento davanti al giudice di pace Terminata senza esito la fase dedicata alle definizioni anticipate del procedimento, il giudice dichiara aperto il dibattimento. Le parti presentano le richieste di prova: è questo il momento per chiedere l’ammissione della prova contraria. A differenza di quanto previsto per il giudice professionale, il giudice di pace nega l’ammissione quando le parti non sono in grado di dimostrare la rilevanza e la non superfluità della prova richiesta. Successivamente il giudice invita le parti ad indicare gli atti da inserire nel fascicolo per il dibattimento; in tale sede è possibile che le parti si accordino per l’acquisizione di atti delle indagini preliminari e delle investigazioni difensive.

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Nel caso in cui sia possibile procedere immediatamente all’assunzione delle prove, il giudice di pace ammette le prove richieste dalle parti e rigetta soltanto quelle che sono vietate dalla legge, superflue o irrilevanti. Ove non sia possibile procedere direttamente al dibattimento, il giudice di pace fissa un’altra udienza e autorizza le parti alla citazione dei testimoni e dei consulenti tecnici; il magistrato onorario può negare l’autorizzazione soltanto per quelle testimonianze che sono vietate dalla legge o manifestamente sovrabbondanti. Nel caso in cui omettano la citazione, le parti decadono dalla prova. Ad ogni modo il giudice, nel caso in cui successivamente reputi l’assunzione delle prove assolutamente necessaria, vi può provvedere d’ufficio. Se sussiste l’accordo delle parti l’esame dei testimoni, periti e consulenti tecnici può esser condotto direttamente dal giudice sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal p.m. e dai difensori. Il verbale di udienza è redatto di regola in forma riassuntiva. La sentenza. La motivazione della sentenza è redatta dal giudice in forma abbreviata e deve esser depositata entro 15 giorni. La sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare. Tale sanzione di regola consiste nell’obbligo di restare nella propria abitazione durante il fine settimana; tuttavia è possibile richiedere l’esecuzione continuativa della detenzione domiciliare anche duranti i giorni feriali. Il giudice può rigettare quella domanda di esecuzione continuativa che ritenga difettare di congruità. Il lavoro di pubblica utilità. Se il giudice ritiene applicabile il lavoro di pubblica utilità in alternativa alla permanenza domiciliare, ne indica il tipo e la durata: in tal caso l’imputato può scegliere tra la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità. Una volta acquisite le richieste del condannato, il giudice integra il dispositivo e ne dà lettura. LE IMPUGNAZIONI Sentenze sottoponibili ad appello. Il p.m. e l’imputato possono proporre appello soltanto contro le sentenze di condanna che applicano una pena diversa dalla pena pecuniaria (la condanna alla sola pena pecuniaria può essere sottoposta ad appello da parte dell’imputato “se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno”); al contrario il p.m. e l’imputato non possono mai proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, neanche se sono sopravvenute o scoperte nuove prove. Inoltre, in base alla sentenza Della Cassazione luglio 2007, è stato riconosciuto esistente il potere della parte civile di appellare, ai soli fini della responsabilità civile, le sentenze rese nel giudizio di primo grado; si ritiene che il principio si estenda anche al procedimento davanti al giudice di pace. Sentenze sottoponibili a ricorso per cassazione. Tutte le sentenze di condanna e di proscioglimento possono essere sottoposte a ricorso per cassazione dal p.m. dall’imputato e dalla parte civile; la persona offesa nei casi in cui ha chiesto la citazione in giudizio dell’imputato, può proporre impugnazione contro le sentenza di proscioglimento. Competente a giudicare sull’appello avverso le sentenze del giudice di pace è il tribunale del circondario in cui ha sede il giudice che ha emesso la sentenza; esso giudica in composizione monocratica. Per il giudizio di appello si applicano le norme sulle impugnazioni ordinarie, eccettuata un’ipotesi: se l’imputato contumace in primo grado prova di non essere potuto comparire dinanzi al giudice di pace senza sua colpa, il tribunale non procede a rinnovazione del dibattimento, come avviene nel rito ordinario, bensì annulla la sentenza impugnata con regressione del procedimento dinanzi al giudice di pace.

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IL PROCEDIMENTO DAVANTI AL TRIBUNALE PER I MINORENN I La Repubblica protegge “la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” (art. 31.2 Cost.). Per quanto riguarda gli organi della giustizia penale minorile, presso ogni sede di Corte d’appello, o sezione distaccata, è situato il tribunale per i minorenni. Si tratta di un organo collegiale composto da due magistrati togati (cioè un magistrato d’appello, in qualità di presidente, e uno di tribunale) e da due giudici onorari, un uomo e una donna, benemeriti dell’assistenza sociale, cultori di certe materie e che abbiano compiuto il trentesimo anno di età. Il tribunale per i minorenni è competente per i reati commessi nel distretto di Corte d’appello o sezione distaccata da chi, al momento del fatto, non aveva ancora compiuto il diciottesimo anno d’età. È irrilevante l’eventuale connessione con procedimenti contro imputati maggiorenni; inoltre la connessione non opera nemmeno tra procedimenti per reati commessi quando l’imputato era minorenne e procedimenti per reati commessi quando era maggiorenne. Le funzioni di g.i.p. sono svolte da un organo monocratico, mentre per l’udienza preliminare è competente un collegio composto da un magistrato togato e da due giudici laici. In secondo grado il giudizio spetta alla sezione per i minorenni presso la Corte d’appello, costituita da un magistrato di Cassazione, in qualità di presidente, da due giudici d’appello e da due giudici onorari. Per quanto riguarda il difensore, la legge stabilisce a carico del consiglio dell’ordine forense la predisposizione di elenchi di difensori con specifica preparazione nel diritto penale minorile, ai fini della difesa d’ufficio. Le funzioni di p.m. sono svolte

- in primo grado dal procuratore della repubblica presso il tribunale per i minorenni. Tale ufficio si avvale di una sezione specializzata di polizia giudiziaria, il cui personale è “dotato di specifiche attitudini e preparazione”;

- in secondo grado dal procuratore generale presso la Corte d’appello. Le attribuzioni della magistratura di sorveglianza, nei confronti di chi, al momento della commissione del reato, non aveva ancora compiuto gli anni 18 e fino al compimento del venticinquesimo anno di età, sono esercitate dal magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni e dal tribunale stesso. I PRINCIPI GUIDA DEL SISTEMA La finalità rieducativa La legge sancisce l’obbligo per il giudice di illustrare al minorenne “il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni”: ne consegue la necessaria presenza del minorenne alle udienze e, quindi, la possibilità dell’accompagnamento coattivo dell’imputato non comparso. La necessità della valenza educativa esclude, nel processo penale minorile, l’esercizio dell’azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno: la sentenza non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno derivante dal reato. Per lo stesso motivo sono a carico dello Stato le spese per interventi sul minorenne, quelle processuali e quelle per il suo mantenimento in carcere. Infine la finalità rieducativa ha ispirato la Corte costituzionale nel momento in cui ha escluso l’applicazione della pena dell’ergastolo al minorenne.

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La minima offensività del processo Nei confronti di un soggetto in giovane età, la cui personalità è esposta alle influenze esterne ben più di quanto accada per un adulto, si rende necessario ridurre il più possibile le conseguenze negative derivanti dal processo. Sono riconducibili a tale finalità tutti quegli strumenti che permettono al giudice di evitare la prosecuzione del processo, qualora essa non risulti necessaria. Il catalogo delle misure cautelari minorili si arricchisce, rispetto agli adulti, con l’introduzione delle misure coercitive delle “prescrizioni” e del “collocamento in comunità”. Le prescrizioni che il giudice può legittimamente imporre devono riguardare lo studio, il lavoro od altre attività utili per l’educazione del minore. Quanto alla misura del collocamento in comunità, essa è certamente volta a limitare il più possibile l’applicazione della custodia cautelare, che ha un impatto più traumatico. La tutela della personalità e della riservatezza del minorenne Per evitare che il processo penale comporti una svalutazione dell’immagine del minorenne agli occhi della comunità : - l’udienza dibattimentale si svolge a porte chiuse; - sono previste cautele per proteggere i minorenni dalla curiosità del pubblico nell’esecuzione

dell’arresto e del fermo, nell’accompagnamento e nella traduzione; - è vietato pubblicare o divulgare notizie od immagini idonee a consentire l’identificazione del

minorenne comunque coinvolto nel procedimento; - è previsto uno speciale casellario giudiziale al quale possono rivolgersi solo la persona a cui si

riferiscono le iscrizioni e l’autorità giudiziaria; - è prevista infine la cancellazione delle iscrizioni relative alle condanne diverse da quelle a pena

detentiva, al compimento del diciottesimo anno di età. Tuttavia, per una protezione piena della personalità del minorenne coinvolto nella vicenda processuale non può essere sufficiente una tutela “in negativo” che si limiti a ridurre al minimo gli aspetti pregiudizievoli: è prevista infatti l’assistenza affettiva e psicologica al minorenne grazie alla presenza dei genitori o di altra persona idonea, indicata dal minorenne ed ammessa dal giudice che procede. È inoltre assicurato il sostegno morale dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza degli enti locali. La distinzione tra norme sull’imputabilità e norme di adattamento Le norme sull’imputabilità. Il sistema prevede che al di sopra dei 18 anni il soggetto abbia raggiunto la maggiore età e, quindi, che sia imputabile se non ricorrono cause di esclusione della capacità di intendere e di volere; al di sotto dei 14 anni il minore è considerato per legge non imputabile: si presume che non abbia la capacità di intendere e di volere necessaria per essere ritenuto responsabile di un reato (97 c.p.); tra i 14 e i 18 anni, non vige alcuna presunzione: di conseguenza il giudice dovrà accertare caso per caso la sussistenza della capacità (98 c.p.). La maturità indica quel complesso di condizioni psichiche che permettono di aver coscienza e comprendere appieno il disvalore e la portata antisociale del fatto compiuto. Individuati i soggetti che, malgrado la giovane età (compresa tra i 14 e i 18 anni), sono maturi, e quindi penalmente capaci, s’impongono esigenze di differenziazione della disciplina ad essi applicabile; queste esigenze sono espresse dalle norme di adattamento che configurano le particolarità del processo penale minorile; esse consistono: a) nel ruolo fondamentale svolto dalle indagini sull’età e sulla personalità; b) nella più ampia possibilità di definizione del processo in udienza preliminare; c) nelle modifiche del sistema sanzionatorio, rilevanti sia al momento della pronuncia della sentenza, sia

durante l’esecuzione della pena

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LE INDAGINI SULL’ETÀ E SULLA PERSONALITÀ L’analisi delle norme sull’imputabilità rivela il ruolo fondamentale dell’accertamento dell’età dell’imputato al momento della commissione del fatto. Qualora l’imputato al momento della commissione del fatto non abbia ancora compiuto il quattordicesimo anno di età, si impone il proscioglimento per non imputabilità. Nel caso, invece, che si trovi nella fascia compresa tra i 14 e i 18 anni, allora il giudice deve accertare la sussistenza della capacità di intendere e di volere. Se vi è incertezza sull’età dell’imputato il giudice, anche d’ufficio, deve disporre perizia. In ogni caso, qualora permanga il dubbio, la minore età deve essere presunta ad ogni effetto; quindi l’imputato è ritenuto infradiciottenne o infraquattordicenne a seconda che il dubbio riguardi il compimento del diciottesimo o del quattordicesimo anno di età. Inoltre il p.m. e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne; essi possono assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti col minorenne; inoltre possono acquisire il parere di esperti “anche senza alcuna formalità”; tali strumenti devono essere utilizzati per il raggiungimento delle seguenti finalità: - accertare l’imputabilità e il grado di responsabilità del minore - valutare la rilevanza sociale del fatto - disporre un trattamento penale adeguato e gli eventuali provvedimenti di natura civile LA DEFINIZIONE DEL PROCEDIMENTO IN UDIENZA PRELIMINARE Nel processo penale minorile l’udienza preliminare assolve un ruolo fondamentale: oltre alle ordinarie funzioni di garanzia (consistenti nel controllo giurisdizionale della fondatezza dell’accusa) essa si configura come la sede primaria di definizione del procedimento, poiché essa consente di applicare tutti i provvedimenti previsti dalla legge nei confronti del minorenne. Nell’udienza preliminare il giudice può, come accade per gli adulti, emettere il decreto che dispone il giudizio o pronunciare sentenza di non luogo a procedere o disporre il giudizio abbreviato. Non è esperibile l’applicazione della pena su richiesta né il procedimento per decreto. Il g.u.p. minorile può inoltre: - emettere sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto o per concessione del perdono

giudiziale; - può disporre con ordinanza la sospensione del processo e la messa alla prova del minorenne; - può condannare l’imputato ad una pena pecuniaria, diminuibile fino alla metà del minimo edittale, o

ad una sanzione sostitutiva su richiesta del p.m. Avverso tale sentenza è espressamente prevista la possibilità che l’imputato o il difensore, munito di procura speciale, propongano opposizione, al fine di instaurare il giudizio ordinario. (art. 32.2 cppm) ↓ La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del comma in esame nella parte in cui non prevede la possibilità di opporsi anche a quelle sentenze di non luogo a procedere che presuppongono la responsabilità dell’imputato.

Con la l. 63/2001 sul giusto processo è stato previsto che nell’udienza preliminare, prima dell’inizio della discussione, il giudice deve chiedere all’imputato se consente alla definizione del procedimento in quella fase. In mancanza del consenso dell’imputato, il giudice ha facoltà di definire il processo con una sentenza di non luogo a procedere nel merito con formula ampiamente liberatoria, oppure può emettere una pronuncia che, comunque, non presupponga un accertamento di responsabilità.

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L’INTERVENTO PENALE SENZA LA CONDANNA La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto E discussa la natura giuridica dell’irrilevanza del fatto; per alcuni si tratta di una causa personale di esenzione dalla pena, per altri siamo di fronte ad una causa di esclusione della punibilità, per altri ancora il provvedimento in esame ha natura di causa di non punibilità. Qualora ricorrano la tenuità del fatto, l’ occasionalità del comportamento ed il pregiudizio per le esigenze educative del minore a causa dell’ulteriore corso del procedimento, il giudice emette sentenza di non luogo a procedere: su richiesta del p.m., durante le indagini preliminari; d’ufficio, nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato e in dibattimento. Il giudice deve sentire il minorenne, l’esercente la potestà dei genitori e la persona offesa dal reato. Se non ritiene di accogliere la richiesta, dispone con ordinanza la restituzione degli atti al p.m. Il perdono giudiziale Il perdono giudiziale è una causa di estinzione del reato e può essere applicato solo ai minorenni (che abbiano compiuto gli anno quattordici); Ai sensi dell’art. 169 c.p. (Perdono giudiziale per i minori degli anni diciotto) il giudice può disporre il perdono qualora concorrano le seguenti condizioni:

- innanzitutto è necessario che per il reato commesso si possa applicare una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a 3 milioni di lire (1549 euro), anche se congiunta a detta pena;

- può beneficiarne il minore che non sia stato condannato a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione e che non sia stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale;

- inoltre il giudice deve ritenere favorevole la prognosi di rieducazione, deve cioè presumere che il colpevole si asterrà dal commettere nuovi reati.

Il perdono giudiziale non può essere concesso più di una volta, tuttavia la Corte Costituzionale ha introdotto la possibilità di estenderne l’applicabilità ad altri reati che si legano con il vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso il beneficio, nonché in caso di reato commesso anteriormente alla prima sentenza di perdono qualora la pena, cumulata con quella precedente, non superi i limiti per l’applicazione del beneficio. La sospensione del processo con messa alla prova Nel rito minorile il giudice, sentite le parti, può disporre la sospensione del processo “quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne” all’esito di una prova. Il giudice (nell’udienza preliminare o anche nel dibattimento), sentite le parti, dispone la sospensione con ordinanza, anche d’ufficio, ed il minore viene affidato ai servizi sociali minorili, in collaborazione coi servizi locali per l’osservazione, il trattamento ed il sostegno; non è necessario il consenso delle parti. Il giudice può impartire prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione con la persona offesa. La sospensione con messa alla prova è applicabile a tutti i reati. Se la prova ha esito positivo (il comportamento e l’evoluzione della personalità del minore dimostrano l’avvenuta risocializzazione) il giudice dichiara estinto il reato con sentenza; in caso contrario il processo deve andare avanti e può essere deciso anticipatamente in udienza preliminare o pervenire in dibattimento. Tuttavia, anche prima che sia decorso il periodo di sospensione stabilito, il beneficio può essere revocato qualora il minore ponga in essere ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni impostegli.

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LE ATTENUAZIONI DEL SISTEMA SANZIONATORIO IN CASO DI CONDANNA. Gli interventi al momento della pronuncia della sentenza Una volta che la condanna appaia inevitabile, il sistema non rinuncia alla tutela e alla rieducazione del minorenne; l’ordinamento cerca di fare in modo che la pena abbia la durata più breve possibile e sia conforme alle esigenze di prevenzione speciale. L’art. 98 c.p. prevede la prima importante deroga rispetto a quanto stabilito per gli adulti: la pena è diminuita fino ad un terzo per i soggetti che, al momento della commissione del reato, avevano un’età compresa tra i 14 e i 18 anni. Inoltre, maggiore è l’ampiezza della pena detentiva massima sospendibile:

- per i minorenni il tetto massimo di pena detentiva che può essere oggetto di sospensione condizionale è di 3 anni.

- per i soggetti di età compresa tra i 18 ed i 21 anni (c.d. giovani adulti), il tetto massimo di pena detentiva sospendibile è di 2 anni e 6 mesi.

Le altre condizioni di accesso a tale beneficio sono le stesse degli adulti. Di conseguenza anzitutto il giudice, avuto riguardo alle circostanze di cui all’art. 133 c.p. (Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena), dovrà ritenere che il condannato si asterrà dal delinquere. Gli interventi durante l’esecuzione della pena Nei confronti dei minorenni, la pena detentiva deve essere utilizzata come extrema ratio. Tuttavia, qualora gli altri strumenti risultino inidonei, la pena detentiva dovrà essere eseguita. A tal fine, l’ordinamento ha previsto la creazione di istituti carcerari specifici, facenti parte dei centri per la giustizia minorile, dove è privilegiata la formazione scolastica e professionale. I centri per la giustizia minorile sono, inoltre, sede degli istituti di semilibertà. La disciplina dell’affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà non presenta deroghe rispetto a quanto previsto per gli adulti. La detenzione domiciliare, invece, è applicabile più ampiamente: per comprovate esigenze di salute, studio, lavoro, famiglia, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza od accoglienza, le pene fino a 4 anni, quando trattasi di persona minore degli anni 21. Si aggiunga infine che la liberazione condizionale, che permette di trascorrere in libertà vigilata la residua pena, qualora il condannato abbia tenuto un comportamento che faccia ritenere sicuro il ravvedimento (art. 176 c.p.), può essere ordinata dal tribunale per i minorenni in qualunque momento dell’esecuzione e qualunque sia la durata della pena detentiva inflitta.

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Parte V – LE IMPUGNAZIONI

I PRINCIPI GENERALI SULLE IMPUGNAZIONI PENALI Impugnazione è quel rimedio esperibile da una parte al fine di rimuovere un provvedimento giurisdizionale svantaggioso, mediante il controllo operato da un giudice differente da quello che ha emesso il provvedimento medesimo. Le impugnazioni ordinarie possono essere esperite entro un termine stabilito a pena di decadenza: decorso tale termine senza che sia stata proposta impugnazione, la sentenza diventa irrevocabile. Sono impugnazioni ordinarie l’appello ed il ricorso per cassazione.

- la cognizione del giudice d’appello è la più completa, perché egli può esaminare il caso sotto il profilo della legittimità e del merito, nei limiti dei motivi addotti dalle parti appellanti, motivi che sono tendenzialmente illimitati; in sintesi il giudice di appello è giudice del merito e della legittimità in funzione della riforma o della conferma della sentenza di primo grado; la sentenza della corte d’appello è soggetta a ricorso per cassazione

- viceversa, nel ricorso per cassazione la sentenza impugnata può essere fatta oggetto di ricorso per soli vizi di legittimità e soltanto nei casi tassativamente previsti dalla legge (quindi i motivi del ricorso per cassazione sono tassativi); in sintesi la Corte di cassazione è giudice della sola legalità processuale e sostanziale; essa, di regola non può riformare la sentenza, ma solo pronunciarne l’annullamento; il compito di riformare la sentenza è demandato al giudice di rinvio dopo l’annullamento da parte della cassazione

Le impugnazioni straordinarie sono quelle che hanno ad oggetto provvedimenti divenuti irrevocabili. Sono impugnazioni straordinarie la revisione ed il ricorso per cassazione per errore materiale o di fatto. LE DISPOSIZIONI GENERALI SULLE IMPUGNAZIONI Salvo quanto premesso e salve deroghe specifiche contenute nella disciplina dei singoli mezzi di impugnazione, le disposizioni generali si applicano a tutte le impugnazioni; i principi generali che regolano le impugnazioni ordinarie sono il principio di tassatività, l’effetto sospensivo dell’impugnazione, l’effetto estensivo, l’effetto devolutivo. Il principio di tassatività Il principio di tassatività emerge dall’art. 568 co. 1: “La legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati”. Ne deriva un duplice effetto: • la necessità che la legge preveda espressamente un provvedimento come impugnabile • che la legge precisi il mezzo di impugnazione. In base all’articolo 568 co. 2: “Sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti coi quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze…” Per le ordinanze che non decidono sulla libertà vale la regola della tassatività: non sono impugnabili se non quando ciò è previsto per legge. Le ordinanze emesse negli atti preliminari al dibattimento e nel dibattimento sono impugnabili solo unitamente alla sentenza. La conservazione dell’impugnazione: ai sensi dell’art. 568 co. 5, “l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta. Se l’impugnazione è proposta ad un giudice incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente”; sono quindi irrilevanti le qualificazioni erronee date dalla parte impugnante, quando il provvedimento è oggettivamente impugnabile.

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L’effetto sospensivo L’esecuzione della sentenza, di regola, è sospesa durante il corso dei termini per impugnare e fino all’esito dell’ultimo giudizio di impugnazione concretamente esperito (art. 588 co. 1). Ciò è coerente con la disposizione dell’art. 650.1, secondo il quale “Salvo che sia diversamente disposto, le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili”. L’effetto sospensivo dell’impugnazione deriva dall’art. 27 co. 2 Cost. in base al quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Impugnazioni contro le misure cautelari. La regola dell’effetto sospensivo trova la sua eccezione per le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale: tali impugnazioni non hanno in alcun caso effetto sospensivo (art. 588 co. 2). L’effetto estensivo L’effetto estensivo consiste nel consentire ad una parte, che non ha proposto impugnazione, di partecipare al giudizio e di giovarsi degli effetti favorevoli derivanti da una impugnazione proposta da altra parte, con la quale la prima abbia un interesse identico o collegato (art. 587); più precisamente:

- nel caso di concorso di più persone nel reato, l’impugnazione proposta da uno degli imputati giova anche agli altri purché non fondata su motivi esclusivamente personali

- nel caso di riunione di procedimenti per reati diversi, l’impugnazione proposta da un imputato giova a tutti gli altri imputati soltanto se i motivi riguardano violazioni della legge processuale e non sono esclusivamente personali

Sono motivi non esclusivamente personali quelli che si riferiscono, anche parzialmente, a questioni sostanziali o processuali obbiettive, comuni al soggetto impugnate e agli altri coimputati (es. utilizzabilità di una prova); sono motivi esclusivamente personali quelli che riguardano la qualità e le condizioni soggettive della persona che li ha proposti oppure questioni processuali concernenti la posizione di un solo imputato. Si distingue tra effetto estensivo dell’impugnazione ed effetto estensivo della sentenza: L’effetto estensivo dell’impugnazione permette alla parte non impugnante di partecipare al giudizio di impugnazione promosso da altra parte con la quale abbia un interesse identico o collegato, sollecitando l’estensione a suo favore dei motivi non esclusivamente personali da altra parte proposti. L’effetto estensivo della sentenza comporta che il giudice dell’impugnazione, nell’accogliere un motivo di carattere non personale, dispone la modifica o l’annullamento della sentenza impugnata anche nei confronti del coimputato del medesimo procedimento, che non ha presentato impugnazione o che non ha partecipato al giudizio di impugnazione. L’effetto devolutivo Per devoluzione si intende il trasferimento della cognizione ad un giudice funzionalmente diverso rispetto a quello che ha pronunciato il provvedimento impugnato. Occorre ricordare che il “capo” della sentenza è identificabile con la singola imputazione, il “punto” è costituito da una tematica di fatto o di diritto che deve essere trattata e risolta per giungere alla decisione in merito ad una o più imputazioni. La parte che impugna deve enunciare, oltre al provvedimento impugnato e al giudice che lo ha emesso: a) i capi od i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) le richieste; c) i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono

ogni richiesta.

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I motivi dell’ impugnazione: i motivi che stanno alla base della richiesta di riforma o di annullamento individuano i capi e i punti della sentenza che vengono sottoposti al giudice dell’impugnazione; essi quindi definiscono l’ampiezza della cognizione del giudice di secondo grado. L’impugnazione è interamente devolutiva quando la legge attribuisce al giudice dell’impugnazione il potere di conoscere tutta la materia decisa dal primo giudice; è limitatamente devolutiva quando la legge consente al giudice dell’impugnazione di conoscere solo quella parte della materia che è stata oggetto dei motivi proposti dalla parte impugnante. L’impugnazione per i soli interessi civili. L’impugnazione che concerne soltanto i capi civili della sentenza non sospende l’esecuzione delle disposizioni penali del provvedimento impugnato. In tal caso i capi penali, non impugnati, diventano irrevocabili. I SOGGETTI LEGITTIMATI AD IMPUGNARE L’impugnabilità sotto il profilo soggettivo si compone di due aspetti:

- la legittimazione ad impugnare, cioè la titolarità astratta del diritto di impugnazione, conferita dalla legge; dal principio di tassatività deriva che non “chiunque” può proporre impugnazione, ma unicamente le “parti”, le quali sono espressamente indicate dalla legge; se la legge non distingue tra le diverse parti il diritto di impugnazione spetta a ciascuna di esse

- l’ interesse ad impugnare; perché l’impugnazione sia ammissibile, è necessario che la parte abbia un interesse ad impugnare; ciò accade quando l’impugnazione è diretta ad eliminare un provvedimento pregiudizievole per la parte impugnante e a sostituirlo con un altro dal quale derivi un risultato vantaggioso per la medesima.

Il difetto di uno dei due aspetti comporta l’inammissibilità dell’atto di impugnazione. Deroga: il principio trova una deroga apparente nella potestà di impugnazione conferita al p.m.; infatti il p.m. (la cui funzione è quella di far osservare la legge) può avere interesse anche ad impugnare in favore dell’imputato (pro reo), se nella sentenza vi è un errore o viene irrogata una pena iniqua. Impugnazioni del p.m. Quando la legge ammette che un provvedimento sia impugnabile dal p.m., si deve intendere che il provvedimento medesimo può essere impugnato sia dal p.m. presso il giudice di primo grado (procuratore della repubblica presso il tribunale o rappresentante del p.m. che ha presentato le conclusioni), sia dal p.m. presso la Corte d’appello. La parte civile e la persona offesa (anche se non costituita parte civile), gli enti e le associazioni intervenute ex art. 93 e 94, possono chiedere al p.m. di proporre impugnazione agli effetti penali; il p.m. quando non propone impugnazione, provvede con decreto motivato. Impugnazioni dell’imputato . Purché ne abbia interesse, l’imputato può proporre impugnazione penale, personalmente o per mezzo di un procuratore speciale; per la persona incapace di intendere e di volere provvede il tutore; se la persona è inabilitata, la sua dichiarazione di volontà deve essere integrata dal curatore. L’imputato (ovvero il suo procuratore speciale o il tutore) può impugnare anche per mezzo del ministero tecnico del difensore, purché questi fosse tale al momento del deposito del provvedimento, ovvero sia nominato alla scopo di impugnare. Impugnazione del difensore dell’imputato. Il difensore dell’imputato al momento del deposito del provvedimento o il difensore nominato allo scopo di impugnare, può proporre gravame avverso il provvedimento medesimo anche quando l’imputato non lo abbia fatto. In applicazione delle regole generali, i rapporti tra l’impugnazione dell’imputato e quella del suo difensore sono risolti nel senso della prevalenza dell’impugnazione della parte sostanziale rispetto a quella del difensore tecnico. “l’imputato, nei modi previsti per la rinuncia, può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo difensore”.

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Impugnazione della parte civile. Il codice riconosce alla parte civile un autonomo potere di impugnazione limitatamente alla tutela dei propri interessi civili; occorre tuttavia che costei abbia conservato tale posizione fino al termine del dibattimento ed abbia presentato le proprie conclusioni scritte. La parte civile può proporre impugnazione, per i soli interessi civili, contro:

- i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile - la sentenza di proscioglimento pronunciata in giudizio (al fine di evitare che la sentenza di

proscioglimento consegna l’effetto del giudicato e quindi abbia efficacia vincolante nei giudizi di danno (davanti al giudice civile o amministrativo)

L’impugnazione a presidio dei soli interessi civili “è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale”; inoltre, la parte civile può impugnare la sentenza nei capi in cui stabilisce la propria condanna ai danni ed alle spese. Impugnazioni del responsabile civile. A differenza della parte civile, il responsabile civile può proporre impugnazione contro le disposizioni della sentenza riguardanti la responsabilità dell’imputato e contro quelle relative alla condanna di questi e del responsabile civile alle restituzioni, al risarcimento e alla rifusione delle spese processuali. Impugnazioni della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. L’art. 575 co. 2 estende la portata dell’impugnazione quod accusatum del responsabile civile anche alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria; pertanto questa può presentare impugnazione soltanto se è stata condannata. Impugnazioni del querelante. Il querelante può proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento che lo ha condannato al pagamento delle spese del procedimento anticipate dallo Stato nonché alle spese e al risarcimento del danno in favore dell’imputato e del responsabile civile. REGOLE GENERALI SULLE IMPUGNAZIONI Dichiarazione di impugnazione L’impugnazione si propone con unico atto scritto, contenente la dichiarazione di volontà di impugnare ed i motivi. I requisiti dell’atto di impugnazione consistono nell’indicazione: - del provvedimento impugnato, - della data del medesimo e - del giudice che lo ha emesso. Contenuto: nell’atto di impugnazione devono essere enunciati: a) i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) le richieste; c) i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono

ogni richiesta. Forma della presentazione. Salvo che la legge disponga altrimenti, l’impugnazione scritta deve essere presentata, personalmente o a mezzo di “incaricato”, nella cancelleria del giudice a quo. L’imputato detenuto od internato può proporre impugnazione personale con dichiarazione ricevuta dal direttore dell’istituto penitenziario. L’atto di impugnazione può anche essere spedito dalle parti private o dal difensore, purché la spedizione avvenga con telegramma o con raccomandata, diretti alla cancelleria del giudice a quo e l’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma (se si tratta di parti private la sottoscrizione dell’atto deve essere autenticata da un notaio o da altra persona autorizzata che può essere anche il difensore); la copia del telegramma equivale all’attestazione della ricezione dell’impugnazione a parte del cancelliere.

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A cura della cancelleria del giudice a quo l’atto di impugnazione è: - comunicato al p.m. presso il giudice che ha pronunciato la sentenza, nonché al procuratore generale - notificato alle parti private senza ritardo Termini per impugnare I termini per impugnare sono stabiliti a pena di decadenza e variano in base alle modalità con cui si è provveduto a redigere la motivazione della sentenza. Ai sensi dell’art. 585.1 il termine è: a) di 15 giorni, per i provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio; il termine

decorre dalla notifica dell’avviso di deposito del provvedimento; b) di 15 giorni, quando la motivazione è eccezionalmente redatta insieme al dispositivo; il termine

decorre dalla lettura del provvedimento in udienza per tutte le parti che sono state o che debbono considerarsi presenti nel giudizio, anche se non sono presenti alla lettura;

c) di 30 giorni, quando la motivazione è depositata non oltre il quindicesimo giorno da quello della pronuncia; il termine decorre dalla scadenza stabilita dalla legge;

d) di 45 giorni, quando la motivazione è depositata in un termine più ampio di 15 giorni e non eccedente i 90 e comunque da indicarsi nel dispositivo della sentenza; il termine decorre dalla scadenza stabilita dalla legge o determinata dal giudice nel dispositivo.

Quando la decorrenza è diversa per l’imputato e per il suo difensore, opera per entrambi il termine che scade per ultimo; all’imputato, se contumace, assieme all’avviso di deposito della sentenza deve essere notificato l’estratto della stessa e dal giorno della notificazione decorre il termine per impugnare. Se il giudice non rispetta il termine per la redazione della sentenza, a cura della cancelleria viene comunicato al p.m. e notificato alle parti private ed ai difensori avviso del deposito della sentenza. Dalla data dell’ultima di tali comunicazioni o notificazioni decorrono i termini per impugnare. Impugnazioni nel giudizio abbreviato. La decisione emessa al termine del giudizio abbreviato è assimilabile a quella dibattimentale; ne consegue che, ai fini delle impugnazioni, si osserva la disciplina sui termini prevista per le sentenza dibattimentali. I motivi nuovi È possibile presentare motivi aggiunti di impugnazione fino a 15 giorni prima dell’udienza davanti al giudice ad quem, nella cancelleria di questi, al quale nel frattempo la cancelleria del giudice a quo ha trasmesso gli atti. Circa il possibile oggetto dei motivi nuovi, le Sezioni Unite hanno affermato che i motivi nuovi devono investire i capi e i punti della decisione che sono stati enunciati nell’originario atto di impugnazione; - argomento letterale: ai sensi dell’art. 167 disp. att. quando si presentano nuovi motivi “devono essere

specificati i capi e i punti enunciati a norma dell’art. 581 co. 1 lett. a cpp, ai quali i motivi si riferiscono”

- argomento sistematico: se si consentisse di presentare motivi riferiti a capi e punti non impugnati verrebbero aggirati i termini per proporre impugnazione

Il giudice competente a conoscere l’impugnazione Il giudice competente per l’appello contro le sentenze del Tribunale è la Corte d’appello. Le sentenze dell’Assise sono appellate davanti alla Corte di assise d’appello, costituita all’interno della corte d’appello con l’apporto di 6 giudici popolari e 2 magistrati di carriera. Competente per l’appello contro le sentenze del tribunale per i minorenni è la sezione per i minorenni presso la Corte di appello. Competente per l’appello contro le sentenze del giudice di pace è il tribunale in composizione monocratica.

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La rinuncia all’impugnazione La rinuncia all’impugnazione è un atto col quale la parte che ha proposto impugnazione dichiara di non volersene più avvalere; essa presuppone che l’impugnazione sia stata proposta e sia ammissibile. La rinuncia è causa di inammissibilità dell’impugnazione. Il p.m. proponente può rinunciare all’impugnazione fino all’apertura del dibattimento. Successivamente, la rinuncia all’impugnazione può esser proposta solo dal p.m. presso il giudice ad quem, prima dell’inizio della discussione, anche se l’impugnazione è stata proposta da altro p.m. Le parti private possono rinunciare all’impugnazione anche a mezzo di procuratore speciale, purché la dichiarazione sia presentata nelle forme e nei modi previsto dagli articoli 581, 582 e 583 ovvero in dibattimento, prima dell’inizio della discussione. L’INAMMISSIBILITÀ DELL’IMPUGNAZIONE Il provvedimento impugnato, l’atto di impugnazione e gli atti del procedimento sono strasmessi senza ritardo al giudice dell’impugnazione (ad quem), il quale verifica preliminarmente tanto l’ammissibilità dell’impugnazione, quanto la regolarità delle notificazioni. L’impugnazione è inammissibile:

1) quando è proposta da un soggetto non legittimato o che non vi ha interesse; 2) quando il provvedimento non è impugnabile; 3) quando non sono state osservate le disposizioni relative alla forma, alla presentazione, alla

spedizione ed ai termini; 4) quando vi è stata rinuncia all’impugnazione.

Il giudice dell’impugnazione (ad quem) dichiara con ordinanza (pronunciata de plano anche d’ufficio) l’inammissibilità dell’impugnazione e dispone l’esecuzione del provvedimento impugnato; l’ordinanza è notificata a chi ha proposto l’impugnazione affinché la parte possa presentare ricorso per cassazione. Se non rilevata in limine, l’inammissibilità dell’impugnazione può comunque essere rilevata, anche con sentenza, in ogni stato e grado del procedimento Nel giudizio di impugnazione vale il principio di soccombenza (art. 592), sicché la sola parte privata che ha visto confermata la sentenza, rigettato il ricorso per cassazione o dichiarata inammissibile l’impugnazione, è condannata alle spese di Giustizia. L’imputato che nel giudizio di impugnazione riporta condanna penale è condannato alle spese dei precedenti giudizi, anche se in questi sia stato prosciolto; se gli imputati sono più, essi sono condannati in solido al pagamento delle spese di Giustizia, ma ciascuno è condannato individualmente al pagamento di quelle della propria custodia cautelare.

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L’APPELLO L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario, mediante il quale le parti chiedono al giudice di secondo grado di controllare una decisione di primo grado che ritengono viziata per motivi di fatto o di diritto. Le caratteristiche essenziali dell’appello: � l’appello è un gravame “parzialmente devolutivo” , nel senso che la cognizione del giudice di

appello è limitata dai motivi della impugnazione; tuttavia egli ha la medesima ampiezza di poteri decisori che caratterizza il giudice di primo grado;

� l’appello è una impugnazione “a critica libera”: non vi sono limiti alle censure che le parti rivolgono alla sentenza e che possono essere di fatto o di diritto e riferirsi ad errori sia in iudicando sia in procedendo;

� l’appello è uno “strumento di controllo” e non un nuovo giudizio, perché non presuppone necessariamente una nuova istruzione dibattimentale;

� di regola il giudice d’appello conferma o riforma la decisione impugnata; i casi di annullamento sono eccezionali. Al di fuori di tali casi, la decisione di appello dà luogo ad una nuova sentenza che si sostituisce a quella impugnata e che, a sua volta, può essere oggetto di ricorso per cassazione.

Procedimento cartolare. Il processo d’appello è “cartolare”: in altri termini, il giudice di appello “legge” gli atti probatori del giudice di primo grado nei limiti delle richieste e dei motivi degli appellanti, senza, di regola, assumere prove (quindi non c’è un contatto diretto con le fonti di prova). Competenza - Sull’appello proposto contro le sentenze pronunciate dal tribunale e dalla corte d’assise decidono,

rispettivamente, la corte d’appello e la corte di assise d’appello. - Sull’appello contro le sentenze pronunciate dal g.i.p. in sede di giudizio abbreviato decidono,

rispettivamente, la corte d’appello e la corte d’assise d’appello, a seconda che si tratti di reato di competenza del tribunale o della corte di assise.

- Sull’appello proposto contro le sentenze pronunciate dal giudice di pace è competente il tribunale del circondario in cui ha sede il giudice di pace che ha pronunciato la sentenza impugnata; il tribunale decide in composizione monocratica.

APPELLO PRINCIPALE ED INCIDENTALE Appello principale. L’appello principale, qualora sia ammissibile, determina il dovere del giudice di secondo grado di riesaminare il fatto nei limiti dei punti ai quali si riferiscono i motivi proposti. Appello incidentale. Una volta che una parte abbia presentato appello principale, le altre parti che erano legittimate ad appellare hanno la possibilità di proporre il c.d. appello incidentale entro 15 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’appello principale;esso ha la funzione di integrare il contraddittorio nel giudizio di appello. Circa l’oggetto di appello incidentale, esso deve limitarsi ai capi della decisione oggetto dell’appello principale e ai punti che hanno connessione essenziale con quelli denunciati con l’appelli principale. Limiti dell’appelli incidentale. Chiunque sia l’appellante incidentale, la sorte dell’impugnazione segue quella dell’appello principale, infatti, ai sensi dell’art. 595 “l’appello incidentale perde efficaica in caso di inammissibilità dell’appello principale o di rinuncia allo stesso” L’appello incidentale proposto dal p.m. (e da lui soltanto) fa cadere il divieto di reformatio in peius che opera quando appella il solo imputato.

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CASI DI APPELLO Appello contro le sentenze di condanna L’art. 593 co. 1 pone come regola generale “la appellabilità delle sentenze di condanna da parte del p.m. e dell’imputato, naturalmente ove sussista l’interesse ad impugnare; sono tuttavia previste delle eccezioni, e cioè alcune sentenze non possono essere sottoposte ad appello in questi casi:

1) Sono “inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda”, da intendersi come pena originaria e non sostitutiva della detenzione.

2) Sono inappellabili le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, ma il p.m. può proporre appello se non ha consentito al patteggiamento.

3) Non si può proporre appello contro la sola misura di sicurezza quando la parte non ha impugnato agli effetti penali un altro capo della sentenza di condanna; sull’impugnazione contro la sola misura di sicurezza decide il tribunale di sorveglianza.

4) Il solo p.m. non può proporre appello contro la condanna pronunciata nel giudizio abbreviato, ma ha tale potere quando il giudice nella sentenza ha modificato il titolo di reato.

Appello contro le sentenze di proscioglimento La legge n. 46/2006 aveva posto come regola generale la non appellabilità delle sentenze di proscioglimento salvo un caso eccezionale, espressamente previsto dall’art. 593 co. 2 ( e cioè in presenza di una nuova prova decisiva sopravvenuta o scoperta dopo la chiusura del giudizio di primo grado). ↓ Tuttavia la Corte Costituzionale, con la sent. N. 26/2007 ha dichiarato illegittimo il divieto, posto al p.m., di presentare appello contro il proscioglimento dell’imputato, perché in contrasto con il principio di parità delle parti nel processo penale (art. 111 co. 2 Cost.). La diseguaglianza è apparsa alla Corte:

• “irragionevole”: perché l’imputato poteva appellare la soccombenza (e cioè la condanna), mentre altrettanto non poteva fare il p.m. (in caso di soccombenza rispetto al proscioglimento)

• “unilaterale”: perché non trovava contropartita nelle caratteristiche del rito. Sulla base di tali motivi la Corte costituzionale, con la sentenza di cui sopra, ha restituito al p.m. il potere di proporre appello contro tutte le sentenze di proscioglimento pronunciate dal tribunale e dalla corte d’assise nel procedimento ordinario; in particolare, ha eliminato la condizione della sopravvenienza di una nuova prova decisiva. La declaratoria di parziale illegittimità dell’art. 593 co. 2 aveva lasciato sostanzialmente inalterato il divieto, posto all’imputato, di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento, se si eccettuava il caso eccezionale dell’emersione di nuove prove decisive sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado. La situazione era tale che l’imputato non poteva lamentare errori di merito nei confronti di quelle sentenze di proscioglimento che avevano : - riconosciuto implicitamente la sua responsabilità penale o - adottato formule non completamente liberatorie dalle quali potevano derivare a suo carico conseguenze pregiudizievoli sul piano civilistico o anche soltanto dal punto di vista morale; ↓ la Corte cost. con la sent. N. 85/2008 ha ritenuto queste limitazioni tali da provocare una disparità non giustificata e non ragionevole rispetto al p.m. che, nel frattempo, aveva riottenuto la possibilità di impugnare in ogni caso il proscioglimento; la Corte ha dunque ripristinato la situazione anteriore alla riforma restituendo all’imputato il potere di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal tribunale e dalla corte d’assise nel procedimento ordinario, salvo quelle relative a contravvenzioni punibili con la sola ammenda o con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda (art. 593 co. 3).

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I casi espressi di inappellabilità del proscioglimento. o Art. 443 co. 1: l’imputato non può proporre appello contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio abbreviato (articolo dichiarato parzialmente illegittimo dalla sent. Cost. N. 320/2007. o Art. 469: dichiara non appellabile la sentenza predibattimentale di proscioglimento pronunciata in mancanza di una opposizione del p.m. e dell’imputato. L’impugnazione contro la misura di sicurezza. L’art. 579 impedisce di impugnare separatamente l’applicazione di una misura di sicurezza quando la parte non propone una impugnazione contro un altro capo penale della sentenza di condanna o di proscioglimento. ↓ pertanto, per effetto della sent. Cost. n. 85/2008, l’imputato è legittimato a presentare appello anche quando egli impugna una misura di sicurezza unitamente ad un capo della sentenza di proscioglimento agli effetti della responsabilità penale. L’appello del responsabile civile e della perdona civilmente obbligata per la pena pecuniaria Sono legittimati a proporre appello anche il responsabile civile e la persona obbligata per la pena pecuniaria (essi hanno infatti diritto all’impugnazione “con il mezzo che la legge attribuisce all’imputato” ex art. 575). La parte civile può “impugnare”, agli effetti della responsabilità civile, la sentenza di condanna e quella di proscioglimento. La Corte di Cassazione è intervenuta sul punto enunciando il seguente principio: “la parte civile, anche dopo l’intervento sull’art. 576 ad opera dell’art. 6 della l. 46/2006, può proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado”; ne deriva che la giurisprudenza di legittimità è attualmente orientata a ritenere che la parte civile può appellare la sentenza che conclude il giudizio di primo grado, sia essa di condanna o di proscioglimento. L’appello del querelante Il querelante può proporre impugnazione (appello) contro la sentenza di proscioglimento che lo ha condannato al pagamento delle spese del procedimento anticipate dallo Stato, nonché alle spese e al risarcimento del danno in favore dell’imputato e del responsabile civile; l’impugnazione è limitata agli interessi civili. La conversione del ricorso in appello Ai sensi dell’art. 580, modificato dalla l. n. 46/2006 “quando contro la stessa sentenza sono proposti mezzi di impugnazione diversi, nel caso in cui sussista la connessione di cui all’art. 12, il ricorso per cassazione si converte nell’appello”. LA COGNIZIONE DEL GIUDICE DI APPELLO Ai sensi dell’art. 597 co. 1 “L’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”. Bisogna precisare che oggetto del giudizio di appello non è il motivo bensì il punto della decisione al quale il motivo si riferisce (cioè una tematica che deve essere trattata per decidere su di un capo di imputazione); quindi il giudice di appello, nell’accertamento della correttezza dell’operato del giudice di primo grado in relazione al punto impugnato, non è obbligato a limitarsi alle prospettazioni effettuate dall’appellante nella proposizione dei motivi; in particolare:

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Quando appellante è il p.m.: a) se l’appello riguarda una sentenza di condanna, il giudice può, entro i limiti della competenza del

giudice di primo grado, dare al fatto una definizione giuridica più grave, mutare la specie od aumentare la quantità della pena, revocare benefici, applicare misure di sicurezza e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge;

b) se l’appello riguarda una sentenza di proscioglimento, il giudice può pronunciare condanna ovvero prosciogliere per una causa diversa da quella enunciata nella sentenza appellata;

c) se conferma la sentenza di primo grado, il giudice può applicare, modificare od escludere, nei casi determinati dalla legge, le pene accessorie e le misure di sicurezza.

Quando appellante è il solo imputato, il giudice non può riformare in peius la sentenza appellata e, quindi, “non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici, salva la facoltà, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado” ( art. 597 co.3). Se non sono impugnati tutti i punti della sentenza, la cognizione del giudice di secondo grado può estendersi ai punti legati da un vincolo di connessione essenziale di tipo logico con quelli impugnati. IL PREDIBATTIMENTO IN APPELLO Gli atti preliminari al dibattimento sono destinati a far conoscere al procuratore generale, al presidente ed al consigliere relatore nonché al difensore il fascicolo processuale, la sentenza e l’appello o gli appelli ed a preparare il contraddittorio dibattimentale. A tal fine l’art. 601 prescrive che il presidente della sezione della corte ordini senza ritardo la citazione dell’imputato appellante, nonché dell’imputato non appellante in alcuni casi : - se vi è appello del p.m., - se è possibile l’effetto estensivo dell’impugnazione a favore dell’imputato non appellante o - se l’appello è proposto per i soli interessi civili. Il termine per comparire, anche per il difensore, non può essere inferiore a 20 giorni. È ordinata in ogni caso la citazione del responsabile civile e della parte civile. Il decreto di citazione è nullo quando se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dall’art. 429 co. 1 lett. f, nonché se la notificazione è nulla. Il presidente, inoltre, deve fissare l’udienza dibattimentale, formare il turno giudicante ed assegnare il caso ad un relatore. PROVVEDIMENTI IN ORDINE ALL’ESECUZIONE DELLE CONDANNE CIVILI Se il giudice di primo grado ha omesso di provvedere sulla richiesta di provvisoria esecuzione del capo civile contenente la pronuncia riparatoria ovvero l’ha rigettata, la parte civile può riproporre la richiesta, che deve essere sorretta da giustificati motivi, mediante appello (art. 600 co. 1). ↓ Il giudice di secondo grado provvede con ordinanza in camera di consiglio. L’inibitoria civile. Tale istituto è previsto dai commi 2 e 3 dell’art. 600: il responsabile civile e l’imputato possono chiedere la revoca o la sospensione della provvisoria esecuzione “quando ricorrono gravi motivi” (sempre con le forme camerali di cui al co. 1).

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LO SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO DI APPELLO Ai sensi dell’art. 598 (Estensione delle norme sul giudizio di primo grado al giudizio di appello) “In grado di appello si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni relative al giudizio di primo grado...” Il primo atto è la relazione della causa, che è svolta dal presidente o dal consigliere da lui delegato; nel dibattimento può essere data lettura anche d’ufficio di atti del giudizio di primo grado e degloi atti del fascicolo per il dibattimento. La rinnovazione dell’istruzione Il processo di secondo grado è “cartolare”, sicché la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è istituto di carattere eccezionale. Di regola, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve essere chiesta espressamente dalla parte nell’atto di appello o nei motivi nuovi: potrà tuttavia essere chiesta anche dopo detto termine ove l’elemento di prova venga a conoscenza dell’interessato solo in un momento successivo. Quando la richiesta ha per oggetto l’assunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o di nuove prove (qui intese come prove già note all’interessato nel giudizio precedente, ma non acquisite in quella sede), il giudice di appello la dispone qualora ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. Tuttavia, “Se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale” con ordinanza, sentite le parti (art. 603 co. 2). Ancora, la rinnovazione è disposta d’ufficio dal giudice quando la ritiene assolutamente necessaria per l’accertamento del fatto. Sulla richiesta di rinnovazione il giudice provvede con ordinanza, nel contraddittorio delle parti, e si procede immediatamente; in caso di impossibilità il dibattimento è sospeso per un termine non superiore a 10 giorni. La discussione in appello La parola passa nell’ordine consueto al procuratore generale, al difensore della parte civile, al difensore del responsabile civile ed a quello della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. L’ultima parola spetta al difensore dell’imputato. Esaurita la discussione, il presidente dichiara chiuso il dibattimento (524) ed il collegio si ritira in camera di consiglio. Dopodiché viene redatto e sottoscritto dal presidente il dispositivo. Il collegio rientra in aula ed il presidente pubblica il dispositivo dandone lettura. L’UDIENZA IN CAMERA DI CONSIGLIO Vi sono ipotesi nelle quali il giudizio di appello si svolge in camera di consiglio nelle forme dell’art. 127; in detti casi di regola non è necessaria la presenza del p.m., dei difensori e dell’imputato. E’ necessaria la presenza: → dell’imputato: quando questi abbia manifestato la volontà di comparire. → del p.m. e dei difensori: quando si proceda ad acquisizioni probatorie ex art. 603. L’udienza in forma camerale ha luogo: a) nel caso di appello contro le sentenze emesse nel giudizio abbreviato; b) quando l’appello ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena o l’applicabilità delle

attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione condizionale della pena, della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale;

c) quando oggetto dell’appello sono i provvedimenti in ordine all’esecuzione delle condanne civili;

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Il concordato in appello Il d.l. 92/2008 ha abrogato l’istituto denominato “concordato in appello”; il codice consentiva al p.m. e all’imputato di mettersi d’accordo sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello di qualsiasi genere, anche di quelli in punto di responsabilità; il patto concerneva l’accoglimento di alcuni motivi e la rinuncia ad altri ed era perfezionato nelle medesime forme che disciplinano la rinuncia all’impugnazione. In sostanza le parti indicavano al giudice quali motivi ritenevano che dovessero essere accolti; ma il giudice non era vincolato dall’accordo e lo recepiva solo se riteneva di poterlo accogliere; in caso contrario rigettava la richiesta congiunta e disponeva che il processo proseguisse. QUESTIONI DI NULLITÀ E NATURA DELLA GIURISDIZIONE D’APPELLO L’art. 604 è una norma di cardinale importanza per comprendere l’essenza stessa del giudizio di appello; essa esprime il divieto di regresso del processo di appello al primo grado. Sicché: � Quando sono state ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti o sono state applicate

circostanze aggravanti diverse da quelle previste dal comma 1 (ad efficacia o ad effetto speciale), il giudice di appello esclude le circostanze aggravanti, effettua (se occorre) un nuovo giudizio e ridetermina la pena (comma 2).

� Se si tratta di nullità relative, eccepite ma non sanate, il giudice di secondo grado “può ordinare la rinnovazione degli atti nulli o anche, dichiarata la nullità, decidere nel merito, qualora riconosca che l’atto non fornisce elementi necessari al giudizio (comma 5).

� Quando il giudice di primo grado ha dichiarato che il reato è estinto o che l’azione non poteva essere iniziata o proseguita, il giudice di appello, se riconosce erronea tale dichiarazione, ordina, occorrendo, la rinnovazione del dibattimento e decide nel merito (comma 6).

� Quando vi è stata condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo, il giudice di appello dichiara nullo il relativo capo della sentenza ed elimina la pena corrispondente, disponendo che del provvedimento sia data notizia al p.m. per le sue determinazioni (comma 3).

� Infine, quando il giudice di primo grado ha respinto la domanda di oblazione, il giudice di appello, se riconosce erronea tale decisione, accoglie la domanda e sospende il dibattimento, fissando un termine non superiore a 10 giorni per il pagamento delle somme dovute; se il pagamento avviene nel termine, il giudice di appello pronuncia sentenza di proscioglimento (comma 7).

Il regresso del dibattimento al primo grado è istituto eccezionale consentito in 2 casi: 1) Quando il giudice di secondo grado dichiara la nullità della sentenza per difetto di contestazione nei

casi previsti dall’art. 522, disponendo la trasmissione degli atti al giudice di primo grado. Deve essersi verificata, in primo grado, la condanna per fatto diverso o l’applicazione di una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa o una circostanza aggravante ad effetto speciale, e sempre che non vengano ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti, nel quale ultimo caso non si ha regresso del procedimento (comma 1). ↓ Il giudice di appello trasmette gli atti ad altra sezione della corte di assise o dello stesso tribunale ovvero, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicini. Se annulla una sentenza di un giudice monocratico o di un gip, dispone la trasmissione degli atti al medesimo tribunale “tuttavia il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata” (comma 8).

2) Nel caso in cui il giudice di appello accerti una nullità assoluta, o intermedia che non sia stata sanata,

da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado. In tal caso, dichiarata la nullità con sentenza, rinvia gli atti al giudice che procedeva al momento in cui la stessa si è verificata (comma 4).

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LA SENTENZA DEL GIUDICE DI APPELLO Art. 605. Sentenza. 1. Fuori dei casi previsti dall'articolo 604, il giudice di appello pronuncia sentenza con la quale conferma o riforma la sentenza appellata. 2. Le pronunce del giudice di appello sull'azione civile sono immediatamente esecutive. 3. Copia della sentenza di appello, con gli atti del procedimento, è trasmessa senza ritardo, a cura della cancelleria, al giudice di primo grado, quando questi è competente per l'esecuzione e non è stato proposto ricorso per cassazione. Il ragionamento giuridico del giudice di appello. Posto che non vi sia stata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, il giudice di appello ha a disposizione, sia pure in via “cartolare”, le stesse prove di cui disponeva il giudice di primo grado. Se in secondo grado si riforma la sentenza, vuol dire che il giudice di appello ha ragionato diversamente, sul piano probatorio o su quello giuridico, dal giudice di primo grado.

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IL RICORSO PER CASSAZIONE LA CORTE DI CASSAZIONE COME SUPREMO ORGANO GIURISDIZIONALE Ai sensi dell’art. 111.6 Cost. “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, e l’art. 111.7 prescrive che “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”. Il ricorso per cassazione è ammesso solo per motivi di legittimità, è bandito il giudizio di fatto. Inoltre, a differenza dell’appello (i motivi di appello sono “tendenzialmente limitati”), i motivi del ricorso per cassazione costituiscono un “numero chiuso”. Funzioni della corte di cassazione. Secondo l’art. 65 ord. giud., la Corte di cassazione, quale “organo supremo della Giustizia”, svolge le seguenti funzioni:

• assicura l’esatta osservanza della legge eliminando gli errori di interpretazione della medesima (c.d. nomofilachia);

• assicura l’uniforme interpretazione della legge sul territorio nazionale; • assicura il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni e regola i conflitti di competenza e di

attribuzione; • adempiendo agli altri compiti ad essa conferiti dalla legge.

La Corte suprema di cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione su tutto il territorio della Repubblica e su ogni altro territorio soggetto alla sovranità dello Stato. La corte è divisa in sezioni; queste sono composte da un presidente e da quattro consiglieri ciascuna, con attribuzioni differenziate per materia. Le sezioni unite. Quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni o quando le questioni proposte sono di speciale importanza il presidente della corte, su richiesta del procuratore generale, dei difensori delle parti o anche d’ufficio, assegna il ricorso alle sezioni unite. Le sezioni unite sono composte da otto consiglieri e presiedute dal primo presidente, il quale può restituire il ricorso alla sezione semplice qualora: - siano stati assegnati alle sezioni unite altri ricorsi sulla medesima materia, ovvero - il contrasto giurisprudenziale sia superato I provvedimenti impugnabili. Ai sensi dell’art. 568 co. 2, sono sempre soggetti ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze (ne deriva che sono ricorribili per cassazione le sentenze non appellabili e quelle pronunciate in grado di appello, mentre non lo sono le ordinanze). La legittimazione ad impugnare. L’imputato può ricorrere per cassazione contro la sentenza di condanna o di proscioglimento ovvero contro la sentenza inappellabile di non luogo a procedere (salvo che con la stessa sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso); può, inoltre, ricorrere contro le sole disposizioni della sentenza che riguardano le spese processuali. Il procuratore generale presso la Corte di appello può ricorrere per cassazione contro ogni sentenza di condanna o di proscioglimento, pronunciata in grado di appello nel distretto, o inappellabile. C’è poi una serie di ipotesi “speciali” di impugnazione, che hanno ad oggetto sentenze inappellabili e sono previste dal 608. “Il procuratore della Repubblica presso il tribunale può ricorrere per cassazione contro ogni sentenza inappellabile, di condanna o di proscioglimento, pronunciata dalla corte di assise, dal tribunale o dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale” (608.2).

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Ricorso “per saltum”. Se tutte le parti sono consenzienti, è possibile “saltare” l’appello e ricorrere per cassazione contro la sentenza di primo grado. Quando non vi è accordo delle parti, ove una di esse proponga ricorso per saltum ed un’altra invece proponga appello, il ricorso si converte in appello. Il ricorso “per saltum” non è ammesso per i motivi di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 606 (poiché in tali ipotesi, se la cassazione accogliesse il ricorso, dovrebbe essere disposto l’annullamento con rinvio; viceversa, proponendo l’appello si permette al giudice di secondo grado di decidere direttamente nel merito e si risparmia un grado di giudizio) La difesa nel giudizio di legittimità. In materia vige il principio secondo cui tutte le parti (anche l’imputato) sono rappresentate dai difensori che sono iscritti all’albo speciale della corte di cassazione; ciò comporta due corollari: a) le parti compaiono in udienza non personalmente bensì mediante i propri difensori, che svolgono

funzioni di “rappresentanza tecnica”; b) i medesimi devono essere iscritti presso l’albo speciale, pena la inammissibilità del ricorso o delle

memorie da loro sottoscritte. I MOTIVI DEL RICORSO PER CASSAZIONE Il ricorso per cassazione può proporsi soltanto per i motivi tassativamente indicati nell’art. 606 comma 1 � Lett. a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o

amministrativi o non consentita a pubblici poteri: si tratta del vizio di eccesso di potere che si verifica quando il giudice ha usurpato un potere amministrativo o quando ha esercitato un potere non consentito agli organi dello Stato.

� Lett. b) inosservanza od erronea applicazione della legge penale o di altra norma giuridica della

quale si deve tener conto nell’applicazione della legge penale: si tratta di errori in iudicando, che si verificano quando, ad esempio, il giudice ha qualificato erroneamente il fatto.

� Lett. c) inosservanza delle norme processuali penali stabilite a pena di nullità, di

inammissibilità, di inutilizzabilità o di decadenza; � Lett. d) mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche

nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’art. 495 co. 2; Il motivo di ricorso per cassazione è ammissibile alle seguenti condizioni: 1. deve trattarsi di una prova contraria a quella che sia stata ammessa, a prescindere dal modo di

ammissione (richiesta di parte o d’ufficio ad opera del giudice); in base all’art. 495 co. 2 è “contraria” quella prova che ha per oggetto il medesimo fatto ed è finalizzata a dimostrare che lo stesso non è avvenuto o che si è verificato con una differente modalità.

2. deve trattarsi di prova decisiva (è tale quella prova che è idonea ad “incidere in modo significativo sul procedimento decisionale seguito dal giudice e da determinare, di conseguenza, una differente valutazione complessiva dei fatti e portare in concreto a una decisione diversa).

3. occorre che l’assunzione della prova contraria sia stata chiesta al momento delle richieste di prova all’inizio del dibattimento o anche nel corso dell’istruzione dibattimentale.

� Lett. e) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio

risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame: sono ricompresi 3 vizi della motivazione, ciascuno dei quali autorizza il ricorso per cassazione.

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1) Mancanza della motivazione. “Mancanza” non significa deficit grafico della motivazione (mancanza in senso formale), che configurerebbe una nullità per omessa motivazione ai sensi dell’art. 125 co. 3, ma carenza sostanziale del discorso logico; quindi la motivazione è carente quando manca l’argomentazione su uno degli imputati o su una delle imputazioni o su un punto necessario ai fini del giudizio. La motivazione “per relationem” ad un altro atto del processo è ammessa dalla giurisprudenza purché rispetti i seguenti requisiti:

a) che vi sia la medesima provenienza soggettiva b) che l’atto abbia la medesima struttura c) che l’atto, a cui si rinvia, sia precedente e non successivo d) che le parti siano state messe in grado di conoscere l’atto e) che la parte impugnante non abbia introdotto un nuovo motivo di lagnanza rispetto alla

precedente decisione.

2) Manifesta illogicità della motivazione. In questo caso l’argomentazione esiste ma manca la logicità del contenuto. La cassazione deve verificare la correttezza della inferenza probatoria, e cioè il rapporto tra la premessa (fatto noto) e le conclusioni (fatto accertato): si ha manifesta illogicità quando la sentenza ha fatto pessimo uso delle massime di esperienza o delle leggi scientifiche. All’interno della manifesta illogicità si colloca il vizio di “contraddittorietà logica” della decisione: esso sussiste quando vi è un contrasto tra le argomentazioni, a prescindere dal contenuto di queste, perché il giudice non ha fatto uso della logica comune, e cioè dei principi di non contraddizione, di identità, del terzo escluso. Una argomentazione contraddittoria è di per se stessa errata.

3) Contraddittorietà processuale della motivazione. Essa esiste quando vi è un contrasto tra gli

atti processuali e la motivazione della sentenza impugnata; si tratta di tutti quei casi nei quali la motivazione non “fotografa” fedelmente le prove acquisite nel processo. Il vizio di contraddittorietà processuale si ha quando la motivazione non rispetta le acquisizioni processuali perché distorce i risultati probatori acquisiti (c.c. travisamento delle risultanze probatorie), o quando si motiva su di una prova non risultante dagli atti (c.d. travisamento degli atti per invenzione), o ancora quando la sentenza non motiva su di una prova che è stata acquisita (c.d. travisamento per omissione).

I vizi di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione devono risultare “dal testo del provvedimento impugnato” oppure “da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame; quindi ciò che resta fuori dai motivi del ricorso per cassazione è la valutazione di merito: il giudizio sulla credibilità della fonte e sulla attendibilità della dichiarazione. La inammissibilità del ricorso Il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ed inoltre se è proposto per violazioni di legge non dedotte nei motivi d’appello; in particolare il ricorso è manifestamente infondato quando il ricorrente denuncia vizi ictu oculi insussistenti, cioè la cui infondatezza sia di palmare evidenza. Il ricorso per cassazione può essere dichiarato inammissibile sia per una di queste cause speciali, proprie del ricorso per cassazione, sia in presenza di una delle cause generali di inammissibilità, previste per tutte le impugnazioni dall’articolo 591. L’inammissibilità e la prescrizione del reato Si è posto il problema di stabilire se, in caso di contemporanea presenza di una causa di inammissibilità dell’impugnazione e di una causa di estinzione del reato (articolo 129), il giudice debba dichiarare l’una o l’altra; la suprema corte è intervenuta escludendo che un ricorso inammissibile per uno dei motivi previsti dall’articolo 606 co. 3 possa attribuire al giudice il potere di valutare l’esistenza di una delle cause di non punibilità previste dall’articolo 129.

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COGNIZIONE E RAGIONAMENTO GIURIDICO DELLA CORTE DI CASSAZIONE Ai sensi dell’art. 609.1 “Il ricorso attribuisce alla corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti”, con l’implicita prescrizione che tali motivi debbano già esser stati presentati al giudice di merito. Tale prescrizione conosce l’eccezione delle questioni che la Corte può rilevare di ufficio e di quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello. È del pari rilevabile lo ius superveniens, dovendosi ricordare, in materia penale, il disposto del 2 c.p. a proposito della successione delle leggi penali nel tempo (Successione di leggi penali). IL PROCEDIMENTO IN CASSAZIONE La cancelleria del giudice a quo trasmette senza ritardo alla Corte di cassazione il fascicolo processuale. Il presidente della Corte deve verificare se sussiste una causa di inammissibilità del ricorso: in tal caso lo assegna ad “apposita sezione” competente a dichiarare l’inammissibilità ed il presidente della sezione “fissa la data per la decisione in camera di consiglio”. Il presidente della Corte, se ritiene che il ricorso sia ammissibile o comunque se l’apposita sezione non ha dichiarato l’inammissibilità, assegna il ricorso medesimo ad una singola sezione. Inoltre il presidente della Corte, d’ufficio o su richiesta di parte, può assegnare il ricorso alle sezioni unite “quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni” (art. 610.2). Almeno 30 giorni prima della data dell’udienza, la cancelleria né da avviso al procuratore generale e ai difensori, indicando se il ricorso sarà deciso a seguito di udienza in camera di consiglio ovvero pubblica. Ciò che distingue l’udienza camerale dall’udienza pubblica, è il mancato intervento orale dei difensori. L’udienza in camera di consiglio Il procedimento si svolge in camera di consiglio nei casi espressamente previsti dalla legge. In camera di consiglio la suprema corte decide esaminando i motivi, le richieste del procuratore generale e le memorie delle altre parti, senza intervento dei difensori in deroga all’art. 127. In sintesi, il contraddittorio camerale è cartolare. Fino a 15 giorni prima dell’udienza camerale, tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie e, fino a 5 giorni prima, possono presentare memorie di replica. La Corte, con ordinanza camerale, a richiesta dell’imputato o del responsabile civile, può sospendere l’esecuzione della condanna civile in pendenza del ricorso “quando può derivarne grave e irreparabile danno” (art. 612). L’udienza pubblica Di regola la Corte di cassazione procede in udienza pubblica. L’imputato e le altre parti private non sono citate; esse sono rappresentate dai difensori. Nell’udienza pubblica, il presidente prima di tutto verifica la costituzione delle parti e la regolarità degli avvisi, dandone atto a verbale; quindi, il presidente fa la relazione della causa. Dopo la requisitoria del procuratore generale, i difensori della parte civile, del responsabile civile e dell’imputato espongono, nell’ordine consueto, le loro difese. Non sono ammesse repliche salvo che la questione sia dedotta per la prima volta nel corso della discussione.

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Di solito la corte esamina tutti i ricorsi insieme, poi si ritira in camera di consiglio e, nel tardo pomeriggio, viene data lettura di tutti i dispositivi. I requisiti formali della sentenza, intestata “in nome del popolo italiano”, sono quelli ordinari (546). La pubblicazione della sentenza avviene subito dopo la deliberazione mediante lettura del dispositivo in udienza, da parte del presidente o di un consigliere da lui delegato. La motivazione, redatta dal presidente o dal consigliere da lui designato, deve essere depositata in cancelleria non oltre il trentesimo giorno dalla deliberazione. LA TIPOLOGIA DELLE SENTENZE DELLA SUPREMA CORTE Il giudizio in Cassazione si può concludere con le seguenti sentenze: 1) Inammissibilità. La Corte dichiara inammissibile il ricorso quando accerta una causa di

inammissibilità che non è stata preliminarmente dichiarata in camera di consiglio. Con tale provvedimento la parte privata, che ha proposto il ricorso, è condannata ex art. 616 alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende, salvo che la causa di inammissibilità si sia verificata senza sua colpa (Corte Cost. 186/2000).

2) Rigetto. La Corte pronuncia sentenza di rigetto quando il ricorso è infondato, non essendo stato

accolto alcuno dei motivi proposti. La parte è condannata al pagamento delle spese del procedimento e solo eccezionalmente al pagamento della somma sopra menzionata.

3) Rettificazione. La Corte pronuncia sentenza di rettificazione nei casi indicati dai tre commi

dell’articolo 619 rubricato “Rettificazione di errori non determinanti annullamento” I. Gli errori di diritto nella motivazione e le erronee indicazioni di testi di legge non producono

l'annullamento della sentenza impugnata, se non hanno avuto influenza decisiva sul dispositivo. La corte tuttavia specifica nella sentenza le censure e le rettificazioni occorrenti.

II. Quando nella sentenza impugnata si deve soltanto rettificare la specie o la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la corte di cassazione vi provvede senza pronunciare annullamento.

III. Nello stesso modo si provvede nei casi di legge più favorevole all'imputato, anche se sopravvenuta dopo la proposizione del ricorso, qualora non siano necessari nuovi accertamenti di fatto.

4) Annullamento. La Corte pronuncia sentenza di annullamento quando accoglie uno o più motivi di

ricorso o quando deve emettere tale pronuncia d’ufficio. L’annullamento è disposto con o senza rinvio al giudice di merito.

L’ annullamento senza rinvio è disposto nei casi in cui l’accoglimento del ricorso non impone di procedere ad un nuovo giudizio di merito. Esso è pronunciato: - se il fatto non è previsto dalla legge come reato - se il reato è estinto - se l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita - se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario - se il provvedimento impugnato contiene disposizioni che eccedono i poteri della giurisdizione,

limitatamente alle medesime - se la decisione impugnata consiste in un provvedimento non consentito dalla legge - se la sentenza è nulla a norma dell’art. 522 in relazione ad un reato concorrente, ad un fatto nuovo, -

ovvero se la condanna è stata pronunciata per errore di persona. - se la sentenza o l’ordinanza impugnata è in contrasto con altra anteriore concernente la stessa persona

ed il medesimo oggetto, pronunciata dallo stesso o da un altro giudice penale (principio del ne bis in idem).

- se la sentenza impugnata ha deciso in secondo grado su materia per la quale non è previsto l’appello e in ogni altro caso in cui la corte ritiene superfluo il rinvio ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari.

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Annullamento ai soli effetti civili. Ai sensi dell’art. 622, fermi restando gli effetti penali della sentenza, la corte, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia, “quando occorre”, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. L’annullamento con rinvio è disposto quando l’accoglimento del ricorso impone un nuovo giudizio di merito, che è precluso al giudice di legittimità. La Corte di cassazione annulla con rinvio al giudice di merito il capo od i capi penali della sentenza viziata, fissando il principio di diritto vincolante per tale giudice. Questi, tuttavia, resta libero, nei limiti della devoluzione originaria, di riesaminare i fatti. Questi i casi di annullamento con rinvio: a) se è annullata un’ordinanza, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che

l’ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento; b) se è annullata una sentenza di condanna nei casi previsti dall’articolo 604.1 (Il giudice di appello, nei

casi previsti dall’articolo 522 [Nullità della sentenza per difetto di contestazione], dichiara la nullità in tutto o in parte della sentenza appellata e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, quando vi è stata condanna per un fatto diverso o applicazione di una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o di una circostanza aggravante ad effetto speciale, sempre che non vengano ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti), la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice di primo grado;

c) se è annullata la sentenza di una Corte d’assise di appello o di una Corte d’appello ovvero di una Corte d’assise o di un tribunale in composizione collegiale, il giudizio è rinviato rispettivamente a un’altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicini;

d) se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale; tuttavia, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.

In caso di annullamento con rinvio la cancelleria della corte di cassazione trasmette, senza ritardo, gli atti del processo con la copia della sentenza al giudice che deve procedere al nuovo giudizio; in caso di rigetto o di inammissibilità trasmette al giudice che ha emesso la decisione gli atti e la copia del solo dispositivo; in caso di annullamento senza rinvio o di rettificazione, trasmette al medesimo giudice gli atti e la copia della sentenza. Annullamento parziale Se l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata (624.1); ed è proprio la Corte di cassazione che indica nel dispositivo della propria sentenza quali parti della sentenza (impugnata) diventano irrevocabili. Nel caso in cui ometta tale dichiarazione, la corte, su domanda o d’ufficio, pronuncia un’ordinanza integrativa che deve essere trascritta in margine od in calce alla sentenza e ad ogni copia di essa successivamente rilasciata. Quanto al concetto si connessione essenziale, la giurisprudenza ritiene che tal e vincolo sussista quando la parte annullata costituisca una premessa indispensabile rispetto al quella non annullata.

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IL GIUDIZIO DI RINVIO Quando annulla la sentenza con rinvio, la corte di cassazione fissa il principio di diritto e demanda al giudice di merito di riesaminare i fatti alla luce di quel principio. Il giudice del rinvio ha i poteri probatori del giudice la cui sentenza è stata annullata, compresi quelli di rinnovare l’istruzione probatoria in dibattimento. Tuttavia vi sono alcuni limiti stabiliti dalla legge. • nel giudizio di rinvio non è ammessa la discussione sulla competenza attribuita dalla sentenza di

annullamento, salvo quanto previsto dall’art. 25 se risultino “nuovi fatti” da cui derivi la competenza di un giudice superiore.

• Il giudice di rinvio è dominus delle prove, tuttavia egli non può rilevare nullità, anche se assolute, o inammissibilità verificatesi nei giudizi di appello o nel corso delle indagini preliminari, al contrario la inutilizzabilità può essere ancora dichiarata nel giudizio di rinvio.

La inosservanza del principio di diritto. Occorre chiedersi cosa avvenga se il giudice di rinvio, pur nella persuasività delle prove già assunte in precedenza, si distacca dal principio di diritto impostogli dalla Corte di cassazione: la sentenza del giudice di rinvio è impugnabile (all’infinito, finché egli non si uniforma) con nuovo ricorso per cassazione; tuttavia la sentenza del giudice di rinvio non può essere impugnata in cassazione se il giudizio riguarda motivi già decisi dalla corte ed ai quali il giudice si è uniformato. Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto Quest’istituto, di cui all’art. 625-bis, consiste nella possibilità, riconosciuta “a favore del condannato, di chiedere la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione”. Si tratta di un vero e proprio ricorso straordinario e cioè esperibile nei confronti di provvedimenti che sono divenuti irrevocabili. La correzione dell’errore può esser richiesta solo a favore del condannato, pertanto l’istituto sembra rispondere ad esigenze di favor rei piuttosto che di giustizia sostanziale. Gli errori materiali sono definiti come “errori od omissioni che non determinano nullità, e la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto” (art. 130). La legittimazione a presentare la richiesta spetta al procuratore generale ed al condannato Termine: entro 180 giorni dal deposito del provvedimento impugnato. Inoltre, la Corte di cassazione, in ogni momento, può rilevare d’ufficio l’errore materiale. La presentazione del ricorso non ha effetto sospensivo; tuttavia il supremo collegio “in casi di eccezionale gravità” può disporre la sospensione con ordinanza. Il ricorso è inammissibile se: -è presentato per motivi diversi dall’errore materiale o di fatto; -è presentato fuori termine; -è manifestamente infondato L’inammissibilità è dichiarata dalla corte anche d’ufficio. Se il ricordo è ammissibile, la corte decide in camera di consiglio ai sensi dell’art. 127, con la partecipazione facoltativa delle parti. Se accoglie la richiesta il supremo collegio adotta i provvedimenti necessari per correggere l’errore.

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Il provvedimento abnorme è una causa di invalidità creata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. È affetto da “abnormità” non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite. L’abnormità non concerne solo i provvedimenti del giudice, ma anche quelli del p.m.: per questa ragione, parliamo di abnormità del provvedimento “giudiziario”. Il provvedimento giudiziario abnorme è ricorribile direttamente per cassazione, mancando i mezzi ordinari di impugnazione e discendendo il ricorso per cassazione dall’art. 111 Cost. Le sezioni unite hanno precisato che l’atto può essere dichiarato abnorme quando ricorrano tali requisiti: 1) sia affetto da un vizio per il quale non sono previste cause di nullità o inutilizzabilità 2) non sia altrimenti impugnabile 3) non sia inquadrabile nella struttura procedimentale prevista dall’ordinamento, ovvero determini una

stasi processuale non altrimenti superabile

Il ricorso per cassazione contro il provvedimento abnorme è trattato in camera di consiglio de plano. Se considerato abnorme, il provvedimento giudiziario viene espunto dal procedimento: la Corte di cassazione annulla senza rinvio e la stasi processuale è evitata con la restituzione degli atti al p.m. o al giudice competente per la prosecuzione del procedimento.

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LA REVISIONE La revisione è quella impugnazione straordinaria che ha per oggetto una sentenza di condanna divenuta irrevocabile (ai sensi della l. n. 134/2003, anche la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti) Competente, sia per la fase di delibazione preliminare della richiesta, sia per il giudizio di revisione, è esclusivamente la corte di appello determinata in base alla medesima tabella con la quale si individua la competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati. Errore di fatto ed errore di diritto Il solo errore che può essere corretto investe il “fatto” con riguardo alla condotta, al nesso causale, all’evento, nonché all’attribuzione soggettiva di colpevolezza e di imputabilità: dal richiamo dell’art. 631 agli artt. 529, 530 e 531, deriva che l’unico errore emendabile è quello che, se corretto, permette il proscioglimento dell’imputato perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o si trattava di persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione. L’errore rilevante è solo quello intervenuto nella ricostruzione storica del fatto di reato. Vi è un doppio limite: o l’errore di fatto deve emergere dalla motivazione, in quanto premessa storica del dispositivo; o esso non deve dipendere da un riesame delle sole prove assunte nel procedimento, ma da “nuove

prove”. A seguito del giudizio di revisione, possono essere pronunciate due opposte decisioni: il rigetto dell’istanza di revisione o il proscioglimento dell’imputato. La sentenza impugnata, in caso di proscioglimento, è revocata: vi è una nuova verità legale. Ai sensi dell’art. 631, il giudizio di revisione è ammesso “anche se può semplicemente ipotizzarsi che al suo esito si manifesti un ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato”. Casi di revisione La revisione può essere chiesta (art. 630: Casi di revisione): a) fatti incompatibili con quelli accertati da altra sentenza. Se i fatti stabiliti a fondamento della

sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale;

b) sentenza revocata che abbia deciso una questione pregiudiziale. Se la sentenza o il decreto penale

di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 (Questioni pregiudiziali) ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479 (Questioni civili o amministrative);

c) nuove prove che determinano il proscioglimento. Se dopo la condanna sono sopravvenute o si

scoprono nuove prove che, sole o congiunte a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631 (cioè con sentenza di non doversi procedere, sentenza di assoluzione, o dichiarazione di estinzione del reato);

d) sentenza pronunciata in conseguenza di un fatto previsto dalla legge come reato. Se è dimostrato

che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio (ad es. per falsa testimonianza) o di un altro fatto previsto dalla legge come reato (ad es. calunnia).

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Il procedimento Il potere di iniziativa spetta: - al condannato o ad un suo prossimo congiunto ovvero alla persona che ha sul condannato l’autorità

tutoria; se il condannato è morto, essa spetta all’erede o ad un suo prossimo congiunto - al procuratore generale presso la corte d’appello nella cui circoscrizione fu pronunciata la condanna;

gli interessati possono unire la loro richiesta a quella del procuratore generale I privati interessati possono proporre la richiesta personalmente o a mezzo di procuratore speciale; essa deve contenere l’indicazione specifica delle ragioni e delle prove che la giustificano. La fase di delibazione. La fase preliminare di delibazione è segreta, anche se la delibazione deve esser preceduta dal parere del procuratore generale presso la Corte di appello; in tale fase la corte d’appello è chiamata a valutare la “novità” della prova che giustifica l’apertura del giudizio di revisione. Se riconosce inammissibile la richiesta, la corte provvede con ordinanza e può condannare il richiedente privato al pagamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma da 258 a 2065 euro. Con l’ammissione della richiesta di revisione, si apre il predibattimento del giudizio di revisione. La parte privata interessata, una volta ammessa al giudizio di revisione, riacquista lo status di imputato. Il giudizio di revisione Il presidente della Corte d’appello emette il medesimo decreto di citazione che è previsto per il giudizio d’appello. Si apre a questo punto la c.d. fase rescissoria, nella quale si procede ad un nuovo giudizio sulla base delle deduzioni effettuate da chi ha presentato istanza di revisione. È obbligatoria la citazione del responsabile civile e della parte civile. Si osservano le norme disposte per il giudizio di primo grado (tra cui la pubblicità dell’udienza, la contumacia o l’assenza per rinuncia a comparire). L’assunzione e la valutazione delle prove. Il giudizio inizia con le richieste che siano assunte quelle prove a discarico che già in precedenza erano state indicate o allegate. Non è prevista la rinnovazione obbligatoria delle prove assunte nel dibattimento di primo grado. Il “fulcro” del giudizio di revisione è rappresentato dall’efficacia persuasiva delle prove di innocenza: è la novità delle prove che deve convincere dell’innocenza o far sorgere il ragionevole dubbio. Per cui: →se tale efficacia non si palesa: la richiesta di revisione è rigettata →in caso contrario: il giudice revoca la sentenza di condanna e pronuncia il proscioglimento indicandone la causa nel dispositivo. Gli effetti della sentenza di revisione. Ai sensi dell’art. 639 “La Corte di appello, quando pronuncia sentenza di proscioglimento a seguito di accoglimento della richiesta di revisione, ordina la restituzione delle somme pagate in esecuzione della condanna per le pene pecuniarie, per le misure di sicurezza patrimoniali, per le spese processuali e di mantenimento in carcere e per il risarcimento dei danni a favore della parte civile citata per il giudizio di revisione. Ordina altresì la restituzione delle cose che sono state confiscate, ad eccezione di quelle previste dal 240.2 n. 2 del codice penale (e cioè delle cose, la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna)”. Inoltre la sentenza di accoglimento, a richiesta dell’interessato, è affissa per estratto, a cura della cancelleria, nel comune in cui la sentenza era stata pronunciata e in quello dell’ultima residenza del condannato; sempre su richiesta dell’interessato, il presidente della corte dispone con ordinanza che l’estratto della sentenza sia pubblicato a cura della cancelleria in un giornale, indicato nella richiesta; le spese della pubblicità sono a carico della cassa delle ammende. Il pubblico impiegato (ed oggi anche il dipendente privato) è reintegrato nel posto di lavoro.

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Il ricorso per cassazione. La decisione che chiude ciascuna delle due fasi (delibazione e revisione) è assoggettabile a ricorso per cassazione; si realizza così un doppio grado di giurisdizione. La revisione in peius. Vi sono norme speciali che prevedono ipotesi eccezionali di revisione in peius nei confronti di coloro che hanno collaborato con la giustizia; la materia concerne i delitti di mafia e assimilati previsti dall’art. 51 co. 3-bis. Quando i benefici previsti per i collaboratori di giustizia sono stati applicati “per effetto di dichiarazioni false o reticenti” o quando chi ha ottenuto vantaggi “commette, entro 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, un delitto per il quale l’arresto in flagranza è obbligatorio” e che è indicativo “della permanenza del soggetto nel circuito criminale”, è ammessa la revisione in peius. La riparazione dell’errore giudiziario Ex art. 24 co. 4 Cost. “La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari” . L’errore giudiziario consiste nella scoperta, mediante la revisione, dell’ ingiustizia sostanziale di una sentenza irrevocabile di condanna. Nell’ambito dei presupposti della riparazione dell’errore giudiziario occorre distinguere tra quelli positivi e quelli negativi. In positivo, è presupposto della riparazione la revisione del giudicato di condanna. In negativo, occorre che chi è stato prosciolto in sede di revisione non abbia dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario. Sempre in negativo, il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso. L’azione riparatoria. L’azione d’indole civile, con la quale l’innocente fa valere il suo diritto alla riparazione dell’errore giudiziario, è proponibile esclusivamente davanti alla Corte di appello in sede penale. Legittimati a richiedere la riparazione dell’errore giudiziario sono, se il prosciolto è morto (anche prima del procedimento di revisione), il coniuge, i discendenti e ascendenti, i fratelli e sorelle, gli affini entro il primo grado e le persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta, a meno che siano “indegni” (463 c.c. : Casi d’indegnità). Il termine per la proposizione della domanda scritta di riparazione è lo scadere del secondo anno dal passaggio in giudicato della sentenza di revisione (645.1). Il procedimento riparatorio. La domanda scritta di riparazione è presentata, unitamente ai documenti ritenuti utili, nella cancelleria penale della corte d’appello che ha pronunciato la sentenza di revisione, personalmente o per mezzo di procuratore speciale. Sulla domanda di riparazione la Corte di appello decide in camera di consiglio, osservando le forme previste dal 127. La decisione può essere di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento, anche parziale. Le prestazioni riparatorie. La prima forma di riparazione è quella pecuniaria, la quale è indeterminata nel massimo e deve essere commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla [ingiusta] condanna. Le altre forme di riparazione sono la rendita vitalizia ed il ricovero in un istituto, a spese dello Stato. L’ordinanza riparatoria è impugnabile col ricorso per cassazione, secondo le norme ordinarie. I vizi rilevabili sono quelli di rito e di legittimità, a tenore del 606 (Casi di ricorso) con particolare riferimento alla motivazione del quantum della riparazione pecuniaria.

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Parte VI - IL GIUDICATO E L’ESECUZIONE PENALE

GLI EFFETTI DEL GIUDICATO PENALE L’IRREVOCABILITÀ Per irrevocabilità si intende la non impugnabilità del provvedimento emesso dal giudice; ciò comporta la tendenziale non modificabilità del provvedimento stesso, e cioè l’impossibilità di ripetere nelle medesime forme il giudizio che ha condotto all’accertamento in esso contenuto. Il codice di procedura penale nell’art. 648 co. 1 ha voluto utilizzare il termine “irrevocabilità” in un significato specifico, ristretto, perché lo ha voluto riferire alla sentenza resa in giudizio. L’art. 648. Irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali pone le seguenti condizioni al realizzarsi della situazione di irrevocabilità: a) la decisione deve consistere in una sentenza pronunciata in giudizio: con tale termine si

ricomprende sia la sentenza dibattimentale, sia quella che, seppur resa prima del dibattimento, consegua comunque ad un giudizio abbreviato o sia stata pronunciata su richiesta delle parti;

b) la sentenza deve essere non impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione; ciò può avvenire alternativamente perché: - nessuna parte ha proposto impugnazione nei termini - sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione ordinari previsti dalla legge.

c) il decreto penale di condanna viene assimilato alla sentenza resa in giudizio sotto il profilo della irrevocabilità. Il decreto penale diventa irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile.

L’ESECUTIVITÀ L’ esecutività è l’idoneità del provvedimento ad essere attuato coattivamente, cioè anche contro la volontà della persona interessata. Di regola ogni provvedimento emanato dal giudice ha la caratteristica dell’esecutività, infatti, ai sensi dell’art. 131 del codice “il giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, può chiedere l’intervento della polizia giudiziaria e, se necessario, della forza pubblica, prescrivendo tutto ciò che occorre per il sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede”. ↓ne deriva che: Il provvedimento cautelare pronunciato dal giudice è esecutivo anche se è ancora impugnabile o se è in corso l’impugnazione del medesimo. La deroga per le sentenze pronunciate in giudizio. Alla regola dell’immediata esecutività il codice pone un’importante deroga: ai sensi dell’art. 650 co. 1 “non sono immediatamente esecutive le sentenze rese in giudizio, quando sono ancora soggette ad impugnazione”; sono esecutive soltanto le sentenze irrevocabili. Alla sentenza l’art. 650 co. 1 parifica il decreto penale di condanna che sia diventato irrevocabile. A questo punto il codice precisa che le sentenze di non luogo a procedere (rese nell’udienza preliminare) hanno forza esecutiva quando non sono più soggette a impugnazione (art. 650 co. 2). E’ inoltre prevista un’eccezione: le sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento (rese in giudizio) de iure sono esecutive immediatamente, anche se impugnabili o sottoposte ad impugnazione; infatti scatta l’effetto dell’immediata perdita di efficacia delle misure cautelari personali che eventualmente siano state disposte per il medesimo fatto dal quale l’imputato è scagionato.

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IL GIUDICATO Contro ogni sentenza di proscioglimento o di condanna la legge accorda al p.m. ed all’imputato il diritto di proporre impugnazione quanto meno mediante il ricorso per cassazione (art. 111.7 Cost.), ma in vari casi anche mediante appello. Se per i motivi menzionati (esaurimento dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge o inerzia delle parti) la sentenza resa in giudizio diventa non più impugnabile, la decisione sul fatto storico addebitato all’imputato non è più modificabile: il potere di accertamento spettante al giudice si è ormai estinto. Da ciò deriva il principio secondo cui la sentenza irrevocabile ha l’autorità della cosa giudicata. Il codice pone una fondamentale distinzione tra i due effetti del giudicato: →l’effetto vincolante del giudicato comporta che altri giudici civili o amministrativi, chiamati nuovamente a decidere su alcuni dei fatti accertati da una sentenza penale irrevocabile, sono obbligati a ritenere “vero” l’accertamento già effettuato; →l’effetto preclusivo del giudicato comporta che l’imputato prosciolto o condannato non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto storico, “neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze” (art. 649.1). La revisione della sentenza di condanna. La regola dell’effetto preclusivo viene meno in un caso importante: è ammessa un’impugnazione straordinaria (la revisione) contro la sentenza di condanna, purché dopo l’intervenuta irrevocabilità sopravvengano o si scoprano nuove prove che dimostrino che il condannato deve essere prosciolto. Viceversa, se la sentenza irrevocabile è di proscioglimento non vi sono deroghe. I limiti dell’efficacia preclusiva della sentenza irrevocabile L’ art. 649 (Divieto di un secondo giudizio) stabilisce l’effetto preclusivo della sentenza irrevocabile (principio del ne bis in idem, in base al quale nessuno può essere processato due volte per lo stesso fatto); si tratta di un effetto meramente negativo: ove un p.m. inizi un nuovo procedimento per il medesimo fatto attribuito al medesimo imputato, il giudice ha l’obbligo di pronunciare sentenza di non luogo a procedere (prima del dibattimento) o di proscioglimento per improcedibilità (in dibattimento). Il divieto di un secondo giudizio è ricollegato alla presenza di requisiti indicati dalla legge. Il requisito soggettivo del ne bis in idem è dato dall’identità tra la persona già giudicata e quella che si vorrebbe sottoporre a procedimento penale. Il requisito oggettivo del ne bis in idem è rappresentato dal medesimo fatto storico: il medesimo fatto sussiste solo se sono identici la condotta, l’evento ed il rapporto di causalità. Viceversa, l’imputato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze. Ai sensi del 649.1 l’effetto preclusivo non opera nel caso di sentenza che abbia dichiarato estinto il reato per morte dell’imputato, quando successivamente si accerti che la morte è stata erroneamente dichiarata; né quando una sentenza abbia prosciolto l’imputato per difetto di una condizione di procedibilità qualora successivamente sopravvenga tale condizione. Inoltre è opportuno segnalare che qualora si verifiche un concorso formale di reati per violazione di precetti distinti attraverso la medesima condotta, non opera la preclusione di cui all’articolo 649, poiché il giudicatosi formatosi relativamente ad uno degli eventi giuridici cagionati non impedisce la possibilità di esercitare l’azione penale in merito all’altro; ad avviso della giurisprudenza tuttavia occorre che il giudizio sul secondo evento sia compatibile logicamente con il primo.

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Il giudicato penale in relazione ad altri processi penali Ove vi sia stata condanna irrevocabile, il giudicato comporta l’immodificabilità dell’accertamento della responsabilità dell’imputato. Su questo punto il giudicato penale ha un effetto vincolante in relazione all’imputato medesimo. Solo se sopravvengono nuove prove, tali da dimostrare che il condannato doveva essere prosciolto, potrà iniziare un processo di revisione. Il giudicato di condanna non comporta l’immodificabilità assoluta della pena irrogata: durante la fase dell’esecuzione essa può essere modificata nelle sue modalità esecutive (mediante le misure alternative alla pena detentiva). Inoltre il condannato può beneficiare della liberazione anticipata, e cioè di un abbuono di 45 giorni per ogni 6 mesi di pena eseguita in presenza di buona condotta. La decisione irrevocabile in rapporto con altri processi penali. Consideriamo adesso altri eventuali processi penali che possano instaurarsi a carico sia del medesimo, sia di altri imputati: in entrambi i casi la sentenza penale non ha alcun effetto vincolante. In un processo contro altri imputati il giudice potrà accertare nuovamente il medesimo fatto storico e potrà ritenere che è stato commesso con diversa modalità o, perfino, che non è esistito; similmente in un successivo processo penale contro il medesimo imputato, ma per un fatti diversi, il giudice può valutare diversamente le prova già considerate nella sentenza irrevocabile sul fatto accertato. La sentenza penale irrevocabile e il processo per il risarcimento del danno cagionato dal reato. La questione risolta dal processo, e cioè l’esistenza o meno della responsabilità penale dell’imputato in relazione ad un fatto di reato, è pregiudiziale rispetto alla questione dell’esistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale derivante dal reato stesso. Sui rapporti tra processo penale e processi civili od amministrativi, che abbiano ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni derivanti dal reato, sono possibili in astratto le tre seguenti soluzioni: a) completa separazione tra le giurisdizioni, con la conseguenza che il giudicato penale di assoluzione

o di condanna non esplica alcun effetto né preclusivo, né vincolante nei confronti dei processi civili o amministrativi;

b) totale efficacia del giudicato penale di condanna o di assoluzione, esso ha cioè un effetto vincolante sul potere di accertamento spettante al giudice civile o amministrativo; si parla di “unità della giurisdizione” in quanto soltanto il giudice penale può accertare l’esistenza o meno della responsabilità per un fatto di reato.

c) efficacia parziale del giudicato penale in casi determinati e cioè soltanto per specifici oggetti che sono stati accertati dal giudice penale (sistema misto).

Il codice italiano del 1930 ha accolto il sistema dell’unità della giurisdizione. Il codice del 1988 accoglie una soluzione di tipo misto (accetta come regola il principio della separazione, ma non in modo assoluto come avviene nel sistema accusatorio, e al tempo stesso permette al danneggiato di costituirsi parte civile come avviene nel sistema inquisitorio). L’esercizio tempestivo dell’azione di danno e la separazione delle giurisdizioni. L’azione risarcitoria esercitata tempestivamente davanti al giudice civile. Il danneggiato può esercitare l’azione risarcitoria in sede civile senza subire l’efficacia del giudicato penale di assoluzione solo se si rivolge al giudice civile in modo “tempestivo”, e cioè prima della pronuncia della sentenza penale di primo grado. Il processo civile, che sia iniziato prima di tale momento, può proseguire in pendenza del processo penale senza essere sospeso. L’azione risarcitoria esercitata tardivamente davanti al giudice civile. Viceversa se l’azione risarcitoria inizia tardivamente (oppure se il danneggiato si è costituito in precedenza parte civile nel processo penale e, poi, ha trasferito l’azione in sede civile) il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile. Evidente “scopo” punitivo nei confronti del danneggiato che non abbia scelto di percorrere subito la strada suggerita dal legislatore, e cioè l’azione risarcitoria in sede civile.

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Efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno. Ai sensi dell’art. 651 co. 1, una delle ipotesi di efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna è quella della sentenza che sia stata “pronunciata in seguito a dibattimento” e che sia non più impugnabile con mezzi ordinari. L’efficacia del giudicato opera nei confronti del processo civile od amministrativo che abbia per oggetto le restituzioni ed il risarcimento del danno e che sia stato promosso nei confronti “del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”. L’accertamento del fatto. Il giudicato copre “l’accertamento della sussistenza del fatto” da intendersi in senso naturalistico, come fatto materiale nella sua riferibilità all’imputato. La illiceità penale. Il giudicato ha per oggetto l’illiceità penale del fatto, e non l’illiceità civile (nel processo penale infatti non può esistere ad esempio la domanda riconvenzionale). La responsabilità dell’imputato. In terzo luogo, il giudicato copre l’accertamento che “l’imputato ha commesso” il fatto, da intendersi come condotta materiale, rapporto di causalità ed evento; resta quindi escluso dal giudicato il tema del concorso di colpa della persona offesa negli aspetti non esaminati dal giudice penale. Per quanto riguarda la sentenza di condanna resa nel giudizio abbreviato, la parte civile che non abbia accettato tale rito può opporsi all’efficacia di giudicato della sentenza di condanna nei suoi confronti. Nessuna efficacia di giudicato in tema di danno da reato ha la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), poiché tale effetto è escluso espressamente dal 445.1. Efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha, rispetto ai giudizi di danno, un’efficacia vincolante con vari limiti. L’efficacia vincolante comporta che il giudice nel processo di danno debba ritenere “vero” il fatto accertato dal giudice penale. Le formule terminative ampiamente liberatorie. Un primo limite di tipo oggettivo riguarda le formule terminative: hanno efficacia di giudicato solo quelle che assolvono l’imputato in modo ampio (il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso o il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima). L’accertamento del fatto. Un secondo limite di tipo oggettivo richiede che il giudice penale abbia accertato un fatto: occorre cioè che l’innocenza risulti provata e non è sufficiente che il giudice dichiari l’esistenza di un ragionevole dubbio sulla reità dell’imputato. Il danneggiato messo in grado di difendersi. Un terzo limite di tipo soggettivo esclude l’efficacia del giudicato sia nei confronti di quel danneggiato che abbia iniziato l’azione risarcitoria in modo tempestivo davanti al giudice civile, sia nei confronti di quello che non sia stato posto, in concreto, in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale. La formula “assoluzione perché il fatto non sussiste” è utilizzata quando è assente l’elemento oggettivo del reato, poiché manca la condotta, il rapporto di causalità o l’evento. Se il giudice penale ha errato nell’adottare questa (od altre) formule terminative, il giudice civile può esaminare la motivazione per indagare quale è stata la “vera ragione” dell’assoluzione. In tal caso non vi è nessuna efficacia di giudicato. “Assoluzione perché il fatto non è stato commesso dall’imputato” : l’efficacia del giudicato opera solo nei confronti di quel determinato imputato; resta la possibilità di agire in dsede civile contro altri soggetti che vengano ritenuti responsabili del fatto. “Assoluzione per adempimento del dovere o per esercizio di una facoltà legittima”: la formula terminativa si riferisce alle cause di giustificazione previste nel codice penale o in leggi speciali. Le scriminanti eliminano l’illiceità del fatto ed hanno rilevanza in tutti i rami dell’ordinamento.

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La sentenza di assoluzione pronunciata al termine del rito abbreviato ha la medesima efficacia della sentenza resa in dibattimento, a condizione che la parte civile abbia accettato tale rito. Inoltre la parte civile non è vincolata dalla sentenza irrevocabile pronunciata sulla base di una prova assunta con incidente probatorio al quale non sia stata posta in grado di partecipare, sempre che la stessa non abbia fatto accettazione anche solo tacita (404). Efficacia della sentenza penale di assoluzione o di condanna nel giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità. Nel codice vigente vale la regola della separazione delle giurisdizioni, pertanto i casi di efficacia del giudicato penale, in quanto eccezionali, devono essere previsti espressamente. Sentenza penale di assoluzione: l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di assoluzione è limitata solo ad alcune formule terminative. Essa ha per oggetto solo l’accertamento che “il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale o che l’imputato non lo ha commesso” (art. 653 co. 1). Il giudicato è limitato all’accertamento di un fatto: l’assoluzione dovuta all’esistenza di un ragionevole dubbio non gode di efficacia vincolante nel giudizio disciplinare davanti alla pubblica autorità. Sentenza penale di condanna: la sentenza irrevocabile di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare in casi tassativamente indicati. Il giudicato copre l’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Occorre precisare che la responsabilità disciplinare da accertare deve essere fondata sul medesimo fatto che è stato oggetto del giudizio penale, conclusosi con condanna od assoluzione, e non su fatti diversi che possono essere accertati liberamente dalla pubblica autorità. La pubblica autorità è vincolata anche se non è stata messa in grado di partecipare al processo penale. Efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili od amministrativi . L’art. 654 prevede, con molte condizioni, l’efficacia di giudicato della sentenza penale irrevocabile in altri giudizi civili e amministrativi. “Nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa” L’art. 654 non si può applicare nelle materie regolamentate dagli artt. 651-653 (procedimenti civili e amministrativi concernenti il risarcimento del danno cagionato dal reato e procedimento per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità). • In primo luogo, la sentenza che viene considerata nel 654 è solo quella irrevocabile di condanna o di assoluzione che sia stata pronunciata in dibattimento. • In secondo luogo, l’efficacia del giudicato concerne solo l’accertamento dei fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale e che siano stati ritenuti rilevanti ai fini di quella decisione: il giudicato si riferisce unicamente ai fatti ricompresi nell’elemento oggettivo del reato e non in quello soggettivo. • In terzo luogo, è necessaria l’esistenza di un vincolo di pregiudizialità tra l’accertamento penale ed il giudizio civile od amministrativo: il riconoscimento di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo deve dipendere dall’accertamento degli stessi fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale. • In quarto luogo, non vi è efficacia di giudicato quando la legge civile pone limitazioni alla prova della posizione giuridica controversa. • Le parti effettive. L’art. 654 estende l’efficacia del giudicato nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale. Il giudicato può essere fatto valere “nei loro confronti” anche da persone che non siano state parti in quel processo penale.

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L’ESECUZIONE PENALE L’OGGETTO DELL’ESECUZIONE Il momento finale del procedimento penale è rappresentato dall’esecuzione; innanzi tutto bisogna esaminare l’oggetto dell’esecuzione: si tratta di verificare quali provvedimenti abbiano l’attitudine ad essere eseguiti ed in quale momento assumano tale caratteristica. Quando nel processo penale un provvedimento ha acquisito l’ idoneità ad essere eseguito, si dice che costituisce titolo esecutivo. Si denomina forza esecutiva quella caratteristica di un provvedimento che impone come giuridicamente necessaria la sua attuazione. La forza esecutiva, nel processo penale, appartiene ad ogni atto emesso dal giudice e dal p.m. La regola generale è che tutti i provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria nel processo devono essere attuati esclusivamente in forza della loro avvenuta emissione. Le sentenze e i decreti penali costituiscono un’eccezione, perché, a differenza degli altri provvedimenti disposti nell’ambito del procedimento penale, che normalmente hanno in sé il carattere dell’esecutività anche quando sono ancora impugnabili, le sentenza e i decreti penali divengono esecutivi, ai sensi dell’art. 650, solo quando sono divenuti irrevocabili . Ricordiamo che ai sensi dell’art. 648 le sentenze pronunciate in giudizio divengono irrevocabili quando non sono più sottoponibili ad un’impugnazione ordinaria perché sono stati già esperiti tutti i mezzi di impugnazione o perché nessuna delle parti ha presentato impugnazione entro i termini; i decreti penali diventano irrevocabili allorché sia decorso inutilmente il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l’ordinanza che ne dichiara l’inammissibilità. ↓ Si può quindi parlare di esecuzione penale con riferimento alla necessità di dare attuazione alle sentenze ed ai decreti penali divenuti irrevocabili. Dal punto di vista dell’oggetto, costituiscono titolo esecutivo e devono conseguentemente essere eseguite tutte le sentenze irrevocabili che contengano un comando da attuare: tali sono sia le sentenze di condanna, sia le sentenze di proscioglimento; mentre per quanto riguarda le sentenze di condanna non sono necessarie ulteriori spiegazioni, per le sentenze di proscioglimento sono necessarie alcune spiegazioni; infatti normalmente la sentenza di proscioglimento non ha necessità di essere eseguita in forme particolari, in taluni casi, tuttavia, anche la sentenza assolutoria comporta l’attuazione di specifiche prescrizioni. Si pensi alle ipotesi relative ad es. alla cessazione di misure cautelari, personali o reali o a quelle in cui la sentenza di assoluzione applichi misure di sicurezza. I SOGGETTI DELL’ESECUZIONE Il pubblico ministero . L’art. 655 :

- sancisce il dovere del p.m. di curare d’ufficio l’esecuzione dei provvedimenti - individua l’ufficio del p.m. competente per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali: in base

al principio secondo cui la legittimazione della pubblica accusa si determina in relazione alla competenza del giudice, il legislatore ha individuato nel p.m. presso il giudice dell’esecuzione l’organo competente ad esercitare i poteri di iniziativa in relazione all’esecuzione penale.

Il giudice dell’esecuzione. Quest’organo si occupa di ogni aspetto che riguarda l’efficacia esecutiva del provvedimento giurisdizionale, al fine di assicurare adeguate garanzie ai diritti fondamentali dell’interessato, inevitabilmente coinvolti nell’esecuzione. Il giudice competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento è, ai sensi dell’art. 665, lo stesso giudice che lo ha emesso; sono previste tuttavia anche regole specifiche nel caso in cui il provvedimento sia stato impugnato e diversi siano stati gli esiti dei gravami.

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La magistratura di sorveglianza. Si occupa di materie che attengono principalmente al settore del diritto penale sostanziale, poiché ad essa è affidato il controllo sulla funzionalità ed efficienza della pena in relazione al fine della rieducazione del condannato e l’accertamento della pericolosità del soggetto. I compiti della magistratura di sorveglianza sono distribuiti tra:

- un organo monocratico: il magistrato di sorveglianza - un organo collegiale: il tribunale di sorveglianza

L’amministrazione penitenziaria. Presso il ministero della giustizia è istituito il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che si occupa dell’esecuzione delle pene, delle misure di sicurezza detentive e della custodia cautelare in carcere. Gli uffici locali di esecuzione penale esterna, che dipendono dal ministero della giustizia: - si occupano delle inchieste funzionali all’applicazione delle misure alternative e di sicurezza; - propongono all’autorità giudiziaria il programma di trattamento nonché le eventuali modifiche e

revoche in un momento successivo, dei condannati che presentano domanda di affidamento in prova e di detenzione domiciliare;

- controllano la corretta esecuzione del programma e ne riferiscono all’autorità giudiziaria; - prestano consulenza relativamente al trattamento penitenziario su richiesta delle direzioni degli

istituti. L’ATTIVITÀ ESECUTIVA E’ possibile distinguere un momento prettamente attuativo del comando contenuto nel provvedimento giurisdizionale divenuto esecutivo da un momento, eventuale, di controllo giurisdizionale su tale attività. Il momento attuativo del comando Il protagonista è il p.m.; dalla lettura del 655 (Funzioni del pubblico ministero) è possibile individuare alcune caratteristiche dell’attività del p.m. in questa fase: • l’obbligatorietà dell’esecuzione: essa si ricava anzitutto dall’uso dell’indicativo presente “cura”; ma

è la logica stessa che la impone per evitare che l’ordinamento cada in contraddizione con se stesso (112 Cost.: Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale).

• l’officiosità dell’esecuzione: il p.m. cura “di ufficio” l’esecuzione dei provvedimenti, per cui il p.m., quando procede all’esecuzione, si attiva automaticamente.

• l’irretrattabilità dell’esecuzione : una volta dato corso all’azione esecutiva, il p.m. non può interromperla; occorrerà che il giudice dell’esecuzione, nei casi espressamente previsti dalla legge, emetta uno specifico provvedimento.

• il monopolio dell’iniziativa nell’esecuzione: il p.m. è l’unico soggetto legittimato dalla legge a dare esecuzione ai provvedimenti del giudice.

Il momento di controllo giurisdizionale Quanto all’intervento eventuale del giudice, il legislatore ha previsto appositi procedimenti con le garanzie della giurisdizione al fine di verificare la validità dei presupposti e la legittimità del titolo esecutivo: circa l’oggetto del controllo giurisdizionale di devono distinguere:

1) il procedimento di esecuzione davanti al giudice dell’esecuzione, che ha per oggetto la verifica dei presupposti e delle condizioni di legittimità del titolo esecutivo e dell’attività di attuazione del medesimo

2) il procedimento di sorveglianza davanti alla magistratura di sorveglianza che ha per oggetto la verifica del permanere della rispondenza tra il contenuto sanzionatorio del titolo e il fine rieducativo assegnato alla pena

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L’ESECUZIONE DELLE PENE DETENTIVE (art. 656 c.p.p.) L’atto propulsivo dell’esecuzione delle pene detentive è l’ordine di esecuzione: il p.m. emette l’ordine di esecuzione quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva; l’ordine impone alla polizia giudiziaria di catturare e di condurre immediatamente in carcere il condannato. Copia dell’ordine deve essere consegnata personalmente nelle mani dell’interessato. Se il condannato è già detenuto, l'ordine di esecuzione è comunicato al Ministro di grazia e giustizia e notificato all'interessato. In ogni caso l’ordine deve essere notificato, entro 30 giorni, al difensore nominato espressamente dall’interessato per la fase dell’esecuzione, oppure, qualora tale nomina non sia stata effettuata, a quello designato dal p.m. secondo quanto disposto dall’art. 97. L’ordine di esecuzione deve indicare - le generalità della persona nei cui confronti il provvedimento deve essere eseguito e tutto ciò che sia

utile per identificarla; - l’imputazione; - il dispositivo; - le ulteriori disposizioni necessarie per l’esecuzione. Le pene detentive brevi: nel caso di esecuzione di condanne a pene detentive non superiori a 3 anni (4 anni in caso di condanna per reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza del reo), in considerazione della possibilità per il condannato di ottenere l’applicazione di misure alternative alla detenzione prima dell’inizio della stessa esecuzione della pena, il p.m., oltre all’ordine di esecuzione, emette un decreto di sospensione dell’esecuzione stessa. Notifica. In tali ipotesi entrambi i provvedimenti devono essere notificati al condannato e al difensore con l’avviso che entro 30 giorni (il termine decorre dalla valida notificazione dell’ordine di esecuzione al condannato e al difensore) può essere presentata istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione: l’affidamento in prova al servizio sociale (anche nei casi particolari di tossicodipendenti), la detenzione domiciliare e la semilibertà. Istanza di concessione della misura. L’istanza deve esser presentata, dal condannato o dal difensore, al p.m., il quale la trasmette al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede l’ufficio del p.m. Nel caso in cui l’istanza non sia tempestivamente presentata o il tribunale di sorveglianza la dichiari inammissibile o la respinga, il p.m. revoca immediatamente il decreto di sospensione e l’esecuzione procede nelle forme ordinarie. I divieti di sospensione: • il condannato può beneficiare della sospensione una sola volta in relazione alla medesima condanna; • l’esecuzione della pena non può essere sospesa nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-

bis, l. 354/1975; • sono poi esclusi dalla sospensione coloro che si trovano in custodia cautelare in carcere, per lo stesso

reato in relazione al quale è stata irrogata la pena da eseguire, al momento in cui diviene definitiva la condanna;

• il legislatore ha stabilito che la sospensione dell’esecuzione non può essere disposta nei confronti dei condannati, ai quali sia stata applicata la recidiva di cui all’art. 99 co. 4 (cioè nei casi di recidiva reiterata).

• il d.l. n. 92/2008 ha introdotto l’ulteriore divieto di sospensione a carico di coloro che sono stati condannati per i seguenti delitti:

- incendio boschivo; - furto, quando ricorrono 2 o più aggravanti di quelle previste dall’art. 625 c.p.; - furto in abitazione o furto con strappo; - delitti per i quali ricorre l’aggravante dell’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova

illegalmente sul territorio nazionale.

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Il computo del presofferto (art. 657 c.p.p.): l’articolo prevede il caso in cui il condannato abbia già scontato periodi di custodia cautelare o espiato pene per sentenze revocate o per le quali siano intervenuti provvedimenti di amnistia o indulto: in tutti questi casi si rende necessario un intervento di calcolo per detrarre il presofferto (o l’indebitamente sofferto) e determinare così la pena ancora effettivamente da espiare. Il p.m. deve computare: - il periodo di custodia cautelare subita per lo stesso o per altro reato - il periodo di pena detentiva espiata per un reato diverso, quando la relativa condanna sia stata revocata

o quando per il reato sia stata concessa amnistia o indulto. In ogni caso è previsto che siano computate soltanto la custodia cautelare subita e le pene espiate dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire. Oggetto della detrazione: - La custodia cautelare subita - La misura di sicurezza detentiva applicata in via provvisoria - Le c.d. pene espiate senza titolo (relative a reati diversi da quello per cui si deve determinare la pena);

si tratta dei casi in cui la condanna viene revocata (revisione o abolitio criminis), viene concessa l’amnistia (amnistia impropria), viene concesso l’indulto.

Il p.m. provvede con decreto, che deve essere notificato al condannato e al suo difensore. L’esecuzione di pene concorrenti: quando la stessa persona è stata condannata con più sentenze o decreti penali per reati diversi, il p.m. presso il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo deve effettuare un nuovo calcolo per determinare la pena in relazione all’intervenuto passaggio in giudicato di una nuova sentenza di condanna; lo fa emettendo il c.d. provvedimento di cumulo, che ha la forma del decreto e deve essere notificato al condannato e al difensore. Il provvedimento di cumulo unifica le sole “pene concorrenti”, cioè quelle effettivamente cumulabili tra loro. Se i titoli esecutivi sopravvengono durante l’espiazione di un periodo di carcerazione (cioè di un cumulo già effettuato), bisogna distinguere: → se il nuovo titolo si riferisce ad un reato commesso prima dell’inizio dell’esecuzione del cumulo: la nuova pena deve essere considerata legittimamente concorrente con quelle già entrate in esecuzione, pertanto l’attuale cumulo deve essere sciolto per formarne uno nuovo comprendente anche l’ultimo titolo esecutivo. → se il nuovo titolo si riferisce ad un reato commesso durante l’espiazione del cumulo stesso: è necessario effettuare un cumulo parziale, comprendente la parte di sanzione ancora da scontare al momento della commissione del nuovo reato e la condanna inflitta per quest’ultimo. Sono escluse al cumulo: la condanna sospesa, quella condonata, quella amnistiata (purché non sia intervenuta la revoca del beneficio), quella per cui non si è ottenuta l’estradizione dall’estero. L’ESECUZIONE DELLE PENE PECUNIARIE (art. 660) L’esecuzione di pene pecuniarie e delle spese del procedimento rientra nella “attività materiale del p.m.”, cioè in quelle ipotesi in cui il p.m. attiva la procedura esecutiva mediante la trasmissione degli atti ad altre autorità. In questo caso è la stessa cancelleria del giudice dell’esecuzione ad attivarsi, invitando il debitore al pagamento. Ove il pagamento non venga effettuato, l’ufficio di cancelleria procede all’iscrizione a ruolo e consegna detto ruolo al concessionario della riscossione, che procede in base alle norme che valgono per i tributi. Quando è accertata la impossibilità di esazione della pena pecuniaria, il p.m. trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione, il quale provvede previo accertamento dell’effettiva insolvibilità del condannato; la pena pecuniaria insoluta è convertita nella sanzione della libertà controllata o del lavoro sostitutivo.

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IL PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE Il giudice dell’esecuzione È competente a conoscere dell’esecuzione di un provvedimento lo stesso giudice che lo ha emesso. Il giudice dell’esecuzione è :

• il giudice di primo grado se il provvedimento non è stato impugnato o se, a seguito di impugnazione, è stato confermato in appello od ha subito modifiche solamente in punto di pena, misure di sicurezza e disposizioni civili.

• il giudice di appello se questi ha riformato la sentenza di primo grado in punto di responsabilità. • se vi è stato ricorso per cassazione, in caso di annullamento con rinvio è competente il giudice del

rinvio; se il ricorso è stato dichiarato inammissibile, è stato rigettato od è stato annullato senza rinvio, la competenza spetterà al giudice di primo grado o al giudice d’appello secondo i criteri appena descritti.

Se devono essere eseguiti più provvedimenti emessi da giudici diversi di regola è competente il giudice che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. - se si tratta di giudici ordinari e giudici speciali è competente il giudice ordinario - se si tratta di provvedimenti emessi dal tribunale in composizione collegiale e monocratica,

l’esecuzione spetta al collegio. Il procedimento di esecuzione (c.d. incidente di esecuzione) Circa le forme del controllo, l’art. 666 dispone una apposita disciplina per il procedimento di esecuzione, impostata sullo schema del procedimento in camera di consiglio di cui all’art. 127. L’iniziativa del procedimento è rimessa alle parti, secondo il principio ne procedat iudex ex officio: sono il p.m. ed il soggetto passivo del provvedimento giurisdizionale (o il suo difensore), che nella fase esecutiva abbiano concreto interesse all’instaurazione di questo procedimento, a presentare richiesta in forma scritta al giudice dell’esecuzione; tale richiesta subisce un primo vaglio da parte del giudice (o del presidente del collegio): - ove questi la consideri “manifestamente infondata”, o “mera riproposizione di un’istanza già

rigettata”, sentito il p.m., ne dichiara l’inammissibilità con decreto motivato, ricorribile in cassazione - in caso contrario, fissa la data dell’udienza, curando che il provvedimento venga notificato

all’imputato, al p.m. e al difensore di fiducia o d’ufficio entro 10 giorni dalla data predetta; fino a 5 giorni dall’udienza le parti hanno la facoltà di depositare memorie in cancelleria.

L’udienza, a differenza dell’ordinario procedimento in camera di consiglio, si svolge con la necessaria partecipazione del difensore e del p.m. (l’interessato ha facoltà di intervenire e di essere sentito). L’assunzione di prove. Il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno. Tuttavia, se occorre assumere prove, deve procedersi nel pieno rispetto del contraddittorio. Il giudice assume la decisione con ordinanza ricorribile per cassazione; l’impugnazione di regola non ha effetto sospensivo. Il giudicato allo stato degli atti. Una volta decorso il termine di impugnazione o comunque esperiti i mezzi di impugnazione, l’ordinanza emessa in sede di esecuzione acquista la caratteristica dell’irrevocabilità. L’irrevocabilità è però solo allo stato degli atti, nel senso di non consentire il ne bis in idem, salvo che siano cambiate le condizioni in base alle quali fu emessa la precedente decisione. L’oggetto del controllo giurisdizionale L’attività di controllo assegnata al giudice dell’esecuzione ha per oggetto le condizioni formali che consentono al comando di divenire, continuare o cessare di essere operativo nei suoi limiti originali.

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Volendo effettuare una distinzione tra i casi disciplinati dal codice è possibile distinguere: - gli interventi più propriamente sul titolo esecutivo - gli interventi sul procedimento esecutivo, cioè sulla regolarità e legittimità del suo svolgimento Gli interventi sul titolo esecutivo Nell’ambito degli interventi sul titolo esecutivo si possono ulteriormente distinguere le ipotesi di controllo sull’esistenza ed esatta individuazione del titolo da quelli di modifica, integrazione ed estinzione del titolo stesso. A) QUESTIONI SUL TITOLO ESECUTIVO

Ai sensi dell’art. 670 il condannato può lamentare che il titolo manca (ciò accade quando il provvedimento da eseguire è giuridicamente inesistente) o non è divenuto esecutivo (non si è attuata quella conoscenza legale che permette all’imputato di impugnarlo). Il condannato può esperire due rimedi singolarmente o cumulativamente: a) Il condannato può proporre incidente d’esecuzione sostenendo che il titolo non esiste o non è

esecutivo; in tal caso il giudice dell’esecuzione può: - dichiarare l’inesistenza del titolo e quindi sospenderne l’esecuzione - accertare l’esecutività del titolo e rigettare la richiesta (ma la sua decisione non ha effetto

preclusivo, pertanto è possibile che il condannato si rivolga al giudice dell’impugnazione) - dichiarare la non esecutività del titolo e sospendere l’esecuzione: in tal caso egli dispone la

rinnovazione della notificazione non validamente eseguita, dalla quale decorre nuovamente il termine per impugnare; per evitare che il provvedimento diventi irrevocabile, il condannato deve presentare impugnazione.

b) Il condannato può presentare una impugnazione tardiva: se il giudice dell’impugnazione accerta che l’imputato non ha avuto quella conoscenza legale del titolo che gli avrebbe permesso di presentare una impugnazione, sospende l’esecuzione e decide nel merito; nel caso in cui sia stato proposto appello, il giudice conferma o riforma la condanna.

c) Il condannato può adire contemporaneamente il giudice dell’esecuzione e quello dell’impugnazione: il giudice dell’esecuzione valuta la questione attinente al titolo e: - se accoglie la richiesta del condannato, dichiara la non esecutività della sentenza e ne sospende

l’esecuzione; il giudice dell’esecuzione trasmette direttamente gli atti al giudice dell’impugnazione (poiché il condannato ha già presentato impugnazione apparentemente tardiva); il giudice dell’impugnazione deve limitarsi a decidere nel merito del gravame (gli è preclusa la questione attinente al titolo);

- se rigetta la richiesta del condannato, dichiara l’esecutivià della sentenza e trasmette gli atti al giudice dell’impugnazione che è già stato adito (la decisione pronunciata non vincola il giudice dell’impugnazione ex art. 670 co. 2), quest’ultimo infatti può andare di contrario avviso rispetto al giudice dell’esecuzione, pertanto, se ritiene che ne ricorrano i presupposti, può sospendere l’esecuzione e decidere nel merito.

La restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale In base alla legge n. 60/2005 il condannato può lamentare di non aver avuto conoscenza effettiva della sentenza contumaciale e di non aver rinunciato volontariamente ad impugnare il provvedimento. Non si eccepisce più un errore procedurale che non ha permesso l’attuazione della conoscenza legale del provvedimento, bensì la mancata conoscenza effettiva del titolo. Quando sussistono i presupposti per ottenere la restituzione nel termine, il codice consente al condannato di percorrere due strade che si escludono a vicenda: 1) il condannato si rivolge al giudice dell’esecuzione chiedendo di dichiarare la non esecutività del

titolo e al tempo stesso eccependo l’esistenza dei presupposti per ottenere la restituzione nel termine; il giudice dell’esecuzione deve valutare in via preliminare la questione dell’esistenza e della esecutività del titolo; bisogna tuttavia distinguere:

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- se il condannato presenta al richiesta di restituzione anche al giudice dell’impugnazione, il giudice dell’esecuzione non può pronunciarsi sulla stessa questione (art. 670 co. 3)

- se invece non si verifica tale preclusione, il giudice dell’esecuzione ha 3 possibilità: a) se il giudice dell’esecuzione accerta la esecutività del titolo e, al tempo stesso, rigetta la

richiesta di restituzione nel termine, al condannato non resta altro che proporre ricorso per cassazione contro l’ordinanza che respinge la richiesta di restituzione, ai sensi dell’art. 175 co. 6: la richiesta di restituzione non può essere più presentata al giudice dell’impugnazione.

b) Se il giudice riconosce che il titolo è esecutivo, ma ritiene esistenti i presupposti per la restituzione nel termine, la concede; ottenuta la restituzione nel termine, il condannato può presentare impugnazione.

c) Il giudice dell’esecuzione può dichiarare non esecutivo il titolo; in tal caso sospende l’esecuzione e dispone la rinnovazione della notificazione non validamente effettuata. Il giudice non si pronuncia sulla restituzione perché il termine non è mai decorso, spetta all’imputato presentare impugnazione tempestiva.

2) Il condannato chiede la restituzione nel termine direttamente al giudice dell’impugnazione:

questi valuta l’esistenza dei presupposti; soltanto se il giudice dell’esecuzione ha già deciso sulla restituzione, al giudice dell’impugnazione è preclusa una pronuncia sulla medesima questione. - Il giudice rigetta la richiesta quando viene provato che il condannato ha avuto effettiva

conoscenza della sentenza contumaciale e ha volontariamente rinunciato ad impugnarla. - Il giudice accoglie la richiesta e, se occorre, ordina la scarcerazione dell’imputato detenuto e

adotta tutti i provvedimenti necessari per far cessare gli effetti determinati dalla scadenza del termine, in caso contrario.

All’esito dell’appello vi sarà una conferma o una riforma della sentenza di condanna. B) CONFLITTO PRATICO DI GIUDICATI

L’art. 669 riguarda il caso in cui siano state emesse una pluralità di sentenze per il medesimo fatto nei confronti della stessa persona: violazione del principio del ne bis in idem che spingerà l’interessato a sollevare la questione davanti al giudice dell’esecuzione. Il giudice, compiute le opportune verifiche, ordinerà l’esecuzione della sentenza più favorevole; quanto alle altre, non costituendo valido titolo esecutivo, saranno revocate; sono pero previste delle eccezioni: - nel caso in cui il proscioglimento sia stato pronunciato per estinzione del reato verificatasi

successivamente alla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di condanna è quest’ultima a dover essere eseguita;

- nel caso in cui più sentenze di condanna per il medesimo fatto abbiano disposto pene diverse, l’interessato ha comunque facoltà di indicare la pena che deve essere eseguita.

C) INTERVENTI MODIFICATIVI DEL TITOLO ESECUTIVO

- concorso formale e reato continuato: l’art. 671 consente l’applicazione in fase di esecuzione della disciplina del concorso formale e del reato continuato tra più sentenze o decreti penali divenuti irrevocabili. Qualora il giudice ritiene che sussistano i presupposti del reato continuato o del concorso formale di reati, e questi non siano stati esclusi dal giudice della cognizione, applica la disciplina del concorso formale e del reato continuato determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascun provvedimento; a tal fine deve essere instaurato a richiesta di parte un procedimento di esecuzione.

- L’art. 672 , relativo all’applicazione dell’amnistia e dell’indulto, prevede, fra l’altro, il potere del p.m. di sospendere l’esecuzione della pena nella pendenza del procedimento per la relativa applicazione e l’obbligo del giudice dell’esecuzione di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza quando, in conseguenza, occorra applicare o modificare una misura di sicurezza.

- L’art. 674 prevede il potere del giudice dell’esecuzione di disporre la revoca di una serie di benefici già concessi ma condizionati (sospensione condizionale della pena, grazia, amnistia e indulto condizionati, non menzione nel certificato del casellario giudiziale), quando la revoca stessa sia stata disposta con la sentenza di condanna per altro reato.

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D) INTERVENTI INTEGRATIVI DEL TITOLO ESECUTIVO Il giudice dell’esecuzione decide le questioni relative alle pene accessorie, alla confisca ed alla restituzione delle cose sequestrate e dichiara la falsità di un atto o di un documento quando questa, pure accertata nella sentenza a norma dell’art. 537, non sia stata dichiarata nel dispositivo della sentenza.

E) REVOCA DELLA SENTENZA PER ABROGAZIONE DEL REATO (AR T. 673)

Dopo che una sentenza è divenuta irrevocabile, può accadere che: - una legge abroghi la norma penale incriminatrice sulla base della quale il giudice aveva

pronunciato la sua decisione - la Corte Costituzionale dichiari illegittima la norma incriminatrice. In detti casi “se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. In base all’art. 673, il giudice dell’esecuzione deve revocare la sentenza e adottare i provvedimenti conseguenti, tra i quali l’eliminazione della iscrizione nel casellario giudiziale.

Presupposti per la revoca della sentenza - l’esistenza di una sentenza di condanna irrevocabile per un reato che è stato abrogato, a cui è

equiparato il decreto penale di condanna divenuto esecutivo (nonché, secondo la giurisprudenza, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti).

- l’esistenza di una abolitio criminis, che può essere totale in quanto il reato è stato depenalizzato o in quanto una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo un articolo del codice penale (la abolitio criminis parziale rileva solo se in concreto la condotta accertata dalla sentenza risulti non più punibile in base alla nuova norma)

Per quanto concerne il procedimento: - iniziativa: esso è attivabile su richiesta del p.m. della persona interessata o del suo difensore - competenza: spetta al giudice dell’esecuzione, che procede in camera di consiglio; ove la richiesta

non sia respinta egli dispone la revoca della sentenza e dichiara che “il fatto non è previsto dalla legge come reato”; quindi “adotta i provvedimenti conseguenti” e cioè ordina che siano eliminate le pene principali, quelle accessorie, le misure di sicurezza e ogni altro effetto penale. Inoltre il giudice ordina la annotazione della propria decisione sull’originale della sentenza di condanna a cura della cancelleria; infine dispone che sia eliminata la relativa iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell’art. 5 co. 2 lett. a del Testo unico.

Revoca di determinate sentenze di proscioglimento. Le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere che abbiano affermato la estinzione del reato o la mancanza dell’imputabilità, possono comportare effetti pregiudizievoli per l’imputato: ai sensi dell’art. 673 co. 2, la abolitio criminis impone al giudice dell’esecuzione di ordinare la revoca della sentenza di proscioglimento pronunciata con una di tali formule; il giudice emanerà la più favorevole declaratoria che “il fatto non è previsto dalla legge come reato”.

F) DICHIARAZIONE DI ESTINZIONE DEL REATO DOPO LA CONDA NNA L’art. 676 prevede la competenza del giudice dell’esecuzione a pronunciarsi nel caso di estinzione del reato dopo la condanna o di estinzione della pena, quando la stessa non consegua alla liberazione condizionale o all’affidamento in prova al servizio sociale, poiché, in tal caso, è competente il tribunale di sorveglianza. Gli interventi sul procedimento esecutivo Al giudice dell’esecuzione è assegnata un’attività di controllo relativamente alla regolarità e alla legittimità dello svolgimento del procedimento esecutivo.

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Laddove emergano dubbi sull’identità fisica della persona arrestata per l’esecuzione di una pena il giudice deve compiere ogni indagine utile alla sua identificazione, avvalendosi anche della polizia giudiziaria; se l’errore è riconosciuto, il giudice dispone l’immediata liberazione. Per il principio del favor rei il giudice procede analogamente anche quando l’identità della persona rimanga incerta (in questo caso pero l’esecuzione è solo sospesa e il p.m. deve compiere ulteriori indigani). Se l’errore risulta evidente il p.m. può ordinare in via provvisoria la liberazione, il suo decreto motivato ha effetto fino a quando non provveda il giudice competente. La sospensione dell’esecuzione è disposta anche quando una persona sia stata condannata in luogo di un’altra per errore di nome: il giudice provvederà con le forme previste per la correzione degli errori materiali se la persona contro cui si doveva procedere è stata citata come imputato per il giudizio, altrimenti si dovrà instaurare un procedimento per revisione ai sensi dell’art. 630. 1 lett. c. LA MAGISTRATURA DI SORVEGLIANZA La caratterizzazione polifunzionale della pena, che non si limita solo ad una funzione retributiva o general-preventiva, ma anche e soprattutto rieducativa ai sensi del 27.3 Cost., comporta necessariamente un frequente controllo sull’esecuzione della stessa. Per realizzare questo costante controllo sull’aspetto concreto dell’esecuzione, il legislatore ha ritenuto opportuno individuare una giurisdizione specializzata, denominata “magistratura di sorveglianza”; essa si articola in due organi: il magistrato di sorveglianza (organo monocratico) e il tribunale di sorveglianza (organo collegiale) Il magistrato di sorveglianza ha funzioni amministrative e giurisdizionali; in particolare, svolge compiti di vigilanza, consultivi (parere motivato in merito alla domanda di concessione della grazia), amministrativi (approvazione del programma di trattamento, permessi, autorizzazioni alla corrispondenza) e giurisdizionali (dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere; accertamento e riesame della pericolosità sociale al fine dell’applicazione delle misure di sicurezza; esecuzione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e libertà controllata; reiterazione e conversione delle pene pecuniarie; ricovero del condannato per sopravvenuta infermità psichica; remissione del debito; particolari reclami dei detenuti e internati). Il reclamo. Il magistrato di sorveglianza ha il dovere di rispettare le modalità del procedimento di sorveglianza solo nelle materie tassativamente indicate dall’art. 678 co. 1; negli altri casi, la procedura è disciplinata nella forma del procedimento giurisdizionale per reclamo. Le funzioni del p.m. sono esercitate, davanti al tribunale di sorveglianza, dal procuratore generale presso la corte d’appello e, davanti al magistrato di sorveglianza, dal procuratore della repubblica presso il tribunale della sede dell’ufficio di sorveglianza; tuttavia qualora un provvedimento del giudice di sorveglianza comporti la carcerazione o scarcerazione del condannato è competente il p.m. presso il giudice dell’esecuzione. La competenza La competenza della magistratura di sorveglianza si determina in base a regole attinenti alla materia e al territorio; nell’ambito delle rispettive competenze, il magistrato ed il tribunale hanno una competenza territoriale che si differenzia a seconda che l’interessato sia detenuto o libero: - Quando il condannato è detenuto, la competenza appartiene all’organo che ha giurisdizione

sull’istituto in cui si trova il soggetto al momento della presentazione della richiesta, della proposta o dell’inizio d’ufficio del procedimento.

- Quando il condannato è libero, la competenza si determina, di regola, in base al luogo di residenza o domicilio.

In via suppletiva e nel caso di più sentenze di condanna o proscioglimento, è competente il tribunale o il magistrato del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima.

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Circa la competenza per materia: - il magistrato di sorveglianza ha una limitata competenza in materia di misura alternative (può

applicare o revocare, ma soltanto in via provvisoria, le misure dell’affidamento in prova al servizio sociale e delle detenzione domiciliare; la decisione definitiva è del tribunale di sorveglianza); è competente relativamente alla procedura di concessione della liberazione anticipata.

- Il tribunale di sorveglianza ha soltanto compiti giurisdizionali e li esplica in primo grado oppure in sede di appello con riferimento ad alcuni provvedimenti del magistrato di sorveglianza; in primo grado adotta le decisioni che riguardano le misure alternative alla detenzione, la concessione e revoca della liberazione condizionale, il rinvio facoltativo o obbligatorio delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive, la riabilitazione; in grado d’appello decide in merito ai provvedimenti del magistrato relativi alle misure di sicurezza ed alla dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere.

Il procedimento di sorveglianza Al fine di attuare la giurisdizione sul contenuto sanzionatorio del titolo, il legislatore ha disciplinato un procedimento apposito, “il procedimento di sorveglianza”, che riprende le linee organizzative e procedurali previste per quello di esecuzione (art. 666) ma con alcune integrazioni dovute all’oggetto da accertare e cioè la personalità dell’autore del reato: • Le giurisdizioni di sorveglianza agiscono anche d’ufficio, oltre che su richiesta del p.m.,

dell’interessato e del difensore. • Quando si procede nei confronti di una persona sottoposta a osservazione scientifica della personalità,

il giudice deve acquisire la relativa documentazione e si avvale, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento.

La competenza a concedere la liberazione anticipata è stata trasferita dal tribunale al magistrato di sorveglianza dalla legge n. 277/2002; egli decide de plano emanando un provvedimento reclamabile di fronte al tribunale di sorveglianza. IL CASELLARIO GIUDIZIALE Il casellario giudiziale è una sorta di anagrafe giudiziaria, ove vengono annotati vari provvedimenti in materia penale, civile ed amministrativa. Il Testo Unico delle disposizioni in materia di casellario giudiziale (che ha sostituito la regolamentazione contenuta nel c.p.p.) ha creato un sistema informatico automatizzato per raccogliere i dati relativi a provvedimenti giudiziari e amministrativi riferiti a soggetti determinati. La banca dati del casellario giudiziale confluisce in un sistema unico, assieme al casellario dei carichi pendenti, all’anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e all’anagrafe dei carichi pendenti degli illeciti amministrativi dipendenti da reato. L’iscrizione spetta all’ufficio iscrizione situato presso l’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento; l’iscrizione può avvenire anche su richiesta dell’interessato ma in questo caso è subordinata al parere del dipartimento per gli affari di giustizia del ministero della giustizia. L’ufficio centrale, istituito presso il ministero della giustizia, compie attività tra le quali meritano di essere menzionate la raccolta e conservazione dei dati immessi nel sistema e il controllo sull’attività degli uffici. Le iscrizioni devono essere eliminate al compimento dell’ottantesimo atto di età o per morte della persona alla quale si riferiscono, la legge poi prevede ulteriori ipotesi (ad es. in caso di revoca)

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I servizi certificativi Ogni organo giurisdizionale, nonché il relativo ufficio del p.m., ha diritto di ottenere un certificato con l’indicazione delle iscrizioni relative alla persona nei cui confronti procedono. Previa autorizzazione del giudice, il p.m. ed il difensore hanno inoltre il diritto di ottenere analoga certificazione concernente la persona offesa dal reato od il testimone per le finalità riconosciute dal codice. Il singolo interessato può ottenere il certificato (generale, relativo alla sola materia penale o relativo alla sola materia civile) concernente la propria posizione. In questo caso, tuttavia, a tutela dell’interessato che debba presentare il certificato, i certificati non faranno menzione di una serie di provvedimenti iscritti che il 25 del Testo unico delle disposizioni in materia di casellario giudiziale (TUCG: d.p.r. 313/2002) espressamente esclude. Le amministrazioni pubbliche e gli enti incaricati di servizi pubblici hanno il diritto di ottenere tali certificati (coi limiti di cui sopra) ove questi siano necessari per provvedere ad un atto delle loro funzioni. Nel caso in cui sorgano questioni concernenti le iscrizioni od i certificati, decide il tribunale in composizione monocratica del luogo ove ha sede l’ufficio locale del casellario, nel cui ambito territoriale è nata la persona alla quale è riferita l’iscrizione od il certificato. Le spese In base al principio di cui al 27.2 Cost. (L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva), le spese processuali vengono anticipate dallo Stato. Ad irrevocabilità intervenuta è la cancelleria del giudice dell’esecuzione ad attivarsi. Ove il pagamento non venga effettuato, l’ufficio di cancelleria procede all’iscrizione a ruolo e lo trasmette al concessionario della riscossione, il quale procede alla riscossione coattiva in base alle norme che valgono in generale per i tributi in favore dello Stato. Il debito per le spese del processo è rimesso nei confronti di chi si trova in disagiate condizioni economiche ed ha tenuto una regolare condotta in libertà o, se detenuto, negli istituti di pena.

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Parte settima – I RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTO RITA’ STRANIERE Il libro undicesimo del codice disciplina i rapporti giurisdizionali con autorità straniere in materia penale; di tali rapporti l’art. 696 dà un elenco (non esaustivo: estradizione, rogatorie internazionali, effetti delle sentenze penali straniere, esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane) e ricorda che vi sono anche “altri rapporti con le autorità straniere” oltre a quelli menzionati (ad esempio il “mandato di arresto europeo” disciplinato dalla legge n. 69/2005). Inoltre l’articolo esprime due princìpi fondamentali che disciplinano la materia: • il principio di prevalenza delle norme di diritto internazionale generale o convenzionale su quelle interne • il principio di sussidiarietà delle norme contenute nel codice: queste operano se le norme internazionali mancano o non dispongono diversamente.

L’ESTRADIZIONE

L’estradizione può essere definita come la consegna di una persona da parte di uno Stato (detto “richiesto”), nel cui territorio questa si trova, ad un altro Stato (detto “richiedente”) che ne abbia fatto domanda per sottoporre detta persona a giudizio o per dare esecuzione nei suoi confronti a “una sentenza di condanna o altro provvedimento restrittivo della libertà personale”. Il codice di procedura penale non consente l’estradizione quando “vi è ragione di ritenere che l’imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona”. I princìpi che informano l’istituto dell’estradizione sono: • il principio della doppia incriminabilità, o punibilità: in base all’art. 13 co. 2 c.p. “L’estradizione non

è ammessa, se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera”;

• il principio di specialità: lo Stato che ha ottenuto l’estradizione di un accusato o condannato non può procedere nei suoi confronti per fatti anteriori e diversi rispetto a quello per il quale l’estradizione è stata concessa, a meno che lo Stato richiedente non ottenga in merito il consenso dello Stato estradante (c.d. estradizione suppletiva che si realizza quando lo Stato che ha già ottenuto la consegna di una persona ottenga un ulteriore assenso dello Stato richiesto per sottoporre tale persona a procedimento anche per un fatto anteriore e diverso da quello per il quale era stata concessa l’estradizione) o si verifichi la c.d. purgazione dell’estradizione, consistente nel mancato allontanamento dell’estradato dal territorio dello Stato richiedente entro un determinato termine ovvero nel suo rientro volontario nello stesso territorio Questo istituto si differenzia sia dalla riestradizione, che consiste nella richiesta di consenso allo Stato italiano da parte del Paese che ha ottenuto la consegna della persona affinché l’Italia acconsenta alla sua ulteriore estradizione verso un terzo Stato, sia dalla estradizione in transito, che si ha quando la persona estradata da uno Stato estero ad un altro deve passare attraverso il territorio italiano.

• il principio del ne bis in idem: chi è già stato giudicato in Italia non può essere estradato per essere nuovamente processato in un altro Paese per lo stesso fatto.

• il principio di sussidiarietà: lo Stato richiesto non concede l’estradizione qualora l’interessato sia sottoposto a procedimento penale nel proprio territorio o vi debba scontare una pena; oggi tuttavia gli stati possono scegliere

• il principio di reciprocità (oggi poco rilevante)

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Il nostro ordinamento prevede due distinte discipline dell’estradizione: quella per l’estero, o passiva, nella quale è uno Stato estero a chiedere l’estradizione allo Stato italiano, e quella dall’estero, od attiva, che si ha quando è l’Italia a presentare domanda di estradizione ad un altro Paese. L’estradizione può essere di cognizione (o processuale) quando l’estradando è richiesto per essere sottoposto a processo; od esecutiva, se l’estradizione ha come fine quello di permettere l’esecuzione di una sentenza. L’estradizione per l’estero (o passiva) Dal momento che l’ordinamento italiano riconosce all’estradando specifici diritti, la legge stabilisce una serie di limiti alla concessione dell’estradizione. In primo luogo abbiamo dei limiti sostanziali, infatti l’estradizione è vietata: a) per reati politici (10.4 Cost.; 26.2 Cost.; 698.1 c.p.p.); b) se vi è ragione di ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta ad atti persecutori o discriminatori

(c.d. clausola di non discriminazione) o che verrà sottoposta a trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano la violazione di uno dei diritti fondamentali della persona;

c) se per il fatto per il quale è domandata l’estradizione è prevista la pena di morte dalla legge dello Stato richiedente.

In secondo luogo, sono previsti dei vincoli formali , consistenti nella necessità di una espressa “domanda” da parte dello Stato estero e nell’effettuazione dell’apposito procedimento di estradizione previsto dal codice; esso ha carattere misto, essendo composto da 3 fasi: la prima e la terza di natura amministrativa e la seconda di natura giurisdizionale. Fase amministrativa (1)→Il procedimento si apre con l’invio della domanda di estradizione da parte dello Stato estero, unitamente ai relativi documenti, al Ministro della Giustizia italiano (art. 700 c.p.p.): questi può respingere la domanda di estradizione oppure trasmetterla coi relativi documenti al procuratore generale presso quella Corte d’appello che risulta individuata in base ai criteri dettati dal 701.4 c.p.p. Fase giurisdizionale →all’inizio di tale fase occorre procedere al compimento di determinati atti: a) Il procuratore generale deve disporre la comparizione dell’estradando per provvedere alla sua

identificazione ed alla raccolta del suo eventuale consenso all’estradizione; l’estradando è assistito da un difensore di fiducia o d’ufficio, il quale ha diritto di assistere all’audizione dell’estradando e, per questo deve essere preavvisato almeno 24 ore prima. La prestazione del consenso deve avvenire alla presenza necessaria del magistrato e del difensore; in caso di estradizione consensuale il guardasigilli può concedere l’estradizione facendo a meno della necessaria preventiva deliberazione dell’organo giudicante.

b) Il procuratore generale provvede ad altri accertamenti, richiedendo, se occorre, ulteriore documentazione allo Stato richiedente attraverso il ministero della Giustizia.

c) Il procuratore generale presenta alla Corte d’appello la requisitoria entro 3 mesi dalla ricezione della domanda di estradizione, allegando gli atti compiuti e le cose sequestrate.

d) Il presidente della Corte d’appello fissa la data dell’udienza per la decisione e (almeno 10 giorni prima, a pena di nullità) ne dispone la comunicazione al p.m., all’estradando, al suo difensore ed al rappresentante dello Stato richiedente; questi possono presentare memorie fino a 5 giorni prima.

e) La Corte decide in camera di consiglio; può emettere sentenza favorevole all’estradizione solo se: - se sussistono gravi indizi di colpevolezza ovvero se esiste una sentenza irrevocabile di condanna

che non contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano ovvero se per lo stesso fatto non è in corso un procedimento penale in itaia

- se l’estradando sarà sottoposto a procedimento che garantisce il rispetto dei diritti fondamentali; - se non vi è motivo di ritenere che l’estradando sarà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori

ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.

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Contro la decisione della Corte d’appello è possibile presentare ricorso in cassazione: in questo caso la Corte decide “anche per il merito”, assumendo così anche le funzioni di giudice di secondo grado (legittimati ad impugnare la sentenza della corte d’appello sono il procuratore generale e il rappresentante dello Stato richiedente). Se la fase giurisdizionale si chiude con una sentenza favorevole all’estradizione (ovvero se essa viene omessa in caso di estradizione consensuale), si apre una successiva fase del procedimento. Fase amministrativa (2) →Il Ministro della Giustizia con valutazione discrezionale decide entro 45 giorni se concedere o meno l’estradizione: il termine decorre dalla ricezione del verbale che contiene il consenso dell’estradando ovvero dalla comunicazione da parte della cancelleria del decorso del termine per l’impugnazione o del deposito della sentenza della cassazione. → Se il ministro non si pronuncia entro il termine o rifiuta l’estradizione l’eventuale misura cautelare decade e la persona richiesta è rimessa in libertà; la sentenza sfavorevole ha un effetto “preclusivo” in quanto lo stesso Stato estero non potrà presentare una nuova domanda di estradizione riguardante la medesima persona per lo stesso fatto (la preclusione non opera tuttavia se vengono presentati dallo Stato richiedente elementi “che non siano già stati valutati dall’autorità giudiziaria”.). → Se la decisione è favorevole all’estradizione, questa deve essere comunicata senza indugio allo Stato richiedente, indicando il luogo e la data a partire dalla quale è possibile la consegna dell’estradando;la consegna dell’estradando deve avvenire entro 15 giorni dalla data indicata. La consegna è “sospesa” se nei confronti dell’estradando in Italia pende un procedimento penale o deve essere applicata una pena per reati diversi da quelli per i quali è stata richiesta l’estradizione (in alternativa alla sospensione è prevista la consegna temporanea o l’esecuzione all’estero della pena secondo modalità concordate con lo Stato richiedente). I provvedimenti cautelari (articoli 714-719) Per poter applicare una misura cautelare, sono necessarie sia una richiesta del Ministro della Giustizia (che potrebbe infatti negare l’estradizione), sia una decisione favorevole dell’organo giurisdizionale. Inoltre le misure coercitive ed il sequestro non possono essere disposti se “vi sono ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione”. Il codice di procedura equipara l’estradando all’imputato, di modo che l’autorità giudiziaria applica le misure cautelari all’estradando in base a parametri simili a quelli previsti per l’imputato. Tuttavia sono presenti differenze legate alla peculiarità dell’istituto (non trovano applicazione né l’art. 273 –riguardante le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari- né il 280 – riguardante le condizioni di applicabilità delle misure coercitive- né le disposizioni di cui al capo III titolo III libro III in materia di sequestri). Le misure applicabili anche nei confronti dell’estradando sono quelle di tipo coercitivo previste dagli artt. 281-286 cpc, nonché il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato. La persona sottoposta alla misura cautelare deve essere liberata se: a) è trascorso un anno “senza che la corte d’appello abbia pronunciato sentenza favorevole

all’estradizione” b) sono trascorsi 1 anno e 6 mesi, qualora sia stato presentato ricorso in cassazione, senza che si sia

concluso l’intero procedimento davanti all’autorità giudiziaria. La competenza a provvedere all’applicazione della misura cautelare appartiene alla Corte d’appello. In conformità con l’art. 111 Cost., contro la decisione della Corte d’appello in merito all’applicazione della misura cautelare è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge.

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L’estradizione dall’estero (attiva) Si ha l’estradizione dall’estero quando l’Italia presenta richiesta di estradizione (il nostro codice contiene solo le norme che attengono alla domanda da rivolgersi all’autorità straniere, in quanto la restante parte del procedimento sarà disciplinata dall’ordinamento dello Stato a cui l’estradizione è chiesta) Il Ministro della Giustizia presenta la domanda di estradizione al Paese estero; egli può agire sia di propria iniziativa, sia su domanda del procuratore generale presso la Corte d’appello nel cui distretto si procede od è stata emessa sentenza di condanna. Al guardasigilli è riconosciuta una serie di poteri: a) può chiedere all’autorità giudiziaria straniera l’arresto provvisorio dell’estradando; b) può richiedere lo svolgimento di ricerche all’estero dell’imputato o del condannato; c) può accettare le condizioni che lo Stato estero pone per l’estradizione, con l’unico limite del rispetto

dei princìpi fondamentali dell’ordinamento. Le eventuali condizioni accettate dal ministro della Giustizia vincolano l’autorità giudiziaria italiana.

LE ROGATORIE INTERNAZIONALI

Le rogatorie sono quelle richieste che uno Stato presenta ad un altro per il compimento di determinati atti (comunicazioni, notificazioni, attività di acquisizione probatoria). Si distinguono:

� le rogatorie dall’estero (o passive), quando è uno Stato estero a chiedere al nostro Paese il compimento di un atto;

� le rogatorie all’estero (o attive), quando è l’Italia a domandare ad un altro Stato lo svolgimento di una determinata attività.

Le rogatorie internazionali dall’estero (o passive) Il procedimento di rogatoria internazionale dall’estero si compone di due fasi, una amministrativa ed una giurisdizionale. La fase giurisdizionale a sua volta si distingue in due “sottofasi”, la prima di “cognizione” e la seconda di “esecuzione”. Durante la fase amministrativa la figura centrale è il Ministro della Giustizia, il quale ha un potere di blocco ex ante della rogatoria nelle seguenti situazioni (art. 723: Poteri del ministro di grazia e giustizia): a) quando gli atti richiesti compromettono la sovranità, la sicurezza od altri interessi essenziali dello

Stato italiano; b) quando risulta evidente che gli atti richiesti sono espressamente vietati dalla legge o sono contrari ai

principi fondamentali dell’ordinamento; c) quando vi sono fondate ragioni per ritenere che considerazioni relative alla razza, alla religione, al

sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle opinioni politiche o alle condizioni personali o sociali possano influire negativamente sullo svolgimento o sull’esito del processo e non risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla rogatoria;

d) quando la rogatoria ha ad oggetto la citazione di un testimone, di un perito o di un imputato e lo Stato estero non fornisce idonee garanzie in ordine all’immunità della persona citata (c.d. immunità temporanea).

La fase giurisdizionale si articola in modo diverso a seconda del tipo di atto richiesto dallo Stato estero alle autorità italiane.

• Nel caso di citazione di testimoni, periti od imputati si ha una procedura semplificata (si trasmette la richiesta dell’autorità straniera al procuratore generale presso la Corte d’appello nel cui distretto tale atto deve essere compiuto, seguendo le forme ordinarie previste per le notificazioni).

• Per le richieste di rogatoria provenienti da un’autorità giudiziaria ed aventi ad oggetto attività diversa dalla citazione è necessaria una decisione favorevole della Corte d’appello nel cui distretto devono svolgersi gli atti.

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In questo caso si hanno due sottofasi, una di “cognizione” e la successiva di “esecuzione”. La fase di cognizione. Durante la prima sottofase, il procuratore generale, una volta ricevuti gli atti dal Ministro della Giustizia, presenta la requisitoria alla Corte d’appello. La Corte d’appello “nega la rogatoria” se: a) gli atti richiesti sono vietati dalla legge o contrari ai princìpi fondamentali dell’ordinamento; b) il fatto per cui procede l’autorità straniera non è previsto dalla legge italiana come reato e non

risulta che l’imputato abbia liberamente espresso il suo consenso alla rogatoria; c) considerazioni relative alla razza, alla religione, al sesso, alla nazionalità, alla lingua, alle

opinioni politiche ed alle condizioni personali o sociali possono influire sullo svolgimento o sull’esito del procedimento, salvo il caso in cui l’interessato vi abbia dato il proprio assenso liberamente espresso.

La Corte d’appello “sospende” l’esecuzione della rogatoria se questa può pregiudicare le indagini o i procedimenti penali in corso nel nostro Stato. Se non vi sono i suddetti ostacoli, la Corte d’appello dispone l’exequatur con ordinanza e si apre quindi la fase di esecuzione retta dal principio tradizionale del locus regit actum (cioè in base a quanto stabilisce l’ordinamento dello Stato richiesto).

Le rogatorie internazionali all’estero Possono promuovere la rogatoria internazionale all’estero sia la magistratura giudicante sia quella requirente. Si distinguono un procedimento ordinario ed un procedimento di urgenza. Nel procedimento ordinario la figura centrale è il Ministro della giustizia, al quale devono essere inviate le richieste di rogatoria delle autorità giudiziarie italiane; questi, nei 30 gg successivi, può: a) bloccare subito la richiesta di rogatoria qualora ritenga che possano essere compromessi la sicurezza

o altri interessi essenziali dello Stato; b) inoltrare la richiesta di rogatoria all’agente diplomatico o consolare italiano del Paese in cui deve

essere effettuata la rogatoria; c) rimanere inerte: in tal caso l’autorità giudiziaria può provvedere direttamente all’inoltro della

rogatoria all’agente diplomatico o consolare italiano nel Paese estero in cui questa deve essere effettuata, informandone il ministro.

In caso di urgenza l’autorità giudiziaria trasmette direttamente la richiesta di rogatoria all’agente diplomatico o consolare italiano, previa comunicazione della stessa al ministro della Giustizia, il quale può sempre esercitare il potere di blocco della rogatoria. Le risultanze delle rogatorie entrano a far parte del fascicolo per il dibattimento. L’inutilizzabilità degli atti raccolti tramite roga toria internazionale Il codice di procedura (a seguito della legge n. 367/2001) contempla quattro ipotesi di inutilizzabilità degli atti raccolti per mezzo di rogatoria internazionale: 1. qualora lo Stato estero abbia posto delle condizioni all’utilizzabilità degli atti richiesti, l’autorità

giudiziaria italiana è vincolata dalla legge (art. 729 co. 1) al rispetto di tali condizioni a pena di inutilizzabilità;

2. l’art. 729.1 prevede il divieto di utilizzare atti acquisiti o trasmessi in violazione delle norme di cui al 696.1 (che richiama la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959 e le altre norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e le norme di diritto internazionale generale);

3. l’art. 729 comma 1-bis sancisce l’inutilizzabilità degli atti assunti tramite rogatoria quando lo Stato estero dia esecuzione alla rogatoria con modalità diverse da quelle indicate dall’autorità giudiziaria italiana;

4. l’art. 729 comma 1-ter sancisce poi l’inutilizzabilità delle dichiarazioni aventi ad oggetto il contenuto degli atti assunti tramite rogatoria ma inutilizzabili ai sensi dei commi 1 e 1-bis del medesimo articolo.

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LA PARTECIPAZIONE E L’ESAME “A DISTANZA” La partecipazione a distanza dell’imputato detenuto all’estero può aver luogo ogni volta che non sia possibile il suo trasferimento sul territorio italiano. Presupposti per l’attuazione della partecipazione a distanza dell’imputato: - l’istituto in parola deve essere previsto dagli accordi internazionali - l’imputato deve prestare il proprio consenso a tale forma di partecipazione - inoltre lo Stato estero deve assicurare la presenza di un difensore (garantendogli la possibilità di

colloquiare riservatamente con il proprio assistito) e di un interprete (laddove sia necessario) Altro istituto, previsto dall’art. 205-ter disp. att. è l’audizione di un testimone o di un perito attraverso collegamento audiovisivo si svolge secondo le modalità ed i presupposti stabiliti dagli accordi internazionali: in tal caso l’audizione si svolge secondo le modalità ed i presupposti stabiliti dagli accordi internazionali.

IL RICONOSCIMENTO DEGLI EFFETTI DELLE SENTENZE PENA LI STRANIERE Il codice di procedura penale al titolo IV capo I disciplina due tipi di riconoscimento degli effetti delle sentenze penali straniere: quello ai sensi dell’art. 12 c.p. e quello a norma dei trattati internazionali. L’art. 12 c.p. (Riconoscimento delle sentenze penali straniere) prevede la possibilità di riconoscere effetti alle sentenze penali straniere solo per le seguenti finalità:

a) per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere;

b) per infliggere una pena accessoria; c) per applicare misure di sicurezza personali; d) per le restituzioni, il risarcimento del danno od altri effetti civili.

Lo stesso 12 c.p. stabilisce alcuni limiti al riconoscimento della sentenza straniera: - deve avere ad oggetto un delitto; - la sentenza deve essere stata pronunciata dall’Autorità Giudiziaria di uno Stato estero col quale

l’Italia ha un trattato di estradizione o, in subordine, vi deve essere la richiesta del ministro della Giustizia o l’istanza per il riconoscimento degli effetti civili della sentenza straniera

Procedimento:

- il ministro della giustizia quando riceve la richiesta di riconoscimento degli effetti di una sentenza da parte di uno stato estero, trasmette la richiesta senza ritardo al procuratore generale presso la corte d’appello (del distretto della quale ha sede l'ufficio del casellario locale del luogo di nascita della persona cui è riferito il provvedimento giudiziario straniero);

- il procuratore generale, se deve essere dato riconoscimento alla sentenza straniera per i primi tre effetti previsti dall'articolo 12, promuove il relativo procedimento con richiesta alla corte di appello; se si tratta degli effetti civili è necessaria la domanda dell’interessato; la corte d’appello decide in camera di consiglio con sentenza nella quale enuncia espressamente gli effetti che conseguono al riconoscimento

� Il riconoscimento delle sentenze penali straniere può avvenire anche a norma delle disposizioni dei trattati internazionali , quando si vuole che tali sentenze producano effetti diversi od ulteriori rispetto a quelli indicati nel 12 c.p. (Riconoscimento delle sentenze penali straniere). ↓ in tali casi al ministro delle Giustizia spetta una preventiva valutazione sulla richiesta di riconoscimento, al fine di verificare se la sentenza straniera debba avere esecuzione in Italia o se comunque ad essa debbano essere attribuiti effetti a norma di un determinato accordo internazionale; se tale controllo ha esito favorevole, il guardasigilli trasmette al procuratore generale la richiesta di riconoscimento unitamente alla relativa documentazione.

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Limiti al riconoscimento delle sentenze penali straniere secondo gli accordi internazionali (limiti che valgono anche per il riconoscimento in base all’art. 12); non può procedersi al riconoscimento qualora: 1) la sentenza non è diventata irrevocabile secondo le leggi dello Stato in cui è stata pronunciata; 2) la sentenza contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico

italiano; 3) la sentenza non rispetta i principi del “giusto processo”, non essendo stata pronunciata da un giudice

indipendente ed imparziale ovvero quando non è stato rispettato il diritto di difesa dell’imputato o il diritto al contraddittorio del medesimo;

4) se vi sono fondate ragioni per ritenere che considerazioni discriminatorie o persecutorie abbiano influito sullo svolgimento o sull’esito del processo;

5) se il fatto oggetto della sentenza non è previsto come reato dalla legge italiana (in base al principio della doppia incriminazione);

6) se per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona è già stata pronunciata sentenza irrevocabile nel nostro Stato o è in corso nel medesimo un procedimento penale (in virtù del principio del ne bis in idem);

7) agli effetti della esecuzione della confisca, la sentenza straniera non può essere riconosciuta se “ha per oggetto beni la cui confisca non sarebbe possibile secondo la legge italiana qualora per lo stesso fatto si procedesse nello Stato”, salvo i casi previsti dall’art. 735-bis cpp.

Inoltre, l’art. 739 cpp, in conformità al principio del ne bis in idem, stabilisce il divieto sia di estradizione sia di nuovo procedimento per lo stesso fatto nei confronti della persona condannata con la sentenza straniera riconosciuta.

L’ESECUZIONE ALL’ESTERO DELLE SENTENZE PENALI ITALI ANE L’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane è condizionata dalla disciplina esistente nei singoli Paesi ed anche dagli accordi internazionali; si tratta di un istituto alternativo rispetto all’estradizione e all’esecuzione quando “il condannato si trova nel territorio dello Stato richiesto e l’estradizione è stata negata o non è comunque possibile”. Limiti . L’esecuzione all’estero di una sentenza penale di condanna restrittiva della libertà personale può esser richiesta solo se il condannato, “reso edotto delle conseguenze”, vi acconsente liberamente e se l’esecuzione all’estero è comunque idonea a favorire il reinserimento sociale del reo. Iniziativa. Spetta al guardasigilli, il quale deve attivare il procedimento presso la corte d’appello nel cui distretto è stata emessa la sentenza di condanna, attraverso la trasmissione dei relativi atti al procuratore generale. Questi, a sua volta, promuove il procedimento di fronte alla corte d’appello che delibera con sentenza in camera di consiglio. La sentenza della corte d’appello è soggetta a ricorso per cassazione da parte del procuratore generale e dell’interessato.

L’EFFICACIA PRECLUSIVA DELLA SENTENZA PENALE STRANI ERA. IL NE BIS IN IDEM INTERNAZIONALE

Il principio del ne bis in idem in ambito internazionale non gode della stessa rilevanza che assume in ambito interno: la sentenza penale definitiva pronunciata all’estero non costituisce una preclusione a procedere in un altro stato. Il principio del ne bis in idem europeo, sancito dall’art. 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, ha contribuito a creare in Europa un’area giudiziaria comune; in relazione a tale area il giudice italiano non può rinnovare il giudizio nei confronti di colui che è già stato giudicato.

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RESPONSABILITA’ PENALE DELLE PERSONE GIURIDICHE Il d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto nel nostro ordinamento la responsabilità degli enti per illecito amministrativo dipendente da reato.

CRITERI DI ATTRIBUZIONE DELLA RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA La responsabilità del soggetto collettivo è configurabile in presenza di requisiti oggettivi e soggettivi. � Profilo oggettivo: Art. 5. Responsabilità dell'ente 1.L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a.da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b.da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). 2.L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi. � Profilo soggettivo: gli articoli 6 e 7, correlandosi al primo criterio, delineano un duplice sistema di imputazione, mutevole proprio in ragione della posizione rivestita dall’autore del fatto di reato presupposto. Art. 6. Soggetti in posizione apicale e modelli di organizzazione dell'ente 1.Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che: a. l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b. il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c. le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d. non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b). 2.In relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze: a. individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; b. prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire; c. individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; d. prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli; e. introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. 3.I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati. 4.Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti direttamente dall'organo dirigente.

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5.E' comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente. ↓ L’ onere della prova circa l’insussistenza dell’illecito grava per intero sull’ente collettivo, che dovrà fornire elementi per dimostrare l’efficace e preventiva adozione ed attuazione di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi. Art. 7. Soggetti sottoposti all'altrui direzione e modelli di organizzazione dell'ente 1.Nel caso previsto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), l'ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza. 2.In ogni caso, è esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. 3.Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell'organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio. 4.L'efficace attuazione del modello richiede: a. una verifica periodica e l'eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività; b. un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. ↓ L’ente sarà responsabile dell’illecito soltanto se la consumazione è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, con una differente calibratura degli oneri di prova, che graveranno sulla parte pubblica, in punto di adozione e di efficace attuazione dei modelli di gestione e controllo. L’autonomia della responsabilità dell’ente La responsabilità dell’ente è autonoma rispetto a quella della persona fisica incolpata del reato presupposto: essa prescinde dalla punibilità in concreto dello stesso reato. Art. 8. Autonomia delle responsabilità dell'ente 1. La responsabilità dell'ente sussiste anche quando: a) l'autore del reato non e' stato identificato o non e' imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia. 2. Salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell'ente quando e' concessa amnistia per un reato in relazione al quale e' prevista la sua responsabilità e l'imputato ha rinunciato alla sua applicazione. 3. L'ente può rinunciare all'amnistia.

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Limiti all’autonomia: - art. 8 co. 2: essa è destinata a cedere all’intervenuta estinzione per amnistia del reato presupposto cui l’ente non abbia rinunciato. - Art. 37: ostacolo alla procedibilità del reato presupposto (“Non si procede all'accertamento dell'illecito amministrativo dell'ente quando l'azione penale non può essere iniziata o proseguita nei confronti dell'autore del reato per la mancanza di una condizione di procedibilità”) - Art. 4: introduce un doppio regime di procedibilità con riferimento ai reati presupposto commessi all’estero per i quali sia necessaria la richiesta di procedimento. - Art. 60: in tema di decadenza dalla contestazione dell’illecito derivante dalla prescrizione del reato in momento anteriore alla stessa. Al contrario, l’art. 38, nel dettare la regola del simultaneus processus, disciplina tassativamente le cause di separazione del procedimento avente ad oggetto la responsabilità dell’ente da quello riguardante il reato presupposto: in tali ipotesi infatti non è pregiudicata l’autonomia della responsabilità amministrativa.

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SEZIONE II: PROFILI PROCESSUALI

CAPITOLO I- L’ACCERTAMENTO: DISPOSIZIONI GENERALI Le fonti Il legislatore delegato, che si prestava a dare attuazione alla legge delega n. 300/2000 ha ideato un procedimento di accertamento autonomo e parallelo al già esistente procedimento penale: in questo modo si è dato vita ad un “microcodice” che si è affiancato a quello di rito ordinario, con un appesantimento delle forme che non favorirà di certo la celebrazione dei processi nel rispetto di una loro “ragionevole durata”. Art. 34.Disposizioni processuali applicabili 1. Per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di questo capo nonche', in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. ↓ Ai sensi dell’art. 34, a regolare il procedimento per accertare gli “illeciti amministrativi dipendenti da reato” si osservano nell’ordine: a) Le norme del Capo III del d.lgs. 231/2001 b) Le “disposizioni del codice di procedura penale” c) Le disposizioni del d.lgs. 29 luglio 1989 n. 271: e cioè le “norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p.” Dubbi di costituzionalità: il legislatore delegato, nell’identificare le fonti della disciplina del procedimento di accertamento e di applicazione, pare non abbia tenuto conto della disposizione contenuta nell’art. 11 lett. q della legge delega, la quale conteneva soltanto: -la previsione del simultaneus processus: “le sanzioni amministrative a carico degli enti sono applicate dal giudice competente a conoscere del reato”; -il vincolo per cui “per il procedimento di accertamento della responsabilità si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del cpp, assicurando l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale”. Stanti le regole di cui agli articoli 76 e 77 Cost., il legislatore delegato avrebbe dovuto elaborare le norme del procedimento di accertamento de quo utilizzando le già vigenti norme del cpp; al contrario egli ha scritto apposite norme indipendenti ed autonome rispetto alle prime e che sono andate a costituire il Capo III. L’equiparazione dell’ente all’imputato Art. 35. Estensione della disciplina relativa all'imputato 1. All'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili. ↓ Il legislatore ha voluto precisare inequivocabilmente che l’ente al centro del processo di cognizione relativo alla sussistenza dei presupposti per una sanzione amministrativa deve avere gli stessi poteri, doveri, diritti ed oneri, garanzie e limiti riconosciuti all’imputato per l’accertamento del fatto del reato presupposto (in conformità al criterio direttivo di cui all’art. 11 lett. q della legge delega n. 300/2000 con cui il legislatore delegante richiedeva che fosse assicurata “l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale”). Quesito: dal momento che l’imputato è persona fisica, mentre i soggetti destinatari della disciplina contenuta nel decreto sono persone giuridiche, società e associazioni anche prive di personalità giuridica, ci si chiede se siano applicabili all’ente anche le disposizioni che presuppongono ed implicano la fisicità

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del soggetto interessato (come il riconoscimento di persona, il confronto, l’interrogatorio). Secondo la recente giurisprudenza deve accogliersi la soluzione affermativa. Le attribuzioni del giudice Art. 36. Attribuzioni del giudice penale 1. La competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell'ente appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono. ↓ conseguenza: la competenza del giudice per l’accertamento dell’illecito amministrativo implica anche la competenza del p.m. nella attivazione del suo potere di iniziativa (per le misure cautelari, per le annotazioni dell’illecito amministrativo, per l’informazione di garanzia e via di seguito). 2. Per il procedimento di accertamento dell'illecito amministrativo dell'ente si osservano le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l'illecito amministrativo dipende. ↓ Il legislatore ha scelto la via della connessione legale oggettiva tra l’accertamento del reato presupposto e l’accertamento della responsabilità amministrativa. Nei casi in cui l’accertamento dei reati presupposto e l’accertamento della fattispecie che fonda la responsabilità amministrativa si separano, soprattutto in funzione delle previsioni di cui agli artt. 8 e 38 del decreto, le forme che il giudice penale è tenuto a rispettare, anche per il solo accertamento della responsabilità amministrativa, sono quelle del processo penale ordinario: infatti l’accertamento di uno o più fatti di reato di cui agli artt. 24 ss. del decreto rappresenta un presupposto indefettibile per un’eventuale affermazione della responsabilità amministrativa degli enti, i cui organi apicali o esecutivi devono essersi resi responsabili di un fatto di reato in senso stretto tra quelli menzionati negli articoli di cui sopra.

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CAPITOLO II- IL SIMULTANEUS PROCESSUS E LE SUE DEROGHE Il d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, nel dare attuazione alla delega contenuta nell’art. 11 della legge 29 settembre 2000 n. 300, ha delineato un sistema di accertamento per la responsabilità, imperniato sulle dinamiche proprie del diritto penale: il rinvio generale alle norme del codice di rito “in quanto compatibili”, operato dall’art. 34 del decreto comporta: -la spettanza dell’accertamento alla giurisdizione penale (art. 36) -l’equiparazione della posizione processuale dell’ente a quella dell’imputato (art. 35) Il sistema presenta, tuttavia, alcune peculiarità derivanti: • Dall’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente rispetto a quella addebitabile all’autore del reato presupposto nei limiti indicati dall’art. 8; • Dal tentativo di fissare una simultaneità di accertamento delle distinte regiudicande, in tutti i casi in cui sia possibile e non sia contrastante con le esigenze proprie della giurisdizione penale. Il regime di procedibilità dell’illecito amministra tivo derivante da reato Il principio dell’autonomia di responsabilità dell’ente trova la sua più evidente deroga nella norma dell’art. 37 : Art. 37. Casi di improcedibilità. 1.Non si procede all'accertamento dell'illecito amministrativo dell'ente quando l'azione penale non può essere iniziata o proseguita nei confronti dell'autore del reato per la mancanza di una condizione di procedibilità. ↓ In esso si prevede un ostacolo di natura processuale all’accertamento dell’illecito amministrativo tutte le volte in cui non possa essere esercitata l’azione penale in capo alla persona fisica per carenza di una condizione di procedibilità, con l’inevitabile ripercussione sull’autonomia accertativa del giudice sulla responsabilità dell’ente collettivo. Se, in altri termini, non vi può essere rituale instaurazione del giudizio penale, anche l’azione destinata a verificare i presupposti della punibilità dell’ente deve ritenersi ad ogni effetto inutiliter data, in quanto minata alle fondamenta; ratio: il legislatore vuole evitare che il compimento di attività di indagine o processuali possa incidere sul bilancio dell’amministrazione della giustizia, senza giungere ad un risultato concreto a causa dell’ostacolo predisposto a tutela degli interessi del reo e non rimosso mediante gli strumenti approntati dal codice di rito. Il progressivo ampliamento del catalogo dei reati “presupposto” ha determinato una crescente rilevanza della disciplina contenuta nell’art. 37, in virtù dell’introduzione di ipotesi di responsabilità amministrativa dipendente da delitti punibili a querela della persona offesa dal reato (si pensi alla previsione dell’art. 25 –ter, che immette nel sistema nuove ipotesi di illecito conseguenti alla commissione di reati societari caratterizzati da un regime di procedibilità non officiosa). La richiesta di procedimento e i reati commessi all’estero L’art. 4 del d.lgs. n. 231/2001 stabilisce che, ricorrendo i casi e le condizioni previsti dagli artt. 7, 8, 9, 10 del c.p., gli enti aventi la sede principale nel territorio dello Stato rispondono anche dei reati commessi all’estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto”; laddove ricorra una di queste ipotesi, qualora la legge preveda che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della Giustizia, si potrà procedere contro l’ente “solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest’ultimo”. ↓ Si delinea in questo modo un singolare doppio regime di procedibilità, che impone un’autonoma manifestazione di volontà punitiva dell’ente, distinta rispetto a quella che riguarda la persona fisica.

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La valutazione circa la procedibilità dovrà essere effettuata in primo luogo dal p.m. e, ad ogni modo, dal giudice competente per la fase, potendo dar origine a diversi epiloghi. o L’unico momento nel quale il p.m. procede autonomamente alla valutazione della sussistenza delle condizioni di procedibilità legalmente richieste si ha nel corso delle indagini preliminari: nel caso in cui il p.m. riscontri il difetto della suddetta condizione dovrà emettere decreto motivato di archiviazione degli atti , a norma dell’art. 58, comunicandolo al procuratore generale presso la Corte d’appello. o L’improcedibilità potrà essere poi dichiarata a conclusione dell’udienza preliminare mediante la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere per “improcedibilità della sanzione amministrativa” o Inoltre, il giudice del dibattimento, una volta ricevuti gli atti relativi al procedimento può pronunciare sentenza di proscioglimento per carenza di una condizione di procedibilità o Quando invece la carenza della condizione viene accertata soltanto a conclusione del dibattimento, il giudice dovrà pronunciare sentenza di non doversi procedere a norma dell’art. 67, indicandone la causa nel dispositivo. Deve ritenersi applicabile, per l’intera fase del giudizio, la previsione normativa di cui all’art. 129 cpp che impone al giudice, in ogni stato e grado del processo, l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità. E’ stato inoltre puntualmente precisato che l’assenza della condizione di procedibilità non è da sola sufficiente ad evitare l’accertamento dell’illecito amministrativo, risultando necessaria una sentenza di proscioglimento che accerti detta situazione ovvero un decreto motivato di archiviazione. Per quanto concerne l’eventuale reiterabilità della contestazione dell’illecito amministrativo all’ente allorché il giudice abbia interrotto l’accertamento in virtù della carenza di una condizione del procedere solo in seguito sopravvenuta sia ha la piena operatività dell’art. 345 cpp. Inoltre, a seguito di una prima declaratoria di improcedibilità, il p.m. o la polizia giudiziaria delegata potranno compiere, in base al disposto dell’art. 346 cpp, tutti gli atti di indagine preli minare necessari ad assicurare le fonti di prova e, qualora vi sia pericolo nel ritardo, il giudice funzionalmente competente (gip) potrà disporre l’incidente probatorio nei casi e secondo le forme indicate dall’art. 392 cpp. Le nuove ipotesi di illecito previste dall’art. 25-septies La l. 3 agosto 2007 n. 123, nel dettare alcune disposizioni per la riforma della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, ha introdotto nuove ipotesi di responsabilità punitiva degli enti derivanti da reato. Art. 25-septies. Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro 1.In relazione ai delitti di cui agli articoli 589 e 590, terzo comma, del codice penale, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sui lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a mille quote. 2.Nel caso di condanna per uno dei delitti di cui al comma 1, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. ↓ La risposta sanzionatoria è fatta dipendere dalla consumazione di un delitto contro la persona nella sua forma aggravata: il rinvio è all’art. 589 co. 2 c.p. Il reato presupposto soggiace ad un regime di procedibilità d’ufficio, che determina (proprio ex art. 37) l’assenza di una condizione del procedere nei confronti dell’ente collettivo coinvolto in quanto “responsabile”, secondo i canoni dettati dal decreto n. 231/2001, della violazione della norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro.

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Riunione e separazione dei procedimenti Art. 38. Riunione e separazione dei procedimenti 1.Il procedimento per l'illecito amministrativo dell'ente è riunito al procedimento penale instaurato nei confronti dell'autore del reato da cui l'illecito dipende. ↓ Il co. 1 stabilisce il principio del simultaneus processus: la regola è quella della riunione obbligatoria dei due procedimenti, in ragione dell’inscindibile nesso di correlazione tra le distinte res iudicandae. 2.Si procede separatamente per l'illecito amministrativo dell'ente soltanto quando: a. è stata ordinata la sospensione del procedimento ai sensi dell'articolo 71 del codice di procedura penale; b.il procedimento è stato definito con il giudizio abbreviato o con l'applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, ovvero è stato emesso il decreto penale di condanna; c. l'osservanza delle disposizioni processuali lo rende necessario. Ulteriori limiti alla “riunione obbligatoria” ei procedimnti possono essere individuati nell’art. 8 del decreto: in forza del principio dell’autonomia di accertamento della responsabilità dell’ente è stabilito che lo stesso possa rispondere per la violazione amministrativa anche nel caso in cui l’autore del reato non sia stato identificato ovvero non sia imputabile secondo le previsioni contenute nel c.p. Infine l’art. 8 lett. b permette di individuare altre ipotesi in cui l’accertamento della responsabilità dell’ente è destinato a proseguire separatamente, a seguito della definizione del giudizio concernente la commissione del reato presupposto: si tratta dei casi in cui, nel corso del processo penale, venga pronunciato un provvedimento che dichiari l’estinzione del reato per causa diversa dall’amnistia.

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CAPITOLO III- PARTECIPAZIONE ED ASSISTENZA DELL’ENTE Art. 39. Rappresentanza dell'ente 1.L'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. ↓ in questo caso infatti si configura un “conflitto di interessi” tra la persona giuridica e il medesimo rappresentante legale, in quanto l’ente al fine di escludere la propria responsabilità penale deve provare come quest’ultimo abbia agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”, ovvero abbia “commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione” adottati proprio per prevenire i reati della specie di quello verificatosi. In presenza di tale situazione di incompatibilità, l’ente che voglia partecipare ugualmente al procedimento dovrà nominare un nuovo rappresentante legale ovvero un rappresentante per il processo con una procura speciale. Inoltre, non può escludersi che l’ente al quale sia contestato l’illecito amministrativo ai sensi dell’art. 59 sia citato, allo stesso tempo, quale responsabile civile ovvero quale civilmente obbligato per la pena pecuniaria per il reato presupposto: in questi casi la costituzione sarà unitaria, purché risponda a tutti i requisiti rispettivamente richiesti dagli artt. 84 cpp e 39 (tipicamente però il verificarsi dei rispettivi presupposti per l’intervento avverrà in momenti diversi del procedimento, con la conseguente necessità di dichiarazioni formali autonome). 2.L'ente che intende partecipare al procedimento si costituisce depositando nella cancelleria dell'autorità giudiziaria procedente una dichiarazione contenente a pena di inammissibilità: a. la denominazione dell'ente e le generalità del suo legale rappresentante; b.il nome ed il cognome del difensore e l'indicazione della procura; c. la sottoscrizione del difensore; d.la dichiarazione o l'elezione di domicilio. 3.La procura, conferita nelle forme previste dall'articolo 100, comma 1, del codice di procedura penale, è depositata nella segreteria del pubblico ministero o nella cancelleria del giudice ovvero è presentata in udienza unitamente alla dichiarazione di cui al comma 2. ↓ conseguenze del richiamo all’art. 100 cpp: -è esclusa la possibilità di una procura speciale in calce o a margine della dichiarazione di costituzione, risultando necessario un apposito atto separato -alla persona giuridica sembra attribuita, al pari del responsabile civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la scelta di un unico difensore (ciò sarebbe però in contrasto con il principio dell’estensione all’ente delle garanzie dell’imputato, che ha invece la possibilità di nominarne 2). 4.Quando non compare il legale rappresentante, l'ente costituito è rappresentato dal difensore. ↓ L’ente, in altri termini, si considera presente, in particolare, per gli avvisi dati in udienza e la pubblicazione della pronuncia conclusiva del giudizio. Qualora l’ente non nomini un difensore di fiducia o ne rimanga privo, sarà assistito da un difensore d’ufficio designato dall’autorità procedente ai sensi dell’art. 40 del decreto. Si applicano anche alla persona giuridica, oltre alle ordinarie regole codicistiche in materia, l’istituto dell’informazione all’indagato sul diritto di difesa di cui all’art. 369 –bis cpp. Si ritiene infine applicabile all’ente, in attesa di un intervento legislativo, l’istituto del gratuito patrocinio.

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Art. 41. Contumacia dell'ente 1.L'ente che non si costituisce nel processo è dichiarato contumace. In questo modo l’ente potrà scegliere modalità e tempi della partecipazione, costituendosi anche in un momento successivo alla declaratoria di contumacia, dovendosi revocare in tal caso la relativa ordinanza. La verifica circa la volontà dell’ente a di non comparire e costituirsi deve essere effettuata con attenzione dal giudice, secondo i parametri dettati dagli artt. 420 ss cpp, applicabili nel loro complesso. Art. 42. Vicende modificative dell'ente nel corso del processo 1.Nel caso di trasformazione, di fusione o di scissione dell'ente originariamente responsabile, il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova, depositando la dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2. Tale disposizione appare lacunosa nella parte in cui essa non impone oneri informativi all’autorità giudiziaria né prevede adeguati meccanismi sospensivi che consentono all’ente medesimo di ponderare meglio le strategie difensive. Art. 43. Notificazioni all'ente 1.Per la prima notificazione all'ente si osservano le disposizioni dell'articolo 154, comma 3, del codice di procedura penale. 2.Sono comunque valide le notificazioni eseguite mediante consegna al legale rappresentante, anche se imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo. 3.Se l'ente ha dichiarato o eletto domicilio nella dichiarazione di cui all'articolo 39 o in altro atto comunicato all'autorità giudiziaria, le notificazioni sono eseguite ai sensi dell'articolo 161 del codice di procedura penale. 4.Se non è possibile eseguire le notificazioni nei modi previsti dai commi precedenti, l'autorità giudiziaria dispone nuove ricerche. Qualora le ricerche non diano esito positivo, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sospende il procedimento.

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CAPITOLO IV- LE MISURE CAUTELARI Secondo la Suprema Corte le misure cautelari non possono essere applicate alle imprese individuali, ma solo agli enti collettivi. Inoltre,se da un lato la disciplina del decreto si applica agli enti stranieri che operano in Italia (indipendentemente dall’esistenza o meno nel paese di appartenenza dell’ente, di norme che regolino in modo analogo la medesima materia), dall’altro lato si è affermato che sussiste la giurisdizione italiana nell’ipotesi in cui l’ente con sede solo all’estero commetta in Italia uno dei reati di cui agli artt. 24 ss. Art. 45. Applicazione delle misure cautelari 1.Quando sussistono “gravi indizi” per ritenere la sussistenza della responsabilità dell'ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono “fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”, il pubblico ministero può richiedere l'applicazione quale misura cautelare di una delle sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, presentando al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, compresi quelli a favore dell'ente e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. ↓ Le sanzioni interdittive di cui all’art. 9.2 sono: a-l’interdizione dall’esercizio dell’attività b-la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito c-il divieto si contrattare con la p.a. d-l’esclusione dalle agevolazioni, finanziamenti, contributi e sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi e-il divieto di pubblicizzare beni o servizi Le sanzioni interdittive di cui alle lettere a e b, non possono essere applicate nei confronti degli enti creditizi, delle SIM, delle SGR e delle SICAV né alle imprese di assicurazione e di riassicurazione. Inoltre, le, misure interdittive non sono applicabili nei confronti dell’ente se, prima del provvedimento cautelare, questo realizzi tutte le condotte riparatorie di cui all’art. 17, ossia: -risarcisce integralmente il danno ed elimina le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si adopera efficacemente in tal senso; -elimina le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione ex post di efficaci modelli di organizzazione. 2.Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza, in cui indica anche le modalità applicative della misura. Si osservano le disposizioni dell'articolo 292 del codice di procedura penale. 3.In luogo della misura cautelare interdittiva, il giudice può nominare un commissario giudiziale a norma dell'articolo 15 per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata. ↓ La nomina è effettuata dallo stesso giudice che dispone la prosecuzione dell’attività, il quale, oltre a motivare le ragioni ella scelta, deve indicare i compiti e i poteri del commissario tenendo conto della specifica attività in cui è stato commesso l’illecito.

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Art. 46. Criteri di scelta delle misure 1.Nel disporre le misure cautelari, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto(pr. di adeguatezza). 2.Ogni misura cautelare deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all'ente (pr. di proporzionalità). 3.L'interdizione dall'esercizio dell'attività può essere disposta in via cautelare soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata (pr. di gradualità). 4.Le misure cautelari non possono essere applicate congiuntamente. Art. 47. Giudice competente e procedimento di applicazione 1.Sull'applicazione e sulla revoca delle misure cautelari nonché sulle modifiche delle loro modalità esecutive, provvede il giudice che procede. Nel corso delle indagini provvede il giudice per le indagini preliminari. Si applicano altresì le disposizioni di cui all'articolo 91 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. 2.Se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell'udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all'ente e ai difensori. L'ente e i difensori sono altresì avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli elementi sui quali la stessa si fonda (contraddittorio anticipato). 3.Nell'udienza prevista dal comma 2, si osservano le forme dell'articolo 127, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 10, del codice di procedura penale; i termini previsti ai commi 1 e 2 del medesimo articolo sono ridotti rispettivamente a cinque e a tre giorni. Tra il deposito della richiesta e la data dell'udienza non può intercorrere un termine superiore a quindici giorni. Art. 48. Adempimenti esecutivi 1.L'ordinanza che dispone l'applicazione di una misura cautelare è notificata all'ente a cura del pubblico ministero. Art. 49. Sospensione delle misure cautelari 1.Le misure cautelari possono essere sospese se l'ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l'esclusione di sanzioni interdittive a norma dell'articolo 17. In tal caso, il giudice, sentito il pubblico ministero, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro a titolo di cauzione, dispone la sospensione della misura e indica il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui al medesimo articolo 17. Presupposti della sospensione: l’ente deve aver a) eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato, mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, o comunque si sia efficacemente adoperato in tal senso; c) messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca. 2.La cauzione consiste nel deposito presso la Cassa delle ammende di una somma di denaro che non può comunque essere inferiore alla metà della sanzione pecuniaria minima prevista per l'illecito per cui si procede. In luogo del deposito, è ammessa la prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione solidale. 3.Nel caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata o per la quale è stata data garanzia è devoluta alla Cassa delle ammende. 4.Se si realizzano le condizioni di cui all'articolo 17 il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell'ipoteca; la fideiussione prestata si estingue. Art. 50. Revoca e sostituzione delle misure cautelari

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1.Le misure cautelari sono revocate anche d'ufficio quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall'articolo 45 ovvero quando ricorrono le ipotesi previste dall'articolo 17. 2.Quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero la misura applicata non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere applicata in via definitiva, il giudice, su richiesta del pubblico ministero o dell'ente, sostituisce la misura con un'altra meno grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità meno gravose, anche stabilendo una minore durata. Art. 51. Durata massima delle misure cautelari 1.Nel disporre le misure cautelari il giudice ne determina la durata, che non può superare la metà del termine massimo indicato dall'articolo 13, comma 2. 2.Dopo la sentenza di condanna di primo grado, la durata della misura cautelare può avere la stessa durata della corrispondente sanzione applicata con la medesima sentenza. In ogni caso, la durata della misura cautelare non può superare i due terzi del termine massimo indicato dall'articolo 13, comma 2. 3.Il termine di durata delle misure cautelari decorre dalla data della notifica dell'ordinanza. 4.La durata delle misure cautelari è computata nella durata delle sanzioni applicate in via definitiva. Art. 52. Impugnazione dei provvedimenti che applicano le misure cautelari 1.Il pubblico ministero e l'ente, per mezzo del suo difensore, possono proporre appello contro tutti i provvedimenti in materia di misure cautelari, indicandone contestualmente i motivi . Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 322-bis, commi 1-bis e 2, del codice di procedura penale. ↓ L’appello, da presentare entro 10 giorni, non sospende l’esecuzione della misura; l’organo competente a decidere è il “tribunale della libertà”, ossia il tribunale, in composizione collegiale, del capoluogo della provincia ove ha sede il giudice che ha emanato l’ordinanza impugnata. Il procedimento si svolge in camera di consiglio secondo il modello di cui all’art. 127 cpp, con l’obbligo per il tribunale di decidere entro 20 giorni. 2.Contro il provvedimento emesso a norma del comma 1, il pubblico ministero e l'ente, per mezzo del suo difensore, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 325 del codice di procedura penale. Le cautele reali Art. 53. Sequestro preventivo 1. Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell'articolo 19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter (il decreto di sequestro è emesso “inaudita altera parte”), 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale (si applica in toto la disciplina codicistica che pone in alternativa i due mezzi di gravame del riesame del decreto di sequestro e dell’appello), in quanto applicabili. Ne sono presupposti il fumus boni iuris ed il periculum in mora: la verifica a cui è chiamato il giudice per ritenere integrato il periculum in mora è duplice, perché deve valutare se appaia probabile che si giunga ad una sentenza di condanna e se il bene costituisce il prezzo o il profitto del reato. Art. 54. Sequestro conservativo 1.Se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato, il pubblico ministero, in ogni stato e grado del processo di merito, chiede il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili dell'ente o delle somme o cose allo stesso dovute. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 316, comma 4, 317, 318, 319 e 320 del codice di procedura penale, in quanto applicabili -art. 316 co. 4: per effetto del sequestro i crediti anzidetti si considerano “privilegiati” rispetto ad ogni altro credito non privilegiato di data anteriore e ai crediti sorti posteriormente, salvi, in ogni caso, i privilegi stabiliti a garanzia del pagamento dei tributi.

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Gli effetti del sequestro conservativo cessano in seguito alla pronuncia di una delle sentenze di cui agli artt. 66 e 67. in questo caso la cancellazione della trascrizione del sequestro di immobili deve essere eseguita dal p.m., la cui eventuale inerzia è rimediabile con incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 317 co. 4 cpp. -artt. 317, 318, 319 e 320: il giudice che procede dispone il sequestro de quo con ordinanza su richiesta del p.m. inaudita altera parte (contrariamente a quanto previsto dall’art. 47 per le misure cautelari interdittive); il sequestro può disporsi in ogni stato e grado del processo di merito con l’esclusione (discutibile) della fase delle indagini preliminari; la cautela è eseguita dall’ufficiale giudiziario nelle forme prescritte dal cpc per il pignoramento.

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CAPITOLO V- LE INDAGINI PRELIMINARI. L’UDIENZA PRELIMINARE La fase investigativa per l’accertamento dell’attività amministrativa dell’ente è disciplinata dalle norme contenute negli articoli 55-58 del decreto. Il legislatore ha operato un indiretto rinvio alle disposizioni del codice di rito in quanto compatibili: ne risulta applicabile, quasi per intero, il complesso delle disposizioni contenute nel libro V del codice di procedura penale (con l’inevitabile esclusione delle disposizioni in materia di arresto in flagranza e fermo e, in generale, di tutte quelle previsioni che presuppongono la partecipazione della persona fisica al compimento dell’atto). Art. 55. Annotazione dell'illecito amministrativo 1.Il pubblico ministero che acquisisce la notizia dell'illecito amministrativo dipendente da reato commesso dall'ente annota immediatamente, nel registro di cui all'articolo 335 del codice di procedura penale, gli elementi identificativi dell'ente unitamente, ove possibile, alle generalità del suo legale rappresentante nonché il reato da cui dipende l'illecito. 2.L'annotazione di cui al comma 1 è comunicata all'ente o al suo difensore che ne faccia richiesta negli stessi limiti in cui è consentita la comunicazione delle iscrizioni della notizia di reato alla persona alla quale il reato è attribuito. In assenza di uno specifico riferimento normativo, si è posto il quesito dell’operatività della disciplina contenuta nell’art. 415 -bis cpp nell’ambito del procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti: secondo la dottrina il quesito deve essere risolto positivamente in quanto: -sono estese all’ente collettivo delle disposizioni processuali relative all’imputato -l’avviso di cui all’art. 415 –bis svolge una funzione di garanzia ↓ Ne deriva che, a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, l’ente potrà esercitare le prerogative difensive di cui all’art. 415 –bis e cioè: • Prendere visione ed estrarre copia degli atti depositati presso la segreteria del p.m. • Presentare memorie e produrre documenti • Depositare la documentazione relativa ad investigazioni del difensore • Chiedere al p.m. che vengano compiuti specifici atti di indagine • Fornire un contributo in termini di spontanee dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio nelle forme e nei limiti consentiti dall’art. 44. Art. 56. Termine per l'accertamento dell'illecito amministrativo nelle indagini preliminari 1.Il pubblico ministero procede all'accertamento dell'illecito amministrativo negli stessi termini previsti per le indagini preliminari relative al reato da cui dipende l'illecito stesso. 2.Il termine per l'accertamento dell'illecito amministrativo a carico dell'ente decorre dalla annotazione prevista dall'articolo 55. Il gip, su richiesta del p.m., potrà concedere le proroghe dei termini di investigazione nei casi previsti dall’art. 406 cpp. Il risultato dell’attività di indagine a carico dell’ente compiuta oltre i termini stabiliti dalla legge, eventualmente prorogati, non potrà essere utilizzato nel prosieguo del procedimento per l’accertamento della responsabilità amministrativa, operando la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 407 co. 3 cpp.

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Art. 57. Informazione di garanzia 1.L'informazione di garanzia inviata all'ente deve contenere l'invito a dichiarare ovvero eleggere domicilio per le notificazioni nonché l'avvertimento che per partecipare al procedimento deve depositare la dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2. Con tale previsione il legislatore non ha inteso derogare alle ordinarie regole dettate dall’art. 369 cpp, bensì ha voluto adattare l’istituto alle peculiarità del procedimento per l’accertamento della responsabilità dell’ente collettivo, integrandone i requisiti. Il p.m. dovrà provvedere all’adempimento descritto dall’art. 57 in tutti i casi in cui debba procedere al compimento di un atto al quale il difensore ha diritto di assistere. Ai sensi dell’art. 39 co. 2 la dichiarazione da depositare al fine di poter prendere attivamente parte al procedimento dovrà contenere, a pena di inammissibilità, i requisiti descritti dalla norma citata, tra i quali assume particolare rilevanza, oltre che l’indicazione del legale rappresentante, proprio la dichiarazione o elezione di domicilio, essenziale per il buon fine delle notificazioni all’ente. In mancanza di un’espressa disposizione normativa, occorre verificare se possa essere estesa alla disciplina dell’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente la previsione contenuta nell’ art. 369 bis cpp, introdotta dalla l. 60/2001, riguardante l’informazione sul diritto di difesa, la cui notifica è prevista a pena di nullità degli atti successivi. La dottrina ha risolto la questione in senso affermativo, sostenendo la completa estensibilità all’ente delle disposizioni processuali che prevedono un apporto partecipativo della difesa a favore della persona sottoposta alle indagini (ovviamente il contenuto dell’avviso dovrà essere adattato al destinatario, dal momento che l’art. 369 bis contiene indicazioni certamente destinate alla persona fisica, incompatibili con la natura collettiva dell’ente). Art. 58. Archiviazione. 1. Se non procede alla contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59, il pubblico ministero emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d'appello. Il procuratore generale può svolgere gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contesta all'ente le violazioni amministrative conseguenti al reato entro sei mesi dalla comunicazione. Per quanto concerne i casi in cui il p.m. può procedere all’emissione del decreto motivato di archiviazione degli atti, nel silenzio della legge occorre procedere ad una lettura combinata del testo del d.lgs. 231/2001 e degli articoli 408 e 411 cpp. A tale proposito occorre distinguere tra : -le vicende che attengono all’accertamento del reato presupposto: quali le situazioni di improcedibilità dell’azione penale di cui agli art.. 4 e 37, i casi di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia cui l’ente non abbia rinunciato, il difetto di tipicità del fatto presupposto, l’ipotesi di abolitio criminis del reato presupposto per legge sopravvenuta o per declaratoria di illegittimità costituzionale; -le vicende riguardanti in maniera precipua l’illecito amministrativo: qualora si rilevi l’infondatezza della notizia dell’illecito amministrativo da reato, quando si sia perfezionato il termine di prescrizione della sanzione amministrativa di 5 anni decorrenti dalla data di commissione del fatto a norma dell’art. 22 co. 1, quando una legge successiva alla commissione dei fatti abbia espunto la fattispecie contestata dal catalogo dei reati presupposto, quando si rilevi il bis in idem sullo stesso illecito amministrativo. Art. 59. Contestazione dell'illecito amministrativo. 1.Quando non dispone l'archiviazione, il pubblico ministero contesta all'ente l'illecito amministrativo dipendente dal reato. La contestazione dell'illecito e' contenuta in uno degli atti indicati dall'articolo 405, comma 1, del codice di procedura penale.

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2.La contestazione contiene gli elementi identificativi dell'ente, l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l'applicazione delle sanzioni amministrative, con l'indicazione del reato da cui l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova . L’articolo non fa alcun riferimento esplicito all’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari previsto dall’art. 415 bis cpp, tuttavia l’opportunità che questa disposizione operi anche nell’ambito del processo agli enti si fonda essenzialmente su due argomenti: a) Da un punto di vista strutturale giocano un ruolo fondamentale sia l’art. 34 (che impone l’applicabilità delle disposizioni del cpp non incompatibili) sia l’art. 35 (che riconosce all’ente tutte le garanzie previste per l’imputato); b) Sotto il profilo della tutela delle garanzie, esiste la possibilità che il procedimento per l’illecito amministrativo si scinda dal processo a carico dell’autore del reato presupposto, con la conseguente necessità di garantire un’adeguata difesa anche alla persona giuridica e il pieno esercizio del diritto alla prova; deve ritenersi che questo sistema di garanzie non possa prescindere dall’avviso dell’ente della conclusione della indagini, qualora il p.m. non intenda procedere all’archiviazione del procedimento. Art. 60. Decadenza dalla contestazione. 1.Non può procedersi alla contestazione di cui all'articolo 59 quando il reato da cui dipende l'illecito amministrativo dell'ente e' estinto per prescrizione. Ratio: con tale previsione il legislatore ha voluto evitare sia la possibilità di accertamenti a carico dell’ente in ordine a fatti assai risalenti, sia l’eventualità che, nei procedimenti cumulativi per reato ed illecito amministrativo, il p.m. si trovi costretto, per contestare l’illecito extrapenale , ad “una forzata discovery anticipata con ricadute anche per la posizione dell’imputato”. L’udienza preliminare che segue alla contestazione dell’illecito amministrativo avvenuta mediante richiesta di rinvio a giudizio si svolge secondo le disposizioni processuali ordinarie, che trovano applicazione in tale contesto con il limite della compatibilità. Art. 61. Provvedimenti emessi nell'udienza preliminare. 1. Il giudice dell'udienza preliminare pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi di estinzione o di improcedibilità della sanzione amministrativa, ovvero quando l'illecito stesso non sussiste o gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere in giudizio la responsabilità dell'ente. Si applicano le disposizioni dell'articolo 426 del codice di procedura penale. 2. Il decreto che, a seguito dell'udienza preliminare, dispone il giudizio nei confronti dell'ente, contiene, a pena di nullità, la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente dal reato, con l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l'applicazione delle sanzioni e l'indicazione del reato da cui l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova nonché gli elementi identificativi dell'ente. Alla conclusione dell’udienza preliminare che si concretizza con l’emissione del decreto che dispone il giudizio segue la formazione del fascicolo del dibattimento secondo le regole dettate dall’art. 431 cpp.

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CAPITOLO VI- PROCEDIMENTI SPECIALI Disciplina applicabile La sezione VI del capo III del d.lgs. 231/2001 è interamente dedicata alla disciplina dei procedimenti speciali che possono innestarsi sull’iter di accertamento della responsabilità amministrativa degli enti; le tre norme ivi contenute (artt. 62, 63 e 64) costituiscono l’espressione di una variante eventuale allo svolgimento nelle forme ordinarie del giudizio susseguente alla contestazione descritta dall’art. 59. Art. 62. Giudizio abbreviato. 1. Per il giudizio abbreviato si osservano le disposizioni del titolo I del libro sesto del codice di procedura penale, in quanto applicabili. 2. Se manca l'udienza preliminare, si applicano, secondo i casi, le disposizioni degli articoli 555, comma 2, 557 e 558, comma 8. 3. La riduzione di cui all'articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale e' operata sulla durata della sanzione interdittiva e sull'ammontare della sanzione pecuniaria. 4. In ogni caso, il giudizio abbreviato non e' ammesso quando per l'illecito amministrativo e' prevista l'applicazione di una sanzione interdittiva in via definitiva. Art. 63. Applicazione della sanzione su richiesta. 1. L'applicazione all'ente della sanzione su richiesta e' ammessa se il giudizio nei confronti dell'imputato e' definito ovvero definibile a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale nonché in tutti i casi in cui per l'illecito amministrativo e' prevista la sola sanzione pecuniaria. Si osservano le disposizioni di cui al titolo II del libro sesto del codice di procedura penale, in quanto applicabili. 2. Nei casi in cui e' applicabile la sanzione su richiesta, la riduzione di cui all'articolo 444, comma 1, del codice di procedura penale e' operata sulla durata della sanzione interdittiva e sull'ammontare della sanzione pecuniaria. 3. Il giudice, se ritiene che debba essere applicata una sanzione interdittiva in via definitiva, rigetta la richiesta (è l’unica causa di esclusione del rito). Tale procedimento deflativo del giudizio è ammesso quando: -l’illecito è punito con la sola sanzione pecuniaria -l’autore del reato presupposto ha ottenuto l’applicazione di una pena concordata ovvero è imputato per un fatto in relazione al quale tale definizione del procedimento sia possibile. Art. 64. Procedimento per decreto. 1. Il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare la sola sanzione pecuniaria, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro sei mesi dalla data dell'annotazione dell'illecito amministrativo nel registro di cui all'articolo 55 e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto di applicazione della sanzione pecuniaria, indicandone la misura. 2. Il pubblico ministero può chiedere l'applicazione di una sanzione pecuniaria diminuita sino alla metà rispetto al minimo dell'importo applicabile. 3. Il giudice, quando non accoglie la richiesta, se non deve pronunciare sentenza di esclusione della responsabilità dell'ente, restituisce gli atti al pubblico ministero. 4. Si osservano le disposizioni del titolo V del libro sesto e dell'articolo 557 del codice di procedura penale, in quanto compatibili.

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CAPITOLO VII- IL GIUDIZIO Così come per le indagini preliminari e per l’udienza preliinare, anche per il giudizio il legislatore delegato è stato avaro di indicazioni specifiche, limitandosi a dettare poche norme per lo più dedicate alla fase conclusiva del dibattimento. Trovano dunque applicazione: • L’ art. 34 d.lgs. 231/2001 che contiene il rinvio alle disposizioni dettate dal Libro VII del cpp (artt. 465 ss. cpp) previa valutazione della compatibilità con le peculiari caratteristiche dell’accertamento. • L’ art. 35 d.lgs. 231/2001 che dispone l’estensione dei diritti dell’imputato in favore dell’ente collettivo. • L’ art. 44 d.lgs. 231/2001 “Incompatibilità con l’ufficio di testimone”. 1. Non può essere assunta come testimone: a) la persona imputata del reato da cui dipende l'illecito amministrativo; b) la persona che rappresenta l'ente indicata nella dichiarazione di cui all'articolo 39, comma 2, e che rivestiva tale funzione anche al momento della commissione del reato. 2. Nel caso di incompatibilità la persona che rappresenta l'ente può essere interrogata ed esaminata nelle forme, con i limiti e con gli effetti previsti per l'interrogatorio e per l'esame della persona imputata in un procedimento connesso. • In giudizio si applicano le disposizioni di cui agli artt. 39 (costituzione e rappresentanza dell’ente) e 41 (contumacia) del decreto. Il giudizio Art. 65. Termine per provvedere alla riparazione delle conseguenze del reato. 1. Prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, il giudice può disporre la sospensione del processo se l'ente chiede di provvedere alle attività di cui all'articolo 17 e dimostra di essere stato nell'impossibilita' di effettuarle prima. In tal caso, il giudice, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro a titolo di cauzione. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 49. ↓ Inoltre egli fissa un termine entro il quale devono svolgersi le attività riparatorie, nonché la data della nuova udienza (durante questo termine restano sospesi il processo, le misure cautelari disposte, ma non i termini di prescrizione del reato presupposto ex art. 15 cp); dal combinato disposto degli articoli 49 e 65 tale termine non sembra prorogabile salvo cause di inadempienza no imputabili all’ente medesimo. Nel silenzio della norma sembra infine da escludere l’impugnabilità in via diretta dell’ordinanza sospensiva o di rigetto del giudice, potendosi richiamare piuttosto la disciplina generale di cui all’art. 586 cpp. Art. 66. Sentenza di esclusione della responsabilità dell'ente. 1. Se l'illecito amministrativo contestato all'ente non sussiste, il giudice lo dichiara con sentenza, indicandone la causa nel dispositivo. Allo stesso modo procede quando manca, e' insufficiente o e' contraddittoria la prova dell'illecito amministrativo. Art. 67. Sentenza di non doversi procedere. 1. Il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere nei casi previsti dall'articolo 60 e quando la sanzione e' estinta per prescrizione.

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Art. 68. Provvedimenti sulle misure cautelari. 1. Quando pronuncia una delle sentenza di cui agli articoli 66 e 67, il giudice dichiara la cessazione delle misure cautelari eventualmente disposte. Art. 69. Sentenza di condanna. 1. Se l'ente risulta responsabile dell'illecito amministrativo contestato il giudice applica le sanzioni previste dalla legge e lo condanna al pagamento delle spese processuali. 2. In caso di applicazione delle sanzioni interdittive la sentenza deve sempre indicare l'attività o le strutture oggetto della sanzione. Art. 70. Sentenza in caso di vicende modificative dell'ente. 1. Nel caso di trasformazione, fusione o scissione dell'ente responsabile, il giudice da' atto nel dispositivo che la sentenza e' pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiari della scissione, indicando l'ente originariamente responsabile. 2. La sentenza pronunciata nei confronti dell'ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti indicati nel comma 1.

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CAPITOLO VIII- IL SISTEMA DELLE IMPUGNAZIONI Sono due le linee guida che hanno ispirato la disciplina dei gravami: - evitare, fin dove possibile, l’insorgere di un possibile contrasto di giudicati tra l’accertamento penale e quello relativo all’illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato; - garantire all’ente a prescindere dalle facoltà che l’ordinamento riconosce all’imputato del reato presupposto dell’illecito amministrativo, la più ampia possibilità di impugnare pronunce applicative delle situazioni interdittive. Art. 71. Impugnazioni delle sentenze relative alla responsabilità amministrativa dell'ente. 1.Contro la sentenza che applica sanzioni amministrative diverse da quelle interdittive l'ente può proporre impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo. 2.Contro la sentenza che applica una o più sanzioni interdittive, l'ente può sempre proporre appello anche se questo non è ammesso per l'imputato del reato dal quale dipende l'illecito amministrativo. 3.Contro la sentenza che riguarda l'illecito amministrativo il pubblico ministero può proporre le stesse impugnazioni consentite per il reato da cui l'illecito amministrativo dipende. Art. 72. Estensione delle impugnazioni. 1. Le impugnazioni proposte dall'imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo e dall'ente, giovano, rispettivamente, all'ente e all'imputato, purché non fondate su motivi esclusivamente personali. Art. 73. Revisione delle sentenze. 1. Alle sentenze pronunciate nei confronti dell'ente si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del titolo IV del libro nono del codice di procedura penale ad eccezione degli articoli 643, 644, 645, 646 e 647 (in tema di errore giudiziario). Per i casi di revisione occorre richiamare l’art. 630 cpp; la procedura può attivarsi se: o i fatti posti a fondamento della condanna sono inconciliabili con altre decisioni; o la condanna dell’ente è conseguenza di una decisione pregiudiziale revocata; o è sopraggiunto un quid novi probatorio non valutabile in precedenza; o la sentenza è frutto di provata condotta illecita. L’organo competente è la Corte d’Appello che, ritenuta la richiesta ammissibile, procede nelle forme di cui all’art. 636 cpp. La sentenza di accoglimento della domanda di revisione dovrà pronunciarsi nelle forme peculiari degli artt. 66 e 67.

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CAPITOLO IX- LA FASE ESECUTIVA La disciplina dell’esecuzione è racchiusa negli artt. 74-81, fermo restando il rinvio e l’operatività dell’art. 34. Art. 74. Giudice dell'esecuzione. 1. Competente a conoscere dell'esecuzione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e' il giudice indicato nell'articolo 665 del codice di procedura penale. 2. Il giudice indicato nel comma 1 e' pure competente per i provvedimenti relativi: a)alla cessazione dell'esecuzione delle sanzioni nei casi previsti dall'articolo 3; b)alla cessazione dell'esecuzione nei casi di estinzione del reato per amnistia; c)alla determinazione della sanzione amministrativa applicabile nei casi previsti dall'articolo 21, commi 1 e 2; d)alla confisca e alla restituzione delle cose sequestrate. 3. Nel procedimento di esecuzione si osservano le disposizioni di cui all'articolo 666 del codice di procedura penale, in quanto applicabili. Nei casi previsti dal comma 2, lettere b) e d) si osservano le disposizioni di cui all'articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale. 4. Quando e' applicata l'interdizione dall'esercizio dell'attività, il giudice, su richiesta dell'ente, può autorizzare il compimento di atti di gestione ordinaria che non comportino la prosecuzione dell'attività interdetta. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale. Art. 75. Esecuzione delle sanzioni pecuniarie. 1. Le condanne al pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie sono eseguite nei modi stabiliti per l'esecuzione delle pene pecuniarie. 2. Per il pagamento rateale, per la dilazione del pagamento e per la sospensione della riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie si osservano le disposizioni di cui agli articoli 19 e 19-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come modificato dall'articolo 7 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46. Art. 76. Pubblicazione della sentenza applicativa della condanna. 1. La pubblicazione della sentenza di condanna e' eseguita a spese dell'ente nei cui confronti e' stata applicata la sanzione. Si osservano le disposizioni di cui all'articolo 694, commi 2, 3 e 4, del codice di procedura penale. Art. 77. Esecuzione delle sanzioni interdittive. 1. L'estratto della sentenza che ha disposto l'applicazione di una sanzione interdittiva e' notificata all'ente a cura del pubblico ministero. 2. Ai fini della decorrenza del termine di durata delle sanzioni interdittive si ha riguardo alla data della notificazione. Art. 78. Conversione delle sanzioni interdittive. 1. L'ente che ha posto in essere tardivamente le condotte di cui all'articolo 17, entro venti giorni dalla notifica dell'estratto della sentenza, può richiedere la conversione della sanzione amministrativa interdittiva in sanzione pecuniaria. 2. La richiesta e' presentata al giudice dell'esecuzione e deve contenere la documentazione attestante l'avvenuta esecuzione degli adempimenti di cui all'articolo 17. 3. Entro dieci giorni dalla presentazione della richiesta, il giudice fissa l'udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e ai difensori; se la richiesta non appare manifestamente infondata, il giudice può sospendere l'esecuzione della sanzione. La sospensione e' disposta con decreto motivato revocabile. 4. Se accoglie la richiesta il giudice, con ordinanza, converte le sanzioni interdittive, determinando l'importo della sanzione pecuniaria in una somma non inferiore a quella già applicata in sentenza e non superiore al doppio della stessa. Nel determinare l'importo della somma il giudice tiene conto della gravità dell'illecito ritenuto in sentenza e delle ragioni che hanno determinato il tardivo adempimento delle condizioni di cui all'articolo 17.

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Art. 79. Nomina del commissario giudiziale e confisca del profitto. 1. Quando deve essere eseguita la sentenza che dispone la prosecuzione dell'attività dell'ente ai sensi dell'articolo 15, la nomina del commissario giudiziale e' richiesta dal pubblico ministero al giudice dell'esecuzione, il quale vi provvede senza formalità. 2. Il commissario riferisce ogni tre mesi al giudice dell'esecuzione e al pubblico ministero sull'andamento della gestione e, terminato l'incarico, trasmette al giudice una relazione sull'attività svolta nella quale rende conto della gestione, indicando altresì l'entità del profitto da sottoporre a confisca e le modalità con le quali sono stati attuati i modelli organizzativi. 3. Il giudice decide sulla confisca con le forme dell'articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale. 4. Le spese relative all'attività svolta dal commissario e al suo compenso sono a carico dell'ente. Art. 80. Anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative. 1. Presso il casellario giudiziale centrale e' istituita l'anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative di cui al capo II. 2. Nell'anagrafe sono iscritti, per estratto, le sentenze e i decreti che hanno applicato agli enti sanzioni amministrative dipendenti da reato appena divenuti irrevocabili nonché i provvedimenti emessi dagli organi giurisdizionali dell'esecuzione non piu' soggetti ad impugnazione che riguardano le sanzioni amministrative. 3. Le iscrizioni dell'anagrafe sono eliminate trascorsi cinque anni dal giorno in cui hanno avuto esecuzione se e' stata applicata la sanzione pecuniaria o dieci anni se e' stata applicata una sanzione diversa sempre che nei periodi indicati non e' stato commesso un ulteriore illecito amministrativo. Art. 81. Certificati dell'anagrafe. 1. Ogni organo avente giurisdizione, ai sensi del presente decreto legislativo, in ordine all'illecito amministrativo dipendente da reato ha diritto di ottenere, per ragioni di giustizia, il certificato di tutte le iscrizioni esistenti nei confronti dell'ente. Uguale diritto appartiene a tutte le pubbliche amministrazioni e agli enti incaricati di pubblici servizi quando il certificato e' necessario per provvedere ad un atto delle loro funzioni, in relazione all'ente cui il certificato stesso si riferisce. 2. Il pubblico ministero può richiedere, per ragioni di giustizia, il predetto certificato dell'ente sottoposto a procedimento di accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato. 3. L'ente al quale le iscrizioni si riferiscono ha diritto di ottenere il relativo certificato senza motivare la domanda. 4. Nel certificato di cui al comma 3 non sono riportate le iscrizioni relative alle sentenze di applicazione della sanzione su richiesta e ai decreti di applicazione della sanzione pecuniaria. Art. 82. Questioni concernenti le iscrizioni e i certificati. 1. Sulle questioni relative alle iscrizioni e ai certificati dell'anagrafe e' competente il tribunale di Roma, che decide in composizione monocratica osservando le disposizioni di cui all'articolo 78.