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1 PRIMO LEVI ELENCO RACCONTI PER L‘ESAME da Storie naturali I mnemagoghi Angelica Farfalla L'amico dell'uomo L'ordine a buon mercato Alcune applicazioni del Mimete Versamina La misura della bellezza Quaestio de Centauris Il sesto giorno Trattamento di quiescenza da Vizio di forma Protezione Verso occidente Procacciatori d'affari Lumini rossi Vilmy Knall Nel Parco Il fabbro di se stesso Lo psicofante LA FIGURA INTELLETTUALE, LA PERSONALITÀ LETTERARIA ANFIBIO-CENTAURO Io sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti su centauri). E mi pare che l‘ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. L‘altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli. E‘ una spaccatura paranoica (come quella credo, di un Gadda, di un Sinisgalli, di un Solmi). (Primo Levi si sente scrittore dimezzato, intervista di Edoardo Fadini, «l‘Unità», 4 gennaio 1966) EBRAISMO Mi hanno fatto diventare ebreo. Prima di Hitler io ero un ragazzo borghese italiano. L‘esperienza delle leggi razziali mi ha aiutato a riconoscere tra i molti filoni della tradizione ebraica, alcuni che mi piacevano (Ebreo fino a un certo punto, intervista di Edith Bruck, 269) L‘ESIGENZA DEL RACCONTO Alzarsi Sognavamo nelle notti feroci Sogni densi e violenti Sognati con anima e corpo: Tornare; mangiare; raccontare. Finché suonava breve e sommesso Il comando dell'alba: «Wstawać»; E si spezzava in petto il cuore. Ora abbiamo ritrovato la casa, Il nostro ventre è sazio,

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PRIMO LEVI

ELENCO RACCONTI PER L‘ESAME

da Storie naturali

I mnemagoghi

Angelica Farfalla

L'amico dell'uomo

L'ordine a buon mercato

Alcune applicazioni del Mimete

Versamina

La misura della bellezza

Quaestio de Centauris

Il sesto giorno

Trattamento di quiescenza

da Vizio di forma

Protezione

Verso occidente

Procacciatori d'affari

Lumini rossi

Vilmy

Knall

Nel Parco

Il fabbro di se stesso

Lo psicofante

LA FIGURA INTELLETTUALE, LA PERSONALITÀ LETTERARIA

ANFIBIO-CENTAURO

Io sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti su centauri). E mi pare che

l‘ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà. Una è

quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. L‘altra, invece, è totalmente distaccata dalla

prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e

presenti. Sono proprio due mezzi cervelli. E‘ una spaccatura paranoica (come quella credo, di un

Gadda, di un Sinisgalli, di un Solmi). (Primo Levi si sente scrittore dimezzato, intervista di Edoardo

Fadini, «l‘Unità», 4 gennaio 1966)

EBRAISMO

Mi hanno fatto diventare ebreo. Prima di Hitler io ero un ragazzo borghese italiano. L‘esperienza

delle leggi razziali mi ha aiutato a riconoscere tra i molti filoni della tradizione ebraica, alcuni che

mi piacevano (Ebreo fino a un certo punto, intervista di Edith Bruck, 269)

L‘ESIGENZA DEL RACCONTO

Alzarsi

Sognavamo nelle notti feroci

Sogni densi e violenti

Sognati con anima e corpo:

Tornare; mangiare; raccontare.

Finché suonava breve e sommesso

Il comando dell'alba:

«Wstawać»;

E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,

Il nostro ventre è sazio,

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Abbiamo finito di raccontare.

E‘ tempo. Presto udremo ancora

Il comando straniero:

«Wstawać».

11 gennaio 1946

COSTRUITO PER RACCONTARE

Direi che io sono costruito così: mi piace raccontare le mie cose. E infatti le racconto, in maggior

misura quelle che mi sono successe veramente, o anche quelle che mi vengono raccontate

(conversazione con Grassano, 178)

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IL NARRATORE TESTIMONE. IL MONDO DEL CAMPO

Una rete di storie

[il polacco Resnyk] Mi ha raccontato la sua storia, e oggi l‘ho dimenticata, ma era certo una storia

dolorosa, crudele e commovente; ché tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie,

tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera e

sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina e sono semplici e incomprensibili come

le storie della Bibbia. Ma non sono anch‘esse storie di una nuova Bibbia? (SQ, Il lavoro, 81)

In quale realtà?

Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che

queste cose sono realmente accadute (SQ, Esame di chimica, 131)

Due cartine e un prefazione. Dall‘edizione scolastica di Se questo è un uomo, presentazione e note

a cura dell‘autore, Torino, Einaudi, 1973, Letture per la scuola media, 24)

Prefazione 1972 ai giovani

Quando questo libro è stato scritto, nel 1946, molte cose sui Lager non si sapevano ancora. Non si

sapeva che solo ad Auschwitz erano stati sterminati con meticolosità scientifica milioni di uomini,

donne e bambini, e che erano stati «utilizzati» non solo i loro averi e i loro abiti, ma le loro ossa, i

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loro denti, perfino i loro capelli (se ne trovarono sette tonnellate alla liberazione del campo); né si

sapeva che le vittime dell'intero sistema concentrazionario ammontavano a nove o dieci milioni;

soprattutto, si ignorava che la Germania nazista, e accanto ad essa tutti i paesi occupati (Italia

compresa), erano un unico mostruoso tessuto di campi di schiavi. Una carta geografica dell‘Europa

di allora dà le vertigini: solo in Germania, i Lager propriamente detti (e cioè le anticamere della

morte, quali sono descritte in questo libro) erano centinaia, e a questi vanno aggiunti migliaia di

campi appartenenti ad altre categorie: si pensi che i soli internati militari italiani erano circa

seicentomila. Secondo una valutazione di Shirer (nella Storia del Terzo Reich), i lavoratori coatti in

Germania nel 1944 erano almeno nove milioni.

Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l'industria pesante tedesca

con l'amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna

fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all'economia

faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le

grandi opere ed i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.

I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l'industria bellica tedesca si

fondava su di essi; erano una istituzione fondamentale dell'Europa fascistizzata, e da parte delle

autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e

perfezionato, nel caso di una vittoria dell'Asse. Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi

«aristocratiche»: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori (e cioè dai

tedeschi stessi), e dall'altra uno sterminato gregge di schiavi, dall'Atlantico agli Urali, a lavorare e o

e tre. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo: la consacrazione del privilegio,

l'instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva

voluta. I due paesi risorsero rinnovati dalle rovine, e iniziarono una faticosa ricostruzione: il mondo

apprese con orrore incredulo l'esistenza delle «fabbriche di cadaveri» di Auschwitz, Dachau,

Mauthausen, Buchenwald, e insieme provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si

trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica, colpa di un solo

uomo, di Hitler, e Hitler era morto, e il suo sanguinoso impero era crollato con lui.

È passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse

quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni

crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in

Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad

Auschwitz, l'uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto, non è

morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di

promettere al mondo un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa

metterne in dubbio la realtà. Libri come questo, oggi, non possono piú essere letti con la serenità

con cui si studiano le testimonianze sulla storia passata: come Brecht ha scritto, «la matrice che ha

partorito questo mostro è ancora feconda».

Proprio per questo, e perché non credo che la reverenza che si deve ai giovani comporti il silenzio

sugli errori della nostra generazione, ho accettato volentieri di curare un'edizione scolastica di Se

questo è un uomo. Sarò felice se saprò che anche uno solo dei nuovi lettori avrà compreso quanto è

rischiosa la strada che parte dal fanatismo nazionalistico e dalla rinuncia alla ragione.

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UN ELENCO DI DATE

- nasce a Torino il 31 luglio 1919, nella casa di Corso Re Umberto 75, dove abiterà poi tutta la vita

- nel 1934 si iscrive al Ginnasio-Liceo D‘Azeglio di Torino

- nel 1937 si iscrive al corso di chimica presso la facoltà di Scienze dell‘Università di Torino

- nel 1938 il governo fascista emana le prime leggi razziali: è fatto divieto agli ebrei di frequentare

le scuole pubbliche, tuttavia a chi è già iscritto all‘Università è consentito di proseguire gli studi; nel

1941si laurea con pieni voti e lode. Il suo diploma reca la menzione «di razza ebraica»

- 13 dicembre 1943 è arrestato presso Brusson con due compagni di lotta partigiana

- nel febbraio 1944 il campo di Fossoli viene preso in gestione dai tedeschi, i quali avviano Levi e

altri prigionieri, tra cui vecchi, donne e bambini, su un convoglio ferroviario con destinazione

Auschwitz, dove resterà fino all‘inizio del 1945

- nel giugno 1945 inizia il viaggio di rimpatrio, che si protrarrà assurdamente fino all‘ottobre. Levi

e i suoi compagni percorrono un itinerario labirintico, che li conduce dapprima in Russia Bianca e

poi finalmente in patria (il 19 ottobre) attraverso l‘Ucraina, la Romania, l‘Ungheria, l‘Austria.

- nel 1945 Levi trova lavoro presso la fabbrica di vernici Duco-Montecatini, in Avigliana, nei pressi

di Torino. Vive nella foresteria della fabbrica: nelle pause del lavoro, le serate, quando la

produzione si arresta per mancanza di materie prime, Levi scrive freneticamente il resoconto del

lager. Il libro è terminato alla fine del 1946.

- nel settembre del 1947 sposa Lucia Morpurgo, da cui avrà due figli: Lisa Lorenza e Renzo; nel

dicembre 1947 accetta un posto di chimico in laboratorio presso la Siva, piccola fabbrica di vernici

tra Torino e Settimo Torinese. Alla Siva lavorerà 30 anni, fino alla pensione (incarico di chimico di

laboratorio, poi direttore tecnico e infine direttore generale)

- Dal 1952 al 1957 collabora con Paolo Boringhieri, responsabile delle edizioni scientifiche

Einaudi, con traduzioni, revisioni di testi scientifici, pareri editoriali.

- Se questo è un uomo viene ripubblicato da Einaudi nel 1958, nella collana ―Saggi‖

- 1963 Einaudi pubblica La tregua, che ottiene accoglienze critiche molto favorevoli. Il «risvolto»

di copertina è redatto da Italo Calvino. Il libro vince a Venezia la prima edizione del Premio

Campiello.

- 1966, pubblica Storie naturali, con lo pseudonimo Damiano Malabaila

- 1971, seconda raccolta di racconti, Vizio di forma, scarso successo di pubblico e critica

- fra il 1971 e il 1973 numerosi viaggi di lavoro in Unione Sovietica, a Togliattigrad, esperienza da

cui trarrà ispirazione per La chiave a stella (1978)

- nel 1975 dà le dimissioni ma resta consulente della Siva fino al 1978. Scelta che gli consente di

dedicarsi a tempo pieno all‘attività letteraria; pubblica Il sistema periodico e L’osteria di Brema da

Scheiwiller, suo primo volume di poesie; traduce per Einaudi Simboli naturali di Mary Douglas

- 1978 esce La chiave a stella, che vince il Premio Strega. In questi anni intensifica la

collaborazione alla ―Stampa‖

- 1981, pubblica la sua antologia personale La ricerca delle radici. Incomincia a lavorare a un

progetto narrativo, ispirato a un racconto fattogli dall‘amico Emilio Vita Finzi che nel 1945 aveva

lavorato come volontario per l‘Ufficio Assistenza profughi di Via dell‘Unionea Milano e aveva

incontrato una banda di partigiani ebrei che avevano attraversato l‘Europa combattendo i tedeschi.

- 1982, il progetto è realizzato: esce Se non ora quando, premio Viareggio e premio Campiello

- 1983, traduce Il processo di Kafka e La via delle maschere di Claude Lévi-Strauss

- 1984, pubblica da Garzanti la seconda raccolta di poesie, che ricomprende anche la prima, Ad ora

incerta

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- nell'aprile del 1986 pubblica I sommersi e i salvati, che rappresenta la summa delle sue riflessioni

suggerite dall‘esperienza del Lager, libro dalla gestazione lunga, iniziato nel 1975.

«Il tema dei rapporti fra l‘oppressore e l‘oppresso, fra la vittima e il carnefice, nelle sue sfumature è

un tema da indagare. E sopprattutto è da rifiutare l‘interpretazione più ingenua che ci sia da una

parte l‘oppressore puro, senza dubbi metodici, senza esitazioni, dall‘altra la vittima santificata dal

suo ruolo di vittima. Non è così. La macchina umana, l‘animale umano è più complicato»

I sommersi e i salvati, cap. VIII, Lettere di tedeschi

SQ è un libro di dimensioni modeste, ma come un animale nomade, ormai da 40 anni si lascia dietro

una traccia lunga e intricata. Era stato pubblicato una volta nel 1947, in 2500 copie, che furono ben

accolte dalla critica ma smerciate solo in parte: le 600 copie residue, riposte a Firenze in un

magazzino di invenduti, vi annegarono nell‘alluvione dell‘autunno del 1966.

[Questo perché la De Silva nel 1949 viene venduta alla Nuova Italia, così che parte dei libri

vengono trasferiti nei magazzini fiorentini. In realtà non vi è certezza al riguardo perché nell‘elenco

dei libri della De Silva consegnati alla Nuova Italia non c‘è traccia del nome di Levi]

- muore a Torino l'11 aprile del 1987, lasciandosi cadere nella tromba delle scale della sua casa

IL RAPPORTO CON CHI LEGGE

SCRIVERE CHIARO

A mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore, e

tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio venga compreso e quanto meno si

presta ad interpretazioni equivoche.

SCRIVERE PER COMUNICARE

La scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni e sentimenti da mente a mente, da luogo

a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla. […] scrivere è

un servizio pubblico.

LETTORE IDEALE

Il mio lettore ‗perfetto‘ non è un dotto ma neppure uno sprovveduto; legge non per obbligo né per

passatempo né per fare bella figura in società, ma perché è curioso di molte cose, vuole scegliere fra

esse, e non vuole delegare questa scelta a nessuno; conosce i limiti della sua competenza e

preparazione; nella fattispecie, ha volenterosamente scelto i miei libri, e proverebbe disagio e dolore

se non capisse riga per riga quello che io ho scritto, anzi gli ho scritto: infatti scrivo per lui, non per

i critici né i potenti della terra né per me stesso. Se non mi capisse, lui si sentirebbe ingiustamente

umiliato, ed io colpevole di inadempienza contrattuale.

Dal fondo (SQ, cap. 2)

Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi. Improvvisamente l'acqua è scaturita bollente

dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo, irrompono quattro (forse sono i barbieri)

che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra

gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola

di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all'aperto, sulla neve azzurra e

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gelida dell'alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un'altra ba-

racca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci.

Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi

l'uno sull'altro. Non c'è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso ín cento visi

lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera.

Allora per la prima volta cí siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa

offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è

rivelata: siamo arrivati al fondo. Piú giú di cosi' non si può andare: condizione umana píú misera

non c'è, e non è pensabile. Nulla piú è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se

parleremo, non cí ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il

nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sí che dietro al

nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.

Noi sappiamo che ín questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che cosi sia. Ma consideri

ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle piú piccole nostre abitudini

quotidiane, nei cento oggetti nostri che il piú umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia

lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del

nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a

sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.

Sí immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue

abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a

sofferenza e bisogno, dimentico dí dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso

tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che sí potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al

di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso piú fortunato, ín base ad un puro giudizio di utilità.

Si comprenderà allora il duplice significato del termine «Campo di annientamento», e sarà chiaro

che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.

J. Ballard, L’impero del sole, 1984

Un soldato giapponese di pattuglia lungo la pista laterale attraversò la striscia erbosa e si

fermò a fissarlo. Irritato dalla sua cantilena, stava per dargli un calcio con lo scarpone

sfondato, quando un lampo di luce illuminò tutto lo stadio: un lampo accecante sopra le tribune

dell'angolo sudoccidentale del campo di calcio, come d'una immane bomba americana che

fosse esplosa a nordest di Shanghai. La sentinella esitò, e si guardò alle spalle, mentre la

luce aumentava d'intensità. Dopo pochi secondi, la luce scemò, ma il suo pallido riflesso

continuò ad ammantare di sé tutto lo stadio: il mobilio rubato delle tribune, le automobili

dietro le porte del campo di calcio, i prigionieri sull'erba — gente seduta sul fondo d'una

fornace riscaldata da un secondo sole.

Jim lasciò correre lo sguardo dal biancore delle sue mani e delle sue ginocchia alla faccia

tirata del soldato giapponese, che sembrava sconcertato dalla luce. Entrambi restarono in

attesa del brontolio dell'esplosione, ma lo stadio e la campagna circostante rimasero immersi

in un ininterrotto silenzio — come si fosse trattato d'un ammicco del sole alla perdita

momentanea d'un battito cardiaco) Jim, allora, sorrise al giapponese, provando dentro di

sé il desiderio di dirgli che quella luce era il segno premonitore della sua morte, l'immagine

visibile dell'unione della sua piccola anima con l'anima più grande del mondo vicino a

morire...

K. Vonnegut, Madre notte, 1966 Dopo un po' venne la guerra e io mi ci trovai dentro; fui preso prigioniero ed ebbi modo di vedere un po' di Germania,

dall'interno; intanto la guerra continuava. Ero soldato semplice, esploratore di battaglione, e secondo la convenzione di

Ginevra dovevo lavorare per il mantenimento, il che fu un bene, non un male. Non dovetti starmene sempre chiuso in

qualche prigione isolata in mezzo alla campagna. Potei andare in una città, Dresda, e vedere la gente e quel che faceva.

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Nella mia squadra di lavoro eravamo circa un centinaio di persone; fummo destinati a una

fabbrica che produceva uno sciroppo di malto arricchito di vitamine, per donne incinte. Sapeva

di miele diluito mischiato al fumo del noce americano. Era buono. Vorrei averne un po' adesso.

La città era graziosa, tutta ricamata, come Parigi, e la guerra non l'aveva neppure sfiorata. Si

trattava probabilmente di una città "aperta", che non poteva essere attaccata, visto che non ospi-

tava né centri di raccolta delle truppe, né industrie militari.

Tuttavia la notte del 13 febbraio 1945, circa ventun anni fa, alti esplosivi furono sganciati su

Dresda da apparecchi inglesi e americani. Non c'erano obiettivi particolari per le bombe. La

speranza era di appiccare il fuoco un po' dappertutto e di costringere i pompieri a starsene

rintanati sottoterra.

Poi sui fuochi avviati furono rovesciate centinaia di migliaia di piccole bombe incendiarie,

come semi su di una zolla appena rivoltata. Altre bombe furono sganciate per trattenere i

pompieri nelle loro tane, e i fuochi poterono ingrandirsi e unirsi l'uno all'altro, e diventare una

sola apocalittica fiammata. E in un attimo: tempesta di fuoco. Tra parentesi, fu il più colossale

massacro di tutta la storia d'Europa. Ah sì, e allora?

Noi non riuscimmo a vedere il fuoco. Eravamo in un fresco deposito di carne, sotto il mattatoio,

insieme con i nostri sei custodi e file e file di mucche, maiali, cavalli, pecore, macellati e

squartati. Sentivamo le bombe che saltavano qua e là sopra di noi. Di tanto in tanto cadeva una

lieve pioggerella di calcina. Se fossimo saliti a dare un'occhiata, ci saremmo trasformati in

altrettanti oggetti caratteristici degli incendi; pezzi accartocciati di legna da ardere lunghi

settanta, ottanta centimetri... esseri umani assurdamente piccoli, o, se preferite, colossali

cavallette arrostite.

La fabbrica di sciroppo di malto era sparita. Tutto era sparito, tranne le cantine dove 135.000

Hansel e Gretel erano stati cotti al forno come altrettanti omini di pan di zenzero. Sicché fummo

messi a lavorare come minatori di cadaveri; sfondavamo i rifugi e ne tiravamo fuori i corpi.

Ebbi occasione di vedere tedeschi di tutte le età, così come la morte li aveva trovati, di solito

con in grembo gli oggetti preziosi. A volte i parenti venivano a vederci scavare. Anche loro era-

no interessanti. Questo per ciò che riguarda i miei rapporti con i nazisti.

Suppongo che se fossi nato in Germania, sarei stato nazista, e avrei massacrato ebrei, zingari e polacchi, lasciando

sporgere i loro stivali dai cumuli di neve, riscaldandomi all'idea della mia segreta virtù. Così è la vita.

C'è un'altra morale, evidente, in fondo a questo racconto, ora che ci penso: quando sei morto, sei morto.

E ancora un'altra me ne viene in mente adesso: fai all'amore quando puoi. Ti fa bene.

Iowa City, 1966

LA FANTASCIENZA E LA MODERNITA’ CULTURALE E LETTERARIA

Il “senso del futuro”: l’altro volto della modernità letteraria

L‘evidenza del progresso della scienza e della tecnologia, e la concretezza dei cambiamenti politici

dovuti alle rivoluzioni del diciottesimo secolo avvenute in Europa e in America, costrinsero la gente

a vedere il mondo in modo diverso. L‘umanità fu costretta, soprattutto, a confrontarsi con un

futuro allo stesso tempo reale e sconosciuto, eccitante e terrificante. (…) si trattò davvero di un

grosso shock, capace di stimolare prepotentemente l‘immaginazione di alcuni.

La fantascienza ha potuto cominciare ad esistere come forma letteraria solo quando gli uomini

hanno potuto concepire un futuro diverso, e precisamente un futuro in cui nuove conoscenze,

nuove scoperte, nuove avventure, nuovi mutamenti avrebbero trasformato la vita in modo

radicale rispetto ai modelli del passato e del presente. Non appena diviene possibile pensare in

questo modo, il confine tra realismo e invenzione fantastica si fa labile, e allora possiamo vedere

come il realismo poggi sopra una visione del mondo che in larga misura ignora il futuro. Non

appena riconosciamo che i concetti stessi di naturale e soprannaturale sono soggetti ai mutamenti

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storici, allora un cambiamento di tempo autorizza a introdurre un cambiamento anche nei confini tra

naturale e soprannaturale. (R. Scholes e E.S. Rabkin, Fantascienza. Storia – scienza – visione,

Parma, Pratiche, 1979, pp. 14-15)

Lettera di Umberto Saba a primo Levi (Trieste, 3 novembre 1948)

Caro Signor Primo Levi,

non so se le farà piacere sentirsi dire da me che il suo libro Se questo è un uomo è piú che un bel

libro, è un libro fatale. Qualcuno doveva ben scriverlo: il destino ha voluto che questo

qualcunofosse lei. (…) appena ho cominciato a leggerlo, non ho potuto piú smettere. Adesso è

come se avessi fatto personalmente l'esperienza di Auschwitz.»

(riportata in Massimo Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Torino, Einaudi, 2011, p. 159)

Le nostre notti (SQ, cap. 7)

Cosí sí trascinano le nostre notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto si inseriscono in un

tessuto di immagini piú indistinte: la sofferenza del giorno, composta dí fame, percosse, freddo,

fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita

libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un

sussulto di tutte le membra, sotto l'impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in

una lingua incompresa. La processione del secchio e i tonfi dei calcagni nudi sul legno del

pavimento sí mutano in un'altra simbolica processione: siamo noi, grigi, e identici, piccoli come

formiche e grandi fino alle stelle, serrati l'uno contro l'altro, innumerevoli per tutta la pianura fino

all'orizzonte; talora fusi in un'unica sostanza, un impasto angoscioso in cui ci sentiamo invischiati e

soffocati; talora in marcia a cerchio, senza principio e senza fine, con vertigine accecante e una

marea di nausea che ci sale dai precordi alla gola; finché la fame, o il freddo, o la pienezza della

vescica non convogliano i sogni entro gli schemi consueti. Cerchiamo invano, quando l'incubo

stesso o il disagio ci svegliano, di districarne gli elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal

campo dell'attenzione attuale, in modo da difendere il sonno dalla loro intrusione: non appena gli

occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del

nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li

disegna e li agita in nebbia grigia sullo schermo dei sogni.

Intervista a Philip K. Dick, a cura di Daniel DePrez, 10 settembre 1976 D — ... no, non credo proprio che scoprire la vita su Marte avrebbe qualche effetto sulla gente. La gente non ha più

alcun criterio per valutare l'importanza delle cose. Secondo me l'unica cosa che potrebbe realmente suscitare una

reazione nella gente sarebbe l'annuncio che il mondo sta per essere spazzato via dalla bomba H. Sì, solo in un caso del

genere si vedrebbe una reazione. Se si scoprisse la vita su Marte la gente forse proverebbe un certo piacere, ma si stan-

cherebbe prestissimo della novità! Ho parlato con un soldato negro che nella seconda Guerra Mondiale

aveva liberato con un battaglione americano un campo di sterminio. Lui ha visto gli internati coi

suoi stessi occhi, dunque, e mi ha detto: "Non ci credo. L'ho visto, ma non ci credo, non ho mai

creduto a quello che ho visto là. Credo che ci fosse qualcosa che noi non sappiamo. Io non

credo che li stessero uccidendo". Gli internati stavano ovviamente morendo di fame, ma lui ha

continuato dicendo: "Anche se ho visto quel campo, anche se sono stato uno dei primi ad en-

trare là dentro, non credo davvero che stessero uccidendo quegli uomini a milioni. Non so

perchè, ma anche se sono stato uno dei primi a vedere quella scena orribile, semplicemente non

credo a quello che ho visto". Io penso che qui stia il nocciolo della questione. Forse è

proprio quello il momento in cui è iniziato tutto... con gli stermini di massa, quando la gente

faceva paralumi e cinture di pelle umana. In seguito non c'è più stato molto in cui credere o

meno, e non aveva più molta importanza quello che uno credeva o no. Secondo me la

realtà, come capita nei miei libri, è sempre una bolla di sapone... la gente penetra con le

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mani nelle pareti e scopre che si vive in un altro secolo. Questa è una sensazione che ho sem-

pre avuto, fin da quando ho cominciato a scrivere nel '51.

La tregua (finale)

E‘ un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con

la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido

e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un'angoscia sottile e

profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno,

a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo

scenario, pareti, le persone, e l'angoscia si fa piú intensa e piú precisa. Tutto è ora volto in caos:

sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed

anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all'infuori del Lager.

Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora

questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo

risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E‘ il

comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawać».

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Storie naturali

«I quindici "divertimenti" che compongono questo libro ci invitano a trasferirci in un futuro sempre

piú sospinto dalla molla frenetica del progresso tecnologico, e quindi teatro di esperimenti

inquietanti o utopistici, in cui agiscono macchine straordinarie e imprevedibili. Eppure non è

sufficiente classificare queste pagine sotto l'etichetta della fantascienza. Vi si possono trovare satira

e poesia, nostalgia del passato e anticipazione dell'avvenire, epica e realtà quotidiana, impostazione

scientifica e attrazione dell'assurdo, amore dell'ordine naturale e gusto di sovvertirlo con giochi

combinatori, umanesimo ed educata malvagità. L'autore è un chimico, e la sua professione traspare

nell'interesse per come sono fatte le cose dentro, per come si riconoscono e si analizzano. Ma è un

chimico che sa le passioni umane non meno di quanto sappia la legge dell'azione di massa, e smonta

e rimonta i segreti meccanismi che governano le vanità umane, ammiccando dalle ironiche

allegorie, dalle sorridenti moralità che ci propone. Ci pare tuttavia che il miglior modo di

presentarle sia riportare uno stralcio di una lettera recente dell'autore:

"Parlare dei miei racconti mi mette in un certo imbarazzo; ma forse la stessa descrizione ed

analisi di questo imbarazzo potrà servire a rispondere alle sue domande.

Ho scritto una ventina di racconti e non so se ne scriverò altri. Li ho scritti per lo piú di

getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme, cercando di raccontare

n altri termini (se sono simbolici lo sono inconsapevolmente) una intuizione oggi non rara:

la percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di

un 'vizio di forma' che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro

universo morale. Non so se siano belli o brutti: piacciono a molti alcuni che dispiacciono a

me, molti ne rifiutano alcuni di cui io mi sento fiero. Certo, nell'atto in cui li scrivo provo un

vago senso di colpevolezza, come di chi commette consapevolmente una piccola

trasgressione.

Quale trasgressione? Vediamo. Forse è questa: chi ha coscienza di un 'vizio', di qualcosa che

non va, dovrebbe approfondire l'esame e lo studio, dedicarcisi, magari con sofferenza e con

errori, e non liberarsene scrivendo un racconto. O forse ancora: io sono entrato

(inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento; non

sta a me giudicarne il valore, ma erano senza dubbio libri seri, dedicati a un pubblico serio.

Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari

divertenti ma distaccate, fredde: non è questa frode in commercio, come chi vendesse vino

nelle bottiglie dell'olio ? Sono domande che mi sono posto, all'atto dello scrivere e del

pubblicare queste 'storie naturali'. Ebbene, non le pubblicherei se non mi fossi accorto (non

subito, per verità) che fra il Lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste: il

Lager, per me, è stato il piú grosso dei 'vizi', degli stravolgimenti di cui dicevo prima, il piú

minaccioso dei mostri generati dal sonno della ragione"».

Vizio di forma, Einaudi, «I coralli», n. 270, risvolto

Ci saranno storici futuri, diciamo nel prossimo secolo? Non è del tutto certo: l'umanità potrebbe

aver perduto ogni interesse per il passato, occupata come sarà sicuramente a dipanare il gomitolo

del futuro; o perduto il gusto per le opere dello spirito in generale, essendo intesa unicamente a

sopravvivere; o cessato di esistere. Ma se storici si troveranno, si dedicheranno assai poco alle

guerre puniche, o alle crociate, o a Waterloo, ed invece porranno al centro della loro attenzione

questo ventesimo secolo, e piú precisamente il decennio che è appena incominciato.

Sarà un decennio unico. Nel giro di pochi anni, quasi da un giorno all'altro, ci siamo accorti che

qualcosa di definitivo è successo, o sta per succedere: come chi, navigando per un fiume tranquillo,

si avvedesse ad un tratto che le rive stanno fuggendo all'indietro, l'acqua si è fatta piena di vortici, e

si sente ormai vicino il tuono della cascata. Non c'è indice che non si sia impennato: la popolazione

mondiale, il DDT nel grasso dei pinguini, l'anidride carbonica nell'atmosfera, il piombo nelle nostre

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vene. Mentre metà del mondo attende ancora i benefici della tecnica, l'altra metà ha toccato il suolo

lunare, ed è intossicata dai rifiuti accumulati in pochi lustri: ma non c'è scelta, all'Arcadia non si

ritorna, ancora dalla tecnica, e solo da essa, potrà venire la restaurazione dell'ordine planetario,

l'emendamento del "vizio di forma". Davanti all'urgenza di questi problemi, gli interrogativi politici

impallidiscono. E questo il clima in cui, letteralmente od in ispirito, si collocano i venti racconti di

Primo Levi che presentiamo. Al di là del velo d'ironia, è vicino a quello dei suoi libri precedenti: vi

si respira un'aura di tristezza non disperata, di diffidenza per il presente, e ad un tempo di

sostanziale confidenza per il futuro: l'uomo fabbro di se stesso, inventore ed unico detentore della

ragione, saprà fermarsi a tempo nel suo cammino ―verso occidente‖.

"Posso aver fallato", rispose Renzo a Don Abbondio: può essere stato un errore, lo si vedrà presto.

In sostanza, ho provato un leggero senso di imbarazzo, forse anche di pudore nei riguardi di una

certa parte dei lettori dei miei due libri precedenti: c'era chi, magari toccato di persona o nella

famiglia dalla tragedia dei Lager, leggeva i miei racconti sul "Giorno", e poi mi diceva: "come puoi

scrivere di queste cose, tu che vieni da Auschwitz?" E un'opinione che non condivido (altrimenti,

non avrei scritto le Storie naturali, o almeno non le avrei pubblicate), ma che rispetto: perciò, per

segnare un distacco, una differenziazione dall'autore di Se questo è un uomo, ho accettato la pro-

posta del mio editore di firmare il libro con uno pseudonimo. Per parte mia, non sento alcuna

contraddizione fra i due temi, e onestamente non credo di aver tradito nulla e nessuno; credo anzi

che non sia difficile ritrovare in alcuni racconti i segni del Lager, la malvagità accettata, il cosmo

"prepostero", la follia geometrica: ad esempio in Versamina e in Angelica Farfalla, che non a caso

mi sono venuti ambientati in Germania» («Il Giorno», 12 ottobre 1966).

Credevo di averlo scelto casualmente: è il nome di un esercente, davanti alla cui bottega passo due

volte al giorno per andare al lavoro. Poi mi sono accorto che, fra il nome e i racconti, un rapporto

sussiste, un'allusione compresa e raccolta da qualcuno di quegli strati profondi della consapevolezza

intorno a cui oggi tanto si argomenta. Malabaila significa "cattiva balia"; ora, mi pare che da molti

dei miei racconti spiri un vago odore di latte girato a male, di nutrimento che non è piú tale,

insomma di sofisticazione, di contaminazione e di malefizio. Veleno in luogo dell'alimento: e a

questo proposito vorrei ricordare che, per tutti noi superstiti, il Lager, nel suo aspetto piú offensivo

e imprevisto, era apparso proprio questo, un mondo alla rovescia, dove "fair is foul and foul is fair",

i professori lavorano di pala, gli assassini sono capisquadra, e nell'ospedale si uccide» («Il Giorno»,

12 ottobre 1966).

«Ho scelto uno pseudonimo per staccare un gruppo dall'altro delle mie opere, nell'atto di proporre al

pubblico un volume di "trappole morali". L'ho fatto per rispetto a un'opinione, che tuttavia non

condivido, e secondo la quale io, che vengo da Auschwitz, non avrei dovuto scrivere Storie

naturali. Lo pseudonimo segna, dunque, questo distacco. Ma secondo me esiste un legame intimo

tra l'opera precedente e questo mio ultimo libro. In entrambe vi è l'uomo ridotto a schiavitú da una

cosa: la "cosa nazista", e la "cosa cosa". Sempre, il sonno della ragione genera mostri» (G.

D'Angeli, 1966).

Per notizie puntuali sulla storia di Storie naturali e di Vizio di forma (dei due libri e dei racconti

che contengono), si possono leggere le Note ai testi di Marco Belpoliti, in P. Levi, Opere, vol. I, a c.

di M. Belpoliti, introduzione di Daniele Del Giudice, Torino, Einaudi, 1997, pp. 1429-1440 e 1441-

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