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1 Italo Calvino, Identità, 1977 («Civiltà delle macchine», XXV, 5-6, settembre-dicembre 1977, pp. 43-44) Dell'identità si parla molto oggi come d'un valore che deve essere continuamente affermato, garantito contro la minaccia di perderlo, sia in senso individuale che in senso di gruppo: identità personale o identità nazionale etnica linguistica ecc. Cominciamo a stabilire bene il significato di questa parola. Per prima cosa la mia identità è fondata su qualcosa che non cambia nella mia vita. Certo potrei anche essere un vagabondo che vive ogni giorno in un paese diverso, incontra persone diverse, linguaggi diversi, potrei venir chiamato ogni giorno con un nome diverso, adattarmi ogni giorno a un mestiere diverso per guadagnarmi cibi sempre diversi. Potrei dire d'avere ancora un'identità? Certamente sì, perché resterebbero i miei ricordi, la continuità del mio passato. Se però fossi affetto da amnesia e non ricordassi niente da un giorno all'altro? Ebbene resterebbero sul mio corpo delle cicatrici, lividi dí bastonate, morsi di cani, carie dentarie, tic nervosi, allergie, che mi persuaderebbero d'esser sempre io, purché da una volta all'altra non mi dimentichi d'averli. Certo se io non mi ricordo d'essere io e quelli che s'incontrano sono sempre degli altri, che mi vedono una volta sola e mai più, allora la mia identità si perde. Diciamo dunque che le condizioni necessarie dell'identità sono due: prima, che io sia in grado di ripetere un'esperienza, sapendo di ripeterla, per esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; seconda, che gli altri siano in grado di capire da una volta all'altra che io sono sempre io. Perché c'è anche la possibilità che io da un giorno all'altro cambi talmente, sia un giorno grasso un giorno magro, oggi tranquillo domani agitato, oggi balbuziente domani di fluente loquela, da risultare agli altri irriconoscibile, e in questo caso la mia identità è difficile sostenere che esista. Poi c'è ancora una condizione, ed è che io sia uno, e non resti sempre il dubbio che invece di me si tratti del mio gemello omozigote indistinguibile da me, che una sera ritorno a casa io e una sera ritorna lui e mia moglie non sa mai quale dei due è in casa. Oppure che io non sia certe sere il rispettabile Dr. Jekyll e certe altre l'abominevole Mr. Hyde, nel qual caso avrei due identità invece di una. Oppure se avessi un mio fratello siamese indissolubilmente saldato al mio fianco per cui non potessimo far niente separati, allora l'identità non riguarderebbe più me bensì noi. *** A pensarci bene, nei lunghi anni di guerre pestilenze cataclismi che ho vissuto, ho visto tante cose cambiare, molte volte ho dovuto cambiare le mie abitudini, le mie opinioni, i miei gusti, il mio vocabolario: sarò veramente sempre la stessa persona? La carta d'identità dovrebbe provarlo, ma adesso che sono diventato calvo, che mi sono fatto crescere una folta barba bianca, adesso che porto gli occhiali, la dentiera e il cornetto acustico, la carta d'identità non è più valida. Poi, come è noto io non sono soltanto io ma insieme all'io devo considerare la presenza d'un super-io e d'un inconscio che vanno per conto loro: adesso per esempio questa pagina non si sa fino a che punto la sto scrivendo io e fino a che punto non è il mio super-io o il mio inconscio a scriverla, e l'inconscio poi può anche essere non mio ma un inconscio collettivo bello e buono. A proposito di collettivo, queste cose che sto scrivendo sono in gran parte il prodotto d'una cultura non mia individuale che mette in circolazione le idee di cui io mi servo, perché è chiaro che ciò che sto esprimendo è già stato elaborato masticato digerito dalla nostra epoca nel suo complesso. Credo d'usare uno stile tanto personale, invece è un linguaggio elaborato da tutti quelli che parlano e scrivono in italiano e le possibilità di scelta che mi si offrono all'interno di questo sistema linguistico sono limitate e anche quelle sottoposte a vari condizionamenti che vanno al di là della mia identità individuale. Per esempio sono io che scrivo, d'accordo, ma c'è anche la classe borghese cui appartengo anima e corpo che s'esprime attraverso di me proprio quando io più me ne dimentico o più m'illudo d'essere qualcosa di diverso da un borghese, per esempio un feudatario junker o un monaco trappista. A scrivere sono io, certo, ma in questo io bisogna riconoscere la parte che ha il fatto che sono un bianco eurocentrico consumista petrolifago e alfabetifero, perché se appartenessi a un altro tipo di

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Italo Calvino, Identità, 1977

(«Civiltà delle macchine», XXV, 5-6, settembre-dicembre 1977, pp. 43-44)

Dell'identità si parla molto oggi come d'un valore che deve essere continuamente affermato,

garantito contro la minaccia di perderlo, sia in senso individuale che in senso di gruppo: identità

personale o identità nazionale etnica linguistica ecc. Cominciamo a stabilire bene il significato di

questa parola. Per prima cosa la mia identità è fondata su qualcosa che non cambia nella mia vita.

Certo potrei anche essere un vagabondo che vive ogni giorno in un paese diverso, incontra persone

diverse, linguaggi diversi, potrei venir chiamato ogni giorno con un nome diverso, adattarmi ogni

giorno a un mestiere diverso per guadagnarmi cibi sempre diversi. Potrei dire d'avere ancora

un'identità? Certamente sì, perché resterebbero i miei ricordi, la continuità del mio passato. Se però

fossi affetto da amnesia e non ricordassi niente da un giorno all'altro? Ebbene resterebbero sul mio

corpo delle cicatrici, lividi dí bastonate, morsi di cani, carie dentarie, tic nervosi, allergie, che mi

persuaderebbero d'esser sempre io, purché da una volta all'altra non mi dimentichi d'averli. Certo se

io non mi ricordo d'essere io e quelli che s'incontrano sono sempre degli altri, che mi vedono una

volta sola e mai più, allora la mia identità si perde. Diciamo dunque che le condizioni necessarie

dell'identità sono due: prima, che io sia in grado di ripetere un'esperienza, sapendo di ripeterla, per

esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; seconda, che gli altri siano in grado di capire da

una volta all'altra che io sono sempre io. Perché c'è anche la possibilità che io da un giorno all'altro

cambi talmente, sia un giorno grasso un giorno magro, oggi tranquillo domani agitato, oggi

balbuziente domani di fluente loquela, da risultare agli altri irriconoscibile, e in questo caso la mia

identità è difficile sostenere che esista. Poi c'è ancora una condizione, ed è che io sia uno, e non resti

sempre il dubbio che invece di me si tratti del mio gemello omozigote indistinguibile da me, che

una sera ritorno a casa io e una sera ritorna lui e mia moglie non sa mai quale dei due è in casa.

Oppure che io non sia certe sere il rispettabile Dr. Jekyll e certe altre l'abominevole Mr. Hyde, nel

qual caso avrei due identità invece di una. Oppure se avessi un mio fratello siamese

indissolubilmente saldato al mio fianco per cui non potessimo far niente separati, allora l'identità

non riguarderebbe più me bensì noi. *** A pensarci bene, nei lunghi anni di guerre pestilenze

cataclismi che ho vissuto, ho visto tante cose cambiare, molte volte ho dovuto cambiare le mie

abitudini, le mie opinioni, i miei gusti, il mio vocabolario: sarò veramente sempre la stessa persona?

La carta d'identità dovrebbe provarlo, ma adesso che sono diventato calvo, che mi sono fatto

crescere una folta barba bianca, adesso che porto gli occhiali, la dentiera e il cornetto acustico, la

carta d'identità non è più valida. Poi, come è noto io non sono soltanto io ma insieme all'io devo

considerare la presenza d'un super-io e d'un inconscio che vanno per conto loro: adesso per esempio

questa pagina non si sa fino a che punto la sto scrivendo io e fino a che punto non è il mio super-io o

il mio inconscio a scriverla, e l'inconscio poi può anche essere non mio ma un inconscio collettivo

bello e buono. A proposito di collettivo, queste cose che sto scrivendo sono in gran parte il prodotto

d'una cultura non mia individuale che mette in circolazione le idee di cui io mi servo, perché è

chiaro che ciò che sto esprimendo è già stato elaborato masticato digerito dalla nostra epoca nel suo

complesso. Credo d'usare uno stile tanto personale, invece è un linguaggio elaborato da tutti quelli

che parlano e scrivono in italiano e le possibilità di scelta che mi si offrono all'interno di questo

sistema linguistico sono limitate e anche quelle sottoposte a vari condizionamenti che vanno al di là

della mia identità individuale. Per esempio sono io che scrivo, d'accordo, ma c'è anche la classe

borghese cui appartengo anima e corpo che s'esprime attraverso di me proprio quando io più me ne

dimentico o più m'illudo d'essere qualcosa di diverso da un borghese, per esempio un feudatario

junker o un monaco trappista.

A scrivere sono io, certo, ma in questo io bisogna riconoscere la parte che ha il fatto che sono un

bianco eurocentrico consumista petrolifago e alfabetifero, perché se appartenessi a un altro tipo di

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cultura, con o senza scrittura, con ordinamento tribale o di clan, praticante culto vegetale o animale

o degli antenati patrilineari o matrilineari, allora quello che scrivo dell'identità sarebbe com-

pletamente differente. Così come in ciò che scrivo gratta gratta puoi sempre riconoscere il sesso

maschile fallocratico patriarcale, a meno che non sia in atto in me un cambiamento di sesso perché

in fondo la mia identità è sempre in balia d'un equilibrio ormonale e basta un'oscillazione statistica

da un momento all'altro per rimettere tutto in gioco. Aggiungi che la mia identità ha le sue

fondamenta in una colonia di cromosomi che abitano le mie cellule e se la sociobiologia dice il vero

i cromosomi affini d'individui diversi sentono una solidarietà e comunanza tra loro mentre un

rapporto d'aggressività esiste tra cromosomi avversi: ebbene la mia identità individuale è

attraversata dalla continuità genetica che si frantuma e si mescola in individui apparentemente sepa-

rati. Insomma l'identità più affermata e sicura di sé, non è altro che una specie di sacco o di tubo in

cui vorticano materiali eterogenei cui si può attribuire un'identità separata e a loro volta questi

frammenti d'identità sono parte d'identità d'ordine superiore via via sempre più vaste. *** E se

questo è vero per gli individui figuriamoci per le identità di gruppo. Detto questo non voglio

naturalmente scoraggiare nessuno. Lo strumento più raffinato per definire l'identità mi sembra il

sistema dei Samo, popolazione africana dell'Alto Volta, che nella persona umana distinguono nove

componenti: 1) il corpo, che si riceve dalla madre, 2) il sangue, che si riceve dal padre, 3) l'ombra

che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particella della vita,

che è un'entità in cui tutti gli esseri viventi sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e

coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie (si stacca

dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e poi definitivamente qualche anno prima della morte per

andare nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da morto, e finalmente

s'incarnerà in un albero), 9) il destino individuale. A questi nove elementi s'aggiungono quattro

attributi: il nome, l'omonimo soprannaturale, il segno dell'eredità che indica che una componente

d'un antenato s'è incarnata nel neonato, e la presenza d'una coppia di geni, della brousse o domestici,

ostili o benefici. Così gli elementi in gioco diventano tredici e anche quattordici, e collegano

l'individuo all'universo (dio trascendente e geni della brousse) e all'umanità (antenati e genitori).

L'identità è dunque un fascio di linee divergenti che trovano nell'individuo il punto d'intersezione.

(…)

Italo Calvino, Intervista a F. Camon, 1973

Sono un tecnico del materiale verbale e immaginativo e mi occupo degli appetiti di parole scritte, di

storie raccontate, di figure mitologiche: tutta roba non meno essenziale del cibo, com'è noto.

Vittorio Spinazzola, La lettura letteraria, 1991

Se io mi accingo a leggere un libro, ovviamente è perché penso mi convenga farlo: me ne attendo

qualche sorta di gratificazione. Quel dato libro mi pare interessante, nel senso che mi fa provare

interesse all'idea di leggerlo. I motivi per cui sono stato spinto a sceglierlo possono essere dei tipi

più diversi, ma comunque si fondano sull'esigenza di colmare una lacuna, soddisfare un bisogno,

insomma arricchire, illuminare, compensare con l'esperienza mentale della lettura la mia esperienza

pratica di vita.

Certo, alla decisione di prendere in mano proprio la tale opera invece di un'altra può aver concorso

una pluralità di motivazioni, consapevoli e inconsapevoli. C'è sempre però un'istanza specifica di

desiderio che assolve una funzione catalizzatrice, nel determinare la scelta del testo ritenuto più

vantaggioso e assieme del modo di leggerlo ritenuto più conveniente al proprio stato psichico. L'atti-

vità del lettore si svolge dunque sempre sulla base di un'intenzione di lettura, più o meno

limpidamente strutturata ma comunque tale da prefigurarne gli orientamenti operativi.

La particolarità dell'intenzione di lettura letteraria consiste nel rispondere al progetto di appagare

uno stato di bisogno dell'immaginazione estetica, con il ricorso a un prodotto creativo elaborato

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organicamente, in coerenza di linguaggio, appunto a tale scopo. Questa ragione di interesse può

cercare adempimento applicandosi a testi di una letterarietà già convenzionalmente riconosciuta, op-

pure invece a opere che non danno una previa garanzia di affidabilità adeguata. D'altronde,

l'intenzione di fruire letterariamente il prodotto può anche insorgere nel corso della lettura,

sormontando altri precedenti propositi. In ogni caso però il calcolo da cui sono mosso nel leggere è

il medesimo: effettuare l'acquisto di un bene

che mi sia psichicamente utile, in quanto adatto a colmare le richieste di esteticità cui ha dato luogo

la mia esistenza interiore.

Viene così posta in essere la situazione di scambio tipica di tutti i processi di lettura, che mettono in

rapporto due parti contraenti: il lettore, il quale rappresenta la domanda, e lo scrittore, che im-

persona l'offerta; oggetto della contrattazione è il testo, nella sua materialità libraria. Come qualsiasi

evento di compravendita, anche questo può rivelarsi più o meno vantaggioso per l'acquirente.

Quando chi legge si sente accontentato nelle sue attese, remunera l'autore con una attribuzione di

merito che concorre ad assicurargli successo e fama. Al contrario, l'esito verrà considerato falli-

mentare quando il lettore si giudichi deluso dal testo cui si è accostato, e si persuada di aver fatto un

cattivo affare.

Nella sua brutalità, il linguaggio economico pone in rilievo un dato fondamentale: la lettura richiede

un dispendio di tempo ed energie, che costituiscono il prezzo da pagare per fruire del prodotto

scritto, assimilandone mentalmente i pregi. E questo prezzo potrà apparire equo oppure

sproporzionato, agli occhi di chi ne abbia effettuato l'esborso, secondo l'utilità che gli paia di aver

conseguito. Nel caso della lettura letteraria, l'utilità sí commisura in termini di piacere estetico.

Dal punto di vista del lettore, l'impresa di leggere si risolve alla fine in un raffronto fra costi e ricavi:

quanto mi ha reso la lettura di quel testo, rispetto all'impegno che ho dovuto profondere per ap-

propriarmene? Se si tratta di una lettura letteraria, l'interrogativo suona: quale ricchezza e intensità

di godimento dell'immaginazione mi ha procurato? La risposta evidentemente dipende da una valu-

tazione degli effetti estetici percepiti nell'opera di cui si è appena fruito. Il bilancio conclusivo

dell'esperienza di lettura implica dunque immancabilmente la formulazione di un giudizio, ossia

l'attribuzione di un segno di valore o disvalore al testo in causa. Se il saldo è all'attivo, quel testo

valeva la pena di leggerlo: il rischio affrontato quando lo si è prescelto è stato superato

positivamente; il tempo e le energie psichiche consumate sono stati spesi bene; il prodotto appare

degno di venir annesso al patrimonio di letture gratificanti depositato nella memoria del lettore.

Martha Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, 1995

Perché i romanzi e non le opere storiche o le biografie? L'oggetto principale delle mie riflessioni è la

capacità di immaginare come sarebbe vivere la vita di una persona che potrebbe essere, fatti i debiti

mutamenti, un altro se stesso o uno dei propri cari. Così, la mia risposta all'interrogativo sulla storia

proviene direttamente da Aristotele.

La narrativa, egli affermava, è "attività teoretica e più elevata della storia", perché la storia ci mostra

soltanto "gli eventi reali", mentre le opere di narrativa ci mostrano "quali fatti possono avvenire" in

una vita umana. In altri termini, la storia registra semplicemente ciò che è accaduto nei fatti, sia che

questo rappresenti o no una possibilità generale per le vite umane. La letteratura mette a fuoco il

possibile, sollecitando i suoi lettori a interrogarsi su se stessi. Aristotele ha ragione. Diversamente

dalla maggior parte delle opere storiche, quelle letterarie si caratterizzano per il fatto di sollecitare i

loro lettori a mettersi al posto di persone di vario tipo, assimilandone le esperienze. Proprio per il

modo in cui si rivolgono al loro lettore ipotetico, esse comunicano la sensazione che esistano dei

legami possibili, almeno a un livello molto generale, tra i personaggi e il lettore. Ciò innesca nel

lettore una fervida attività emozionale e immaginativa, ed è proprio la natura di questa attività, e la

sua rilevanza per il pensare pubblico, che mi interessa qui.

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Le opere di carattere storico e biografico ci forniscono le informazioni empiriche essenziali per

compiere buone scelte. In realtà, possono anche determinare le forme rilevanti di attività

immaginativa, se sono scritte in uno stile narrativo efficace. Ma in quanto spingono il lettore

all'identificazione e alla partecipazione, esse assomigliano alle opere letterarie. Ciò vale in

particolare nel caso in cui descrivano gli effetti che le diverse situazioni esercitano sulle emozioni e

sul mondo interiore: una parte saliente del contributo offerto dalle opere letterarie, come dimostrerò.

Un altro modo di porre la questione è affermare che la buona letteratura provoca un genere di

turbamento da cui i lettori di storia e di scienze sociali sono spesso immuni. Poiché suscita forte

emozioni, essa disorienta e confonde. Induce a diffidare delle forme convenzionali di pietà ed esige

un confronto spesso doloroso con le proprie opinioni e i propri disegni.

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Molteplicità testuale e libraria. Immagini

2. Maria Helena Vieira da Silva, Bibliothèque, 1949

3. Vincent Van Gogh, Nature morte. Romans parisiens, 1888

4. Henri Matisse, Liseuse sur fond noir, 1939

5. Federico Faruffini, La lettrice, 1864-1865

6. Bruno Caruso, Il giornalaio, 1952

7. Giuseppe Migneco, L’uomo che legge il giornale, 1940

8. Philip-Lorca diCorcia, Street Works. Mexico City, 1998

9. Pietro Longhi, Lezione di geografia, Venezia, 1752 c.

10. Joshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, 1773

11. Domenico Induno, Scena familiare, 1855 c

12. Almanacco Bompiani 1937

13. Giovanni Giovannetti, Giovanni Testori

14. Giovanni Giovannetti, Nuto Revelli con il suo diario della Campagna di Russia 15. Bruno Bozzetto, Furbo chi legge, disegno realizzato nel 1988 per la campagna di promozione del gruppo Piccoli editori

Italo Calvino, Il libro, i libri, conferenza tenuta alla Feria del Libro di Buenos Aires, 1984

Voglio cercare di analizzare le sensazioni che provo ogni volta che visito una grande esposizione

del libro: una specie di vertigine nel perdermi in questo mare di carta stampata, in questo

firmamento sterminato di copertine colorate, in questo pulviscolo di caratteri tipografici; l'apertura

di spazi senza fine come una successione di specchi che moltiplicano il mondo; l'attesa d'una sor-

presa che può venirmi incontro da un nuovo titolo che m'incuriosisce; l'improvviso desiderio di

veder ristampato un vecchio libro introvabile; lo sgomento e insieme il sollievo di pensare che gli

anni della mia vita basteranno appena a leggere o rileggere un numero limitato dei volumi che si

stendono sotto i miei occhi.

Sono sensazioni diverse, si badi bene, da quelle che dà una grande biblioteca: nelle biblioteche si

deposita il passato come in strati geologici di parole silenziose; in una fiera del libro è il

rinnovamento della vegetazione scritta che si perpetua, è il flusso delle frasi appena stampate che

cerca d'incanalarsi verso i lettori futuri, che preme per riversarsi nei loro circuiti mentali. (…)

I libri sono fatti per essere in tanti, un libro singolo ha senso solo in quanto s'affianca ad altri libri, in

quanto segue e precede altri libri. Così è stato fin da quando i libri erano rotoli di papiro che

s'allineavano sugli scaffali delle biblioteche schierando i loro cilindri verticali come canne d'organo,

ognuno con la sua voce grave o delicata, baldanzosa o melanconica. La nostra civiltà si basa sulla

molteplicità dei libri; la verità si trova solo inseguendola dalle pagine d'un volume a quelle d'un

altro volume, come una farfalla dalle ali variegate che si nutre di linguaggi diversi, di confronti, di

contraddizioni.

Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979, I capitolo

Dunque, hai visto su un giornale che è uscito Se una notte d'inverno un viaggiatore, nuovo libro di

Italo Calvino, che non ne pubblicava da vari anni. Sei passato in libreria e hai comprato il volume.

Hai fatto bene.

Già nella vetrina della libreria hai individuato la copertina col titolo che cercavi. Seguendo questa

traccia visiva ti sei fatto largo nel negozio attraverso il fitto sbarramento dei Libri Che Non Hai

Letto che ti guardavano accigliati dai banchi e dagli scaffali cercando d'intimidirti. Ma tu sai che

non devi lasciarti mettere in soggezione, che tra loro s'estendono per ettari ed ettari i Libri Che Puoi

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Fare A Meno Di Leggere, i Libri Fatti Per Altri Usi Che La Lettura, i Libri Già Letti Senza

Nemmeno Bisogno D'Aprirli In Quanto Appartenenti Alla Categoria Del Già Letto Prima Ancora

D'Essere Stato Scritto. E così superi la prima cinta dei baluardi e ti piomba addosso la fanteria dei

Libri Che Se Tu Avessi Più Vite Da Vivere Certamente Anche Questi Li Leggeresti Volentieri Ma

Purtroppo I Giorni Che Hai Da Vivere Sono Quelli Che Sono. Con rapida mossa li scavalchi e ti

porti in mezzo alle falangi dei Libri Che Hai Intenzione Di Leggere Ma Prima Ne Dovresti Leggere

Degli Altri, dei Libri Troppo Cari Che Potresti Aspettare A Comprarli Quando Saranno Rivenduti A

Metà Prezzo, dei Libri Idem Come Sopra Quando Verranno Ristampati Nei Tascabili, dei Libri Che

Potresti Domandare A Qualcuno Se Te Li Presta, dei Libri Che Tutti Hanno Letto Dunque è Quasi

Come Se Li Avessi Letti Anche Tu. Sventando questi assalti, ti porti sotto le torri del fortilizio, dove

fanno resistenza

i Libri Che Da Tanto Tempo Hai In Programma Di Leggere,

i Libri Che Da Anni Cercavi Senza Trovarli,

i Libri Che Riguardano Qualcosa Di Cui Ti Occupi In Questo Momento,

i Libri Che Vuoi Avere Per Tenerli A Portata Di Mano In Ogni Evenienza,

i Libri Che Potresti Mettere Da Parte Per Leggerli Magari Quest'Estate,

i Libri Che Ti Mancano Per Affiancarli Ad Altri Libri Nel Tuo Scaffale,

i Libri Che Ti Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile.

Ecco che ti è stato possibile ridurre il numero illimitato di forze in campo a un insieme certo molto

grande ma comunque calcolabile in un numero finito, anche se questo relativo sollievo ti viene

insidiato dalle imboscate dei Libri Letti Tanto Tempo Fa Che Sarebbe Ora Di Rileggerli e dei Libri

Che Hai Sempre Fatto Finta D'Averli Letti Mentre Sarebbe Ora Ti Decidessi A Leggerli Davvero.

Ti liberi con rapidi zig zag e penetri d'un balzo nella cittadella delle Novità Il Cui Autore O

Argomento Ti Attrae. Anche all'interno di questa roccaforte puoi praticare delle brecce tra le schiere

dei difensori dividendole in Novità D'Autori O Argomenti Non Nuovi (per te o in assoluto) e Novità

D'Autori O Argomenti Completamente Sconosciuti (almeno a te) e definire l'attrattiva che esse

esercitano su di te in base ai tuoi desideri e bisogni di nuovo e di non nuovo (del nuovo che cerchi

nel non nuovo e del non nuovo che cerchi nel nuovo).

Tutto questo per dire che, percorsi rapidamente con lo sguardo i titoli dei volumi esposti nella

libreria, hai diretto i tuoi passi verso una pila di Se una notte d'inverno un viaggiatore freschi di

stampa, ne hai afferrato una copia e l'hai portata alla cassa perché venisse stabilito il tuo diritto di

proprietà su di essa.

Hai gettato ancora un'occhiata smarrita ai libri intorno (o meglio: erano i libri che ti guardavano con

l'aria smarrita dei cani che dalle gabbie del canile municipale vedono un loro ex compagno

allontanarsi al guinzaglio del padrone venuto a riscattarlo), e sei uscito.

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Renato Serra, Le lettere, Roma, Bontempelli, agosto 1914

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ETA’ DI RIVOLUZIONI

William Wordsworth, Prefazione, in W. Wordsworth – S. Coleridge, Ballate liriche, II edizione

1800

(…) bisognerebbe svolgere un‘ampia analisi dello stato presente del gusto del pubblico in questo

nostro paese e determinare fino a che punto è sano o corrotto: ciò che a sua volta non potrebbe

determinarsi senza delineare in qual modo il linguaggio e la mente umana agiscono e reagiscono

l‘uno sull‘altra e senza rifarsi alle rivoluzioni che si sono avute non solo nella letteratura, ma anche

nella stessa società.

(…) La mente umana è capace di eccitarsi senza l‘applicazione di grossolani e violenti stimolanti

(…) Dico questo perché una moltitudine di cause precedentemente ignote sembrano ora alleate per

smorzare le capacità di discernimento della mente e per renderla inabile a qualsiasi esercizio

volontario e ridurla così a uno stato di torpore quasi primitivo. Le più potenti fra queste sono i

grandi avvenimenti nazionali che giornalmente si verificano, e il crescere a dismisura della

popolazione nelle città, dove l‘uniformità dei mestieri genera il desiderio di avvenimenti eccezionali

che il rapido scambio delle informazioni via via soddisfa.

CRESCITA DEMOGRAFICA E CRESCITA URBANA

In GRAN BRETAGNA

--- nel 1850, oltre a Londra, altri 5 centri superano le 200.000 unità: BIRMINGHAM, GLASGOW,

LIVERPOOL, MANCHESTER

--- nel 1750 nessuna di queste città superava i 30.000 abitanti, LONDRA era già a 860.000

In ITALIA nel primo Ottocento c‘è un solo grande centro: NAPOLI

Ma, più che altrove, è nutrito il drapello di città mediograndi. Attorno al 1850 sono dieci: GENOVA,

MILANO, VENEZIA, BOLOGNA, FIRENZE, ROMA, PALERMO, MESSINA, CATANIA

Parità percentuale tra popolazione rurale e popolazione urbana (ab. in centri superiori a 20.000 unità):

GRAN BRETAGNA 1850

GERMANIA 1900

FRANCIA 1930

ITALIA 1950

NUOVE CITTA’ E NUOVE VISIONI DELLA CITTA’

Alessandro Verri, Lettera da Parigi, 1766

Se Parigi è grande, Londra è immensa. Io non ne ho veduta fin'ora che una porzione, ma ne giudico

da questo solo fatto ed è che questa città è illuminata di notte sei miglia all'intorno. Arrivando ieri

notte, quando vidi delle contrade ben illuminate dissi: eccoci a Londra. Ciò mi ha veramente

sorpreso. Ma è così. I sobborghi di questa città cominciano a sei miglia dal suo centro. Essa è poi

illuminata, come non ve n'è altra in Europa. (...) Io qui me la passo di meglio in ottimo. Trovo

Londra la città, a preferenza di ogni altra, degna di esser scelta per vivervi

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Giuseppe Baretti, Lettera da Londra (da Lettere familiari ai suoi tre fratelli 1760-1763)

―Sappiate, padroni miei, che in Londra sola v‘è poveraglia due volte più che non vi sono persone in

Milano‖; è un luogo dove ―l‘onesto e bisognoso plebeo [deve lavorare] come uno schiavo da galea‖;

i poveri sono ―i più poveri, i più viziosi e i più brutti poveri d‘Europa‖

Jean-Jacques Rousseau, Giulia o La Nuova Eloisa. Lettere di due amanti di una cittadina ai

piedi delle Alpi, Rey, Amsterdam 1761 (Parte II, lettera XVI) Entro con un segreto orrore in questo vasto deserto del mondo. E‘ un caos che

non mi offre che un‘orrenda solitudine, dove regna un cupo silenzio. La mia anima angustiata cerca

di espandersi dappertutto ed è oppressa. Non sono mai meno solo di quando son solo, diceva un

antico; io non sono solo che nella folla, dove non posso appartenere né a te, né agli altri. Il mio

cuore vorrebbe parlare, ma sente che nessuno l‘ascolta; vorrebbe rispondere, ma non ode niente che

possa giungere fino a lui. Non capisco la lingua del paese, e qui nessuno capisce la mia.

Non già che non mi facciano festose accoglienze, e carezze, e cortesie, e che mille premure non

paiano corrermi incontro. (…) La cortese sollecitudine umana, la semplice e commovente effusione

d‘un anima schietta hanno un linguaggio ben diverso dalle false esibizioni della cortesia e dalle

ingannevoli apparenze volute dal costume sociale

(Parte II, lettera XVII) Eccomi finalmente travolto dal torrente. Terminata la raccolta, ho

cominciato a frequentare spettacoli e cene. Trascorro l‘intera mia giornata tra la gente, sono

tutt‘occhi e tutt‘orecchi, ma non trovando cosa che ti valga mi raccolgo in mezzo al rumore e

segretamente converso con te. Non che questa vita chiassosa e tumultuosa non abbia le sue

attrattive, e che la prodigiosa varietà degli oggetti non offra qualche piacere a colui che è appena

sbarcato; ma per provarli bisognerebbe avere il cuore vuoto e lo spirito frivolo; l‘amore e la ragion

paiono allearsi per disgustarmente: poiché tutto non è altro che vana apparenza e muta

continuamente, non ho il tempo di gustare, né quelo di esaminare cosa alcuna.

Comincio cioè ad avvedermi delle difficoltà che lo studio del mondo presenta, e non so nemmeno

che posto bisogna occupare per conoscerlo bene. Il filosofo è troppo lontano, l‘uomo di mondo è

troppo vicino. Questo vede troppo per poter riflettere, quello troppo poco per poter giudicare

dell‘intero complesso.

G. Lukács, La storia come «esperienza vissuta dalle masse» (Il romanzo storico, 1957)

Solo la Rivoluzione francese, le guerre della Rivoluzione, l'ascesa e la caduta dí Napoleone

hanno fatto della storia un'esperienza vissuta dalle masse, e su scala europea. Negli anni

trascorsi tra il 1789 e il 1814 ogni popolo d'Europa visse piú trasformazioni di quante ne avesse

avute nei secoli precedenti. E íI rapído avvicendarsi conferisce a queste trasformazioni un

particolare carattere qualitativo: viene meno per le masse l'impressione che si tratti di «eventi

naturali» e il carattere storico di tali trasformazioni appare piú visibile di quanto avvenga di

solito nei singoli casi isolati. Si leggano – per citare un solo esempio – i ricordi giovanili dí Heine

nel Libro Le Grand (nei Reisebilder [Impressioni di viaggio]), dove si descrive in modo molto vivo

l'impressione suscitata in Heine fanciullo dal rapido mutare dei governi. Ora, se tali esperienze

vissute si collegano con la consapevolezza che cambiamenti analoghi si compiono ovunque nel

mondo intero, ciò rafforzerà straordinariamente la sensazione che vi è una storía, che questa

storia è un processo ininterrotto di trasformazioni e infine che essa agisce direttamente sulla

vita di ogni singolo individuo.

Questa intensificazione quantitativa, che si converte in qualitativa, si manifesta anche nella

differenza che tali guerre presentano rispetto a tutte le precedenti. Le guerre degli stati assoluti nel

periodo anteriore alla Rivoluzione erano state combattute da piccoli eserciti di mestiere. La

condotta della guerra tendeva a isolare il píú possibile l'esercito dalla popolazione civile.

(Vettovagliamento mediante magazzini, timore della diserzione ecc.). Non senza ragione Federico

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di Prussia diceva che la guerra deve essere condotta in modo che la popolazione civile non se ne

accorga. «Mantenersi tranquilli è il primo dovere dei cittadini» era il motto delle guerre

dell'assolutismo.

Questo stato dí cose cambia all'improvviso per opera della Rivoluzione francese. Nella sua lotta

di difesa contro la coalizione delle monarchie assolute la repubblica francese fu costretta a creare

eserciti di massa. La differenza fra eserciti mercenari ed eserciti di massa è però una differenza

qualitativa proprio per quanto concerne il rapporto con le masse della popolazione. Siccome

non si tratta piú di reclutare per un esercito di mestiere piccoli contingenti d'individui declassati,

bensì di creare un esercito di massa, il significato e lo scopo della guerra debbono essere spiegati

alle masse per mezzo della propaganda. Ciò avviene non solo in Francia al tempo della guerra dí

difesa della Rivoluzione e delle successive guerre di aggressione. Anche gli altri Stati, quando

cominciano a costituire eserciti di massa, sono costretti ad adottare questo mezzo. (Si pensi alla

parte sostenuta dalla letteratura e dalla filosofia tedesca in questa propaganda dopo la battaglia di

Jena). E‘ impossibile però che tale propaganda si limiti a una singola guerra isolata. Essa è costretta

a scoprire il significato totale, i presupposti storici e le circostanze della guerra, metterla in

rapporto con l'intera vita e con le possibilità dí sviluppo della nazione. Basti ricordare l'importanza

della difesa delle conquiste della Rivoluzione in Francia e la connessione che sussiste in Germania e

in altri paesi fra la creazione di un esercito di massa e le riforme politico-sociali.

L'intima vita del popolo è legata con il moderno esercito di massa in maniera tutta diversa da

come poteva esserlo con gli eserciti della monarchia assoluta nel periodo precedente. In Francia

scompare la barriera di ceto sociale fra gli ufficiali nobili e la truppa: a tutti si apre a

possibilità di salire agli alti gradi; come tutti sanno, tale barriera fu abbattuta appunto dalla

Rivoluzione. E perfino nei paesi in lotta con la Rivoluzione inevitabilmente vengono aperte certe

brecce nelle barriere esistenti fra i ceti sociali. Basta leggere gli scritti di Gneisenau per vedere come

vi sia un nesso evidente fra queste riforme e la nuova situazione storica creata dalla Rivoluzione

francese. Si aggiunge poi il fatto che anche durante la guerra le pareti divisorie prima esistenti fra

esercito e popolo debbono necessariamente essere abbattute. Per gli eserciti di massa è impossibile

il vettovagliamento mediante magazzini. Siccome essi si riforniscono per mezzo di requisizioni, è

inevitabile che sí vengano a trovare in un diretto e continuo rapporto con la popolazione del paese in

cui la guerra viene condotta. Certo questo rapporto è fatto spesso di rapine e saccheggi; ma non

sempre. Non bisogna dimenticare che le guerre della Rivoluzione e in parte anche le guerre napo-

leoniche sono state deliberatamente condotte come guerre di propaganda.

Infine anche l'enorme estensione quantitativa delle guerre ha un effetto qualitativamente

nuovo e porta con sé uno straordinario ampliamento di orizzonte. Mentre le guerre degli eserciti

mercenari consistevano per lo piú in piccole operazioni d'assedio, ora l'Europa intera diventa un

campo di battaglia. Contadini francesi combattono prima in Egitto, poi in Italia, poi in Russia;

truppe ausiliarie tedesche ed italiane prendono parte alla campagna di Russia; milizie tedesche e

russe entrano in Parigi dopo la sconfitta di Napoleone, e cosí via. L'esperienza che prima era vissuta

solo da singoli individui, per lo piú dotati di spirito d'avventura, cioè la scoperta dell'Europa o

almeno di certe parti dell'Europa, diventa in questo periodo esperienza di massa per centinaia di

migliaia e per milioni di uomini.

Nascono cosí concrete possibilità perché gli uomini concepiscano la loro esistenza come

qualcosa di condizionato storicamente, perché vedano nella storia qualcosa che esercita

un'influenza profonda sulla loro giornaliera esistenza e che li riguarda direttamente.

È qui superfluo parlare delle trasformazioni sociali avvenute nella stessa Francia. È senz'altro

evidente in qual misura i grandi e frequenti rivolgimenti di questo periodo abbiano trasformato la

vita economica e culturale dell'intera popolazione. Si deve però ricordare che gli eserciti della

Rivoluzione e poi anche gli eserciti napoleonici in moltissimi luoghi, dove compirono le loro

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conquiste, eliminarono in tutto o in parte i residui del feudalesimo, per esempio nella Renania e

nell‘Ia settentrionale.

Il contrasto che la Renania presenta sotto l'aspetto sociale e culturale con il resto della Germania,

contrasto che sí fa sentire ancora assai forte nella rivoluzione del 1848, è un'eredità del periodo

napoleonico. E il rapporto esistente fra queste trasformazioni sociali e la Rivoluzione francese è

sentito da vaste masse. Ancora una volta ci sia consentito qualche riferimento letterario. Oltre ai

ricordi giovanili di Heine, è molto istruttivo leggere i primi capitoli della Chartreuse de Panne di

Stendhal per vedere che impressione incancellabile aveva lasciato la dominazione francese

nell'Italia settentrionale.

È nell'essenza della rivoluzione borghese, quando venga seriamente realizzata fino alla fine, fare

dell'idea di nazionalità il patrimonio di vastissime masse. Solo in conseguenza della Rivoluzione e

della dominazione napoleonica un sentimento nazionale diventò in Francia un'esperienza vissuta e

un patrimonio per i contadini, per gli strati infe della piccola borghesia ecc. Solo questa Francia fu

da essi per la prima volta sentita come la loro propria terra, la patria da loro stessi creata.

Franco Moretti, Città e struttura dello spazio romanzesco (Homo palpitans)

Ciò che invece è peculiare alla città e passerà al testo romanzesco, è che la sua struttura spaziale

(fondamentalmente: la concentrazione) ha uno scopo specifico, che consiste nell'accentuarsi della

mobilità. Mobilità spaziale, certo, ma soprattutto mobilità sociale.

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UNA NUOVA IDEA DI CULTURA. UN SISTEMA DI COMUNICAZIONE IN MOVIMENTO

«Il Caffè», 1764-1766

1. Al lettore (Tomo primo / Dal giugno 1764 a tutto maggio 1765)

Questo lavoro fu intrappreso da una piccola società d'amici: per il piacere di scrivere, per l'amore

della lode e per l'ambizione (la quale non si vergognano di confessare) di promovere e di spingere

sempre più gli animi italiani allo spirito della lettura, alla stima delle scienze e delle belle arti, e ciò

che è più importante all'amore delle virtù, dell'onestà, dell'adempimento de' propri doveri. Questi

motivi sono tutti figli dell'amor proprio, ma d'un amor proprio utile al pubblico. Essi hanno mosso

gli autori a cercare di piacere e di variare in tal guisa i soggetti e gli stili che potessero esser letti e

dal grave magistrato e dalla vivace donzella, e dagl'intelletti incalliti e prevenuti e dalle menti tenere

e nuove. Una onesta libertà degna di cittadini italiani ha retta la penna. Una profonda sommissione

alle divine leggi ha fatto serbare un perfetto silenzio su i soggetti sacri, e non si è mai dimenticato il

rispetto che merita ogni principe, ogni governo ed ogni nazione. Del resto non si deve e non si è mai

prestato omaggio ad alcuna opinione, ed anche negli errori medesimi alla sola verità si è sacrificato.

Forse potran col tempo sembrar troppo animosi alcuni tratti contro i puristi della lingua; ma la

pedanteria de' grammatici, che tenderebbe ad estendersi vergognosamente su tutte le produzioni

dell'ingegno; quel posporre e disprezzare che si fa da alcuni le cose in grazia delle parole; quel

continuo ed inquieto pensiero delle più minute cose che ha tanto influito sul carattere, sulla

letteratura e sulla politica italiana meritano che alcuno osi squarciare apertamente queste servili

catene. È ridicola cosa il raccomandarsi alla benevolezza del pubblico, conviene meritarsela. Come

gli autori per amor proprio hanno scritto, così per amor proprio il pubblico ha letto e leggerà. Ciò

che è piaciuto diviso in fogli conviene sperare che piacerà riunito in questo primo tomo; al quale

altri verranno in seguito se il favorevole giudizio del pubblico continuerà a dar lena a auesto

periodico lavoro.

2. Articolo d’apertura

Cos'è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà

questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissíme, cose inedite, cose fatte da diversi autori,

cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi

fogli? Con ogni stile che non annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest'opera? Insin a

tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno e

per più ancora, e in fine d'ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta; se poi il

pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al

terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d'una aggradevote

occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle

utili cognizioni fra i nostri cittadini divertendoli, come già altrove fecero e Steele e Swift e Addisson

e Pope ed altri. Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.

[…]

Il greco Demetrio ―son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza

somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè

vero verissimo di Levante e profumato col legno d'aloe, che chiunque lo prova, quand'anche fosse

l'uomo il più grave, l'uomo il più plombeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno

per una mezz'ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira

un'aria sempre tepida e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte

l'iride negli specchi e ne' cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi

vuol leggere trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia' e quei di Sciaffusa5 e quei

di Lugano' e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale enciclopedico'

e l'Estratto della letteratura europea' e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno

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che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti presso a

poco Europei; in essa bottega v'è di più un buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle

nuove politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri

irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione

parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti santi che vi vedo accadere e

tutt'i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d'averne già messi in ordine

vari, così li dò alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè.

Il nostro greco adunque (il quale per parentesi si chiama Demetrio) è un uomo che ha tutto

l'esteriore d'un uomo ragionevole, e trattandolo si conosce che la figura che ha gli sta bene, nella sua

fisonomia non si scorge né quella stupida gravità che fa per lo più l'ufficio della cassa ferrata d'un

fallito, né quel sorriso abituale che serve spesse volte d'insegna a una timida falsità. Demetrio ride

quando vede qualche lampo di ridicolo, ma porta sempre in fronte un onorato carattere di quella

sicurezza che un uomo ha di sé quando ha ubbidito alle leggi. L'abito orientale, ch'ei veste, gli dà

una maestosa decenza al portamento; cosicché lo credereste di condizion signorile anziché il

padrone d'una bottega di caffè; e convien dire che vi sia realmente un‘ intrinseca perfezione nel

vestito asiatico in paragone del nostro, poiché laddove i fanciulli in Costantinopoli non cessano mai

di dileggiare noi Franchi, qui da noi, non so se per timore o per riverenza, non si vede che osino

render la pariglia ai levantini.

Cesare Beccaria, De’ fogli periodici, «Il Caffè», giugno 1765 Come i libri ―tolsero dalle mani di pochi adepti le cognizioni e le sparsero nel ceto dei coltivatori

delle lettere‖, i ―fogli‖ di giornale ―le cognizioni medesime che circolano nel popolo studioso

comunicano e diffondono nel popolo travagliatore o ozioso‖

Gasparo Gozzi, «Osservatore veneto», 22 agosto 1761

La vera scuola (…) io ritrovo veramente essere la bottega del caffè

Gasparo Gozzi, Quante le botteghe dei librai, «Osservatore veneto», 18 marzo 1761

Non vedete voi quante sono le botteghe de' librai? ... Ogni dì si vende, si compera: sempre escono

frontespizi nuovi: continuamente si scrive e si stampa. Se non s'usasse comunemente il metodo del

quale io parlo, credereste voi che le genti potessero leggere come fanno, senza sturbarsi punto

l'intelletto?

Samuel Richardson, Pamela o la virtù compensata (1740)

Samuel Richardson, Clarissa ovvero Storia di una giovane (1747-1748)

Denis Diderot, Elogio di Richardson, «Journal étranger», gennaio 1762, Una rappresentazione

degli effetti di lettura prodotti dal romanzo. [Morte di Richardson, luglio1761]

O Richardson, Richardson, uomo unico ai miei occhi! Tu sarai la mia lettura per sempre. Costretto

da bisogni pressanti, se il mio amico cade in povertà, se la mediocrità della mia fortuna non basta a

dare ai miei figli le cure necessarie alla loro educazione, venderò i miei libri, ma tu resterai; tu

resterai sullo stesso scaffale con Mosè, Omero, Euripide e Sofocle, e vi leggerò uno dopo l'altro.

[…]

Ho scritto a matita sulla mia copia [di Clarissa, ed. 1759] la centoventiquattresima lettera, quella

scritta da Lovelace al suo complice Leman.

[…]

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Ho notato che, in un gruppo in cui la lettura di Richardson avveniva in comune o separatamente, la

conversazione diventava più interessante e vivace. In occasione di questa lettura ho udito discutere e

approfondire i punti più importanti della morale e del gusto.

[…]

Ero con un amico, quando mi furono recapitate le pagine con la sepoltura e il testamento di Clarissa,

due brani che il traduttore francese ha soppresso per motivi non ben chiari. Questo amico è uno

degli uomini più sensibili che io conosca e uno dei più ardenti fanatici di Richardson: poco manca

che non lo sia quanto me. Ecco che si impossessa dei quaderni, si ritira in un angolo e legge. Lo

guardavo: dapprima vedo colare le lacrime, subito si interrompe e singhiozza; d'improvviso si alza,

cammina senza sapere dove, emette lamenti come un uomo desolato e rivolge i più amari rimproveri

a tutta la famiglia degli Harlove.

[…]

Ho sentito discutere della condotta dei suoi personaggi come su avvenimenti reali, e lodare,

biasimare Pamela, Clarissa, Grandisson come personaggi vivi che si è conosciuto e ai quali ci si è

interessati moltissimo.

[…]

Un giorno una donna di un gusto e di una sensibilità fuori dal comune, molto preoccupata per la

storia di Grandisson che aveva appena letto, dice a uno dei suoi amici in partenza per Londra: «Vi

prego di incontrare per me Miss Emilie, M. Belford e soprattutto Miss Howe, se vive ancora»

R. Chartier, Il commercio del romanzo. Le lacrime di Damilaville e la lettrice impaziente, in

Inscrivere e cancellare. Cultura scritta e letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2006

In tutta l'Europa illuminista, malgrado la stabilità delle tecniche e del lavoro tipografico, alcuni

profondi cambiamenti trasformano la produzione a stampa e le modalità di accesso al libro. La

crescita e la laicizzazione dell'offerta stampata, Ia circolazione dei libri proibiti, la moltiplicazione

deí periodici, il trionfo dei piccoli formati e la proliferazione dei circoli letterari e delle società di

lettura, in cui è possibile leggere senza necessariamente comprare, consentono e impongono

ovunque nuovi modi di leggere.

Per i lettori e le lettrici più dotti le possibilità di lettura sembrano estendersi, proponendo pratiche

diverse a seconda dei tempi, deí luoghi e dei generi. Ogni lettore è dunque successivamente lettore

«intensivo» ed «estensivo», assorto o disinvolto, studioso o divertito. Perché non pensare che la

«rivoluzione della lettura» del XVIII secolo consista proprio nella capacità di attivare diversi modi

di leggere? Questo spiega non solo i suoi limiti, perché questa possibilità non è offerta a tutti

(tutt'altro) e riguarda solo i lettori e le lettrici più esperti e benestanti, ma anche la sua natura

composita, perché bisogna individuarla non nella generalizzazione di un nuovo stile, egemonico e

specifico, ma nel ricorso a una pluralità di pratiche, tanto antiche quanto nuove.

Carlo Gozzi, Il pericolo del nuovo nel mondo delle lettere, Memorie inutili, 1797

La ―sola nostra allegra società granellesca [l‘Accad. dei Granelleschi] si tenne monda dall‘andazzo

epidemico goldoniano e chiarista (…) ella non poteva guardare che con occhio di ridente

commiserazione sulle tavolette delle signore, sopra a' scrittoi de' signori, sui banchi de' bottegai e

degli artisti, tra le mani de' passeggiatori, nelle pubbliche e private scuole, ne' collegi e persino ne'

monasteri le commedie del Goldoni, quelle del Chiari co' suoi romanzi, e mille poetiche trivialità e

bestialità di que' due logoratori di penne‖ (I, XXXIV)

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UNA NUOVA LETTERATURA

S. Coleridge, Biographia Literaria, 1817

[Nel] progetto delle Lyrical Ballads […] l'accordo era che i miei sforzi si sarebbero mossi verso

persone e caratteri soprannaturali, o almeno romantici; tuttavia in modo da trasferire dalla nostra

natura interiore un interesse umano e una sembianza di verità sufficienti a procurare a queste ombre

dell'immaginazione quella volontaria sospensione dell'incredulità per il presente, che costituisce la

fede poetica. Il signor Wordsworth, d'altra parte, doveva proporsi lo scopo di dare il fascino della

novità alle cose di ogni giorno, e di suscitare un sentimento analogo al soprannaturale, destando la

mente dal letargo dell'abitudine e dirigendola alla bellezza e alle meraviglie del mondo davanti a

noi: un. tesoro inestimabile per il quale però, in conseguenza della patina della familiarità e

dell'interesse egoistico, abbiamo occhi eppure non vediamo, orecchie eppure non udiamo, e cuori

che né sentono né comprendono.

William Wordsworth, Prefazione, in W. Wordsworth – S. Coleridge, Ballate liriche, II edizione

1800 Il primo volume di queste poesie è già stato sottoposto all‘esame dei lettori: esso fu pubblicato come

un esperimento che speravo potesse essere di qualche utilità nello stabilire fino a che punto, tramite

l‘adattamento metrico di un campione del linguaggio realmente parlato dagli uomini nei momenti di

intensa eccitazione, si può comunicare quel tipo e quella quantità di piacere che un poeta può

ragionevolmente proporsi di trasmettere. […]

Vari miei amici stanno in grande ansia per il successo di queste poesie, in quanto sono convinti che,

se le intenzioni con le quali esse furono composte dovessero essere effettivamente messe in pratica,

ne risulterebbe la nascita di un genere di poesia certamente in grado di interessare permanentemente

l‘umanità e perfino di influenzarne la molteplicità e la qualità dei vincoli morali. E‘ per questo

motivo che essi mi hanno consigliato di far precedere queste poesie da una difesa sistematica della

teoria che è stata alla base della loro composizione […] […] avrei avuto bisogno di uno spazio ben superiore a quello di una prefazione. Per trattare infatti questo problema con la

chiarezza e la concentrazione che credo esso richieda, bisognerebbe svolgere un‘ampia analisi dello stato presente del gusto del

pubblico in questo nostro paese e determinare fino a che punto è sano o corrotto; ciò che a sua volta non potrebbe determinarsi

senza delineare in qual modo il linguaggio e la mente umana agiscono e reagiscono l‘uno sull‘altra e senza rifarsi alle rivoluzioni

che si sono avute non solo nella letteratura, ma anche nella stessa società. […]

Ho preferito pertanto non intraprendere affatto una simile, regolare difesa, pur rendendomi conto

che vi sarebbe una certa incorenza nell‘investire d‘improvviso il pubblico, senza due pagine

d‘introduzione, con una serie di poesie tanto differenti nella sostanza da quelle che riscuotono al

momento l‘unanime approvazione.

- rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni

- le passioni essenziali del cuore

- vita umile e rurale

- in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e

di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza

- in questa condizione le passioni degli uomini fanno tutt‘uno con le forme stupende e imperiture

della natura

- [Poesia come] lo spontaneo traboccare di forte sentimenti: essa trae origine dalll‘emozione

rivissuta in tranquillità

- adattamento metrico di un campione del linguaggio realmente parlato dagli uomini nei momenti di

intensa eccitazione

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- il lettore non troverà personificazioni di idee astratte in questo volume […] il lettore voglio che

rimanga in compagnia della carne e del sangue, convinto che così facendo posso meglio interessarlo

- avvicinare la mia lingua a quella degli uomini

- [eliminazione della] falsità descrittiva

- [eliminazione di espressioni] in sé proprie e belle […] scioccamente ripetute da mediocri poeti

Pietro Borsieri, Avventure letterarie di un giorno o consigli di un galantuomo a vari scrittori,

1816 I libri [...] non hanno distinzioni né di sesso né di specie: e quando non annoiano sono tutti d'un

ottimo genere. […]

Dopo un tanto suffragio che è comune ai romanzi d'ogni specie [...] io sono persuaso che i nostri

scrittori non adempiono come dovrebbero l'ufficio loro; e che mancando noi di romanzo, di teatro

comico e di buoni giornali, manchiamo di tre parti integranti d'ogni letteratura, e di quelle

precisamente che sono destinate ad educare e ingentilire la moltitudine.

Giovanni Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, Milano, G. Bernardoni,

1816

Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo

dell‘anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è

che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima. […]

Ora, siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini

ugualmente squisita.

Tutte le presenti nazioni d‘Europa – l‘italiana anch‘essa né più né meno – sono formate da tre classi

d‘individui: l‘una di ottentoti, l‘una di parigini e l‘una, per ultimo, che comprende tutti gli altri

individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato

quant‘altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di ―popolo‖.

[…] La gente che egli [il poeta] cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza classe.

[non sono infatti] que' dugento che gli stanno intorno [allo scrittore] nelle veglie e ne' conviti, [ma

le] mille e mille famiglie [che] pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni

tutte, senza pure avere un nome ne' teatri.

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Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa, 1825 (1819-21)

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t‘accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai né pensi

Quanta piaga m‘apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m‘affaccio,

E l‘antica natura onnipossente,

Che mi fece all‘affanno. A te la speme

Nego, mi disse, anche la speme; e d‘altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da‘ trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

Piacquero a te: non io, non già ch‘io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

Quanto a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

In così verde etate! Ahi, per la via

Odo non lunge il solitario canto

Dell‘artigian, che riede a tarda notte,

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

E fieramente mi si stringe il core,

A pensar come tutto al mondo passa,

E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne porta il tempo

Ogni umano accidente. Or dov‘è il suono

Di que‘ popoli antichi? or dov‘è il grido

De‘ nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l‘armi, e il fragorio

Che n‘andò per la terra e l‘oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s‘aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch‘egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s‘udia per li sentieri

Lontanando morire a poco a poco,

Già similmente mi stringeva il core.

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U. Schulz-Buschhaus, Il sistema letterario nella civiltà borghese (capp. I-V, pp. 11-65), Milano,

Unicopli, 1999

Morfologia letteraria

Assiologia (del nuovo)

Moderno. Fondazione della modernità, una trasformazione “radicale”; mutamento di

paradigma assiologico; rottura di un regime semiotico

Sistema letterario aristocratico-cortese (preborghese). Separazione degli stili, gerachizzazione

dei generi

Sistema letterario borghese (postclassico). Nuovo paradigma assiologico, storicistico. Principio

dell‘emancipazione dalle convenzioni. Norma critica della trasgressione permanente

Esperienza privata

Temi borghesi

Livelli di stile

Generi letterari (Critica e recupero)

- Mélange des genres. Genere e ―scrittura‖. Un processo di superamento dei generi e, alla fine, del

‗generico‘ come tale

- Editoria ed evoluzione dei generi. Letterarietà/Leggibilità.

Romanzo. Ascesa del romanzo. Romanzo e primato dello scritto

Triviallitteratur

Società di massa

Postmoderno/postavanguardia

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L‘ASCESA DEL NOVEL. DEFOE, RICHARDSON, FIELDING

Daniel Defoe, La vita e le strane, sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, di York, marinaio,

che visse ventotto anni completamente solo in un'isola disabitata sulla costa dell'America, vicino

alla bocca del gran fiume Orinoco, essendo stato gettato a riva da un naufragio nel quale tutti gli

uomini perirono tranne lui solo; con un racconto di come, alla fine, venisse altrettanto stranamente

liberato da dei pirati: scritto da lui stesso (1719)

Samuel Richardson, Pamela o la virtù compensata (1740)

Samuel Richardson, Clarissa ovvero Storia di una giovane (1747-1748)

Henry Fielding, Tom Jones. Storia di un trovatello (1749)

Ian Watt, Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding (1956)

Locke aveva definito l'identità personale come una identità di coscienza attraverso la durata nel

tempo: l'individuo è in contatto con la sua identità in progresso tramite la memoria di pensieri e

azioni passati. Questo porre l'origine dell'identità personale nel repertorio dei suoi ricordi si ritrova

in Hume: «non avessimo memoria, non avremmo nozione alcuna del concetto di causa e,

conseguentemente, di quella catena di cause ed effetti che costituisce il nostro essere o persona.»

Questo punto di vista è caratteristico anche del romanzo: molti romanzieri, da Sterne a Proust,

hanno preso a oggetto l'esplorazione della personalità definita come interpenetrazione di passato e

presente autocoscienza.

Il tempo è una categoria essenziale in un altro connesso ma più esterno approccio al problema della

definizione dell'individualità di ogni oggetto. Il «principio di individuazione» di Locke era quello

dell'esistenza in un particolare locus nello spazio e nel tempo poiché, come scrisse, «le idee

divengono generali quando vengono separate dalle circostanze di tempo e di luog», così che

divengono particolari solo quando ambedue queste circostanze sono specificate. Nello stesso modo i

personaggi del romanzo possono essere individualizzati solo se posti sullo sfondo di un particolare

tempo e di un particolare ambiente.

La letteratura della Grecia e di Roma furono profondamente influenzate dall'idea platonica che le

Forme o Idee sono le realtà ultime dietro agli oggetti concreti del mondo temporale. Queste forme

erano concepite come fuori dal tempo e immutabili, e questo rifletteva il postulato di base di quelle

civiltà che nulla avveniva o poteva avvenire il cui fondamentale significato non fosse indipendente

dal fluire del tempo.

Michail Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, 1937-1938 (1973)

Chiameremo cronotopo (il che significa letteralmente ‗tempospazio‘) l‘interconnessione sostanziale

dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente. […] Questo

termine è usato nel campo delle scienze matematiche, ed è stato introdotto e fondato sul terreno

della relatività (Einstein) […] lo trasferiamo nella letteratura quasi come una metafora (quasi, ma

non del tutto): a noi interessa che in questo termine sia espressa l‘inscindibilità dello spazio e del

tempo (il tempo come quarta dimensione dello spazio). Il cronotopo è da noi inteso come una

categoria che riguarda la forma e il contenuto della letteratura […].

Nel cronotopo letterario ha luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di

senso e di concretezza. Il tempo qui si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo

spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell'intreccio, della storia. I connotati

del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura. Questo intersecarsi di

piani e questa fusione di connotati caratterizza il cronotopo artistico.

Il cronotopo nella letteratura ha un essenziale significato di genere.

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Alfonso Berardinelli, L’incontro con la realtà, in Il romanzo, a c. di Franco Moretti, vol. II, Le

forme, Torino, Einaudi, 2002

Romanzo e realtà. Per quanto il binomio possa infastidire i critici contemporanei e possa sembrare

usurato, non c‘è scampo. Possiamo ipotizzare ipotizzare che la realtà sia un‘altra, coinvolga il cielo

e l‘inferno, le divinità, gli angeli, l‘apocalisse e le galassie: ma la nozione moderna di realtà quale è

stata elaborata dalla cultura occidentale, la dobbiamo al romanzo e alle scienze della natura.

Il romanzo è finzione, ma è quel tipo di finzione che se non siamo interessati alla realtà non riesce a

funzionare. Abbiamo costruito la nostra idea di realtà attraverso il romanzo ed è il romanzo che ha

messo in scena la differenza, il contrasto fra realtà e sogno, fra realtà e illusione, fra ideali e vita

reale.

PREISTORIA SETTECENTESCA ITALIANA

Pietro Chiari, La filosofessa italiana, o sia le avventure della Marchesa N.N., scritte da lei

medesima e pubblicate dall’abate Chiari, Venezia, Pasinelli, 1753

Pietro Chiari, Dedica alle Dame di Brescia, in La Viniziana di spirito, o sia le avventure d'una

viniziana ben nota, scritte da lei medesima e ridotte in altrettante massime, le più giovevoli a

formare una Dma di spirito, pubblicate dall’Abate Pietro Chiari bresciano, poeta di S.A.R. il

Signor Duca di Modena, 1762

lo spirito umano nelle persone più mature, e più sagge desiderar non può trattenimento alcuno più

onesto, e più dilettevole di quello [che] a noi tutti deriva dall'opportuna lettura di que' Libri

piacevoli, che Libri appunto da trattenimento li chiamano, e che onestamente ricreando le persone

da bene d'ogni età, d'ogni sesso, e d'ogni carattere, non lasciano al tempo medesimo d'istruirle, e di

coltivare nell'animo loro i semi preziosi inseritivi dalla natura delle più sublimi virtù. [...] Non si

potrà dire per questo, che tanti e tanti Libricciuoli di simil sorta non siano in ciò per gran modo

riusciti, e che ad essi l'Europa tutta da trenta e più anni addietro debitrice non sia di quella maggior

coltura, che sensibilmente si vede ne' suoi non mediocri talenti.

UN NUOVO PATTO NARRATIVO

Henry Fielding, Capitolo primo. Introduzione all’opera, ossia “menu” del festino, Tom Jones,

1749

Un autore dovrebbe considerarsi, non come un signore che dà un banchetto privato o di beneficenza,

ma piuttosto come uno che tiene un pubblico ristorante. Nel primo caso, si sa, chi offre il banchetto

sceglie lui i cibi, e anche se sono poco attraenti o affatto sgradevoli al palato dei commensali questi

non debbono trovar nulla a ridire: anzi, la buona creanza impone loro di far mostra d'approvare e

lodare tutto quel che viene loro messo dinanzi. Il contrario accade col padrone d'un ristorante. La

gente che paga quel che mangia esige d'accontentare il proprio palato per quanto delicato e

capriccioso esso sia; e se c'è qualcosa che non piace reclama il diritto di criticare, insultare e

mandare al diavolo, pranzo ed oste senza complimenti. È per questo che un oste onesto e ben

intenzionato, per non incorrere nel pericolo d'offendere gli avventori con delusioni di quella specie,

presenta il menu, che tutte le persone possono consultare appena entrano nel ristorante, e così,

vedendo quel che possono chiedere, ci si fermeranno oppure se ne andranno altrove, dove possan

trovare un trattamento di loro gusto.

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Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, 1798-1802-1816-1817

AL LETTORE.

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento' alla virtù sconosciuta e di consecrare

alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura.

E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell'eroismo di cui non sono eglino

stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre

esempio e conforto.

LORENZO ALDERANI

Romanzi storici di Walter Scott, collana edita dalla Tip. Vincenzo Ferrario, Milano, 1821

Alessandro Manzoni, I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da

Alessandro Manzoni, 1840-1842, 1827

L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di

mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li

schiera di nuovo in battaglia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e

d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri

le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo

dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia

debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti

de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti

memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne

memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella

quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa,

con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E

veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro

Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai

calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi

Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per

ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo

tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno

moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non

dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando

per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia

verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno

sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si

tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij

generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo

Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto

agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione.

Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi

accidenti...

"Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato

autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?" Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece

sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. "Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando

il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il

buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per

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lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto!

Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi,

qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni

occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi insomma che richiedono bensì un po' di rettorica, ma

rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora,

accozzando, con un'abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella

stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di

solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in

questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di

questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e

me ne lavo le mani".

Nell'atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi

tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella,

come dico; molto bella. "Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de' fatti da questo manoscritto, e rifarne la

dicitura? " Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l'origine del

presente libro, esposta con un'ingenuità pari all'importanza del libro medesimo.

Taluni però di que' fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir

peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie

di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i

nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo,

abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto,

eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per

procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.

Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto.

Chiunque, senza esser pregato, s'intromette a rifar l'opera altrui, s'espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne

contrae in certo modo l'obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di

sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di

scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d'indovinare le critiche

possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà;

giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una

risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due

critiche alle mani tra loro, le facevam battere l'una dall'altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole

attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d'uno stesso genere,

nascevan tutt'e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro

gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad

evidenza d'aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per

disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il

pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un

altro, anzi lo stile d'un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è

d'avanzo

Alessandro Manzoni, Lettera a Victor Chauvet (abbozzo 1820)

Ci è difficile afferrare l‘apporto delle azioni anche quando queste azioni ci sono conosciute;

inventandole doveva necessariamente avvenire che alla natura umana si sarebbe sostituito una

convenzionale natura di perfezione o di perversità, con tratti ben marcati, ben distinti, inesistenti

nella realtà, e senza quella mescolanza e quelle sfumature che vi si trovano, soprattutto senza quel

carattere di originalità e di individualità che appare solo nelle circostanze in cui l‘anima è

profondamente commossa e vivamente interessata e combattuta come avviene nella realtà.

Alessandro Manzoni, Della moralità delle opere tragiche

Opinione ricantata e falsa: che il poeta per interessare deve movere le passioni. Se fosse così

dovrebbe proscriversi la poesia. – Ma non è così. La rappresentazione delle passioni che non

eccitano simpatia, ma riflessione sentita, è più poetica d‘ogni altra.

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K.X.Y. [N. Tommaseo], I prigionieri di Pizzighettone. Romanzo storico del secolo XVI. Dell'autore

della Sibilla Odaleta e della Fidanzata Ligure, vol. III, Milano, presso A.F. Stella e figli, 1829, in

―Antologia‖, t. XXXVII, marzo 1830

Primieramente tutti i capitoli devono cominciare da una citazione o di poeta od anche di prosatore;

se oscura, se impertinente alla cosa di cui si tratta nel capitolo, tanto meglio. Poi il vostro romanzo

prenderà le mosse da un buon pezzo di storia cruda, lardellata di qualche similitudine, di qualche

sentenza, di qualche citazione o furtiva o patente: ovvero da una buona descrizione topografica di

una valle, d'un monte, d'una città, d'un castello. Riman libero al genio di scegliere tra queste due vie:

ma la regola generale si è che nel principio del romanzo si debba trovare il brano di storia e la

parafrasi d'una carta topografica. Poi venga un bel dialogo che vi faccia conoscere bene bene di che

cosa si tratti. Questo dialogo può essere serio o faceto: ma faceto sarà migliore, e ciò che più

importa, dev'esser lungo. La lunghezza ancor più che ne' dialoghi, è di regola nelle descrizioni. Voi

non dovete presentare un personaggio in iscena, senza tacerne il nome, e senza darne i connotati,

vale a dire statura, viso, mento, occhi, capelli, marche (come ne' passaporti sta scritto) marche

particolari; e sopratutto la foggia dell'abito, dalla punta degli stivali fino all'ultima piuma dell'elmo.

Se il personaggio, discorrendo, fa un gesto con la mano o col piede, un cenno cogli occhi, col viso,

se raggrinza il naso o la fronte, e voi in mezzo al dialogo aprite una parentesi, e notate la cosa, più

che se si trattasse di un interrogatorio criminale: se mentre egli parla, gli si gira per il capo un

pensiero che serva a modificare o interpretare il senso delle sue parole, e voi coglietelo a volo quel

pensiero, conficcatelo sulla carta, e interrompete il dialogo per farne la sezione cadaverica.

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Michail Bachtin, Epos e romanzo, relazione tenuta nel 1938 all’Istituto di letteratura mondale

A.M. Gor’kij di Mosca, pubblicata per la prima volta, a c. di V. Kožinov, in «Voprosy

Literatury», n. 1, 1970

Lo studio del romanzo come genere letterario si distingue per particolari difficoltà. Ciò è

determinato dalla natura specifica dello stesso oggetto: il romanzo è l'unico genere letterario in

divenire e ancora incompiuto. Le forze che formano un genere letterario agiscono sotto i nostri

occhi: la nascita e il divenire del genere romanzesco avvengono nella piena luce del giorno storico.

L'ossatura del romanzo in quanto genere letterario è ancora lungi dall'essersi consolidata, e noi non

siamo ancora in grado di prevederne tutte le possibilità plastiche.

Gli altri generi letterari in quanto tali, cioè come forme solide per la colata dell'esperienza artistica,

ci sono noti in un aspetto ormai compiuto. L'antico processo della loro formazione sí trova fuori

dell'osservazione storicamente documentata. Troviamo l'epopea come un genere non solo da tempo

compiuto, ma già anche profondamente invecchiato. Lo stesso può dirsi, con alcune riserve, anche

degli altri generi letterari principali, persino della tragedia. La loro vita storica a noi nota è la loro

vita in quanto generi compiuti con un'ossatura solida e ormai poco plastica. Ognuno di essi ha il suo

canone, che agisce nella letteratura come una forza storica reale.

Tutti questi generi letterari o, in ogni caso, i loro elementi principali sono molto piú vecchi della

scrittura e del libro e in vario grado conservano fino a oggi la loro natura orale e sonora. Dei grandi

generi letterari solo il romanzo è piú giovane della scrittura e del libro ed esso soltanto è organica-

mente adatto alle nuove forme della percezione muta, cioè la lettura. Ma, soprattutto il romanzo non

ha un canone come gli altri generi letterari: storicamente validi sono soltanto singoli esemplari di

romanzo, ma non un canone di genere in quanto tale.

Il plurilinguismo Tutte queste tre peculiarità del romanzo sono organicamente legate tra loro, e tutte sono determinate

da un preciso momento di rottura nella storia dell'umanità europea: la sua uscita da una condizione

semipatriarcale socialmente isolata e chiusa e il passaggio a nuovi legami e rapporti internazionali e

interlinguistici. Per l'umanità europea si apri, e diventò un fattore determinante della sua vita e del

suo pensiero, la molteplicità delle lingue, delle culture e dei tempi. […]

Il plurilinguismo ha avuto luogo sempre (esso è piú antico del monolinguismo canonico e puro), ma

non era un fattore creativo, e la scelta artistica intenzionale non era il centro creativo del processo

linguistico-letterario. Il greco classico sentiva e le «lingue» e le epoche della lingua, i molteplici

dialetti letterari greci (la tragedia è un genere letterario plurilinguistico), ma la coscienza creativa si

realizzava in lingue pure chiuse (anche se di fatto eterogenee). Il plurilinguismo era regolato e

canonizzato tra i generi letterari.

La nuova coscienza culturale e letteraria vive in un mondo attivamente plurilinguistico. Il

mondo è diventato tale una volta per sempre e irreversibilmente. E‘ finito il periodo della

coesistenza isolata e chiusa delle lingue nazionali. Le lingue si illuminano reciprocamente: una

lingua può vedersi soltanto alla luce di un'altra lingua. E' finita anche la coesistenza ingenua e

consolidata delle «lingue» all'interno di una data lingua nazionale, cioè la coesistenza dei dialetti

territoriali, dei dialetti e dei gerghi sociali e professionali, della lingua letteraria, delle lingue dei

generi letterari all'interno della lingua letteraria, delle epoche della lingua, ecc.

Tutto ciò si è messo in movimento ed è entrato in un processo di attiva azione e illuminazione

reciproca. La parola, la lingua sono ormai sentite in modo diverso e oggettivamente hanno smesso

di essere quello che erano. In questa reciproca illuminazione interna ed esterna delle lingue ogni

data lingua, anche quando resti assolutamente immutata la sua composizione linguistica (fonetica,

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lessico, morfologia, ecc.), è come se nascesse di nuovo e diventa qualitativamente diversa per la

coscienza che con essa crea.

L’eccedenza d’umanità dell’uomo romanzesco

Uno dei principali temi interni del romanzo è appunto il tema della non adeguatezza del personaggio

al suo destino e alla sua posizione. L'uomo o è piú grande del suo destino o è piú piccolo della sua

umanità. Egli non può diventare tutto e interamente funzionario, proprietario terriero, mercante,

fidanzato, geloso, padre, ecc. Se il protagonista del romanzo diventa pur tuttavia tale, cioè si sistema

interamente nella sua posizione e nel suo destino (come avviene coi personaggi di genere e di

costume e con la maggior parte dei personaggi secondari del romanzo), l'eccedenza di umanità può

realizzarsi nell'immagine del protagonista principale; sempre questa eccedenza si realizza

nell'orientamento contenutistico-formale dell'autore, nei metodi della sua visione e raffigurazione

dell'uomo. La stessa zona di contatto col presente incompiuto e quindi col futuro crea la necessità di

questa non coincidenza dell'uomo con se stesso. In esso restano sempre potenzialità irrealizzate e

esigenze inattuate. C'è il futuro, e questo futuro non può non riguardare l'immagine dell'uomo, non

può non avere in essa radici.

L'uomo non è incarnabile interamente nell'esistente carne storico-sociale. Non ci sono forme che

possano interamente incarnare tutte le sue umane possibilità e esperienze e nelle quali egli possa

esaurire se stesso tutto fino all'ultima parola — come l'eroe epico e l'eroe tragico, — forme che egli

possa riempire fino all'orlo, senza nello stesso tempo straboccarne. Resta sempre un'eccedenza

irrealizzata d'umanità, resta sempre un bisogno di futuro e un posto necessario per questo futuro.

Tutte le vesti esistenti sono strette (e quindi comiche) addosso all'uomo. Ma questa umanità

eccedente inincarnabile può realizzarsi non nel protagonista, sibbene nel punto di vista dell'autore

(ad esempio, in Gogol'). La realtà romanzesca è una delle possibili realtà, non è necessaria, è

casuale, reca in sé altre possibilità.

Una nuova impostazione dell’immagine d’autore

Il romanzo è in contatto con l'elemento dell'incompiuto presente, il che non permette a questo

genere letterario di cristallizzarsi. Il romanziere gravita verso tutto ciò che non è ancora compiuto.

Egli può apparire nel campo di raffigurazione in qualsiasi posa d'autore, può raffigurare momenti

reali della propria vita o alludere ad essi, può polemizzare apertamente coi suoi nemici letterari, ecc.

Non si tratta soltanto della comparsa dell'immagine dell'autore nel campo di raffigurazione, ma si

tratta del fatto che l'autore vero, formale, primario (l'autore dell'immagine dell'autore) viene a

trovarsi in nuovi rapporti reciproci col mondo raffigurato: essi si trovano adesso nelle stesse

dimensioni assiologico-temporali, la parola raffigurante dell'autore è sullo stesso piano della parola

raffigurata del personaggio e può stabilire con essa (anzi, non può non stabilire) rapporti dialogici e

ibride combinazioni.

È proprio questa nuova posizione dell'autore primario, formale nella zona di contatto col mondo

raffigurato a rendere possibile la comparsa dell'immagine dell'autore nel campo della raffigurazione.

Questo nuovo statuto dell'autore è uno dei risultati piú importanti del superamento della distanza

epica (gerarchica). Quale enorme significato formale-compositivo e stilistico abbia questo nuovo

statuto dell'autore per lo specifico del genere letterario romanzesco è cosa che non ha bisogno di

essere spiegata.

Il genere letterario

«[Si deve intendere] il genere letterario non in senso formalistico, ma come zona e campo di

raffigurazione assiologica del mondo» // Intendere «il genere letterario non in senso formalistico,

ma come zona e campo di raffigurazione assiologica del mondo» // «Il campo della

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raffigurazione del mondo muta secondo i generi letterari e le epoche di sviluppo della letteratura.

Esso è variamente organizzato e e in modi diversi limitato nello spazio e nel tempo»

Il tutto vivente della letteratura – la grande letteratura organica e la letteratura della modernità

policentrica e conflittuale – l‘ossatura di genere (le interazioni fra i generi) – «zone e campi di

percezione e raffigurazione assiologica del mondo» – stilizzazione e stilizzazione parodica – (…)

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M. Bachtin, La parola nel romanzo (in Id., Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovic,

Torino, Einaudi, 1979, p. 84)

[Le parole altrui attorno alle cose]

Ma ogni parola viva non si contrappone nello stesso modo al proprio oggetto: tra la parola e

l'oggetto, tra la parola e il parlante c'è il mezzo elastico, spesso difficilmente penetrabile, delle altre

parole, delle parole altrui sullo stesso oggetto, sullo stesso tema. E la parola può stilisticamente

individualizzarsi ed organizzarsi proprio in un processo di vivente interazione con questo specifico

mezzo. Ogni parola concreta (enunciazione), infatti, trova il suo oggetto, verso il quale tende

sempre, per così dire, già nominato, discusso, valutato, avvolto in una foschia che lo oscura oppure,

al contrario, nella luce delle parole già dette su di esso. Esso è avviluppato e penetrato da pensieri

generali, da punti di vista, da valutazioni e accenti altrui. La parola, tendendo verso il proprio

oggetto, entra in questo mezzo, dialogicamente agitato e teso, delle parole, delle valutazioni e degli

accenti altrui, si intreccia coi loro complessi rapporti reciproci, si fonde con alcuni, si stacca da altri,

si interseca con altri ancora; e tutto ciò può servire enormemente ad organizzare la parola,

imprimendosi in tutti i suoi strati semantici, complicandone l'espressione, influendo su tutta la sua

fisionomia stilistica