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Le origini della cadenza di Lucia di Lammermoor La pazzia di Lucia, questa pazzia garantita è il soffio più sottile, più leggero, più aereo che si possa dare, e il più gelido, pure. Un idillio a fili d'argento tra Lucia e un personaggio misterioso che lei sola vede, lei sola ascolta. Un gioco bianco in un bianco paradiso. E i gorgheggi, i ghirigori, i «chioccolii» di Lucia le escono di bocca a collana, a pallini sonori, esplodono in aria come minuscoli fiori, inseguiti dalle note rotondette e «soffiate» di un flauto solitario. 1 Una suggestione quasi surreale, quella che Savinio descrive minuziosamente; una sgranata cadenza che conclude il cantabile «Ardon gli incensi» nella scena della follia di Lucia di Lammermoor e che prevede stranianti virtuosismi eseguiti dal soprano e dal flauto. Questa pagina ricca di ardite fioriture non corrisponde, però, all'idea originaria proposta da Donizetti. Nell'autografo - ora conservato nella civica biblioteca «Angelo Mai» di Bergamo - è, infatti, annotato un breve percorso armonico che, secondo la consuetudine dell'epoca, doveva guidare armonicamente il cantante nella sua improvvisazione. 2 La cadenza col flauto comparve solo in seguito, ottenendo subito un grande riscontro. Soprattutto nel XX secolo celebri soprani, dalla Tetrazzini alla Callas, 3 assegnarono un 1 Alberto Savinio, Scatola sonora, Milano, Ricordi, 1955, p. 91. Questo libro raccoglie alcuni articoli di Savinio, scritti per la maggior parte tra il 1940 e il 1943. Quello da cui è tratta la citazione si riferisce probabilmente ad una delle due Lucie di Lammermoor (1939, 1942) rappresentate al Teatro dell'Opera di Roma, con Toti Dal Monte nel ruolo della protagonista. 2 Questo percorso armonico proposto da Donizetti sembra comunque qualcosa di più che un semplice schema che ha l'obbligo di essere variato. Basterebbe, infatti, arricchirlo con qualche fioritura per ottenere una vera e propria cadenza perfettamente inscrivibile nella prassi ottocentesca che prevedeva points d'orgue contenuti sia in lunghezza sia nell'impiego di virtuosismi. 3 La prima metà del XX secolo vide trionfare nel ruolo di Lucia i sopranini “pirotecnici”, come li chiamava Toscanini. Luisa Tetrazzini (1871-1940) e Toti Dal Monte (1893-1975) sono solo due esempi di soprani leggeri che elessero Lucia e la cadenza col flauto a loro cavallo di battaglia. In seguito, a partire dal 1952, Maria Callas contriburà in modo determinante ad un ripensamento della vocalità di Lucia, riportandola alla voce originaria del soprano drammatico d'agilità (vedi nota 40). Questa scelta filologicamente corretta non impedì al celebre soprano di valersi ugualmente della cadenza apocrifa che aveva già fatto la fortuna della 1

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Le origini della cadenza di Lucia di Lammermoor

La pazzia di Lucia, questa pazzia garantita è il soffio più sottile, più leggero, più aereo che si possa dare, e il più gelido, pure. Un idillio a fili d'argento tra Lucia e un personaggio misterioso che lei sola vede, lei sola ascolta. Un gioco bianco in un bianco paradiso. E i gorgheggi, i ghirigori, i «chioccolii» di Lucia le escono di bocca a collana, a pallini sonori, esplodono in aria come minuscoli fiori, inseguiti dalle note rotondette e «soffiate» di un flauto solitario.1

Una suggestione quasi surreale, quella che Savinio descrive minuziosamente; una sgranata cadenza che conclude il cantabile «Ardon gli incensi» nella scena della follia di Lucia di Lammermoor e che prevede stranianti virtuosismi eseguiti dal soprano e dal flauto. Questa pagina ricca di ardite fioriture non corrisponde, però, all'idea originaria proposta da Donizetti. Nell'autografo - ora conservato nella civica biblioteca «Angelo Mai» di Bergamo - è, infatti, annotato un breve percorso armonico che, secondo la consuetudine dell'epoca, doveva guidare armonicamente il cantante nella sua improvvisazione.2 La cadenza col flauto comparve solo in seguito, ottenendo subito un grande riscontro. Soprattutto nel XX secolo celebri soprani, dalla Tetrazzini alla Callas,3 assegnarono un ruolo preponderante a questa cadenza apocrifa, contribuendo alla sua cristallizzazione nell'immaginario collettivo, quasi fosse una pagina composta dallo stesso Donizetti. Tale suggestione ha contagiato illustri musicologi4 che hanno ipotizzato la cadenza come un prodotto, se non ascrivibile allo stesso Donizetti, almeno a lui contemporaneo. Anche recentemente ci sono stati tentativi di retrodatare la cadenza ad un periodo molto vicino al 1835,5 sulla base di una documentazione tutt'altro che solida. Il mio lavoro di ricerca ha preso le mosse dalle osservazioni di chi ha più volte sottolineato la natura tardo-ottocentesca della cadenza col flauto di Lucia.6 Per approfondire la questione, la sola indagine

1 Alberto Savinio, Scatola sonora, Milano, Ricordi, 1955, p. 91. Questo libro raccoglie alcuni articoli di Savinio, scritti per la maggior parte tra il 1940 e il 1943. Quello da cui è tratta la citazione si riferisce probabilmente ad una delle due Lucie di Lammermoor (1939, 1942) rappresentate al Teatro dell'Opera di Roma, con Toti Dal Monte nel ruolo della protagonista. 2 Questo percorso armonico proposto da Donizetti sembra comunque qualcosa di più che un semplice schema che ha l'obbligo di essere variato. Basterebbe, infatti, arricchirlo con qualche fioritura per ottenere una vera e propria cadenza perfettamente inscrivibile nella prassi ottocentesca che prevedeva points d'orgue contenuti sia in lunghezza sia nell'impiego di virtuosismi. 3 La prima metà del XX secolo vide trionfare nel ruolo di Lucia i sopranini “pirotecnici”, come li chiamava Toscanini. Luisa Tetrazzini (1871-1940) e Toti Dal Monte (1893-1975) sono solo due esempi di soprani leggeri che elessero Lucia e la cadenza col flauto a loro cavallo di battaglia. In seguito, a partire dal 1952, Maria Callas contriburà in modo determinante ad un ripensamento della vocalità di Lucia, riportandola alla voce originaria del soprano drammatico d'agilità (vedi nota 40). Questa scelta filologicamente corretta non impedì al celebre soprano di valersi ugualmente della cadenza apocrifa che aveva già fatto la fortuna della Tetrazzini e della Dal Monte, coniugando così due realtà fino ad allora scisse: quella del soprano drammatico d'agilità e quella del soprano leggero.4 Barblan richiamò l'attenzione, in modo sfumato, su un possibile inserimento della cadenza col flauto già nel periodo donizettiano, grazie a Teresina Brambilla, la prima Gilda verdiana. «Il fantasma ci abbandona definitivamente quasi rapito sui freddi ed incoscienti appelli di un flauto, ormai importuno, che una dilettevole quanto vana costumanza teatrale ha definitivamente consacrati, fin dai lontani esperimenti della Brambilla», (Guglielmo Barblan, L'opera di donizetti nell'età romantica, Bergamo, Edizione del centenario, a cura della banca mutua popolare di Bergamo, 1948, p. 125). Anche Ashbrook, sulla scia di Barblan, ipotizza nel suo celebre studio sull'opera donizettiana l'interpolazione della cadenza col flauto proprio ad opera della Brambilla. Ecco cosa scrive a riguardo: «One bit of traditional lore singles out Teresa Brambilla, Verdi's first Gilda, as the originator of the flute obbligato in the cadenza of the Lucia mad scene», (William Ashbrook, Donizetti and his Operas, Cambridge University Press, 1982, p. 376).5 Vedi: A. Weatherson, «Puntature» for Pauline Viardot, in La vocalità e i cantanti (Bergamo 25-27 settembre 1997) , I, «Il teatro di Donizetti», a cura di Francesco Bellotto e Paolo Fabbri, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2001, pp. 197-213.6 Vedi: Emilio Sala, Women Crazed by Love. An aspect of Romantic Opera, in «The Opera Quarterly», X/3, 1994, pp. 19-41; E. Sala, Recensioni. Guido Paduano, Il giro di vite. Percorsi dell'opera lirica, Firenze, la Nuova Italia, 1992, in «Il Saggiatore musicale», II/2, 1995, pp. 373-381.

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storico-filologica si è rivelata ben presto insufficiente: ad essa si è dovuta affiancare la ricostruzione dei diversi atteggiamenti ricettivi che hanno accompagnato il lungo cammino della più famosa folle par amour donizettiana.7

1. The silencing of the mad scene

Nella prima metà dell'Ottocento e oltre, Lucia riscosse in tutta Europa un ampio successo di pubblico, testimoniato da numerosi periodici che hanno tramandato accurate recensioni delle rappresentazioni. Gli articoli si soffermavano principalmente su alcuni aspetti della partitura, del libretto e della resa vocale dei cantanti, evidenziando i numeri musicali che avevano destato maggior interesse tra il pubblico e segnatamente il duetto d'amore «Verranno a te sull'aure», il Finale primo e l'aria conclusiva d'Edgardo «Tu che a Dio spiegasti l'ali».

I pezzi che meritano maggiore rimarco sono, a nostro credere, il duetto che termina la prima parte dell'atto primo, il largo del grandioso finale dello stesso primo atto, e la gran scena ed aria finale del tenore.8

E ancora:

Donizetti, ad ogni modo, ha con la Lucia di Lammermoor offerto all'Italia un capolavoro! Udite il soave duetto fra Lucia e il sire di Ravenswood, udite la grandiosa magniloquenza del finale, brano non a torto proclamato magistrale, nel cui largo signoreggia un motivo di gusto svolto e condotto con profondo magistero.9

Questi numeri musicali infiammarono gli spettatori e la critica, relegando in secondo piano, per assurdo che possa sembrare a noi oggi, la scena della follia di Lucia. Tale scena era considerata noiosa, poco orecchiabile e molto difficile da eseguire, non solo per l'eccessiva lunghezza - come sottolinea di seguito il cronista del «Corriere dei teatri» - ma anche perché richiedeva alla cantante una notevole abilità mimetica, la capacità d'uniformare la voce e la recitazione alle continue variazioni emotive della folle.

La protagonista ha in questo spartito una parte lunga, faticosa, […] incomodata di più da quel peregrino ritrovato dei librettisti, che, seguendo il chiarissimo loro tipo, dopo il Pirata e l'Anna Bolena vogliono far diventare pazze tutte le povere prime donne. Incomoda perciò e seccante molto deve esser la lunghissima scena ed aria della delirante Lucia, che viene per soprappiù dopo quella della delirante Elvira. Quel trasportarsi fuori dai sensi, quel fingersi presenti oggetti e soggetti lontani è, per un attore, degl'incarichi il più noioso.10

Un'altra testimonianza che evidenzia come il successo conquistato dall'opera donizettiana fosse inversamente proporzionale all'interesse suscitato dalla scena della follia, è presente in Madame Bovary. Emma assiste a Rouen proprio ad una rappresentazione di Lucie de Lammermoor. All'inizio è emotivamente coinvolta dalla tragica eroina di Scott. Più volte zittisce il marito che dà prova di non comprendere il dramma che si sta compiendo davanti ai suoi occhi e in più occasioni le sembra di

7 Per una documentazione più ampia su questi punti, rimando alla mia tesi di laurea: Romana Margherita Pugliese, «Un idillio a fili d'argento»: la cadenza della Lucia di Lammermoor e la rappresentazione musicale della follia, tesi di Laurea in Drammaturgia Musicale, a.a. 2000/2001, Università degli Studi di Milano.8 «Il Figaro», V/45, mercoledì 7 giugno 1837, p. 180.9 «Il Figaro», VII/27, mercoledì 3 aprile 1839, p. 108.10«Il corriere dei teatri», 51, mercoledì 26 giugno 1839, p. 202.

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vivere, con la stessa intensità, l'infelice sorte della protagonista. Ma all'inizio del terzo atto la sua attenzione diminuisce, esaurendosi proprio durante la scena della follia.

Mais la scène de la folie n'intéressait point Emma, et le jeu de la chanteuse lui parut exagéré. - Elle crie trop fort, dit-elle en se tournant vers Charles, qui écoutait.11

Che il suo disinteresse di fronte a questa scena sia causato o meno dal sopraggiungere dell'amato Léon Dupuis e dalle frasi che lui le sussurra, poco importa. Emma assume, in ogni caso, un atteggiamento da tipica spettatrice di metà Ottocento, uniformandosi al gusto coevo che considerava la scena della follia di Lucia meno attraente rispetto agli altri numeri dell'opera.12

Come già precisato, un simile disinteresse era in parte provocato da una difficoltà oggettiva nel seguire con facilità e poco sforzo il delirio di Lucia. L'altra spiegazione che non può passare inosservata e che va, almeno, accennata, riguarda più propriamente le attese del pubblico nei confronti della messinscena della follia. Lucia era nata in un ricco contesto di folles par amour che potevano fregiarsi di un «candido ammanto».13 Ciò che accomunava queste folli romantiche era un'aura di virginale purezza che le elevava al di sopra di tutto, quasi fossero idola da venerare per la loro incontestabile virtù. Anche nel delicato momento del delirio continuavano ad incarnare il sogno maschile della fanciulla docile e remissiva, incapace di contaminare, con un linguaggio impudico o con azioni violente, la sua immagine angelicata. Tale imago idealizzata non può, però, appartenere del tutto a Lucia che si macchia, proprio dopo l'amato Finale primo, di una terribile colpa: l'uccisione del suo novello sposo. Se lo spettatore fino a quel momento aveva seguito con commozione le sfortunate vicissitudini della protagonista, ora, venuto a sapere da Raimondo che la donna è un'omicida, modifica il suo comportamento nei confronti della folle, attuando un tentativo di distanziazione (e rimozione). Lucia, ai suoi occhi, ha ormai perso il candore virginale e l'innocenza che contraddistinguono le altre folli romantiche; è una donna pericolosa che, in un certo senso, ha tradito con una simile azione le attese del pubblico. Soffocare nell'oblio l'ultima epifania della protagonista è anche il tentativo di “proteggersi” da una follia uscita ormai dai canoni abituali.

Un analogo atteggiamento repulsivo nei confronti della scena della follia è presente, oltre che nei periodici dell'epoca, anche nelle numerose trascrizioni strumentali dell'opera di Donizetti. I trascrittori preferiscono puntare sui temi più apprezzati di Lucia - lo ribadiamo, «Verranno a te sull'aure», il Finale primo e l'aria finale d'Edgardo - piuttosto che inserire, tra la rosa delle citazioni, la scena della follia. L'unica trascrizione, tra il vasto repertorio consultato, che focalizza l'attenzione proprio sul momento della pazzia è una fantasia per oboe di Henri Brod.14 In questo pezzo è presente, tra l'altro, un breve point d'orgue che conclude il cantabile. E' il primo ed unico esempio ottocentesco di cadenza su testo a stampa che si discosta dal semplice schema armonico annotato da Donizetti (Es. 1), per proporre un equilibrato arricchimento di tale suggerimento originario (Es. 2). Siamo ancora lontani dall'eccesso della cadenza col flauto!

[Ess. 1 e 2]Preso atto che le trascrizioni e i periodici tendevano a relegare in secondo piano la pazzia di

Lucia preferendole temi più accessibili, è alquanto improbabile che nella prima metà dell'Ottocento (e

11 Gustave Flaubert, Madame Bovary. Mœurs de province. (1856), in Œuvres, I, «Bibliothèque de la Pléiade», Paris, Gallimard, 1951, II, p. 534.12 La scena della follia, nella prima metà dell'Ottocento, era così poco apprezzata che si arrivò persino a sostituirla con altre arie di successo, ad esempio con il rondò della Fausta. Riguardo a tale sostituzione, vedi: Hilary Poriss, A madwoman's choice: aria substitution in Lucia di Lammermoor, in «Cambridge Opera Journal», XIII/1, 2001, pp. 1-28.13 Si pensi all'immacolata verginità ostentata da Nina (Nina, ossia la pazza per amore), da Elvira (Puritani) e da Amina (Sonnambula), solo per citare le folli romantiche più conosciute dal grande pubblico. 14 Henri Brod, Fantaisie sur l'air de M.me Persiani dans Lucia di Lammermoor de Donizetti. Pour hautbois avec acc. de piano ou de harpe, op. 57, Paris, B. Latte, 1841, (B.L. 1832).

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oltre) potesse comparire la cadenza col flauto. Infatti, questa pagina virtuosistica potenzierebbe troppo la scena della follia che, guarda caso, cessa di essere il topico rondò della “prima donna” per lasciare campo libero ad una conclusione più “eroica”, quale l'aria finale d'Edgardo.15 Molto più appropriato e più vicino al gusto dell'epoca sembra essere il point d'orgue proposto da Brod o un qualsiasi altro point d'orgue presente a scopo esemplificativo nei numerosi trattati di canto ottocenteschi. Consultando questi manuali, si sono trovate esclusivamente cadenze che rispettavano la regolamentazione prescritta dalla prassi dell'epoca: la cadenza era eseguita dalla voce sola con un'unica respirazione, che quindi ne limitava la lunghezza (quasi sempre un solo rigo pentagrammato); non prevedeva lo sfoggio di virtuosismi, ma si concentrava su poche difficoltà tecniche, preferendo i triolets e le scale ascendenti e discendenti; si muoveva su una tessitura media, sfiorando l'acuto per poi ricadere in zone più stabili e sicure.16 Per esemplificare queste normative riportiamo due cadenze (Ess. 3 e 4) tratte rispettivamente dal metodo di canto di A. Panseron (1839) e da quello di L. Bordese (1863).

[Ess. 3 e 4]Cadenze così semplici, quasi elementari, erano la norma nei trattati ottocenteschi che solo raramente riportavano points d'orgue più articolati, spesso tratti dal repertorio di cantanti in voga all'epoca. Ad esempio, Gilbert Duprez, nel suo rinomato trattato L'art du chant pubblicato nel 1846, annota una serie di cadenze appartenute a celebri soprani, tra cui due cadenze attribuite a Fanny Tacchinardi Persiani, la prima interprete di Lucia. Il point d'orgue che riportiamo (Es. 5) è visibilmente più elaborato rispetto agli esempi 3 e 4, pur mantenendosi entro i limiti dettati dal buon gusto.

[Es. 5]Per trovare qualcosa che si avvicini alla cadenza col flauto bisogna abbandonare la trattatistica e

volgere lo sguardo al panorama operistico ottocentesco. Le due opéras-comiques, Le Rossignol di S. Lebrun (1816) e Les Noces de Jeannette di V. Massé (1853), ad esempio, giustificarono la profusione di fioriture e cadenze acrobatiche con l'espediente del «rossignol», l'uccello dall'ugola d'oro incarnata dal flauto che si cimenta in arditi duetti con le due protagoniste femminili, Philis e Jeannette. L'esempio 6, tratto dal Rossignol di Lebrun, mostra proprio il point d'orgue tra la voce e il flauto - all'epoca suonato dal virtuoso Tulou - che corona l'aria detta appunto del «rossignol».

[Es. 6]Altre due opere che si sono valse del binomio voce-flauto, impiegandolo anche in complicate cadenze che “tradivano” i precetti accademici, sono L'Étoile du Nord (1854) e Le Pardon de Ploërmel (1859) di Meyerbeer. Entrambe puntano proprio sulle spettacolari acrobazie compiute dal flauto e dalla voce, ormai proiettata verso le altezze del soprano leggero.

Malgrado queste eccezioni, peraltro molto gradite al pubblico, la cadenza raccomandata e più frequentata dai cantanti continuava ad essere quella prescritta dal rigore accademico, breve e contenuta; niente di paragonabile ai vertiginosi eccessi della cadenza col flauto! Possiamo essere certi che, se una simile prodezza virtuosistica fosse comparsa in pieno Ottocento, non sarebbe passata inosservata, ma avrebbe fatto parlare molto di sé.

2. La cadenza della Melba (e della Marchesi)

15 Per un approfondimento su Lucia soffocata da una struttura, vedi: Mary Ann Smart, The silencing of Lucia, «Cambridge Opera Journal», IV/2, 1992, pp. 119-141.16 «Le point d'orgue, appellé cadenza par les italiens, doit être fait d'une seule respiration; les chanteurs des meilleurs écoles d'Italie n'ont jamais dérogé à cette loi, que toutes les méthodes de chant ont scrupuleusement respectée. Le point d'orgue doit de rigueur, commencer par la messa in voce et terminer par le trille fort prolongé. […] C'est dans ces deux sortes de points, mais principalement dans le point d'orgue, que le chanteur peut donner un libre essor à son imagination à l'égard de traits, et faire connaître s'il est musicien, s'il est instruit de l'harmonie, de l'enchaînement des modulations, et s'il sait révenir naturellement au point d'où il est parti, et dont il a eu la hardiesse de s'écarter», (Méthode de chant du Conservatoire de Musique, Paris, à l'imprimerie du Conservatoire de Musique, s.d., p. 78).

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A riprova di ciò, è bastato proseguire con l'indagine e sfogliare i periodici di fine Ottocento, per trovare numerosi articoli che evidenziavano, sempre con grande ammirazione, l'interpolazione della cadenza col flauto. Le prime testimonianze indubitabili sul point d'orgue risalgono ad un'epoca molto tarda, per l'esattezza al 1889, anno in cui si rappresentò, dopo ben vent'anni d'assenza, Lucie de Lammermoor17 all'Opéra Garnier, con Nelly Melba nel ruolo della protagonista.

Après l'air de la Folie, […] on lui a fait [alla Melba] de véritables ovations de tous les bouts de la salle. C'est qu'elle a là un point d'orgue vertigineux, où elle suit la flûte de Taffanel dans toutes ses voltiges avec une maestria incomparable. On peut même dire que c'est pour ce seul point d'orgue que les directeurs de l'Opéra ont cru devoir arracher l'œuvre de Donizetti au répertoire du Chateau d'Eau, dont elle constituait le plus bel ornament.18

Quest'articolo si riferisce proprio alla rappresentazione sopra citata, che aveva visto trionfare la Melba, soprattutto nell'esecuzione del “pirotecnico” point d'orgue.

Il grande soprano australiano (1861-1932) aveva studiato a Parigi con Mathilde Marchesi (1821-1913) - mezzosoprano tedesco perfezionatosi con Manuel Garcia - e debuttato a Bruxelles con Rigoletto (1887). Nel 1888 interpretò Lucia al Covent Garden e nel 1889 la ripropose all'Opéra Garnier, riscuotendo un grande plauso, grazie alla sua voce prodigiosa e alla “perla” virtuosistica che la vedeva protagonista al termine del cantabile. Per questa cadenza, che si adattava perfettamente alla sua voce da soprano leggero, furono spese ben 10 settimane di prove, un tempo inusitato, se si pensa alla rapidità con la quale di solito erano allestite le rappresentazioni.

Les directeurs et l'artiste n'ont vu que la scène de la folie; c'est a l'inhumation de cette scène à tremplin que dix semaines d'étude ont été consacrées.19

Dopo uno studio così meticoloso, ogni dubbio sul pericoloso inserimento del duetto tra voce e flauto scomparve e ci si preparò all'evento. La Melba, come abbiamo visto, non tradì le attese e convinse pienamente il pubblico e la critica, che tuttavia continuava a rimproverare alle cantanti di utilizzare il virtuosismo per supplire ad una carenza di doti comunicative.

Ainsi il est écrit que lorsqu'une chanteuse possède une voix pure, étendue, souple et agile, qu'elle a le trille facile, le chromatisme insoucieux, qu'elle joue avec les notes comme un jongleur indien avec ses boules d'or, la musique, la vraie musique, lui est interdite. […] Mme Melba consentira-t-elle a nous émouvoir? Ne recherchera-t-elle toujours dans un rôle que la scène de prestidigitation, le prétexte à jongleries?20

In effetti, era frequente che una cantante dotata di una voce “leggera” puntasse più sulle acrobazie vocali che sul fraseggio per strappare al pubblico facili consensi, com'era frequente che ci s'interrogasse su questa sterile meccanizzazione dell'arte musicale. Anche Offenbach, nei suoi Contes d'Hoffmann (1881), lancia a riguardo una piacevole provocazione, proponendo la storia della bella figlia del fisico Spalanzani, Olympia. Durante una festa, la giovane intrattiene i presenti con la chanson «Les oiseaux dans la charmille», mostrando le sue doti da virtuosa. Ma il suo canto appare alquanto spersonalizzato,

17 Lucie de Lammermoor entrò stabilmente nel repertorio dell'Académie Royale de Musique a partire dal 1846 e vi rimase fino al 1867, per essere poi ripresa nel 1889 con Nelly Melba. «20 février. - Lucie de Lammermoor, op. en 4 a. Mus. de Donizetti, par. françaises de Alphonse Royer et Gustave Vaëz (1re repr. à la Renaissance, 6 août 1839). Repr. jusqu'en 1867 et en 1889-90», (J.G. Prod'homme, L'Opéra (1669-1925), Paris, Librairie Delagrave, 1925, p. 113).18 «Le ménestrel», LV/50, 15 décembre 1889, pp. 394-395.19 «L'art musical», XXVIII/23, 15 décembre 1889, pp. 177-178.20 «L'art musical», XXVIII/23, 15 décembre 1889, pp. 177-178.

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come se fosse un carillon a sgranare le note e non l'ugola di una dolce fanciulla in carne ed ossa. A tale impressione negativa contribuiscono anche gli strani rumori d'ingranaggi inceppati che frammezzano il suo canto, rumori che, con un crescendo d'intensità, accompagneranno lo spettatore fino al disvelamento della realtà: Olympia altri non è che un automa costruito per diletto da Spalanzani.

Tornando alla cadenza, dobbiamo ora considerare un dato essenziale per il nostro studio, vale a dire il rimaneggiamento dei manoscritti di Lucie conservati all'Opéra Garnier, effettuato proprio per le rappresentazioni del 1889. Tali manoscritti - una partitura in tre volumi e una serie di raccoglitori contenenti le parti staccate per l'orchestra,21 oggi conservati alla Bibliothèque de l'Opéra Garnier - erano in uso dal lontano 1846, data della prima rappresentazione di Lucie all'Académie Royale de Musique.22 A questo materiale assai stratificato sono stati aggiunti fogli in carta bianca (timbrata «Lard»)23 che annotano scrupolosamente la cadenza col flauto (Es. 7). Recenti studi paleografici24 hanno poi consentito di datare le varie tipologie cartacee (vedi nota 23) e i fogli contenenti la cadenza. Il risultato è stato un'ulteriore conferma di quanto già ipotizzato: le pagine col point d'orgue furono aggiunte proprio per la rappresentazione del 1889.

[Es. 7]Da quest'anno in poi il point d'orgue entra definitivamente nel repertorio, diventando quasi una

parte inscindibile dalla partitura originaria. La stessa Melba, dopo il successo conseguito a Parigi, eleggerà Lucia a suo cavallo di battaglia, incidendo più volte «Ardon gli incensi» e impersonando la sfortunata eroina donizettiana nei teatri più prestigiosi, tra cui il Teatro alla Scala di Milano (1893). Anche qui, come già a Parigi, più che Donizetti parlò la voce della Melba e il flauto dello Zamperoni. Ma lasciamo al censore del «Trovatore» la cronaca dell'evento:

Nel rondò finale riportò vittoria completa [la Melba], meritata ed un'ovazione di quelle che non sanno di risotto, poiché tutto il pubblico freneticamente l'applaudì. Soprattutto nell'andante, nel, diremo, duetto col flauto, fece prodigi di virtuosità e di esecuzione meravigliosa. Non si sarebbe potuto sapere se essa suonasse il flauto o lo Zamperoni cantasse! tanto quei due strumenti erano fusi! Dobbiamo dire che da molto tempo non ci è toccato di udire cosa più perfetta, più elettrizzante. L'entusiasmo fu tale che il pubblico indiscreto, ha voluto a viva forza un bis, cui la diva si è prestata con garbo.25

Riportiamo ora un altro articolo, apparso sulla «Gazzetta musicale di Milano» nel 1893, che si riferisce all'interpretazione “filologica” della Melba al Teatro alla Scala. A quanto pare il soprano non si comportò da «jongleur indien avec ses boules d'or», ma si limitò ad impreziosire la partitura con la “sola” cadenza col flauto.

La signora Melba, stella lontana, è rimasta stella anche alla Scala; il successo che essa ha riportato è salito ad un diapason altissimo, vincendo subito, dopo poche battute, la diffidenza degli uditori. E il trionfale successo è pienamente giustificato: voce pura come il diamante; timbro dolce, insinuante eppure vigoroso; uguaglianza perfetta di suoni in tutta l'ampia scala

21 G. Donizetti, Lucie de Lammermoor, partitions, paroles de MM Royez et Vaëz, musique de Donizetti, ms 1846 - 3 vol. A549 a II, III, IV; G. Donizetti, Lucie de Lammermoor, parti staccate conservate all'Opéra Garnier, Mat. 19 [328] 1-307.22 Tra i materiali d'orchestra sono conservati anche alcuni fascicoli a stampa risalenti al 1839. Molto probabilmente si tratta delle parti utilizzate per la prima rappresentazione di Lucie de Lammermoor al Théâtre de la Renaissance (1839, con Anne Thillon nel ruolo della protagonista) e successivamente accorpate ai manoscritti usati per la prima rappresentazione di Lucie all'Académie Royale de Musique (1846, con Mlle Nau nel ruolo della protagonista).23 Sono state identificate tre tipologie cartacee: una verde chiaro, una verde scuro e una bianca. Le prime due, databili 1846, riportano il timbro a secco «Dantier fils», mentre la terza, molto posteriore, è timbrata «Lard». Per un maggior approfondimento sui manoscritti e sulle differenti carte utilizzate, rimando alla mia tesi di laurea, op. cit.24 Un ringraziamento ad Elizabeth Bartlet che mi ha cortesemente aiutato nella datazione di tutto il materiale manoscritto inerente a Lucie, conservato all'Opèra Garnier.25 «Il trovatore», XL/12, venerdì 17 marzo 1893, p. 2.

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che dal do basso ascende al mi sopracuto senz'alcun sforzo; agilità perfetta, nitida, perlata; buona pronuncia - se a tutte queste doti si aggiunge il fascino naturale che esercita una bella persona dalle forme scultoree, è facile immaginare l'entusiasmo straordinario suscitato dalla signora. […] La Melba canta la musica come fu scritta! … non ghirigori barocchi, non rallentandi, non corone, ma la frase giusta, semplice, quadrata: poche e di buon gusto le tradizionali fioriture nelle riprese: nella Lucia il virtuosismo fa capolino soltanto alla famosa cadenza col flauto, nella quale l'esecuzione della Melba raggiunge una perfezione unica.26

E' evidente che nel 1893 il point d’orgue aveva ormai conquistato un posto di prim’ordine, assicurandosi l’appellativo di «famosa cadenza col flauto» cui non si poteva più rinunciare. E se nel 1835-40 si bissavano le arie più riuscite della partitura, ora si replica la cadenza, quasi fosse un pezzo a sé stante.

Fu un nuovo trionfo per la signora Melba la quale, come nella prima sera, dovette ripetere la cadenza della scena della follia.27

L'alto indice di gradimento riscosso dalla cadenza fece sì che Mathilde Marchesi, che come si ricorderà era stata l'insegnante della Melba, si affrettò ad inserire nella sua raccolta Variantes et points d'orgue (1900)28 proprio questa pagina virtuosistica. Nella sua silloge - come segnalato da Emilio Sala - sono proposte tre cadenze per la scena della follia di Lucia. La prima, identica a quella annotata nei manoscritti dell'Opéra Garnier, è l'unica che riporti esplicitamente la dedica alla Melba («Cadenza écrite pour Mme Melba»). La terza è in pratica una variazione della prima cadenza, mentre la seconda inserisce tra i passaggi virtuosistici la citazione del motivo di reminiscenza «Verranno a te sull'aure», eseguita dal flauto.29 Molto probabilmente fu proprio la Marchesi l'artefice della cadenza col flauto, composta espressamente per la sua allieva e per la ripresa di Lucie all'Opéra Garnier.

3. Lucia da folle par amour ad isterica fin de siècle

Lucia, come abbiamo visto, riscosse in piena fin de siècle nuovi fragorosi successi, proprio grazie all'interpolazione del virtuosistico point d'orgue col flauto. Quest'aggiunta significativa contribuì in modo rilevante a rilanciare la sua attualità culturale, permettendole di adeguarsi alle diverse tendenze e contesti linguistici che avevano in parte mutato le attese nei confronti della tematica della follia. Follia che fu nuovamente al centro del dibattito scientifico proprio a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, grazie all'opera di Jean-Martin Charcot (1825-1893). Lo studioso francese, dopo aver frequentato la facoltà di Medicina, vinse nel 1848 il concorso per ottenere l'internato presso gli Hôpitaux di Parigi e cominciò a prestare servizio alla Salpêtrière, ricoprendo dal 1862 la carica di chef de service. Da questo momento in poi delineò i suoi interessi in campo neurologico, occupandosi anche di fenomeni ipnotici e tenendo dal 1870 delle lezioni sull'isteria, proprio alla Salpêtrière. Queste sedute riscossero molto successo, divenendo quasi un ritrovo alla moda, oltre che un momento di studio. Charcot, pur rimanendo un convinto sostenitore che il fattore ereditario e quello ambientale fossero i veri responsabili di tale patologia, spettacolarizzava il fenomeno, effettuando autopsie davanti ad una vasta platea ed esibendo pazienti affette da isteria, per dimostrare come, tra le cause più prossime della malattia, ci fosse l'iperestesia ovarica. In queste lezioni si poteva assistere allo scatenamento di un 26 «Gazzetta musicale di Milano», XLVIII/12, domenica 19 marzo 1893, pp. 192-193.27 Ibid.28 Mathilde Marchesi, Variantes et points d'orgue, composés pour les principaux airs du répertoire par Mathilde Marchesi pour ses élèves de ses Classes de Chant, Paris, Heugel et C., 1900. 29 Quest'aggiunta significativa è colta anche da Luigi Ricci (L. Ricci, Variazioni, cadenze, tradizioni per il canto, vol I «Voci femminili», Milano, Ricordi, 1937) che in alcune cadenze proposte per la scena della follia si vale proprio del celebre tema d'amore, questa volta affidato alla voce.

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attacco isterico solo mediante una leggera pressione delle ovaie, o ad un improvviso arresto di tale attacco tramite una pressione più forte nello stesso punto. Charcot, insieme all'allievo Paul Richer, pubblicò nel 1887 Les démoniaques dans l'art30unendo ai suoi interessi medico-scientifici la passione per l'arte. Un capitolo del saggio è dedicato all'attacco isterico e ai quattro stadi in cui si suddivide. Tale descrizione dettagliata, che si rifà ai numerosi casi di follia osservati direttamente da Charcot, rivela alcuni interessanti punti di contatto con la follia, seppur idealizzata, di Lucia.

L'attaque hystérique complète et régulière se compose de quatre périodes; elle est précédée le plus souvent de signes précurseurs qui permettent aux malades de prévoir le moment où ils vont tomber en état de crise.

Ces prodromes apparaissent quelquefois plusieurs jours à l'avance. La malade, quand c'est une femme, est prise de malaises, d'inappétence, parfois de vomissements. Elle devient taciturne, mélancolique ou au contraire est en proie à une surexcitation extrême.

Les hallucinations de la vue sont fréquentes.31

La ricostruzione fatta da Charcot della fase che precede l'attacco isterico somiglia agli atteggiamenti manifestati da Lucia durante il I atto. Lo stato d'agitazione che la fa fremere e le terribili allucinazioni che racconta ad Alisa nella cavatina «Regnava nel silenzio» sono i sintomi palesi di un'instabilità già evidente.

L'attacco vero e proprio è contrassegnato da una serie di fenomeni così sintetizzati da Charcot:

Bientôt se montrent les phénomènes douloureux de l'aura hystérique qui précèdent immédiatement l'attaque et qui apparaissent en général dans l'ordre suivant: douleur ovarienne, irradiations vers l'épigastre, palpitations cardiaques. […] Puis la perte de connaissance marque le début de l'attaque.32

Anche Lucia mostra nei primi due atti alcuni di questi sintomi e lo stesso Cammarano evidenzia nel libretto, quando Lucia entra in scena chiamata da Enrico, il suo stato già delirante: «la pallidezza del suo volto, lo sguardo smarrito, tutto annuncia in lei i patimenti che sofferse, ed i primi sintomi di uno squilibrio mentale». Nel colloquio che segue, la giovane donna subisce continui traumi ed è colpita da un'eccessiva palpitazione cardiaca («Il core mi balzò!»). Ma sarà proprio nel Finale primo, ed esattamente dopo aver firmato il contratto nuziale, che si sentirà mancare («Io gelo ed ardo…io manco…») fino a perdere conoscenza. E' l'inizio dell'“attacco isterico”.

A questo punto Charcot parla di fase culminante dell'attacco, descrivendola in modo particolareggiato. La malata si contorce, impallidisce, perde conoscenza, rotea i globi oculari, il tutto in un breve lasso di tempo che prelude allo stadio successivo, molto più violento. L'isterica acquisisce, in questa fase ulteriore, un'impressionante forza muscolare che le permette di compiere spaventose contorsioni, di simulare con il corpo archi di cerchio e di liberare un'irrefrenabile violenza distruttiva.

Le malade semble lutter contre un être imaginaire, il cherche à rompre les liens qui les retiennent. C'est une véritable crise de rage contre lui-même ou contre les autres; ce sont des cris sauvages, des hurlements de bête fauve. Il cherche à mordre et à frapper.33

30 J.M. Charcot, P. Richer, Les démoniaques dans l'art, Paris, Delahaye et Lecrosnier, 1887. Oggi ristampato da Macula (J.M. Charcot, P. Richer, Les démoniaques dans l'art, Paris, Macula, 1984).31 Ibid., p. 92.32 Ibid, p. 94.33 Ibid., p. 101.

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Ovviamente era impossibile che Donizetti e Cammarano mettessero in scena nel 1835 tali incontrollate manifestazioni di follia. E, infatti, questa fase violenta, che costituisce l'apice dell'attacco isterico, è celata agli occhi dello spettatore con un tentativo di distanziazione e quindi di neutralizzazione. Sarà compito di Raimondo riferire ai presenti, seppur in modo attutito, la terribile azione compiuta da Lucia nella stanza nuziale. La docile e remissiva creatura che ognuno riteneva indifesa e mansueta, ha mostrato con l'uccisione del suo sposo un'aggressività incontrollata, proprio quella strepitosa forza muscolare che gli isterici acquisiscono nel momento denominato da Charcot «des grands mouvements».

La terza fase descritta dallo studioso francese è detta «des attitudes passionnelles».

L'hallucination préside manifestement à cette troisième période. Le malade entre lui-même en scène et par la mimique expressive et animée à laquelle il se livre, les phrases entrecoupées qui lui échappent, il est facile de suivre toutes les péripéties du drame auquel il croit assister et où il joue le principal rôle. Lorsque c'est une femme deux ordres d'idées bien différents se partagent ordinairement les hallucinations; ce tableau a deux faces, l'une gaie, l'autre triste.

Dans l'ordre gai, la malade se croit transportée dans un jardin magnifique, sorte d'Éden, où souvent les fleurs sont rouges et les habitants vêtus de rouge. On y joue de la musique. La malade y rencontre l'objet de ses rêves ou de ses affections antérieures et les scènes d'amour suivent quelquefois. Mais cette partie érotique manque souvent et dans tous les cas ne joue, ainsi qu'on le voit, qu'on rôle absolument secondaire au milieu des manifestations si nombreuses et si variées qui constituent la grande attaque hystérique. - Les tableaux tristes sont des incendies, la guerre, les révolutions, des assassinats, etc., presque toujours il y a du sang répandu.34

Leggendo quest'accurata descrizione, si nota subito l'impressionante somiglianza con la scena della follia di Lucia. Anche l'eroina donizettiana è sballottata da un'allucinazione all'altra: crede di vedere il fantasma che la separa dal suo Edgardo («Ohimé! Sorge il tremendo/ fantasma e ne separa!») e avverte la presenza di nemici che le vogliono strappare la felicità. Successivamente, appena crede di essere al sicuro con il suo amato, si abbandona a «gaie» allucinazioni. E' soprattutto la ricostruzione idealizzata del sacro congiungimento con Edgardo in un Eden fiorito - come da tradizione romantica - a farla fremere di gioia. Anche in questo caso operistico si è materializzato un paradiso rassicurante ricco di fiori («Sparsa di rose») e allietato dall'inno di nozze («Un'armonia celeste/ Dì, non ascolti? - Ah, l'inno/ suona di nozze!»). Ma l'idillio è frantumato dal sopraggiungere di Enrico che scatena in Lucia nuove turbolente allucinazioni, in cui la giovane crede di vedere Edgardo che calpesta l'anello maledicendola («nell'ira sua terribile/Calpesta, oh Dio!, l'anello!…/Mi maledice!»),

A questo punto l'attacco può considerarsi terminato.

Après la période des attidudes passionnelles ou poses plastiques, on peut dire, à proprement parler, que l'attaque est terminée. La connaissance est revenue, mais en partie seulement, et pendent un certain temps la malade demeure en proie à un délire dont le caractère varie.35

Anche Lucia si avvia lentamente verso la coscienza e con la cabaletta «Spargi d'amaro pianto» dà l'addio al mondo, desiderando morire accanto al suo amato. Questa comparazione ha mostrato un possibile contatto tra due ambiti molto differenti, quello scientifico e quello drammaturgico. Proprio durante la fin de siècle si assiste sia al recupero di opere che ruotavano attorno alla tematica della follia, sia alla creazione di nuove eroine affette da isteria. Ma la gran differenza tra queste nuove malate e quelle che le avevano precedute nella prima metà dell'Ottocento è racchiusa in un mutato significato della figura femminile. La donna, per gran parte del

34 Ibid., p. 102.35 Ibid., p. 102.

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XIX secolo, aveva assunto agli occhi dell'uomo la rassicurante parvenza di “angelo del focolare” dedito al ruolo di moglie e di madre, incarnando la creatura destinata a subire la volontà maschile che esige una compagna docile, remissiva e dall'intelligenza limitata. Tale imago idealizzata fu supportata anche da numerosi studi sulla donna che cercavano di dimostrare scientificamente il presunto divario fra i sessi, tirando in causa, per legittimare la propria tesi, l'indiscussa testimonianza biblica. Ad esempio, Frédéric de Rougemont riteneva che Dio, nella sua infinita saggezza, avesse scelto per la creazione della donna la costola d'Adamo proprio con una precisa finalità: non una parte della testa, che l'avrebbe resa troppo intelligente, né una parte della gamba che l'avrebbe resa troppo attiva, ma una parte vicino al cuore, in modo che la donna fosse tutta amore!36 E proprio l'amore e l'innocente purezza che dovrebbero, secondo l'uomo ottocentesco, contraddistinguere la donna, sono elementi onnipresenti nel repertorio operistico coevo. Elvira, Amina, Linda incarnano perfettamente quest'ideale maschile, che andava però preservato per far sì che «non sia mai, che si offuschi il suo candor». A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, lo stereotipo della vergine tutta amore cominciò a vacillare, grazie anche ai nuovi studi sulla sessualità femminile. Agli occhi dell'uomo si spalancò un universo sconosciuto in cui la donna non subiva remissiva la virilità maschile, ma era pronta a qualsiasi azione - dall'autoerotismo alle pratiche lesbiche - pur di provare piacere. Era, quindi, una donna mossa da un irrefrenabile desiderio sessuale - che la contaminava anche nel suo ruolo di madre - e dalla sete di rivincita nei confronti del maschio, fino a quel momento dominatore. Così, accostando al candido “angelo del focolare” la desiderabile e temibile femme fatale,37 si schematizzò l'universo femminile in un modo alquanto riduttivo.

«Per quel che riguarda le donne, non pensate che sia piuttosto limitativo dividerle solo in due categorie, angeli e vampiri? Come non sarebbe onesto dividere gli uomini in demoni e curatori d'anime. Perché l'uomo non può aspettarsi dalla donna la stessa forza e la stessa debolezza che s'aspetta da se stesso?»Kollonitz era veramente scandalizzato. «Santo cielo!», esclamò, «mia cara signora, parlate come Ibsen! Ma state scherzando! Una brava signora come voi non può sostenere teorie del genere. Non vi rendete conto che state distruggendo l'ideale, e che senza un ideale - Dio, la donna, la bellezza, la cavalleria - il mondo non sarebbe che un abisso di tenebre?»38

Tale ideale a due facce - l'angelo e il diavolo - è ben esemplificato, in ambito operistico, dalla Carmen di Bizet (1875), che riunisce in un'unica opera l'aspetto conturbante e quasi demoniaco della femme fatale Carmen con quello angelicato, spirante soave purezza di Micaëla. Ma tra le due personificazioni dell'ideale femminino, quella che conquisterà un ruolo predominante, soprattutto nella fin de siècle, è certamente la donna dalla sessualità sfrenata che irretisce l'uomo e lo incatena a sé, trascinandolo nel gorgo della perdizione. L'uomo è attratto da tale vampiro che maschera con un'accecante bellezza la sua origine demoniaca, ma allo stesso tempo lo teme e ne prova repulsione. E non è un caso che spesso queste femmes fatales siano affette proprio da isteria; confinarle nella malattia significa, da parte dell'uomo, neutralizzarne il temuto potere. Potremmo citare a riguardo, rimanendo vicini al 1889, La Navarraise di Massenet (1894). Quest'episodio lirico in due atti di MM Jules Claretie e Henri Cain, narra di una donna dalla bellezza conturbarte, Anita, che per procurarsi la dote che le permetterà di sposare l'amato Araquir, seduce Zuccaraga, capo rivoluzionario delle forze carliste, e, dopo averlo soggiogato con le sue grazie, lo uccide impietosamente. La scena della seduzione e quella dell'omicidio sono celate al pubblico. Solo in seguito, grazie al racconto di Anita, sia lo spettatore che Araquir 36 Anche cit. in Bram Dijkstra, Idols of perversity, Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 248-249.37 Riguardo al tema della femme fatale, vedi: Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Torino, Giulio Einaudi, 1942; Giancarlo Marmori, Le vergini funeste, Milano, Sugar Editore, 1966; Bram Dijkstra, Idols of perversity, Oxford, Oxford University Press, 1986; Elaine Showalter, The female malady: women, madness, and English culture 1830-1980, London, Virago, 1987.38 Vernon Lee (Violet Paget), A Frivolous Conversion, in Vanitas (1911), cit. in Bram Dijkstra, Ibid., pp. 486-487.

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verranno a conoscenza dei fatti, provando, di fronte a questa donna macchiata dalla colpa, un sentimento di repulsione e il desiderio di confinarla lontano. Anita, già scossa da stato d'isteria, impazzisce e lancia, su un pedale ossessivo, una terribile risata che conclude il dramma. La figura di Anita assomma in sé i connotati della femme fatale e quelli della donna isterica, tendendo la mano ad altre più celebri “donne vampire” del XX secolo, quali Elektra e Salome. La vocalità di queste donne cacciatrici è erotizzata e violenta,39 drammaticamente protesa verso la lacerazione degli ordinari schemi tonali. Ovviamente, siamo molto lontani dal tonalismo e dalle “solite forme” che ingabbiano Lucia e che la costringono ad eseguire un cantabile ed una cabaletta come scena di follia. Ma Lucia, pur portandosi dietro un bagaglio culturale pienamente romantico, riuscirà lo stesso a rilanciare il suo messaggio culturale e ad uniformarsi ai cambiamenti che si erano verificati, nel corso dell'Ottocento, in ambito vocale.

Lucia fu composta in un'epoca che si era nutrita di grandi soprani drammatici d'agilità, 40 quali la Malibran e la Pasta, e fu interpretata da cantanti che possedevano una vocalità versatile. La prima interprete fu Fanny Tacchinardi Persiani (1812-1867) che cantò Lucia ripetutamente in Italia e all'estero ottenendo sempre giudizi favorevoli. La sua voce possedeva una grande duttilità e la capacità, pur mantenendosi su una tessitura media, di toccare le note più acute del soprano e di compiere arditi virtuosismi.

La voix, d'une justesse parfaite, peut atteindre les notes les plus élevées, descendre aux notes les plus basses, sans fatigue, sans efforts, et don plus rare! sans rien perdre de sa mélodieuse flexibilité. […] D'ordinaire, la force des cordes hautes est accordées à la voix humaine par la nature, au détriment des cordes basses, ou réciproquement, à de bien rares exceptions près; la voix de la cantatrice qui nous occupe mérite, à cet égard comme à beaucoup d'autres, de compter parmi les plus trionphantes exceptions. Douce ou forte, selon le besoin, moelleuse ou stridente cette voix est, en outre, toujours abondante et pleine, il ne lui manque même pas la vibration, que les voix élevées possèdent si rarement.41

Questo profilo della Tacchinardi è simile a quello di altri soprani che interpretarono Lucia nella prima metà dell'Ottocento, ad esempio, Anne Sophie Thillon (1819-1903), che impersonò Lucie al Théâtre de la Renaissance nel 1839, o Maria Dolores Benedicta Josephina Nau (1818-1891) prima interprete di Lucie all'Académie Royale de Musique nel 1846. Entrambe possedevano una voce che spaziava, senza

39 Benché il ruolo della femme fatale sia di norma affidato a delle voci scure, si contano anche alcuni casi in cui tale ruolo è stato affidato a voci particolarmente acute. Massenet, ad esempio, s'ispirerà al soprano leggero Sybil Sanderson (1865-1903) - che, tra l'altro, aveva studiato proprio con Mathilde Marchesi - per il ruolo di Esclarmonde (1889), la principessa bizantina (novella Armida) che con arti magiche sedurrà in un'isola misteriosa il cavaliere Roland, e quello di Thaïs, la cortigiana alessandrina che, dopo una vita peccaminosa, sceglierà la via della redenzione. Quest'ultima opera verrà più volte rimaneggiata dall'autore, fino alla versione definitiva del 1898 per l'Opéra. Considerevole è l'aggiunta, nel tableau «Place publique», di un sensuale balletto di cortigiane coronato dall'apparizione della «charmeuse», interpretata da un soprano leggero di coloratura. Questa versione definitiva approdò anche in Italia nel 1903. Ma in questo caso non fu la Sanderson - deceduta prematuramente proprio nel 1903 - a calcare le scene del Teatro Lirico di Milano, bensì Lina Cavalieri (1874-1944), altro rinomato soprano leggero.40 «Lucia di Lammermoor, storicamente, è anch'essa soprano drammatico di agilità. Le vicissitudini che la trasformarono in soprano lirico-leggero possono essere così sintetizzate: la scrittura di Verdi e dei suoi coevi dà luogo, dal 1860/1870 in poi, a un soprano - detto di forza o drammatico - che non è più in grado di eseguire impeccabilmente le agilità. Da ciò una scissione: da un lato il soprano di forza, appunto, dall'altro il soprano di agilità, poi denominato lirico-leggero o di coloratura. Resta il fatto, però, che nel repertorio donizettiano il soprano di coloratura è un ripiego e, vorrei aggiungere, un'aberrazione. Cioè una voce linfatica, bamboleggiante e leziosa sconosciuta a Donizetti», (R. Celletti, La vocalità di Donizetti, in Atti del primo convegno internazionale di studi donizettiani (1975), Pieralberto Cattaneo, a cura di, Bergamo, Azienda autonoma di turismo, 1983, pp. 117-118). 41 C. Chaudes-Aigues, Mme Persiani dans l'Elisir d'Amore, in Galerie des artistes dramatiques, fascicolo di p.4, Paris, 1839, cit. in Lucia di Lammermoor, «Avant scène opéra», 55, 1983, pp. 100-101.

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difficoltà, dalle zone più gravi a quelle più acute del soprano.42 Erano, in un certo senso, delle antesignane del soprano leggero che conquisterà grandi consensi proprio a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Fu soprattutto con Meyerbeer che s'impose questo tipo di vocalità estremamente duttile ed acuta. L'Étoile du Nord (1854) e Le Pardon de Ploërmel (1859) ben esemplificano la predilezione per un soprano ormai definibile “leggero”. Nell'Étoile du Nord la protagonista Catherine impazzisce dopo aver scoperto che il suo amato Peters è in realtà lo zar Pietro il Grande. Solo lo psicodramma inscenato nel III atto e il suono del flauto che ripropone la melodia da lei cantata all'inizio dell'opera, le permetteranno di recuperare la ragione e di ricostruire il suo passato.

Tout a coup son emotion s'accroît par les sons de la flûte de Peters qui lui rappellent l'air qu'il jouait autrefois; sa voix se joint à l'instrumentation et forme avec lui un duo rempli de fioritures élégantes et de combinasons brillantes; puis Catherine invite son frère a se joindre à sa voix et aussi l'autre flûte et tous trois forment un trio dont l'effet appelle toujours les applaudissements enthousiastes du public.43

Anche nel Pardon de Ploërmel troviamo una protagonista folle, Dinorah, caratterizzata da una vocalità da soprano leggero che esplode in tutta la sua flessibilità proprio nell'aria della pazzia «Ombre légère». Come scriverà il Barone d'Ernouf, Meyerbeer utilizza l'escamotage della follia per giustificare e legittimare le prodigiose fioriture compiute da un soprano che è ormai il prototipo della «chanteuse légère».44

Dans L'Étoile du Nord, comme dans le Pardon de Ploërmel, Meyerbeer s'est appliqué à faire briller une chanteuse légère, sans outre-passer la vraisemblence scénique. Il a employé pour cela un moyen des plus simples, surtout dans un opéra-comique, la combinaison d'une action théâtrale qui amène l'artiste à chanter épisodiquement, pour l'agrément de ses interlocuteurs, des airs de pure fantaisie. […] Pour la faire briller de même au dénouement, le compositeur a recours à la ressource un peu banale de la folie, qui autorise les plus téméraires prodigalités de gammes et de trilles dans les situations les plus déchirantes. Le procédé, employé avec succès par Donizetti dans Lucia, et par Carafa dans la Prison d'Edimbourg, a paru si commode à Meyerbeer qu'il s'en est servi, non seulement à la fin de L'Étoile du Nord, mais d'un bout à l'autre du rôle de Dinorah dans le Pardon, rôle écrit, il est vrai, pour une cantatrice dont le principal mérite consistait dans une agilité exceptionnelle.45

Questa citazione risale al 1888, un anno prima che la Melba rendesse memorabile, con l'aggiunta della cadenza col flauto, la sua esecuzione di Lucie all'Opéra Garnier. Dopo una simile interpretazione, Lucia non poteva che essere annoverata, senza esitazione, tra i ruoli destinati al soprano leggero, proprio come accade nel trattato di J.-M. Mayan pubblicato nel 1891:

Le soprano léger est en même temps le soprano aigu; c'est la chanteuse à roulades, à fioritures, à notes piquées, à points d'orgue, à vocalises. […] Voici les principaux rôles de son repertoire: Ophélie, d'Hamlet (Thomas), Dinorah, Lucie, de Lucie (Donizetti).46

Così, il ruolo creato da Donizetti per una voce da soprano drammatico d'agilità si adattò in piena fin de siècle, grazie ad opportune trasposizioni47 e all'aggiunta della cadenza col flauto, ai cambiamenti che si erano verificati in ambito vocale, divenendo una parte molto ambita dai soprani leggeri e dai grandi 42 Lucia fu cantata anche da celebri mezzosoprani, quali Pauline Viardot (1821-1910) che la interpretò a Vienna nel 1844 e successivamente a S. Pietroburgo nel 1845 e Anaïs Castellan (1819-1858) che cantò Lucia all'Her Majesty's nel 1845. 43 «Revue et gazette musicale de Paris», XXI/11, 12 mars 1854, pp. 83-84.44 Anche nella Jolie fille de Perth (1867) Bizet introduce, discostandosi dal testo di Scott, la scena di follia della protagonista, che avrà modo così di esibire le sue leggiadre doti da soprano leggero.45 Baron d'Ernouf, L'art musical au XIX siècle. Compositeurs célèbres, Paris, Perrin et C., 1888, pp. 180-181.46 J.-M. Mayan, Le chant et la voix, Paris, Paul Dupont éditeur, 1891, pp. 29-30.

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teatri europei. Tra tutti l'Opéra Garnier che, dopo ben vent'anni, allestirà Lucia valendosi delle doti di Nelly Melba, icona della nuova generazione di soprani leggeri. Riassumendo quanto detto finora, ciò che consentì all'opera donizettiana di adattarsi alle mutate esigenze del gusto, fu soprattutto lo spostamento del centro d'interesse dal Finale primo o dal duetto «Verranno a te sull'aure» - momenti clou nella prima metà dell'Ottocento - alla scena della follia, spostamento determinato anche dai contemporanei studi sull'isteria di Charcot e dall'esercito di folli vampire che popolava l'immaginario décadent. Lucia, non potendo trasformarsi improvvisamente in una femme fatale, poteva comunque assumere dei nuovi connotati che la rendessero perlomeno accostabile a tale fenomeno. Ecco allora la virtuosistica cadenza col flauto, aggiunta dalla Melba nel 1889, che permise a Lucia di assumere una parvenza meno innocente e più conturbante. Infatti, tale cadenza, che presuppone una voce agile e acuta, molto simile a quella di un'adolescente, è in realtà una sorta di “eccesso” isterico, d'incontrollabile smania che confluisce in interminabili e parossistiche fioriture.

And if one reads Lucia's behavior as a manifestation of the sexual excess the nineteenth century ascribed to madwomen, then these “decorative” and “euphoric” details make strong dramatic sense. […] If the performance of conventionalized ornaments is potentially this effective, imagine the impact if a performer were to invent new roulades - if she were allowed to rage at will without our being able to predict her every move in advance!48

Questo fu un po' quello che accadde nel 1889 (non prima), quando Lucia deragliò dai canoni prescritti e, per quanto rispettosa di una logica tonale e formale, impose agli spettatori una lunga cadenza con flauto obbligato, uno scatenamento di cui non si conoscevano in anticipo le mosse conclusive. La cadenza, quindi, va considerata un po' il simbolo della metamorfosi di Lucia, un ponte tra le folli romantiche e le isteriche della fin de siècle.

47 Il cantabile «Ardon gli incensi» era originariamente annotato in Fa maggiore, ma già nel 1835/1837 fu pubblicato da Ricordi in Mib (G. Donizetti, Lucia di Lammermoor. Spartito per canto e pianoforte, Firenze, G. Ricordi, 1835/37). In Francia, invece, circolava sia la versione trasportata (per la Lucia italiana), sia quella nella tonalità originaria (per la Lucie francese). Solo a partire dal 1889 verrà adottato definitivamente, prima nei manoscritti poi negli spartiti a stampa, il Mib per entrambe le Lucie. Questa trasposizione si collega direttamente all'interpolazione della cadenza col flauto, che prevedeva un notevole innalzamento della tessitura del soprano, fino al Mib5 finale, va da sé più agevole nella tonalità di Mib che in quella di Fa. 48 S. McClary, Excess and frame: The musical representation of madwomen, in Ead., Feminine endings. Music, gender, and sexuality, Minnesota, University of Minnesota Press. 1991, pp. 80-111 e 190-196 (note), pp. 92-96.

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