PrimaVera Gioia FEB_MAR 2014 - N.17

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Febbraio Marzo ‘14 Pubblicazione mensile d’informazione indipendente | free press

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Numero doppio di FEBBRAIO e MARZO (17) del mensile PrimaVera Gioia. - è possibile scaricarlo e leggerlo offline.

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Ouverture“LO STRANO CASO DI GIOIA DEL COLLE”

Maria Cristina De Carlo / DirettoreFB/ MariaCristina.DeCarlo

INDICE

3 Ouverture4 Caos PD6 La petizione di Via Roma8 Consiglio comunale10 Concrete Jungle VII14 Pane e Amianto16 Una finestra nei licei18 Diario di Bordo 20 Musica: Occhioterzo22 #Sergiosatisereno La forza e la virtù delle persone, molto spes-

so, sono fortificate dalla pochezza della gente che ci circonda. Essere il leader di qualcosa o di qualcuno diventa un appellativo-simbolo di un ri-

conoscimento voluto dagli altri: proprio quest’ultimi si lasciano condizionare dalle belle parole (il più delle volte mai comprese) per potersi sentire parte integrante del gruppo governante e non governato.Più volte ho sottolineato (i lettori attenti lo ricorderanno) che il dialogo è il miglior strumento che l’essere umano possiede per trovare giusti accordi e stabilire relazioni per il bene di una comu-nità. Ma quando il sordo non ascolta perché abituato a volgere le spalle al suo interlocutore, alzare la voce per farsi sentire o (a volte) ignorare le richieste, il popolo insorge in battaglie politiche che vedono capolinea esclusivamente la cittadinanza attiva.Ho deciso di dedicare, pertanto, alcune pagine di questo men-sile a un problema che sta soffocando alcuni commercianti del nostro paese per la viabilità di alcune strade. Spazio quindi alla petizione “Cambiamo il senso di marcia di via A. Celiberti e riapriamo l’ultimo tratto di via Roma”. La vicenda è stata descritta attraverso il racconto dei commercianti di quelle zone che hanno delineato un excursus sul restyling di Via Roma. Mi auguro vivamente che non si arrivi a gesti folli, ma forti, come quello compiuto a Monza: un commerciante stanco di non essere più ascoltato dal proprio Sindaco, si è dato fuoco in segno di disperazione. Ecco allora che il restyling di Gioia del Colle fa quasi paura: dopo via Roma sarà il turno di Via Dante con la chiusura del passaggio a livello. Con la nostra puntuale rubrica “Concrete Jungle”, andremo a fondo della questione, analizzandola prima da un punto di vista tecnico e poi da quello prettamente politico, grazie alla cura e attenzione dei redattori Antonio Losito ed Emanuele Donvito . Quando ho vi-sto il progetto super tecnologico proposto dal Comune, mi sono chiesta se l’ingegnere che ha preparato tal disegno si sia fatto due conti in tasca per valutare quanto il Comune dovrà spendere in futuro per la manutenzione della struttura. L’unica contropro-posta giunta e presentata è stata quella del gruppo Pro.di Gio.

che ha dimostrato come attraverso una logistica ben strutturata è possibile realizzare qualcosa che ormai è diventato d’obbligo (il sottopasso in previsione della chiusura del passaggio a livello) ma considerando vari fattori come la viabilità e il decoro urbano.Non può mancare la pagina politica, curata da Alessandro De Rosa che ha analizzato i mal di pancia in casa Pd. Inoltre ci sarà spazio anche per l’analisi degli ultimi Consigli comunali.Continua la nostra rubrica dedicata alle penne più giovani e fre-sche: questa volta Fiamma Mastrapasqua, che ha curato la ru-brica “Una finestra nei licei”, e ha dato spazio alla descrizione del genocidio Armeno, che rientra nei progetti-ricordi.Come in ogni numero ci piace fare un piccolo regalo ai nostri lettori e questa volta lo facciamo dedicando due pagine a un’in-tervista redatta da Silvana Farina a Giuseppe Armenise, autore di “Pane e amianto. Girotondo di una città sopra un milione di vite”. Quello dell’amianto è un problema che riguarda non solo gli uo-mini che sono entrati in contatto con esso, ma un problema che negli anni ha coinvolto donne, bambini nonché diverse famiglie che combattono giorno dopo giorno con malattie, morte e dispe-razione. Buona lettura a tutti!¿

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Che le parole dette la sera non si ritrovino la mattina é una sfumatura a cui la politica ha oramai abituato il popolo del bel Paese, l’Italia direte, e invece no: Noia del Colle! Paese dal

coprifuoco naturale fissato intorno alle 20:30/21, con un centro storico storicamente abbandonato, periferie cementificate senza una logica, un commissariamento per infiltrazioni mafiose (per non farci mancare nulla!), ed un Partito Democratico il cui agire é fungibile e confondibile, tanto che specificare la dimensione trattata, nazionale o locale, non fa nessuna differenza, o é addirittura necessario per non fare confusione. In ambo i casi la parola d’ordine é “governare ad ogni costo”.Il rischio di confondersi non ricorre dove ad essere analizzato é il grado di soddisfazione dell’elettore medio del PD, afflitto da una cronica assuefazione alle pirouettes e ai cambi improvvisi di direzione, che dal lato politico sono segno di “responsabilità”, quando invece determinano mugugni, insoddisfazioni e voti di protesta, é segno che il cittadino é vittima di una tremenda malattia: l’anti politica, o peggio ancora, il “grillismo”. Così, se sull’altare della responsabilità nazionale sono state sacrificate affermazioni e credibilità, prima di Bersani, poi di Letta, e dulcis in fundo del bischerello fiorentino del “fare”,

sull’altare della responsabilità del circolo F.Giannico qualcosina la si doveva pur sacrificare per essere comunque in prima linea. In primis la segreteria Cuscito e le tanto sventolate primarie per la candidatura a Sindaco, una consuetudine, da sempre il fiore all’occhiello dell’unico partito “veramente Democratico”.

Ma se in Francia “Parigi val bene una messa” figuriamoci se a Gioia Palazzo S.Domenico non può andar bene una primaria. Poi, con lo stesso teorema, é possibile analizzare e giustificare la grande coalizione che ha visto per la prima volta, in quel di Gioia, fianco a fianco le mutazioni transgender del PCI e del MSI, oggi PD e FLI, quest’ultimo dell’ormai fu Gianfranco Fini, ben rappresentato da un consigliere la cui spina dorsale é comunque sempre dritta, sia stesa sui binari per scongiurare la chiusura del passaggio a livello, sia in piedi in consiglio comunale per astenersi nella votazione che chiuderà definitivamente lo stesso passo,

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“LA FINE”GIUSTIFICAI MEZZI

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per lui “Palazzo S.Domenico Val bene un passaggio a livello!”.Poi é stata la volta della segreteria Valletta che, per spirito di responsabilità, si é spinta al limite del sacrificio della questione morale del sempre rimpianto Berlinguer: contratto con la Cerin, dimissioni Ass. De Giorgi, figure apicali dell’Ente, aliquote fiscali ed altro ancora. Non é dato sapere fin in fondo se tali scelte politiche fossero condivise fra sindaco e partito, fatto sta che il 26 settembre 2013 la segreteria cittadina comunicava che “il coordinamento, preso atto della mancanza di collegialità che si é manifestata nelle iniziative e decisioni assunte dal sindaco; considerato che le richieste del PD di maggiore trasparenza sono state disattese...DELIBERA la propria uscita dalla maggioranza di governo e dall’attuale amministrazione, invita i propri consiglieri comunali ed i propri rappresentanti in giunta al consueto rispetto delle decisioni assunte”: un vero atto di teatro!Una pirouette che poneva finalmente il Partito Democratico lontano da una posizione di governo ad ogni costo, e che denunciava un modo di far politica, quello di sindaco e giunta, caratterizzato “da scelte che contrastano con i principi ispiratori del partito”. Peccato che l’idillio si sia dovuto scontrare con la logica del fare.Il fare in questione é quello della nuova segreteria L’Abbate, renziano doc e “poviano” quanto basta, considerando premesse congressuali e risvolti politici.Nelle parole del segretario, pronunciate in sede di congresso, é stato possibile scorgere una probabile rinascita di quella posizione di centralità, di “cerniera”, che il partito da sempre é chiamato ad occupare tra Palazzo e Società.

Quel naturale ruolo di sintesi delle istanze sociali proiettate in sede consiliare, dopo le opportune riflessioni, attraverso i propri rappresentanti, con una ritrovata forza impositiva nei confronti del primo cittadino, pareva essere il diktat del nuovo corso: “davanti a noi abbiamo due possibilità: 1) il coordinamento di circolo ribadisce la sua estraneità all’amministrazione, chiede ai propri rappresentanti in giunta ed in consiglio comunale di ritirare il sostegno e la fiducia all’amministrazione comunale riportando la città alle urne. 2) Si chiede al sindaco di ridare al PD la dignità ed il ruolo che gli spettano. Si azzera la giunta, si avvia una seria riflessione e verifica politica sui punti programmatici, sui ruoli all’interno della giunta e sulle deleghe”.Purtroppo anche in questo caso le parole furono pronunciate quando oramai il sole illuminava l’emisfero australe e con la notte di mezzo, si sa, la politica italiana può fare brutti scherzi. Con l’esplosione di cogenti questioni politico-amministrative, che ovunque avrebbero messo a dura prova la tenuta di un

esecutivo cittadino, ci si aspettava una pronta presa di posizione sulle problematiche scottanti della nostra città. A tutto ciò invece é seguito un laconico silenzio, nessun incontro cittadino, neppure uno post congresso con la città: troppo alto il rischio di doversi ritrovare ad esplicitare le proprie posizione nel merito delle questioni. E mentre sul web affioravano commenti di sdegno e malumori crescenti della piazza virtuale, il 21 gennaio 2014 viene fatto circolare il primo vero comunicato politico della nuova segreteria. Nei proclami una verifica politica imposta al sindaco, che vedeva uniti “all’unanimità il coordinamento con il parere favorevole di tutti e tre i consiglieri comunali” di alcuni punti programmatici, “alla cui approvazione”, da parte del sindaco, “é subordinato il rientro a pieno titolo del Partito Democratico nella maggioranza di governo”. Nei fatti, si scoprirà, l’inizio di un giro poco elegante di waltzer alla cui fine tutto sarà cambiato perché nulla possa cambiare. “Revoca dell’incarico alla ditta di riscossione tributi Cerin, eliminare conflitto di interessi del sindaco sulla delibera Lama S.Giorgio, riproporre le figure dirigenziali all’interno del comune, rivedere bandi e appalti in funzione della massima trasparenza, rispettare la sentenza Coop e il futuro dei lavoratori”: queste le richieste avanzate.

Nel comunicato successivo, del 3 febbraio, si scoprirà che tutte le richieste sono state accolte con ampie assicurazioni dal sindaco Povia: “Il Partito Democratico..., alla luce dell’incontro tenuto con il sindaco Sergio Povia in cui sono state date ampie assicurazioni sui punti programmatici, ritiene sia giunto il momento di rientrare organicamente all’interno della maggioranza di governo”. Ci siamo: il giro di waltzer é quasi chiuso. 11 febbraio, consiglio comunale: un imperturbabile L’Abbate assiste compiaciuto, in piedi alla destra del sindaco come un fido scudiero, allo stravolgimento delle conquiste vantate nell’ultimo comunicato: nessun rispetto per lasentenza Coop pronunciata in via definitiva, impugnazione giudizio di ottemperanza con ulteriori oneri economici che l’ente dovrà sopportare, pantano assoluto sulla questione Cerin, “nessun conflitto di interessi in Lama S.Giorgio!” e nessuna posizione ufficiale post consiglio da parte della segreteria.Finalmente può dirsi scongiurata la pericolosa diaspora dalla maggioranza iniziata sotto l’ultimo periodo Valletta, e poco conta se sull’altare della stabilità siano stati sacrificati i malumori della piazza, gli interessi della città e siano state usate le poco commendevoli, nelle modalità di svolgimento, primarie del PD: ora anche a Gioia abbiamo concordia di governo e stabilità, almeno finché la guardia di finanza lo permetterà!“La fine” ha giustificato “proprio tutti” i mezzi.¿

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Il restyling di Via Roma non convince

Gli esercenti avviano una petizione

La città è strozzata dalla crisi e nell’ultimo mese ci ha pensato la Tares a dare la mazzata finale. Bollette esorbitanti sono state recapitate a bar,

parrucchieri, ristoranti, pub a causa della nuova aliquota che ha fatto schizzare in alto le tariffe.Alcuni esercenti di Gioia Del Colle al fattore crisi ne hanno aggiunto un altro: quello della poca visibilità legata al piano traffico che sta facendo impazzire i commercianti di via Roma, di via A. Celiberti e quelli delle strade limitrofe.“L’anima del commercio è la visibilità” ha dichiarato Andrea Forte, commerciante e fra i promotori della petizione in atto che chiede di far cambiare l’attuale senso di marcia di Via A. Celiberti e riaprire l’ultimo tratto di Via Roma. Gli esercenti della zona hanno lanciato un SOS alla cittadinanza che ha risposto in maniera sorprendente (in data 25 febbraio sono state raccolte circa 700

firme). La chiusura dell’ultimo tratto di strada di via Roma (per intenderci, quello che va dal Liceo Classico P.V. Marone verso la stazione) e lo “strano” senso di marcia di Via Celiberti (che va da via Dante a via Giosuè Carducci) sono i due punti sui quali si batte fortemente la petizione promossa dagli esercenti della zona. È stato definito “strano” il senso di marcia, considerato il fatto che tutte le strade portano verso il centro del paese, perché via A. Celiberti, logicamente, sarebbe dovuta servire per far defluire il traffico all’altezza di via Dante, una strada che permette sia l’ingresso sia l’uscita dal paese.La petizione è stata avviata ufficialmente sulla carta, con la raccolta firme, a partire dai primi giorni di febbraio. La battaglia in realtà era già cominciata a ridosso dell’inizio dei lavori di riqualificazione della zona interessata, (inizio primavera scorsa) poiché i proprietari dei locali

Maria Cristina De Carlo | / MariaCristina.DeCarlo

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e i commercianti, avevano già espresso le loro perplessità sulla chiusura dell’ultimo tratto di Via Roma durante un incontro con l’ex vicesindaco Francesco Ventaglini, l’assessore Giuseppe Lenin Masi e l’ing. Plantamura. Previsioni non da Nostradamus, ma da persone che da anni fanno questo mestiere e che riescono a valutare tutti i fattori di rischio per la propria attività.Certamente non ci troviamo in grandi città dove i servizi di parcheggio permettono di non percorrere grandi distanze a piedi. Via Argiro di Bari potrebbe insegnare molto, ma la questione è soprattutto legata alla differenza che intercorre fra il vivere in una città, dove sono messi a disposizione mezzi pubblici (bus e tram), nonché servizi idonei di parcheggio, e il vivere in un paese dove tali servizi mancano (anche se il parcheggio di smistamento previsto a ridosso della stazione potrebbe in parte risolvere la questione).Cerchiamo, quindi, di fare un breve excursus sulla questione “restyling via Roma” attraverso il racconto dei commercianti: come più volte sottolineato, i lavori sarebbero stati frutto di finanziamenti europei pari a 1 milione di euro. “Il sindaco ha dichiarato più volte che il costo dei lavori al comune di Gioia del Colle è stato pari a zero – continua Andrea Forte – ma in data 6 settembre 2012, (protocollo n.58 del 6/09/2012) sono stati stanziati dal Consiglio comunale 250 mila euro, garantiti per il completamento dei lavori. Il Comune, quindi, si è fatto carico di coprire suddetta cifra”.È un paradosso che la strada restaurata, al quale è stato dato un nuovo look, si presenti puntualmente deserta e con pochi negozi aperti. Le saracinesche sono tutte abbassate: molti negozianti hanno deciso di spostare la loro attività altrove. Due di quelle attualmente aperte, a breve chiuderanno per altre destinazioni.La situazione è agghiacciante e la colpa non è certamente solo della crisi in atto o del fatto che qualche commerciante “non sappia vendere il proprio prodotto”(cit.). “Troviamo ingiusto il modo in cui tutta la questione è stata affrontata - spiega Marco Covella, proprietario di un’attività presente su Via Roma - La chiusura della famosa strada dei negozi, corso Garibaldi per intenderci, è stata subito bloccata. I disagi avvertiti lì sono disagi con i quali noi esercenti della zona combattiamo ogni giorno. Non scendiamo nel merito di come quella strada è stata subito riaperta, perché quella è un’altra storia”.Molti errori sono stati fatti dall’amministrazione che, in diverse occasioni (come hanno spiegato gli stessi commercianti) ha chiesto scusa pubblicamente; prima durante un comizio in piazza e poi durante un Consiglio Comunale.

L’amministrazione si è scusata principalmente per la mancata comunicazione: a fine inverno scorso, senza alcun preavviso, iniziarono i lavori di ristrutturazione. Ci fu così un incontro, durante la primavera scorsa, fra esercenti e amministrazione: i commercianti chiesero all’ex vicesindaco Francesco Ventaglini chiarimenti in merito al tratto finale di Via Roma. A questa domanda, Ventaglini rispose: “Attualmente non si sa ancora niente. L’unica cosa certa è che non saranno previsti parcheggi”.Parole che non avrebbero mai fatto immaginare la chiusura totale del tratto di strada che va dal liceo P.V. Marone alla stazione: un nodo nevralgico per far defluire in entrambi sensi di marcia il traffico.Le problematiche legate alla chiusura di quel tratto sono evidenti: per ritornare sulla vertebra principale che porta alla piazza, scendendo da via Regina Elena, è necessario costeggiare la stazione ferroviaria per poi imboccare via Ludovico Ariosto e proseguire per via Dante. Nella strada che costeggia la stazione le macchine parcheggiano su entrambi i lati (considerato che non ci sono i segnali di divieto di sosta e di fermata) e la viabilità è spesso compromessa. Ci si trova imbottigliati in code poiché non c’è spazio sufficiente per far passare le vetture contemporaneamente in entrambi i sensi di marcia.Dopo il primo incontro fra l’amministrazione e i commercianti sono passati diversi mesi per un nuovo confronto.Solo a novembre Palazzo San Domenico ha ospitato gli esercenti della zona interessata i quali hanno fatto presente le seguenti problematiche: la mancata comunicazione di inizio lavori; il senso di marcia cambiato improvvisamente su via A. Celiberti; il tratto finale di via Roma chiuso senza preavviso. Tutto questo ha creato disagi economici per le attività: il loro fatturato è sceso in maniera significativa a partire dall’inizio dei lavori. In questo secondo incontro, il presidente del Consiglio comunale, Tommaso Bradascio, si è fatto carico di trovare una soluzione. “Abbiamo percepito le vostre istanze – dichiarò- e per tanto vedremo di portarle in consiglio comunale”. L’anno 2013 è giunto al termine senza alcuna risposta. I commercianti non hanno perso ulteriore tempo: si sono armati di foglio e penna e hanno avviato una nuova petizione partita nei primi giorni di febbraio 2014. La petizione la si può definire “cittadina”: è bastato leggere la via di qualche firmatario, per vedere che il disagio non è avvertito solo dalla gente che abita lì vicino.Quello che chiedono a gran voce è la riapertura dell’ultimo tratto di via Roma, in direzione stazione e il cambio di senso di marcia di via A. Celiberti. ¿

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Ancora una volta l’aula consiliare di Palazzo S.Domenico ha visto schierarsi su posizioni op-poste coloro che credono spasmodicamente nel principio di Legalità, asserendo a voce alta che un

futuro fatto di progresso economico e sociale sia assolutamente possibile nel comune di Gioia del Colle nel più congruo rispetto delle norme, e chi invece vede in queste ultime un inutile fre-no posto all’economia che, mai come in questi tempi di crisi, ha necessità di correre libera e scevra da condizionamenti, anche normativi.Materia del contendere, ovviamente, le famigeratissime zone F. L’ordine del giorno della seduta dell’11 febbraio menzionava “Va-riante normativa delle zone F del PRG di Gioia del Colle”, quindi, come recita l’art.2 del DM 1444/68, “quelle parti di territorio de-stinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale”. È proprio la cura degli “interessi” che divide solitamente gli inter-locutori, e il caso di specie non ha fatto eccezione.La variante normativa che il sindaco ha posto all’attenzione dell’aula verteva in sostanza sulla possibilità di ampliare le pos-sibili azioni edificatorie da svolgersi in zona F, giungendo ad am-mettere l’edificabilità di centri medici, cliniche, musei, cinema, attività commerciali latu senso ecc, corroborando tale scelta con una concitata e passionale argomentazione. Partendo dall’assunto normativo che le zone F, secondo il nostro PRG (Piano Regolatore Generale) e secondo l’art 22 delle NTA (Norme Tecniche d’Attuazione) dello stesso (ricalcanti la discipli-na nazionale in materia DM 1444/68), sono destinate ad ospi-tare “a) asili nido, scuole materne, elementari e medie inferiori; b) attrezzature di interesse comune: religiose, culturali, sociali, assistenziali, amministrative,per pubblici esercizi ecc.”, il primo cittadino ha sottolineato come tali opere, anche se esclusive nelle suddette zone, non sarebbero fattibili a causa delle ristret-tezze economiche dell’Ente, e questo condannerebbe l’economia gioiese. Povia ha asserito di voler essere nelle condizioni, qualora giun-gesse una richiesta privata, di permettere l’edificazione di un nuovo impianto commerciale o altra opera che, anche se non previste dalle norme, sarebbero la sola scelta in grado di dare ossigeno alla esanime economia gioiese.

“Non é possibile avere decine di ettari di zone F a disposizione su cui l’ente non potrà mai edificare nulla a causa di ristrettezze eco-nomiche e vincoli di bilancio che non permettono l’indebitamen-to”, quindi ha tuonato che sarebbe assolutamente necessario il non rispetto pedissequo della norma, la quale, dopo l’elencazione delle varie opere possibili in zone F concludendosi con un “ecc” sarebbe logicamente oggetto di una interpretazione estensiva, “che noi ci accingiamo a fare”. Interpretazione alquanto allegra se fosse vero come é vero che “UBI LEX VOLUIT DIXIT,UBI NOLUIT TACUIT” (dove la legge ha voluto ha detto, dove non ha voluto ha taciuto), e se la norma avesse voluto annoverare opere di carat-tere commerciale forse ne avrebbe dato cenno, quindi, (sempre forse!), l’ “ecc” dovrebbe più che altro riferirsi ad altre opere che, ancorché non menzionate, risultino in linea con la ratio legis.A questo punto il vulcanico Giovanni Vasco, eletto in quota PD, ma praticamente da sempre ostile alla maggioranza, non é riu-scito più a trattenere l’impeto che lo ha portato non solo a fare chiarezza normativa in merito alle zone F, richiamando leggi e sentenze, ma ricordando trascorsi politico/amministrativi non molto lusinghieri che gettano ombre e sconforto sulle passate giunte. La questione delle zone F soffrirebbe di un peccato originale che é stato impudentemente reiterato sotto molte giunte che si sono avvicendate per oltre 20 anni alla guida del paese: il man-cato adeguamento del PRG all’allora Legge Regionale 31 mag-gio 1980 n.56, vincolante per tutti i municipi pugliesi, al cui art 55 dice: “Tutti i comuni della Regione sono obbligati a dotarsi di un piano regolatore conforme alle prescrizioni della presente legge,entro due anni dall’entrata in vigore della stessa”. Il mancato rispetto dell’obbligo avrebbe comportato, così come sancito dall’art 20 della LR 27/07/2001, ricalcante il II comma dell’art.55,” le varianti agli strumenti comunali di pianificazione urbanistica non adeguate alla LR 56/80 possono essere formate soltanto per la realizzazione di programmi di edilizia residenziale pubblica di piani per gli insediamenti produttivi e per la realizza-zione di progetti di opere pubbliche e/o progetti di adeguamento agli standard urbanistici “. Alla luce della normativa, Vasco ha ammonito sindaco e maggio-ranza che si stava perdendo inutilmente del tempo, in quanto un

“ PERCHÉ...?”

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eventuale atto contra norma così prodotto andrebbe in contro ad annullamento certo da parte della regione. Il mancato utilizzo delle zone F ed il blocco dell’economia, denun-ciato dal sindaco, non possono di certo essere imputate alla nor-ma o alla minoranza consiliare, ma esclusivamente alla mancata, colpevole, volontà politica di adeguare lo strumento urbanistico alla legge regionale; e nel momento in cui un tentativo fu fatto, ha ricordato Vasco, l’accordo naufragò in quanto non venivano adeguatamente tutelati determinati interessi/terreni, quindi si sacrificò l’interesse della città, allo sviluppo legittimo e regolare, per l’interesse di pochi. Un j’accuse non esplicitamente indirizza-to, quello del consigliere Vasco, che comunque getta lugubri om-bre sull’attività politico/amministrativa svoltasi a Gioia del Colle.Quanto alla presenza fra gli spettatori alla seduta consiliare di una foltissima rappresentanza dei lavoratori Coop, sulle cui sor-ti lavorative pesa come un macigno la sentenza del Consiglio di Stato di annullamento dei permessi di costruire la stessa strut-tura ospitante il supermercato, e della licenza commerciale dello stesso, Cuscito, Lucilla e Vasco hanno etichettato l’invito rivolto agli stessi, “da qualcuno”, come un vile tentativo propagandistico. Primo perché si tenta di dare una speranza, o meglio un’illusione, a chi il lavoro, almeno in quella struttura, é destinato a perderlo (una sentenza passata in giudicato non può di certo essere di-scussa alla luce di una delibera consiliare). Secondo, ancor più meschino a detta dei consiglieri, sarebbe il tentativo messo in atto dal sindaco di voler dipingere agli occhi della gente se stesso come lo strenuo difensore dell’interesse pubblico e l’opposizione come l’unica responsabile della futura crisi lavorativa. La situazione Coop sarebbe stata determinata esclusivamente dalle cattive scelte di ubicazione della struttura, fatte in sede tec-nica, peraltro citate nella relativa sentenza di annullamento dei permessi: “...la tesi della compatibilità dei centri commerciali con le zone F1 si scontra innanzitutto con l’art.18 delle NTA, che indi-vidua nelle zone D4 proprio l’insediamento di particolari attività commerciali quali le grandi strutture per il commercio al minuto, i supermarket ecc; ma si scontra altresì con la ratio delle zone F1 e la relativa natura di area adibita a servizi per l’urbanizzazione secondaria. Gli interventi di urbanizzazione secondaria sono descritti dall’art.16 comm8 del dPR 380/2001 ed individuati negli “asili nido e scuole materne, mercati di quartiere, delegazioni comu-nali, chiese ed altri edifici religiosi, impianti sportivi, aree verdi di quartiere, attrezzature culturali e sanitarie...”. Sebbene l’elencazione non possa considerarsi tassativa, essa lascia intuire il legame che unisce le varie tipologie di interven-to, tutte tese a soddisfare interessi essenziali della persona di natura non commerciale, salvo per i mercati di quartiere, i quali formano una forma distributiva storicamente presente ed im-portante nel contesto commerciale italiano. In questo senso i mercati di quartiere possono considerarsi “pubblici esercizi” rientranti nell’ampia nozione di intervento di urbanizzazione secondaria. Non possono farsi rientrare le medie e grandi strutture commer-

ciali private, sebbene nei quali insistono anche locali adibiti ad uso ricreativo, sportivo o parasanitario. L’esistenza di tali altre attività non vale a configurare l’intero centro quale “attrezzatura di interesse comune” fruibile dall’in-tera collettività poiché, anche a voler considerare la funzionalità delle stesse a garantire il soddisfacimento di bisogni connessi allo sport o alla salute, esse non giustificano il contestuale in-sediamento di strutture squisitamente commerciali di grandi di-mensioni che sfuggono ictu oculi alla nozione di attrezzature di interesse comune”.

Sono molte le domande ed i “perché?” che discenderebbero dalla lettura del dispositivo della sentenza e dalle argomentazioni di sindaco e consiglieri le cui risposte, ancorché presentate al sin-daco, a cui non sempre sono seguite risposte soddisfacenti, po-trebbero non solo far luce sulla faccenda ma incanalare tempo ed energie verso più proficue soluzioni. PERCHÉ il segretario comunale é parso così insicuro ed incerto quando gli é stato chiesto se quello di cui si discuteva in aula era una soluzione accettabile, legittima che non avrebbe corso rischi di annullamento da parte della regione? PERCHÉ lo stesso segretario é parso altamente incerto nel pro-nunciarsi in merito alla sussistenza o meno di conflitto di interes-si in cui potrebbe ritrovarsi sindaco e alcuni consiglieri? PERCHÉ si é voluto “rischiare” la costruzione di un’opera così importante, e economicamente e socialmente, su un suolo che, come stabilito da norme chiare, non era atto a riceverla?PERCHÉ non si é guardato alla 167 dove pare ci fossero i luoghi tecnicamente fruibili? PERCHÉ in aula, da parte di sindaco e maggioranza, non si é par-lato di “Responsabilità” di chi queste scelte, come anche quelle che hanno generato l’annullamento dei permessi di costruire in via Fellini e alla ex Arena Castellano, le ha condivise ed avallate? PERCHÉ in luogo del perseguimento di Verità e Responsabilità si continua esclusivamente a paventare la minaccia di risarcimenti milionari a cui la collettività dovrà far fronte? La collettività é responsabile in luogo di chi quei permessi li ha maldestramente concessi? PERCHÉ si tenta la strada della “variante normativa” se, come addirittura ammesso da tutti i consiglieri di maggioranza e d’op-posizione (salvo il voto ugualmente favorevole dei primi, tranne l’astenuto Falcone, e del consigliere Celiberti) questa andrà in contro a “morte” certa per mano della regione? PERCHÉ non avviare un tavolo di concertazione fra lavoratori Coop, Ente, sindacati, Provincia o Regione al fine di dare risposte o magari soluzioni agli incolpevoli malcapitati lavoratori? PERCHÉ non si é adeguato il PRG alla LR 56/80, cosa che avreb-be permesso di utilizzare gli spazi liberi e soggetti a zonizzazione di tipo F in una chiave anche economicamente favorevole all’eco-nomia cittadina, come agoniato dal sindaco, senza che si verifi-cassero queste tensioni?Ma soprattutto...PERCHÉ la politica pare ancora così lontana dall’assolvere quell’unico compito che le è richiesto: la cura del bene comune? ¿

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Quello che è emerso dal-la conferenza proposta dall’organizzazione po-litica Pro. di Gio., che ha

avuto luogo nella sala De Deo il 25 Gen-naio, non è una mera proposta tecnica, ma un nuovo modello di partecipazione politica, in perfetta sintonia con le nuove riforme della Pubblica Amministrazione. In questa sede ci preoccuperemo di por-re all’attenzione dei nostri lettori sia un esame politico delle vicende e delle pro-poste che orbitano intorno alla riorganiz-zazione urbana del passaggio a livello di Gioia del Colle, sia un’analisi sulla fattibi-lità del progetto presentato in occasione di questa conferenza.

La Politica, e la Democrazia in partico-lare, è fatta di Decisioni. P. Calamandrei pensava che le democrazie sono desti-nate a morire nel momento in cui non “decidono”. Questi sono concetti vicini da sempre alla nostra redazione, in quanto la stessa si fa promotrice di nuovi mo-delli di congiunzione tra rappresentanti e rappresentati. La differenza sostanziale rispetto al passato, sta nel fatto di consi-derare prima, e prendere decisioni poi in maniera inclusiva, coinvolgendo l’intera struttura della nostra società, partendo dal singolo individuo e terminando con le

istituzioni dell’Unione Europea.

Andiamo per ordine. Il messaggio politico di Donato Lucilla è chiaro, e lo possiamo riassumere così: “Noi proponiamo alla cittadinanza questo progetto, ma deci-diamo insieme e nel frattempo vi infor-mo sulla questione”. Il consigliere, con ar-guzia sottolinea più volte questa idea di base: infatti spiega lucidamente ai parte-cipanti della conferenza che il processo di devoluzione dei poteri dello Stato in capo agli Enti Locali è destinato a soddisfare il principio di sussidiarietà (il legame tra istituzione e comunità locale che si salda in maniera più forte nel momento in cui una decisione viene presa dall’istituzio-ne che meglio conosce e comprende la società a essa più prossima) e che quindi anche l’imposizione fiscale in futuro di-venterà prettamente di carattere locale. Di conseguenza, ciò che pagheranno i cittadini di Gioia del Colle attraverso la TARES, o quello che sia, saranno proprio le risorse che costituiranno il bilancio del comune, all’interno del quale sono indi-cati i capitoli di entrata, ma soprattutto i capitoli di spesa. Quindi il cittadino deve controllare l’intero processo decisionale ed esserne parte integrante, allargando il sindacato sul rispetto del principio del Buon Padre di Famiglia a tutti.

Detto questo, arriviamo all’intervento dell’assessore G. Masi. Promettendo che avrebbe dimenticato in fretta i toni assolutamente provocatori di Colacicco, l’Assessore sorprende tutti proponendo l’apertura di un tavolo tecnico per pren-dere in considerazione il progetto messo a punto dall’architetto Daniela de Mat-tia. Masi, considera valido il progetto del sottopassaggio, e conviene sull’idea che ha spinto l’architetto ad optare per una struttura di trincea, piuttosto che per una di rilievo rispetto al livello stra-dale. Inoltre, Masi promette che saran-no approfondite le tecnicità funzionali alla realizzazione del sottopasso, poiché quest’ultimo andrebbe a risaltare lo skyline che la via per Santeramo offre all’ora del tramonto, prendendo in esa-me tutti i documenti necessari. I dubbi però, sono di quest’ordine: non è chiara la motivazione per la quale la maggioranza non abbia pensato per tempo ad un con-corso di idee, il quale ci pare lo strumento più utile e innovativo, al fine di evitare tante polemiche, e perché come al so-lito, viene preso in considerazione solo un punto di vista! Probabilmente questa amministrazione ha sempre voglia di di-mostrare al proprio hostis la sua forza, escludendo a priori i processi decisionali inclusivi.

Emanuele Donvito | / emanuele.donvito.7

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Successivamente è D. Colacicco (coordi-natore di Pro. di Gio.), a ribadire in manie-ra piuttosto veemente i dubbi citati so-pra, ponendo però l’accento sulla scarsa affidabilità della persona dell’assessore. Non si può in alcun modo negare come l’amministrazione Povia ci abbia abitua-to ad una diffusa “mala-gestione” della Cosa Pubblica, ma d’altro canto, in oc-casione di questa conferenza, abbiamo avuto modo di notificare l’impegno che l’assessore G. Masi si è preso di fronte alla cittadinanza.

Concludendo, e analizzando in termini politici, ciò che si trae di buono da questa conferenza è la grande capacità politica di Lucilla (come al solito) e l’apertura di Masi, come grande segno di propensio-ne alla collaborazione con l’opposizione e con la cittadinanza. Inoltre, stando agli ultimi aggiornamenti sulla questione, pare che la strada intrapresa sia quella dell’apertura di una Conferenza di Ser-vizi alla quale parteciperanno gli enti interessati. Rimandando la discussione tecnica del progetto qui di seguito, ci auspichiamo che Masi mantenga le pro-messe e che vengano instaurate nuove relazioni all’interno della nostra comuni-tà politica. ¿

Spostando la lente di in-grandimento dalle questioni di metodo al merito dei fatti, affronteremo l’esposizione della proposta di progetto del sottopassaggio ciclo-pedonale attraverso una declinazione per capitoli dei

temi salienti che vanno a costituirne in parte le condizioni al contorno, in parte la sostan-za.

L’inquadramento spaziale e il contesto bu-rocratico. Via Dante – via P. Cassano è un tracciato urbano e territoriale che collega assialmente il cuore della città, piazza Ple-biscito, alle porte della Strada Provinciale per Santeramo, coagulando attorno al suo passaggio quartieri segnati da buona parte della storia artigianale e industriale gioiese. Il percorso ferroviario che la intercetta è defi-nibile come un margine, un elemento lineare percepito, fisicamente ma non solo, come un limite, un ostacolo, pur mantenendo ad oggi ancora una certa continuità spaziale e visiva fra i tessuti urbani che separa.

In Italia, come nel resto d’Europa ed anzi con un certo ritardo, è in corso un processo di adeguamento, in termini di sicurezza, delle modalità di relazione fra grandi infrastruttu-re come le ferrovie e i centri urbani; proces-

so che privilegia sistemi di attraversamento dei fasci di binari, alternativi ai Passaggi a Livello (d’ora in poi P.L.), detti a livelli sfal-sati di modo che non vi sia mai incidenza diretta fra percorsi di diversa natura tecnica.

Con Protocolli d’Intesa e Convenzioni da-tati 2001, 2002 e 2004, il Comune di Gioia stipulava con RFI (Rete Ferroviaria Italia-na) un accordo in virtù del quale la società di gestione della infrastruttura ferroviaria nazionale si impegnava nella realizzazione di opere che riqualificassero le intersezio-ni a raso fra il flusso veicolare e pedonale e quello ferroviario presenti su suolo comu-nale, in cambio di una dote consistente in contributi pubblici ma soprattutto in una obbligazione a chiudere i P.L. . Il sottopasso pedonale – consegnato nel 2004 – e il sot-tovia carrabile – ultimato nel 2005 – di cui oggi usufruiamo (quando sono agibili) sono il risultato di tale sodalizio, destinato tuttavia a degenerare a suon di ricorsi presso organi giudiziari da parte di entrambi i contraenti: RFI lamentando la mancata soppressione del P.L. di via Dante (a cambio di colore nel governo locale corrispose inversione di linea politica); il Comune chiedendo la risoluzione della convenzione per inadempimento della sistemazione del cavalcaferrovia di via Gio-vanni XXIII con opere complementari o sosti-tutive. Questo è quanto si evince dalla Deli-

Antonio LositoPierluca Capurso

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bera di Giunta n.201 del 15 novembre 2013, atto con cui, fatte le succitate premesse, la medesima Giunta approvava un Atto di Transazione per sancire la ricucitura dello strappo con RFI nell’intento di interrompere il contenzioso prima di giungere a giudizio (al Comune avrebbe giovato evitare il rischio di sborsare qualche milione di euro come risar-cimento danni e rimborso spese per le opere già realizzate, in caso di sentenza avversa), ma a patto di un “compromesso” donde fos-se definitivamente raggiunta la chiusura del P.L. oggetto di contesa. Il Comune, nel frattempo, chiedeva alla Re-gione Puglia la possibilità di rimodulare i fondi CIPE, già assegnati dal Comitato Inter-ministeriale per la Programmazione Econo-mica per concretizzare opere concernenti la viabilità periurbana, ma sempre in relazione alla riqualificazione degli attraversamenti ferroviari. La richiesta avanzata consisteva nel dirottare gran parte dei finanziamenti sui lavori da eseguire presso il P.L. di via Dante, al fine di potenziare l’attraversamento, già ef-fettuabile tramite sottopassaggio pedonale esistente, con un sistema sopraelevato pe-donale meccanizzato, detto anche impianto ettometrico e meglio noto come ascensore. Le ragioni del sindaco, udite nel corso del consiglio comunale del 18 dicembre 2012, somigliano tanto a quel paralogismo per cui i nasi sono fatti per sostenere gli occhia-

li, quando adotta la tesi che, essendo mal strutturate le cifre a disposizione, la scelta di realizzare gli ascensori deriva dall’eccesso di coperture finanziarie, anziché esserne la ra-gione di erogazione. Meglio spendere, anche male e vanamente, dunque, piuttosto che perdere i fondi. Naturalmente sono in molti, compreso il primo cittadino, a ritenere che in realtà la manutenzione straordinaria dei sot-topassaggi pedonali esistenti e l’inserimento di strumenti di videosorveglianza sarebbero stati più che sufficienti per risolvere il proble-ma complessivo dell’attraversamento, nella prospettiva ormai ineluttabile della chiusura del P.L. entro il 31 marzo di quest’anno (pena: una sanzione di circa due milioni e mezzo di euro, come sancito dall’Atto di Transazione stipulato con RFI). Salvo giudicare con one-stà intellettuale la qualità di tale soluzione.

Le problematiche da risolvere, le scelte pro-gettuali. La proposta progettuale del grup-po di lavoro di Pro.di.gio, con a capo l’arch. De Mattia e collaboratori gli studenti della Facoltà di Architettura di Bari Antonio Alba-nese e Carla Castellana, muove i primi passi dall’assunzione come valore, dunque come stimolo e vincolo rispetto ad ogni decisio-ne, della vocazione – tipologica, funzionale, storica, sociale – del tracciato territoriale all’interno dell’architettura urbana. Questa impostazione richiede innanzitutto garanzie

sul rifiuto di qualsiasi intervento invasivo, ogni ostacolo alla percorrenza e allo sguardo, nel nome di una continuità che sia non solo vissuta ma anche percepita dai residenti e gestori di attività al di là della linea ferroviaria come rappresentazione spaziale dell’aspira-zione all’inclusione e del diniego alla frattura e all’emarginazione. Sgombrato il campo da ipotesi di cortine opache e totem di cemento (alti almeno 10 metri per riuscire a scavalca-re l’elettrificazione dei treni), ogni alternativa possibile risiede nella pratica dei cavalcavia o dei sottopassi. I primi, rispetto ai secondi, presentano una serie di inconvenienti quali il maggior ingombro sia in lunghezza (a parità di pendenza stradale, per superare la quota massima dell’intera sezione ferroviaria, il sedime dell’infrastruttura deve partire in an-ticipo in salita e terminare molto più in là in discesa) sia in larghezza, per garantire la pre-senza di alte barriere di protezione dall’affac-cio, con ricadute negative anche sull’impatto ambientale; inoltre viene inficiata la perce-zione di sicurezza venendo meno il controllo visivo dal basso verso l’area di percorrenza posta più in alto. Di fronte alle gamma di op-zioni dunque raggiunta attraverso i sugge-rimenti e gli obblighi forniti dalle particolari condizioni del sito, resta solo da valutare e stabilire gli attributi e i parametri di un pos-sibile sottopasso. Data l’ampiezza della car-reggiata, un sottovia carrabile sarebbe fatti-

La proposta di progetto del sottopassaggio ciclo-pedonale Un impianto ettometrico

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bile solo a condizione di destinarvi un’unica corsia e quindi un solo senso di marcia con percorsi laterali piuttosto sacrificati per pe-doni e veicoli non motorizzati. Senza conta-re il maggiore impegno nello scavo e il fatto che, bene o male, un sottopasso per vetture esiste già a non molta distanza da via Dante.

La proposta. L’esito di questo percorso pro-gettuale risulta dunque il sottopassaggio ci-clo-pedonale, il quale sembra rispondere alle richieste e alle ipotesi di partenza, agli obiet-tivi prefissi: consente a pedoni e biciclette un superamento in sicurezza del fascio ferro-viario e una fluidità visiva lungo tutta la sua percorrenza; non fa ricorso a barriere fisiche; preserva le connessioni carrabili laterali ne-cessarie all’efficienza del sistema traffico; non esclude la possibilità di integrarsi con i sottopassaggi esistenti né quella di ingloba-re rampe per disabili. La corsia per biciclette è dedicata, perciò non vi è promiscuità con quella pedonale. Entrambe affrontano una salita e una discesa in trincea e un tratto in piano ad una quota di circa -3 metri sotto-stante i binari. È qui che si viene a creare una sorta di spazio collettivo che si discosta dalle caratteristiche di strada per somigliare più ad una piazza urbana, per la quale è stata valutata una possibile soluzione del disegno di pavimentazione che attenui quegli effetti sensoriali percepibili quando si imboccano

percorsi cunicolari stretti, lunghi e in penom-bra come le gallerie. Per lo stesso principio si è compiuta una scelta di trattamento delle superfici delle pareti diversificate le une dal-le altre, da un lato con disegni geometrici, dall’altro con pannelli in grado di ospitare fo-tografie da cartolina o manifesti pubblicitari (in chiave anche di sostenibilità economica). Queste pareti sono scostate dalla struttura portante per mezzo di una intercapedine all’interno della quale alloggerebbero im-pianti come quello di smaltimento delle ac-que meteoriche. Non è stato fatto sconto di indagine nemmeno sul piano illuminotec-nico, con uno studio articolato di impianti a nastro, a incasso e a palo di luci a LED, le quali, si sa, sono le più vantaggiose anche dal punto di vista del consumo energetico. Tutto il progetto, infine, è calibrato per potersi pre-stare a soluzioni tecniche di cantiere in grado di ridurre al minimo i tempi di realizzazione e, di conseguenza, i disagi per gli utenti.

I costi. Un computo di massima ha permesso di stimare per l’intero intervento una spesa pari all’incirca a 1.000.000 - 1.200.000 euro, contro i 2.000.000 quantificati come misura necessaria alla realizzazione dell’impian-to ettometrico. La stima non prevede costi esosi per le operazioni di scavo poiché è stato considerato per ipotesi (un’ipotesi fon-data sul confronto effettuato con il progetto

degli ascensori, ma certezze assolute su dati e misurazioni reali del sito non ve ne sono state, in assenza di disponibilità o capacità dell’UTC di fornire alcuna documentazione in tempi utili) che eventuali passaggi di sot-toservizi al di sotto della sede ferroviaria si trovino ad una profondità di interramento maggiore rispetto ai 3 metri indispensabili al sottopassaggio. Qualora si ponesse l’esi-genza di traslare verso il basso tali impianti per far posto alla trincea, la spesa aumente-rebbe di qualche centinaio di migliaia di euro, garantendo comunque un certo risparmio.

Tuttavia i costi delle opere pubbliche vanno computati non nella sola somma iniziale de-stinata ai lavori di realizzazione, ma calcolati come ammontare di tale quota e di quella che subentra un secondo dopo l’entrata in esercizio del manufatto, relativa alla gestio-ne e alla manutenzione dello stesso in previ-sione di un periodo di utilizzo di medio-lungo termine. Anche in questo caso, gli impegni economici richiesti affinché siano manute-nuti gli impianti di smaltimento delle acque di precipitazione nel sottopassaggio sarebbero più esigui rispetto al mantenimento in per-fetto funzionamento di sistemi delicati come quelli ettometrici. Ma anche presupponendo per assurdo una parità totale di spesa, chissà quale opera risulterebbe conveniente in una seria Analisi Costi - Benefici. ¿

Un impianto ettometrico

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Esiste un repertorio preziosissimo di autori che si sono occu-pati di letteratura industriale: Ottieri, Bianciardi, Primo Levi, Volponi, Parise e molti altri, senza dimenticare le incursioni di Gadda, Calvino, Caproni, Sereni e Fortini. Posti dinanzi alla fabbrica, la maggior parte degli scrittori ha espresso un giu-dizio molto critico, descrivendola come un inferno alienante. Questa narrativa industriale ha rappresentato un vero e pro-prio controcanto rispetto alle magnifiche sorti dell’Italia del boom economico.

Invisibile è stato per molto tempo ai nostri occhi mai colmi di progresso lo stupro del territorio che ha compiuto una grande fabbrica come la Fibronit. Solo dopo molti anni e numerosi malati si è scoperto che la vecchia fabbrica abbandonata in mezzo alle case colpevolmente costruite tutt’intorno, era un’immensa discarica di rifiuti cancerogeni. Pane e amian-to. Girotondo di una città sopra un milione di vite (Poiesis), il romanzo d’esordio di Giuseppe Armenise, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno e voce di estrema potenza espres-siva, non è una semplice storia di processi o un dossier di denuncia, ma un lungo racconto-documento di uomini, affet-ti, paure, quando non c’era ancora una cultura per la difesa dell’ambiente, e la tutela del diritto al lavoro e alla salute era-no ancora visti come inconciliabili.

L’autore ha esplorato il territorio della memoria creando un necessario corto-circuito tra passato, presente e futuro. Così parlando di Fibronit ci si ricorda subito dei casi più attuali: l’ Ilva di Taranto e “la terra dei fuochi”. Disprezzando i facili ottimismi e scetticismi sapremo interessarci all’azione re-sponsabile e coerente? O invecchieremo ricordando l’inade-guatezza e l’incompetenza della nostra classe dirigente? Di seguito ne parliamo con l’autore.

Ti sei da sempre interessato alle questioni ambientali sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno, ma come e quando

è nata l’idea di scrivere questo romanzo?

Dal 1995 ho scritto centinaia di articoli sul caso Fibronit, ma è stato nel 2006, quando la fase dell’emergenza ambientale si avviava finalmente alla sua positiva definizione, che mi sono interrogato sulla necessità di lasciare il linguaggio neutrale del testo giornalistico per dare voce alle persone che hanno attraversato, semplicemente testimoniando o pagando conti salati al proprio modo di essere in qualche maniera eroi, la lunga vicenda di dolore - ma anche di riscatto sociale - legata alla fabbrica di amianto tra le case di tre popolosi quartieri di Bari.

“L’assassino, in una fabbrica-famiglia, colpisce senza pro-vocare sdegnate proteste”- scrivi nel tuo romanzo. Quando iniziò ad affermarsi una vera coscienza dell’amianto tra gli operai?

Il sospetto che l’amianto non fosse certo un toccasana credo ci sia sempre stato. Va però considerato il modello industriale in cui si inseriva la Fibronit negli anni ‘30: la quotidianità era la fabbrica e qui si celebravano insieme a mogli e figli persino i precetti festivi. Era difficile ammettere agli altri che in quel quadro idilliaco si stesse in realtà annidando la condanna a morte di molti. Poi negli anni ‘70 c’è stata anche l’occupa-zione della fabbrica per rivendicare maggiori presidi a tutela della salute e della sicurezza. Ma su molti operai, l’amianto la sua maledizione l’aveva già lanciata.

Nelle prime pagine il protagonista si scava una prospetti-va da cui osservare questo colosso e nel frattempo tiene il conto dei morti: “non è così che si soffre bisogna darsi”. Che cosa è rimasto oggi nella nostra memoria?

La memoria va coltivata. Per molti cittadini, ancora oggi la Fibronit non è che un insieme di padiglioni scheletrici in at-

"Pane e amianto. Girotondo di una città sopra un milione di vite”

di Giuseppe Armenise

Libri

Silvana Farina

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Anche a Taranto negli ultimi mesi sono morti alcuni operai. Certo è che nella generale crisi economica e finanziaria il fronte cittadino e operaio si spacca. Come credi si possa conciliare diritto al lavoro e alla salute?

La crisi della grande industria è evidente, eppure molti ri-tengono insufficiente, per soppiantarla, il modello della co-siddetta green economy. Ma siamo proprio certi che una grande industria basata su turismo, tutela e salvaguardia del patrimonio culturale, grandi bonifiche e risanamenti ter-ritoriali, no non sia il più grande affare per i decenni a venire in Italia? Questa è una strada sicuramente efficace di fare impresa conciliando diritto al lavoro e salvaguardia della per-sona. Qualcuno dovrebbe ricordare che, all’Ilva come in tutti i luoghi dove l’industria ha creato rischi per la salute, oggi si sconta con il costante aumento della spesa sanitaria pro ca-pite ciò che in passato è stato vissuto solo come prosperità dei singoli e dei territori. Il bene salute andrebbe introdotto come variabile ogni volta che si fa l’analisi costi-benefici di una nuova iniziativa imprenditoriale.

Sono stati aggiudicati i lavori di bonifica dell’ex Fibronit di Bari per la costruzione di un parco. Una fabbrica non è spa-zio lontano e indiscriminato: la geografia industriale diven-ta corpo che convive ogni giorno con noi. Quale dovrebbe essere il giusto rapporto tra città-cittadino-fabbrica?

Dopo la sfida che ha portato alla variante urbanistica per l’inedificabilità sui suoli del sito inquinato dell’ex Fibronit, credo che oggi se ne ponga una nuova. Oggi il recupero, il riuso e la riqualificazione delle vecchie industrie e delle aree dismesse possono essere la nuova frontiera di una città che ha necessità di saldarsi, non di espandersi all’infinito. Anche alla Fibronit uno dei capannoni, la vecchia segheria dove non c’era inquinamento da amianto, resterà in piedi. L’intenzione è farne uno spazio de-dicato all’ambiente. Per non dimen-ticare. ¿

tesa. Ma la fabbrica dell’amianto è stata insieme speranza di futuro e perdizione. L’amianto, in fibre leggerissime traspor-tate dal vento, ha colpito a centinaia di metri di distanza. Tra il 1935 e il 2007, anno in cui si è conclusa la messa in sicurezza d’emergenza del sito industriale dismesso, ha colpito inermi ragionieri e semplici casalinghe colpevoli solo di affacciarsi ai balconi dove si erano depositate polveri killer. La memoria della Fibronit rimane eccome. Anzi è attualità perché, pur-troppo, continueranno ad esserci vittime tra la popolazione. Sono gli esposti di 30, 20 o 15 anni fa. Il tumore dell’amianto colpisce e poi si manifesta decenni dopo, quando ormai è in fase acuta.

Le madri, le mogli, le figlie e le vedove delle vittime (qua-si 400 tra gli operai, ma a decine anche nella popolazione) hanno consentito, attraverso l’energia, l’amore e la speran-za, di risalire alle tante atroci verità inconfessate. Quanto è stato importante per te e per il tuo romanzo il dialogo con loro?

Direi fondamentale. Credo che nelle pagine di “Pane e amian-to” si evidenzi una decisa scelta di campo: il femminile del mondo che apre alla bellezza è l’unica, possibile chiave riso-lutiva. Qualcuno dice che il mio è anche un romanzo di gene-re. Le donne della Fibronit, così peraltro avevo immaginato che il libro potesse intitolarsi in un primo momento, hanno fatto irruzione nella storia in tutti i momenti chiave. France-sca, Mari Sole, Marina, Donna Bice, Laura, Maria sono state e sono coscienza critica, sono riuscite a suscitare, per dirla con Heidegger, il contrario del contrario. Laddove è la chiave della bellezza il contrario del contrario.

A Bari è stata emessa, nel 2005, la prima sentenza in Ita-lia per l’omicidio colposo di dodici ex operai morti a causa dell’amianto. Allora perché il governo nazionale stenta an-cora a mettere in atto politiche di sostenibilità?

Da quella, di sentenze ne sono state emesse molte altre. Ma un’accelerata sulle politiche di sostenibilità dipende dal-le sensibilità e, parlando di scelte politiche, anche da criteri di opportunità. Quando, nel 1992, l’Italia ha messo al bando produzione e commercializzazione dell’amianto, non si aveva probabilmente idea di quale fosse l’enorme platea di lavo-ratori esposti che avrebbero chiesto accesso ai benefici di legge. Per questo la scelta politica della regione Puglia e del Comune di Bari, dal 2004 ad oggi, di investire svariati milioni di euro nella messa in sicu-rezza permanente della Fibronit, sottraendone la titolarità ai privati proprietari inadempien-ti, assume un peso politico an-cora più significativo.

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I L P R O G E T T O D E L R I C O R D O : I l G e n o c i d i o A r m e n o

Guardando sulla cartina geografi-ca ci si accorge diun piccolo Stato circondato dalla Turchia, dall’Iran e dall’Azer-baijan. È uno stato chiuso dalle

montagne che si specchiano nel grande “lago blu” Sevant. Ecco, quello Stato è l’Armenia, la “Terra di Haik”. Haik era un discendente di Noè e, secondo la tradizione cristiana, antenato di tutti gli armeni.Stabilitosi ai piedi del monte Ararat, partì per assistere alla costruzione della Torre di Babele e, al ritorno, sconfisse il re as-siro Nimrod nell’attuale Turchia. Al confine fra i due Stati si eleva il monte Ararat, una vetta considerata sacra per gli Armeni e che un tempo faceva parte del loro territorio. È interessante sapere come nella lingua ar-mena Ararat significhi “Creazione di Dio”, riferendosi al luogo su cui Noè si rifugiò con la sua arca dal Diluvio Universale, e che invece per i Turchi rappresenti la “Mon-tagna del dolore”. L’Ararat è una montagna nata fra lo scontro delle placche africana e asiatica e forse è così che è nato anche il popolo Armeno: due popolazioni distanti, eppure così vicine che,inevitabilmente, si respingono. Non è facile parlare di questo popolo, un tempo ricco e florido e poi im-poverito, barbaramente devastato e, peggio ancora, dimenticato. Il termine “genocidio” deriva dal greco ghénos “popolo” e dal lati-no caedo “uccidere” e definisce il crimine

contro l’umanità che mira alla distruzione (totale o parziale) di un gruppo sia questo etnico, religioso o nazionale. Quest’espres-sione per il territorio Armeno si riferisce a due eventi distinti, ma comunque legati tra loro: il primo avvenuto tra il 1894-1896; il secondo relativo alla deportazione ed elimi-nazione del popolo armeno tra il 1915-1916.Manca solo un anno e ricorrerà il centenario del loro Genocidio (termine più usato per ilsecondo evento). È doloroso e complicato av-vicinars i a queste tematiche: la brama disopraffazione è propria dell’uomo ed è nata con esso. Se nella specie animale è un biso-gno naturale basato sulla necessità di ave-re un territorio che garantistica loro la sopravvivenza e scandito da regole che non intaccan o l’esistenza della razza preda-ta, nell’essere umano è invece un effime-ro desiderio di potere che servirà poi come riconoscimento della propria supremazia. Ma chi sono gli Armeni? Di chi è l’Armenia? Da sempre, da prima di Cristo, questa civiltà attirava Romani e Parti, Turchi, Bizantini e Sasanidi. L’Armenia è una posta in gioco da secoli, una terra di tutti e di nessuno. Gli armeni hanno conosciuto la paura, la violen-za e la disperazione. Costretti all’esilio per mano dei Turchi, questi uomini senza ter-ra vivono la diaspora, obliati. Spetta a noi tramandare il loro ricordo, oggi, raccontare le loro esistenze. Cercare delle risposte è doveroso affinché si possa dare un sen-so al loro martirio. È ancor più difficile però parlare di vite piuttosto che di morte, poterle ricreare. Quello che molti artisti (scrittori, musicisti,registi) sono riusciti a fare è proprio questo: dosare il dolore e la leggerezza in opere uniche che hanno avuto il pregio di narrare storie di uomini comuni che hanno vissuto in un contesto storico di eccezionale crudeltà. La loro testimonianza è fondamentale,un’orma lasciata nell’animo di chiunque abbia la sensibilità di ricono-scerla e di comprenderla. E così la nostra generazione è riconoscente verso chi si ado-pera perché ritiene sostanziale non dimenti-care, nel caso specifico un ringraziamento va ai professori di lettere del liceo classi-co “P.V.Marone” che, ogni anno, con delicata tenacia supportano il progetto del Ricordo ¿

Un

a fin

estra nei licei

Fiamma Mastrapasqua | / fiamma.mastrapasqua

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PrimaVera Gioia 17

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Via, si parte! Il 6 agosto ancora a Bari Palese, con destinazione Siviglia ed un biglietto di ritorno da-tato 26 agosto da Porto verso Roma-Ciampino, una cartella Decathlon da quaranta litri, ma che

possiamo riempire solo fino a dieci kg, perché il signor Ryanair dice di fare così, altrimenti si paga di più. Non avevamo nient’al-tro per il viaggio, a parte un cellulare di ultima generazione che ci indicava sempre la strada sbagliata, ma sul quale Lello, mio com-pagno di viaggio, faceva molto affidamento. Infatti, arriviamo a Siviglia intorno alle ore 18.00 e l’ostello, trovato alle ore 24.00, è oltre tempo massimo per il check in. Ma il receptionist chiude un occhio, consegnandoci le chiavi e l’accesso ad una stanza che sembra la riproduzione fedele dell’habitat dei pinguini, mentre fuori, a mezzanotte, ci sono ancora trenta gradi centigradi (vi as-sicuro che non è un caso che Siviglia venga soprannominata “la Padella d’Europa”!)

Il 7 agosto comincia il nostro tour in Andalusia. Qualche giorno a Siviglia, poi Cadice e Cordoba. È sempre un piacere visitare la Spagna! Un paese che ha conservato i segni della dominazione araba più di qualsiasi altro; dove la mescolanza delle architetture è messa in luce in tutte le città che ne hanno subito l’influenza. A Siviglia, la Cattedrale gotica di Santa Maria della Sede è a pochi metri dai Giardini di Alcazar, ex residenza dei Pascià, passata poi in mano ai re e ai discendenti castigliani provenienti dalla regione di Castilla y León, i quali ricostruirono le residenze arabe ricon-quistate durante la cacciata dei Mori, direttamente dalle loro ro-vine. La Mezquita di Cordoba, invece, è semplicemente qualcosa di magnifico. Un luogo che custodisce una spiritualità a me del tutto nuova, ma che al suo interno mostra le ferite che si sono provocate a vicenda entrambe le religioni monoteiste in que-stione. La Mezquita infatti è una moschea, convertita in luogo sacro del cristianesimo, ma rimasta intatta nella sua architettura Omeyyade. A Cordoba faremo la conoscenza di quattro simpa-ticissimi abitanti del posto, che pranzeranno con noi in una pic-colissima locanda, e che dopo qualche bianco di troppo, avranno tanta voglia di spiegarci ciò che succede in Spagna in tema di

Emanuele Donvito | / emanuele.donvito.7

Diario di BordoITALIA_spagna

economia e di politica. Lo faranno mentre disputano tra di loro, con tanto di inchino e ringraziamenti da parte di Pedro che ri-peteva ironicamente “mucca gracias Zapatero, mucca gracias”, rintracciando le origini dell’alta tassazione sulle abitazioni, nel-le dispendiose politiche sociali dell’ex Primo Ministro spagnolo. Poi c’è Cadice, che definisco la città dell’orgia quotidiana! Gente in giro a tutte le ore, mercati antichi, marinai che sembrano più che altro pirati e addii al celibato che si festeggiano per strada, in pieno giorno e il futuro sposo questa volta è vestito da fatina con al suo seguito il corteo degli amici che diventano sempre più nu-merosi man mano che la festa prosegue. Cadice è anche la città dove ho mangiato la paella mista più saporita in assoluto, e dove abbiamo visto come le nostre tanto care cartelle decathlon siano in grado di navigare, spinte a largo da un’improvvisa alta marea, ma recuperate grazie alle nostre abilità natatorie a dir poco ec-cellenti!

Il 13 agosto lasciamo la Spagna. La prima destinazione porto-ghese è Faro nella regione dell’Algarve, la più frequentata dai giovani per via del surf e dei numerosi festival reggae. Faro a mio avviso è una località abbastanza surreale ma pigra, eccetto l’u-nico bar aperto fino a tardi, situato all’interno del Castello della città, dove abbiamo passato una divertente serata con Laura e Giovanni (nostri compaesani) e nuovi amici occasionali olande-si e tedeschi. Si festeggia a suon di Mojito, quello che tra di noi abbiamo intitolato “ritrovo ravvicinato del terzo tipo”, per via del ricongiungimento di compaesani in terra straniera. Dopo qualche giorno si approda a Lagos, dove ci sono dieci magnifiche spiagge dominate da scogliere a picco sul mare ma che a differenza di Faro, sfoggia un gran fermento serale e locali notturni piuttosto trasgressivi. Finalmente, arriviamo a Lisbona! Eviterò di mette-re in evidenza la monumentalità e la generosità architettonica della città, esaltata anche da numerose creazioni fasciste come il Cristo Rei, costruite durante il lungo governo salazariano, che inneggia al bigottismo e alla riconciliazione col divino (caratteri-stica comune a tutti i tipi di fascismo). Lisbona è ben altro! Qui, ai writers è affidata la missione di rincantare la città attraverso la loro arte. Tuttavia, per quanto mi riguarda, il ricordo di que-sta città è legato soprattutto al Premio Nobel per la letteratura José Saramago. Entrando nel palazzo della Fondazione Sarama-go si avverte sin da subito, la sensazione di andare a far visita alla “consapevolezza” e alla “saggezza”. La consapevolezza la si percepisce in ogni sua moderna e contemporanea forma di pro-testa e di dissenso verso il governo di Salazar, ampiamente ma-nifestata nella gran parte delle suo opere. La sua saggezza, la si riscontra in città, una tra le più “europeiste” d’Europa, che si tuffa nell’Oceano senza paura. Lo conosce bene quell’Oceano e cono-sce anche gli errori che ha fatto quando l’ha percorso le prime volte. Lisbona riunisce i popoli di madrelingua portoghese e co-munica bene con l’Africa (salvo che con l’Angola, per via di eser-cizi di capitalismo sfrenato messi in atto da politici di entrambi i paesi). Saramago ha avuto ragione! Il Portogallo e Lisbona non possono essere costretti in gabbie fatte di fasci, esse hanno bi-sogno di parlare, di interloquire, di scambiare e a volte di non ac-

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cettare ciò che si decide a Bruxelles. Prima di partire, leggendo un articolo portoghese sul periodico Internazionale a proposito del Portogallo, era sottolineata l’inopportunità di alcune scelte fatte in seno alla Commissione Europea in tema di programmazione economica, evidenziando l’innocente incapacità della sua gen-te e della sua amministrazione a recepirle nel migliore dei modi per ragioni di carattere sociale. Poi, girando per la città, quasi mi convinco che sono più legittime le paure di questa gente nei con-fronti delle istituzioni europee, che quelle italiane, poiché tutti conosciamo la maggiore fragilità dell’economia portoghese, ma pochi rimarcano le infinite potenzialità di questo paese. Fino alla fine del viaggio consumerò il romanzo autobiografico: Manuale di Pittura e Calligrafia di José Saramago, in cui è trattata la transi-zione verso la democrazia portoghese, attraverso la descrizione della crisi artistica di un ritrattista portoghese, il quale finirà per scrivere un’ autobiografia e dipingere altri tipi di quadri.

La prossima tappa è Coimbra, centro universitario portoghese si-tuato nell’entroterra e crocevia europeo e nazionale di studenti. La città conserva molte tradizioni medievali, come la dura acco-glienza riservata alle matricole delle università e l’obbligo di uti-lizzare le divise durante l’anno accademico. Il rigore con il quale si

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custodiscono queste attività pagane ci viene spiegato nei minimi dettagli dal loquacissimo Luigi, studente e stagista all’ostello in cui soggiorniamo, con il quale si passerà un’intensa serata in un pub irlandese insieme a due sorelle francesi, che io e Lello abbia-mo aiutato a cercare una stanza dove dormire. Luigi ci mostrerà anche la sua casa di abitazione, mentre io comincio a sperare che il rigore delle tradizioni universitarie non continui a tradursi nella produzione di una classe politica serva del peggio che l’Umane-simo potesse aiutare a costruire (come è successo con Salazar), e allo stesso tempo, che la conversazione avesse fine, dato che sono le quattro di notte!

La destinazione di questo viaggio è la meravigliosa Porto, che solo dopo due settimane, mi ricorda già Cadice, in versione non ancora restaurata ma che più o meno, vanta la stessa orgia quotidiana. A Porto ormai stanchi, l’ultima puntata culturale, l’abbiamo fatta sul Vino “Porto”, visitando il museo nazionale di questo prodotto locale, degustandone i sapori. Il 26 agosto si ritorna a Roma, cena con i miei zii, l’irrinunciabile passeggiata a Villa Borghese, dove prenderò anche un caffè e leggerò le ultime pagine del romanzo e il 27 di agosto, scappando da un temporale di portata divina, saliamo sul treno: destinazione Bari centrale.¿

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Ci facciamo una chiacchierata musicale col bassista gioiese Francesco Maria Antonicelli, la cui band, Occhioterzo, ha recentemente pubblicato l’album d’esordio, “Maestri distorti”,

lavoro che si caratterizza soprattutto per la grande abilità nel tenere in equilibrio sfuriate elettriche e ritmiche, con squarci melodici molto efficaci.Occhioterzo è un trio rock che nasce nel 2009. Fondato da Giampiero De Leonardis e Antonello Nitti, reduci da diversi progetti musicali sempre in evoluzione. Il duo autoproduce una prima demo di 4 brani intitolata “Noia e il modo”. La formazione si completa presto con me affrontando un primo periodo di live. Forte dei consensi ricevuti, il trio rilascia in forma non edita ufficialmente un altro EP demo completamente registrato e missato in analogico. Il lavoro, il quale anticipa l’album di cui propone già il titolo, procura al gruppo l’accesso a diversi

contest locali. Occhioterzo vince le prime edizioni del “Gioia Rock Contest MAC 1.0” e di “Alz’u’banne”, due festival itineranti che hanno visto nascere tra le più importanti realtà del panorama musicale barese. In questa parentesi di esibizioni dal vivo il trio Occhioterzo ha condiviso il palco con gruppi come “I ministri” e “Tre allegri ragazzi morti”. Alla luce del buon riscontro da parte del pubblico, decidemmo di concentrare il lavoro nel nostro studio di registrazione, raccogliendo i migliori contenuti della produzione Occhioterzo, nonché le idee più recenti. Grazie alla collaborazione con l’etichetta discografica One More Lab e Don’t Worry Records, prende vita il nuovo album dal titolo “Maestri distorti” uscito il 23 Settembre 2013.

Cosa ti ha spinto a impegnarti nel fare musica? Se la musica non fosse nella tua vita cosa faresti oggi? “Come sarai tra vent’anni” (citando Federico Fiumani)?

MAESTRI DISTORTI:

l’album d’esordio degli

OCCHIOTERZO

Autori

Musica

Vanni La Guardia | / vanni.laguardia

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Sono stato svezzato con Bach (ancora in grembo), la “play list” delle mie ninna nanne includeva, tra i tanti, Battisti e Guccini; per non parlare delle innumerevoli serate passate ad ascoltare mio padre batterista. La musica è stata la mia prima compagna, ed allo stato attuale delle cose è ciò che non potrà non essere anche fra vent’anni: simbiosi, osmosi, scuola. Se la musica non fosse nella mia mia vita, sarei un analfabeta.

Sono lontani i tempi in cui i dischi si trasformavano in eventi: oggi servono solo come scusa per avviare un nuovo tour, perchè se ne vendono pochissimi. Anche Ornella Vanoni ha dichiarato che non farà più dischi perchè costano fatica e non si vendono. Ha ancora senso pubblicare cd, oggi, in Italia? Che strategie distributive utilizza la vostra etichetta? Avete un ufficio stampa?Ritengo che il cd sia il “Totem” di ogni musicista e quindi imprescindibile. Bisogna lavorare affinché non diventi un tabù. La nostra etichetta è giovanissima, forse troppo, deve maturare e far maturare il proprio modus operandi; deve implementare il dialogo con l’ufficio stampa, scegliere una strategia comunicativa che sia su misura per noi, abbandonando paradigmi manageriali ormai vetusti. Affinità nell’intenzione, divergenze nell’atto. Ad oggi dal punto di vista pubblicitario il bilancio è negativo.

Sempre secondo i dati FIMI, nove dei dieci dischi più venduti in Italia nel 2013 sono italiani. 11 album di ex concorrenti di talent show italiani sono entrati in top ten. Non è forse questo il sintomo di un Paese ripiegato su sè stesso, impermeabile alle “avanguardie” del resto del mondo, a cui preferisce revival circolari e inglese maccheronico? Voi quanta importanza date all’acquisto e all’ascolto dei cd degli altri e alla lettura di riviste e magazines specializzati?Leggiamo poco ma ascoltiamo tanto. Personalmente fruisco, seguo e finanzio la musica ed i musicisti rispetto alle mie, seppur minuscole, potenzialità (disdegnando meccanismi di becera competitività). Dove riconosco bontà e genuinità mi soffermo cercando di “fare sistema” con qualsiasi mezzo, anche perché al “karma” un po’, forse, ci credo.

Passiamo alla situazione dei concerti. Che tipo di risposta ricevete durante i live? Quando suoniamo, balliamo. Quando suoniamo, la gente balla e canta. Sapere di poter contare su questo ci rinvigorisce costantemente, in barba a Maria De Filippi ed alle troppo facili conquiste delle cover band. “Sapere aude” diceva Kant, è un concetto che, a quanto pare, appartiene al nostro pubblico, che può moltiplicarsi (perché di “coraggiosi“ ce ne sono tanti) e che ogni volta sarà il “più bello mai avuto”.

Avete mai pensato di dedicare qualche mese della vostra vita a girare in furgone per 2/3 nazioni europee, suonando quasi ogni sera, dormendo dove capita? Quanti kilometri fate per andare a vedere i concerti altrui?La nostra aspirazione è svegliarci ogni mattina pensando a dove si suonerà

la sera. Per farlo abbiamo bisogno di acquisire determinate competenze o di affiancarci a qualcuno che ce le abbia, e stiamo lavorando anche per questo. Ad esempio per vedere i Porcupine Tree sono andato a Padova, per i Motorpsycho a Roma. Il giorno in cui grazie al mio lavoro (la musica, non con i risparmi di sabato sera passati a portare pizze) potrò andare a vederli in Inghilterra o in Norvegia potrò ritenermi più che soddisfatto. Naturalmente, al di là dell’iperbole valida per i gruppi appena citati, applico il discorso a qualsiasi prodotto mi piaccia e di bello in giro ce n’è parecchio.

Per costruire case, bisogna studiare ingegneria; per curare gli ammalati, medicina; per difendere una parte in un processo, giurisprudenza e così via... Il management musicale e l’organizzazione di eventi non dovrebbero sottrarsi a questo principio, salvo finire in mano ad azzeccagarbugli presuntuosi, che parlano di “punk” o “antagonismo” per sentito dire, o che si incipriano di balle colossali e fanno palestra di sgambetti, opportunismo e furberie varie... Cosa pretendete da chi cura la vostra band?Dialogo sincero e professionalità, dicotomia che ci ispira e che vogliamo vedere riflessa nell’interlocutore, manager o aficionado che sia, qualità che troppo spesso sono oscurate e fagocitate dall’ingordigia e dal miserrimo arrivismo. Sono perfettamente d’accordo con te, il sistema è a mio avviso al 70% inquinato da logiche di una immorale economia di mercato (che -ahi noi!- è dominante) per altro applicate malissimo.

L’Italia è il Paese di Claudio Abbado, fondatore della European Community Youth Orchestra ben prima che l’Unione Europea prendesse formalmente vita, e di Renzo Piano che, ricordando il grande direttore d’orchestra, ha lanciato la proposta di far insegnare la musica in tutte le scuole italiane. Eppure da noi non esiste un “welfare musicale”. Se potessi adottare un provvedimento normativo in questo settore, a cosa penseresti?Sono un fervido sostenitore di principi quali il cooperativismo e l’associazionismo. Sono concetti tanto comprensibili quanto, parimenti, ostici rispetto all’ortodossia vigente, che è individualista ed eminentemente lucrativa. Di realtà sane ce ne sono molte, spetta a noi nutrirle con iniezioni di fiducia e sostegno, per tutelarci e migliorarci, diventare “Leucocity”(citando proprio gli Occhioterzo) di un universo che non può anacronisticamente essere un piccolo mondo antico. ¿

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Il tema che questo mese abbiamo scelto per voi è il negazio-nismo. In termini storico-politici questa espressione rimanda polemicamente al tentativo da parte di individui o di interi

gruppi organizzati di negare, appunto, l’esistenza di un dato evento o di ridimensionarne la portata. Si parla a tal proposito del tenta-tivo di ridimensionare la Shoah da parte di alcuni storici, del ri-fiuto del governo di Ankara di riconoscere le responsabilità turche nel massacro della popolazione armena, del rifiuto di riconoscere la sovranità macedone da parte della Grecia, che ancora oggi, a vent’anni dall’implosione jugoslava, non accetta ancora l’esistenza di una Macedonia al di là dell’eredità ellenica. L’occasione per fare riferimento a questo tema ci è fornito dalla “Giornata del Ricor-do” del trascorso 10 febbraio, giorno in cui per legge le istituzioni scolastiche hanno il dovere di rendere partecipi gli studenti italiani della tragedia di cui furono vittime le popolazioni italiane della Ve-nezia Giulia e della Dalmazia. Questa celebrazione, giunta al deci-mo anno, venne fortemente voluta soprattutto dai partiti dell’allora centro-destra berlusconiano, che a ragione intendevano restituire la dignità perduta a quelle vittime della guerra al confine orientale

dell’Italia, vittima dunque di un’operazione che polemicamente si potrebbe definire negazionista. Di fatto, alcuni fattori hanno spesso determinato un oscuro silenzio su queste vicende storiche (l’alle-anza tra il maresciallo Tito e l’occidente in chiave antisovietica, il monopolio esercitato dal PCI sulle generazioni di storici italiani, assenza di fonti certe, etc). Purtroppo, la commemorazione delle vittime delle foibe e del lungo esodo di cui furono vittime le po-polazioni espulse dal neonato regime di Tito in Jugoslavia ha fini-to spesso per finire ostaggio della strumentalizzazione politica, di chi cerca di legittimare e consolidare il sentimento anticomunista. Oggi che Silvio ha altri problemi, poco interessa delle vittime del comunismo jugoslavo, ma resta aperta la questione storiografica. Il grande dramma che ha inghiottito uomini e donne tra il 1939 e il 1945, in quella terra di confine assunse dimensioni particolari, spingendosi ben oltre la Liberazione. Il problema di fondo è che in quel conflitto mondiale si sovrapposero differenti e molteplici mi-cro-conflitti locali, regionali, ideologici ed etnici. Basti pensare alla lotta dei partigiani jugoslavi, che giunse a toccare i confini dell’I-talia e dell’Austria, fu una delle più intense e sanguinose di tutto il secondo conflitto mondiale, principalmente perché questa s’innestò all’interno di una multiforme guerra civile. Sarebbe necessario un anno per spiegare queste pagine di storia, che qualcuno ha anche cercato di tradurre in un paio di ore di fiction, ma comunque ci basta per potere affermare che le verità sono sempre complesse, e che l’unico dato certo che possiamo trarre dalle celebrazioni del 10 feb-braio è quello che definisce in maniera inequivocabile la natura irri-mediabilmente catastrofica della guerra. Per esteso, le decimazioni degli elementi italiani e il clima di terrore che s’impose nei territori giuliani, che ebbe come effetto la pulizia di quelle terre dalla pre-senza italiana, costituì una tragedia indebitamente obliata, ma non rappresenta qualcosa di eccezionale rispetto alle pratiche di guerra registrate ovunque, anche nella Provincia autonoma di Lubiana go-vernata dal regime fascista dal 1941 al 1943. Mi fa specie dover considerare i profughi istriani che giunsero dopo tante traversie an-che in terra di Bari, andando a popolare il villaggio Trieste di Alta-mura, in maniera totalmente differente dai Curdi di Bari. Le vittime istriane e dalmate della violenza e dell’esodo tra il 1943 e il 1954 non ebbero una storia dissimile da quella dei profughi curdi, siriani,

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abkhazi, maliani, sudanesi, etc., etc., etc., che popolano il globo nel 2014. In comune hanno il destino di vittime di guerra, quindi la condizione di profugo: estraniato, discriminato, dimenticato. E quindi, ribadiamo che da queste giornate l’unico certo insegnamen-to che si può trarre, per chi non ama usare la storia come metro di giudizio o di esaltazione delle virtù nazionali, ma come forma di comprensione, è quella della brutalità di cui l’uomo è capace quando si smarrisce la condizione di pace che negli stati borghesi è determinata dall’equilibrio tra libertà e giustizia. Questo bisogna insegnare a tutti, ai politici per primi: la pace sociale e lo stato di diritto sono i beni più preziosi che abbiamo, e anche il cosiddetto progresso a questo precetto deve conformarsi. Dunque, premesso ciò, verremo a temi un po’ più leggeri, e coglieremmo l’occasio-ne, scusandoci per il triplo salto mortale che operiamo, per parlare di un’altra accusa di negazionismo, dai contorni apparentemente meno funerei. Quella che sostanzialmente viene rivolta dal glorioso sindaco di “Gioiezza sul Colle” ai suoi pochi detrattori all’interno del consiglio e fuori.

I detrattori, un po’ delatori, sono accusati di non tenere in debito conto i risultati prodotti dall’at-tività amministrativa del Povia, poiché il “povianesimo” è stato principalmente sviluppo per il ter-ritorio, per la comunità “gioina”. Infatti, come dare torto alle parole espresse in pubblica assise dal no-stro primo cittadino se teniamo in conto quella che è l’opinione dei cittadini dei paesi limitrofi rispet-to a Gioia del Colle? Non si può negare che le opportunità offerte dalla nostra Gioia sono spesso invidiate dai ragazzi di Cassano, Acquaviva, Casamassima, agglo-merati urbani che ai ragazzi, ai consumatori, agli avventori non possono dare le stesse vibrazioni della sviluppata metropoli gioiese. Nel corso del Consiglio Comu-nale arroventato a proposito delle Zone F, il buon Sergio ha dato prova delle solite capacità oratorie (che il povero Bradascio non può certo pensare di contenere), anche se il linguaggio del buon sindaco si avvicina sempre più a quello del presidente della AS La-zio, Claudio Lotito: brocardi latini, slang inglesi, citazioni bibli-che, e quanto di più contorto per non fare capire nulla. Neanche un po’ di rispetto per quei poveri consiglieri annoiati e in attesa della cena. Il lungo e articolato intervento del sindaco ribadisce il concet-to sopraesposto, sottolineando lo sviluppo che in questo ventennio ha caratterizzato Gioia del Colle, l’espansione edilizia e i ritorni positivi per la comunità, i servizi come il palazzetto, il campo co-munale, il teatro. Incalzante nel ritmo il nostro sindaco cercava di giustificare in questi termini l’illegalità che il Consiglio di Stato ha certificato in via definitiva. Riconoscere la crescita del paese, il suo sviluppo non può mai implicare il sacrificio di quei valori che sap-

piamo essere alla base dello Stato di diritto, della pace che ci è tanto cara e che, come Kiev dimostra, costituisce un bene irrinunciabile. Quindi appare davvero impossibile accettare questo passaggio delle dichiarazioni del nostro Majpor: l’intento è di giustificare attraver-so i successi della buona amministrazione le eventuali, involonta-rie illegalità, elementi che invece bisogna tenere conto, sul piano politico e non solo. Del resto, caro Sergio, questo grande sviluppo di cui siamo stati beneficiari significa anche abitazioni che si riem-piono d’acqua quando piove, sviluppo significa anche costruire un campo sportivo che è una cattedrale nel deserto (che occorre com-pletamente rifare, al costo di un milione, ma con quali risorse?), sviluppo significa che i concorrenti della Coop hanno chiuso bat-tente, sviluppo significa che la storia del paese (Arena Castellano e campo sportivo comunale al quale erano legate intere generazioni di uomini), sono spariti sotto una coltre di cemento. A me, perso-nalmente, questo sviluppo non piace e io preferisco il progresso allo sviluppo, e non perché sono per la pianificazione, come tu dici

al consigliere Vasco: il socialismo reale non c’entra con i vostri regola-menti di conti, e spero possa restare fuori dalle discussioni sulle zone F. Per il momento, comunque, nessuno può mettere in difficoltà la coria-cea maggioranza del Sindaco. Tutti sono allineati perfettamente dietro al capo carismatico che inscena continui duelli bilaterali con i suoi tre-quattro oppositori, ma che nes-suno può oggettivamente riuscire a limitare. Povia non è Letta, perché la maggioranza comunale è ancora libera dalla presenza degli eversivi grillini e perché, si badi bene, Povia è renziano. Il panel Labbate-Povia non è certo quello Renzi-Letta, poi-ché totalmente diverse sono le con-dizioni, e diametralmente opposti

sono i rapporti di forza: Renzi non è lettiano; Labbate è poviano, e da questo dipende, più o meno come un bimbo dal cordone ombe-licale. Pertanto, Sergio, non ti preoccupare stai veramente sereno, che qui nessuno ti fa le scarpe.

Tuttavia, se le insidie non vengono dall’interno del Consiglio o dal partito di maggioranza relativa, dove nessuno è realmente in grado di fronteggiare il governo Povia, resta per il Sergio l’insidia che viene dall’esterno, quella giustizialista. Di fatti, quegli uomini in divisa che sabato 22 febbraio si aggiravano per i corridoi di Palazzo San Domenico non erano della forestale e non cercavano il Falco Grillaio: non è stagione, e poi ai falchetti ci pensa il grande Dino del WWF, che da decenni si batte strenuamente per la difesa delle be-stie selvatiche. Purtroppo, quelli là non erano forestali, malgrado la similitudine cromatica. A quelli bisogna fare attenzione, non sono docili e ammaestrati come le tue creature. Per quelli in divisa verde conviene stare meno sereno.

ferita aperta

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