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Prima guerra mondiale
Donella Piccioli e Gianandrea Piccioli, L ’altra guerra, M ilano, Principato, 1974, pp. 222, lire 1.800.
Renato Monteleone, Lettere al re 1914- 1918, Roma, Editori riuniti, 1973, pp. 166, lire 1.600.
I due agili volumi che presentiamo hanno in comune una dichiarata scelta di campo nello studio della partecipazione delle masse alla prima guerra mondiale. « Questo testo, scrivono Donella e Gianandrea Piccioli, vorrebbe ripresentare il primo conflitto mondiale dal punto di vista di quelle classi subalterne che, senza volerlo, si trovarono a combatterlo. C ’è quindi la scelta esplicita e dichiarata di una posizione faziosa » (p. 2). E Renato Monteleone: « H o compiuto una scelta deliberata tra le tante angolazioni dalle quali quel quadro [della guerra] può venir valutato, quella che ritengo più utile a cogliere, nelle tendenze, la continuità dei fatti col dopoguerra » (p. 57). Prese di posizione così chiare fanno piacere, dopo tutte le dichiarazioni di una falsa e ipocrita imparzialità dei conservatori vecchi e nuovi (cfr. ancora Monteleone, pp. 12-13); ma sono anche determinate dalla difficoltà del compito che gli autori si sono prefissi, poiché quasi tutta la ricca produzione e documentazione storiografica sulla prima guerra mondiale ignora o mistifica il ruolo delle masse ed è quindi costante anche per chi si ispira a una contraria scelta di classe la necessità di una estrema chiarezza che eviti cedimenti magari inconsapevoli e fughe in avanti.II volume dei Piccioli è un’antologia che si rivolge alla scuola e alla ricerca di gruppo, con l ’ambizione appunto di realizzare una specie di controstoria della grande guerra e particolare attenzione per la cultura propria delle masse. « Certe testimonianze, essi scrivono, non vanno considerate come la manifestazione ingenua di chi non ha una cultura, bensì come una rivelazione di una cultura altra rispetto a quella ufficialmente dominante »
(p. 2). Le difficoltà di questa ricerca sono evidenti: la fonte principale che i Piccioli sono costretti a utilizzare è pur sempre la memorialistica borghese, anche se le pagine pubblicate sono quelle che forniscono una più viva e cruda immagine della vita dei soldati. Interessante, anche se appena abbozzata per ragioni di spazio, la sezione che raccoglie vari documenti di Cadorna, di Capello e dei tribunali militari su ll’articolazione della repressione al fronte. Particolare cura gli autori hanno poi messo nella ricerca di documenti di origine popolare, riunendo le lettere dal fronte pubblicate da Forcella e Monticone e quelle dai campi di prigionia date alle stampe nel 1921 dallo Spitzer e così poco note, due testimonianze orali di superstiti conservate dall’Istituto D e M artino e una ventina di canzoni di protesta contro la guerra (o di varianti antimilitariste di canzoni più note). I l materiale raccolto è sempre interessante e, nel suo genere, completo; si può solo lamentare che siano state tralasciate le voci dell’interno del paese, con l ’unica eccezione della testimonianza di Montagnana sui fatti di Torino dell’agosto 1917. Ed è peccato che la contemporaneità dell’uscità dei volumi di Monteleone e Caretti, di cui parliamo appresso, non abbia permesso ai Piccioli di utilizzare questo nuovo apporto documentario, come potrà avvenire in una eventuale e auspicabile seconda edizione.
La cultura che emerge da questo materiale, osservano gli autori, è sostanzialmente quella contadina: « una visione materialista, estremamente concreta, legata al dato quotidiano » (p. 19), totalmente estranea alla guerra, che pure accetta come realtà ineluttabile, a cui non c ’è scampo né alternativa. Né appare diverso il mondo del proletariato cittadino, peraltro assai meno rappresentato. L ’unico momento in cui forse le masse vissero diversamente e autonomamente la guerra fu nei giorni del disastro di Caporetto: un ’esperienza che « avrebbe potuto essere l ’inizio di una rivoluzione » e invece rimase « un momento isolato e non rac
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colto » e pur significativo (p. 20), anche se non facile da valutare appieno. Ciò che viene ancora confermato, « è il divario anzi l ’inconciliabilità fra il modo di concepire la vita e i valori da parte della classe egemone e da parte delle classi subalterne » (p. 2).Il volume di Monteleone è di fatto diviso in due parti: un’introduzione di 50 pagine (un vero e proprio saggio con una documentazione archivistica inedita) che mette a punto l ’interpretazione della grande guerra imposta dalle ricerche di questi ultimi anni; e una selezione delle lettere anonime indirizzate al re negli anni del conflitto e conservate in vari fondi dell ’Archivio centrale dello stato. La guerra non fu popolare-nazionale, ma fu intrapresa e condotta per il rafforzamento del potere di un blocco di classe conservatore; fu quindi imposta alle masse con la manipolazione ideologica, la repressione e, lungi dal rappresentare una rigenerazione morale del paese, accelerò il processo di corruzione e scompaginamento delle sue strutture politiche e sociali, scrive Monteleone. In questo quadro la protesta anonima delle lettere al re va studiata non come una documentazione statistica della rivolta popolare (è impossibile calcolare il numero delle lettere effettivamente scritte e poi distrutte, né del resto si saprebbe a quale entità rapportarle), ma come « il segno del dramma co llettivo» (p. 21), l ’illustrazione e l ’approfondimento cioè di quei sentimenti popolari che la documentazione ufficiale ha mistificato o cancellato. I rapporti dei prefetti, che Monteleone riprende con ampiezza e sistematicità maggiori dei precedenti studi di Monticene, Vigezzi, D e Felice e Melograni, rivelano infatti la vastità e la pericolosità dell’opposizione alla guerra, ma tendono a negarle ogni autonomia e dignità politico-culturale, vedendo in essa solo il prevalere di sentimenti egoistici o la ripetizione passiva di slogans irresponsabili. Attraverso le lettere anonime la protesta popolare acquista vivacità e ricchezza, offrendo anche un riscontro alla diffusione della tematica contro la guerra; più che la novità dei temi di protesta, rapporta
bili a diverse esperienze e ambienti, è la loro autenticità che il volume di Monteleone documenta.Un altro contributo alla conoscenza della protesta delle masse sul finire della guerra è dato dal recente volume di Stefano Ca- retti, L a rivoluzione russa e il socialismo italiano 1917-1921 (Nistri-Lischi, Pisa, 1974), di cui ci occupiamo solo marginalmente perché per tematica e impostazione si differenzia da quelli dei Piccioli e di Monteleone. Vale però la pena di segnalare la pubblicazione di alcuni volantini, anonimi e spesso di fortunosa compilazione, diffusi nel 1917 ed inneggianti alla rivoluzione russa ed alla prossima pace con una carica politica che testimonia un aspetto della protesta popolare distinto e complementare rispetto alle lettere anonime al re.
Giorgio Rochat
Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari, Laterza, 1974, pp. 423, lire 6.000.
La ricerca storica sul primo dopoguerra ha fino ad oggi lasciato in ombra le organizzazioni politiche minori o meno durature: il volume del Sabbatucci sui movimenti combattentistici viene a colmare una delle maggiori lacune, anche se gli si può rimproverare di chiudere la sua indagine con l ’estate 1920, mentre il combattentismo ebbe un peso politico non trascurabile almeno fino al 1925. Una limitazione tanto più dolorosa, in quanto lo studio del biennio 1919-20 è condotto con molta cura: ampie ricerche nella stampa e nell’Archivio centrale dello stato, una buona conoscenza del periodo, una capacità espositiva apprezzabile. I l Sabbatucci si sofferma specialmente sull’A ssociazione nazionale combattenti, che nell ’autunno 1919 riuniva circa 300 mila iscritti, saliti a oltre 500 mila nell’agosto successivo, e fruiva dell’appoggio dell’A ssociazione nazionale mutilati e invalidi di guerra e di buoni rapporti con l ’ufficiale Opera nazionale combattenti. E analizza il « mito del rinnovamento » , la spe
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ranza cioè che le masse dei reduci fossero disponibili per una politica di profondi mutamenti democratici, capaci di dare realizzazione alle promesse avute dal governo e senso concreto ai sacrifici degli anni di trincea. Nel clima febbrile del 1919 l ’Associazione nazionale combattenti riuscì a riunire forze diverse, per lo più gruppi di piccola borghesia umanistica, e a raggiungere una notevole base di massa, specie nelle campagne meridionali. L ’eterogeneità delle forze raccolte impedì però un consolidamento dell’Associazione su una linea politica precisa; il congresso di Napoli dell’agosto 1920 segnò di fatto il fallimento del tentativo di creare una nuova organizzazione di massa orientata a sinistra, ma nettamente distinta, anzi contrapposta alle organizzazioni socialiste. I l combattentismo dove quindi accettare un ruolo politico decisamente secondario, minato dal trasformismo, fino alla graduale e non incontrastata egemonizzazione fascista.
Queste vicende sono ricostruite dal Sabb a t i c i con proprietà e correttezza, tanto che il volume è utilizzabile anche da chi, come noi, non ne condivide le tesi di fondo. Sabbatucci ritiene che il « mito del rinnovamento » potesse realmente dar luogo alla nascita di una formazione politica « nuova e autonoma » a livello nazionale, tanto che scrive: « Non era affatto assurda l ’idea di un nuovo movimento politico che si appoggiasse sulla struttura organizzativa dell’Associazione nazionale combattenti e si basasse sulla piccola borghesia e sui contadini del mezzogiorno: e cioè sugli strati sociali che erano stati particolarmente provati dalla guerra e dal dopoguerra ed ai quali né il movimento socialista né quello cattolico avevano potuto o voluto offrire una efficace guida politica. Questi strati non costituivano certamente una classe sociale a se stante [ .. .] . Costituivano però un blocco di forze sociali che non avevano interessi contrastanti ed erano per vari motivi in cerca di una propria rappresentanza politica » (p. 345). Questo obiettivo non fu raggiunto perché la piccola borghesia non seppe realmente interpretare le esigenze
dei contadini meridionali, né superare « l ’ostilità radicale e preconcetta nei confronti dei grandi partiti di massa » (p. 346). In sostanza, la piccola borghesia italiana, e meridionale in particolare, non seppe porsi come forza egemone in un nuovo blocco di forze, per mancanza di fiducia prima ancora che di possibilità (ma cosa autorizza a credere che un gruppo sociale tradizionalmente subalterno e parassitario potesse d ’improvviso porsi come classe dirigente, nel momento in cui lo scontro di classe si radicalizzava viepp iù ?); e i dirigenti dell’Associazione nazionale combattenti, conclude Sabbatucci, « privi di una qualsiasi quadratura ideologica che andasse al di là del solito frusto radicalismo e di una generica vocazione meridionalistica, e privi altresì di un reale contatto con le masse che dicevano di rappresentare, finirono col ricadere fatalmente in una logica trasformistica e in una prassi clientelare che approfondivano ulteriormente il loro distacco dalla base » (p. 347). Si riconfermarono cioè gruppi subalterni, preoccupati solo della difesa del loro ruolo semi-privilegiato; né seppero condurre un’azione più incisiva i salveminiani e il gruppo di « Volontà » , forti di una diversa tempra morale, ma legati ad analisi e proposte superate e velleitarie.Mentre l ’analisi delle cause del fallimento del movimento combattentistico tracciata dal Sabbatucci sembra esauriente, non condividiamo la sua sopravvalutazione delle possibilità di rinnovamento, dovuta probabilmente alla limitazione della ricerca al 1919-20. Per conto nostro, Io studio del combattentismo postbellico non può prescindere da un’attenta valutazione della natura della guerra mondiale e delle sue conseguenze nella società italiana, che manca nel volume. Il Sabbatucci dedica alla guerra poche pagine generiche, per lo più dipendenti dalla Storia politica del Melograni, in cui non affronta i problemi di fondo né quelli specifici del ruolo degli ufficiali di complemento che furono poi i protagonisti del combattentismo. Per chi dà un’interpretazione di classe della guerra, questi ufficiali venivano dal falli
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mento dell’interventismo di sinistra e dall ’accettazione, consapevole o meno, dell ’impostazione nazionalista del conflitto, in cui avevano svolto un ruolo oggettivo di mediatori e organizzatori della repressione; il mistificato rapporto paternalistico tra il comandante di plotone e i suoi soldati non era certo la premessa migliore per l ’impostazione di una lotta di massa rinnovatrice nel dopoguerra. Per credere invece nella vitalità democratica e nella possibilità di successo del combattentismo, bisogna partire da una concezione assai diversa della guerra, in cui i quadri di complemento avrebbero avuto un peso politico reale e un orientamento tendenzialmente democratico, costruendo già nella trincea un rapporto politico nuovo con i contadini meridionali; ma tutto ciò non ha riscontro nella realtà. I l nostro discorso è necessariamente schematico, ma vuole soltanto ricordare che l ’interpretazione patriottica tradizionale della guerra non è più indiscussa base degli studi sul dopoguerra; una più attenta considerazione dell’esperienza bellica, riteniamo, avrebbe chiarito al Sabbatucci come sin dall’inizio il combattentismo, lungi dal porsi come organizzazione di massa alternativa, non potesse avere un futuro se non nel trasformismo e poi nel sottogoverno e nella strumentalizzazione fascista.Ci sembra infatti che tutto il combattentismo vada visto sotto il segno dell’ambiguità, dal suo sorgere, quando si fece portavoce del malcontento e delle delusioni postbelliche riuscendo sempre a evitare un serio discorso critico sulla guerra, ma svolgendo di fatto il compito di argine all’espansione della rivincita socialista, al momento della sua massima espansione, quando al suo interno coesistevano clientelismo e serio riformismo, demagogia e giacobinismo, salveminiani e nazio- nal-fascisti, moralisti e truffatori. Sotto il segno dell’ambiguità va vista pure l ’evoluzione successiva che portò le associazioni combattentiste a fiancheggiare il fascismo, con un breve soprassalto di indi- pendenza dopo il delitto M atteotti e una vicenda complessiva tutt’altro che gloriosa, malgrado il coerente impegno di
una minoranza. E d è veramente peccato che la ricerca del Sabbatucci si arresti di fatto all’agosto 1920 (dopo aver impiegato 350 pagine ad arrivare al congresso di Napoli, egli ne dedica solo 30 ai quattro anni successivi), non solo perché restiamo privi di una ricostruzione così utile e seria degli sviluppi successivi del combattentismo, ma anche perché il progressivo deterioramento delle aspirazioni e della carica ideale del movimento e lo spazio crescente acquistato dalla celebrazione patriottica avrebbe certo rafforzato la dimostrazione della inattuabilità delle speranze del 1919 di un rinnovamento democratico e la reale natura della alleanza offerta da gruppi della piccola borghesia alle masse contadine.
Giorgio Rochat
Fascismo e antifascismo
Michael Arthur Ledeen, L ’Internazionale fascista, Bari, Laterza, 1973, pp. VI- 233, lire 1.200.
Del fascismo come idea universale, secondo una nota espressione mussoliniana, si parla spesso ma il contenuto specifico di questa formulazione dottrinale e i suoi addentellati pratici nella storia dei movimenti fascisti sono ancora da esplorare. In questa direzione un contributo certo parziale ma non per questo trascurabile offre il saggio del Ledeen, che affronta l ’argomento da un angolo visuale particolare, nei suoi aspetti essenzialmente dottrinali lasciando in posizione secondaria il problema del fascismo come movimento internazionale (o meglio come somma di movimenti nazionali, ciascuno esprimente una « via nazionale » al fascismo): da questo punto di vista, ancora una volta, il titolo dell’edizione originale Universal fascism rispondeva meglio del titolo della versione italiana al contenuto effettivo del saggio dello studioso americano. Il lavoro del Ledeen offre un’interessante e intelligente esplorazione nell’ambito dei gruppi minoritari del fascismo che a ca
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vallo tra la fine degli anni venti e l ’inizio degli anni trenta tentando di elaborare una ideologia « onnicomprensiva » del fascismo, tale da renderne possibile l ’attrazione e l ’esportazione a livello internazionale, espressero l ’insoddisfazione per le realizzazioni (e i modi di esse) sino allora raggiunte dal regime nell’ambito italiano. Sviluppando il discorso in questa chiave l ’A. sottolinea anche, con notazioni spesso felici, taluni aspetti della figura e della personalità di uomini come Bottai, che non rinunciarono mai ad esprimere, sia pure in toni sommessi, accenti critici all ’interno del regime. I l rischio di una analisi di questi comportamenti sotto il profilo esclusivamente dottrinale è tuttavia quello di dar loro più peso di quanto effettivamente e politicamente non ebbero; e in secondo luogo di trascurare l ’aspetto strumentale che certe teorizzazioni ebbero in funzione della politica estera fascista, che è appunto l ’elemento che spiega certe oscillazioni della posizione di Mussolini nel valorizzare o meno, a seconda dei momenti, certe formulazioni dottrinali.E in generale troppo categorica ci pare — come del resto altre affermazioni secondarie — la valutazione conclusiva del movimento per il fascismo universale come « un movimento di protesta in seno al fascismo ». In realtà, a parte le distinzioni che si possono fare all’interno dei vari gruppetti che diedero voce a quelle formulazioni, e una più severa critica che si potrebbe fare della loro fragilità se non addirittura inconsistenza ideologica, fu la stessa prova dei fatti a dare la dimostrazione di quanto poco serie fossero le intenzioni di protesta di questi gruppi. È implicitamente lo stesso Ledeen a confermarlo; si veda per l ’appunto il cap. V nel quale l ’A. individua a ragione nella divergenza con il nazismo tedesco sul problema del razzismo (seguendo tuttavia acriticamente per quanto riguarda l ’antisemitismo italiano le interpretazioni del De Felice) il punto di rottura e il momento di declino dei teorici del fascismo universale di fronte all’irruzione dell’ideologia e dell’egemonia naziste, parallelamente agli sviluppi dell’A sse e del contesto
internazionale. Ebbene, quale fu la sorte dei teorici del fascismo universale che in passato avevano respinto esplicitamente il razzismo? Posto di fronte all’evidenza del loro passaggio alFantisemitismo, l ’A. invece di insistere sui limiti e sul velleitarismo di certe posizioni di protesta, se tali esse furono, cerca di sottolineare la continuità per così dire della linea frondista, suggerendo un’interpretazione dell ’antisemitismo di questi gruppi quale schermo di un movimento per il rinnovamento interno del fascismo (pp. 195 sgg.). U n’interpretazione forse troppo sottile di fronte alla realtà di una linea che, al di là degli sforzi di dare un accento specificamente italiano all’ antisemitismo fascista, portava questi gruppi oggettivamente a convergere sempre più stretta- mente e rigorosamente con il nazismo e con quegli stessi elementi « estremisti » all’interno del fascismo italiano che operavano per una assimilazione dell’ideologia e in certa misura delle stesse istituzioni naziste.
Enzo Collotti
Bolton King, I l fascismo in Italia, prefazione di Aldo Berselli, Bologna, Pàtron, 1973, pp. 163, lire 1.800.
È la ristampa di un saggio del 1931, già allora tradotto in italiano per le clandestine edizioni di « Giustizia e Libertà » , con il quale il grande storico inglese dell ’unità d ’Italia si univa alla propaganda e all’azione di chiarificazione dei circoli democratici e liberali che anche sotto la sollecitazione dei fuorusciti antifascisti si adoperavano per controbattere le apologie e le simpatie filofasciste così frequenti nell’ambiente politico inglese, e non soltanto tra i conservatori. L ’esauriente prefazione del Berselli traccia un profilo di Bolton King e illustra la genesi storicopolitica e la fortuna del suo saggio sul fascismo, cui toccò in sorte fra l ’altro di entrare nel materiale di propaganda antifascista predisposto da Lauro De Bosis per il lancio su Roma del 3 ottobre 1931. R iletto oggi in questa ristampa, che utilizza la vecchia traduzione di G . L . ma che
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ripristina opportunamente le note e le appendici dell’edizione originale che in quella erano state omesse, il saggio di Bolton King conserva il carattere di equilibrata testimonianza e analisi del fascismo secondo l ’ottica liberale-democratica di un intellettuale inglese (abbastanza significativa dello spirito dell’A . appare ad esempio questa valutazione del Concordato del 1929, a p. 94: « Il Concordato riposa di fatto su instabili fondamenta. L ’antifascismo trionfante sarebbe costretto a denunciarlo e il potere temporale sparirebbe così di nuovo »). Un testo, in definitiva, che oggi non può presentare evidentemente alcuna novità interpretativa, inevitabilmente datato com’è, ma che appartiene certo alla storia delle interpretazioni del fascismo e che rimane comunque documento di un’epoca, testimonianza appunto della lotta antifascista che condussero insieme esponenti politici e intellettuali della democrazia inglese e fuorusciti italiani, come documenta l ’introduzione del prefatore.
E . C.
Marina Addis Saba, Gioventù italiana del littorio. La stampa dei giovani nella guerra fascista, prefazione di U . Alfassio Grim aldi, M ilano, Feltrinelli, 1973, pp. 269, lire 1.700.
Le vicende della generazione educata al fascismo, il suo « lungo viaggio» dal mondo delle illusioni, non di rado colpevoli, alla realtà della crisi europea, è tema che si lega alla questione della continuità tra fascismo e antifascismo nella società italiana. M . Addis Saba, studiosa sarda che ha molteplici interessi, ci riporta a tale complessa tematica con un saggio che utilizza dati e testimonianze tratte dalla stampa universitaria fascista degli anni 1939-1942. Non è un lavoro pienamente organico (non vi troviamo, tra l ’altro, un catalogo critico di questa stampa), ma è un contributo alla storia del giornalismo fascista, in particolare per il foglio sardo « Intervento » . I risultati conseguiti non sono privi d ’interesse.Direi però che, contrariamente al propo
sito dell’A ., l ’interesse è più storico che attuale. I neofascisti di oggi difficilmente, credo, possono cogliere una « possibilità di dialogo » (p. 49) dalle vicende dei giovani che li hanno preceduti come generazione. I neofascisti sono espressione di strutture sociali mutate, di un discorso politico molto più legato al calcolo pratico, e quindi alla violenza strumentale, che al decadentismo romantico. I giovani di cui parla la Saba sono gli studenti universitari di un paese in cui la tassa di ammissione all’esame di maturità ammontava a 500 lire, metà di uno stipendio considerato buono, e questo esame verteva su un triennio di programmi di studio di sette od otto materie. Giovani che avevano alle spalle famiglie abbastanza danarose o, molto più limitatamente, disposte a notevoli sacrifici e che erano comunque abituati ad accettare imposizioni pesanti. Rappresentavano un ceto sociale assai minoritario e alquanto chiuso in se stesso. Come giunsero al fascismo? La risposta della Saba è pedagogica e psicologica: questa generazione si affacciò su un mondo violentemente traumatizzato dall’avvento della dittatura, dove « il naturale e organico rapporto tra generazioni fu spento dal fascismo, e i giovani si formarono [...] senza che una parola di dissenso o di critica seria al regime giungesse alle loro coscienze » ; erano avulsi anche dal dialogo con le cose non dovendo « ancora affrontare, per la loro età, il problema dell’esistenza » (pp. 53-54). I giovani che sono nelle università all’inizio della guerra, erano stati in precedenza avviati al fascismo attraverso strutture predisposte e nel momento in cui queste ebbero la massima efficienza. L a Saba si sofferma sulla scuola più che sulle organizzazioni giovanili, e ha ragione, penso, perché la scuola era in questo ceto la datrice delle impronte più penetranti, di quelle culturalizzate. Si ricordano i programmi di studio fascisti, il loro antistoricismo, l ’attivismo, l ’autoritarismo e il pragmatismo propagandistico di quella scuola, vizi del resto ben anteriori al ventennio. Con la G IL il fascismo aggiunse di suo, nota LA., lo sfruttamento dell’esigenza giovanile di socialità, cui però offri
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va soddisfazioni em otive e superficiali, non la pedana per una realistica affermazione nella vita; politica di sfogo e di svirilizzazione a un tempo, è ben detto (p. 73), ma anche talora, entro quelle strutture, esperienze deludenti e umilianti, e perciò reattivamente salutari, di corruzione e di ipocrisia.I l centro dell’analisi è quell’ambiente di relativa libertà d ’espressione che il fascismo « concesse » (secondo l ’espressione di Togliatti, cfr. Lezioni sul fascismo, p. 71) ai giovani universitari, ovviamente correndo un certo rischio, cioè i « Littoriali » e, in particolare, la stampa giovanile. Dietro questa concessione c’era l ’esigenza del ricambio della sua classe dirigente, ma forse anche, e sarebbe interessante chiarirlo, c ’era la consapevolezza, presumibile in un regime reazionario che però aveva un certo senso della dinamicità sociale e storica, di una certa plasticità e modificabilità delle strutture fasciste attraverso le generazioni. Abbastanza logico che, come palestra per queste esigenze, si privilegiasse il giornalismo non solo, come dice la Saba, strumento « in cui la intelligencija fascista ebbe ad esprimersi » (p. 89) ma anche, aggiungerei, strumento fondamentale dei regimi reazionari di massa d ’allora, basilare per diffondere la loro pseudocultura plebea (uso questo termine nel senso ad esso dato da D. Guérin). Della validità di questo strumento il fascismo, si sa, ebbe buona percezione ed era ad esso affezionato, anche per la diretta esperienza di molti dei suoi esponenti di primo piano venuti, appunto, dal giornalismo.Naturalmente, attraverso l ’ esame della stampa giovanile si può cogliere solo un settore ristretto e selezionato della gioventù fascista, quello che si sentiva attivo e desideroso di collaborare. A ulteriormente restringere l ’arco del discorso concorre l ’uniformità di documenti e contenuti che caratterizza questa stampa, forse più della varietà di espressioni. Per una valutazione più approfondita si desidererebbe sapere qualcosa di più sulle vicende interne di questi giornali, avere altre analisi del tipo di quella di N . S. Onofri sul giornalismo bolognese, che è qui bene utilizzata; in
particolare sul foglio genovese « Il Barco » (p. 114) e soprattutto sul pisano « Il Campano » che si distinguono, rispettivamente, per la venatura marxista e per il tema dell ’autonomia della cultura. Solo del sassarese « Intervento » , come si è detto, la Saba, con le fonti a disposizione, ha potuto delineare la storia interna, ma si tratta di un giornale i cui contenuti, anche per la sua perifericità, sono di livello ineguale. Inoltre, la ricostruzione di queste vicende non si può limitare all’individuazione delle iniziative e situazioni locali, ma dovrebbe cogliere la linea politica curata dall’alto, che ad esse si sottende. D i essa troviamo chiare tracce in situazioni organizzative che si riscontrano contemporanee e parallele nella breve vita di questi giornali: come i sassaresi, prima di esordire col loro foglio autonomo, dispongono di una pagina sul quotidiano locale così, mi risulta, gli abruzzesi disponevano del giornale « L ’A driatico ». E sono comuni le tre fasi dell’orien- tamento di fondo individuate dall’A ., l ’autonomia, la fronda, l ’allineamento (p. 131). Pur nella sua apparente indipendenza, questa stampa appartiene al « sistema » , e andrebbero sviluppati gli accenni fatti sulla presenza condizionante e determinante del gerarca Bottai, « l ’unico forse che sia rimasto costantemente vicino a questa gioventù studiosa » (p. 185 e cfr. a p. 204 e 212). Nel 1942 « il nume ispiratore cessò di essere il liberaleggiante Bottai, cui si sostituì il linguaggio del com battente» (p. 133), e questi giornali entrano nella terza e ultima delle tre suddette fasi della loro esistenza. E neppure bisognerebbe dimenticare chi era allora in cattedra in queste sedi universitarie.I noti miti del regime sono il contenuto di gran lunga prevalente in questa carta stampata, e rappresentano il frutto più cospicuo delle strutture pedagogiche prima ricordate. D i questi miti la Saba fa un’analisi organica e corretta, appoggiata ai fondamenti della letteratura democratica sull’argomento, e sottolinea puntualmente ciò che essi deformano e mistificano. Ricordiamo il mito della patria, quello della missione romana, quello dèlia guerra rivoluzionaria (di cui si coglie la
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connessione col decadentismo irrazionalistico, con l ’attivismo irrazionalistico come ricerca d ’identità, p. 176), il mito del nuovo ordine, forse il più povero di contenuto critico, quello della razza, di scarsissima risonanza. C ’è anche un catalogo degli slogans usati contro le nazioni nemiche, ma qui la valutazione rischia di cadere in una sorta di giustificazionismo della storia inglese e francese. Questi miti sono strumenti di consenso e la loro risonanza è ampliata, nei giovani, dal sentimento di emulazione verso la generazione anziana che avrebbe fatto e salvato l ’Italia, e dal fideismo suggerito dal regime (p. 179) una delle componenti, si deve ricordare, della nota tecnica dell’« educazione alla morte ».Ma l ’analisi della Saba va al di là di questi ormai scontati argomenti, e ricerca i contenuti che i giovani, spontaneamente, hanno immesso in questi miti. Qui è l ’originalità del lavoro. Sono contenuti che possono essere latamente compresi col termine « rinnovamento ». Quando, per esempio, parlano di guerra rivoluzionaria, i giovani pensano che questa avrebbe anche epurato e rigenerato il fascismo, e così sono sensibili al motivo del « diciannovesimo » (ma non si dimentichi che, nel 1942, il regime tentò la carta del ritorno alle origini squadristiche). Assume rilievo, in questa linea interpretativa, la presenza del mito dei « popoli giovani » (che va distinto da quello, più stereotipo, delle nazioni proletarie). Nota la Saba che di esso non vengono date giustificazioni in qualche modo razionali (p. 189), ma si può pensare che si tratti di una manifestazione che precorre l ’odierna tendenza del vivere « alla maniera giovane » ; il mito fascista della giovinezza non si può disgiungere, in una prospettiva ampia, dalle esigenze naturistiche del mondo contemporaneo, del suo veloce sviluppo, a sua volta connesso alla dissoluzione di tradizionali strutture familiari e sociali e di un certo tipo di autorità (cfr. p. 107); a questo insieme di tendenze appartiene pure l ’aspirazione all’« autenticità » (si vedano le citazioni a p. 217 e 221). La « querelle » tra giovani e anziani è il motivo che forse ricorre di più in questi
periodici, si potrebbe dire che ne è il rumore di fondo, e ad esso bisogna rifarsi per bene intendere l ’esigenza, frequentemente espressa, di tornare al « fascismo rivoluzionario » . Giocava, contro i suoi stessi intenti, anche l ’attivismo mitizzato dalle camicie nere, ed il sia pur lento e difforme crescere del paese sollecitava a sua volta nuovi interessi, anche sul piano culturale, col conseguente recupero di tematiche liberali e socialistiche. In questi ritorni e in questi nuovi interessi, il discorso più ricco di contenuto è quello sul corporativismo, che ben si può dire caratteristico (p. 203). V i troviamo quella questione sociale che, domata ma non liquidata né risolta dal regime, esploderà dopo la sua dissoluzione. La Saba indica elementi interessanti di questo fondamentale aspetto della sensibilità politica italiana, come la polemica antiborghese e l ’attenzione ai problemi sociali. Sono filoni del cosiddetto « fascismo di sinistra » che arrivano in qualche caso sino alla repubblica di Salò (p. 120 e p. 248), ma in gran maggioranza all’antifascismo. Però, per completezza di discorso, non escluderei che talora la contestazione dei gerarchi trasformisti e stabilizzati non sia anche normale ricerca di spazio sociale per la nuova generazione (cfr. p. 184).La tesi della Saba è che « questi giovani fascisti tentarono, e spesso tentarono fino in fondo e tragicamente di fare del fascismo un’altra cosa » (p. 79). Ma allora sin dove si possono veramente considerare fascisti? È la difficoltà, del resto ammessa, del criterio generazionale come angolatura per un giudizio storico; ma, fatta questa riserva, la tesi è proponibile. L ’elasticità dell’ideologia del regime favoriva, si nota, orientamenti diversi ed anche eterodossi rispetto alla linea politica del partito. Opportunamente si ricordano i riusciti inserimenti di attivisti comunisti in questo ambiente e clima (p. 81), e si sottolinea il ruolo di questi giornali nella circolazione di idee di dissidenti e oppositori (p. 91). Ciò giustifica sufficientemente anche la pretesa di cogliere, in queste fonti, un insieme di voci che va al di là dell’elenco dei redattori.L ’A. osserva pure che qui troviamo « il
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vecchio e il nuovo in una mescolanza inestricabile » (p. 109). C ’è una duplicità di atteggiamento nei migliori di questi giovani: o assoluto disimpegno di fronte alla problematica proposta dal regime, che vuol dire separazione di cultura e politica ed è, di fatto, prem essa di antifascismo (cfr. p . 145 e 212, dove è evidente l ’eco della logica crociana), o impegno per il ritorno all’autentico che riempie quella problematica « di un particolare significato delle loro speranze » (p. 156). L a convivenza di realismo e decadentismo è forse la prova più evidente di questa duplicità di reazione. Però non è meno importante rilevare che di cose « vecchie » se ne possono rintracciare parecchie: nel foglio pisano par di cogliere un’eco della lezione stilistica, ma anche etica, della « V o c e » (p. 123). Più che spiegare, come l ’A ., tale commistione con le difficoltà d ’orientamento che incontravano questi giovani (è il noto argomento del confusionismo), va colto qui il riflesso del mondo composito che li contiene, in particolare della continuità, specie nell ’ambiente accademico, della cultura prefascista entro il fascismo, sottolineata recentemente da N . Bobbio. Ciò che conta storicamente è che in questo mondo composito i più avveduti cominciano a fare delle scelte.L a conclusione è che nessuno dei giornali esaminati può essere detto di fronda, dato che questa si mescola sempre col conformismo (p. 222), ma che essi rappresentano un tentativo « di costruire una realtà più consona agli id e a li» (p . 223), premessa al rigetto del fascismo. Si capisce meglio insomma la partenza per il « lungo viaggio », reso popolare dal libro di Zangrandi e approfondito dall’ampia discussione che suscitò, momento ancora ingiustamente ignorato nella contemporanea storia italiana. Si colgono certe dinamiche del ventennio, destinate ad inserirsi in più costruttive forze storiche, che hanno iniziato a prendere coscienza di sé entro i miti fascisti. La Saba pare propensa a collegare abbastanza strettamente la problematica dei giovani alla componente anarco-sindacalista del regime (p. 23b), e sembra anche voler rivalutare
in qualche modo il fascismo di sinistra, legato alla diffusione dell’irrazionalismo in Europa (p. 237); ma direi che è azzardato parlare di « due fascismi » (p. 238). Avevano ragione Rosselli e Togliatti nel pensare che, nella nuova generazione, il fascismo nutriva una potenziale contraddizione che non doveva essere disattesa, ed ha avuto torto la vecchia generazione antifascista quando condannò in blocco tutta l ’Italia del ventennio, troppo incurante del dramma, non solo materiale, vissuto dalla giovane generazione durante la guerra fascista. Questo stacco fra due generazioni che non si erano conosciute e capite, rileva l ’A ., pesò sullTtalia del dopoguerra e fu causa di confusione (p. 253). Del pari giusto è l ’altro rilievo, fatto a questa seconda generazione, di non aver messo sufficientemente a frutto la propria esperienza nella ricostruzione del paese (p. 256); qui il discorso, che è ancora pedagogico e psicologico, potrebbe continuare sulla base di una più semplice constatazione: « Tutti coloro che hanno fatto lunghi viaggi, hanno fatto un viaggio dalla rozzezza e dal conformismo alla consapevolezza di sé, alla chiarezza razionale » (N . Bobbio, in « I l Ponte » , n. 6, 1974, p. 660). Ciò che ha pesato e pesa è la decisione di quanti, nel 1945 o poco dopo, hanno interrotto questo viaggio faticoso e costoso.Il libro è preceduto da una lunga prefazione di Ugoberto A lfassio Grim aldi, di fatto una testimonianza ripensata sul problema della formazione dell’attuale classe dirigente. Anch’egli constata la forza di suggestione del fascismo negli anni 1935- 39, che allora operava come forza effettiva, valida e credibile, specie dove l ’antifascismo era pressoché sconosciuto. « Uno dei fenomeni meno compresi del mondo contemporaneo è la coesistenza, nei paesi a regime totalitario », della « vita civile che va avanti, accanto alla zona buia delle coscienze conculcate [ . . .] . Oggi raramente si riflette all’immensa capacità di assorbimento che i regimi totalitari posseggono » (p. 12 e 33). È un invito a vedere in profondità il problema del consenso che va collegato, direi, a quei meccanismi sociali e a quelle strutture culturali che dis-
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sociano il pubblico e il privato. Anche la dislocazione di certe forze politiche che ha favorito questa capacità di assorbimento è denunciata senza equivoci da A lfassio Grim aldi: una nuova generazione di cattolici abituati ad obbedire, il venir meno della pregiudiziale etica verso il fascismo in tanti ambienti e persone. Lascia però perplessi l ’ inserimento, nell’ elenco di quanti ebbero allora atteggiamenti di sottomissione o di avvicinamento, del PC I con il noto appello ai « fratelli in camicia nera » (p. 17).Certo era difficile costruirsi una morale antifascista in questo ambiente caratterizzato dal trasformismo, che assai bene si intravede sotto l ’abbondante e divertente aneddotica che rende agili le pagine di Grimaldi. La spiegazione è più qui che non nella ricordata « convinzione di allora dell’avvenuto superamento del socialismo, del liberalismo, del prefascismo » , che altro non era che interpretazione superficiale della momentanea affermazione del regime e della conseguente tranquillità che in certi ambienti si percepiva. G rimaldi porta avanti il discorso sino a toccare l ’angosciante quesito della possibile radice comune di due culture, la fascista e l ’antifascista (p. 41). M a non altrettanta attenzione pone alla più valida ipotesi che nega l ’esistenza di una cultura fascista. Il problema dell’autocritica degli ex-gufini è soprattutto qui.
Elio Apih
Renata Allio, L ’organizzazione internazionale del lavoro e il sindacalismo fascista, Bologna, I l Mulino, 1973, pp. 149, lire 2.000.
Pubblicato in una collana di saggi il volumetto è in realtà null’altro che una raccolta di documenti intorno ad un episodio del quale fu protagonista e oggetto il sindacalismo fascista in sede di Bureau International du Travail. Si tratta, come è risaputo, della contestazione tanto sistematica quanto peraltro vana che nei confronti della rappresentanza dei sindacati fascisti fu mossa dapprima, fin quando ne ebbe la possibilità legale, dalla
Confederazione generale del lavoro e in anni successivi, sin quando il governo italiano decise di sottrarsi a questa ricorrente contestazione, da altri esponenti del sindacalismo socialdemocratico e cristiano a livello internazionale. Il volumetto ha il merito di ricostruire la sequenza di queste contestazioni lungo tutto l ’arco cronologico dal 1923 al 1936, presentandone i documenti essenziali: da una parte le argomentazioni contro la rappresentatività dei sindacati fascisti, dall’altra le repliche di questi ultimi. Il tono della polemica appare per la verità piuttosto smorzato; la denuncia più vibrata rimane il primo rapporto della C G L del 1923 sulle violenze fasciste contro i lavoratori e la libertà sindacale (ma questo è anche l ’unico rapporto del quale è riprodotto il testo integrale). Quasi di sfuggita TA. riferisce le critiche cui fu fatto segno il direttore del B IT Albert Thomas per il suo benevolo atteggiamento nei confronti del sindacalismo fascista in occasione della visita che egli effettuò in Italia nel maggio del 1928 (cfr. p. 80). In realtà, fu questo un episodio, che ebbe larga risonanza nel movimento antifascista in quanto con la sua autorità di direttore del B IT e di socialista francese Thomas, con la sua stessa presenza a Roma, sembrava avallare la soppressione della libertà sindacale in Italia. Ma dell’asprezza e del significato di questa polemica nessuna traccia si trova nel volum etto; ciò deriva probabilmente dal fatto che esso si limita a utilizzare il materiale pubblicato in una fonte ufficiale del B IT , il periodico « Informazioni sociali ». Ma deriva probabilmente anche dalla volontà di non sbilanciarsi sul terreno politico, laddove tutta la vicenda è significativa della moderazione anche eccessiva che settori qualificati dell’opinione pubblica e dell’organizzazione internazionale osservarono nei confronti del fascismo italiano. Ma forse ci sbagliamo imputando al libro un eccessivo distacco politico: esso infatti si chiude con un significativo capitoletto nel quale si narra come nel 1937 l ’assemblea dell’IL O respinse anche la contestazione sollevata ora nei confronti del mandato del delegato
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operaio russo. Con ciò si dimostra, secondo l ’A ., che « quando i regimi autoritari si presentarono all’assemblea di G inevra, le carenze strutturali dell’Ente apparvero in piena luce » (p. 107). In fatti « i delegati operai si opposero unanimi ma trovarono quasi sempre contro di sé i voti dei rappresentanti governativi e padronali che, per complesse ragioni politiche e di interesse, sostennero le loro tendenze. Jouhaux non si illuse di riuscire a cacciare i fascisti dall’IL O , come non si illusero i sindacati cristiani che si opposero ai bolscevichi. L ’impotenza dell ’Ente era manifesta ». A parte il fatto che le cause dell’impotenza di questo e di tanti altri organismi internazionali fu rono e sono più complesse, il capitoletto conclusivo ci suggerisce l ’ipotesi, forse non del tutto arbitraria, che il volumetto voglia essere un esempio di trasposizione sul piano storiografico della teoria degli opposti estremismi, che è certo un punto d ’approdo non imprevedibile per quanti credono di potere affrontare asetticamente la storia del fascismo.
Enzo Collotti
Movimento operaio
Franco De Felice, Fascism o democrazia fronte popolare. Il movimento comunista internazionale alla svolta del V II Congresso dell’Internazionale, Bari, De D onato, 1973, pp. 569, lire 4.500.
Problemi di storia dell’Internazionale comunista (1919-1939). Relazioni tenute al Seminario di studi organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino, aprile 1972), a cura di A ldo Agosti, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1974, pp. 246, lire 3.800.Congresso di transizione: questa la definizione centrale che nell’introduzione alla prima parte del volume Franco D e Felice dà del settimo congresso e che offre ragione della « doppia faccia » del rapporto di Dimitrov. « Operare un cambiamento profondo negli orientamenti politici del-
1TC, circoscrivendolo però nell’ambito di una proposta tattica: è qui forse l ’aporia fondamentale, anche se estremamente feconda, del Rapporto D im itrov» (p. 21). Far uscire l ’Internazionale, cioè, dall’impasse in cui lo schematismo della « tattica di classe contro classe » l ’aveva cacciata (con le tragiche sconfitte tedesca e austriaca) per recuperare dell’insegnamento leniniano non tanto, semplicisticamente, un ’altra formula (anche se così venne in realtà recepito), quella di « fronte unico » , quanto il primato della politica, del soggettivo organizzarsi e operare del partito operaio nella complessità e particolarità delle singole situazioni nazionali e in un contesto internazionale sempre più minaccioso. E far ciò senza rinnegare il passato ma rivendicando una continuità strategica che invece, in realtà, si stava, e proficuamente, spezzando. Ecco la caratteristica del rapporto e a maggior ragione del piatto dibattito che ne seguì, l ’uno e l ’altro incapaci di per sé di uscire dallo schematismo passato ma tali, soprattutto il primo, di aprire strade realmente nuove alla lotta non solo antifascista, ma per il socialismo e all’organizzazione politica di parte operaia che non si esaurivano — per chi volesse ben vedere — nella formula del « fronte popolare ».Viene spontaneo dir di più: mentre rimpianto del rapporto e del dibattito si muove — per affermare, più o meno consapevolmente, il nuovo — sul tradizionale schema di distinzione fra tattica e strategia, pedissequamente mutuato dalla terminologia militare leniniana, di Lenin veniva di fatto recuperato quel rovesciamento della strategia nella tattica che era stato il suo insegnamento più vivo, quello che ancor più che dagli scritti più celebri emana dalla sua prassi politica, dalla ba- beliana « misteriosa curva della retta di L e n in » : è la tattica che detta la strategia e non viceversa. E tuttavia ciò non mutava nell’immediato né la realtà del- 1TC né quella delle sezioni nazionali né la tradizione radicata e aggravata dallo stalinismo. Ecco perché Congresso di transizione. Non si risolvevano compiutamente, ma si ponevano all’ordine del giorno problemi gravi e di lungo periodo: non
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solo l ’insufficiente analisi del fascismo, la settaria definizione del « socialfascismo » e i rapporti con la socialdemocrazia, ma anche l ’atteggiamento nei confronti della democrazia « borghese » , della nuova natura « di massa » dello stato, e quindi del rapporto fra classe e « popolo » e quindi del ruolo e della natura nuovi del partito. Su questi temi, solo quelli che tra i partiti nazionali avrebbero avuto più fiato ed energie avrebbero in seguito compiuto sostanziali passi avanti (quelli che forse venivano più « da lontano »), pur non liberandosi che a fatica da quella « doppiezza nella pratica comunista » che sarebbe scaturita dal disorientamento provocato dal Rapporto Dim itrov che di per sé « non permetteva di superare realmente un rapporto strumentale con gli stessi obiettivi proposti » (p. 23).Del form arsi e concretizzarsi di questa aporia e degli elementi di proiezione positiva racchiusi nel suo rigido schema di origine, il libro di De Felice offre per la prima volta riuniti insieme un buon numero di documenti, in buona parte editi per la prima volta in italiano e per il resto rimasti finora sparsi in pubblicazioni diverse, alcune delle quali ormai introvabili. Non si tratta probabilmente di una documentazione esauriente, e non solo perché gli archivi dell’IC continuano a restare ostinatamente chiusi, ma anche perché uno spoglio sistematico delle pubblicazioni del movimento operaio negli anni tra le due guerre potrebbe probabilmente riservare più di una sorpresa. Tuttavia si tratta di un materiale compatto che già da solo apre parecchie prospettive di ricerca. Nella prima parte del volume De Felice ha riunito, oltre al Rapporto Dimitrov, i principali documenti sul passaggio dal V I al V II Congresso (tra i quali fa spicco il dibattito alla Commissione italiana del X plenum, già pubblicato da Ragionieri su Studi storici 1971 n. 1); nella seconda i principali interventi al dibattito sul Rapporto Dimitrov, ai quali egli ha significativamente aggiunto in appendice, ad esempio della grande articolazione del « fare politica » che si sarebbe poi presentata ai maggiori dirigenti comunisti in situazioni diversissime,
uno scritto di Togliatti del 1936 e uno di Mao Tse-tung del 1938.Ma oltre a quelli suaccennati come temi centrali delle riflessioni di De Felice (che si presentano peraltro con una grande problematicità e ricchezza di suggerimenti, di cui è praticamente impossibile dar conto in questa sede), altri sembrano tuttavia restare ancora un po ’ troppo sullo sfondo dello studio critico del V II Congresso. In particolare mi sembra che non solo a inveterato vizio « eurocentrico » (la cui espressione più grave era la sottovalutazione della « questione coloniale ») sia da imputare la perifericità, nel dibattito come nel rapporto, della « questione americana », sia per quanto riguarda una analisi più accurata della grande crisi mondiale (ed è questo un tema su cui pesano più ancora che su altri gli schematismi dottrinari) sia soprattutto di ciò che in seguito alla crisi si stava muovendo nel capitale, come iniziativa politica complessiva non solo in certi punti drammatici, col fascismo, ma nel suo punto più alto e di più lungo respiro, il New Deal roo- seveltiano. Giocava in questo campo una sicumera dottrinaria a cui sfugge il significato storico complessivo della risposta che a quasi vent’anni di distanza il capitalismo veniva differenziando internazionalmente alla sfida dell’Ottobre e alla utilizzazione rivoluzionaria delle crisi, offrendo anche e soprattutto un’immagine profondamente nuova del meccanismo statale borghese. M a giocava anche quella che appare un’assoluta ignoranza dei movimenti di classe reali, di come dentro la classe operaia l ’iniziativa e la lotta venissero adeguandosi a questa risposta capitalistica per rovesciarla in nuova iniziativa politica operaia. Ciò che stava avvenendo dentro il capitale e dentro la classe operaia nel punto più alto del loro sviluppo restava completamente estraneo alla « transizione » che il movimento comunista internazionale intraprendeva, e su ciò esso avrebbe marcato un ritardo teorico e organizzativo di decenni.Da questo punto di vista desta sorpresa l ’irrigidimento di studiosi che a ragione vorrebbero misurare — più di quanto siano tradizionalmente abituati a fare gli
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storici comunisti — le questioni di storia del movimento operaio con i meccanismi strutturali dello sviluppo e con i movimenti di classe invece che con il loro svolgersi puramente interno, « endogeno ». Mi riferisco in particolare ai contributi, peraltro utili, di Robert Paris (sulla tattica di « classe contro classe ») e di Fernando Claudìn (sulla politica di fronte popolare dell’IC ) al seminario torinese sui problemi di storia dell’Internazionale comunista. La Presentazione di A ldo Agosti al volume, la quale è in sostanza una ricca, argomentata ed equilibrata recensione preventiva oltre che una sorta di bibliografia ragionata sugli argomenti, trova facilmente consenzienti nella netta critica ai giudizi non solo ferocemente antisovietici e antistalinisti dei due autori, ma anche essenzialmente riduttivi dell’esperienza dell’IC e del suo gruppo dirigente, identificati (non a caso in piena consonanza con la propaganda e la storiografia borghesi) soltanto come docili strumenti nelle mani di Stalin, addirittura (e qui essi cadono in contraddizione tra loro nelle argomentazioni) con funzioni controrivoluzionarie. È chiaro che non si tratta di bendarsi gli occhi: tanto meglio, anzi, se una pluralità di studi possa dar conto sempre più in profondità delle tante amarissime verità che ancora si nascondono nella storia del movimento comunista e dell’Unione Sovietica. Ma perché non cominciare neppure ad affrontare l ’altra faccia della medaglia: la subalternità complessiva del movimento operaio intem azionale, a partire forse almeno dal 1924, rispetto non solo alla curva dello sviluppo (dei cicli e delle crisi, sempre profetizzate e addirittura auspicate e mai realmente affrontate con una politica di manovra perché non analizzate nelle loro componenti economiche e politiche), ma anche ad un delinearsi della ripresa di iniziativa capitalistica « democratica », ignorando i compiti nuovi che di fatto si presentavano dentro e fuori la fabbrica alla classe operaia?Il volume della Fondazione Einaudi è completato dai contributi, diversi per ispirazione e valore, di Annie Kriegel (La
crisi rivoluzionaria 1919-1920: ipotesi per la costruzione di un m odello), Massimo L. Salvadori (Rivoluzione e conservazione nella crisi del 1919-1920), Paolo Spriano (La tattica del fronte unico, 1921-1925, rimasto volutamente nella forma discorsiva della relazione seminariale), Ernesto Ragionieri (I l programma dell’Internazionale Comunista, già pubblicato su Studi storici, 1972, n. 4 e 1973, n. 1) e Leo Valiani (Fronti popolari e politica sovietica, anch’esso nella forma originale della conversazione). Tra tutte mi sembrano aver maggior spicco le trattazioni di Salvadori e Ragionieri.
Gianfranco Petrillo
« L ’A vanti! » quotidiano socialista. E d izione clandestina. Roma, Firenze, Bologna, Torino, Milano, Venezia, Repubblica del- l'O ssola, a cura di G . Polotti, s. 1., Amici dell’« Avanti! » , s. d. (m a 1974), s. p.
L a ricerca sui vari aspetti della linea politica del Partito socialista alla luce dei problemi connessi con la partecipazione del partito stesso alla Resistenza trova nella raccolta dei « reprint » dell’« Avanti! » clandestino, curata da Giulio Polotti ed edita dall’ Associazione Amici del- l ’« Avanti! » , una fonte insostituibile. Attraverso la riproduzione fotostatica di 127 esemplari, 17 dei quali stampati a Roma, 21 a Bologna, 12 a Firenze, 17 a Torino, 57 a M ilano, 1 a Venezia, 1 nella Repubblica partigiana dell’O ssola ed 1 a Parigi, siamo così edotti delle convergenze come anche delle divergenze tra le varie Federazioni, collegate sia le une che le altre con le differenti situazioni politico- economico-sociali nelle quali il Partito socialista si trovò ad operare in quell’in- fuocato periodo storico.Il Partito socialista di unità proletaria (P SIU P ) si costituì, come è noto, nelle giornate del 23, 24 e 25 agosto 1943, nel corso di una riunione svoltasi a casa di Oreste Lizzadri, attraverso la fusione del Partito socialista italiano (P SI) col Movimento di unità proletaria (M UP). A questa rinascita contribuirono uomini prove
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nienti dalle più diverse esperienze, ma spinti tutti dalla convinzione che il socialismo fosse in grado di dare un valido apporto alla ricostruzione dell’Italia ed al risanamento delle profonde ferite che il fascismo e la guerra avevano inferto al paese. Nello stesso tempo si intendeva dare vita ad un partito nuovo che, pur collegandosi idealmente al programma di Genova del 1892, tendesse ad una nuova « unità proletaria » , attraverso il superamento della scissione del 1921. « II P SI — diceva il manifesto programmatico a questo proposito — non si riorganizza con una preconcetta ostilità verso altri partiti proletari, e segnatamente verso il Partito comunista italiano con il quale ha una fondamentale comunità di dottrina e di fine. Consapevole della forza irresistibile che la classe lavoratrice trarrà dalla sua unione, il P SI intende realizzare la fusione dei socialisti e dei comunisti in un unico partito, sulla base di una chiara coscienza delle finalità rivoluzionarie del movimento proletario. Per avviare l ’unità verso la sua realizzazione e per coordinare le direttive nel campo politico ed in quello sindacale, il Partito socialista italiano ha concluso col Partito comunista italiano un patto di unità d ’azione ». Tale istanza unitaria si proiettava anche in campo internazionale. « La carenza della Internazionale Operaia Socialista e lo scioglimento della Terza Internazionale — proseguiva più avanti il manifesto — pongono il problema della ricostituzione del movimento operaio internazionale. La nuova Internazionale dovrà realizzare sul piano della dottrina e dell’azione la sintesi delle esperienze mondiali dei socialisti e dei comunisti e unire i proletari d ’Europa e del mondo nella lotta finale per il socialismo ».Il documento programmatico, al quale abbiamo accennato, fu pubblicato su un numero straordinario dell’« Avanti! » romano che non è però il primo della serie. E sso è preceduto da un foglietto senza data (che però sappiamo essere stato pubblicato il 26 luglio 1943, all’indomani del colpo di stato monarchico), col sottotitolo « Organo ufficiale dei lavoratori italiani ».
Questo numero, contenente un appello nel quale si richiedeva: la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di riunione e la liberazione immediata dei detenuti politici, fu preparato da Oreste Lizzadri del Partito socialista italiano e da Achille Corona e Tullio Vecchietti del Movimento di unità proletaria nella tipografia Morara di via Ulpiano con una tiratura di 5.000 copie che in pochi momenti andarono a ruba nelle vie del centro di Roma. N ell ’appello era dato per scontato il nuovo nome del partito che veniva chiamato, con una piccola variazione rispetto a quella finale, Partito socialista per l ’unità proletaria.Nei numeri dell’edizione romana, nei quali la presenza di Nenni alla direzione ha un carattere determinante, prevale la polemica politica contro la monarchia e le forze parassitarle che ad essa si appoggiavano. « Chi consegnò l ’Italia al fascismo nell’ottobre del ’22? — leggiamo sul numero del 26 settembre 1943 — . I l re. I l re come capo naturale di tutte le classi reazionarie italiane, che sentivano minacciati i loro privilegi politici ed economici dalla precisa volontà del popolo italiano, deciso a rivendicare i suoi interessi proletari contro tutte le vecchie caste parassitane. Monarchia e plutocrazia, il re e i grossi industriali, i grandi latifondisti, i ricchi banchieri, videro nel fascismo il loro naturale alleato, il regime che meglio di ogni altro garantiva la conservazione del trono e la tutela di tutti gli interessi capitalistici che ad esso fanno capo ». « A coloro che smarriti ci chiedono una meta, una parola d ’ordine, una direttiva, — era scritto in un altro articolo comparso sullo stesso numero — rispondiamo: combattere. L ’iniziativa della lotta politica è passata, oramai, nel sentimento di tutti, alle classi lavoratrici... I l popolo italiano entra da oggi in questa vasta comunità di gente oppressa. Sappia la gloriosa responsabilità che ciò comporta. Sappia rendersi degno di militare a fianco delle forze popolari jugoslave e francesi, dei partigiani russi e polacchi, albanesi e greci, belgi ed olandesi, danesi e norvegesi. Sappia, insieme con essi, contribuire coi fatti e col sangue
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alla formazione di quella più vasta coscienza europea che affratellerà i popoli, alla fine di questa guerra, nel ricordo e nella tradizione di una lotta spontaneamente sostenuta, al di là di ogni inquadramento governativo e m ilitarista, per la difesa della propria libertà ».Un articolo del numero del 20 novembre 1943 sottoponeva ad una serrata critica sia il riformismo che il massimalismo del vecchio Partito socialista. « Il riformismo è degenerato in opportunismo quando — a partire dal 1900 — ha sacrificato l ’opposizione allo Stato monarchico e borghese al conseguimento di riforme sociali ed economiche in sé molto importanti, ma che, conseguite a prezzo di un compromesso con lo Stato, indeboliscono la coscienza rivoluzionaria del proletariato e tendono a creare una form a di assurda mezzadria del potere nella quale doveva inevitabilmente avere la peggio... A sua volta il massimalismo è degenerato in settarismo, confondendo rivoluzionarismo ed intransigenza che sono due cose profondamente diverse. La prova della sua immaturità politica il massimalismo l ’ha data nel 1920 con l ’occupazione delle fabbriche, che in sé era una grande esperienza rivoluzionaria, a condizione però che il proletariato occupasse la fabbrica delle fabbriche, cioè il potere. L a conquista dello Stato: questo è il punto di mora dei socialisti i quali non separano la lotta politica da quella economica ».
Il numero del 6 maggio, a sua volta, prendendo in esame la formazione a Salerno di un governo di unità nazionale, presieduto dal maresciallo Badoglio, al quale partecipavano anche i socialisti, pubblicava una deliberazione della direzione del partito che, dopo avere constatato come il nuovo governo, « per la sua presidenza e la forma monarchica della sua investitura », non realizzasse « una situazione corrispondente alla volontà espressa dal popolo dell’Italia occupata durante otto mesi di ininterrotta lotta per la liberazione e adeguata alle esigenze della democratizzazione del paese » , dichiarava di mantenere nei confronti dello stesso « una posizione di autonomia » implicante tutta
via « una totale adesione alle misure che [esso avrebbe preso] per intensificare la guerra contro il nazi-fascismo ». I l comunicato della direzione era seguito da una lunga nota di commento nella quale era detto, tra l ’altro: « Sui motivi che hanno indotto i partiti antifascisti del Mezzogiorno, e gli stessi socialisti, ad accettare al governo la direzione delle forze monarchi- che-badogliane, l ’Esecutivo non possiede che elementi frammentari di informazione, sufficienti in ogni caso per stabilire che essi non hanno potuto sottrarsi a pressioni di ordine internazionale che rendevano indilazionabile la soluzione della crisi governativa aperta dall’8 settembre. Come si sia, la questione del potere rimane aperta, ed il Partito socialista rivendica il diritto del popolo di risolverla, al di fuori di ogni tutela, conformemente alle sue aspirazioni ed alle finalità democratiche della guerra e della lotta nelle quali è impegnato ». La stessa nota così affrontava il problema della posizione dei socialisti nei confronti dell’U RSS, ritenuta ispiratrice, attraverso l ’azione politica di Togliatti, della svolta di Salerno: « I socialisti associano alla coscienza di ciò che rappresenta l ’Unione Sovietica in Europa e nel mondo, la coscienza della necessaria autonomia del movimento operaio. L ’unità d ’azione alla quale essi rimangono indefettibilmente fedeli non avrebbe senso se non fosse la traduzione in termini politici comuni delle esperienze e delle aspirazioni della classe lavoratrice italiana. La ginnastica delle svolte non conviene all’igiene dell ’unità d ’azione ed i socialisti non possono accettare il metodo che consiste nel sostituire gli ordini dall’alto alle esperienze dal basso ».L ’edizione milanese, come abbiamo visto, è quella di periodicità più regolare (circa un numero ogni quindici giorni). Essa è caratterizzata da un’ancora maggiore intransigenza politica, dovuta principalmente a due fattori: il vedere essa la luce in una regione nella quale il proletariato industriale costituiva la base principale del partito ed il suo carattere di organo di fatto della Resistenza armata socialista. I l giornale uscì la prima volta il 1° agosto
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1943 quale organo del Movimento di unità proletaria, per assumere poi col successivo numero del 22 agosto 1943 il sottotitolo di « Giornale del Partito socialista di unità proletaria ».Il numero del 3 settembre 1943, uscito ancora in periodo badogliano, agitava la parola d ’ ordine della pace immediata. « Due sole ragioni — vi si legge — possono spiegare il prolungamento della guerra: la complicità con H itler e la paura di Hitler. Se fosse complice di Hitler, Badoglio sarebbe più spregevole dello stesso Mussolini. Se ha paura di H itler -—• nel che è forse la spiegazione dei suoi errori — allora vuol dire che egli non ha fiducia nel popolo. Ora non si può governare se si ha paura del popolo e se si subordina la politica del paese ai vili calcoli di un vile disfattism o ».Il 27 settembre 1943 venivano affrontate le conseguenze dell’armistizio, della fuga di Pescara e del quasi totale sfaldamento dell’esercito. « Non è una politica che fallisce e una classe dirigente che scompare. È tutto l ’ordinamento capitalistico, con le sue contraddizioni economicamente dispendiose e moralmente assurde, che cade per non più risollevarsi, e dalle fiamme e dai rottami viene a noi un incitamento nel quale si sommano i pensieri e le opere che illustrano la nostra storia in quanto ebbe ed ha di più umano ».« Prima nel rischio e nel sacrificio, — rincalzava il numero del 3 gennaio 1944 — la classe proletaria vuole essere, sarà prima nell’ordinamento politico che scaturirà dal processo rivoluzionario ora in atto [ .. .] . Il giorno della liberazione di ogni servitù è vicina. V iva, viva la Repubblica Socialista ». Istanza quest’ultima apertamente contrastante con quella della costituzione di una repubblica democratica portata avanti dai comunisti, nella convinzione che la situazione internazionale avrebbe condizionato, per parecchi anni, l ’evoluzione politica dell’Italia, posta nella sfera di influenza anglo-americana.Ancora più chiaramente si esprime il numero del 10 gennaio 1944 in un articolo intitolato appunto « Che cosa vuole il P SI ». « Lo stato borghese deve essere
distrutto e con lo stato borghese devono scomparire le oligarchie finanziarie di cui esso è lo strumento di dominazione politica. Il nuovo assetto della società deve essere imperniato sulla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio ».Il 28 giugno 1944, così veniva commentata la costituzione del primo ministero Bonomi che aveva visto, per la prima volta, una diminuzione delle prerogative regie per il fatto che, nella form ula di giuramento, alla clausola « fedeltà alla Corona » era stata sostituita quella dell ’impegno « a non commettere nessun atto che [p otesse], in alcuna maniera, pregiudicare la soluzione del problema costituzionale prima della convocazione dell’Assemblea Costituente » : « La repubblica che scaturirà dalla rivoluzione italiana ora ai suoi primi sviluppi, ha da essere socialista, sarà sicuramente socialista. Sarà la repubblica dei lavoratori, la repubblica che avocherà a sé la proprietà dei mezzi di produzione e di scambio così impedendo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l ’interesse di ciascuno conciliandolo con quello di tutti ».
Nel numero del 13 gennaio 1945, attraverso un parallelo tra il veto inglese all’ingresso nel governo del conte Sforza e la repressione della quale erano bersaglio le forze partigiane delI’E L A S in Grecia, si rilevava come « gli stessi reazionari che [avevano] giocato e perduto sulla carta nazista [pretendessero] di giocare ancora sulla carta inglese ». L o stesso numero pubblicava un appello del Partito socialista al paese, appello che, dopo avere sottolineato la netta opposizione del partito stesso contro il secondo ministero Bonomi, così proseguiva: « Questa crisi ha rilevato la gravità del pericolo reazionario e il Partito socialista, spostando il centro di gravità della sua azione dal governo nel Paese, invita i lavoratori a raccogliere la grave lezione implicita in questo episodio della lotta per la conquista della democrazia ».
Il numero del 10 marzo 1945, riferendosi ai tentativi di salvataggio « in extremis » dei nazifascisti, pubblicava il seguente comunicato: « Risulta che fascisti ed appar
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tenenti a forze armate della pseudo-repubblica, sentendo approssimarsi l ’ora della resa dei conti, tentano di salvarsi facendo proposte di compromessi a rappresentanti di partiti antifascisti. Sappiano i compagni che i nazisti ed i fascisti debbono essere considerati non solo dei nostri avversari politici, ma anche dei nostri nemici, contro cui bisogna oggi più che mai essere inesorabili ».L ’edizione milanese dell’« Avanti! » è caratterizzata da una ricchissima quantità di trafiletti e di notizie relative agli episodi connessi con l ’occupazione fascista e con la Resistenza patriottica. Compaiono anche, sia pure saltuariamente, alcune rubriche quali: « Sassate » (che cessa però col numero del 22 maggio 1944), nella quale vengono attaccate satiricamente autorità repubblichine e singoli fascisti; « Cronache in tuta » , contenente lettere di denuncia di fatti e situazioni; « Appunti » , di carattere ideologico. Ampio spazio è dedicato alla commemorazione dei martiri socialisti Giacomo M atteotti, Bruno Buoz- zi, Eugenio Colorni, M ario Greppi ed altri.
D i notevole importanza sono anche alcuni studi di carattere economico. Ricordiamo, tra gli altri, Socialismo e socializzazione comparso in cinque puntate sui numeri del 18 aprile, 6 maggio, 22 maggio, 10 giugno e 28 giugno che aveva il compito di controbattere la propaganda tambureggiante che, appunto su questo tema, le autorità di Salò mettevano in atto. Analoga può essere considerata l ’im postazione dell’edizione torinese (che esce per la prima volta il 1° settembre 1943), con un’accentuazione della trattazione dei problemi concernenti il mondo del lavoro. Nel numero del marzo 1944 troviamo un’ampia cronaca sullo svolgimento dello sciopero (scoppiato, come è noto, in tutta l ’Italia settentrionale nei primi giorni di quel mese) a Torino e nelle località limitrofe.Segnaliamo, tra tutti, gli articoli: Sindacati fascisti e unità sindacale apparso il 7 agosto 1944 che, prendendo spunto da un comunicato del locale sindacato fascista dei lavoratori dell’industria nel quale
veniva demagogicamente adoperata la dizione « interessi del proletariato » , rilevava come gli organizzati fossero sempre stati considerati dai sindacalisti fascisti come « degli immaturi o interdetti » ; Socialisti e comunisti pubblicato in un numero senza data, ma probabilmente apparso nel settembre 1944, nel quale veniva espresso compiacimento per la decisione presa a Roma della costituzione di una giunta permanente social-comunista « dopo 23 anni da quella deprecabile scissione che a Livorno diede il viatico trionfale al fascismo e dischiuse la via al martirologio socialista e proletario italiano, alle rovine di tutte le nostre istituzioni politiche, sindacali, cooperative e mutualistiche ».
Anche l ’« Avanti! » torinese contiene una rubrica polemico-satirica dal titolo « Colpi di spillo ».
Sull’edizione bolognese, un particolare rilievo viene dato ai problemi del proletariato contadino e della gestione cooperativistica dell’agricoltura. D i grande importanza è l ’articolo I socialisti e il Governo, pubblicato in data 1° maggio 1944, che, divergendo dalla presa di posizione della direzione di Roma e di alcune federazioni, commentava positivamente la costituzione del governo di unità nazionale di Salerno: « La posta che la proposta Togliatti ha messo in gioco — si legge — è troppo grande perché un partito qualsiasi possa trascurarne l ’importanza. Riguarda la salvezza e l ’esistenza della Nazione. E noi socialisti siamo parte di essa se pure in tutta la nostra esistenza abbiamo raccolto, vivendovi e lottando, soltanto sofferenze e miserie. M a d ’essa noi ci sentiamo parte integrante e fattiva tra queU’immensa maggioranza costituita dalla classe proletaria sulla quale vengono a riversarsi tutte le conseguenze delle disgrazie incombenti sulla Nazione ».
Questo atteggiamento di avvicinamento alle posizioni comuniste era confermato, il 31 maggio 1944, in un articolo dedicato alle epurazioni staliniane: « Ci sia consentito di meravigliarci — viene affermato polemicamente — per il fatto che anche qualcuno di noi accenna al “ Terrore R os
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so ” come ad una vaga nota infamante della nostra Rivoluzione [ . . .] . Nessuno può pensare che il terrore sia un metodo di governo normale. E sso è soltanto un metodo di governo transitorio corrispondente ad uno stato di profonda crisi dell’organismo sociale. Somiglia a quelle cure eroiche che, raramente, i grandi medici si permettono in casi clinici eccezionali [ ....] Di fronte al pericolo esterno che è sommo merito degli attuali Capi dell’U RSS di aver previsto e misurato quando altri lo sottovalutava o, magari, lo attizzava ed alimentava, non restava alternativa: od ottenere una disciplina ferrea all’interno o perire. Essi hanno prescelto la disciplina ferrea. Fu una fortuna per noi; per loro fu un atto di saggezza; per i nostri avversari una manifestazione di orribile ferocia e di animo selvaggio. Ne consegue che chi parla, in quest’ultimo senso, di terrore rosso, si pone, volontariamente o no, dal punto di vista dei nostri avversari ».
Pochi elementi nuovi ci portano i 12 numeri dell’edizione fiorentina (gli ultimi due dei quali usciti nei giorni della battaglia per la liberazione della città segnano11 passaggio dalla fase clandestina a quella legale), il numero dell’edizione veneziana e quello dell’O ssola (che però reca alcune notizie sulla ricostituzione del partito a Domodossola durante la breve esistenza della Repubblica partigiana dell’O ssola). Un grande valore storico ha l ’esemplare del primo numero stampato a Parigi il12 dicembre 1926, dopo lo scioglimento in Italia del partito in seguito alle leggi eccezionali del mese precedente. In esso veniva data notizia della costituzione, nella capitale francese, della nuova direzione avvenuta per delega dei compagni italiani e della nomina di Ugo Coccia a segretario provvisorio.
Nel risvolto della cartella contenente l ’intera collezione sono riprodotti i nomi dei numerosi socialisti che, durante il periodo clandestino, pagarono con la vita la loro attività di redattori, collaboratori e diffusori dell’« Avanti! ». L ’intera raccolta è preceduta da uno scritto autografo di Pietro Nenni diretto ai promotori della pubblicazione nel quale viene espresso il
compiacimento per il fatto che la raccolta attesti « la presenza socialista nella lotta » e documenti « la posizione ideale politica d ’azione » nella quale i socialisti si sono trovati « nella fase decisiva della L iberazione ».
Franco Pedone
Giuseppe Gaddi, Ogni giorno, tutti i giorni, M ilano, Vangelista, 1974, pp. 197, lire 2.800.
Nella stessa collana in cui sono apparse le sanguigne memorie di Amerigo Ciocchiatti contenute nel « Cammina frut » appare ora, in forma rapida e persin quasi scheletrica un’autobiografia di G iuseppe G addi, militante comunista triestino che, appena conquistato alla Federazione giovanile comunista italiana da Giordano Pratolongo, si ritrovò immediatamente perseguitato e ospite di varie carceri e costretto all’espatrio per poter esplicare la sua attività di funzionario rivoluzionario.
Non sono memorie pacifiche o amorfe; al contrario rispecchiano in modo chiarissimo la personalità di G addi che probabilmente nella sua vita non ha mai accettato una decisione senza trovarvi il motivo di una polemica, di un giudizio tagliente. Anche qui motivi di polemica aggressiva se ne trovano ad ogni pagina. Se la parte che riguarda la milizia antifascista, il periodo della lotta clandestina, la vita del carcere o del confino, non si discosta molto dalla serie delle altre biografie, dei contributi che dal 50° del P C I ad oggi hanno arricchito la storiografia, la parte che riguarda il momento della guerra di liberazione e l ’inizio di una nuova fase della vita politica accentua la carica polemica e spesso, pur trattandosi di memorie quindi di un contributo soggettivo, l ’individualità del giudizio rischia la sovrapposizione con la realtà.
La lunga attività di G addi negli organismi internazionali prima e dopo la guerra ci permette di approdare a conoscenze finora abbastanza lim itate sulla vita interna degli organi dirigenti del partito,
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su un tipo di rapporti con l ’Internazionale, temi però più accennati che sviluppati, anche se in tal modo, ad esempio, egli ha l ’occasione di rivalutare l ’operato di Grieco in quanto direttore de « l ’Unità ». L ’autore di queste memorie non sottace i suoi « incidenti » col Partito comunista fino alla sospensione per un anno, ma attribuisce questa e altre decisioni alla sua reiterata abitudine di « criticare ». Ecco dove sarebbe stato necessario approfondire tutto il discorso sui rapporti fra militanti all’interno del partito per gli anni in cui nell’Unione Sovietica si accentuano sempre più le persecuzioni illegali.
Si diceva della carica polemica delle memorie che si accentua con il dopoguerra e gli anni della costruzione del « partito nuovo ». Gaddi passa attraverso una serie di incarichi, da segretario di federazione a segretario della Federazione internazionale della Resistenza, tale è oggi, a Vienna. Ma ogni volta che parla di questi spostamenti egli trova motivo di esprimere critiche per i metodi adottati e qui, senza entrare nel merito dei singoli argomenti addotti, ci sembra che il difetto delle memorie si accentui proprio nel senso indicato prima di una troppo pesante sovrapposizione personale alle questioni. Così come non può essere affrontato in termini memorialistici, e polemici, puramente e semplicemente, il problema ben più ampio, complesso, ramificato del ricambio delle generazioni alla direzione del partito a tutti i livell i ,
Elementi negativi quindi, questi aspetti del libro? Non si può dire, tuttavia sono temi che a parer nostro vanno affrontati in maniera meno soggettiva e sotto un diverso profilo. Accentuata polemica, forse un sottofondo provocatorio in senso positivo, elementi di meditazione e di ri- pensamento, questo piuttosto il carattere generale del libro. Pallido inizio di discussione su temi di ancora incommensurata profondità che, almeno sul piano storiografico, devono pur essere affrontati.
Adolfo Scalpelli
Giorgio Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna. Rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo X V I ad oggi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 549, lire 4.000.
Pur essendo dedicata per quasi quattro quinti ai secoli dell’età moderna, l ’ampia ricostruzione di Giorgetti si raccomanda anche per il profilo che traccia dell’ultimo cinquantennio e che, nella relativa povertà della letteratura sull’argomento, fornisce insieme anticipazioni e impulsi a più dettagliate ricerche. L ’analisi della evoluzione contrattuale non costituisce del resto un osservatorio specialistico e limitato se, come avviene in queste pagine, il richiamo alle norme giuridiche ha soprattutto valore esemplificativo, mentre è ben saldo, quasi sempre, l ’ancoraggio al momento storico complessivo e sono costantemente richiamate le incidenze dei fattori generali indispensabili a illuminare, entro il rapporto di base tra proprietari e contadini, il mutevole atteggiarsi delle singole categorie agricole, le aggregazioni e divisioni che gli obiettivi particolari perseguiti da ciascuna di esse provocano tanto nei momenti alti di lotta, quanto nelle fasi di riflusso. L a considerazione conclusiva che si ricava dalla lettura — e che l ’autore suggerisce più che illustrare distesamente — è quella dell’assenza o estrema precarietà del nesso intercorrente tra fattori esterni e spinte interne al movimento contadino. Anche quando sembrano dischiudersi prospettive nuove e profilarsi sostanziali trasformazioni, il collegamento con il movimento operaio resta tenue e indiretto, più postulato programmatico che convergenza di iniziativa politica. Così, esaminando i contenuti della offensiva contadina degli anni 1919-20, e rilevando come esplicitamente sottesa alla somma delle vertenze contrattuali la questione della proprietà della terra, Giorgetti può concludere che « proprio la mancanza di una prospettiva nazionale rinnovatrice, che nessuna forza politica popolare seppe allora offrire alle masse rurali, doveva favorire inevitabilmente il riflusso e la sconfitta, sullo stesso piano contrattuale, di un movimento tanto potente e ricco di
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fermenti progressivi, lasciando aperta la via a una rivincita reazionaria della proprietà fondiaria più retriva » (p. 439). Assai più sfumata è la valutazione del secondo dopoguerra. Anche in questo caso, tuttavia, si possono cogliere i segni di una precoce divaricazione tra l ’iniziativa contadina — peraltro assai differenziata nei modi, nei tempi e negli obiettivi: dal mezzogiorno ai mezzadri delle regioni centrali, ai braccianti della Valle Padana — e quadro politico nazionale, nel senso che se l ’abbattimento della dittatura offre strumenti e possibilità nuove, l ’incidenza del movimento sui rapporti di produzione sarà solo marginale. Nelle campagne si instaura un instabile equilibrio che sarà poi bruscamente spezzato dall’accelerazione industriale degli anni cinquanta e sessanta. A quel punto di svolta, lungi dal ricomporsi ad un più alto livello di dialettica economica e sociale, il dualismo tra settore primario e secondario trascina l ’agricoltura italiana e la società contadina verso il fondo di un processo di disgregazione, rispetto al quale non è dato oggi intravedere una reale possibilità di arresto. « La regressione agronomica in senso neo-lati- fondistico di tenute e fattorie precedentemente appoderate, -—- osserva Giorgetti — l ’involuzione produttiva di numerose aziende capitalistiche classiche, perfino nel territorio privilegiato della cascina irrigua, pongono obiettivamente il problema (in presenza del crescente deficit alimentare del paese) di una inversione di tendenza che sposti l ’accento sulle aziende contadine singole o associate e ne faccia la base di rilancio della produzione agricola nazionale » (p. 338). N el compiersi di questa parabola giungono del resto a piena maturazione quei fenomeni di stretta compenetrazione tra interessi industriali e rendita agraria che avevano caratterizzato l ’azione del regime fascista.
L ’evoluzione dei contratti pone efficacemente in rilievo gli stadi del processo, ne rivela le tendenze di lungo periodo a fronte delle pur vigorose spinte che il movimento contadino tende ad esprimere e che non riescono a sfociare in prospettive alternative. Va da sé che il centro della
analisi deve spostarsi sul modello di sviluppo, per ritrovare poi nella storia agraria le conferme forse più significative. Il ciclo di lotte 1919-20 occupa senza dubbio un posto di primo piano nei tentativi di erodere i tradizionali privilegi della proprietà fondiaria. Le conquiste allora strappate nel campo dei contratti di mezzadria e di piccolo affitto, i segni di convergenza tra coloni, affittuari e masse bracciantili delineano un panorama che, nel quadro del dopoguerra, non è meno ricco di fermenti e di aperture di quello espresso dal proletariato urbano. Aumento della parte colonica e imposizione della « giusta causa permanente » costituiscono, fra gli altri, obiettivi che mirano a sostituire a norme elusive e lacunose, abbandonate alle interpretazioni arbitrarie della parte più forte, una rigida disciplina legislativa capace di agevolare la crescita degli strati intermedi. Il rapporto tra produzione e rendita ne viene direttamente investito e l ’asprezza della reazione padronale corrisponderà pienamente ai pericoli accesi dai sommovimenti in atto. Mancano tuttavia i fattori capaci di ricomporre l ’unità del movimento al di là delle finalità settoriali e qui la disamina storica deve tenere egualmente conto degli elementi endogeni (la socializzazione della terra propugnata dalle leghe rosse contrapposta alla sbracciantizzazio- ne perseguita dalle leghe bianche) e del mancato collegamento con il quadro generale. Attraverso i varchi che così si aprono, lo squadrismo agrario può riversare tutto il proprio impeto eversivo e predisporre il terreno a quella « restaurazione contrattuale » che, durante il regime, restituisce alla proprietà i precedenti privilegi e rilancia le forze sociali legate alla rendita parassitaria come strumento primario di controllo sulla società contadina. Non v ’è dubbio che si tocca qui uno dei nodi cruciali, delle contraddizioni di fondo del « regime reazionario di massa » , stretto da un lato dalle necessità della stabilizzazione sociale e dall’altro dalle esigenze produttivistiche accentuate dall’autarchia e la cui soddisfazione avrebbe imposto di contrastare le forme di assenteismo.
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Il secondo dopoguerra riproporrà largamente gli obiettivi perseguiti un quarto di secolo prima e, come si è anticipato, sfocerà in una serie di conquiste parziali e settoriali che, se allentano i freni imposti dalla reazione fascista, non imprimono all’agricoltura italiana vie di sviluppo realmente alternative. La tendenza allo svuotamento dell’istituto contrattuale nascerà dalla seconda rivoluzione industriale dell ’Italia contemporanea, mentre la classe di governo ripiegherà sull’accoglimento parziale di alcune richieste contadine con provvedimenti (dalle mediazioni nella vertenza mezzadrile alle leggi stralcio di riforma fondiaria dei primi anni Cinquanta) nei quali le finalità di controllo politico sono di gran lunga prevalenti sulla volontà di riorientare le scelte produttive e quindi di modificare i rapporti di forza sulla terra. Questioni quali la sorte dell ’istituto mezzadrile o una nuova radicale disciplina dei fitti rustici si trascineranno da una legislatura all’altra, per approdare infine al varo di misure legislative il cui contenuto, comunque lo si valuti, appare in partenza superato dalle avvenute trasformazioni socio-economiche.Su quest’ultimo passaggio, l ’analisi di Gior- getti perde parte della propria incisività e affronta con estrema cautela il giudizio sulla politica condotta dalla sinistra marxista. Più in generale, la ricostruzione trova un limite non irrilevante nella esiguità dei riferimenti alle successive fasi congiunturali e ai loro riflessi sulle vicende contrattuali. Appare, ad esempio, improprio accennare alle conseguenze della crisi degli anni trenta sul settore agricolo se non si tien conto che, quando essa si manifesta, la caduta dei prezzi agricoli ha già determinato gravi conseguenze, in particolare falcidiando la piccola proprietà formatasi nel dopoguerra e provocando un fenomeno di proletarizzazione di ritorno che suscita non pochi problemi alla politica agraria e sociale del fascismo. Altrettanto si può dire, in chiave diversa, per gli effetti della fase inflazione-deflazione del 1946- 48 sul processo di ricostruzione dell’agricoltura italiana e sui rapporti interni alla società contadina.
Massimo Legnani
Resistenza
Renato Romagnoli, G appista dodici mesi nella Settim a G A P « Gianni » , M ilano, Vangelista editore, 1974, pp. 234, lire 2.500.
Dice giustamente Zangheri nella prefazione « è un’esperienza concreta, non da manuale » questa di Romagnoli nel 7 G A P, non quindi la teorizzazione della guerriglia urbana in termini di astrazione fantapolitica.« Italiano » , un significativo pseudonimo da clandestinità, uno di quelli che Roberto Battaglia amava analizzare per capire anche sul piano psicologico lo spirito con cui era stata affrontata la Resistenza a livello popolare, racconta dei suoi anni di infanzia e giovinezza, ma tutto il libro è teso a ricostruire i grandi episodi delle battaglie urbane di Bologna dell’estate- autunno 1944. G li storici hanno dato importanza a questi momenti, hanno anche criticamente considerato la strategia in cui questi episodi si inserivano: il concentramento di forze in città, Porta Lame, la Bolognina, l ’evacuazione dell’ospedale. Momenti significativi e importanti e insieme tappe importanti della guerra popolare di liberazione, costate anche la perdita di uomini valorosi. M a sul piano politico significarono colpi durissimi per i fascisti e i tedeschi, furono momenti di pesanti e irreparabili sconfitte anche per la perdita assoluta di credibilità persino presso chi stava dalla loro parte.In questa pacata descrizione di Romagnoli non si ritrova tuttavia mai la ridondanza retorica in cui avrebbe potuto facilmente cadere per la materia stessa. L ’A . cerca semmai di descrivere l ’ambiente, il rischio moltiplicato anche per i civili che aiutano la lotta partigiana, il contesto sociale in cui i gappisti si muovono, gli appoggi politici e l ’assistenza concreta della popolazione e da tutto ciò si ricostruisce anche il tessuto di una città, che pur fra mille insidie, combatte la sua guerra di libertà nel solco di grandi tradizioni sociali. Attraverso la propria biografia di gappista Romagnoli scrive la storia della guerriglia di Bologna, protagonista e testimone de-
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gli episodi cardine di quella guerra di liberazione, vissuta militando in una delle più importanti formazioni militari.O ra la bandiera del 7 G A P è conservata dai partigiani vietnamiti che hanno combattuto a Quang Tri.Sulle copertine, disegni di A lbe Steiner, due interpretazioni delle battaglie urbane di Bologna.
A . Se.
Ebraismo e sionismo
Guido Valabrega, Ebrei fascismo sionismo, Urbino, Argalìa, 1974, pp. 531, lire 3.800.
Valabrega ha raccolto saggi ed articoli comparsi in varie occasioni su periodici nell’arco di quindici anni. G li scritti, che documentano le qualità di accurato indagatore della problematica legata all’ebraismo e al sionismo dell’A ., sono sistemati in tre parti. La prima riguarda gli israeliti italiani durante il fascismo (e qui si avverte la polemica aperta con certe indicazioni di comodo di Renzo D e Felice). La seconda delinea le vicissitudini dell ’ebraismo europeo: particolarmente interessanti appaiono le note sul ghetto di Varsavia e sulla preparazione dell’insurrezione, che fanno chiaramente emergere la linea di classe e /o ideologica che passa anche attraverso la comunità ebraica e che decide dell’atteggiamento diversificato davanti all’oppressore nazista. La terza parte, infine, è dedicata ad alcune acute analisi sul « socialismo ebraico » e sui suoi rapporti col movimento sionista prima e
dopo la nascita di Israele, sulla realtà israeliana prima e dopo il ’67 e la guerra dei sei giorni, e ad alcune « riflessioni sul M edio Oriente ». I l nucleo degli studi di Valabrega consiste nello smantellamento dell’apparente e mistificante unità interclassista e ideologica del popolo ebraico sia nella diaspora che nei rapporti attuali tra Israele e i popoli arabi. Purtroppo questa tesi da un lato non appare pienamente sviluppata e dall’altra resta talvolta soffocata sotto una serie di osservazioni — la più parte acute e utili — ma a volte marginali e contingenti. La causa ci sembra risalire alla meccanica ripubblicazione dei testi originali, sia pure redistribuiti per blocchi di argomenti come s ’è detto. Avrebbe certamente giovato un ripensamento complessivo e una riorganizzazione e rifusione del materiale in modo da evitare le ripetizioni, da una parte, e da indicare, dall’altra, una linea di ricostruzione delle vicende dell’ebraismo e del sionismo in questo secolo che pure appare già abbastanza chiara a lettura ultimata. L a « testimonianza d ’un procedere faticoso, dei numerosi condizionamenti con i quali si trova a misurarsi chi scriva non avendo autonomia economica e anche dei mutamenti via via avvenuti nella temperie del nostro », rappresentata — secondo le parole dello stesso Valabrega (p. 6) — da questa raccolta, è anch’essa certo esigenza nobilissima; è tuttavia un peccato che non si sia potuto superarla nell’occasione offerta dalla pubblicazione in volume, per poter indicare strade ancora più avanzate agli studi sull’argomento e anche alle prossime auspicabili fatiche di Valabrega.
G .F .P .