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FOCUS Mons. Nunzio Galantino Per un’ecologia integrale ATTUALITÀ Arabia Saudita e Iran Riad al collasso? PRIMO PIANO Venezuela dopo Maduro un Paese malato di inflazione PRETI STRANIERI Missione Italia In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 2 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA ANNO XXX FEBBRAIO 2016

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FOCUSMons. Nunzio GalantinoPer un’ecologia integrale

ATTUALITÀArabia Saudita e IranRiad al collasso?

PRIMO PIANOVenezuela dopo Maduroun Paese malato di inflazione

PRETI STRANIERI

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Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

2M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

ANNO XXX

FEBBRAIO2016

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I l terrorismo, la violenza, il degradosociale, la disoccupazione, ma so-prattutto la “cultura dello scarto”,

denunciata peraltro a più riprese dapapa Francesco, stanno penalizzandofortemente le nostre città. Si tratta diuna inquietante disumanizzazione ri-spetto alla quale, come credenti, nonpossiamo essere indifferenti. Il fenomenoè riscontrabile un po’ a tutte le latitudini.Secondo un recente studio delle NazioniUnite, il 54% della popolazione mon-diale vive in aree urbane, una percen-tuale che dovrebbe aumentare al 66%entro il 2050. Alcune proiezioni mo-strano che l’urbanizzazione combinatacon la crescita complessiva della po-polazione mondiale potrebbe aggiun-gere altri 2,5 miliardi di persone a po-polazioni urbane entro il 2050, conquasi il 90% dell’aumento concentratoin Asia e in Africa. Da questi dati sievince, comprensibilmente, che le cittàdevono rappresentare una priorità nel-l’attività missionaria. Può aiutarci l’in-terpretazione di Italo Calvino. Nellesue “Città Invisibili” non si trovanocittà riconoscibili, ma «immagini dicittà felici che continuamente prendonoforma e svaniscono, nascoste nellecittà infelici». Si tratta di un approccioche può offrire spunti di riflessionesulle problematiche dei luoghi dellanostra vita, sepolti da un reticolato diinfrastrutture. La sfida, dunque, evan-gelicamente parlando, consiste nel tra-sformare le “città infelici”, quelle vissutedagli uomini nei loro “non luoghi”,

nelle loro solitudini, nelle loro miserie,in “città felici” dove le persone sonoaperte al futuro e dunque alla speranza.Qui è importante affermare a chiarelettere la centralità della persona umana,creata ad immagine e somiglianza diDio, fondamento etico della culturacristiana. È comunque evidente cheper essere cristiani bisogna sentirsiparte di una comunità evangelizzatrice,assumendo, nelle nostre città, una pre-cisa identità, quella missionaria.Parlando di identità, soprattutto inquesti tempi di forti migrazioni, sap-piamo di misurarci con un terminedifficile da gestire giacché, pur essen-do un sostantivo, si comporta comeun verbo. Esso può essere il propellen-te della sensibilità ospitale ma ancheil suo esatto contrario, generandocomportamenti xenofobi e chiusure.L’identità, dal nostro punto di vista,missionariamente parlando, deve ali-mentare lo “spirito del luogo” ed è ilprodotto di un insieme dinamico ecomplesso, inclusivo e non esclusivo. Èdato che la comunità cristiana devecostruire ponti, facilitare l’incontro elo scambio; al contrario, quando pre-valgono l’omologazione e gli interessiparticolari che soffocano il benecomune, l’identità si indebolisce e ilrapporto tra luoghi, comunità locale epersone si deforma facendo diventarela città “terra di conquista”. La postain gioco è alta. Lungi da ogni retorica,servono davvero menti illuminatecapaci di affermare il concetto di

EDITORIALE

Dai “non luoghi” alle città per l’uomo

di GIULIO [email protected]

(Segue a pag. 2)

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Indice

EDITORIALE

1 _ Dai “non luoghi” alle città per l’uomo di Giulio Albanese

PRIMO PIANO

4 _ Nel Venezuela del dopo Maduro Il popolo di Simon Bolivar malato di inflazione di Paolo Manzo

ATTUALITÀ

8 _ Arabia Saudita e Iran: nuovi equilibri Riad al collasso? di Ilaria De Bonis

12 _ Siria: società civile sotto assedio

Morire di fame a Madaya di Ilaria De Bonis

FOCUS14 _ Una riflessione del Segretario generale della Cei

I volontari internazionali, soggetti di ecologia integrale di Nunzio Galantino

L’INCHIESTA18 _ Guerra ambientale in Amazzonia Lo spaventoso scenario della foresta derubata di Marco Ratti

SCATTI DAL MONDO

22 _ Papa Francesco in Messico Misionero della misericordia A cura di Emanuela Picchierini Testo di Miela Fagiolo D’Attilia

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“destino comune” come criterio di apparte-nenza. «La nuova Gerusalemme, la CittàSanta (Ap 21,2-4), è la meta verso cui èincamminata l’intera umanità. È interessanteche la rivelazione ci dica che la pienezzadell’umanità e della storia si realizza in unacittà» (Evangelii Gaudium 71). È quanto scri-ve papa Francesco nella sua enciclica pro-grammatica, nella consapevolezza che«abbiamo bisogno di riconoscere la città apartire da uno sguardo contemplativo, ossiauno sguardo di fede che scopra quel Dio cheabita nelle sue case, nelle sue strade, nellesue piazze».

(Segue da pag. 2)

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PANORAMA

26 _ Squadre di calcio in Iraq e Siria Un goal contro la guerra di Sergio Taccone

DOSSIER

29 _ Preti stranieri nelle diocesi del nostro Paese Missione Italia di Annarita Turi

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

37 _ Perù Tra le comunità della periferia di Lima di Miela Fagiolo D’Attilia

39 _ A colloquio con il rabbino Jeremy Milgrom Religioni insieme per la pace di Chiara Pellicci

OPERE DI MISERICORDIA

43 _ Visitare gli ammalati Medici in camper di Ilaria De Bonis45 _ L’altra edicola Cambiamenti climatici I falsi di Parigi e il potere dei “piccoli” di Ilaria De Bonis48 _ Posta dei missionari Lumache, cicloni e sartoria a cura di Chiara Pellicci

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OSSERVATORI

DONNE IN FRONTIERA PAG. 6

Somalia: il rischio di essere giornalistadi Miela Fagiolo D’Attilia

ASIA PAG. 7

Desaparecidos con gli occhi a mandorladi Francesca Lancini

MEDIO ORIENTE PAG. 13

A Gaza per regalare sorrisidi Chiara Pellicci

BALCANI PAG. 20

Ecosistema a rischio inMacedoniadi Roberto Bàrbera

AMERICA LATINA PAG. 21

Colombia, verso l’accordo con le Farcdi Paolo Manzo

AFRICA PAG. 47

Energia solare in Rwandadi Enzo Nucci

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RUBRICHE

51 _ Musica WAKE UP!

Il disco del Papa di Franz Coriasco52 _ Ciak dal mondo Chiamatemi Francesco ll sogno missionario del giovane Jorge di Miela Fagiolo D’Attilia54 _ Libri Il nutrimento di Dio di Martina Luise

54 _ Nelle mani di Boko Haram di Chiara Anguissola

VITA DI MISSIO

55 _ Campagna Missio, Focsiv, Caritas Una grande rete per sviluppare tanti progetti di Miela Fagiolo D’Attilia

57 _ Intervista a don Mario Vincoli Guardando lontano di Ilaria De Bonis

59 _ Missio Giovani Va’ dove ti porta il Vangelo di Alex Zappalà

61 _ Solidarietà delle Pontificie Opere Missionarie A Gitega tra gli studenti del Grand Seminaire

di Miela Fagiolo D’Attilia

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzione missionaria Piccoli semi di speranza di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM Le parole della modernità di Giuseppe Andreozzi

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4 P O P O L I E M I S S I O N E - F E B B R A I O 2 0 1 6

PRIMO PIANO Nel Venezuela del dopo Maduro

«D imenticare le diatribe e gliinsulti» ed «evitare l’appro-vazione frettolosa di leggi»

ma «concentrarsi sul Bambinello che staper nascere e che ci deve unire per co-struire il futuro che interessa tutti noi».A rileggerlo adesso, dopo lo scorso Na-tale, quest’appello alla civile convivenza,lanciato il 18 dicembre dalla Conferenzaepiscopale del Venezuela (Cev), è pre-monitore quasi quanto quello su Haiti,di qualche mese prima, lanciato dai pre-lati di Port-au-Prince. Circa la perla deiCaraibi, martoriata da un tremendo ter-remoto nel 2010, avevamo dato contodi come la Chiesa avesse preallertato suirischi dell’assurda scelta del 27 dicembre

come data per il ballottaggio. Appelloinascoltato ma - come volevasi dimo-strare – col risultato del secondo turnopresidenziale rimandato a data da de-stinarsi dal Consiglio elettorale haitianoche, se avesse ascoltato subito i gesuiti(i primi a dare l’allarme), avrebbe sceltouna data più in là con il tempo e non“stretta” tra Natale e Capodanno.Sul Venezuela, la speranza di Popoli eMissione è che, quando leggerete questoreportage, l’appello della Cev non siacaduto nel vuoto e la “ragionevolezza”e l’invito al dialogo abbiano avuto lameglio sulla polarizzazione politica cheoramai da troppi anni martirizza il quo-tidiano del popolo di Simón Bolívar.

L’ESORTAZIONE DEI VESCOVI«Noi vescovi del Venezuela reclamiamo

di PAOLO [email protected]

Il popolo di Simon Bolivar malato di inflazione

Il popolo di Simon Bolivar malato di inflazione

la pace», soprattutto in questo periododi Natale ma anche dopo, «e invitiamoal rispetto reciproco affinché nessungruppo nel bel mezzo di queste festivitàalimenti l’odio, la paura e battaglie ste-rili».Motivo di tanta preoccupazione daparte della Conferenza episcopale ve-nezuelana è l’esito delle elezioni parla-mentari del 6 dicembre 2015, che hannosancito una sconfitta senza precedentiper il chavismo. Vero è che tutti i son-daggi della vigilia davano tra l’80% el’88% il numero degli elettori desiderosidi «un cambiamento» e, dunque, nessunopuò dirsi stupito dal fatto che l’opposi-zione riunita intorno alla MUD – acro-nimo che sta per Tavolo per l’Unità De-mocratica – abbia conseguito la mag-gioranza qualificata dei due terzi del

Caracas (Venezuela).Ressa per acquistareun pollo nel Paesesudamericano,attanagliato da unagrave crisi economica.

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nuovo Parlamento venezuelano, con112 seggi, contro i 55 ottenuti invecedal PSUV, il Partito socialista unito delpresidente uscente Nicolás Maduro.A preoccupare la Chiesa cattolica sonostate le reazioni, subito dopo il voto,tanto di alcune frange più radicali del-l’opposizione – che ignorando che sitrattava di elezioni parlamentari hannosubito lanciato idee come il referendumper mandare a casa Maduro nel 2016 –quanto del chavismo più “magico” cheha estratto dal cappello dello stessopresidente un fantomatico “coniglio”,inventandosi il “Parlamento dei Comuni”cui dare «tutti i poteri per continuarela rivoluzione». Uno stratagemma pernon cedere il potere, insomma, puravendo perso la maggioranza parla-mentare.

UNA DEMOCRAZIA SUI GENERIS

Il problema è che se il Venezuela fosseuna democrazia “normale” – intendendol’aggettivo “alla Montesquieu”, ovverocon una divisione reale tra poteri legi-slativo, esecutivo e giudiziario e conun governo al pari dell’opposizionepronta a riconoscere sconfitte e vittoriecome parte del “gioco” – la presa diposizione dei vescovi del Paese suda-mericano sarebbe stata persino immo-tivata.Invece, purtroppo, così non è perché ilVenezuela – e lo sa meglio di qualsiasialtro il segretario di Stato Pietro »

Il Paese latinoamericano ha la più alta inflazioneal mondo con il 50% al mese e il 70% dellapopolazione vive in condizioni di povertà. L’expresidente Maduro ha perso le elezioni non permotivi ideologici ma per la dura vita quotidiana incui si trovano costretti oggi i venezuelani. La Chiesa svolge un importante ruolo dimediazione per evitare che la situazione socialeprecipiti e si arrivi a disordini gravi.

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PRIMO PIANO

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H indiyo Haji Mohamed, giornalista somala emadre di quattro figli, è stata uccisa a Mo-

gadiscio il 3 dicembre scorso. Aveva 27 anni edera una delle telecroniste della Somali NationalTv Station (Sntv), la televisione di Stato in cui la-vorava anche il marito e collega, Liban Ali Nur,assassinato il 20 settembre 2012 durante un at-tacco suicida in un ristorante della capitale. Lagiovane donna era nella macchina in cui erastato collocato un ordigno, esploso mentre at-traversava la zona centrale della città, chiamata“Chilometro 4”, e stava tornando a casa dopole lezioni della Somali International University(Siu). In seguito all’attentato non sono state fatterivendicazioni ma per lo “stile” dell’assassinio siè subito parlato di gruppi estremisti somali Sha-baab vicini alla filiera di Al Qaeda, responsabilidi simili attacchi contro politici e giornalisti.Omar Faruk Osman, segretario generale del Sin-dacato giornalisti della Somalia, ha dichiaratoche «il mostruoso assassinio di Hindiyo Haji Mo-hamed non fa altro che rammentare a tutti i ri-schi che i giornalisti corrono regolarmente nelnostro Paese». Anche la Federazione internazio-nale della stampa (Ifj) ha condannato l’assassi-nio, uno dei 110 della killed list mondiale dellevittime del 2015, chiedendo «che sia fatta lucesull’omicidio e che i colpevoli siano identificati epuniti». Cosa che appare difficile in un Paese indifficoltà dove la libertà di espressione è pocogarantita.In vista delle elezioni della prossima estate, si èriaccesa la guerra civile tra gli Stati federali delGalmudug e del Puntland che si contendonol’antica città di Galkayo. Ora che Hindiyo haperso la vita, anche a livello internazionale sicerca di far sì che del suo impegno non si perdamemoria. Jim Boumelha, presidente delle Ifj, hadetto: «Aveva perso il marito per colpa dellastessa, folle, violenza. Siamo vicini alla sua fami-glia ed in particolare ai suoi figli, che ora hannoperso entrambi i genitori. La Ifj continuerà il suoimpegno per garantire la sicurezza dei giornalistiin Somalia, che devono poter fare il proprio la-voro senza dover rischiare assurdamente la vita».

di Miela Fagiolo D’Attilia

SOMALIA: ILRISCHIO DI ESSEREGIORNALISTA

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

Parolin, che ha operato per anni comenunzio apostolico in quel di Caracas,per cercare instancabilmente il dialogotra le parti – una democrazia “normale”non lo è affatto.Al di là delle 20 elezioni svoltesi dal1998, quando Hugo Chávez vinse lasua prima presidenza, sino a quelledello scorso 6 dicembre, è infatti in-dubbio che dal 2005 ad oggi non c’èstata una sola sentenza di un tribunale– anche di prima istanza - che nonabbia favorito gli interessi del chavi-smo.Basti pensare alle decine di mandatidei leader dell’opposizione cassati dalsistema giudiziario per motivi ridicolio ai 77 prigionieri politici, tra cui unadecina di studenti colpevoli di «avereusato Twitter in modo improprio» e,per questo, da oltre un anno in statodi “arresto preventivo”, senza alcunprocesso. E che dire di VTV – così sichiama l’emittente di Stato venezuelana- una televisione controllata in modocosì ferreo dal governo che nel giornodelle elezioni è riuscita a fare unadiretta di 16 ore senza inquadrareneanche un candidato dell’opposizione?

IL SOGNO PER EL PUEBLO

Della politica urlata sul piccolo schermoo nelle piazze – a differenza di 15 annifa, quando Chávez era il “sogno per elpueblo” - oggi alla gente che vive neiquartieri poveri di Caracas (i cosiddettiranchitos, l’equivalente venezuelanodelle favelas brasiliane o delle villas ar-gentine) interessa poco o nulla.Qui - dove operano quotidianamente

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senza sosta preti di strada e suore sco-nosciute ma che «puzzano come le loropecore», per usare le parole di papaFrancesco - a preoccupare la gente è unPaese al limite del “disastro economico”,con un’inflazione che è di gran lunga lapiù alta al mondo, sfiorando ormai il50% al mese, ed una scarsità di beni diprima necessità che fa temere il disastroumanitario persino alle Nazioni Unite.Per questo Maduro ha perso, non permotivi ideologici.Insomma, se tra opposizione e governonon si arriverà al più presto ad un “com-promesso storico”, per cercare di risolverei problemi più gravi di quel 70% di ve-nezuelani che oggi sono “poveri” perloro stessa ammissione, un rischio altodi “disordini gravi” interni esiste, ed èciò che maggiormente teme proprio laChiesa, che per questo, come già in pas-sato, oggi si offre come mediatrice trale due parti contrapposte.

Palazzi fatiscenti nel quartierepovero (cosiddetto ranchito) dellacittà venezuelana di Mérida.

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Nel Venezuela del dopo Maduro

A lmeno 43.250 casi in 88 Stati. Nell’ultimorapporto della Convenzione internazionale

per la protezione di tutte le persone dallesparizioni forzate (ICCPED), si registranoancora migliaia di desaparecidos e un tristeprimato dell’Asia.In questo continente solamente la Cambogiaha ratificato la Convenzione adottata nel 2006ed entrata in vigore nel 2010. Secondo lamoglie del rapito Sombath Somphone, cheda 30 anni lavorava per lo sviluppo rurale delLaos, «l’Asia, attualmente, presenta il più altonumero di sparizioni, per lo più compiute daattori dello Stato». L’ICCPED, infatti, definisce«enforced disappearance» la scomparsa diun individuo causata dallo Stato o da elementia esso legati. In alcuni casi è considerataanche un crimine contro l’umanità.Ng Shui Meng, originaria di Singapore trasfe-ritasi poi in Laos con Sombath dopo gli studiuniversitari, è durissima verso l’Associazionedelle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), lacui presidenza nel 2016 è affidata proprio alLaos. In una recente intervista a The Diplomatspiega che, come insieme di nazioni, l’ASEANnon avrebbe fatto nulla e che solo il suoPaese di provenienza avrebbe cercato di otte-nere risposte sul marito rapito tre anni fa. Il15 dicembre 2012, l’uomo, che il 17 febbraiocompie 64 anni, fu fermato a un posto diblocco della polizia e prelevato da un furgonebianco verso un’ignota destinazione.Simile sorte è toccata al difensore dei dirittiumani thailandese Somchai Neelaphaijit, pre-levato nel 2004 a Bangkok da cinque poliziotti.Anche in questo caso è la moglie Angkhana amantenere viva la memoria e la ricerca delconsorte. Se da una parte i Paesi asiatici, e inparticolare il Pakistan, continuano a utilizzarediffusamente il metodo criminale della spari-zione forzata, dall’altra individui e organizzazionidi questi stessi luoghi stanno conducendouna strenua battaglia. Ciò che più conta èdarle voce. Come ha detto al Bangkok Post ilgiurista Sam Zarif: «È importante che i dirittidella vittima non spariscano con la vittima».

di Francesca Lancini

DESAPARECIDOSCON GLI OCCHI AMANDORLA

OSSERVATORIO

ASIA

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Il chavismo aveva sempre vinto con lasperanza che mettesse in cima alle suepolitiche di governo proprio quel 70%di popolazione sino ad allora escluso dalcorrotto sistema politico venezuelano.Senza dubbio ha fatto molto – dallecase popolari alle missioni educative esanitarie – ma ha commesso anche moltierrori, a cominciare dalla corruzione cheha sfiorato tanti suoi leader, creando lacosiddetta “boli-borghesia”, ovvero i“nuovi ricchi del regime” che, al di làdelle parole, si sono dimenticati del po-polo.Da quando Maduro è arrivato alla presi-denza, meno di tre anni fa, invece di al-largare la propria base di consenso coin-volgendo l’opposizione più moderata eammettendo alcune colpe, ha accusatodi “guerra economica” una lista infinitadi “nemici immaginari”. Per questo haperso e la speranza, della Chiesa e diPopoli e Missione, è che il messaggio chegli elettori-cittadini hanno voluto daretramite il loro voto, sia ascoltato da tuttiin Venezuela. Democraticamente e, magari,«costruendo nuovi ponti», per citareancora una volta papa Francesco.

LA BOLI-BORGHESIA«Sangue per strada ce n’è già troppo,ogni settimana – racconta frate Gustavo,un giovane domenicano che vive la suamissione tra i ragazzi più poveri di Ma-racaibo, riferendosi ai tassi di omicididel suo Paese, tra i più alti al mondo –ora speriamo che tutti i politici man-tengano quanto promesso in campagnaelettorale, nell’interesse collettivo deivenezuelani».

Il mausoleo doveriposano le spoglie diSimón Bolívar a Caracas.

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ATTUALITÀ Arabia Saudita e Iran: nuovi equilibri

di ILARIA DE [email protected]

La condanna a morte del predicatore sciitaNimr al-Nimr, da parte dell’Arabia Saudita, ha scatenato una rivalità regionale molto forte.Ma la vera spina nel fianco di Riad è l’Iran diHassan Rouhani. Di nuovo in auge eriaccreditato dal mondo intero, questo Iranormai libero dalle sanzioni economichespaventa la dinastia dei Saud. Preoccupata di un potere che non regge più.

G li assetti geopolitici in MedioOriente si stanno rapidamentemodificando. La rinnovata ostilità

tra Riad e Teheran (con un Iran riaccre-ditato dal mondo) cambia di nuovo lepedine sullo scacchiere internazionale.In realtà, ci dicono esperti ed analisti,quello lanciato nei giorni scorsi dall’ArabiaSaudita è un aut aut al mondo occi-dentale: re Saud ci sta sostanzialmentechiedendo di fare una scelta di campo.

Riadal collasso?

Riadal collasso?

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Donne sciite manifestano per lestrade della città di Qatif control’esecuzione del religioso sciitaNimr al-Nimr da parte delleautorità saudite.

Veduta della Mecca. L’Iran, successivamente all’esecuzione diNimr al-Nimr, ha sospeso il pellegrinaggio,accusando i sauditi di non riuscire agarantire la sicurezza dei fedeli.

L’alternativa concessa è tra un modellodi monarchia assoluta – la propria -dominata dal medievale credo wahhabita,e quello tutto sommato pluralista delrisorto Iran. A parlarne in questa intervistasono due esperti di geopolitica interna-zionale: il generale Giuseppe Cucchi,già direttore del Centro Militare di StudiStrategici e consigliere militare del pre-sidente del Consiglio e l’analista politicoNicola Pedde, direttore dell’Institute ofGlobal Studies (IGS) di Roma e direttoredella rivista Geopolitics of the MiddleEast. »

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Molto più credibile e politicamente seriodelle petromonarchie.E in grado di scalzare almeno sul pianopolitico gli alleati tradizionali. «L’ArabiaSaudita adesso – aggiunge il generaleGiuseppe Cucchi - vuole una definizioneprecisa di quali siano i suoi nemici equali i suoi amici». Ed ha iniziato a farela conta di chi, fuori e dentro la regionedel Golfo, la sostiene a tutto campo.Una volta rotto drasticamente con lapotenza iraniana, lo scacchiere apparediviso in due. «Sta a noi europei, eanche a noi italiani, non cadere nellatrappola dell’Arabia Saudita e non schie-rarci in modo netto». Dice Nicola Pedde.Tuttavia la difesa dei diritti umani ciimporrebbe almeno di fare delle durecondanne. Human Rights Watch in unreport scrive che l’Arabia Saudita, all’albadel 2016, ha perpetrato la peggioredelle esecuzioni di massa dal 1980.

CONDANNE A MORTE SPIETATEIn un solo giorno ha fatto fuori 47 per-sone, un trend che va avanti da anni eche l’Occidente (impegnato nel suo bu-siness con gli emiri, compresa l’Italiache ha varie attività commerciali inpiedi con Riad) ha più o meno sempreignorato. «Il potere della dinastia sauditasopravvive solo in quanto esprime unodegli islam più rigidi che esistano almondo: quello wahhabita - ricorda Giu-seppe Cucchi - L’accordo tra i Saud e iwahhabiti è questo: i monarchi rimar-ranno al potere fino a quando farannoespandere il credo wahhabita».Ma quanto ci deve preoccupare loscontro tutto politico (più che religioso)tra questi due Stati? Si rischia davveroun conflitto? Gli analisti ritengono chelo scontro sia regionale e che non con-durrà ad un vero e proprio conflitto.Eppure l’Iran ha reagito con determi-nazione alla condanna a morte del pre-dicatore sciita Nimr al-Nimr, giustiziatodai Saud. «La sospensione del piccolopellegrinaggio alla Mecca da parte del-l’Iran è stato un atto simbolico molto

molto grave! – spiega ancora Cucchi -Il messaggio è forse sfuggito al restodel mondo, ma l’Arabia Saudita lo hacòlto eccome! Accusandola di non riuscirea garantire la sicurezza dei fedeli, l’Iransta dicendo che il custode delle sacremoschee (ossia il re saudita) è in realtàindegno e incapace. Il governante in-degno deve essere rimosso e se necessariosottoposto anche all’uso della forza».E perché noi occidentali ci accorgiamosolo ora dell’estremismo wahhabita edel suo integralismo? «Perché l’ArabiaSaudita ufficialmente è sempre stataconsiderata “buona”», risponde il generale.Dove per buona si intende ricca e tec-nologica, padrona di pozzi petroliferi edelle leve della finanza. «Siamo andatiavanti per anni con una visione manicheadel mondo: i buoni e i cattivi». Categorieche andrebbero riviste e se possibilenon più applicate ad un universo-mondoche è invece complesso ed articolato;sfaccettato e da studiare a fondo. «Dob-biamo rinunciare ad avere amici per-manenti ed interessi permanentementecondivisi», ritiene Cucchi. «I sauditi hannoafferrato perfettamente i meccanismi

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ATTUALITÀ

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«L’Arabia Saudita e le monarchie delGolfo – scrive Pedde - considerano l’Iranuna minaccia esistenziale perché espres-sione di un modello politico-sociale par-tecipativo e moderatamente pluralista».Al contrario di quanto finora l’Europa egli Usa hanno creduto. Finalmente riac-creditato dalla comunità internazionale,dopo l’accordo sul nucleare, e liberodalle sanzioni economiche che gravavanosu di lui, l’Iran di Rouhani spaventa dimolto i regnanti sauditi. E con essi lapletora di Paesi del Golfo che uno aduno si stanno esplicitamente schierandocon Riad. A terrorizzare gli emiri è ilriavvicinamento occidentale ad un Iranfino a pochissimo tempo fa demonizzatocome il peggiore dei mali. Ecco perchéchiedono al mondo di scegliere.

L’IRAN INTERLOCUTORE SERIO«Il problema è che l’Occidente non èmai uscito dallo stereotipo che si eradisegnato sull’Iran: e nessuno riusciva afar capire ad Europa e Stati Uniti quantoin realtà quello fosse un Paese profon-damente mutato – argomenta NicolaPedde – e già molto moderno. Oggi si èdi fatto stabilito che l’Iran è il migliorinterlocutore possibile in quell’area».

Il presidente iraniano,Hassan Rouhani.

Salman bin Abdulaziz,re dell’Arabia Saudita.

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Arabia Saudita e Iran: nuovi equilibri

«Sono a Raqqa e ho ricevuto minaccedi morte, ma quando l’Isis mi arresteràe ucciderà sarà tutto ok, perché loro mitaglieranno la testa e io ho la dignità.Meglio che vivere sotto l’umiliazione diIsis».

L’ARABIA SAUDITA PERDE COLPIIl comportamento fuori controllo deisauditi ci dice altro: che l’Arabia Sauditaè un Paese in difficoltà. Sempre menocredibile ed economicamente alla lungainsostenibile. Con una limitata indipen-denza economica, che si basa unicamentesui pozzi di petrolio. «Ha una spesa mi-litare, anche per via del finanziamentoal jihadismo, e per il sostegno alla guerrain Yemen, molto molto elevata e sempremeno sostenibile – fa notare Pedde –Inoltre i prezzi del petrolio tenuti cosìbassi non fanno il gioco delle finanzesaudite». Collegando questa imminentecrisi economica all’eterno nemico ira-niano, il giornalista Antonello Sacchettiin un suo articolo fa notare che conl’Implementation day dell’accordo sulnucleare tra Iran e gruppo 5+1 comin-ciano ad essere tolte le sanzioni alla

di quello che è il mondo finanziariomondiale – spiega - ed hanno gestitomeravigliosamente bene l’epopea delpetrolio. Retrogradi per quanto concernel’impostazione della vita e della politica,non lo sono affatto sul piano economico.Sono loro che determinano ancora qualè il prezzo del petrolio».Eppure la modernità finanziaria cozzacontro un barbaro medioevo sociale eculturale. Che somiglia tanto alla barbariedell’Isis in Siria: nelle stesse ore in cui iterroristi dell’Isis, tra lo sdegno del mon-do, decapitavano una giovane bloggere giornalista siriana a Raqqa (la corag-giosa Raqia Hassan, 30 anni appena), isauditi tagliavano la testa ad un predi-catore sciita pacifista (l’innocuo Nimral-Nimr). Che «protestava per chiedereuna più equa redistribuzione dei profittipetroliferi, per combattere il settarismoalimentato dal regime saudita e perdenunciare l’autoritarismo delle mo-narchie del Golfo», dice Nicola Pedde.Quale delle due esecuzioni sia piùbarbara è duro giudicare. L’ultimo tweetdella giovane giornalista siriana, chescriveva sotto pseudonimo, è questo:

Repubblica islamica. «Fine dell’isolamentopolitico, ovviamente. Ma di lì a pocoavverrà soprattutto un’altra cosa che aRiad non piacerà affatto: Teheran im-metterà sul mercato circa un milione dibarili di petrolio in più al giorno, conl’obiettivo dichiarato di tornare ai livelliante embargo di 4,3 milioni di barili algiorno. Per Riad non è una questione diconcorrenza, ma di sopravvivenza».Insomma, si tratta di una monarchiache teme il confronto e l’isolamento.«Questi fattori hanno determinato perla prima volta in Arabia Saudita la ne-cessità di emettere debito. Il mercatofinanziario inizia quindi a temere lapossibilità di un collasso», concludePedde. E si torna al dilemma di sempre:l’alta finanza, che continua a dettarelegge e a dominare sulla politica, perfinoin ambito di relazioni internazionali.«Quanto a lungo riusciremo a consentireche sia la finanza a gestire e a manipolarele vite dei popoli?» è la domanda finaleche l’analista Nicola Pedde lascia senzarisposte. E che noi rilanciamo affinchéqualcuno possa prima o poi prenderneatto.

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morire di fame nel XXI secolo, strettinella morsa di un conflitto che nonpermette di intervenire per soccorrere ibambini?«Il Pam trasporterà cibo da Damasco aMadaya, sufficiente per un mese e de-stinato ad oltre 40mila persone, razionatoper 4mila famiglie, e pacchi di scortesufficienti per 20mila persone a Foah eKufraya da Homs», abbiamo letto sulsito del Pam, tirando un sospiro di sol-lievo. Al momento in cui scriviamo nonabbiamo la certezza che il convoglioabbia raggiunto tutte le città citate eche la popolazione siriana potrà davvero

là di alcune bufale mediatiche, una cosaè certa: nelle enclavi siriane al confinecon il Libano e in quelle yemenite lapopolazione locale vittima della guerrasoffre e muore. I bambini hanno man-giato per settimane solo decotti di fogliee acqua. Poi finalmente una buona no-tizia: il Programma alimentare mondiale(Pam), agenzia delle Nazioni Unite, ca-ricava camion con pacchi di riso e zuc-chero pronti a partire per le campagneattorno a Damasco e Homs. Per romperel’assedio disumano del regime di Assadalle città fulcro della Siria in guerra.Cosa è successo a Madaya? Si può

P er giorni e giorni sono circolatesui social media e sui siti delleorganizzazioni umanitarie foto

agghiaccianti di bambini dagli occhigiganti e le guance inesistenti. Immaginishock dei “morti viventi” e degli scheletridi Madaya, Foah e Kufraya in Siria. Maanche quelle di Tiaz in Yemen.Nel contempo, alcuni siti di controin-formazione minimizzavano le notiziemostrando foto ritoccate e falsi, ottenutisulla pelle dei poveri. In ogni caso, al di

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di ILARIA DE [email protected]

Morire di fame a Madaya

ATTUALITÀ

Ci sono città rurali assediate attorno a Damasco, dove icivili vengono lasciati morire di fame. A Madaya ladistribuzione del cibo è avvenuta il 18 ottobre scorso e poi di nuovo solo dopol’11 gennaio, da parte del Programma alimentare mondiale (Pam). L’assediodei civili è una vera e propria tattica di guerra mutuata dal Medioevo. Comecambiare il Diritto e fare in modo che i processi non siano più solo mediatici?

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Madaya, nel governatorato della Da-masco rurale. Dal 18 ottobre scorso,unico giorno di tregua concesso per ladistribuzione del cibo, la città è stran-golata dalla morsa di un assedio totale».Portare la gente a morire di inedia nonè un’arma nuova ma una tattica mutuatadal Medioevo. E l’episodio ha dei pre-cedenti: «Il conflitto nel conflitto neglianni Ottanta ha visto tattiche di assedioapplicate ai campi profughi palestinesi,in Libano, da parte delle milizie nellearee urbane con conseguenze moltosimili a queste», scrive James Denselowper Al Jazeera.

TRAPPOLE PER POPOLIL’assedio di Gaza è un altro evidenteesempio di come si possa esasperareuna popolazione, chiudendola in unatrappola senza scampo: nessun cordoneumanitario è permesso nella Strisciaquando Israele ciclicamente la bombarda.E in tempi “normali” Gaza soffre di unisolamento che la porta a morire lenta-mente.Il medico Pauline Cutting nel 1988 hascritto un libro “Bambini sotto assedio”,raccontando la morte dei palestinesinei campi di Bourj al-Barajneh in Libano.«Mentre i siriani lentamente muoionodi fame non dovremmo farci illusionisulle Nazioni Unite che sembrano inca-paci di prevenirlo», scrive Denselow. Gliaiuti potrebbero anche arrivare dal cielo,come pacchi-dono dell’aviazione bri-tannica? Il regime siriano avrebbe il co-raggio di abbatterli? La realtà è che leregole stesse del diritto internazionale(peraltro non scritto) vanno cambiate:è ora di tutelare davvero i civili e discrivere regole che poi siano rispettate.Pena dure sanzioni economiche e veriprocessi, non solo mediatici. L’informa-zione dovrebbe servire a denunciare enon a comminare una pena, che è invececompito della giurisprudenza interna-zionale. Indignarci attraverso la stampaè utile se poi questo ci predispone adun’azione effettiva, deterrente e punitivaverso chi viola i diritti umani.

mangiare riso, fagioli, bi-scotti, latte e assumerele medicine necessarie.Ma sicuramente la co-munità internazionale staintervenendo. Ci si ac-corge però sempre troppotardi dei “danni collate-rali” che i conflitti pro-vocano sulle popolazioniinermi. Perchè?

I GIORNI DI MADAYA«Camminare per stradaè estremamente perico-loso, ma bisogna uscirelo stesso per andare allaricerca di legna da ardereed evitare di morire con-gelati; oppure nei campiper trovare un po’ di erbae fiori da mangiare – silegge in una delle cro-nache dei giorni di Ma-daya - Molti bambinihanno perso un braccioo una gamba per aiutarei propri genitori in questilavori. Anche allontanarsidalla città è rischioso, senon praticamente im-possibile: uscire da Ma-daya significa morire permano dei cecchini o sal-tare sulle mine anti-uomo posizionate tutte

intorno al perimetro della cittadina».Contro quanto riportato da alcuni sitiweb che smontano l’allarme “starving”,morte per fame, Medici senza frontiere(Msf) scrive che il suo staff medico aMadaya ha identificato 250 personeaffette da malnutrizione acuta, «inclusidieci pazienti in pericolo di vita chehanno bisogno urgente di cure ospeda-liere». E il numero aumenta di ora inora. Msf fa appello al diritto di evacua-zione in caso di pericolo di morte e ri-corda che dal luglio scorso ad oggi «èstato imposto un assedio dalle forzedel governo siriano attorno alla città di

Il conflitto in Siria e la società civile sotto assedio

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I l numero di spettacoli che il clown MarcoRodari (in arte: Claun il Pimpa) ha tenuto

davanti ai bambini palestinesi della Striscia diGaza è enorme: «Impossibile ricordare quantimomenti ho passato con i bimbi gazawi (cioèabitanti di Gaza, ndr)! La cosa certa – scherzail clown, raggiunto da Popoli e Missione - èche dovrò passare ancora molti anni in quellaterra, perché là vivono più di mezzo milionedi bambini e, con l’aiuto di tutti gli altri clown,ci siamo promessi di donare un sorriso atutti». Da sei anni Marco Rodari, un giovane diLeggiuno (Varese), trascorre brevi periodi inquesta terra martoriata, come ospite dellaparrocchia latina di Gaza: dopo aver dato unamano al parroco nell’organizzare un oratorioben funzionante con tanti animatori, ha formatoaltri clown (cristiani e musulmani, senza di-stinzione) che lo aiutano nella missione di re-galare sorrisi e spensieratezza ai bambini diuna delle regioni più tristi della Terra. Fuoridai cancelli dei locali parrocchiali, raggiunge ipiù piccoli in ospedali, scuole, strade e si in-trattiene con loro a colpi di magia, «ovunquesia ben accetta un po’ di meraviglia», dice.Precisando: «La gioia di un sorriso va oltre lareligione».Claun il Pimpa non si è fatto spaventare dalladifficoltà della lingua: «Non servono le linguead un clown per comunicare: le parole a voltesono di troppo, rovinano la meraviglia. Però –confessa - a furia di stare con questi bimbi,sono loro stessi che mi hanno fatto un po’ discuola di arabo. Anche se devo riconoscereche sono un pessimo studente».Nella terra governata da Hamas, merci ecittadini non possono entrare né uscire, senon in casi eccezionali con permessi rilasciatidall’autorità israeliana. Qui, in una delle zonepiù densamente popolate del pianeta e con lapiù alta percentuale di bambini al mondo, chiha sei anni ha già vissuto tre guerre e subitosulla propria pelle la devastazione dei bom-bardamenti. Regalare un sorriso a questi bam-bini è riempire i loro occhi, vuoti e spauriti, diquella luce che fa tornare la voglia di vivere.

di Chiara Pellicci

A GAZA PER REGALARE SORRISI

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTE

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FOCUS Una riflessione del Segretario generale della Cei

L’espressione “ecologia integrale”ha radici profonde. Nell’inse-gnamento dei papi dell’ultimo

secolo risale anzitutto a quell’appello auna «conversione ecologica globale» lan-ciato da Giovanni Paolo II in una densacatechesi del gennaio 2001. Riascoltia-mone le parole: «Occorre stimolare e so-stenere la conversione ecologica, che inquesti ultimi decenni ha reso l’umanitàpiù sensibile nei confronti della catastrofe

di NUNZIO [email protected]

In questa analisi di monsignor Galantino, Segretario generaledella Conferenza episcopale italiana, emerge in tutta la suaampiezza la dimensione dell’ “ecologia integrale” necessaria adogni aspetto della vita umana sulpianeta. In un momentostorico delicato comequello attuale, bisognaessere coscienti chesolo integrandosi conil Creato, la dignitàumana potràscoprirsi accolta inun progetto che lavuole parte viva di ununiverso pulsante.

I volontariinternazionali,

soggetti di ecologiaintegrale

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senza risanare tutte le relazioni umanefondamentali» (nn. 118-119).È evidentemente il richiamo alla com-plessità ordinata delle dimensioni umane,collegate tra loro ed espresse in armoniacon il Creato. In un unico abbraccio,questa sensibilità tiene insieme moltepliciquadri di riferimento: c’è un’ecologiaeconomica, chiamata a considerare gliequilibri dello sviluppo a livello globale,e un’ecologia sociale, aperta alle dimen-sioni della solidarietà e dell’amicizia; c’èun’ecologia culturale, inclusiva rispettoalle differenze e alle interpretazioni, aisimboli e alle tradizioni, e c’è un’ecologiadella ferialità, che vive negli spazi dellavita quotidiana.“Ecologia integrale” è tutto questo insieme.In un momento storico in cui la diffidenzaverso gli integralismi può contaminarequesta idea, non dobbiamo stancarci diripeterne la verità: solo integrandosi conil Creato, la dignità umana potrà scoprirsiaccolta in un progetto che la vuole parteviva di un universo pulsante. L’ecologiaintegrale è un’ecologia che non funzionaa tratti, a intermittenza, a compartimentistagni. Non è – dice il papa – quell’ecologia«superficiale o apparente che consolidaun certo intorpidimento e una spensieratairresponsabilità» (n. 59), quasi bastassefare a gara a chi è più bravo a nongettar cartacce per dire di aver fatto ilproprio dovere. È qualcosa di molto »

verso la quale si stava incamminando.L’uomo non più ministro del Creatore,ma autonomo despota, sta compren-dendo di doversi finalmente arrestaredavanti al baratro. […] Non è in gioco[…] solo un’ecologia fisica, attenta atutelare l’habitat dei vari esseri viventi,ma anche un’ecologia umana che rendapiù dignitosa l’esistenza delle creature,proteggendone il bene radicale dellavita in tutte le sue manifestazioni epreparando alle future generazioni unambiente che si avvicini di più al pro-getto del Creatore».La globalità della conversione additatada papa Wojtyła è indice del suo riferirsia tutta la sfera dell’umano: “fare” ecologianon è soltanto un compito da svolgere“a tempo perso”, ma un impegno che siidentifica con l’edificazione a immaginedi Dio della figura umana nella storiadel mondo. È per questo che lo stessoGiovanni Paolo II poteva parlare delleimprescindibili «condizioni morali diun’autentica ecologia umana» (Centesimusannus, n. 38). Ed è ancora per questoche Benedetto XVI, quasi facendovi eco,ha inteso richiamare il nesso tra degradodella natura e la «cultura che modella laconvivenza umana» (Caritas in veritate,n. 51). Parliamo dunque di un’ecologiainteramente umana, concentrata sullaverità dell’uomo, nella totalità delle suedimensioni. È un’ecologia che “non sifa”, ma “si è”.

Monsignor NunzioGalantino, Segretariogenerale dellaConferenza episcopaleitaliana.

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PAPA FRANCESCO E L’“ECOLOGIA INTEGRALE”Nella sua esplicita citazione del modellofrancescano, l’enciclica Laudato si’ additalo stile di «un’ecologia integrale, vissutacon gioia e autenticità» (n. 10). In lineacon i suoi predecessori, papa Francescone esplicita le coordinate antropologiche:tale ecologia, infatti, «richiede aperturaverso categorie che trascendono il lin-guaggio delle scienze esatte o della bio-logia e ci collegano con l’essenza del-l’umano» (n. 11). Scrive il papa: «Non sipuò prescindere dall’umanità. Non cisarà una nuova relazione con la naturasenza un essere umano nuovo. Non c’èecologia senza un’adeguata antropologia.[…] Non possiamo illuderci di risanare lanostra relazione con la natura e l’ambiente

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FOCUSFOCUS

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sviluppa «secondo una trasformazionepersonale» si può parlare di impegnoefficace ed effettivo. E più ancora: «So-lamente partendo dal coltivare solidevirtù è possibile la donazione di sé in unimpegno ecologico» (n. 211).Il volontariato è precisa espressione diquesto orientamento virtuoso e consa-pevole. Fare volontariato significa semprefare della determinatezza delle propriescelte un dono. Ne può essere destinatariala società nel suo insieme, ma più spessoa beneficiarne sono gruppi marginalizzati,esperienze ferite dell’umano che diver-samente faticherebbero a trovare acco-glienza e solidarietà.Nella sua declinazione ecologica, ilservizio volontario è rivolto alla custodiadella casa comune, della quale intendevalorizzare l’unicità e la ricchezza. Esserevolontari per l’ecologia e l’ambiente èsempre un esercizio di responsabilità: èrisposta alla consapevolezza di aver ri-cevuto tanto, è impegno per la preser-vazione di un dono che riconosciamonon essere soltanto nostro.Lo abbiamo ascoltato più volte, ed èstato ripetuto anche durante il meeting

creativamente e legittimamente in questodovere di responsabilità. Risponde, perrestare ancora a quanto ci dice la Laudatosi’, all’esigenza di supportare in manieraconcreta e realistica quella pur necessariaeducazione ambientale che, pur essendochiamata a creare una “cittadinanzaecologica”, «a volte si limita a informaree non riesce a far maturare delle abitu-dini». Solo quando la prassi ecologicanasce da «motivazioni adeguate» e si

più grande, e al contempo di molto piùprofondo e radicale: è una prova dell’es-sere, più che dell’agire; è l’esperienzaconfortante di abitare spazi e tempi di-latati; è sentirsi ovunque responsabili diuna «casa comune» di cui, spesso, sem-briamo aver perso le chiavi.

VOLONTARIATO E DOVERE DI RESPONSABILITÀL’esperienza del volontariato si innesta

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Una riflessione del Segretario generale della Cei

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cessariamente integrale, nel senso cheha per oggetto e per soggetto l’uomo,la totalità delle sue dimensioni, la veritàpiù profonda e indisponibile del suo es-sere. Si potrebbe anche dire che ideal-mente l’impegno volontario di un cri-stiano non è mai part-time: è impegnototale anche nel tempo, è dedizione du-ratura, senza riserve. Questo non significache non risenta delle naturali limitazioninella disponibilità degli individui, ma inlinea di principio non si lascia determinareda compromessi, se sono in gioco la di-gnità dell’altro e l’autenticità del servizioalla sua umanità. Non fa meraviglia cheun’espressione qualificatissima di taleservizio scelga deliberatamente di esten-dersi oltre ogni confine di nazionalità,lingua, cultura e tradizione. Un volon-tariato internazionale esprime propriol’universalità – vorrei dire: la cattolicità– del dono, nella lucida consapevolezzache il destino dei popoli, delle moltepliciculture e delle complesse società chevivono sul nostro pianeta è sempre in-trecciato. La finalità di questo volonta-riato non è servire un uomo, o un gruppodi uomini, ma servire l’uomo.

Non c’è quindi spazio per l’opzionalitàun tragico luogo comune identifica ilvolontariato con qualcosa di accessorio,di sostituibile, di non necessario. Il vo-lontariato “da salotto”, quello che si facome espressione di carità a basso prezzo,quello che è unicamente volto a pacificarela coscienza dinanzi ai drammi e allecontraddizioni del mondo, non ha nullaa che fare con il servizio integraleall’uomo negli spazi e nei tempi cheesso abita.Il vero volontariato fa piuttosto casacon l’uomo: lo visita, lo trova e lo scovanegli anfratti che la storia gli ritaglia;siede affianco a lui, mangia, lavora,studia, sogna, soffre con lui; e se il tettoche ha sulla testa non è solido, lo aiutaa ripararlo. Ma forse che fare casa, co-struire, custodire, restaurare la casa del-l’uomo non sia in fondo il senso più ge-nuino dell’ecologia? Al di là dell’immediatoimpegno per l’ambiente, non vi è forse– nella prospettiva integrale che abbiamotracciato, con papa Francesco – la doppiaesigenza di uscire incontro all’uomo e diabitare con lui?Uscire e abitare sono due delle coordinateche il recente Convegno di Firenze ci hadonato. Esse convergono nella dinamicache tiene vivi il volontariato internazionalee il suo slancio ecologico. Si tratta di unimpegno totalizzante, di una responsa-bilità avvincente ed esigente. Per un cri-stiano, è la naturale conseguenza dell’averpreso sul serio il monito di Gesù, per ilquale «ogni volta che (non) avete fattoqueste cose a uno di questi miei fratellipiù piccoli, (non) l’avete fatto a me» (Mt45,41-46). Quell’«ogni volta» non lasciaspazio ad alibi. Non parla di una tantum,ma è chiarissimo e provocante: ognivolta l’amore chiama, ogni volta c’è unacasa da abitare, da restaurare, da custodire,da rallegrare della gioia di Dio. L’ecologiadi Dio è in quell’ogni volta: senza riserve,senza omissioni, senza risparmio di energiee di risorse. Perché «chi fa opere di mi-sericordia, le compia con gioia» (Rm12,8).

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di Parigi sul clima: potremmo davveroessere l’ultima generazione ad esserechiamata in causa per un cambiamentoglobale. Dopo, potrebbe essere troppotardi. Nella sua azione di gratuità, il vo-lontariato esprime proprio la convinzionedi essere destinatari di un appello estremo:esso non è soltanto un ultimatum, ma èanche un invito a prendere consapevo-lezza in maniera decisa e radicale diquella che da più parti viene intesacome la transitività del dono: abbiamoavuto in eredità la Terra dai nostri padri,siamo chiamati a riconsegnarla (perlo-meno intatta, se non migliorata) a chiverrà dopo di noi. Di padre in figlio, didono in dono, questa catena virtuosaproduce vita: è generativa. E lo è ancorpiù se si considera la proporzione dellascito, che non riguarda solo questo oquel contesto locale, ma ha estensioniplanetarie.

IL VOLONTARIATO DI ISPIRAZIONE CRISTIANAL’ispirazione cristiana ha effetti tutt’altroche secondari in quest’esercizio di gra-tuità. Un volontariato cristiano è ne-

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L’INCHIESTA Guerra ambientale in Amazzonia

mundo dos Santos Rodrigues, è statoucciso mentre ritornava in moto a casasua, nella città di Bom Jardim. Anche lamoglie, Maria da Conceição, che par-tecipava dello stesso Consiglio, è stataraggiunta dagli spari, ma è sopravvissutae si trova oggi in un luogo segreto einserita nel programma speciale di pro-tezione dei testimoni.

PER LA DIFESA DELL’AMBIENTERaimundo era ben conosciuto per ilsuo lavoro a difesa dell’ambiente e deidiritti della comunità di Brejinho Riodas Onças II, di cui presiedeva l’asso-ciazione degli abitanti. Tanto che -ironia della sorte - «nel 2014 avevapartecipato a un laboratorio per la pro-tezione dei difensori di diritti umaniorganizzato in collaborazione con laong carioca Justiça Global», come ricordaXoán Carlos Sánchez Couto, membrodella rete Justiça nos Trilhos (Sui binaridella Giustizia).

N ella riserva biologica del Gurupisi sta combattendo una violentaguerra ambientale. In questa

area del Nord-est del Brasile, grandepoco più di 271mila ettari, l’unica leggein vigore è quella del più forte. Per ac-cedere alla zona ci vuole la scorta deimilitari. E si continuano a registrareomicidi, minacce, persone in fuga. Oltre,naturalmente, agli alberi abbattuti, alleporzioni di foresta che scompaiono daun giorno all’altro e alle specie di animaliuniche al mondo a rischio di estinzio-ne.Questo ultimo tratto di Amazzonia so-pravvissuto nello Stato del Maranhão,tanto importante per l’ambiente cheuna legge del 1988 ne aveva stabilitola “protezione integrale”, è diventato ilFar West brasiliano. In teoria non cipotrebbe vivere nessuno, eppure oggi il

40% del suo territorio è occupato: circa4mila persone abitano dentro i confinidella riserva, sono attive una ventinadi aziende agricole che allevano be-stiame, mentre di notte si aggiranocacciatori alla ricerca di animali rari darivendere sul mercato clandestino. In-somma, una situazione fuori controllo.Tanto che l’Istituto Chico Mendes diConservazione della Biodiversità (ICMBio),l’autorità impegnata ad assicurare il ri-spetto delle regole, ha messo a puntouna controffensiva che prevede persinol’uso di armi come sistema di protezione.Una strategia che è ben spiegata in undocumento “confidenziale”, come ri-portato a caratteri cubitali su ognunadelle 30 pagine da cui è composto, sucui Popoli e Missione è riuscito a metterele mani.L’escalation di violenza ha avuto unabrusca accelerazione a metà 2015. Loscorso 25 agosto un consigliere del-l’ICMBio della riserva del Gurupi, Rai-

di MARCO [email protected]

Nel Nord-est del Brasile i traffici di legnami mettono arischio l’intero ecosistema di questa zona dello Stato delMaranhão. Minacce, omicidi, fuga di indios e instabilitàsono il risvolto sulla comunità sociale dell’arricchimentodei fazendeiros. E intanto continua il traffico di camioncarichi di tronchi di alberi centenari, raccolti tra gli ultimirimasti nella foresta Amazzonica del Maranhão, con iltacito placet di alcuni parlamentari a tutti i livelli digoverno e di molti sindaci dei municipi interessati.

Lo spaventoso scenario della foresta derubata

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di famiglie in tutto, decisero di scapparein tutta fretta dalla riserva.

TRAFFICI ILLEGALIE così arriviamo all’oggi. Queste personesono vittime dei commercianti di le-gname. Gli eventi degli ultimi mesi, in-fatti, hanno cambiato per sempre leloro vite: nessuno è potuto ritornarealla riserva, mentre tanti hanno accettatola proposta compensatoria dell’Istitutonazionale di colonizzazione e riformaagraria (INCRA), che ha offerto lorouna nuova terra nel comune di Parna-rama, molto lontano dalla città di Bu-riticupu, dove hanno le loro origini. Inogni caso, comunque, tutti hanno persoil fazzoletto di terra che coltivavano edovranno lavorare sodo per ricostruirsiuna vita.In seguito ai fatti dell’agosto delloscorso anno, diverse organizzazioni na-zionali e internazionali hanno denunciatola situazione. In una nota pubblica la

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Rete ecclesiale Pan-Amazzonica sotto-linea che «niente è fatto per colpire ilmotore economico di questa organiz-zazione criminale: le segherie, che con-tinuano in pieno funzionamento, rice-vono tutti i giorni decine di camioncarichi di legname illegale». Secondo laRete Pan-Amazzonica, inoltre, «i traffi-canti di legname (principalmente quellidi Buriticupu) formano un’estesa orga-nizzazione criminale, con ramificazioniin vari municipi e agenti infiltrati invari organi pubblici, che sorregge miliziefortemente armate e disposte a spararesu chi osi affrontare l’impero della leggedella forza, che è attualmente ciò chesta regolando questa porzione di Brasile».Risultato? «Il costante traffico di camioncarichi di tronchi di alberi centenari,raccolti tra gli ultimi rimasti nella forestaAmazzonica del Maranhão, continuanoa essere il paesaggio urbano più fre-quente a Buriticupu». E tutto questo,conclude la nota, «con l’appoggio dialcuni parlamentari a tutti i livelli digoverno e di molti sindaci dei municipiinteressati».Da ormai diverso tempo, inoltre, l’azionedei trafficanti di questa regione colpisceanche le popolazioni indigene locali (lariserva del Gurupi è circondata dalleterre Alto Turiaçu, Awa e Carú). L’ultimoepisodio in ordine di tempo risale alloscorso dicembre, quando la ong SurvivalInternational aveva denunciato che«gang di trafficanti di legname sono »

La comunità di Raimundo, che avevaalle spalle una lunga storia di lotta perla terra, si era installata nella riserva ri-spettando le regole dell’ICMBio e aiu-tando a preservare la foresta nativa.Questo comportamento, però, non an-dava bene a tutti. Non piaceva allepersone della zona che vivevano ta-gliando alberi e vendendo legname allesegherie, perché sospettavano che Rai-mundo stesse denunciando i loro traffici.E non piaceva neppure a un grande fa-zendeiro della zona, che avrebbe volutoche tutti quei contadini se ne andasseroper fare spazio ai suoi allevamentibovini. Inoltre, secondo i racconti di al-cuni testimoni, nello stesso giorno incui fu ucciso Raimundo ci fu un secondoomicidio. Questa volta la vittima sarebbestato un non meglio identificato Jessé,fatto fuori nella stessa zona. Di frontea questa situazione di pericolo immi-nente, gli abitanti della comunità diBrejinho Rio das Onças II, una trentina

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responsabili degli in-cendi nelle aree indi-gene del Maranhão»,appiccati «per forzaregli indigeni ad abban-donare le proprie ter-re».

SITUAZIONE FUORI CONTROLLOIn generale, un’analisiparticolareggiata dellasituazione si trova nella“Pianificazione opera-tiva del controllo nellaRiserva biologica delGurupi e dei suoi din-torni”, un documentoriservato scritto a fine2015 dall’ICMBio. Quisi trova la confermadi quanto la situazionesia fuori controllo edelle conseguenzesull’ambiente. I controllori della riservaelencano una serie di piante e animalia rischio estinzione, tra cui la specieGuaruba guarouba, l’uccello simbolo

del Brasile. E fanno la lista di tutte lepratiche illegali che stanno eliminandola biodiversità nella riserva: l’aperturadi strade nel mezzo della foresta; l’ab-

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L’INCHIESTA

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A l confine tra Macedonia, Kosovo eAlbania c’è uno dei massicci più impor-

tanti della penisola balcanica, i Monti Šar(Šar Planina). Non molto conosciuti nelresto d’Europa, sono uno dei patrimoni na-turali più preziosi del Vecchio continente. IŠar sono ricchissimi di vegetazione e tra iboschi di pini macedoni (Pinus peuce) e dipini bosniaci (Pinus heldreichii) vive ancorala lince dei Balcani (Lynx lynx balcanicus,una sottospecie della lince eurasiatica Lynxlynx). Immensa è anche la memoria culturaleche si nasconde tra questi monti: uno studiodell’United Nations Environment Programme(Unep) ha ricordato che la regione è riccadi sorgenti, fiumi, cascate, rilievi glaciali, eche «l’eccezionale biodiversità di questazona è dovuta alla combinazione di carat-teristiche dei Balcani e del Mediterraneoche ne determinano la ricchissima flora efauna, che comprende un gran numero dispecie rare, endemiche e minacciate». LaMacedonia, però, non garantisce la necessariaprotezione a questo paradiso ancora in-contaminato. Nel mese di agosto delloscorso anno inondazioni e smottamentihanno prodotto vittime e danni gravi e il di-sboscamento illegale è considerato uno deifattori della catastrofe. Unite dallo slogan“Friends of Šar”, alcune ong di Tetovo e Te-arce, insieme alla Macedonian EcologicalSociety (Mes), stanno raccogliendo firmeper la costituzione in Macedonia di un parconazionale. Il progetto è affiancato dalla te-desca Euronatur Foundation e finanziatodalla German Federal Environmental Foun-dation. Frosina Pandurska-Dramikjanin, re-sponsabile del progetto per Mes, ha dichia-rato: «Il valore ambientale dei Monti Šar ècosì grande che la necessità di protezione ènata molti anni fa. Esperti e ricercatori ma-cedoni sostengono che i due terzi della bio-diversità su tutto il territorio del Paese èconcentrata in quest’area, quindi la necessitàdi protezione è fondamentale».

di Roberto Bàrbera

ECOSISTEMA A RISCHIO INMACEDONIA

OSSERVATORIO

BALCANI

L’Onça Pintada, uno degli animali a rischioestinzione che vivononella riserva biologicadel Gurupi.

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battimento degli alberi nativi; i vastiincendi che mirano alla creazione dipascoli per le mucche; la nascita diaree di “occupazione permanente”, spes-so per l’allevamento di bovini (attivitàresponsabile di oltre la metà delle emis-sioni brasiliane di gas che contribuisconoall’effetto serra); la caccia.Per contrastare l’azione dei trafficanti,il documento si chiude con un piano dicontrasto a breve, medio e lungo termineche sembra un’offensiva militare. Oltrea studiare i sistemi più efficaci per di-struggere i macchinari dei trafficanti erendere inutilizzabile il legname giàpronto ad essere portato via, questarelazione descrive le modalità per re-cuperare le terre occupate illegalmentedai commercianti e dai fazendeiros,con tanto di previsione di armi e mezzi

che dovranno essereutilizzati. Non pos-siamo pubblicare idettagli dello scenarioprogettato per nondare un vantaggio allarete criminale. Ma perfarsi un’idea può es-sere utile riportaredue parole con cuil’ICMBio descrive larealtà attuale: si trat-ta, scrive l’ente pub-blico, di uno «scenariospaventoso».

Guerra ambientale in Amazzonia

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L a speranza che dopo 52 anni laColombia riesca finalmente a liberarsi

dal conflitto più sanguinoso ed anticodell’America Latina – quello tra lo Stato e laguerriglia delle Farc, che ha già causato240mila vittime – è oggi più concreta adetta di tutti, compresa la Chiesa cattolica.Trovato, infatti, l’accordo tra le parti lo scor-so dicembre sul risarcimento alle vittime,con un tribunale speciale che giudicherà,senza possibilità d’appello, chiunque si siamacchiato di gravi crimini contro l’umanità,manca adesso solo la firma finale sullasmobilitazione degli oltre 7mila uomini edonne armati delle Forze armate rivoluzio-narie della Colombia, oltre all’ok delle dueparti in causa. Secondo il presidenteManuel Santos, la scadenza entro la qualedovrebbe annunciarsi questa pace storicache, se raggiunta, rappresenterebbe davve-ro un punto di svolta senza precedenti peril Paese sudamericano, sarà il prossimo 23marzo. Di diverso avviso le Farc che, pocoprima dell’ultimo Natale, hanno raggelatole attese di Santos per bocca del loro nego-ziatore all’Avana, Jesus Santrich, secondo ilquale «ci vorranno ancora almeno sei mesiprima di siglare l’accordo di pace definiti-vo». Che, tradotto in date, significa la fine digiugno 2016. Difficile che, con negoziati ini-ziati nell’ormai lontano 2012, Santos, chesulla pace punta gran parte del suo patri-monio politico, s’irrigidisca per pochi mesi.Anche perché, nel frattempo, stanno conti-nuando i tentativi d’includere nell’accordoanche l’Esercito di liberazione nazionale(ELN) nonché il secondo gruppo guerriglie-ro più importante della Colombia. Oltre aCuba, che ospita la sede dei negoziati, inprima linea per un esito positivo del conflit-to che ha causato oltre cinque milioni dirifugiati nell’ultimo mezzo secolo, anche lediplomazie di Norvegia, Venezuela e SantaSede.

di Paolo Manzo

COLOMBIA, VERSOL’ACCORDO CON LE FARC

OSSERVATORIO

AMERICALATINA

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Veduta della città di Morelia.

S C A T T I D A L M O N D O

MISIONERO DELLA MISERICORDIA

«México te recibe con los brazos

abiertos» e «Bienvenido, Misio-

nero de la Misericordia y de la Paz». Lescritte di saluto campeggiano ovunquetra la folla che accoglie papa Francescoall’aeroporto internazionale “Benito Juàrez”di Città del Messico. Il quarto pellegrinaggioin America Latina di papa Francesco hacome meta il Messico che, con i suoi117.410mila abitanti, è la seconda nazionedel continente dopo il Brasile con il maggiornumero di cattolici. È il settimo viaggioapostolico di un pontefice nel Paese che,dopo le cinque visite di Giovanni Paolo IIe quella di Benedetto XVI, riceve il terzopapa della sua storia, dal 12 al 18 febbraio.«La visita del papa in Messico durantel’Anno della Misericordia ci conferma nellafede e si pone al servizio concreto dellagiustizia, del diritto e della pace», avevanoscritto nel dicembre dello scorso anno ivescovi messicani in una lettera ai fedelidel Paese, per esprimere le speranze su-scitate dal viaggio papale. I vescovi sisono detti certi «che la presenza del SantoPadre ci confermerà nella fede, nella spe-ranza e nella carità, aiuterà la Chiesa aproseguire nella missione permanente, eincoraggerà credenti e non credenti a im-pegnarsi nella costruzione di un Messicogiusto, solidale, riconciliato e in una paceche renda possibile a tutti uno sviluppointegrale, rispettoso dell’ambiente». E an-cora, la Conferenza episcopale messicanaha messo in luce le numerose situazioniche ledono la dignità delle persone: «Cipreoccupano la possibile legalizzazionedella marijuana, il deterioramento dell’am-biente, l’ineguaglianza sociale, l’aumentodella povertà, il calvario dei migranti».In questo contesto l’arrivo del papa è vis-suto da tutto il popolo messicano comeun segno di novità e speranza. Non acaso il primo giorno del viaggio è segnatoda una solenne celebrazione nella basilicadella Madonna di Guadalupe, amatissimapatrona del Messico. Dopo la visita al-l’ospedale pediatrico “Federico Gòmez” el’incontro col mondo della cultura nel- »

(Segue a pag. 25)

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A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di MIELA FAGIOLO D’[email protected]

Basilica della Madonnadi Guadalupe a Città delMessico.

PAPA FRANCESCO IN MESSICO

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S C A T T I D A L M O N D O

La Cattedrale di San Cristóbal de las Casas.

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della città di Morelia. In chiusura del viaggio apostolico, l’ap-puntamento è il 17 gennaio a Ciudad Juàrez, città violenta esimbolo delle periferie del mondo, preda delle organizzazionicriminali dedite al traffico di droga, ai rapimenti, alle violenzesulle donne e alla tratta dei clandestini. Sulle rive del fiume RioGrande corre la frontiera tra Messico e Stati Uniti e i collegamenticon la città texana di El Paso sono continui. Secondo lestatistiche, Ciudad Juàrez è una delle città più violente al mondo,davanti a Miami, Caracas e New Orleans. Qui i flussi migratorisono da decenni una realtà quotidiana e la vita di un uomo infuga verso il futuro appartiene a quella “cultura dello scarto”che papa Francesco non si stanca mai di denunciare, ad ognilatitudine.

l’Auditorium nazionale di Città del Messico, lunedì 15 febbraiopapa Francesco “abbraccia” le comunità indigene del Chiapas aSan Cristòbal de Las Casas. Un abbraccio condiviso nelpomeriggio, con le migliaia di famiglie riunite nello stadio diTuxtla Gutiérrez, una folla festante di persone che da tempo sistanno preparando a questo evento nelle 93 diocesi in cui èdiviso il territorio nazionale. Alla base dell’animazione pastoraleè l’indicazione che viene dal papa stesso e cioè che il "sogno" diDio per gli uomini è che tutti siamo parte di una sola famiglia. LaChiesa è la casa in cui si forma, mediante la fede, una grandefamiglia che è presente nelle Chiese particolari.Il 16 febbraio tocca ai giovani gridare la loro gioia al papaargentino, ammassati nello stadio “Josè Maria Morelos y Pavòn”

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PAPA FRANCESCO IN MESSICO

La Vergine di Guadalupe.

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Un goal contro lUn goal contro lP arlare di calcio nella kurda Erbil, terza città dell’Iraq, con oltre un milione di abitan-

ti, è una delle vie per rimanere attaccati ad una dimensione umana, in un contestocaratterizzato dagli orrori della guerra. La vicinanza con il califfato dell’Isis non ha scal-fito l’amore per il football. L’Erbil Sport Club è la squadra più titolata del campionato ira-cheno. E anche qui c’è un pezzo d’Italia. Il responsabile tecnico della pianificazione gio-vanile è, infatti, il sardo Giuseppe Murgia. Ad Erbil, città capoluogo del governatoratoomonimo e della regione del Kurdistan iracheno, Murgia è arrivato alcuni mesi fa. Un’espe-rienza molto significativa da un punto di vista professionale e, soprattutto, umano.Da Giuseppe Murgia a Fabio Tricarico, che ad Erbil è il promotore di una scuola cal-cio. Un altro modo per ribellarsi alla guerra e al terrore. Ex centrocampista di Monzae Torino, 45 anni compiuti nel novembre dello scorso anno, Tricarico ha riunitonell’Erbil Sport Academy ben 250 bambini, molti dei quali figli di miliziani. Da gioca-tore, Tricarico ha vestito anche le maglie di Spezia, Mantova ed Empoli (qui trovò inpanchina Luciano Spalletti). Così, alla chiamata dell’ingegner Ruggero Guanella, datempo in Iraq per impegni professionali, l’ex incontrista del Toro ha detto sì, giungen-do ad Erbil.

Il football riesce a dareuna dimensione umana aigiovani iracheni e siriani,

dove la guerra e lemacerie non riescono a

spegnere la voglia digiocare e di vivere dei

piccoli campioni in erba.

I piccoli allievi della scuolacalcio di Fabio Tricarico, excentrocampista della quadre dicalcio italiane, Monza e Torino.

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la guerrala guerra

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PICCOLI CALCIATORI GIOCANOQuando l’Isis prese Makhmour, posizio-nandosi a poche decine di chilometri dallacittà, i primi a fuggire, nel luglio 2014,furono tre giocatori spagnoli: VictorManuel, Rubyato Borja e Jorji Gotor. Così,senza i tre iberici, l’Erbil dovette riporre nelcassetto le velleità di imporsi nellaChampions League asiatica, via maestraper disputare il Mondiale per Club, con lapossibilità di confrontarsi con il Barcellonadi Messi e Neymar.Le forze di sicurezza peshmerga hannocercato di evitare che la violenza della sol-dataglia del Califfato arrivasse ad Erbil.Mosul, città in mano all’Isis, è ad appena

80 chilometri di distanza. Ad Erbil la guer-ra si percepisce in ogni angolo. «Sonoorgoglioso – ha dichiarato Tricarico aTuttosport – di aver dato il mio contributoper regalare un po’ di serenità a gente chevede cose brutte e che, tuttavia, è piena dientusiasmo. Qui c’è una voglia pazzescadi calcio». Mezzi materiali pochissimi,voglia di imparare tanta, propensione allamento praticamente inesistente. A farglida interprete c’è un ex nazionale iracheno,che vive a Venezia: Schiwan Zengana. Lafascia anagrafica dei piccoli componentidella scuola calcio di Erbil va dai sei ai 16anni ed è il primo settore giovaniledell’Iraq. Lo spirito di sacrificio dei piccoli

calciatori è molto elevato. «Spero chequalcuno di loro possa un domani arriva-re in Europa – ha affermato Tricarico - conla speranza di coltivare il suo sogno, nonsolo calcistico». Riaffiora una frase delgrande scrittore uruguaiano EduardoGaleano: «Come spiegherei la felicità adun bambino? Gli darei un pallone e lo fareigiocare a calcio».Si continua a tirare calci ad un pallone neicampi polverosi kurdi, nei bar non siperde occasione per guardare le partitedel calcio spagnolo, inglese, tedesco eitaliano. Al termine, con lo spirito rinfran-cato da un’ora e mezza di passione spor-tiva, si spengono le televisioni e si tornaalla guerra, imbracciando le armi per nonlasciare sguarnito il fronte occidentale delKurdistan, sottoposto agli assalti dei mili-ziani del vicino Stato Islamico. Difficiletrattenere i giocatori europei. La guerracontro l’Isis ha portato nel Kurdistan oltreun milione e 300mila rifugiati siriani. Ognisforzo di natura economica, pertanto, siè spostato giustamente sul versante del-l’accoglienza. Per larghi tratti dello scon-tro con il califfato, i kurdi hanno interrottopraticamente da soli l’avanzata dell’Isis intutto l’Iraq. «Eppure, quando giochiamocontro una squadra irachena, ci fischia-no», afferma Safin Kanabi, presidentedella Federazione calcistica del Kurdistan.

NELLA CITTÀ FANTASMA DI KIRKUKA Kirkuk si cerca di resistere. Quando èiniziata la guerra contro lo Stato »

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Islamico, è diventata una città fantasma.Ma il Kirkuk Football Club non si arren-de. Nella rosa di giocatori c’è anche ilnigeriano Sanday, soprannominato “latigre”, che a differenza dei tre spagnolidell’Erbil ha deciso di restare pur conuna decurtazione contrattuale moltoconsistente: da 10mila dollari l’anno anove dollari al mese. Tra Iraq e Nigeria,in questo momento, c’è poca differenza:da una par te l’Isis, dall’altra BokoHaram. «Puoi morire ovunque e sempreper colpa dello stesso terrorismo -aggiunge Sanday - Dopo aver percepitolo stipendio si pensa ad allestire una gri-gliata per stare tutti insieme, cercando didimenticare per un attimo la guerra.Giochiamo per restare vivi dentro». LaFederazione calcistica kurda, con sede aErbil, non è affiliata alla Fifa. Al momen-to non si può parlare di nazionale, masoltanto di selezione. Nel 2009 ilKurdistan è giunto secondo nella Coppadel Mondo dei Paesi non riconosciuti,centrando la vittoria tre anni dopo, incasa, battendo in finale la selezione diCipro Nord. Per i kurdi, avere una squa-dra nazionale riconosciuta dalla Fifa, ilmassimo organismo calcistico mondia-le, potrebbe diventare uno strumentodiplomatico di grande importanza.L’obiettivo è par tecipare alla Coppad’Asia del 2019, in programma negliEmirati Arabi Uniti. In tanti sperano in unKurdistan indipendente, così da prende-re parte a tutte le competizioni interna-zionali, non solo nel calcio.

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regime di Assad. L’ex portiere della nazio-nale giovanile siriana, AbdelbassetSaroot, soprannominato “canarino”, tra ileader del sollevamento della città diHoms, inizialmente unitosi all’Isis, è pas-sato ad un gruppo affiliato ad Al Qaeda. Ilfronte degli oppositori di Assad vedeanche Omar al-Soma (che fece sventola-re la bandiera dei ribelli durante una par-tita) ed il giocatore più esperto dellasquadra, il portiere Mosab Balhous, arre-stato nel 2011 con l’accusa di aver forni-to rifugio e sostegno a dei ribelli armati.Tra le storie più belle c’è quella diMohammed Jaddou, considerato tra imigliori talenti under 17 siriani. Jaddou èil capitano della squadra. Alcuni mesi fa,ha deciso di lasciare la Siria, attraversan-do la Turchia, il Mediterraneo e l’Italia perrecarsi in Germania. Nel suo Paese sonorimasti la madre e i fratelli. La traversatain mare l’ha affrontata a bordo di unguscio di noce a malapena galleggiante,stringendo la foto di un suo compagno disquadra, il 15enne Tarek Ghrair, morto aHoms, vittima dei mortai. In Germania hatrovato posto nel Ravensburger, un club

calcistico militante nella quinta divisionetedesca. Jaddou sogna di giocare inBundesliga, il massimo campionato teu-tonico, magari con la maglia del BayerLeverkusen con cui ha sostenuto un pro-vino.

I GIOCATORI IN FUGA DALLA SIRIAAnche in Siria il calcio sopravvive inmezzo alle tragedie e alla guerra. Lanazionale siriana punta a qualificarsi allaCoppa del Mondo 2018. Sono appena trei giocatori siriani a militare nel campiona-to della Siria, gli altri sono sparsi inOman, Qatar, Iraq, Libano, ArabiaSaudita, Turchia e Bosnia. La nazionale sisfalda continuamente, tra giocatori chefuggono all’estero ed altri che perdono lavita, come Youssef Suleiman, vittima diun colpo di mortaio. Alcuni stadi sonodiventati basi militari o centri di detenzio-ne. Altri giocatori hanno detto no allamaglia della nazionale, come il medianoassiro-svedese Louay Chanko e l’attac-cante Firas al-Khatib, ritiratosi nel 2012dichiarando di non voler rappresentare il

La nazionale siriana allaconquista della qualificazioneai Mondiali del 2018.

Moham Jaddou: il gioiellino della nazionalesiriana under 17 fuggito in Germania.

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PRETI STRANIERI NELLE DIOCESI DEL NOSTRO PAESE

di Annarita Turi* [email protected]

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SONO 1690 I PRESBITERI STRANIERI IN ITALIA, 1045 DEI QUALI SACERDOTI CHE SVOLGONOSERVIZI PASTORALI NEL NOSTRO PAESE E 645 ANCORA STUDENTI. IL 45% DEI SACERDOTI STRANIERI VIENE DALL’AFRICA (SOPRATTUTTO DAL CONGO), MENTREIL 27% HA ORIGINI EUROPEE E VIENE PREVALENTEMENTE DALLA POLONIA. HANNO IN MEDIA45 ANNI E OCCUPANO DIVERSI RUOLI. APPRODANO SOPRATTUTTO A ROMA, FIRENZE EMILANO. MA ANCHE A PRATO E A REGGIO CALABRIA. PER QUALI RAGIONI VENGONO INITALIA E A FARE CHE COSA? SIAMO DAVVERO DIVENTATI NUOVA “TERRA DI MISSIONE”? UNDOSSIER ELABORATO PER MISSIO FORNISCE LE RISPOSTE.

MissioneItaliaMissioneItaliaMissioneItalia

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di collaboratore parrocchiale. Mentre nove sono rettoridi istituti. Ma cosa spinge questi sacerdoti a divenire parteattiva della pastorale della Chiesa italiana? Quali sonole motivazioni che guidano i loro vescovi a cercareoccasioni di cooperazione missionaria che vadano aldi là del semplice ed univoco movimento, sia dipersone, sia di mezzi, tra Nord e Sud del mondo?Le modalità e le motivazioni di ingresso sono tra lepiù varie: rapporti personali tra vescovi italiani esacerdoti da poco ordinati o seminaristi giunti in Italiaper studiare, richieste di vescovi delle giovani Chiesesulla scorta di amicizie con vescovi italiani, gemellaggimissionari con diocesi di Paesi del Sud del mondo,presenze sacerdotali legate a Movimenti e Società divita apostolica, progressiva internazionalizzazione diIstituti religiosi. Ma anche emergenze dovute alla si-tuazione interna dei Paesi di provenienza, soprattuttoafricani.È innegabile che agisca pure, come fattore motivante,un’idea di emancipazione individuale e sociale, piùforte rispetto alla motivazione missionaria. Come sispiega, altrimenti, il fatto che giunga in Italia unnumero elevato di sacerdoti dall’Africa? Questa eman-

I sacerdoti stranieri in Italia hanno finalmente unvolto statistico, oltre che umano. Sono per lo più

congolesi, ma anche polacchi e indiani, ed hanno inmedia 45 anni. Vivono ed operano prevalentementea Roma, Firenze e Milano. Ma anche a Reggio Calabriae Messina. Secondo i dati elaborati al primo gennaiodi quest’anno dall’Ufficio nazionale per la Cooperazionemissionaria tra le Chiese, i presbiteri stranieri nelnostro Paese hanno raggiunto quota 1690. Di questi,1045 sono già sacerdoti e vengono in gran parte dal-l’Africa (45% del totale, ossia 491 persone) maanche dall’Europa (27%, ossia 269) e dall’Asia (il15%). I restanti 645, già ordinati sacerdoti, studianoperò ancora nelle università italiane.Nel dettaglio: ben 148 su 1045 sono della RepubblicaDemocratica del Congo e hanno un’età media diquasi 50 anni; mentre 114 sono originari della Poloniaed hanno in media 42 anni. Seguono India (82 inservizio pastorale), Romania (63 sacerdoti) e Nigeria(50 persone). Al fondo della lista troviamo i sacerdotidi Perù e Venezuela (dieci da ognuno dei due Paesi).Secondo questi dati, raccolti in un report per la Fon-dazione Missio, sui 1045 in servizio pastorale, 476 ri-coprono il ruolo di vicario parrocchiale e 270 quello

Il gruppo di animazione missionaria(Gamis) del seminario di Torino.

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cipazione riguarda non solo il singolo sacerdote, matutta la Chiesa locale di origine.

Reciprocità e cooperazioneAl di là delle singole spinte motivazionali, è innegabileche avere un clero proveniente dalle più diversenazioni o etnie è in sé un’enorme ricchezza culturalee spirituale per la nostra Chiesa. Ed anche per l’interasocietà italiana. Il personale apostolico non italiano èun dono della fede delle Chiese sparse nel mondo.Inoltre è testimonianza del fatto che la missione oggiè sempre più intesa come reciprocità, come coope-razione tra Chiese, per cui ogni Chiesa particolare èuna comunità che invia e che riceve allo stesso tem-po.Sempre in base ai dati in nostro possesso, sappiamoche 171 diocesi italiane sul totale delle 224 prese inesame, sono oggetto della presenza di sacerdotistranieri. A Roma e Firenze va la palma delle primedue per numero di preti che superano le dieci unità,

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terza è la diocesi di Milano.Grazie alla presenza in Italia di clero straniero, lamissione conosce oggi un movimento pluridirezionalee la cooperazione missionaria non può prescinderedalla comunione autentica tra le Chiese. Questobinomio comunione-missione fa comprendere cheormai da tempo si è entrati in una nuova epoca dellamissione, dove la distinzione tra Chiese del Nord cheinviano e Chiese del Sud che accolgono, risulta ina-deguata. In un ambiente ecclesiale nel quale incombonodifficoltà e interrogativi, la strada dello scambio deidoni e dei carismi, ricca di prospettive nuove, apparequella più idonea per la missione di una Chiesa che,in un mondo globalizzato, accetta le sfide che daesso provengono.

Il progetto, i percorsi formativiDal punto di vista strettamente pastorale, la collabo-razione di un presbitero diocesano proveniente daun’altra Chiesa non può essere un fatto privato legato

alle personali sensibilità al riguardo,ma dovrebbe nascere da un attentodiscernimento e da un profondocoinvolgimento di tutta la realtà ec-clesiale diocesana. Si tratta di unevento tra Chiese, e come tale sti-mola e richiede progettualità e cor-responsabilità di tutta la Chiesalocale, al fine di evitare che loscambio resti strumentale ai bisognireciproci di Chiese o persone. Perquesto, ogni accordo e ogni con-venzione che ne consegue devonoessere l’espressione di un dialogocostruttivo e stimolante di tutta laChiesa diocesana, nella quale gliagenti pastorali, dal vescovo al laicoimpegnato, siano stati e venganocostantemente coinvolti nel chiarirele motivazioni, il progetto, i percorsiformativi, gli impegni ecclesiali e lenaturali aspirazioni di ogni soggettopastorale proveniente da una Chiesasorella. Sarebbe sufficiente que-st’ultimo aspetto per giustificare, dasolo, la bontà e la bellezza diun’esperienza come quella di cuistiamo parlando.Ma il desiderio di compiere un’espe-rienza fuori diocesi è sempre l’espres-sione di una Chiesa che entra »

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ETÀ MEDIA SACERDOTI PER CONTINENTE

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NUMERO SACERDOTI PER CONTINENTE

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in un discorso di cooperazione e di scambio? Oppuredietro a questa scelta a volte si celano motivazioniche, sia pur buone, non rispondono a criteri di coo-perazione e di ecclesialità? Per non parlare dellesituazioni problematiche personali, che si vorrebberovedere risolte attraverso l’insano stratagemma dellaloci mutatio, del cambiamento di sede, a volte sceltain maniera autonoma e indipendente dal singolosoggetto, altre volte scelta per lui dai suoi superiori.Se a questo si aggiunge l’aggravante della gratificazioneeconomica o dell’accomodamento personale, quellosopra espresso non è più un semplice interrogativo,ma può addirittura giungere, in alcuni casi, ad esserefattore scatenante di situazioni delle quali pagano leconseguenze le comunità parrocchiali o le precariesituazioni ecclesiali periferiche. In questi casi, nelsegno della carità, non sarebbe male un po’ più difermezza e rigore nell’operare alcune scelte da partedelle diocesi.

Lo strumento delle ConvenzioniIl 25 aprile 2001 la Congregazione per l’Evangelizza-zione dei Popoli, il dicastero della Santa Sede che hacompetenza per tutto quello che riguarda l’attivitàmissionaria, pubblica l’“Istruzione sull’invio e la per-manenza all’estero dei sacerdoti del clero diocesanodei territori di missione”, preoccupata dall’aumentodel clero in partenza per altre diocesi e dalla possibilitàdi far diffondere una tendenza che avrebbe potutodanneggiare le Chiese di invio, impoverendole diforze già scarse.Sulla base dell’Istruzione, la Conferenza episcopaleitaliana ha inteso regolamentare l’accoglienza deipresbiteri non italiani in modo prima sperimentalenel 2003 e poi definitivo nel 2006, con appositeConvenzioni che regolano sia i rapporti tra la diocesiche invia e quella che accoglie, sia le modalità dipresenza dei presbiteri stranieri in Italia.All’Ufficio nazionale per la cooperazione missionaria

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R.D. CONGO

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UCRAINA

COLOMBIA

CONGO BRAZZ.

BURUNDI

TOGO

RWANDA

SRI LANKA

BRASILE

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COSTA D'AVORIO

TANZANIA

ARGENTINA

MADAGASCAR

CINA

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PRINCIPALI PAESI DI ORIGINE DEI SACERDOTI

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tra le Chiese è stato affidato il compito di verificare eapprovare la documentazione proveniente dallediocesi, sopratutto in ordine all’applicazione di un ef-fettivo criterio di cooperazione tra le Chiese.Lo strumento delle Convenzioni, nel corso deglianni, si è rivelato utile, perché coinvolge e responsa-bilizza sia le Chiese che accolgono sia quelle che in-viano, chiamando direttamente in causa la responsabilitàepiscopale. Non mancano, infatti, casi in cui i vescovi,più che inviare o accogliere, cedono all’insistenza diun sacerdote desideroso di lasciare il Paese di origineo di sistemarsi in Italia.È peraltro chiaro tali procedure conseguono l’obiettivoper cui sono state pensate ad alcune precise condizioni.Se prevalgono logiche di bisogno o di soluzioniprivate e non criteri di scambio tra Chiese sorellenon si promuove la comunione, ma ci si limita a go-vernare le richieste emergenti dall’una o dall’altraparte. Le convenzioni non vanno viste come un

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mero strumento burocratico, ma come unaprovocazione alla progettualità delle Chieselocali.

Non solo accogliere ma accompagnareOccorrerebbe verificare poi se i sacerdotiche giungono in Italia sono preparati a espe-rienze pastorali italiane completamente va-riegate, e quali siano i frutti effettivi del lorolavoro non in termini di prestazione, ma dicooperazione ecclesiale, non di manovalanza,ma di fraternità presbiterale, non di quantitàdi celebrazioni liturgiche, ma di testimonianzae qualità sacerdotale.Non basta accogliere, bisogna accompagnare:per questo, accanto alle garanzie economichee normative, occorre che i superiori favoriscanolo spirito sacerdotale, l’esperienza pastorale,l’accoglienza fraterna, lo scambio ecclesiale,con pari dignità. Dove possibile, i Centrimissionari diocesani potranno offrire la lorocollaborazione, per aiutare le comunità ospi-tanti e l’intera diocesi a comprendere megliol’identità missionaria e universale della Chiesa.La vigilanza da parte della diocesi cheaccoglie dovrebbe durare per tutto il tempodell’esperienza, e non di rado i presbiteriabbandonano le diocesi per trasferirsi inaltre, perché poco accolti e non valorizzati.In altri casi, invece, vengono loro affidati in-carichi importanti che, per svariati motivi,

non sempre trovano adeguata corrispondenza,e gli Ordinari si ritrovano a doverli rimuovere oaddirittura allontanare.La modalità più corretta sarebbe quella di prendersicura e di vigilare su di essi e sul loro operato pertutto il tempo della durata della Convenzione. Va poisempre interpellato il vescovo che invia sulla possibilitàdel rinnovo della Convenzione, per far sì che non siauna decisione legata a un desiderio del presbiterostesso, ma espressione della comunione tra il vescovoche invia e il vescovo che accoglie.Il non accompagnamento e la mancata sequela delcammino pastorale dei presbiteri stranieri accolti siaper motivi di studio che per motivi pastorali, determinaoggi, nella maggior parte dei casi, una esperienzache diventa esclusivamente personale, slegata dalloscambio di cooperazione tra le Chiese, inducendospesso i presbiteri a decidere autonomamente sullemodalità della loro presenza in diocesi e soprattuttosulla loro durata nel tempo. »

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ciò non accade nella stessa misura per ipresbiteri non italiani.In alcune diocesi i Centri missionari, e inqualche caso lo stesso clero diocesano,non sono a conoscenza della presenzanella propria diocesi di presbiteri non italianiin Convenzione. A prescindere se prestinoservizio pastorale a tempo pieno o part-time, in alcuni casi sono ignorati o nonmolto considerati, sia per le difficoltà lingui-stico-culturali sia per le difficoltà d’inserimentonelle comunità parrocchiali. Una delle finalitàdella cooperazione missionaria tra le Chieseè proprio quella di mettere al serviziocomune le esperienze che si vivono nellevarie Chiese locali, e la diocesi che accogliedovrebbe anche valorizzare i presbiteri nonitaliani, predisponendo per loro le stesseattenzioni pastorali che si hanno per i pre-sbiteri diocesani inviati come fidei donum.La presentazione alla comunità diocesana,il coinvolgimento nelle attività, ove possibile,del Centro missionario diocesano, il raccontodell’esperienza della propria Chiesa locale,i motivi dell’invio e le difficoltà incontratenell’inserimento: tutto questo sarebbe digrande aiuto anche per il presbitero nonitaliano per una valorizzazione della suaesperienza all’interno della diocesi. L’ac-compagnamento è infatti una fase importanteper ogni scambio esperienziale, e nel casodei presbiteri lo è ancora di più, sia perpoter seguire il loro percorso pastorale al-l’interno delle diocesi dove sono chiamati

ad operare o a svolgere il loro percorso di studi, siasoprattutto per poter capire le motivazioni della loropresenza, che spesso li porta ad allontanarsi definiti-vamente dalla propria diocesi, chiedendo in Italia dipassare di diocesi in diocesi, giungendo poi in alcunicasi all’incardinazione.Non dovrebbe mancare anche nella Chiesa di origineuna riflessione che predisponga l’esperienza al migliorsuccesso, evitando di procedere superficialmente estabilendo fin dall’inizio il momento del rientro delpresbitero nelle diocesi di appartenenza. Questonon sempre accade, soprattutto in alcune diocesiafricane o asiatiche dove, a causa di situazioni socio-politiche complesse, il clero fa enorme fatica a rien-trare.Circa la comunità dove svolgere servizio, l’idealesarebbe che la scelta non dipendesse solo dal

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Il modello dei fidei donumTenendo conto di questo aspetto, sembrerebbe insi-nuarsi che non è quella della cooperazione tra leChiese la logica che porta ad accogliere i sacerdotinon italiani nelle varie comunità diocesane, restandocosì aperto l’interrogativo sulla tipologia di pastoraleche soggiace a questo fenomeno. Per l’invio dei sa-cerdoti e laici italiani fidei donum (sacerdoti e laiciinviati pro tempore in missione dalla diocesi di ap-partenenza), essendo per lo più il Centro missionarioad occuparsene, quest’ultimo valorizza gli aspetti pa-storali: dall’esperienza dell’invio in missione comestrumento di animazione per l’intera comunità dio-cesana, alle attività formative, ai momenti di preghiera,ai percorsi di valorizzazione e di studio dei Paesi incui prestano servizio, alle iniziative di solidarietà man-tenendo così un legame con la Chiesa d’invio. Tutto

Dawit Worku, rettore del PontificioCollegio Etiopico, situato allʼinternodella Città del Vaticano.

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bisogno pastorale, ma anche dall’individuazione diun sacerdote italiano idoneo ad accompagnare ilpresbitero nella vita pastorale e nell’approfondimentodella spiritualità sacerdotale ma purtroppo non èquello che avviene. Il Centro missionario diocesanopotrebbe mettere a disposizione del vescovo la suacompetenza specifica sia per collaborare nell’accom-pagnamento dei presbiteri non italiani, sia per valo-rizzarne la presenza nell’ottica della cooperazionemissionaria e dello scambio tra Chiese.Sarebbe opportuno che nel mese dell’ottobre mis-sionario, quando si è soliti celebrare in varie forme emodi la Giornata Missionaria Mondiale, si presentialla comunità locale il cammino del presbitero.

Caratteristiche delle ConvenzioniLa compilazione delle Convenzioni deve essereseguita con cura, il testo letto con attenzione da tuttele parti interessate e gli allegati predisposti per tempoe nella loro completezza.L’iter identificato per le Convenzioni riguarda esclusi-vamente i presbiteri diocesani incardinati in diocesinon italiane, non riguarda invece i presbiteri nonitaliani appartenenti a Istituti religiosi, di normapresenti in Italia all’interno delle rispettive comunità.Per i presbiteri religiosi è la diocesi che accoglie, inaccordo con l’Istituto o la Congregazione, che stabiliscedelle regole e dei criteri, anche sull’opportunità di

conferire al religioso un incarico diocesano, con ilconseguente ingresso nell’Istituto centrale per il so-stentamento del clero. Se il presbitero è stato costrettoa lasciare il proprio Paese per gravi motivi, qualoracioè fosse profugo o rifugiato politico, è opportunostipulare l’Atto di accoglienza dei presbiteri diocesaniprovenienti dai territori di missione costretti a lasciareil proprio Paese per gravi motivi e incaricati di servizipastorali in Italia.In tali circostanze, oltre alla richiesta scritta e motivatadel presbitero al vescovo della Chiesa che lo accoglie,necessita della documentazione relativa alla richiestadello stato di rifugiato politico indirizzata alle autoritàitaliane, che di solito viene rilasciata dalla Commissioneterritoriale per il riconoscimento della Protezione in-ternazionale.

Una prassi articolataTutti i documenti devono pervenire all’Ufficio nazionaleper la cooperazione missionaria tra le Chiese inoriginale o in copia conforme. I presbiteri interessatidevono inoltre acquisire i documenti necessari perla loro permanenza in Italia a termini di legge.È necessario per tutti i presbiteri stranieri in serviziopastorale la partecipazione al corso di formazionespecifica di carattere pastorale e non solo linguisticopresso la Fondazione Cum di Verona che rilascia ap-posito certificato.I titolari della Convenzione per il servizio pastorale inItalia dei presbiteri diocesani provenienti dai territoridi missione o della Convenzione per il serviziopastorale in Italia dei presbiteri diocesani provenientidai territori non di missione, come pure quelli accoltiper gravi motivi, acquisiscono il diritto ad essereinseriti nel sistema di sostentamento del clero e rice-vono un trattamento economico equiparato a quellodei presbiteri diocesani italiani in servizio pastorale atempo pieno.Spetta all’Ufficio nazionale per la Cooperazione mis-sionaria tra le Chiese confermarne l’iscrizione all’Istitutocentrale per il sostentamento del clero all’atto di ap-provazione della Convenzione, indicando la data didecorrenza della Convenzione.Per i presbiteri a tempo pieno in servizio a migrantio a comunità etniche l’Ufficio nazionale per la Coo-perazione missionaria istruisce la pratica in collabo-razione con la Fondazione Migrantes. La modulisticada allegare alla Convenzione è la medesima per ipresbiteri in servizio pastorale.L’approvazione delle Convenzioni è subordinata allaformazione richiesta e certificata dalla Fondazione »

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la disponibilità del sacerdote studente. La presenza“per motivi di studio” esige l’oggettiva prevalenza deltempo dedicato allo studio (frequenza delle lezioni,consultazione di testi, superamento degli esami,compilazione della tesi, ecc.) rispetto a quello dedicatoal servizio pastorale. Spetta ai responsabili vigilaresaggiamente su tale equilibrio. La Convenzione permotivi di studio è ammessa per il conseguimento diun solo titolo accademico, sino al grado del dottoratoincluso. Non è ammessa per il conseguimento dimaster o corsi di specializzazione. La richiesta delvescovo inviante deve essere corredata dalle notizieutili a identificare il percorso: Università prescelta oaltro Istituto, materia di studio, titolo da conseguire,durata prevista degli studi.I testi delle convenzioni sono disponibili sul sitowww.chiesacattolica.it/missioni: oltre che in linguaitaliana, sono formulati in inglese, francese, spagnoloe portoghese.Ma è solo mantenendo aperto il tavolo della riflessionepastorale, valutando senza superficialità situazionied esperienze, che di volta in volta si possonotrovare adeguate risposte e valide prospettive, voltea una sempre maggior valorizzazione di questa en-tusiasmante e irreversibile esperienza di cooperazionemissionaria.

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Migrantes, che cura la formazione stessa e l’accom-pagnamento dei presbiteri. A tale proposito si richiededi produrre il titolo abilitante, conferito dalla Com-missione episcopale per le migrazioni della Cei, e ri-lasciato a seguito della partecipazione al corso di for-mazione appositamente predisposto ogni anno dallaFondazione Migrantes.I presbiteri studenti sono sacerdoti il cui vescovochiede il perfezionamento degli studi presso unIstituto accademico ecclesiastico o civile, con la pos-sibilità di una collaborazione pastorale a tempoparziale; è prevista la sottoscrizione della specificaconvenzione tra i vescovi, ma non la nomina a unufficio ecclesiastico e di conseguenza non sonoinseriti nel sistema di sostentamento del clero, mahanno diritto solo a un rimborso massimo annualeda parte della Cei, oltre all’iscrizione al Serviziosanitario nazionale. Chiaramente deve essere indivi-duato fin dall’inizio il percorso di studio e l’effettivapossibilità di attuarlo, per questo motivo, è bene nonformalizzare iscrizioni ai corsi prima di un assensodel vescovo che accoglie, il quale avrà cura diindividuare in diocesi una parrocchia in cui non soloci sia la necessità di una collaborazione pastorale,ma che anche sia disponibile per l’accoglienza e l’ac-compagnamento, senza assorbire completamente

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Perù

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

Perù, terra di missione, vicina alcuore delle diocesi italiane. Lo te-stimoniano i 275 missionari italiani

che si trovano da più o meno tempo inPerù, 32 dei quali sono fidei donum.Don Michele Autuoro, direttore di Missio,ne ha incontrati alcuni in occasione delviaggio per la beatificazione di donSandro Dordi e dei frati conventuali po-lacchi Michele Tomaszek e Sbigneo Strzal-kowski, avvenuta il 5 dicembre delloscorso anno nello stadio di Cimbote. Diqui, la delegazione italiana - compostadal presidente della Fondazione Missio,monsignor Francesco Beschi, vescovo diBergamo, don Felice Tenero, incaricatoper l’America Latina della FondazioneCum, e don Dario Vaona, vicedirettoredel Cmd di Verona - si è spostata nella

Tra le comunità

capitale Lima (raggiungibile con unviaggio in macchina di sette ore). La ca-pitale è una città di oltre otto milioni emezzo di abitanti, che si estende suun’area vastissima in cui abita la maggiorparte della popolazione del Paese. Inquesta terra arida popolata di asienta-mentos humanos creati dalle migrazionidalle montagne andine, i missionariitaliani sono presenti attivamente. Spiegadon Autuoro: «Abbiamo approfittato del-l’occasione della beatificazione di donSandro Dordi per visitare alcuni missionariitaliani che lavorano nell’area sterminatadella periferia della capitale. Nel 1996sono state create quattro diocesi in que-st’area che si allarga sempre di più, conle famiglie che scendono dalle Ande, oc-cupano un pezzo di terra e si costruisconouna piccola casa. Carabayllo è un avam-posto di periferia in una zona arida chesale verso le montagne, dove non piovequasi mai. In questa diocesi abbiamo

di Limadella periferia

Tra le comunità della periferia

Breve diario di viaggio di donMichele Autuoro – direttore di Missio - in Perù, tra i fidei donum, incontrati in occasione dellabeatificazione di don SandroDordi. E mentre dal 18 al 22gennaio scorsi si è celebratoa Chaclacayo l’incontro “En el

nombre del padre”, la presenzadei missionari italianicontinua ad animare iltessuto ecclesiale e socialedel Paese andino.»

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È un progetto di catechesi che mettefamiglia in comunione con altre fa-miglie. Abbiamo visitato una di questecomunità, attraversando una zona de-sertica: sono dei campesinos che,grazie ad un fiume che scende dalleAnde e irrora la zona, hanno impiantatoe curano coltivazioni agricole. Dopo ilraccolto, quello che resta nei campi èdi tutti».

In un’altra zona della periferia est diLima c’è la diocesi di Chosiga, dove trelaici fidei donum hanno lasciato Milanoper venire a testimoniare qui la loro mis-sione. Gilberto Longoni, Daniele Mauri,Fiorenza Fattorini sono in Perù da 25

cristiane, una trentina nelladiocesi, e arginare l’aggres-sione delle sette che sonoin forte aumento» continuadon Autuoro che racconta:«La parrocchia ha un pro-getto molto bello e di ampiorespiro che si prende curadi una catechesi familiare apartire dalla preparazionedei bambini ai sacramenti.

nicipalità cerca di portare i servizi essenzialie oggi Carabayllo è un’area urbanizzatacon l’elettricità e l’acqua corrente, cresciutaintorno all’antica chiesa di San Pedro,edificata nel 1570. «Il compito dei mis-sionari è seguire le tante piccole comunità

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Perù

anni, vivono nella Comunità Santo Spiritoe sono inseriti nelle attività della parrocchiafondata dai padri Monfortani italiani,poi diventata cattedrale della diocesi.Oltre a collaborare con la parrocchia,sono impegnati in tanti progetti e seguonola formazione pastorale di varie comunitàsul territorio. Portano avanti progettisociali soprattutto di aiuto alle famigliee alle donne, molte delle quali sole e configli da mantenere. La loro esperienza li

ha portati in contatto con comunitàlocali che hanno contribuito a ren-dere vive, nel sostegno reciprocosia nella quotidianità che nella te-stimonianza della fede. Continuadon Autuoro: «Siamo stati anchenella diocesi di Melgar a visitare laComunità missionaria di Villaregia,che dal 1986 ha sede in un quartieredifficile e violento della periferiadi Lima. I laici missionari della Co-munità sono rimasti qui anche neidifficili anni delle violenze di Senderoluminoso e la loro bella parrocchiaè uno dei pochi luoghi aggregatividi tutta la zona. Hanno cominciatocon un ambulatorio sanitario perchéle cure mediche in Perù erano esono a pagamento. C’è un grossoimpegno di mezzi economici e divolontari e medici anche peruviani,che all’interno di questa periferia

offrono un servizio sanitario qualificato.Un’altra iniziativa è quella di costruirecasitas in legno al posto delle baracchedi lamiera, per aiutare i più poveri avivere dignitosamente. I loro progetti dimicroedilizia seguono criteri rispettosidei materiali e degli spazi abitativi ne-cessari per dare serenità alla famiglia». Enell’ottica dello sviluppo integrale dellapersona umana, i missionari hanno rea-lizzato anche progetti di cucine sociali ecorsi professionali per insegnare ai ragazzicome fare catering, come diventare este-tiste, e altro. Tutte specializzazioni chepossono aiutare i giovani ad inserirsi nelmondo del lavoro.

incontrato i tre fidei donum della diocesidi Como – Savio Castelli, Ivan Manzoni eRoberto Seregni - questi ultimi dueentrati a servizio nella parrocchia di SanPedro, nel febbraio 2013. Si tratta di unaparrocchia che copre un’area moltogrande con oltre 100mila abitanti, pun-teggiata da piccole comunità sparse inuna periferia brulla che si allarga a mac-chia d’olio». A Lima come in altre cittàdell’America Latina, la vita precaria deivillaggi rurali spinge giovani e famiglieverso la città, col miraggio di un futuromigliore. Che nei fatti si traduce in rifugidi fortuna con cartoni, lamiere e legno.Col passare del tempo, gli insediamentiprecari diventano baracche e poi piccoleabitazioni. È a questo punto che la mu-

Don MicheleAutuoro,direttore diMissio.

Fiorenza Fattorini in missione a Chosiga.

Don IvanManzoni e don RobertoSeregni.

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A colloquio con il rabbino Jeremy Milgrom

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ReligioniReligioni

per la pace

Nell’area geografica più controversadella Terra, dove – volenti o no-lenti - convivono due popoli

(israeliani e palestinesi) e tre religioni(ebraismo, cristianesimo, islam), abita »

Mentre il mondo assiste impotente all’acutizzarsidel radicalismo delle fedi e alla contrapposizionedelle diversità, c’è chi promuove ogni giorno ildialogo interreligioso e l’incontro tra popoli eculture da troppo tempo in guerra fra loro. Ilrabbino israeliano Jeremy Milgrom ne è unesempio e racconta come sia possibileimpegnarsi concretamente in questo campo.

insieme insieme

di CHIARA [email protected]

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

tro venti, con la certezza che non saràvana.Raggiunto da Popoli e Missione, fasubito notare: «L’attività del tentare dicapirsi reciprocamente è comunementechiamata “dialogo tra religioni”. Ma c’èda precisare che la maggior parte dellepersone israeliane e palestinesi che siritrovano per dialogare, in genere, nonè religiosa. Al contrario: coloro che

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un rabbino che ha fatto del dialogo in-terreligioso la sua ragione di vita. Sichiama Jeremy Milgrom, è un ebreo diorigini statunitensi ma vive in Israele dadecenni. Qui ha servito il suo Paese nel-l’esercito ma, coerentemente con i suoiprincipi di non-violenza e convivenzacon il popolo vicino, ha poi chiesto (eottenuto, solo dopo otto anni di battaglielegali) di essere esonerato dagli obblighidi riservista. Nel 1988 ha fondato il mo-vimento Rabbini per i diritti umani esuccessivamente, insieme al reverendoanglicano palestinese Shehadeh, ha datovita all’associazione Clergy for peace(Religioni per la pace), di cui è tuttoracondirettore. Dedica la sua vita a cercarespiragli di dialogo tra israeliani e pale-stinesi, tra ebrei, musulmani e cristiani,perseguendo e vivendo in prima personaideali di pace e giustizia.Per dovere di cronaca, c’è da dire che dirabbini che credono nel dialogo, pro-prio come Milgrom, ce ne sono altri. Marabbi Jeremy è speciale, perché gira ilmondo raccontando come sia possibileche le religioni diventino strumento diincontro: una sorta di semina ai quat-

sono maggiormente osservanti, nonsono quasi mai interessati al confrontocon gli altri. Perché? Perché chi osservaalla lettera ciò che la propria religioneda secoli e secoli indica, senza conside-rare ciò che la propria coscienza e leproprie convinzioni suggeriscono, nonriesce ad andare oltre i precetti, a volteproblematici, che le fedi impongono. Inaltre parole: la religione insegna a gui-

Il rabbino Jeremy Milgrom con alcuni membri dellafamiglia beduina Abu Sa’id’s, ele suore Comboniane di Betania.

La scuola di gommacostruita dai beduiniJahalin con il sostegno ditante realtà a diverso titolocoinvolte nel progetto.

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P uò essere considerata a tutti gli effetti il risultato della collaborazione tra diversisoggetti (l’associazione italiana Vento di Terra, i Rabbini per i diritti umani, le

suore Comboniane di Betania, il Consolato generale italiano) che a diverso titolohanno contribuito alla realizzazione di una scuola nella comunità beduina dei Jahalin,stanziata a Khan al Akhmar, tra Gerusalemme e Gerico. Inaugurata nel 2009, lascuola del villaggio è stata costruita con tremila pneumatici, riempiti di terra, dispostia file sfalsate come mattoni, ricoperti con argilla del deserto di Giuda. Prima chequesta venisse edificata, la più vicina si trovava a Gerico, a 13 chilometri di distanza

dall’accampamento beduino. Frequentarla, però, era diventato troppo pe-ricoloso: tre bambini avevano perso la vita, investiti lungo la strada che dalMar Morto porta alla Città santa, e due erano rimasti feriti e mutilati persempre, proprio mentre cercavano di raggiungere la scuola di Gerico.Urgeva garantire l’istruzione di base a Khan al Akhmar. Ma costruire unedificio in muratura sarebbe stato impossibile: sebbene il territorio sia pa-lestinese, l’amministrazione israeliana – che controlla gran parte della Ci-sgiordania - vieta l’edificazione di qualsiasi costruzione, pena la demolizioneda parte dell’esercito. L’idea della scuola in gomma è stata vincente,anche se comunque l’edificio è stato messo da subito sotto ordine di de-molizione (a distanza di anni, però, non ancora eseguito). Se è vero che ivicini coloni ebrei di Kfar Adumin, che vivono nell’insediamento illegalecostruito in territorio palestinese, hanno fatto di tutto per far demolire lascuola e sgomberare la comunità beduina, è anche vero che i tantisoggetti internazionali coinvolti in questo progetto hanno saputo tenereviva l’attenzione su questa realtà. E, almeno finora, sono riusciti a salvareil simbolo del loro concreto esempio di dialogo.

C.P.

chiede di sedere su una sedia collocatadavanti alla sua (sistemata in modo taleche un gambo di essa poggi sopra ilpiede del rabbino) e, così seduti, facciaa faccia, chiede al volontario di farglidomande sulla sua capacità di relazio-ne con l’altro; il rabbino, prima dirispondere alla questione sollevata, fapresente che sta soffrendo per il pesodell’altro sul suo piede, ma il tentativodi comunicazione tra i due prosegue,senza che il gambo della sedia che losovrasta venga rimosso.Ecco, dice Milgrom, questa è la condi-zione di dialogo tra israeliani e palesti-nesi: «In verità c’è un popolo che sovra-sta l’altro, situazione che rende moltodifficile il dialogo tra i due popoli,anche se viene comunque tentato. Ilproblema è che non si parte dallo stes-

dare un’auto, ma poi il guidatore senteil bisogno di mettere le marce più alte.Ciò che è inaccettabile, è andare dallaprima alla retromarcia».Il concetto da cui parte rabbi Milgrom,prendendo in considerazione la suareligione, è il seguente: non è l’ebrai-smo ad invitare a fare la guerra, manon è neanche l’ebraismo che spinge afare la pace. Diverso è il cristianesimo:«Voi avete l’esempio di Gesù – dice –che incarna il pacifismo. Potete portarelui come esempio in un dialogo tra reli-gioni. Ma gli altri possono replicare:cosa volete insegnarci, voi che avetefatto le Crociate? Insomma, è indispen-sabile prescindere dal passato e rico-minciare dall’oggi, prendendo gli unidagli altri solo il positivo che le religio-ni offrono».Per entrare nello specifico dell’operatodi Jeremy Milgrom, che è il dialogo traisraeliani e palestinesi (musulmani ocristiani che siano), basta parteciparead uno degli incontri che tiene spessoin giro per l’Italia (e non solo), soprat-tutto per far luce sulla possibilità chetra i due popoli ci sia un cammino versola pace. Per illustrare quali siano lemaggiori difficoltà per metterlo in pra-tica, Milgrom non usa molte parole:chiama un volontario dal pubblico, gli

La scuola di gomme dei beduini

A colloquio con il rabbino Jeremy Milgrom

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so punto, non si vive nella medesimacomunità, gli uni non possono andarenella terra degli altri (eccetto i militariisraeliani, ndr), le nostre culture sonomolto diverse». Inoltre, continua rabbiJeremy, c’è anche una difficoltà digenere: «Tra i palestinesi sono più imaschi a partecipare al dialogo; tra gliebrei, invece, sono quasi esclusivamen-te le femmine. Questo problema puòessere ovviato organizzando incontri diinterazione in una zona neutra, cioè aldi fuori di Israele e Palestina. Allora lapartecipazione è più completa e varia».Un’altra difficoltà che ostacola il dialo-go tra i due popoli sono i gravi proble-mi che nella vita quotidiana le famigliepalestinesi si trovano ad affrontare:«Quando mio figlio più grande, a 13anni di età, ha celebrato il Bar »

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palestinesi è molto poco ed è ridotto apiccoli bantustan. Com’è possibile, inqueste condizioni, pretendere di otte-nere la pace?».Nel frattempo, però, il dialogo traisraeliani e palestinesi e tra le tre reli-gioni monoteiste non si limita a pren-dere atto delle oggettive difficoltà: sitrasforma in qualcosa di concreto.Quanto realizzato con i beduini Jahalintra Gerusalemme e Gerico ne è unesempio fattivo: Milgron ne va fiero elo racconta come prova di esperienzapossibile e vincente, che ha visto – econtinua a vedere – la collaborazionedei Rabbini per i diritti umani, dellesuore Comboniane di Betania e dellacomunità beduina (musulmana) che siè vista garantire il diritto all’istruzioneper i propri bambini grazie alla realiz-zazione di una scuola di gomme (vedibox a pag.41).

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀA colloquio con il rabbino

Jeremy Milgrom

Mitzvah, cioè la cerimonia di ingressonel mondo degli adulti, abbiamo invi-tato tante famiglie palestinesi, ma nes-suna di esse è venuta. Ho pensato cheavessero problemi ben più gravi eurgenti da affrontare. Insomma, il fattoè che il dialogo è difficile, perché non siparte dalla stessa condizione».Certamente le opinioni di Milgrom nonsono quelle della maggioranza degliisraeliani, anche se gran parte di essidichiara di volere la pace. Ma a qualecondizione? Un aneddoto, raccontatoda rabbi Jeremy in più occasioni, lospiega bene: «Due bambini abitanonello stesso cortile e giocano spessoinsieme. Un bel giorno il primo prendela bicicletta del secondo e comincia adusarla ogni mattina per andare a scuolae ogni pomeriggio per lunghe gite, conovvio disappunto del proprietario.Passato un bel po’ di tempo, il bambino

che si è impossessato della biciclettadell’altro va da quest’ultimo, gli tendela mano e gli dice: “Dai, riconciliamocie dimentichiamo il passato!”. Ma ladomanda sorge spontanea: “E la miabici?”. Risposta: “Chi ha parlato di bici?Io parlo solo di riconciliazione”. Ecco,questa storiella – spiega Migrom – èmolto semplice ma descrive perfetta-mente da quali condizioni parte unqualunque tentativo di pace tra israe-liani e palestinesi». Uscendo dallametafora, rabbi Jeremy spiega: «Già nel1948 Israele sottrasse del territorio aquello che doveva essere lo Stato pale-stinese. La stessa cosa accadde nel1967, quando iniziò l’occupazioneisraeliana dell’intera Cisgiordania. PeròIsraele in tutti questi anni ha sempredetto che voleva la pace. Solo che,osservando le mappe attuali, è facileaccorgersi che il territorio rimasto ai

Suor Alicia Vacas,comboniana, che ha vissutoper molti anni a Betania, coni bambini della comunitàbeduina Jahalin.

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Q uando arrivo in via Marsala, allastazione Termini, il camper èparcheggiato tra il marciapiedi,

già pieno di cartoni aperti come sacchia pelo, e la strada. I volontari attendonoi primi pazienti. Che ad uno ad uno simettono in fila per la “visita mobile”. IMedici per i Diritti Umani (MEDU) strin-

gono mani. Riempiono schede con i datidei pazienti. Il primo a salire sul camperè Hassan, viene dall’Afghanistan, ha 35anni ma ne dimostra parecchi di più. Haproblemi respiratori. Da un mese circadorme all’aperto, in stazione, ed è inlista d’attesa per un alloggio dignitosoalla Casa della Pace. Hanif, 23 anni, af-ghano, è il mediatore. Traduce la diagnosidella dottoressa e scrive su un foglio laprescrizione che poi porge a Hassan.

OPERE DI MISERICORDIA Visitare gli ammalati

di ILARIA DE [email protected]

Medici in camper «Bisognerebbe approfondire con una ra-diografia toracica», dice il medico. Unaragazza di 32 anni che lavora in ospedalea Genova. Viene a Roma nei week-end ein quei giorni fa la volontaria con MEDU.Chiede al suo silenzioso paziente di sol-levare il maglione. Punta lo stetoscopio:«C’è qualcosa che mi preoccupa nel suomodo di respirare – dice - Certo dormirein strada non aiuta. Non posso escludereche sia qualcosa di più serio». Hassanparla pochissimo, non chiede nulla. Vuolesolo sapere da che dipende quel rantolo.Dopo di lui sale Mohammed, egiziano.«La guardia medica mi ha dato un anti-biotico ma non mi fa ancora effetto»,spiega. Il terzo paziente è rumeno eanche lui vive in strada. Ha perso lavoro,casa e fidanzata. Su questo camper trovapersone disposte ad ascoltarlo. Oltre chea prescrivergli delle pastiglie contro ilmal di testa.Hanif spiega che «il gruppo afghano siraduna di solito in piazza dei Cinquecento,davanti alla stazione Termini. Ma di re-cente la polizia lo ha sgombrato». Piùtardi racconterà che lui stesso all’inizioha dormito in stazione. È arrivato inItalia cinque anni fa ma prima ha fattoil giro d’Europa, passando per la Grecia.Conosce almeno sei lingue e vorrebbestudiare all’università. Questo ragazzodagli occhi che ridono lavora con MEDUda un paio d’anni.Organizzazione umanitaria indipen- »

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la prima volta a Ponte Mammolo, subitodopo lo sgombero e l’abbattimento dellabaraccopoli delle Messi D’oro, uno degliesempi di autogestione dei rifugiatieritrei a Roma.«Quella baraccopoli non c’è più – raccontaAnita - i ragazzi furono trasferiti alCentro di accoglienza Baobab a via Cupa,ma anche quello a dicembre scorso hachiuso i battenti». Così per i rifugiatieritrei, per i migranti forzati e per i ri-chiedenti asilo non rimane che la strada.In attesa che da qualche parte si liberinoposti letto. Nel frattempo si ascoltanole loro storie, che sono, dopo tutto, lavera grande ricchezza di ognuno.Per continuare a seguira l’azione di curae testimonianza di MEDU visitate il sitowww.mediciperidirittiumani.org.

dente nata a Roma nel 2004 per iniziativadi un gruppo di medici, ostetriche edaltri volontari, MEDU opera anche a Fi-renze, Brindisi, in Sicilia, nelle provinciedi Cagliari e Ragusa, e in Calabria e inBasilicata.Anita Carriero coordina il progetto UnCamper per i Diritti a Roma, e collaboracon MEDU dal 2011. Mi spiega come lemigrazioni siano cambiate in questi anni:«La maggior parte dei senza fissa dimoraa Roma è costituito da migranti forzati,soprattutto eritrei. Sappiamo che il con-fine tra migrante forzato ed economicoè davvero labile. Ci raccontano dei loroviaggi e da questo capiamo che nonesiste una migrazione per scelta chenon sia piena di ostacoli e fatta di abusisubiti».Da qui l’idea che non esiste cura per ilcorpo che non passi anche per l’anima eper la psiche, con un sostegno ai dirittiumani: «A noi interessa tutelare anche idiritti di queste persone - ci spiega ilcoordinatore generale, Alberto Barbieri- Ecco perché abbiamo dato il via di re-cente ad un progetto di assistenza psi-cologica». Si chiama MEDU Psychè ed èrivolto ai migranti sopravvissuti a torturae a trattamenti crudeli, inumani e de-gradanti. «Ho visto molte persone morirenel deserto. La Hylux (veicolo utilizzatodai trafficanti, ndr) andava ad altissimavelocità, così le persone cadevano e ve-

nivano lasciate nel deserto. Il deserto èpieno di tombe». Così racconta E.C., 19anni, dalla Nigeria. La sua intervista èraccolta nel report MEDU Fuggire o Mo-rire.Nel corso del 2015 MEDU a Roma haeffettuato 766 visite a 695 pazienti, hafornito orientamento a 270 migrantiforzati e ha accompagnato oltre 25 ri-fugiati nei servizi socio-sanitari e legali.I medici e gli operatori di strada si spo-stano di continuo: da Termini ad Ostiense,da Colle Oppio a Tor Marancia alla Col-latina, dov’è il palazzo occupato dei mi-granti eritrei. La maggior parte dei pa-zienti è composta da migranti forzati,tra questi il 43% era richiedente asilo osoggetto di protezione internazionale.Ho incontrato i volontari di MEDU per

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Diverse immagini che mostranoi Medici per i Diritti Umani inazione a Roma. Le foto sono concesse da MEDU.

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L’altra

Q uella dei combustibili fossili, lo sappiamo, è destinataa diventare era archeologica. Quando però? L’11 di-cembre scorso a Parigi il summit Cop21 ha tracciato

uno spartiacque teorico tra presente e futuro. Eppure lanuova epoca energetica è lungi dal venire: ci vorrannoalmeno altri dieci anni, stando ai tempi lunghi (non) dettatidall’agenda di Parigi, per intraprendere una seppur minimainversione di rotta rispetto all’uso dei combustibili fossili.Inoltre, senza obblighi o vincoli stringenti per gli Stati èquasi impossibile immaginare che qualcuno vorrà tagliaresua sponte e in modo sostanziale le emissioni di gas serra.Le proposte per tenere il rialzo delle temperature globalisotto la soglia di 1,5 gradi centigradi «si verificano ognicinque anni a partire dalla messa in operatività dell’ac-

edicola

di ILARIA DE [email protected]

LA NOTIZIA

IL VERTICE MONDIALE DI PARIGISUL CLIMA HA PRODOTTO UNDOCUMENTO FINALE CHE, A DETTADI TUTTI, È UN SUCCESSODIPLOMATICO NELLA FORMA E UNVERO FLOP NELLA SOSTANZA. LASVOLTA ORA SI ATTENDE DAGLIAMBIENTALISTI, DAGLI ATTIVISTIINTERNAZIONALI, DALLEASSOCIAZIONI, DALLEAMMINISTRAZIONI LOCALI, DAICOMUNI CITTADINI, COME SPIEGANAOMI KLEIN ALLA STAMPA. ADARE IL BUON ESEMPIO SONOAFRICA E FILIPPINE.

Cambiamenti climatici

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I FALSI DI PARIGIE IL POTERE DEI “PICCOLI”

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L’altra

cordo che è il 2021», spiega il sito di Comune-info. «Da unpunto di vista giuridico Cop21 può essere considerato unadichiarazione di intenti – scrive China Files - che stabiliscedegli obblighi, affidando però a ogni Paese la possibilità diautocertificare le emissioni prodotte e non prevedendo difatto sistemi di controllo super partes». Persino un settimanalecome l’Economist non ha tripudiato. Nel frattempo, ci sichiede, cosa fare?La palla ora passa ai piccoli: ai cittadini, ai consumatori, agliattivisti, ai comuni, alle associazioni. Alle persone.Naomi Klein in un’intervista all’associazione A Sud, dice:«Adesso più che mai tocca ai popoli, ai movimenti, alle lotteambientali farsi carico della sfida. Va denunciata l’insufficienzadell’accordo ma ancor di più vanno declinate e spinte leproposte capaci di costruire il “mondo che vogliamo”».Secondo l’autrice di “Una rivoluzione ci salverà”, intervistatadal The Star, «è nei tribunali, a livello provinciale e municipale.È nel mercato, con i disinvestimenti, e con l’aumento dellerinnovabili» che si agirà sul clima. «Parigi è solo una fermatalungo la strada», dice. Sebbene poi un sito come Collective-evolution scriva che spesso chi si oppone alle iniziative di-plomatiche mondiali sa bene cosa non vuole ma fa fatica acapire cosa vuole.«Noi tutti abbiamo un’idea abbastanza chiara di ciò chevorremmo non fosse più fatto al nostro pianeta – argomenta

Marc Angelo Coppola - Ma non penso sia altrettanto chiarocosa vorremmo che fosse messo in pratica in luogo diqueste misure».A dare il buon esempio per ora sono i più poveri. L’Africatenta di riempire di una qualche sostanza l’ambiziosoobiettivo climatico che limita a 1,5 gradi centigradi l’innal-zamento delle temperature globali, con un’iniziativa.È la panafricana AFR100 (African Forest Landscape RestorationInitiative) che vede dieci Stati, tra cui Kenya, Congo, Etiopiae Liberia, a recuperare 100 milioni di ettari di terrenoafricano degradato e disboscato entro il 2030, spiega WanjiraMatai. Il pezzo dell’Huffingotn Post è intitolato “Combatterei cambiamenti climatici con gli alberi in Africa”. Piantandoalberi e riqualificando le foreste, infatti, si controbilancianole devastazioni dell’effetto serra. I partner di AFR100 desti-neranno oltre un miliardo di dollari alla finanza per losviluppo e 600 milioni di dollari in investimenti nel settoreprivato per sostenere il ripristino delle foreste.Ma questo contributo è ben poca cosa rispetto a quello chemega-Paesi come Cina e India (molto inquinanti) nonsaranno mai disposti a fare. Ne parla il settimanale Forbes:«Guardiamo ai fatti: i Paesi in via di sviluppo, che costituisconocirca l’85% della popolazione mondiale, non limiteranno illoro sviluppo economico ed umano in nome di un risparmiodi carbone, petrolio e gas naturale, fonti che costituiscono

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time due settimane si è avuto nellaCommissione per i diritti umani delleFilippine che ha lanciato un’inchiestasui 50 maggiori inquinatori». Un’indaginecompleta sulle multinazionali che nonrispettano i limiti, o che fanno solo delgreenwashing, ossia un marketing verde,ma poi di fatto sporcano l’ambiente.Scrive la Reuters: «Tra le aziende alcentro dell’inchiesta, dice Greenpeace,ci sono anche le italiane Eni e Italce-menti».«Arrivare a stabilire la colpevolezza delleaziende petrolifere del gas e del carbone“non sarà una passeggiata”, ammetteRoberto Cadiz, membro della Commis-sione, che però ha aggiunto di sentirsimoralmente impegnato ad accogliereil ricorso, sia a causa del rapido aumentodi vittime provocate da fenomeni me-teorologici estremi, sia perché gli sforziper ridurre le emissioni che alterano ilclima stanno procedendo molto lenta-mente».

Cambiamenti climatici

l’85% dell’energia mondiale».L’Economist vede Cop21 come una cosautopica: «Il nuovo accordo chiede ai187 Stati parte di trasferire 100 miliardidi dollari all’anno dai Paesi sviluppati aquelli in via di sviluppo, entro il 2020.La maggior parte di questo flusso didenaro sarà speso per adattarsi ai cam-biamenti climatici più che per tentaredi fermali». Inoltre «questa cifra totale(che non si specifica da dove verrà,ndr) sarà rivista nel 2025».Il Corriere della Sera scrive: «La Cop21è stata, dopotutto, un evento diplo-matico e diplomatico, nell’accezione di“cauto”, è stato anche il suo esito».Senza fissare sanzioni a chi inquina esenza individuare le multinazionali“sporche”, il potere deterrente dell’ac-cordo è pari a zero.In questo senso una buona notiziaarriva da Manila più che da Parigi.Scrive Greenpeace sul suo sito: «Pernoi uno dei momenti migliori delle ul-

I l Rwanda è governato da una ferrea eviolenta dittatura che non lascia trapelare

nulla dalle strette maglie della repressionedi ogni libertà, individuale e collettiva. Ma èsicuramente tra le nazioni africane più mo-derne ed al passo con i tempi. La diffusionedi internet, ad esempio, è capillare: wi-figratuito addirittura sugli autobus, studio delcomputer obbligatorio nelle scuole.Ora un impulso per erogare energia anchenelle zone rurali arriva da un impiantosolare che può diventare un esempio pertutto il continente. Mira, infatti, a fornireelettricità a metà della popolazione (più di11 milioni) entro il 2017. La centrale solare(costruita con l’aiuto statunitense) è situatanei pressi del lago Mugeseka (60 chilometria Est della capitale Kigali), offre lavoro a350 persone, produrrà 8,5 megawatt dienergia sufficienti ad illuminare 15mila abi-tazioni. La centrale conta su 28.360 pannellisolari collegati ad un server centrale a Oslo(Norvegia), da dove sarà effettuato il moni-toraggio. Anche i pannelli fotovoltaici sarannocontrollati via computer e circa ogni duemetri quadrati (questa è la novità) si incli-neranno per seguire le fasi solari da Est aOvest, migliorando così l’efficienza del 20%rispetto ai pannelli fissi. I pannelli sono statirealizzati in Cina, mentre trasformatori edinverter sono stati costruiti in Germania. Lacostruzione della centrale è iniziata nel feb-braio 2014 e terminata nel luglio 2015, quasia tempo di record. Il progetto è stato soste-nuto da Potenza Africa di Barack Obamaed è costato poco meno di 24 milioni didollari.Va aggiunto che il Rwanda è tra i Paesi piùattrattivi per gli investimenti stranieri: scar-sissima la corruzione (perseguita duramente),chiarezza sul sistema di tassazione, vincoliburocratici ridotti al minimo. Capitali statu-nitensi e cinesi stanno affluendo velocemente,mentre sta diventando un Eldorado pertantissimi giovani occidentali laureati e di-soccupati che qui trovano facilmente lavoro.A patto, però, di dimenticare che qui man-cano libertà e democrazia.

di Enzo Nucci

ENERGIA SOLAREIN RWANDA

OSSERVATORIO

AFRICA

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interi orti. E siccome questa bestiolinaha già creato grossi problemi in altrenazioni, gli scienziati hanno inventatouna sorta di disinfestante, piuttosto ef-ficace e non nocivo per le altre specieanimali, che il governo sta distribuendogratuitamente per ridurne e controllarneil numero.Dopo le lumache, il ciclone! «Ma non èstagione! Senz’altro sarà debole!», cisiamo dette. Ci sbagliavamo. Ci ha tenutiinchiodati in casa per tre settimane. Ed

Non c’è pace tra gli ulivi! Qui adHoniara, nelle Isole Salomone,prima abbiamo avuto l’invasione

delle lumache, poi è arrivato un ciclonetotalmente fuori stagione. I contadinisono quelli che soffrono di più a causadelle calamità naturali.Le lumache, proverbialmente lente, nelgiro di una notte sono capaci di mangiarsi

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

ancora gli orti ne hannosofferto, ma stavolta il governo nonaveva nessun antidoto.Fortunatamente non ci sono state eson-dazioni, perché i disastri dello scorsoanno hanno allargato così tanto i lettidei fiumi che stavolta hanno potutocontenere la massa d’acqua del ciclone.C’era talmente tanta umidità che nonsapevamo più dove stendere il bucatoperché non si asciugava mai. Le ragazzeappendevano la loro biancheria su filitirati nelle loro camere, perché stenderlifuori, sotto la tettoia, era inutile. Glistudenti non sono potuti tornare ai lorovillaggi nel mese di pausa scolastica,perché il mare era troppo pericoloso.Persino nei negozi stavano cominciandoa scarseggiare i prodotti, le navi cargonon potevano attraccare.Nonostante questo tempaccio, le signoredella nostra scuola di economia domesticaerano presenti e puntuali ogni giorno,bagnate fradice, ma contente di co-minciare un’altra giornata di studio perimparare tante cose utili per la loro vita.E quando cominciavamo a respirare unpo’ e a rientrare nella normalità, ecco ElNino! Questo “ragazzino” dispettoso,che in alcuni posti causa forti alluvioni,in altri provoca devastanti siccità. A noiè toccata quest’ultima. Ed ancora unavolta i nostri poveri contadini hannopianto! Il problema è che qui tutti vivonosostanzialmente di prodotti dell’orto,che richiedono tanta acqua. E anche

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

La torta per ilbicentenario dellanascita di don Bosco,realizzata nellamissione di Honiara(Isole Salomone) dallesuore Figlie di MariaAusiliatrice.

Lumache, cicloni e sartoria

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stavolta il governo non aveva antidoti.Mattina e sera, con le ragazze armate disecchi d’acqua, siamo andate per tuttoil compound ad innaffiare le nostrepovere piante, mentre l’erba era tuttagialla. Il vento non mollava un istantedurante il giorno, si calmava solo dinotte. Per fortuna le riserve d’acquasotterranee sono piuttosto ricche. Il pro-blema, però, è che per bere e cucinareusiamo l’acqua piovana e le taniche sisono prosciugate.Ma la vita continua.Lo scorso agosto abbiamo festeggiato i200 anni dalla nascita di don Bosco, as-sieme alle due scuole dei nostri confratelliSalesiani: tre giorni di giochi, danze,gare, canti e musica, in perfetto stilesalesiano.Noi suore, con le signore della scuola dieconomia domestica, abbiamo preparatola torta di compleanno a forma di 200.Praticamente erano tre torte: una aforma di numero due e due a forma dinumero zero. Sono rimasti tutti a boccaaperta!È così bello lavorare con queste giovanidonne, veder crescere pian piano lafiducia in se stesse! Le studentesse hannotutte raggiunto i massimi voti nelle pa-gelle di metà anno scolastico e tuttehanno intenzione di terminarlo mante-nendo lo stesso livello.Il secondo gruppo delle signore delnostro corso di economia domestica èeccezionale: molto attivo e brillante,imparano velocemente, tanto che le in-segnanti quasi non riescono a mantenereil passo. Tutte hanno bene in mentecosa fare alla fine del semestre e lamaggior parte di loro ha già acquistatouna macchina da cucire, generalmentedi seconda mano. Ma sono anche bravenello scovare macchine da cucire ab-bandonate negli angoli delle case diamiche o parenti e nel farsele prestare.Poi le portano al corso per rimetterle infunzione: ormai sono diventata ancheun’esperta in macchine da cucire, riesco

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Posta dei missionari

a ripararle in un batter d’occhio... Si sa, imissionari devono sapersi ingegnare intutto! C’è da notare che qui si usano lemacchine da cucire a manovella, perchépochi hanno la corrente elettrica in casa,anche se vivono in città: è troppo cara enon se la possonopermettere.Quest’anno ab-biamo avuto an-che due studen-tesse speciali: duesuore anglicaneche lavorano in unCentro di recuperoper le donne chesubiscono violenzadomestica. Quandofiniranno il nostrocorso, ritornerannoal Centro per inse-gnare taglio e cucito a queste signorecome terapia di recupero ed anche perdare loro la possibilità, una volta rientratenella normalità, di guadagnarsi da viverefacendo lavori di sartoria. In questomodo anche noi Salesiane partecipiamoa questa opera ed allarghiamo semprepiù le nostre amicizie e la possibilità dicollaborare allo sviluppo di questa so-cietà.

Suor Anna Maria Gervasoni

Honiara (Isole Salomone)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo latestimonianza di padre Dario Bossi,missionario comboniano ad Açailândia(Brasile). Denuncia la grave situazionedi ingiustizia e sfruttamento nell’ultimotratto di Amazzonia ancora in vitanello Stato del Maranhão (per appro-fondire vedi l’Inchiesta a pag.18), madescrive anche i barlumi di luce nella«notte buia dei senza-posto».

K atia è un’indigena del gruppoAkrãtikategê. Fu espulsa dallasua terra: il villaggio doveva »

Raimundo dos Santose sua moglie.

Chi soffre restasveglio per proteggere il cuore

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Risuona, però, nel nostro cuore il poemadi Thiago de Mello: «Fa buio, ma iocanto». La nostra fede si misura nellacapacità di offrire ragioni di speranza.Con le parole del poeta: «Chi soffre restasveglio per proteggere il cuore».In questa notte del mondo ci mantienesvegli il sogno di papa Francesco, chechiama per aprire una storia nuova,marcata dal Giubileo della Misericordia.Giubileo è anno di grazia (Lv 25): l’annoin cui gli schiavi sono liberati, i debitiperdonati, il riposo restituito alla terraperché ricominci il suo ciclo naturale.È l’anno dell’abbondanza e della bene-dizione.Misericordia è amore viscerale. Non èun valore etico o un principio morale:

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Posta dei missionari

Sotto:

La Riserva di Gurupi, nella forestaamazzonica dello Stato del Maranhão.

è la forza incontrollabile di chi amasenza misura e non tollera limiti. È unamore che non si intimidisce se fuorifa buio.In questa notte, dunque, lottiamo perl’inclusione delle persone, per un tempodi grazia in cui si globalizzi la fraternitàe sia definitivamente abolita l’indiffe-renza! Facciamolo con compassione,senza sconti né risparmi. Se non misu-riamo la nostra misericordia, saremosorpresi dai frutti del Giubileo.Camminiamo cantando che le nostrelotte e la nostra preoccupazione perquesto pianeta non ci tolgano la gioiadella speranza!

Padre Dario Bossi

Açailândia (Brasile)

lasciare spazio alla diga di Tucuruí, cheallagò l’intera regione. Gli indigenifurono spostati a più di 200 chilometridi distanza, nella terra Mãe Maria.Ma anche la zona di Mãe Maria vieneviolentata dai grandi progetti: il rad-doppio della ferrovia di Carajás perl’esportazione del ferro, due linee dialta tensione ed una di fibra ottica percellulari, oltre alla superstrada che lataglia nel mezzo. Si replica, in chiavemoderna, il Vangelo di Natale: “Nonc’era posto per loro” (Lc 2,7).Raimundo dos Santos è un sindacalista,agricoltore, consigliere della Riserva fo-restale di Gurupi, ambientalista e di-fensore dei diritti delle comunità rurali.Da tempo denunciava il saccheggio dellegname della Riserva, l’ultimo fram-mento di Amazzonia nello Stato delMaranhão. È stato ucciso freddamentenell’agosto 2015, a fianco di sua moglieche è sopravvissuta alle ferite. Anche inquesto caso non c’era posto per lui, néc’erano orecchi attenti alla sua voce.Due piccole storie di questo microcosmodel Nord del Brasile, specchio locale delcontesto mondiale, in cui sembra con-solidarsi la spirale di guerra, esclusionee terrorismo. Fa buio, nella notte deisenza-posto.

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IL DISCO DEL PAPA

WAKE UP!

Dati o Tony Pagliuca, della storica band

progressive delle Orme).Quanto ai frammenti bergogliani si spazianel tempo e fra le latitudini: da quellostorico “Buonasera” con cui il 13 marzo2013 si presentò al mondo, fino a un’omeliacoreana dell’agosto dello scorso anno; inmezzo altri nove brani altrettanto significativi:da alcuni interventi alla GMG di Rio, allacommuovente “Preghiera per la Pace” chepapa Francesco condivise in Vaticano con

S gombriamo subito il campo da even-tuali equivoci. Questo non è “il disco

di papa Francesco”, ma piuttosto un discodi canzoni inframmezzate da preghiere eriflessioni di papa Bergoglio. Il progetto –come il suo celebre predecessore Abbà

Pater che uscì alla vigilia del grandeGiubileo del 2000 – ha la stessa direzioneartistica, quella dell’ormai 80enne masempre intraprendente don Giulio Neronidelle Edizioni Paoline. E tuttavia moltesono le differenze.Nell’opera dello scorso Giubileo, le paroledel papa si sovrapponevano e intersecavanocon la musica (un mix giocoforza pretta-mente strumentale che oscillava tra l’ambient

e il multietnico); qui invece si è preferitoscindere le due componenti, alternando ilparlato del papa alle atmosfere sonore,col “vantaggio” di poter aggiungere le vocialla struttura ritmico-melodica.Undici i frammenti in entrambi i casi,costruiti con l’essenziale supporto di RadioVaticana, ma l’impatto è fin dal primoascolto piuttosto diverso. Abbà Pater avevauna produzione sontuosa (c’era di mezzoun colosso come Sony Music), suoniomogenei ed eleganti; qui tutto è statorealizzato con pochi mezzi e suona un po’più povero e dimesso. Del resto, non ècerto un mistero che a questo papa mals’accordino le ridondanze, mediatiche enon. A questo tocca aggiungere la finalitàdel progetto: non certo incrementare lapopolarità di un personaggio (che non neha davvero bisogno), piuttosto offrire unapiccola opportunità in più per meditarne ilpensiero e lo stile. Dunque nessun nomealtisonante, ma un manipolo di bravi artisti(tra cui, comunque, spuntano nomi bennoti fra gli addetti ai lavori, come Beppe

Shimon Peres e Mahmoud Abbas.Uscito in contemporanea mondiale nel no-vembre scorso, Wake Up! è distribuito daBelieve Digital su licenza Multimedia SanPaolo, e parte dei proventi verranno devolutia un fondo di sostegno per i rifugiati.Undici tracce che spaziano dal gregorianoal pop-rock, sorvolando i grandi temi delmagistero bergogliano: la solidarietà umanae le sperequazioni sociali, la famiglia, l’at-tenzione alle giovani generazioni, con quelsuo parlare sempre vivido e schietto che ètutt’ora uno dei tratti salienti - e rivelatori -del suo essere. Parole e musica di speranzae d’incoraggiamento per tutti: forse nonserviranno a dare più forza al vero, se nonunico, punto di riferimento morale su cuil’umanità di questi tempi possa contare,ma ci sono casi in cui le buone intenzioninon servono solo a lastricare l’inferno…

Franz Coriasco

[email protected]

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nario in Giappone. In un gioco di flashback

e ricordi dell’anziano Bergoglio, diventatocardinale di Buenos Aires e in attesa dientrare nel conclave da cui uscirà papa,inizia il film “Chiamatemi Francesco” diDaniele Lucchetti (autore di “Il portaborse”,“La nostra vita”), prodotto da Taoduefilme distribuito da Medusa, salutato da unsuccesso di pubblico nelle sale cinema-tografiche (per ora solo) italiane. La pellicolarealizzata in poco più di tre mesi tra Italia,

Germania e Argentina, è ispirataal libro “Il papa della gente” diEvangelina Himitian e vede comeprotagonisti due attori molto notialle platee sudamericane. Il gio-vane Bergoglio (dalla fine deglianni Cinquanta al 2005) è in-terpretato da Rodrigo de La Ser-na, mentre Sergio Hernandezveste i suoi panni negli anni suc-cessivi fino al conclave del mar-zo 2013. Entrambi riescono adare spessore alla forte volontàdi un figlio di emigranti italiani,chiamato a confrontarsi con iproblemi del suo tempo, vissutiattraverso un amore coraggiosoe caparbio per gli ultimi, per iperseguitati, per i poveri am-massati nelle villas miserias delleperiferie di Buenos Aires.La pellicola, liberamente ispirataalla vera storia del papa argen-tino, mette in campo personaggisimbolici come Ester (Paula Bal-dini), la giovane fidanzatina la-sciata per entrare nei Gesuiti e

Chiamatemi FranChiamatemi Franpoi ritrovata come madre di una giovanedesaparecida negli anni della dittatura mi-litare del generale Videla (1976- 1981).All’epoca non ancora 40enne e già superioreprovinciale dei Gesuiti, Bergoglio deve con-frontarsi con il dramma dei preti coraggioche vivono tra i poveri o che denuncianosparizioni e torture di civili inermi. Alcunisono uccisi brutalmente, altri rinchiusi nelleprigioni del regime e vessati in modo orribile,seguendo il destino di quel gregge oppressoda cui ogni tanto spariscono alcune pecoreper non tornare più. Bergoglio non sposale tesi della Teologia della Liberazione, manon smette di aiutare la gente, aiutando iperseguitati a trovare riparo o mediandotra i movimenti di piazza e le forze di polizia.E quando gli chiedono: «Da che parte stai?Stai con i comunisti?», Bergoglio dice: «Iosto con Cristo». Una risposta chiara cheripete più volte nel corso della sua vita,fino ai tempi nostri.Il gesuita dal carattere fermo è anche uninstancabile mediatore tra i preti delle pe-riferie e i potenti del regime: con tutti parlachiaro, con le parole e con i gesti, spen-dendosi sempre in difesa degli ultimi. Sem-

U n giovane dagli occhi intensi balla iltango in una balera di Buenos Aires.

In un tavolo, un gruppo di ragazzi pocopiù che ventenni parla di politica, di Perone dei fermenti politici che in quegli anniagitavano l’Argentina e altri Paesi dell’Ame-rica Latina. Il giovane in pista guarda negliocchi la ragazza che sta per lasciare perentrare in Seminario, dai Gesuiti. Il suonome è Jorge Mario Bergoglio e ha decisoche dedicherà la sua vita a fare il missio-

IL SOGNO MISSIODEL GIOVANE J

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non mi sono accostato anche per rispetto.Io non sono credente: preferisco crederenelle cose che vedo. Ho scelto di rimaneresul Bergoglio più "politico" perché sicura-mente era quello più visibile». Per Lucchettiquesta esperienza segna un punto impor-tante nella carriera di regista impegnato araccontare il sociale. Infatti dice: «Mi sem-brava interessante spiegarmi perché questopersonaggio oggi è così, e attraverso qualistrade è passato. Il momento della gioventùmi è sembrato interessante perché c’erachi ci raccontava di questo giovane pre-occupato e con una certa baldanza. A soli37 anni diventa provinciale dei Gesuiti, poiperde questo incarico e comincia un po’daccapo. Trovo affascinante anche il suofare un passo indietro, tornare sulla pre-ghiera. Visto che non volevo rappresentarela preghiera, ho raccontato la messa inopera della preghiera, che è anche l’assi-stenza ai poveri».

Miela Fagiolo D’Attilia

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ncesconcescopre senza un briciolo di paura, sempre colrosario pronto a sgusciare dalla tasca deipantaloni. Particolarmente tenace è la suadevozione alla “Madonna che scioglie inodi”, di cui distribuisce l’immagine persinoagli speculatori che negli anni Novanta de-cidono di radere al suolo una villa per co-struire un quartiere residenziale. Nel 1992Bergoglio viene nominato da GiovanniPaolo II vescovo ausiliare di Buenos Airese la sua scelta preferenziale per i poveriviene testimoniata sul fronte delle periferieurbane, degradate e bisognose di pastori.Le ruspe dei palazzinari restano sollevatein aria quando, tra gli abitanti della villa daabbattere e la polizia pronta a caricare,l’allora vescovo della capitale argentina,

NARIOORGE

monsignor Antonio Quarracino, e lo stessoBergoglio allestiscono in fretta un altare ecelebrano messa. Un episodio che è me-tafora della forza della Buona Novella cri-stiana che altro è da ogni schieramentopolitico. Non a caso all’anteprima del filmche si è svolta nell’aula Paolo VI il 1° di-cembre dello scorso anno, il papa «ha vo-luto invitare i poveri, i senzatetto, i profughi,le persone più bisognose insieme ai lorovolontari, religiosi e laici, che operano quo-tidianamente nella carità». Settemila invitati,tutti idealmente in prima fila, ad assistereal film realizzato da Daniele Lucchetti, ilregista che dice: «Dopo questo film credodi più alla gente che crede». Si è avvicinatoad una figura ricca e complessa comeJorge Mario Bergoglio, ascoltando moltetestimonianze di chi lo ha conosciuto espiega: «Ho descritto la parte visibile diBergoglio, che un po’ tutti mi hanno rac-contato: era un gesuita dinamico, che pas-sava all’azione anche con una certa ca-pacità di scegliere la cosa giusta. C’è unadimensione spirituale molto forte, alla quale

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U n piccolo gioiello da leggere e rileggere,dal titolo “Siamo quel che mangiamo?

Un lessico del cibo tra Scrittura e cultura”,scritto dal cardinale Gianfranco Ravasi (Edi-zioni Emi). Affascina la disinvoltura e lasapiente capacità di citare testi diversi spie-gandoli con semplicità. Si passa dalla Bibbiaa scritture dell’Oriente, citando anche grandipensatori europei e mondiali. Il cardinaleRavasi fa una riflessione profonda sui diversiaspetti del cibo e i suoi significati anchesimbolici. L’attenzione punta su pane, vinoe acqua. «Nella tradizione cristiana - scriveRavasi – le due prime opere di misericordia“corporale” sono proprio il “dar da mangiareagli affamati” e “dar da bere agli assetati”».L’autore sottolinea come nel “Padre Nostro”ci sia «l’invocazione destinata a sostenerel’esistenza» nel «dacci oggi il nostro panequotidiano». Egli spiega poi che nella nostra

LIB

RI Il nutrimento di Dio

ture di san Fran-cesco, in cui silegge una lode al-tissima per que-sto vitale elemen-to: «Laudato si’,

mi’ Signore, per

sor’Acqua, la

quale è molto uti-

le et humile et

pretiosa et ca-

sta». Il cardinal Ravasi mette in evidenzache nella Bibbia «l’acqua è simbolo di Dio,sorgente di vita». Sostenendo poi che l’ac-qua diventa l’emblema di Cristo, come sipuò intuire dal celebre dialogo con la Sa-maritana: «Chi beve dell’acqua che io glidarò non avrà più sete, l’acqua che io glidarò diventerà in lui sorgente di acqua chezampilla per la vita eterna».

Martina Luise

religione Cristo ha dato un forterilievo spirituale al pane nell’euca-ristia, con cui i fedeli si cibanoproprio del Suo corpo. Per quantoconcerne il vino si sottolinea come questo,assieme al pane, nella prospettiva cristiana,acquisisca un rilievo unico a livello teologico.Il cardinale cita la scrittrice francese, SimonWeil, che nel 1942 scriveva: «Dio risiedenel nutrimento». Poi Ravasi scrive dell’acquasostenendo che «un filo d’acqua scorreidealmente attraverso le pagine delle SacreScritture». L’autore ricorda anche quellosplendido testo che è il Cantico delle Crea-

Una situazione di grande disagiotra il caldo umido e l'inizio dellastagione delle piogge; nono-stante le tante privazioni e i mo-menti di sconforto hanno avuto- come si legge -fiducia nellaProvvidenza e certezza di essereamati dal Padre.Dopo 57 giorni vengono liberatie consegnati alle forze dell'or-dine camerunensi per poi essererimpatriati. Dal giorno della libe-razione è gioia e ringraziamentoe in questa testimonianza silegge: «In tutto il mondo, in mol-tissimi hanno pregato che fos-simo liberati. Noi crediamo diessere stati liberati per liberare a nostra volta gli altri». Unsorprendente esempio di senso cristiano vissuto nel drammadella prigionia e dell’anticamera della morte.

Chiara Anguissola

Gianfranco RavasiSIAMO QUEL CHE MANGIAMO?UN LESSICO DEL CIBO TRA SCRITTURA E CULTURAEdizioni Emi - € 5,00

U na suora canadese e due preti fidei donum di Vicenzavengono rapiti nel cuore della notte da Boko Haram. È il

4 aprile 2014 sono circa le ore 23. Sono i tre missionari dellaparrocchia di Tchére nel Nord del Camerun, al confine con laNigeria.Tenuti in ostaggio per otto settimane nel mezzo della savananigeriana, vivono un vero inferno, come raccontano nel libro-diario “Rapiti con Dio. Due mesi prigionieri di Boko Haram”:vedono e sentono gli aerei alleati bombardare il quartier ge-nerale dei terroristi a pochissimi chilometri dalla loro prigione;sotto due grandi alberi, privati di tutto, si coricano, si lavano(quando riescono ad avere una minima razione di acqua), ce-lebrano la messa, finché non viene loro confiscata la borsacon il necessario e pregano, meditano il Vangelo, recitano ilrosario, il tutto circondati a vista d'occhio dagli aguzzini. For-tunosamente, suor Gilberte Bussière, della congregazione diNotre-Dame de Montreal, riesce a tenere un diario clandestinodove annota gli accadimenti, i pensieri e le riflessioni sullaParola del Signore in condivisione con i suoi due compagni,padre Gianantonio Allegri e padre Giampaolo Marta. Hannovissuto in zona di guerra nel pericolo reale di subire violenza.

G. Allegri - G. Bussière - G. Marta

RAPITI CON DIODUE MESI PRIGIONIERI DI BOKO HARAMPrefazione di Giancarlo BregantiniEdizioni Emi - € 10,00

Nelle mani di Boko Haram

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Vademecum del Centro missionario diocesanoCampagna Missio, Focsiv, Caritas

portante iniziativa giubi-lare riconosce il diritto dichi è spinto a partire daguerre e discriminazioni arimanere nella propriaterra, come spiega donMichele Autuoro, diretto-re di Missio: «Molti nonvorrebbero lasciare le loro

case, gli affetti, la propria cultura masono costretti a farlo nella speranza diuna vita migliore. Non intendiamo fer-mare gli esodi perché ognuno ha il di-ritto di scegliere cosa vuole fare e laChiesa italiana è impegnata sul pianodell’accoglienza, seguendo il Vangeloche ci ricorda che “ero forestiero e miavete accolto”. Vogliamo aiutare la per-sona a 360 gradi, sia per restare nellasua terra, sia che bussi alla nostra por-ta se costretto a partire. Vorremmo an-che accompagnare progetti per la si-curezza dell’emigrazione nei Paesi chesono anche vie di traffici di esseri uma-ni. In molte situazioni ci sono perso-ne che vivono in condizioni indegneper l’essere umano, al punto che mol-ti hanno perso e continuano a perde-re la vita in simili luoghi e circostan-ze». Di qui l’idea di lanciare una seriedi microprogetti facendo perno suimissionari, sui volontari della

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

VITA DI MISSIO

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liana sono impegnate nella campagnaper la realizzazione di microprogetti disviluppo nei Paesi di origine dei mi-granti. Dopo l’appello del papa, l’im-

P er l’Anno della Misericordia,nell’ambito delle iniziative con-tenute nel Vademecum appro-

vato dal Consiglio permanente dellaConferenza episcopale italiana, “Indi-cazioni alle diocesi italiane circa l’ac-coglienza dei richiedenti asilo”, conparticolare riferimento al punto 7,“Nel riconoscimento del diritto di ri-manere nella propria terra”, la Fonda-zione Missio, la Federazione degli Or-ganismi Cristiani Servizio Internazio-nale Volontario (Focsiv) e Caritas Ita-

»

Una grande reteper svilupparetanti progetti

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PIETRO, PESCATOREDI GIOVANI

Focsiv e sulla Caritas, su chi è già im-pegnato a sostenere realizzazioni interre di missione.La campagna è una importante occa-sione per una sinergia tra organismi,collegando «iniziative già in atto gra-zie al mondo del volontariato» comesottolinea Gianfranco Cattai, presiden-te di Focsiv. Dall’ufficio microrealizza-zioni di Caritas italiana, FrancescoCarloni spiega a chi è rivolta l’inizia-tiva: «Innanzitutto alle diocesi cheutilizzano la microrealizzazione comestrumento di animazione pastorale. Èuna assunzione di responsabilità daparte delle Chiese italiane a cui è rivol-to il vademecum: i vescovi, le Caritas

diocesane, i Centri missionari diocesa-ni, le ong della Focsiv». Una rete, un im-pegno di condivisione, in questo Giu-bileo che chiede gesti concreti.

Campagna Missio, Focsiv, Caritas

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Orti familiari e produzione di sapone in Etiopia

VITA DI MISSIO

Microprogetti giubilari

MISSIOVia Aurelia, 79600165 Roma tel. 06 [email protected] www.missioitalia.it

CARITAS ITALIANAVia Aurelia, 79600165 Roma tel. 06 661771 [email protected] www.caritas.it

FOCSIVVia di S. Francesco di Sales, 1800165 Roma tel. 06 6877867 [email protected] www.focsiv.it

Nonostante la rapida crescita economica, l’Etiopia sicolloca al 173esimo posto della tabella di Indice di

Sviluppo Umano: dei suoi circa 100 milioni di abitanti, 22,6milioni di persone vivono al di sotto della soglia di pover-tà. Il basso livello di accesso all’istruzione primaria, ca-ratterizzata da una forte disparità ragazzo–ragazza, siaccompagna ad un’insufficiente riduzione di mortalità in-fantile e di miglioramento delle condizioni di salute ma-terna con significative variazioni tra area urbana e rura-le. L’agricoltura, nonostante sia il settore dominante l’eco-nomia del Paese, costituisce solo il 46% del Pil, rimanen-do un fattore critico per l’implementazione dello svilup-po generale.Uno dei microprogetti giubilari si propone di destinare 5milaeuro per promuovere il diritto alla sicurezza alimentaree all’igiene attraverso il sostegno ad un programma di for-mazione costituito da due corsi in agricoltura, nutrizio-ne, igiene e salute che si svolgeranno nella valle di AngarGuten, nei mesi di aprile e settembre, per due giorni a set-timana. Al termine del programma saranno consegnati,unitamente al certificato di partecipazione, vari tipi di semidi ortaggi, alberi da frutto e strumenti per il mantenimen-to dell’orto che, creato durante la formazione, sarà fon-te di adeguata nutrizione e di sufficiente reddito per lefamiglie. A beneficiarne sarà il villaggio di Andode, nel di-stretto di Gida Kirama, all’interno della zona amministra-tiva di Wollega orientale nella regione di Oromia. La po-

polazione, 15mila abitanti, rappresentati dai gruppi et-nici Oromo, Gumus, Amhara e Tigray, vive grazie alla col-tivazione di mais e sorgo che consentono di ottenere unraccolto annuale durante la stagione delle pioggie e talecircostanza, insieme all’aumento del prezzo del cibo, co-stringe molte famiglie ad una riduzione della quantità dialimenti che, associata al consumo dei cereali, privi di ap-porto proteico, sono la principale causa di malnutrizio-ne soprattutto materna ed infantile. Tale bisogno è in-terpretato dalla Comunità missionaria di san Paolo apo-stolo e Maria, Madre della Chiesa (MCSPAM), associa-zione di fedeli della Chiesa cattolica, costituita da pre-ti e laici, che nasce in Etiopia nel 1993, su esortazionedel vescovo di Nekemte. Rivolge la sua attività a proget-ti di salute pubblica, educazione prescolare e sviluppo del-l’acqua e delle risorse agricole. Nel 2003, in seguito allapetizione della comunità e con l’appoggio delle autorità,costituisce il Centro per Madri e Bambini dove crea un pic-colo orto di alberi da frutto e verdure per integrare la die-ta, priva di proteine, dei 120 bambini cui il Centro forni-sce colazione, pranzo, educazione prescolare e controllimedici periodici. Protagoniste di questo progetto sono60 donne che, al termine del piano formativo, condivide-ranno le conoscenze su metodi di preparazione e conser-vazione domestica di frutta e verdura e di produzione disapone, con il resto della comunità e con gli abitanti del-le località limitrofe nella valle di Angar Guten.

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Vademecum del CentroIntervista a don Mario Vincoli

«N oi siamo sette fratelli, trepiù grandi di me e tre piùpiccoli. La mia famiglia era

molto contenta della mia scelta, apatto che io fossi felice. Nel 2001sono partito per gli Stati Uniti a studia-re l’inglese e finalmente nel 2002 sonoatterrato nelle Filippine: ma in quattroanni sono tornato a casa soltanto unavolta. Questa lontananza mi ha insegna-to una cosa che non dimenticheròmai: ci si vuole bene anche se non ci sivede». Anzi, la lontananza rafforza i le-gami. A raccontare la sua scelta voca-zionale, che è anche una proposta divita ben ponderata negli anni della for-mazione teologica nelle Filippine, è donMario Vincoli, il nuovo segretario del-la Popf e della Poim, per la Fondazio-ne Missio. Classe 1976, don Mario è ar-rivato a Roma a luglio dell’anno scor-so.«L’esperienza missionaria nelle Filippi-

di ILARIA DE [email protected]

Guardando lontano

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la sua diocesi aversana. Quella sarà an-che la prova del nove per la sua sceltaconfessionale: capirà che è proprio il sa-cerdozio il talento da mettere a frut-to.«Sì, avrei potuto essere un laico impe-gnato in parrocchia, ma sapevo che po-tevo dare di più. Che quello non mi sa-rebbe bastato», dice.«Già quando frequentavo le scuole »

ne agli inizi del Duemila mi ha cambia-to tanto perché mi ha fatto vederequello che in Italia non vedevo – rac-conta - ossia una Chiesa più gioviale,più bella meno istituzionale. Menoburocratica. Pulita, libera». Le Filippine,Paese ricco di bambini e anche di don-ne in attesa di figli, era il Paese idealeper don Mario, così giovane anche luied abituato a stare con i ragazzini, nel-

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medie – racconta – eandavo in parrocchia,sentivo che quella vita lìera la mia. Trovavo inquegli ambienti un luo-go molto adatto a me.Ma non era ancora lachiamata di Gesù. Avreipotuto essere semplice-mente un laico. Piùtardi volli una cosadifferente: volli dedi-carmi completamenteal Vangelo». Capisceallora che la sua voca-zione è proprio unacompleta scelta delcuore. «Quella cosache senti nella pan-cia come la sente unpittore che non puòfare a meno di di-pingere o una balle-rina di danza classi-ca che non può nondanzare… Quellasacerdotale è unavocazione e per me fu un vero dono».«La mia prima attività in missione eralegata al lavoro con i bambini: si chia-mavano koa e loa, bambini e bambineformati per servire la messa e danzaredurante le celebrazioni», ricorda. E cimostra le foto di quegli anni, dove luisembra uno del gruppo, se non per etàquantomeno per semplicità ed integra-zione.Gli chiediamo se quella scelta gli costòsacrifici e anche rinunce e ci rispondecon un sorriso molto aperto che parlada sé: «Di rinunce senz’altro ce ne sonostate, ma sempre legate ad una promes-sa. Dietro ad ogni rinuncia c’è qualco-sa di bello che verrà dopo! Gesù dice:“Fratelli, sorelle e madri ne troveretetanti altri…”. Ecco, tutte le rinunce

VITA DI MISSIO

che ti chiede e che a prima vista pos-sono sembrare un perdere, piano pia-no diventano un ricevere». Nelle Filip-pine rimarrà il tempo giusto per finiregli studi teologici, poi di nuovo in Ita-lia, nella sua diocesi ed infine arriva “lachiamata” ai piani alti della Fondazio-ne Missio, con la quale collabora.Anche a Roma arriva senza saperebene per quale motivo lo abbiano vo-luto, ma accetta di buon grado e sem-pre con una fiducia cieca in una volon-tà che sa essere quella che plasma de-stini: «La cosa più bella sono i ragazzi:non c’è gioia più grande per me dell’es-sere diventato segretario di un segre-tariato come questo che si occupa discoprire l’indole missionaria nascosta inogni giovanissimo».

Oltre a partire per le missioni, confes-sa don Mario, è importante convertireil cuore ad una visione estatica dell’al-tro.«I ragazzi possono essere missionari an-che a scuola, anche nel loro quartiere,anche in casa», dice. Lui assicura che staprovando ad essere un missionario an-che a Roma, dentro gli uffici di Missio,nelle diocesi che visita, con gli impegniche si è assunto e che saranno impo-stati sull’esempio dei giorni filippini:niente chiusura, niente burocrazia matanta aria nuova e stimoli ad uscire, adandare, a vedere. A stare nelle perife-rie decentrate di questo nostro mondo,in contatto costante con le periferie dimondi lontani.

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Mentre papa Francesco, il primo giorno dell’an-no, da piazza San Pietro, invitava il mondo allapace e pronunciava quelle parole non solo alle

comunità cristiane riunite attorno a lui ma a tutti i po-poli del mondo, di qualunque credo e di qualunquenazione, 17 ragazzi di diverse parti d’Italia erano insie-me a Gerusalemme per vivere un pellegrinaggio in Ter-ra Santa promosso da Missio Giovani. Sulle orme di Gesù,nella sua terra, ripercorrendo il suo Vangelo e lasciandoche lo Spirito Santo soffiasse nei cuori di ognuno.Questi sono stati gli ingredienti che hanno reso indimen-ticabile la settimana tra il 27 dicembre e il 4 gennaio scor-si, per i giovani inviati dai Centri missionari diocesani chehanno risposto ad un invito e si sono messi in gioco con fi-ducia.Il viaggio in Terra Santa si inserisce nel solco del progetto“Pellegrinaggio sulle orme dei martiri” proposto nel 2010 daMissio Giovani ai Centri missionari diocesani d’Italia. In quel-l’anno, che coincideva con il 30esimo anniversario dell’as-sassinio di monsignor Oscar Romero, il pellegrinaggio sul-le orme dei martiri fu in Guatemala e Salvador, seguendoRomero, ma anche monsignor Angelelli e il sangue di mol-ti altri martiri meno noti. La proposta, con cadenza bienna-

le, proseguì nel 2012 con il viag-gio in Albania dedicato al “Cal-

vario di un popolo”, poi nel 2013 con il viaggio in Cambo-gia “Cento specie di amori” e nel 2015 in Terra Santa con il

tema “Ti farò luce per le nazioni”.Quest’anno, all’inizio dell’anno giu-bilare, sentiamo profondamentel’occasione di vivere concreta-mente il tempo e i luoghi della Mi-sericordia di Dio Padre nel volto deifratelli e delle sorelle conosciuti du-rante i nostri pellegrinaggi, in par-ticolare in Terra Santa. A guidare lesette meditazioni bibliche su cui cisi è soffermati durante il viaggio, èstato padre Claudio Monge,

VA’ DOVE TI PORTAIL VANGELOVA’ DOVE TI PORTAIL VANGELO

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missionario domenicano ad Istanbul, che sem-pre accoglie le proposte di Missio Giovanicon affetto e amicizia.Ognuno dei partecipanti, nei giorni trascor-

si in quei luoghi, ha fatto i conti con il deserto che si por-ta dentro, scoprendo piacevolmente che non è un postodi morte ma il “luogo della presenza di Dio”. Quando tut-to vacilla, quando la terra trema sotto i nostri piedi, quan-do il freddo che sentiamo dentro è più forte di quello pro-vato a Gerusalemme sotto pioggia continua e perfino qual-che spolverata di nevischio, in quel momento Dio mette unatenda dentro noi, per rimanervi, per “fare” casa in noi. Ci chie-de permesso umilmente, e aspetta un «sì». Aspetta che glifacciamo spazio nel cuore.«È troppo poco che tu sia mio servo, io ti farò Luce per leNazioni» dice in Isaia.E non lo dice da datore di lavoro che promette una pro-mozione al fedele salariato. È l’Amore inspiegabile che loguida e che scardina ogni nostra convinzione e ragionamen-to. Un Amore scandaloso, perché l’Amore di Dio scanda-lizza sempre, e a questo “scandalo” non ci abitueremo mai.È un Amore che diventa volto in Gesù.Potremmo quasi dire che, se prima di Gesù l’Amore di Dioera per certi versi difficile da conoscere, con Gesù questoAmore ha trovato un corpo umano dove estendere l’infi-nita ampiezza, dove manifestare l’assoluta potenza del ser-vizio. Dio ha scelto di entrare dentro i limiti della nostra uma-nità per mostrarci che l’Amore vero non conosce confini.Dio ha un cuore che batte, che palpita, si chiama Gesù, ilFiglio Amatissimo. Egli ci mostra che l’Amore trova effica-cia non solo quando si offre ma soprattutto quando lo siaccoglie. E accogliere l’Amore non è mai facile! Questo pel-legrinaggio non è stato solo una visita “ai luoghi”, per altrospesso inaspettatamente deserti, ma un tempo per fare spa-zio dentro di sé, per accogliere in noi, come Maria, la vo-lontà di un Dio che non si stanca di amarci.

Alex Zappalà

VITA DI MISSIO

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PER AIUTARE I MISSIONARI E LE CHIESEDEL SUD DEL MONDO ATTRAVERSO LE PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE:- Bonifico bancario sul c/c n. 115511

intestato alla Fondazione Missio pressoBanca Etica (IBAN: IT 55 I 05018 03200 000000115511)

- Conto Corrente Postale n. 63062855intestato a Missio - Pontificie OpereMissionarie, via Aurelia 796 – 00165 Roma

(informazioni: [email protected] –06/66502620)

Sono l’organismo ufficiale della Chiesa cattolica per aiutare le missioni e le Chiese del Sud delmondo nell’annuncio del Vangelo e nella testimonianza di carità. Approvate e fatte proprie dallaSanta Sede nel 1922, sono presenti in 132 Paesi. In Italia operano nell’ambito della FondazioneMissio, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana.Attraverso un fondo di solidarietà costituito dalle offerte dei fedeli di tutto il mondo provvedono a:• finanziare gli studi e la formazione di seminaristi, novizi, novizie e catechisti;• costruire e mantenere luoghi di culto, seminari, monasteri e strutture parrocchiali per le attività

pastorali;• promuovere l’assistenza sanitaria, l’educazione scolastica e la formazione cristiana di bambini e

ragazzi;• sostenere i mass-media cattolici locali (tv, radio, stampa, ecc.);• fornire mezzi di trasporto ai missionari (vetture, moto, biciclette, barche).

PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE

flitto etnico tra Hutu e Tutsi, resta tesoe fonti internazionali riferiscono discontri armati nelle principali città, da Bu-jumbura a Muhanga, senza escludere Gi-tega, considerata il feudo elettorale delpresidente Pierre Nkurunziza, giunto alterzo mandato in violazione della Costi-tuzione.Lo scorso anno scolastico è stato carat-terizzato da una forte insicurezza poli-tico-sociale, vissuta all’interno del GrandSeminaire “Nello spirito di corresponsa-bilità e comunione” secondo il tema an-nuale scelto per orientare i programmi diformazione dei nuovi sacerdoti burun-desi. In piena coscienza che ogni mem-bro della comunità ha una parte di re-sponsabilità nella riuscita della formazio-ne globale, ogni formatore o seminari-

BURUNDIA Gitega tra gli studentidel Grand Seminaire

L a visita di san Giovanni Paolo II inBurundi nel 1990 è stata uno deipiù grandi avvenimenti per i cat-

tolici del Burundi nel XX secolo. A Gite-ga si riunirono allora per partecipare aduna messa del papa decine di migliaia difedeli acclamanti e dopo la sua parten-za fu costruito un Seminario che portail suo nome. Il Grand Seminaire Jean PaulII ospita oggi 120 seminaristi di cui 47new entry, provenienti da tutte le dio-cesi del Paese. Al di fuori dei corsi per laformazione che vi si svolgono, vengonoorganizzate molte manifestazioni musi-cali e culturali a carattere religioso e lagrande biblioteca di cui è fornito ilcomplesso è a disposizione anche di stu-denti esterni al Seminario. Il clima nelPaese, già segnato dal drammatico con-

sta si è impegnato più del solito a par-tecipare attivamente all’organizzazionee alla vita della comunità, dando provadello spirito di disponibilità nell’eserci-zio delle responsabilità pastorali. Lo scri-ve il rettore Martin Sinumvayaha, del cle-ro della diocesi di Ngozi, nominato nelfebbraio 2014, nella lettera di ringrazia-mento all’Opera di San Pietro Apostoloper il sussidio ordinario ricevuto. Graziea questo sussidio, il Grand Seminaire con-tinua ad essere un importante polo di for-mazione del clero e un’area di promozio-ne culturale in un Paese che cerca fati-cosamente di riconquistare un futuro dipace.

Miela Fagiolo D’Attilia

GRAZIE AMICIGRAZIE AMICISolidarietà delle Pontificie Opere Missionarie

CHI FA UN’OFFERTA PER LA MISSIONE UNIVERSALE ATTRAVERSO LE

PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE ITALIANE CONTRIBUISCE ALLA

SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE CHE ARRIVA FINO AGLI ESTREMI CONFINI

DELLA TERRA. GRAZIE ALLA GENEROSITÀ DI CHI DONA, OGNI ANNO

VENGONO REALIZZATI PROGETTI DI DISPENSARI, ASILI, SCUOLE, SEMINARI,

CHIESE IN TUTTI I PAESI DEL SUD DEL MONDO. BASTA APRIRE L’ATLANTE

DELLA MISSIONE PER SCOPRIRE DOVE UOMINI, DONNE E BAMBINI DI TUTTE

LE RAZZE E LE CULTURE RICEVONO L’AIUTO CHE PARTE DALL’ITALIA.

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Intenzioni

A nche se la fede cristiana oggiè diffusa in tutto il mondo,non possiamo ignorare che

il messaggio di Gesù di Nazareth ger-mogliò in Terra Santa, territorio delgrande continente asiatico. Il cepporeligioso su cui si sviluppò fu l’ebrai-smo, che unitamente all’altra grandereligione monoteista, l’islam, viderotutte la luce nel continente asiatico.Se a ciò aggiungiamo che anche legrandi tradizioni religiose presentioggi sul pianeta, come l’induismo, loscintoismo, il buddismo, sono natetutte in Asia, possiamo dire che que-sto continente porta dentro di sé uninnato afflato religioso, fecondo ter-reno di coltura per i sentimenti mi-stici dell’umanità.Oggi, stando agli scarni dati nume-rici, vediamo che il continente che hail minor numero di cristiani è propriol’Asia. Con la felice eccezione delle Fi-lippine, nella stragrande maggioran-za delle nazioni asiatiche i cristianinon sono che un piccolo resto. Maforse sta proprio in questa particola-rità la sfida più bella ed esaltante chela fede cristiana ha per poter dialoga-re con i popoli dell’Asia, dove può

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di MARIO [email protected]

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presentarsi senza trionfalismi di sor-ta e senza quello sfarzo eccessivoche tanto ha pesato sulla storia euro-pea nei secoli scorsi. Sta proprio quiinfatti l’opportunità provvidenzialeper un dialogo fecondo con tutte legenti, basato espressamente sulla te-nerezza del Vangelo per “agganciare”al messaggio di Gesù di Nazareth lepopolazioni dell’Asia. Più che mai leminoranze cattoliche sono chiamateoggi ad essere compagne di viaggio suisentieri della speranza e della libera-zione che devono percorrere ancorale immense moltitudini asiatiche.Se la Chiesa rimane in minoranza,non è dettoche per que-sto rimangainsignificantenella realtàasiatica, anzi:ci sono tuttigli elementiperché possaeffettivamentetrasformarsi inuno stimolofondamentaleper vivere il ri-

spetto e la tolleranza e per proclama-re i diritti dell’uomo a qualunque “ca-sta” appartenga. Teniamo presente,inoltre, che il colosso asiatico per ec-cellenza, ovvero la Cina, non offrenessuna indicazione circa il numerodegli aderenti alla Chiesa cattolica chevivono all’interno di questo grandePaese. Il giorno in cui sarà possibilecontare i battezzati in Cina, avremodelle gradite sorprese perché ancorauna volta ci accorgeremo che la mi-glior evangelizzazione, come nei tem-pi antichi, è avvenuta nelle cata-combe, lontana dalle luci della ribal-ta dei nostri giorni.

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I N T E N Z I O N E M I S S I O N A R I A

PERCHÉ CRESCANO LEOPPORTUNITÀ DIDIALOGO E DIINCONTRO TRA LAFEDE CRISTIANA E IPOPOLI DELL’ASIA.

Piccoli semi di speranza

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I N S E R T O P U M

la frase dell’ateo Albert Einstein:«Essere consapevoli che dietro tuttoquello che possiamo sperimentare sinasconde qualcosa che il nostro in-telletto è incapace di comprendere,qualcosa la cui bellezza e maestositàpossono brillare in noi solo in ma-niera imperfetta e debole, essere co-scienti di questo è la vera religiosità.In tal senso io sono un ateo profon-damente religioso». Ho fiducia chein quel “qualcosa” prima o poi riu-scirà a riconoscere l’immagine diquel Dio Padre e Creatore che ci harivelato Gesù.Per me, ho preferito rileggere papaFrancesco in Evangelii Gaudium n.27: «Sogno una scelta missionariacapace di trasformare ogni cosa,perché le consuetudini, gli stili, gliorari, il linguaggio e ogni strutturaecclesiale diventino un canale ade-guato per l’evangelizzazione del »

(Segue a pag. 65)

Le parole dellamodernità

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gli studi che ha intrapreso. Ma quelriferimento a «parole e occasionidiverse» dice qualcosa di più. Diceche anche in una valle perifericaracchiusa tra due catene di monti,qual è quella in cui vivo, è ormai ar-rivata la modernità. Quella cheesclude necessariamente la formaconcreta di religione che la mia ex

chierichetta prefe-rita ha fino adoggi conosciuto epraticato. Io le vo-glio ancora piùbene, anche se riu-scirò a vederlasempre meno. Ebene voglio a que-ste piccole comu-nità dove – pur se

lentamente – giungono ad infil-trarsi le idee della modernità. Unasfida crescente, ma che non neces-sariamente ci consegna una Chiesain fallimento. Piuttosto esalta la ra-gione della sua esistenza e missione:continuare a trasformare il mondonel Regno di Dio grazie alla po-tenza salvifica di Gesù.Alla vispa 14enne ho consegnato

di GIUSEPPE [email protected]

«Sai, don… Mica ho piùtanta voglia di tuttequelle chiacchiere in

parrocchia». A dirlo è una ragazzinache solo qualche mese fa avrei indi-cato come la mia chierichetta pre-ferita. Una vispa 14enne che, a di-spetto dell’età e delle vicissitudinifamiliari, ha sempre dimostrato di-sponibilità e af-fetto alle personee alle attività dellaparrocchia. Mi haraccontato conentusiasmo dellascuola superiorealla quale è ap-prodata. Di nuoviamici e di nuoveamiche. Dell’am-biente cittadino dove ora passa granparte della sua giornata. «Gesù mipiace, lo ammiro. Che Dio esiste,però, non lo credo più. Il mondo sispiega con le sue leggi. Ho bisognodi parole e occasioni diverse».I tratti comuni dell’atteggiamentodegli adolescenti davanti alla reli-gione ci sono tutti, insieme agli ef-fetti delle evidenze scientifiche de-

MODERNITÀ E FEDE,DA MOLTI VISSUTI

COME BINOMIO CHETENDE AD

ESCLUDERSI, SICOMPLETANO E SIARRICCHISCONO

VICENDEVOLMENTE

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Il 2 febbraio, Giornata Mondialedella Vita consacrata, è calato il

sipario sull’Anno della Vita consa-crata, mentre i riflettori, nel tempoforte della Quaresima, sono sem-pre più puntati sul Giubileo che ciinvita a “mettere in pratica” indica-zioni, attese, auspici emersi e ap-profonditi nel corso dell’anno del-la vita consacrata, ri-assumendo,in modo creativo, il compito fon-damentale, che consiste nel faremisericordia come declinazionesempre nuova del comandamen-to dell’amore.La misericordia di Dio, attraversodi noi, diventando gesto concreto

di misericordia verso i bisognosi e gli infelici, può rinnovare, oggi,l’umile ma comunicativa profezia delle origini della vita religiosa.«Ho incontrato il Padre misericordioso in un letto di ospedale; nel-le lacrime di chi non aveva più la forza di portare il suo dolore.

RELIGIOSE E MISSIONE

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L’ANGELO DEI BAMBINI DI BETLEMME

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te mondo attuale, più che per l’auto-preservazione».Mi domando: quali sono i cambia-menti più necessari per pensareDio in modo da sentirsi a pieno ti-tolo cittadini del mondo modernoe allo stesso tempo autenticamentefedeli alla tradizione? Chi ha vis-suto l’esperienza concreta dellamissione non ha dubbi: occorreritrovare l’essenziale. Nelle giovaniChiese è impensabile vivere l’an-nuncio portando dietro il mille-nario monumento teologico e ri-tuale cattolico. Papa Francesco,che da quelle Chiese proviene,nella famosa intervista del 19 ago-sto 2013, diceva: «La Chiesa avolte si è fatta rinchiudere in pic-cole cose, in piccoli precetti. Lacosa più importante è invece ilprimo annuncio: “Gesù Cristo tiha salvato!”. E i ministri dellaChiesa devono innanzitutto essere

lunga esperienza di fede nell’invitoad “amorizzare il mondo”! Nonconsumiamo dunque l’Anno Santoparlando di misericordia a rischio-inflazione, quanto piuttosto vivia-mola, accogliamola e abitiamola.Le parole verranno dopo, e aiute-ranno a riformulare la professionedi fede in Dio come Amore cheprogressivamente si rivela nella ma-teria, nella vita, nella coscienza enell’intelligenza umana, e in modopieno nell’amore totale e disinteres-sato di Gesù e in coloro in cui Gesùvive. Ci accorgeremo che moder-nità e fede, da molti vissuti comebinomio che tende ad escludersi, sicompletano e si arricchiscono vi-cendevolmente. La fede cristiana li-bera la modernità dalla sua cecità difronte a ciò che la trascende e l’ab-braccia. E la modernità arricchiscela fede e la completa, ripulendolada immagini che oggi rischiano di

L’ho incontrato nell’entusiasmo dei giovani studenti infermieri, fe-lici di poter fare qualcosa per gli altri. L’ho visto ed amato nel vol-to sfigurato ma sorridente dei lebbrosi. Ho toccato con mano laSua misericordia e tenerezza con i malati terminali di Aids... Stoincontrando il Padre anche qui, in questo lembo di terra dalle mil-le contraddizioni. Qui, a Betlemme, tra i bambini del Caritas Baby

Hospital. Qui mi aspettava per farmi capire la mia maternità e spon-salità. Qui dovevo arrivare!».È questa la testimonianza di suor Donatella Lessio, suore Fran-cescane Elisabettine di Padova, direttrice del Centro di formazio-ne continua al Caritas Baby Hospital, il primo ospedale specia-lizzato pediatrico di Betlemme che dal 1952 cura i bambini di tut-ta la Cisgiordania e la cui gestione è affidata da 40 anni alle suo-re Elisabettine di Padova. Lo scorso anno, nel mese di febbraio,suor Donatella, come rappresentante di “Aiuto Bambini Betlem-me Onlus”, è stata ricevuta in udienza privata da papa Francescoa cui ha consegnato un attestato di “Angelo dei Bambini di Betlem-me”, a testimonianza del suo impegno a favore dei piccoli ma-lati della Palestina.«La gente si accorge di quello che facciamo e la domanda chele mamme musulmane ci rivolgono è: “Perché lo fai?”. Allora par-

ministri di misericordia».Proprio l’Anno Santo della Miseri-cordia, iniziato l’8 dicembre 2015ma che ha visto significativamenteaprire la prima Porta santa il 29novembre 2015 a Bangui nella Re-pubblica Centroafricana, può con-tribuire in modo decisivo a vivere inmaniera concreta l’essenziale delcristianesimo nel mondo moderno.La straordinarietà di questo Giu-bileo, infatti, sta nel riproporre agliuomini e alle donne di oggi cheDio dà appuntamento all’uomo làdove Lui desidera incontrarlo: «Mi-sericordia io voglio e non sacrificio»(Mt 12,7). Sulla bocca di Gesù lafrase del profeta Osea si riferisce al-l’amore che Dio dà all’uomo. Vuoldire: «Voglio usare misericordia,non condannare». Quel grandemissionario e fratello di tutti, che èstato il mio concittadino ArturoPaoli, ha lasciato la sintesi della sua

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I N S E R T O P U M

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H a celebrato i suoi primi 50 anni di vita al servizio delle Re-ligiose nel mondo e della Chiesa lo scorso 12 dicembre.

È l’Unione Internazionale delle Superiore Generali (UISG), chein concomitanza con l’avvio del Giubileo straordinario della Mi-sericordia, ha così festeggiato un traguardo ecclesiale impor-tante. Ma la notizia forse più lieta è venuta da uno dei proget-ti presentati in quell’occasione. Dieci suore del Progetto Mi-granti della UISG hanno annunciato la loro partenza per la Si-cilia, dove ora stanno dando vita a due comunità intercongre-gazionali per “essere ponte” tra la popolazione locale e i mi-granti. Si tratta di una missione molto bella ed attuale della qua-le parleremo presto in modo più dettagliato. L’intento delle duenuove comunità costituite da una decina di religiose indiane,eritree, keniane, congolesi, etiopiche, argentine, italiane è quel-lo di mettersi a disposizione delle diocesi di Agrigento e Cal-tagirone, al servizio dei migranti. Per la prima volta si realiz-za così in Italia un progetto “intercongregazionale”, che coin-

volge cioè religiose appartenenti a diversecongregazioni, in risposta all’appello delpapa di aprire le porte a profughi e migran-ti. Per capire cosa sia l’UISG ricordiamo chefu proprio l’8 dicembre 1965, giorno con-clusivo del Concilio Vaticano II, che i Pa-dri Conciliari approvarono l’istituzione del-l’Unione Internazionale delle Superiore Ge-nerali. Nel 1967 si svolse la prima Assem-blea Generale, alla quale parteciparono cir-ca 200 Superiore Generali. Per mancanzadi altri mezzi, furono le stesse Superiore Ge-nerali che, nei loro viaggi, fecero conosce-re l’Unione appena nata, ricevendo rispo-ste entusiaste, specie da parte delle con-gregazioni minori e più isolate geografica-mente, segno che l’UISG rispondeva a unavera necessità. Oggi, dopo 50 anni di vita,la UISG, formata da 1857 Superiore Gene-rali responsabili sia di Istituti di Diritto pon-tificio che di Diritto diocesano, presenti in

oltre 100 Paesi e rappresentanti oltre 350mila re-ligiose, rinnova il suo impegno come spazio in-tercongregazionale e internazionale di dialogo,confronto e azione.

frapporre uno schermo tra l’uomoe Dio-Amore, intimo nella realtàpiù profonda di ogni persona e in-contrabile sempre ed ovunque daciascuno. M

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liamo del Bambino nato in una grotta a Betlemme che, diventa-to grande, ha scelto la croce per comunicare il suo amore infini-to per ogni uomo, specie per i più deboli, per i più piccoli, per gliemarginati. Capiscono, eccome! Ringraziano e ci dimostrano laloro gratitudine in tanti modi, nel loro modo che commuove, chenon senti di meritarti perché, alla fine, non facciamo chissà che!».Certo, suor Donatella, non fate “chissà che”… ma fate miseri-cordia. E questo basta, anzi è tutto!

Suor Azia CiairanoResponsabile animazione missionaria Usmi

UISG: 50 anni di vita e una missione ponte

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