Terrorismo umanitario - Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza

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Il volume raccoglie una serie di saggi sul tema delle guerre "umanitarie" e delle guerre preventive, scatenate nell'ultimo ventennio dalle potenze occidentali, in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. L'accento è posto sul processo di "normalizzazione" della guerra di aggressione, sulle strategie militari della "lotta al terrorismo" e sui nuovi apparati di comunicazione di massa usati per giustificare moralmente e giuridicamente le stragi di persone innocenti. Sullo sfondo Danilo Zolo propone una nozione profondamente diversa di "terrorismo" rispetto alle formule opportunistiche varate dagli Stati Uniti e servilmente accolte dalla grande maggioranza dei paesi europei e dei loro giuristi accademici.

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Progetto grafico e copertinaStudio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 645 5

© 2009 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

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Danilo Zolo

Terrorismo umanitarioDalla guerra del Golfo alla strage di Gaza

D I A B A S I S

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Se confrontata con il nichilismo di un ordine centralizzato, che prevale ser-vendosi dei moderni mezzi di distruzione di massa, l’anarchia può appari-re all’umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il so-lo rimedio efficace.

Carl Schmitt, Der Nomos der Erde, 1950.

Le terroriste est en fait un terrorisé.

Yadh Ben Achour, Le rôle des civilisations dans le système international, 2003.

Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento ab-bia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliarde-simo di probabilità che il granello sollevato dal vento vada a finire negli in-granaggi e ne arresti il movimento, la macchina che stiamo costruendo ètroppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino.

Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, 1979.

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Introduzione

1. Il terrorismo umanitario delle nuove guerre

Quale pacifismo dopo la replica terroristicadell’11 settembre 2001?

La guerra universalistico-umanitaria contro l’“asse del male”

Il modello della guerra globale: dalla guerra del Golfo alla guerra di aggressione contro l’Iraq

La riabilitazione terroristica della guerra

Militarismo umanitario

Perché il global terrorism è così diffuso e potente?

La distruzione del Libano e il “modello Hiroshima”

I frutti avvelenati della “guerra umanitaria”e il nuovointerventismo umanitario del presidente Barack Obama

2. La giustizia penale internazionale al serviziodelle grandi potenze

Luci e ombre della International Criminal Court

Accanimento imperiale

Processare il nemico sconfitto

La pacificazione dei popoli attraverso la giustizia penaleinternazionale?

Carla Del Ponte e la “sindrome di Norimberga”

Il processo contro Saddam Hussein: fucilazioneo impiccagione?

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La guerra in Libano e il diritto internazionale

L’impiccagione di Saddam Hussein per volontàdi George Bush

Moreno Ocampo: un procuratore bifronte

3. Il terrorismo sionista e il suppliziodel popolo palestinese

Edward Said: il terrorismo sionista

Sionismo, antisionismo e antisemitismo

Una sentenza non basta per abbattere il muro di Sharon

Per una riconsiderazione storico-politica del terrorismosuicida in Medio Oriente

Hamas e il terrorismo in Palestina

L’etnocidio del popolo palestinese continua

L’etnocidio continua ancora

Gli Stati Uniti dishonest broker

Due Stati per due popoli?

Gaza: lo splendore del supplizio

4. Dulce bellum inexpertis: sulle ormedella guerra globale

In Afghanistan

In Palestina

In Colombia

In Corea del Nord

Bibliografia

Indice dei nomi

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Introduzione

Presento in questo volume una serie di saggi dedicati a tretemi diversi ma strettamente connessi fra loro. Mi occupo an-zitutto delle “nuove guerre”, decise nell’ultimo ventennio dal-le potenze occidentali dopo il crollo dell’impero sovietico e ilrapido sviluppo dei processi di globalizzazione e dell’econo-mia di mercato. In secondo luogo analizzo criticamente lafunzione di pacificazione del mondo che le Nazioni Unitehanno inteso attribuire alla giustizia penale internazionale, inparticolare ai Tribunali ad hoc e alla Corte penale internazio-nale. Infine, dedico un’amara riflessione alla “questione pa-lestinese”, che si trascina tragicamente da decenni, a partiredalla auto-proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 e si-no alla recente strage di Gaza.

Si tratta di temi di teoria del diritto e delle istituzioni inter-nazionali che ho tentato di affrontare con obiettività e rigoreanalitico, senza però rinunciare ai miei “pregiudizi” politici.La certezza di non essere depositario di alcuna verità mi sti-mola alla riflessione autocritica e nello stesso tempo, nella sciadi Norberto Bobbio, mi tiene lontano dal formalismo acca-demico e dall’indifferenza degli accademici di fronte alle tra-gedie del mondo. L’ultimo capitolo che raccoglie quattro bre-vi racconti di viaggio – in Afghanistan, Palestina, Colombia,Corea del Nord – pretende di essere una modesto attestato diquesta lontananza.

Il titolo del volume – Terrorismo umanitario – può sembra-re una formula ermetica o una intollerabile provocazione po-litica. In realtà il mio intento è di proporre una nozione di

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“terrorismo” che vada oltre gli stereotipi oggi in uso in Occi-dente. La nozione a cui penso dovrebbe rovesciare la strategiaintellettuale di chi applica l’attributo “terrorista” soltanto ainemici dell’Occidente con riferimento quasi esclusivo alla tra-gedia dell’11 settembre 2001 e al mondo islamico. Nel miolessico teorico “terrorismo” assume un significato per moltiaspetti diverso e più ampio, come cercherò di chiarire con uncerto rigore nel paragrafo conclusivo. Anticipo qui che, dalmio punto di vista, “terrorista” è anzitutto, anche se nonesclusivamente, chi scatena guerre di aggressione usando ar-mi di distruzione di massa e fa strage in modo inevitabile, equindi consapevolmente – spesso di proposito –, di migliaiadi persone innocenti, terrorizzando e devastando interi paesi.In questo senso il terrorismo contemporaneo, nelle sue mo-dalità principali, si è sviluppato all’ombra delle “guerre uma-nitarie” volute dagli Stati Uniti e dai loro alleati a partire dal-la guerra del Golfo del 1991 e dalle guerre balcaniche in Bo-snia-Erzegovina e in Serbia.

Molto probabilmente questa strategia terroristica sta rag-giungendo il suo culmine con l’imponente operazione milita-re “Colpo di spada”, che sta impegnando 4.000 marines nelprofondo sud-ovest dell’Afghanistan con l’obiettivo di an-nientare il movimento Taliban. L’operazione, che si è aggiun-ta al recente invio di oltre 10.000 soldati statunitensi, è statadecisa e realizzata con eccezionale tempestività ai primi di lu-glio del 2009 dal nuovo presidente degli Stati Uniti, BarackObama. La sua linea di politica estera non sembra per ora al-lontanarsi da quella del suo predecessore, George Bush. No-nostante il nuovo stile comunicativo e le molte speranze che lasua apertura al mondo islamico ha suscitato, resta il fatto cheBarack Obama si dichiara convinto che sarà la forza delle armia riportare la pace in Afghanistan e nell’intera area medio-rientale. Forse è più realistico pensare che questa sia la stradache porta verso nuovi conflitti di ampie proporzioni, destina-ti a coinvolgere le potenze regionali emergenti nel mondo asia-tico se non direttamente alla terza guerra mondiale.

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Il terrorismo di matrice islamica ha ferocemente e tragica-mente risposto alle “guerre umanitarie” con l’arma nichilista edisperata del martirio suicida e omicida, cosicché si può so-stenere che oggi il terrorismo è di fatto il nuovo tipo di guerra,è il cuore della “guerra globale” che è stata scatenata dal mon-do occidentale e ha provocato la replica dei militanti islamici.E il terrorismo che viene dall’est è una delle ragioni profondedel diffondersi nel mondo occidentale dell’insicurezza e dellapaura, mentre una deriva di frustrazione e di solitudine ali-menta una crescente richiesta di protezione e di incolumità in-dividuale, con conseguenze politiche tutt’altro che positive.

1. Il terrorismo degli aggressori

A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso si è affer-mato in Occidente un processo di normalizzazione delle nuo-ve guerre. L’industria della morte collettiva si è fatta più chemai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle ar-mi da guerra è del tutto sottratto al controllo della cosiddetta“comunità internazionale”. E l’uso delle armi dipende sem-pre più dalla decisioni che le grandi potenze prendono ad li-bitum, secondo le proprie convenienze strategiche. Sentenzedi morte collettiva vengono emesse nella più assoluta impu-nità contro migliaia di persone non responsabili di alcun ille-cito penale, né di alcuna colpa morale. E nel mercato dellamorte il valore di scambio della vita umana è sempre più di-versificato fra le persone ricche e civilizzate, è cioè in massimaparte occidentali, e le persone povere e non civilizzate che vi-vono nel sottosuolo del mondo1.

In questi anni le stragi hanno colpito soprattutto civili iner-mi e indifesi, come è ormai la caratteristica delle nuove guer-re, ma hanno anche spento la vita di migliaia di giovani in di-visa, impegnati a difendere il proprio paese dall’aggressionestraniera. Si è trattato di guerre di aggressione “ineguali”, perusare l’espressione proposta da Alessandro Colombo2, nelle

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1. Il terrorismo umanitario delle nuove guerre

Quale pacifismo dopo la replica terroristicadell’11 settembre 2001?

1. Nelle sue Lettere contro la guerra Terzani scrive che l’11settembre 2001 è stato per lui una sorta di improvvisa illumi-nazione morale, una vera e propria epifania: ha capito che ègiunto il momento di reagire, di dire no alla barbarie, all’in-tolleranza, all’ipocrisia, al conformismo, all’indifferenza1. L’11settembre il mondo è radicalmente cambiato: nulla è più co-me prima e nulla può ormai essere considerato “normale”. Edunque – ecco l’impellente raccomandazione morale che nederiva –, dobbiamo cambiare anche noi: fermarci, riflettere,prendere coscienza, provare vergogna per le nostre “vite nor-mali”, divenire operatori di pace.

Terzani ha ragione? Il suo pacifismo etico va preso sul se-rio? La via che sta indicando è, se non la via della pace, alme-no una delle vie che possono ragionevolmente portare versola pace? È sostenibile che la prima condizione della pacifica-zione del mondo e della sconfitta del terrorismo è la nostra per-sonale conversione alla non-violenza? È proprio vero, comeTerzani pretende, che “ancor più che fuori, le cause della guer-ra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, lapaura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità”? Se vo-gliamo la pace, dobbiamo dunque liberarci dalle passioni, ab-bracciando la filosofia della “rinuncia” dei sanyasin indiani?

Oppure, al contrario, è giustificato il dubbio che l’appellomorale di Terzani non sia molto utile, che esso sia una ripro-posizione di tematiche gandhiane, riesumate in tempi e in luo-

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ghi tutt’altro che propizi per il profetismo pacifista? La pre-dicazione pacifista finirà per confermare che la filosofia dellanon-violenza è tanto nobile quanto velleitaria, estranea com’èa qualsiasi possibile iniziativa politica? La “rinuncia” non èforse una scelta esistenziale del tutto incompatibile con la no-stra cultura occidentale, oggi più che mai fabbrile, acquisitivae competitiva?

2. Ci si può chiedere, anzitutto, se è proprio vero che conl’11 settembre il mondo è radicalmente cambiato. È agevoleobiettare che c’è un aspetto importante per il quale ciò che èaccaduto l’11 settembre si presenta come una conseguenza,largamente prevedibile, di fenomeni internazionali in atto daun decennio: a partire, cioè, dalla fine della guerra fredda, dalcrollo dell’impero sovietico e dall’affermazione degli StatiUniti d’America come la sola, assoluta superpotenza planeta-ria. L’ultimo decennio del secolo ha visto le potenze occiden-tali, sotto la guida degli Stati Uniti, impegnate in una politicadi potenza che è stata percepita dai paesi non occidentali –soprattutto nel mondo islamico e nell’Asia orientale – comeuna sfida crescente nei confronti della loro integrità territo-riale, della loro indipendenza politica e della loro stessa iden-tità collettiva. In altre parole, è stata percepita come una stra-tegia terroristica di egemonia mondiale.

L’intera serie degli interventi armati decisi dagli Stati Uni-ti a partire dalla guerra del Golfo hanno messo in evidenza ildivario crescente fra il potenziale bellico (e quindi economi-co, scientifico, tecnologico, informatico) di cui dispone la su-perpotenza americana e quello del resto del mondo. Forsemai nella storia dell’umanità la potenza di un singolo paese èapparsa così soverchiante sul piano politico e così invincibilesu quello militare. La “guerra umanitaria” della NATO con-tro la Federazione Jugoslava, in particolare, ha provocato inpaesi come la Russia, l’India e la Cina, rappresentanti quasi idue terzi della popolazione mondiale, un’ondata di allarme e,assieme, un profondo rancore e un desiderio di rivincita nei

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3. Il terrorismo sionista e il supplizio del popolo palestinese

Edward Said: il terrorismo sionista

1. Ho riletto La questione palestinese di Edward W. Said. Èun libro molto bello, non meno di Orientalismo, l’opera che loha reso celebre1. La questione palestinese è un libro colto, ric-co di dati, frutto di una ricerca di prima mano, appassionato.Ma è soprattutto un libro utile: è una delle pochissime “in-terpretazioni palestinesi” della storia della Palestina di cui lacultura occidentale disponga.

Sebbene sia stato scritto circa vent’anni fa – o forse proprioper questo –, il libro offre elementi di riflessione di grande ri-lievo e di una sorprendente attualità. Ci aiuta a cogliere inprofondità le ragioni storiche di ciò che oggi sta accadendo inPalestina: il definitivo fallimento degli accordi di Oslo e del-la “mediazione” statunitense, l’esplosione della nuova Intifa-da che ha ormai come obiettivo l’indipendenza di tutto il po-polo palestinese, la devastazione di ciò che resta di Gaza, del-la Cisgiordania e di Gerusalemme-est dopo trentacinque annidi occupazione militare, lo smantellamento dell’Autorità na-zionale palestinese, la strage senza fine di ebrei e di palestine-si innocenti.

Capire ciò che sta accadendo in Palestina non è facile, an-che perché i grandi mezzi di comunicazione, in particolare latelevisione, non ci aiutano. Ignorano o rimuovono delibera-tamente le complesse radici del conflitto in atto, affidandosiesclusivamente alle cronache degli inviati speciali o alle dub-bie competenze di “esperti” politici o militari, che dannospesso l’impressione di non aver mai messo piede in Palestina.

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Per di più, il riferimento emotivo al tema dell’antisemitismo edell’Olocausto e una latente ostilità nei confronti del mondoislamico impediscono a molti europei una valutazione razio-nale delle responsabilità politiche degli attori coinvolti: gliStati Uniti, Israele, i paesi arabi, le organizzazioni palestinesi.

Ciò che a mio parere rende prezioso il contributo di Said èil suo tentativo di ricostruire la “questione palestinese” da unpunto di vista palestinese – non genericamente arabo o isla-mico – e di farlo a partire dagli inizi dell’intera vicenda: la na-scita del movimento sionista, l’affermazione della sua ideolo-gia nel contesto della cultura colonialista europea degli ultimidecenni dell’Ottocento, l’avvio del fenomeno migratorio ver-so la Palestina. E in parallelo Said traccia la storia del popolopalestinese e ne presenta un accurato profilo demografico esociologico.

È da questi elementi che bisogna partire, sostiene Said, se sivuole “capire” la questione palestinese. “Capire”, se si acco-glie questo suggerimento metodologico, significa rintracciarela linea di continuità storica e ideologica che lega fra loro unalunga serie di eventi: le prime ondate dell’emigrazione sionistain Palestina, la costituzione dello Stato di Israele, la sua pro-gressiva espansione territoriale, la dispersione terroristica delpopolo palestinese, la negazione (non solo israeliana, ma an-che araba) della sua identità collettiva, l’occupazione militaredi tutte le sue terre, la prima e la seconda Intifada, il terrorismosuicida praticato dal nazionalismo palestinese estremo.

2. C’è un tema cruciale sul quale Said insiste, accumulandoun’ampia documentazione e interpretandola con estrema curafilologica. Nei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento,periodo nel quale le potenze europee, in primis l’Inghilterra,decidevano le sorti della Palestina e incoraggiavano il movi-mento sionista ad occuparla, la Palestina non era un deserto.Era, al contrario, un paese dove viveva una comunità politica ecivile composta di oltre seicentomila persone, che dava nomeal territorio e che lo occupava legittimamente da secoli.

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4. Dulce bellum inexpertis: sulle ormedella guerra globale

In Afghanistan

Kabul, ottobre 2004. Communication Officer: con questaqualifica formale, attestata da una carta di identificazione eda un nastro sgargiante che ho tenuto perennemente appesoal collo, Emergency mi ha protetto dai pericoli di un lungoviaggio in Afghanistan. La protezione di Emergency è statauna condizione di sopravvivenza nelle regioni esterne alla ca-pitale, poco urbanizzate e non controllate dalle forze militaridegli Stati Uniti e della NATO. In queste regioni gli occiden-tali sono guardati con un misto di stupore antropologico e diostilità. I più giovani accorrono a frotte per osservare da vici-no le fattezze dello straniero, ridono rumorosamente e a vol-te tirano sassi. Lo scorso anno le strade del nord e del sud so-no state dichiarate “insicure” dopo l’uccisione di un funzio-nario delle Nazioni Unite e, nel giugno di quest’anno,l’assassinio di cinque membri di Médecins sans Frontières. Ac-cade così che mentre i Land Cruiser di Emergency si muovo-no in queste aree con relativa tranquillità, tutelati dall’uni-versale rispetto di cui gode l’organizzazione italiana, evane-scente è la presenza delle Ong “umanitarie”. Altrettanto sipuò dire per la Croce Rossa internazionale e per i funzionaridelle Nazioni Unite.

In compagnia di Gino Strada e di Carlo Garbagnati, vice-presidente di Emergency, ho attraversato il paese dal nord alsud, a partire dalla valle del Panchir, in prossimità del Tajiki-stan e della Cina, dove svettano i primi contrafforti del Ka-rakorum e dell’Himalaya. Qui, nel villaggio di Anabah, è sta-

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to costruito nel 1999 il primo ospedale di Emergency. Neglianni ottanta questa valle è stata il teatro di scontri sanguino-sissimi fra i russi e i mujaheddin tagichi. Il fondovalle è invasoda centinaia di carcasse di carri armati, di mezzi blindati e diarmi pesanti di ogni tipo. Gli scontri si sono riprodotti, vio-lentissimi, nella guerra civile fra i mujaheddin, guidati dal“leone del Panchir”, Ahmad Shah Massud, e i Taliban, dopoil ritiro definitivo delle truppe sovietiche nel 1989. Lo scem-pio di vite umane si è concluso con le stragi provocate, a par-tire dall’ottobre 2001, dai bombardamenti degli Stati Uniti,che hanno usato bombe sino a sette tonnellate di peso, comela micidiale daisy-cutter, ‘taglia-margherite’. Senza dimenti-care le cluster bombs e i proiettili all’uranio impoverito.

Il mio viaggio si è concluso nel sud estremo, oltre Kandahar,nella regione dell’Helmand, delimitata dal confine pakistano eda quello iraniano. Qui si concentra l’etnia Pashtun e qui il mo-vimento dei Taliban è tuttora ben radicato. È attribuibile a mi-lizie talibane il gran numero di razzi che nei giorni precedentile elezioni politiche del 9 ottobre sono piovuti sia nella regio-ne di Kandahar, sia nella capitale. Uno di questi razzi ha cen-trato l’ambasciata degli Stati Uniti, dove è asserragliato l’am-basciatore Zalmay Khalilzad, a due passi dall’ospedale diEmergency e dalla residenza del suo personale. Sullo sfondo èsempre presente l’ombra del fondamentalismo islamico e delterrorismo. Sarebbe grave ingenuità trascurare che qui, fra de-serti rocciosi e alture desolate e impenetrabili, si è sviluppatoAl Kaeda e si è annidato Osama Bin Laden. Le pareti di moltetrattorie di Kandahar sono pavesate dall’immagine di Manhat-tan, con al centro le torri gemelle, allusivamente presentatecom’erano prima dell’11 settembre. E circolano scatole di ca-ramelle “Super Osama Bin Laden”, con l’effigie del leader ter-rorista che campeggia sull’involucro esterno.

In questa regione, al centro di una vasta area desertica, per-corribile solo su piste di sabbia e di sassi, sorge l’oasi cittadi-na di Lashkar-Gha. Qui, il 12 ottobre, alla presenza di autoritàcentrali e locali, protette da massicci schieramenti di polizia,

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Emergency ha inaugurato un nuovo ospedale. È il terzo in ter-ra afghana ed è stato dedicato alla memoria di Tiziano Terza-ni. L’ospedale è un autentico miracolo di efficienza, di solida-rietà umana e di coraggio. Non può che suscitare un senti-mento di profonda ammirazione.

Al salam alekkum: la pace sia con te. È il saluto che gli af-ghani si scambiano con frequenza, portandosi la mano destraal petto. Anch’io ho imparato a usare questo saluto. Non c’ènulla di più essenziale che si possa augurare ad un uomo o auna donna afghana. Negli ultimi vent’anni circa due milioni diafghani sono morti sotto le bombe, smembrati dalle mine, uc-cisi dal freddo o dalla fame. Il territorio dell’Afghanistan ospi-ta circa otto milioni di mine antiuomo: i “pappagalli verdi”,come li chiamano i vecchi afghani. Una parte di queste minesono di produzione italiana: famigerata è la “Valmara 69”, cheper anni è stata prodotta, a due passi da Brescia, dall’impresaValsella, associata alla Fiat.

Negli ospedali di Emergency quasi tutti i giorni, ancora og-gi, arrivano bambini straziati da mine russe o italiane. Mi è ca-pitato di vederne alcuni, con gli arti inferiori maciullati, i te-sticoli devastati, spesso con il volto sfigurato e gli occhi spen-ti. Non c’è emozione più forte per chi conservi un minimorispetto per la vita e l’innocenza. Una emozione non minoreho provato nel vedere bambini mutilati chiedere l’elemosinaaccovacciati al centro delle strade più trafficate di Kabul, co-stantemente esposti ad essere travolti dalle macchine che lisfiorano ad alta velocità.

Circa due milioni di afghani sono invalidi e oltre quattro mi-lioni si sono rifugiati in Iran o in Pakistan. Chi è riuscito a rien-trare dopo la caduta del regime talibano vive in condizioni diestrema povertà. L’aspettativa di vita degli afghani è una dellepiù basse del mondo: 47 anni per i maschi, 46 per le donne.Negli indici dello “sviluppo umano”, curati dalle Nazioni Uni-te, l’Afghanistan è sempre stato nelle ultimissime posizioni.

Basta attraversare il centro e la periferia di Kabul per co-gliere la tragedia del popolo afghano. Kabul è una città grigia

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e tristissima, coperta da una miscela di polvere e di smog, do-vuto alla pessima qualità dei carburanti e alla decrepitezza deimotori. Quello che un tempo era stato il centro della città, cir-condato da colline e da prati in fiore, oggi offre uno spettaco-lo cimiteriale. Interi quartieri, demoliti dai bombardamenti, sialternano a immensi cimiteri. Le macerie, se consentono an-cora un minimo riparo, sono abitate. I cimiteri sono in realtàzone aride e sassose dove le tombe non sono altro che picco-le pietre informi, infisse nel terreno. La città dei sopravvissu-ti e la città dei morti convivono in stretta contiguità.

Kabul è triste anche per la pesantissima discriminazionefemminile. Con l’eccezione di qualche migliaio di donne ap-partenenti ad una ristretta fascia sociale di Kabul, tutte ledonne afghane portano il burqa. La favola della liberazionedelle donne afghane dall’infamia del burqa, grazie all’inter-vento della armate occidentali, è pura volgarità e arroganza.Gino Strada sostiene che il burqa non è l’indice più significa-tivo della subordinazione della donna afghana al potere pa-triarcale. E aggiunge che è sbagliato accanirsi contro un ab-bigliamento che è radicatissimo nella cultura popolare. Ciòdi cui le donne afghane hanno anzitutto bisogno è l’istruzio-ne e il lavoro: esse sono analfabete e disoccupate in percen-tuali che superano il 90%.

Penso che Gino Strada abbia ragione e confesso che hoconstatato l’universale presenza del burqa con una sorta diamara soddisfazione. Io penso che la liberazione delle donneafghane da una condizione di subordinazione patriarcale chenon ha eguali nel mondo islamico si realizzerà – se e quandosi realizzerà – secondo logiche molto lontane da quelle sug-gerite dal “fondamentalismo umanitario” occidentale, ma-schilista o femminista che sia. Si realizzerà grazie a dinamicheendogene, nel contesto di profonde trasformazioni sociali,economiche e politiche che è augurabile non mettano il segnodi eguaglianza fra il riscatto della dignità femminile e l’occi-dentalizzazione forzata del mondo islamico, secondo l’infau-sto modello kemalista.

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Detto tutto questo, che senso ha parlare di democrazia e dielezioni democratiche in Afghanistan? Le elezioni del 9 otto-bre hanno provato ancora una volta quanto sia falso ogni ten-tativo di esportare la democrazia e i diritti umani in paesi, co-me l’Afghanistan, non solo estranei alla cultura occidentale,ma anche poverissimi, poco urbanizzati e afflitti dalla piagadell’analfabetismo. In Afghanistan il tasso di analfabetismo èfra i più alti del mondo, aggirandosi attorno all’80%, mentresolo il 15% della popolazione è urbanizzato.

In realtà la forza militare e la corruzione sono state usatedalle potenze occupanti, con l’acquiescenza delle NazioniUnite, per rafforzare, con una procedura elettorale farsesca, ilgoverno “collaborazionista” di Hamid Karzai. L’obbiettivofinale è la legittimazione a posteriori sia della guerra scatena-ta dagli Stati Uniti nel 2001, sia dell’attuale occupazione mi-litare: il tutto nel quadro di un disegno strategico – il BroaderMiddle East – che intende egemonizzare (“democratizzare”)l’intero mondo islamico, dal Pakistan al Marocco, sotto la co-pertura della guerra contro il terrorismo.

Che le elezioni “democratiche” siano state una parodia èprovato da molti elementi: la quantità esorbitante degli iscrit-ti alla procedura elettorale, dovuta a un gran numero di iscri-zioni multiple; la farsa della marchiatura degli elettori me-diante l’applicazione al momento del voto di una traccia di in-chiostro indelebile sull’unghia del pollice: l’inchiostro si èrivelato delebilissimo, come ho potuto personalmente con-statare nel corso di una visita al carcere di Polj-Charki; i bro-gli sistematici, denunciati non solo dai 15 candidati (su 18)che si sono dimessi per protesta, ma anche da Massuda Jalal eJounus Qanouni. Entrambi questi candidati, pur orientati adaccettare il verdetto delle urne, hanno denunciato le fortissi-me pressioni subite dagli elettori e le prevedibili manipola-zioni dei risultati. Qanouni, leader tagico di grande prestigio,è arrivato a dichiarare di essere certo di avere vinto la compe-tizione, ma che la vittoria andrà comunque al candidato desi-gnato dalle potenze occupanti.

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Al di là di questi elementi, resta il quadro politico di un pae-se che sinora ha rifiutato il modello dello Stato nazionale.L’Afghanistan si basa su una struttura tribale policentrica –pashtun, tagichi, uzbeki, hazara, etc. – molto caratteristica.Ciascun gruppo tribale, come ha mostrato Louis Dupree (Af-ghanistan, Oxford, 1997), è un network delicato di diritti e didoveri, sorretto da strutture di potere fortemente personaliz-zate. Uno Stato unitario non dispotico potrebbe riuscire adaffermarsi solo a condizione di assimilare – non di cancellare– le funzioni svolte dalle unità tribali, rispettandone la pienaautonomia. Questo progetto è sinora fallito, nonostante che apromuoverlo fosse stato Ahmad Massud.

Sarebbe comunque un errore pensare che l’Afghanistan sistia avviando a un graduale processo di nazionalizzazione e didemocratizzazione. Si sta al contrario profilando un elemen-to di grande rilievo: è la convergenza fra pashtun e tagichi nel-l’organizzare una resistenza militare contro le potenze occu-panti. Una loro alleanza contro il governo Karzai, che i broglielettorali hanno ulteriormente screditato, avrebbe effetti diimmediata destabilizzazione e di nuovo ricorso alla violenzasu vasta scala. Sullo sfondo si profila la forte ripresa del mo-vimento talibano: secondo fonti attendibili, migliaia di guer-riglieri hanno già attraversato i confini che separano il Paki-stan dall’Afghanistan meridionale. Si dà per certo che il primoattacco scatterà subito dopo la comunicazione ufficiale dei ri-sultati delle elezioni. Segnali in questo senso sono il sangui-noso attentato terroristico (il primo di un kamikaze) del 23ottobre e il successivo sequestro di tre funzionari delle Na-zioni Unite, entrambi verificatisi nel pieno centro di Kabul.L’Afghanistan potrebbe essere destinato a svolgere in un fu-turo non lontano quel ruolo di epicentro della “guerra globa-le” che oggi viene coperto dall’Iraq. [dicembre 2004]

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Frutto di viaggi

conoscenza studio e sdegno

di teorica riflessione

sull’umanità delle guerre

dichiarate tali

e sulla disumanità

delle sue pratiche

e malizia degli intenti

nell’equivoca categoria

di terrorismo internazionale

questo libro

è stampato

nel carattere Simoncini Garamond

su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni

dalla tipografia Sograte di Città di Castello

per conto di Diabasis

nel settembre

dell’anno

duemila

nove

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