Prendersi cura della morte umberto curi

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Trascrizione dell'intervento orale pronunciato in occasione della Giornata Mondiale Hospice 2012 a Loreto

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Umberto Curi

Prendersi curadella morte

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Collana BibliHospice

Prendersi cura della morte

Autore: Umberto Curi

© Ponte Blu Edizioni • 2013

Consiglio editoriale: Ayres Marques,

Alessandro Finucci, Marina Baldoni

Consulenza: Gigliola Capodaglio

Fotografie: Marina Marques (copertina), Ayres Marques (ritratto dell’autore)

Stampa • Recanati • 10/2013

ISBN 978-88-98132-02-7

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Prefazione

Il testo che andrete a leggere in questo opuscolo informativo e formativo è la trascrizione dell’intervento orale pronunciato in occasione della Giornata Mondiale Hospice 2012. Precisiamo che quanto segue non è stato rivisto dall’Autore.

Ayres, Alessandro e MarinaCuratori della Collana BibliHospice

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Prendersi cura della morte

Umberto Curi

Vorrei anzitutto farvi partecipi dell’imbarazzo in cui mi trovo, che è lo stesso con il quale esattamente un anno fa avevo accolto l’affettuoso invito a partecipare a questi incontri che trattano il tema delle cure palliative negli hospice. Non era un imbarazzo puramente formale. Devo dire che non l’ho superato e, ritrovandomi nella stessa situazione a distanza di un anno, sono ancora imbarazzato. Di nuovo sento tutto lo scarto che c’è tra chi, come me, ha dedicato in particolare gli ultimi tre o quattro anni ad approfondire il tema della morte dal punto di vista filosofico e chi, invece, con questo, che non è più un tema ma diventa un’esperienza quotidiana di vita, deve misurarsi tutti i giorni. Insomma, non vorrei dare in nessun modo l’impressione di proporre una visione che debba essere necessariamente accolta, condivisa, subita. Per dirla molto familiarmente, credo che gli operatori ne sappiano molto più di me e quindi non è certamente né utile né consigliabile che vi sia un atteggiamento, diciamo così, pedagogico, con il quale io debba spiegare qualcosa. Rispetto alle complesse e articolate conclusioni a cui si è

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giunti lo scorso anno, posso solo dire che ho continuato a riflettere anche a seguito dell’esperienza fatta con incontri di questo genere, per cercare, se non una risposta a quegli interrogativi, almeno di porre meglio, in maniera più approfondita, più rigorosa, le stesse domande.

Vorrei proporre un succinto percorso di riflessione, che riguarderà proprio il titolo che mi sono permesso di suggerire per il mio intervento di oggi. Il titolo è: Prendersi cura della morte. E allora l’intervento che svilupperò, come si vedrà, è poco più che un commento a questo titolo. Un tentativo di rendere esplicito il significato di quell’espressione: che cosa può voler dire prendersi cura della morte. E anzi, per cercare di capire bene che cosa può voler dire questo titolo, credo che il modo migliore sia proporlo in termini interrogativi, e cioè: ci si può prendere cura della morte? È possibile questo obiettivo, questa finalità, cioè prendersi cura della morte? E se sì - ma è importante anzitutto rispondere al primo interrogativo, se è possibile farlo - in che modo? Con quali, diciamo così, procedure possiamo pensare, possiamo immaginare di prenderci cura della morte?

Allora, partiamo dal primo interrogativo, cioè: è possibile prendersi cura della morte? Io credo che forse tutti saranno d’accordo con me nel dire che, a prima vista, la

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risposta a questa domanda sembra non poter essere altro che negativa, cioè: non ci si può prendere cura della morte. E perché? Perché, insomma, ci si prende cura di qualcosa che, attraverso la cura, può essere cambiato, può essere migliorato o può essere addirittura eliminato. E di solito, quando si parla di cura, ci si riferisce a qualcosa nei confronti del quale ci si pone con un modus operandi che dovrebbe servire a cambiare ciò che viene curato. Invece la morte, se io me ne prendo cura, non la posso cancellare, non la posso eliminare, non la posso neppure almeno modificare nella sua inesorabilità. E allora verrebbe da dire che, alla domanda, se ci si può prendere cura della morte, l’unica risposta accettabile è che non è possibile prendersi cura della morte, perché la morte è incurabile. Come faccio a pensare di curare la morte? Come faccio ad immaginare di eliminarla, di cancellarla? Posso illudermi, immaginare, ipotizzare di cancellare, per esempio, una malattia: la curo e poi, come si dice in linguaggio medico, la guarisco, quindi la cancello. Se al contrario io mi prendo cura della morte, non posso pensare, non posso illudermi di riuscire a cancellarla. E allora a questo primo livello di approfondimento della riflessione, sembra che alla domanda se ci si può prendere cura della morte, sia inevitabile rispondere che non è possibile farlo. La morte è incurabile, non si può curare.

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Proviamo a vedere se è davvero inevitabile questa conclusione, che sembra essere talmente intuitiva da risultare persino banale. Proviamo a vedere se, come appare, è veramente insensato proporsi di prendersi cura della morte. Andiamo un po’ più a fondo, al di là del primo livello, diciamo così, di risposta. E, per farlo, vorrei proporre una breve riflessione anche di carattere linguistico-etimologico a proposito del concetto di cura. Se veramente si vuole rispondere con serietà alla nostra domanda, anzitutto dobbiamo capire che cosa vuol dire cura: e capirne il significato originario. Allora parto dal termine greco che viene impiegato per indicare la cura. È un termine greco col quale abbiamo familiarità, perché ricorre in italiano pressoché identico, ed è il termine therapeia. È un termine che poi entra nel linguaggio tecnico della medicina, già con Ippocrate, quindi alla fine del V secolo a. C. Sono ventisei secoli che questo termine è presente nel linguaggio ordinario e nel linguaggio della medicina, ed è un’espressione che, sia come sostantivo che come aggettivo, noi usiamo abitualmente: terapia, terapeutico, terapista, terapeuta e così via. Usiamo questa famiglia di termini, convinti di sapere che cosa vuol dire: terapia vuol dire cura. E invece non è così. O, almeno, non è così semplice come appare, nel senso che, originariamente, nel suo significato più proprio, therapeia vuol dire servizio.

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Quindi, per il momento, dobbiamo provare a cancellare dalla mente l’associazione immediata che noi facciamo della terapia come intervento per cambiare qualcosa, per guarire una persona. Dunque originariamente therapeia ha questa accezione, vuol dire servizio. E ne abbiamo subito un’esemplificazione molto significativa in alcuni passi di un’opera che conosciamo tutti: l’Iliade di Omero. Nell’Iliade compaiono tre personaggi, che si chiamano Automedonte, Alcimo e Patroclo. Questi tre personaggi sono presentati dal poeta come therapontes: concentriamoci soprattutto sulla figua di Patroclo, che è il therapon di Achille. Vorrei ricordare brevemente la vicenda. Patroclo è il giovane amico di Achille, che lo assiste, lo aiuta, lo conforta, lo consola, va incontro ai suoi bisogni, ai suoi desideri, sia di carattere materiale che di carattere, noi potremmo dire, spirituale. Patroclo viene poi ucciso dai Troiani, perché ha indossato l’armatura di Achille ed è stato scambiato per l’amico. Allora Achille, che sdegnosamente si era ritirato dal combattimento, in polemica con il capo delle truppe achee, di fronte alla morte dell’amico, indossa l’armatura e rientra in battaglia, uccidendo Ettore, colpevole di aver assassinato Patroclo. Ebbene, Patroclo nell’Iliade è il therapon di Achille. Forse adesso cominciamo a capire un po’ meglio che cosa questo termine voleva dire originariamente. Patroclo non è uno che cura Achille nel

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senso che gli dà delle medicine. In realtà è l’amico che lo assiste, che gli sta vicino, ma soprattutto è l’amico che è sempre disponibile. In questo tipo di relazione chi riceve queste attenzioni sa di poter contare sul suo therapon, in qualunque circostanza. Quindi Patroclo, e vediamo che non c’è un unico termine italiano per tradurre la parola therapon, è insieme l’attendente, per usare un linguaggio militare; è il servitore, perché svolge dei servizi; è altresì l’assistente spirituale, potremmo dire, ed è l’amico. Insomma è il partner sul quale si può sempre contare perché è completamente al nostro servizio. Questo vuol dire originariamente therapeia: servizio. E il sostantivo therapon definisce colui che è sempre disponibile al servizio di un altro. A questo punto è chiaro, se mi è permesso mettere in evidenza questo aspetto, che originariamente, almeno nel termine greco, la therapeia non si materializza in alcuni interventi specifici, non si traduce ad esempio nel somministrare dei farmaci, perché la therapeia è proprio un’attitudine, un atteggiamento, un modo di garantire all’altro la propria presenza, la propria disponibilità, il proprio aiuto. E allora proviamo a immaginare se e quanto sia diverso il modo col quale invece ormai noi concepiamo la terapia. Se mi è permesso, suggerirei che è proprio l’opposto. Questo è quello che ci dice la lingua greca.

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Forse persino più interessante e più denso di implicazioni e di conseguenze, è ciò che possiamo desumere dal termine latino. Il termine latino cura - che dal punto di vista della formulazione, ma non del significato, lo vedremo, è identico all’italiano cura - vuol dire originariamente preoccupazione. Vuol dire premura, sollecitudine. Cancelliamo dalla mente il significato italiano, perché per l’appunto, come cercherò di spiegare, alla fine è un capovolgimento del significato originario. Avere cura, essere in cura, in latino vuol dire essere preoccupato per la sorte, la condizione, la situazione di un altro. Io mi prendo cura di qualcuno quando, potremmo dire così, sono in pensiero per qualcuno, quando sono mosso da premura, sollecitudine, preoccupazione. Capiamo quindi che il significato del termine latino non è tanto lontano da quello greco: sono disponibile nei confronti della persona la cui condizione mi preoccupa, mi tiene in ansia, mi fa stare in pensiero.

Troviamo qualche traccia di questo significato originario del termine cura anche in qualche lingua moderna: ad esempio, in inglese l’espressione I care non vuol dire che io somministro delle medicine a qualcuno, vuol dire invece che una determinata cosa, o persona, mi riguarda, mi interessa, mi coinvolge, mi preoccupa. E quando io uso l’espressione I take care voglio dire che mi prendo

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cura, nel senso che mi faccio carico di una persona, della sua situazione. Ma anche in tedesco, il termine che traduce il latino cura è die Sorge, che indica proprio la tensione verso un altro, il protendersi verso un altro.

Insomma, se noi riflettiamo sul significato originario dei vocaboli che indicano rispettivamente la therapeia e la cura, ci troviamo in presenza di termini, spero che sia chiaro, che indicano una condizione soggettiva, cioè indicano in che modo un soggetto si riferisce a un altro, quale è la loro relazione: therapeia e cura vogliono dire che c’è qualcuno che è preoccupato della condizione di un altro, che sta in pensiero, che è mosso da premura nei confronti di un altro. Nel caso della therapeia, e in particolare di Patroclo, vuol dire che c’è qualcuno costantemente a disposizione dell’altro, qualunque siano le sue necessità e i suoi bisogni. Ma anche nel caso del latino cura vuol dire che c’è qualcuno che sta lì, che ci pensa, che pensa a noi, ha cura di noi, nel senso che sappiamo che in qualunque momento posso contarci, perché lui ci ha in mente.

Che cosa succede, invece, col passare del tempo, dei secoli? La cosa che andrebbe chiarita e approfondita è che queste trasformazioni che sto per descrivere sono delle trasformazioni contemporanee, almeno dal

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punto di vista storico e cronologico, ma secondo me anche dipendenti, rispetto a quello che storicamente si chiama l’avvento della produzione mercantile di massa o, se volete, l’instaurazione del modo capitalistico di produzione. È una trasformazione delle modalità dell’organizzazione produttiva che ha generalizzato la forma di merce, alla quale tutto è riconducibile. Cosa avviene quando, a partire dal XVII secolo in poi, con ritmo sempre più incalzante, fino ai giorni nostri, si consolida questa forma economico-sociale che è quella che vede la generalizzazione della forma di merce? Avviene un capovolgimento dell’accezione originaria dei termini therapeia e cura. Si assiste ad un processo che, schematicamente, ha le seguenti caratteristiche: la prima riguarda una tecnicizzazione di quello che possiamo chiamare il therapon. Mi spiego meglio: in precedenza chiunque poteva essere therapon rispetto ad un altro, bastava che se ne prendesse cura, cioè che se ne preoccupasse. Tanto è vero che Patroclo appunto è therapon: non ha una laurea in medicina, ma si prende cura ed è a disposizione di Achille. Chiunque poteva essere therapon rispetto a un altro. Ciò che accade, ad un certo momento, è che la funzione terapeutica viene assegnata ad una figura professionale, quella del medico. Non tutti possono più essere therapontes, ma lo è per antonomasia il medico. Emerge una figura che concentra

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su di sé quella funzione che invece precedentemente, nel suo carattere indeterminato di preoccupazione, premura, sollecitudine, poteva essere svolta da tutti. Prima trasformazione radicale: la comparsa di una figura in cui il prendersi cura, l’essere in pena, in preoccupazione, in pensiero, viene “professionalizzato”. È la figura del medico. Secondo passaggio, questo sì molto più importante: la cura, che era un disposizione soggettiva, cioè esprimeva un’attitudine, noi potremmo dire uno stato d’animo, lo stato d’animo di chi era in pensiero per un altro, da condizione soggettiva diventa invece una serie di procedure oggettive. Viene oggettivata in interventi che vengono attuati sulla persona della quale ci si prende cura, quali farmaci, interventi “terapeutico-curativi” ed ogni altra azione che si esercita su di lei.

Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che in questo cambiamento c’è un vero e proprio stravolgimento del significato originario. Nel senso che - lo dico in maniera un po’ schematica, sperando di essere abbastanza chiaro - mentre prima una persona poteva essere in pensiero per un’altra senza fare nulla, non dovendo necessariamente, diciamo così, tradurre questo suo essere in pensiero in qualche intervento, adesso avviene l’opposto: la cura consiste in una serie di interventi che non presuppongono affatto che uno sia in pensiero per un altro; anzi,

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mediante la cura, io mi libero dalla preoccupazione. Io, che divento l’unico titolare dell’azione terapeutica, cioè io medico, che assommo in me tutte le funzioni della cura therapeia, è proprio attraverso la cura che mi libero dalla preoccupazione. Non sono più preoccupato per il mio paziente, per colui di cui dovrei aver premura, perché gli ho dato la cura. La cura ora non è più una cosa soggettiva, diventa una cosa oggettiva. La cura diventa la prescrizione, diventa un insieme di interventi farmacologici o di altro genere, che mi liberano dall’obbligo di stare in pensiero per un altro. Io, medico, ho assolto al mio dovere e quindi ho cancellato la cura. Ho cancellato la preoccupazione, la sollecitudine, traducendola in una serie di interventi. È il punto decisivo che mi permetto di raccomandare di cogliere. Questa è proprio una radicale trasformazione del modo di concepire e di realizzare la cura. Tanto è vero che, spingendola all’estremo, ma neanche tanto - e qui non si tratta di casi di malasanità, ma di capire quale è la ratio, quale è il principio che sta alla base - noi possiamo dire che il principio che è alla base è che in teoria il medico, che diventa l’unico titolare dell’azione della therapeia, potrebbe neppure vedere colui verso il quale deve esercitare la terapia, a condizione soltanto che gli prescriva una cura, intesa come complesso di procedure oggettive, fuori di lui, che non implicano affatto la sua preoccupazione. D’altra parte, come si

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fa ad essere preoccupati per duemila mutuati? Come è possibile che qualcuno stia in pensiero, abbia premura nei confronti di duemila persone insieme? La cosa che può fare è compilare duemila ricette, è fare duemila iniezioni, è prescrivere duemila esami di laboratorio. E, facendo questo, io, medico, ho assolto al mio compito, quindi non sono più preoccupato. Allora, come si può evincere, c’è un vero e proprio ribaltamento. Patroclo è sempre a disposizione, sempre preoccupato: Achille sa che, in qualunque momento, può fare conto sulla sollecitudine di Patroclo verso di lui, però Patroclo non muove un dito, o meglio fa tutta una serie di cose, che non sono quelle la cura. La cura vera è la sua disposizione verso Achille. E Achille, da parte sua, si sente curato da Patroclo, perché sa che può sempre contare su di lui, perché sa che c’è qualcuno che lo pensa, che è in pena per lui, che è in preoccupazione. Oggi avviene l’esatto contrario: la cura diventa qualcosa che si riceve, qualcosa che viene prescritto dal medico e poi viene ricevuto dal paziente, cioè diventa un dato oggettivo, completamente privo di risonanze affettive, sentimentali, di pensiero, di preoccupazione. È naturale: se un medico che deve badare a duemila pazienti fosse preoccupato per ciascuno di loro, non avrebbe più pace. Non potrebbe agire come medico, dato il modo con il quale ormai la medicina è concepita nella pratica quotidiana. E, a dirla tutta, non

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solo per come viene concepita nella pratica quotidiana, ma anche per come essa viene teorizzata: in un modo tale per cui noi possiamo vedere uno scenario tendenziale in cui c’è la cura ma non c’è più chi cura, colui cioè che prescrive questa cura. Anche in mancanza di una persona in carne e ossa che eserciti la funzione del terapeuta, la cura potrebbe essere elaborata da una macchina, da una combinazione al computer. Sono cose che accadono; oramai i casi di autocura sono sempre più diffusi: si digita su Google i sintomi oppure il tipo di malattia e ci si autocura. E a questo punto la cura che cosa è? Non c’è più nessuno che è preoccupato per un altro. Non sarà mica la macchina, che non può preoccuparsi per noi.

Che cosa si può concludere da queste considerazioni? Qualcosa che ho imparato, sia l’anno scorso che quest’anno, proprio partecipando agli incontri sulle cure palliative. Il lavoro svolto nell’ambito dell’hospice viene abitualmente descritto con questa espressione: cure palliative. Anche qui sarebbe interessante, in occasione di un prossimo incontro, riflettere sul significato originale e sulla provenienza delle parole pallium, palliativum, e simili. Una cosa è certa, parlando delle cure elargite in ambito hospice, ci si sente in obbligo di accompagnare la parola cure con l’aggettivo palliative, come se ci si dovesse giustificare nel chiamare cura qualcosa che è anomalo

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rispetto alle altre cure. Perché, come dicevo, le altre cure almeno potenzialmente, virtualmente, tendenzialmente guariscono, cioè sono procedure che vengono applicate con l’obiettivo poi di cancellare ciò per cui vengono prescritte. Consapevoli che le cure praticate in hospice non possono avere questa caratteristica, allora, quasi rispondendo ad uno scrupolo di coscienza, si aggiunge palliative, per significare che quella è sì una cura, ma non una cura che porterà ad una guarigione. È come se uno si dovesse scusare di utilizzare il termine cura per parlare delle pratiche di accompagnamento alla morte. E invece avrete capito che quelle sono cure, le vere, autentiche, genuine cure, per le quali non occorre proprio nessun tipo di aggettivo, per cui non occorre nessuna scusante: sono le cure di accompagnamento alla morte. Perché è lì che veramente alla fine si riabilita la concezione originaria della cura, come premura, sollecitudine, nel senso di essere sempre a disposizione, di essere totalmente al servizio, senza nessun interesse, che non sia quello di stare vicino, di far sentire la propria premura e la propria preoccupazione. Pur sapendo che tutto ciò – a dispetto dell’odierna mania capitalistica, per cui qualcosa ha senso se produce qualcosa - non produce risultati verificabili sul mercato, non cancella ciò che non è cancellabile, ma accompagna, aiuta, cioè si esercita proprio come cura nel senso pieno, originario, senza aggettivi.

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Allora la conclusione, che può sembrare paradossale, è che se noi risaliamo a questa accezione originaria dei termini therapeia e cura, le vere cure sono proprio le cure palliative. Sono le altre che non sono cure, quelle che hanno l’obiettivo produttivistico di mettere in campo una serie di interventi che sono efficaci, ma che non includono affatto una partecipazione affettiva. Credo che sia una delle raccomandazioni che oramai vengono fatte nelle scuole di medicina, che il medico, cioè, deve essere apatico, non deve partecipare della sorte del paziente. Quindi io, medico, metto in campo delle cure che sono totalmente altro rispetto alla mia preoccupazione, ottenendo con questo il risultato produttivo di cancellare, ridurre, migliorare la condizione del malato, quindi un risultato produttivamente verificabile. Questo è il modo col quale oggi abitualmente si intendono le cure. Le vere cure invece sono, a mio giudizio, le cure palliative, quelle che hanno la capacità di riabilitare pienamente la funzione originaria della cura, mediante la quale facciamo sentire ad un altro essere umano che siamo veramente, integralmente in pensiero per lui.

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