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PREMESSA

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Tutte le sentenze, anche le più stupide, sono un’interpretazione del diritto e contengono qualche argomentazione. Il giudice usa quindi sempre, a volte anche inconsapevolmente, canoni interpretativi

Il diritto di oggi non è racchiudibile nell’ordinamento giuridico di uno stato.

Cos’è l’effetto diretto di una norma esterna? Significa che quella norma può essere invocata, per esempio dai cittadini, innanzi ai giudici del proprio ordinamento.

Esiste quindi un rapporto e questo rapporto modifica i confini di un ordinamento e crea problemi di interpretazione, anche perché da interpretare non ci sono solo le norme ma anche quali sono i rapporti tra due ordinamenti, tra principi costituzionali di un ordinamento o quasi costituzionali di un altro e tra norme relativamente vaghe che appartengono all’uno e all’altro ordinamento. Queste cose creano una certa modificazione rispetto al diritto di qualche decennio fa. Altre modificazioni sono determinate dalla presenza in ogni ordinamento di norme di diritto internazionale convenzionale ma anche ius cogens e diritto regolativo -che riguarda questioni di tipo amministrativo-.

E’ cambiato rispetto a qualche decennio fa anche l’impatto del problema dell’interpretazione e dell’applicazione. Quali sono i grandi passaggi che rendono il problema interpretativo nel diritto una cosa un po’diversa da un esercizio dottrinale? Ci sono parti del diritto che cambiano pochissimo (es: successioni), qui l’interesse all’interpretazione è scarso, ma poi ci sono altre norme, specie costituzionali, come la libertà di espressione, che sollevano tutta una serie di questioni interpretative. Cosa significa libertà di espressione? Attorno al 1993, in Italia Berlusconi ebbe la forza di invadere il campo che una volta era appannaggio esclusivo dei grandi partiti, poi sostanzialmente di uno. Per avere i voti B. aveva bisogno di comunicazione e quindi di libertà di espressione. Ci fu un’infinita serie di reazioni tra i costituzionalisti italiani che scrissero una serie di articoli scientifici su cosa significasse libertà di espressione. Fu in quel contesto che Scalfaro tirò fuori l’espressione par condicio. Cosa significa?

La libertà di espressione non può essere limitata, quindi se io sono in grado di essere sugli schermi televisivi dalle otto di mattina alle otto di sera su quasi tutte le emittenti, questo mi sarebbe garantito dalla costituzione, giusto o no?

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Il primo emendamento (corrispondente del nostro art 21) della costituzione americana è tutto costruito per evitare impedimenti. Ma se uno riesce a occupare tutto, qualcuno non è contento. Allora la domanda è: qual è la misura di limitazione che la libertà di espressione richiede per poter essere tutelata come libertà di espressione? Il problema cioè diventa che la libertà di espressione non potrebbe essere limitata, ma dovrebbe essere limitata per essere mantenuta come libertà di espressione perché tutti la possano esercitare, ma questo noi non lo sapevamo fino a quando non è venuta fuori la forza dei mezzi di comunicazione. Il primo emendamento era stato scritto quando c’era ancora il telegrafo e anche l’art.21 non era consapevole della potenza invasiva dei mezzi di comunicazione, quindi l’interpretazione della libertà di espressione, in virtù del fatto che le cose cambiano, doveva cambiare, con il fine di garantire la libertà di espressione, perché è chiaro che se uno è in grado di saturare lo spazio e il tempo della comunicazione, impedisce l’esercizio del diritto agli altri. Infatti inizialmente si pensava che lo spazio della comunicazione fosse illimitato, ma poi si è capito che non era così. A questo punto nacque la questione della par condicio. L’interpretazione nuova della libertà di espressione implica che la libertà di espressione può essere limitata, perché, nelle nuove circostanze, solo la limitazione della libertà di espressione consente la libertà di espressione. Questa nuova interpretazione della libertà di espressione non è, inoltre, autosufficiente, perché poggia sull’art. 3 della Costituzione: se non ci fosse il principio di uguaglianza non si vedrebbe perché ci dovrebbe essere una par condicio, ad esempio. La limitazione della libertà di espressione affinché anche gli altri possano esprimersi deriva dal fatto che abbiamo il principio di uguaglianza.

Quindi, il primo aspetto che ha modificato i nostri ordinamenti è il fatto che noi non abbiamo solo regole, ma abbiamo principi contenuti in una norma generale sovraordinata che è la carta costituzionale. C’è una grande differenza tra principi e regole: il principio ha una formulazione, una forza normativa aperta per il fatto che tende a non avere una fattispecie. Ci sono tante regole per attuare il principio (ad es. il prof entra in aula e non fa lezione). Quindi il principio è aperto, mentre la regola è chiusa. Il principio non solo è indeterminato per quanto riguarda la regola di attuazione, ma anche per quanto riguarda l’interpretazione. Come abbiamo visto, il principio di cui all’art 21 Cost non solo è aperto, ma neanche si interpreta da solo. Il fatto che noi lo interpretiamo in questo modo, deriva dal fatto che abbiamo l’art.3. L’art 3 è a sua volta aperto e quindi ha bisogno di interpretazione. Quindi l’ordinamento è cambiato se non altro perché ci sono i principi e i principi aprono in termini di indeterminatezza l’intero ordinamento.

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L’indeterminatezza è dovuta a due grandi fenomeni:

- la costituzionalizzazione dei principi degli ordinamenti tipici del civil law

- il pluralismo degli ordinamenti(c’è una pluralità di ordinamenti diversi che regolano lo stesso campo e che si sovrappongono).

Questi due grandi fenomeni mostrano in quale orizzonte si muova l’attuazione e l’interpretazione del diritto in qualsiasi dei nostri ordinamenti.

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CAPITOLO I

TEORIE DELL’INTERPRETAZIONE

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1. Sillogismo normativo.

Il testo ha carattere aperto: nel momento dell'interpretazione si presentano molteplici alternative. Il giudice si trova davanti al caso concreto e deve individuare, nel caso, gli elementi riconducibili alla fattispecie astratta prevista dalla norma. Si tratta, quindi, di verificare la corrispondenza tra fatti concreti e fattispecie. Questa operazione viene svolta tramite il sillogismo (normativo). La costruzione di quest’ultimo, com'è noto, è la seguente: si trova una premessa maggiore (la norma), una premessa minore (il fatto), e la conclusione (sentenza). Se il fatto presenta gli elementi della norma, la conclusione sarà l'applicazione della norma stessa. Nel sillogismo normativo il problema si trova nell'individuazione della premessa maggiore, del testo normativo ed è dato dal fatto che tra T (testo) ed N (norma) c'è I (interpretazione).

2. Certezza del diritto e codificazione. Indeterminatezza del diritto e motivazione.

Il diritto successivo alla codificazione si basa proprio su questo presupposto: si deve eliminare la quaestio iuris, ossia la ricerca della premessa maggiore, della norma che regola il caso. Nel periodo precedente a questo, che potremmo definire come caratterizzato dal sistema medievale del diritto, sono presenti più livelli di quest'ultimo, che si scontrano inevitabilmente tra loro: diritto locale, diritto comune, canonico, diritto del sovrano, consuetudini, ecc. Si tratta di molteplici strati di legalità che possono non corrispondere tra loro. Si affastellano così pluralismi di ordinamenti non armonizzati. Non si è in grado di capire quale sia la norma da applicare al caso concreto. Questa situazione determina confusione e vaghezza.

Diventa chiaro che la conoscenza sia la fonte principale del diritto: si giunge quindi alla codificazione, in modo da individuare la norma giusta, senza il rischio del ricorso, da parte del giudice, all'arbitrio, perché l'ordinamento ormai è completo. Viene a crearsi una sistematizzazione di tutte le norme precedenti, con contestuale rielaborazione del complesso così ottenuto: si produce un'unica proposizione. Il tutto si traduce nella formulazione di una fattispecie astratta, redatta per iscritto: questo è il fenomeno che si sviluppa nei sistemi di civil-law. In quelli di common-law, invece, la

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stabilità del diritto è data dal ceto dei giuristi: costoro conferiscono continuità e certezza al diritto tramite il sistema del precedente. Si produce un depositarsi di decisioni caratterizzate da un raffinamento progressivo: si tratta della cosiddetta case law. Tutto questo, ovviamente, porta all'emersione di principi stabili. La giurisprudenza dei casi conduce quindi allo stesso risultato della codificazione, ossia la stabilità e la certezza del diritto.

Col codice si crede di risolvere il problema della quaestio iuris, ma permangono comunque problemi legati all'interpretazione, anche con riguardo agli stessi fatti del caso proposto (tipo individuare il nesso di causalità). Non è sufficiente il dato scritto, permane comunque l'interpretazione sugli elementi della norma: tutto ciò incide sull'individuazione del fatto. Il giudice dovrebbe essere una macchina che si limita a svolgere un lavoro rigido e predeterminato. Ma non è sempre così: ci sono casi che pongono problemi. Permane, dunque, un margine di valutazione, che può dipendere dal testo, oppure dai fatti, un'apertura che permette il sopraggiungere delle stesse controversie, perché la soluzione, ossia l'applicazione della norma, non è certa. Il sillogismo normativo, come strumento impiegato dal giudice nel suo ruolo, si fa risalire a Beccaria: serviva come mezzo per evitare l'arbitrio del giudice, perché non avesse margini d'interpretazione, per esigenze garantistiche di certezza. Ma il diritto possiede intrinsecamente una sua indeterminatezza, che convive con tale certezza.

La certezza del diritto, allora, non si deve declinare come matematica, sillogistica. La sua stabilità nel tempo è determinata dalla capacità di costruzione logica: gli elementi giuridici aperti insieme al sillogismo normativo sono argomentabili in modo razionale, tendono a dare una conclusione non tanto arbitraria, quanto razionale, ragionevole, contestabile, controllabile sia dalle parti che da altri giudici. Si determina la convergenza di più protagonisti per arrivare alla conclusione tramite la dialettica, per la ricostruzione di norme e fatti, in base a canali procedurali che garantiscono il diritto di parola alle parti, che garantiscono i canoni di funzionamento del diritto. Tutto questo garantisce che c'è un'accettabile linea di prevedibilità, di logicità della soluzione. E' un equilibrio di razionalità, frutto dell'interpretazione. La certezza del diritto è un equilibrio tra momenti, all'interno dei testi normativi che fanno da limite al ragionamento. Tutto questo costituisce la garanzia che il risultato sarà accettabile, che tenderà ad essere la migliore interpretazione possibile in quel momento del diritto, anche se non si avrà una certezza matematica, quindi.

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3. In claris non fit interpretatio e interpretazione ineludibile.

Si ritrovano due teorie di fondo. La prima prevede l'interpretazione come un'attività eventuale, da porre in essere solo nei casi di dubbio, perché la norma di per sé è chiara (in claris non fit interpretatio). Il problema è dato dal fatto che questo non è sempre vero: si possono avere situazioni ambigue. I significati delle parole sono molteplici, e nel corso del tempo possono cambiare. Pensiamo all’art. 11 disp.prel.c.c.: fa riferimento al significato proprio delle parole; ma ci sono variabili e variazioni semantiche (di significato), ci sono casi in cui il termine può assumere un'accezione tecnica. Se il testo risulta chiaro alle parti e al giudice, è tale grazie all'interpretazione, attività che viene quindi a compiersi naturalmente, al momento della lettura stessa del testo normativo. Il brocardo sta alla base del sistema della codificazione, per cui l'interpretazione costituisce un'attività meramente eventuale, da porre in essere solo nel momento in cui le norme sono poco chiare, con lo scopo di illuminare ciò che nel testo è oscuro. Il ruolo dell'interpretazione è quindi quello di scoprire, di portare in superficie, di far emergere qualcosa che c'era già. L'interpretazione serve a disambiguare.

La seconda teoria è quella per cui il testo ha a disposizione un significato che a volte può essere uno, a volte un altro. Non è dato sapere a priori quale sia il significato del testo. Da esso si possono ricavare più norme, dato che può avere più significati possibili, e la norma altro non è che il significato del testo. Il numero dei significati non è comunque infinito, ma indeterminabile a priori. Se i significati estraibili dal testo fossero infiniti, allora sarebbe come se il testo non ci fosse. Il testo, quindi, inizialmente non ha una norma, T non coincide con N, perché ci possono essere più N. Tutto questo dipende dall'interpretazione. Qualsiasi norma è sempre il risultato di un'interpretazione, anche quando non si pensa di interpretare. La chiarezza vuol dire solo che si è adottato un certo tipo d'interpretazione che ha portato a quel certo risultato. Non c'è mai una norma, se non come prodotto dell'interpretazione di un testo. Kelsen affermava che l'attività interpretativa avviene entro un range di significati possibili.

3.1 Teoria generale della conoscenza.

Secondo Kant la conoscenza dipende da griglie che si applicano alla realtà. Ciò che le griglie rimandano, ossia la percezione che si ha della realtà, è l’unica cosa di cui possiamo disporre. Non si può quindi avere una conoscenza completa della realtà: tutto dipende dalle nostre “lenti”. Si tratta di una teoria diversa dalla precedente, che

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ritiene che la cosa in sé si possa conoscere e che l’oggetto esiste in sé. Per questa teoria il soggetto funge solo da recettore: quanto meno interferirà tanto maggiore sarà la conoscenza. Kant ci dice invece che quest’ultima è limitata: è il soggetto che decide, che dà il quadro dell’oggetto tramite delle facoltà a priori, che gli danno la capacità di dare a cose, spazio e tempo un ordine che riflette le sue esperienze. Il soggetto quindi esercita la propria influenza sull’oggetto.

Secondo Popper, inoltre, la scienza procede non per verificazione ma per falsificazione, e la parte del soggetto nelle teorie conoscitive è importante. Una teoria è vera e resta tale se è in grado di dire quale evento debba accadere per falsificarla. (se una teoria è formulata in modo da non poter concepire alcun evento che la falsifichi, allora essa non è scientifica).

Quando, allora, una teoria è migliore di un’altra?

Una teoria risulta migliore dell’altra quando spiega qualcosa in più rispetto alla precedente. Mettendo insieme più cose, rafforzando la coerenza, si avrà una teoria migliore.

La conoscenza ha, quindi, carattere riflessivo, poiché l’oggetto riflette la visione che ha di esso il soggetto, partendo da un’idea di fondo, da una teoria o ipotesi si cercano i dati e si ottengono risultati. I dati dipendono dalle domande, ossia dalle teorie di partenza e la selezione di tali dati dipende da queste ultime. Il soggetto influenza l’oggetto e il suo intervento è decisivo per la comprensione di un dato testo.

Tuttavia molte scoperte scientifiche sono frutto di serendipity: si tratta di un fenomeno particolare per cui, ricercando certe conferme, si scoprono elementi diversi. Può essere definita come una sorta di casualità.

3.2 L’interpretazione secondo Hart e Kelsen.

La semplice chiarezza del testo non ci porta ad avere una garanzia di non avere poi nessun’altro problema. Noi possiamo limitare il campo del significato e accontentarci della chiarezza così com’è, ma per la verità poi esiste un’ampia serie di possibilità per cui il testo pur essendo chiaro presenta dei problemi.

Tale concezione si ritrova nella teoria di H. L. A. Hart. C’è una chiarezza che non ha bisogno di ulteriori supporti e che rappresenta il nucleo chiaro e luminoso della norma, mentre, può accadere che vi siano casi in cui questo nucleo luminoso si oscura. Cosa determina il passaggio di una norma dall’essere chiara a diventare

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oscura? Secondo Hart vi è il fatto che una norma può essere stata scritta per uno scopo (avendo in mente una tipologia di casi famigliari alla mente del legislatore), ma ci sono casi non considerati, e quando questo accade la norma diventa oscura, ovvero troppo vaga e indeterminata per applicarla senza prima aver deciso se quella norma regola quel caso e in che modo debba essere interpretata per regolarlo. Si deve, così, effettuare un ampliamento interpretativo di quella norma, per far sì che il caso rientri nella fattispecie che la norma prevede.

Ad esempio: “Divieto di introdurre veicoli nel parco” è una norma chiara. Possono però sussistere casi in cui tale norma noi sia cosi chiara, in quanto la definizione di “veicolo” per il codice della strada può non essere la stessa utilizzata per la protezione del parco.

Il nostro compito, però, non è solo quello di applicare una norma chiara (o se applicarla in un modo più o meno estensivo) ma di capire il rapporto funzionale tra quel divieto e l’obiettivo posto.

Si presenta il caso quindi in cui una norma passa da una posizione di piena luce ad una di penombra, ovvero una zona grigia, di scarsa luminosità del significato sulla quale è necessario esercitare un’attività interpretativa. Secondo Hart, questo è un punto in cui si ha creazione (un esercizio di discrezionalità dell’attività dell’interprete) che riporterebbe l’attività al centro, esattamente come era al centro della teoria che sostiene che la norma non ha un significato perché la norma è il significato.

Hart fonde quindi i due momenti, adottando una soluzione di compromesso, combinando le due tesi precedentemente illustrate.Hart abbraccia, quindi, il positivismo, ma introduce una variante che è rappresentata dal fatto che i casi spostano l’area coperta dalla norma. Esempio: la norma A copre un campo specifico, ovvero chiarisce a quale tipo di realtà dovrà essere applicata (fattispecie astratta che identifica il dato concreto). Il problema che si pone Hart è quello della soluzione dell’ipotesi in cui la norma non si applica pienamente al caso: quindi l’interprete dovrà effettuare una scelta. Potrà determinare che il caso non rientra nel campo specifico della norma, di conseguenza X sta fuori dalla fattispecie; oppure potrà estendere la copertura della norma A ad X, attuando così un intervento interpretativo di natura discrezionale.

La teoria si estende in virtù del presupposto che la norma produca fattispecie che non sono onnicomprensive, vi è una sorta di legame tra discrezionalità e interpretazione. Kelsen, infatti, sostiene che l’attività del giudice è volontà, e che dati certi

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presupposti si possono scegliere diverse possibilità (teoria che c’è dietro ai diversi ragionamenti, idea positivista). Vi è uno spostarsi del soggetto verso l’oggetto riflettendo i connotati dello stesso.

Hart applica, quindi, una teoria mista: tale è anche quella di Kelsen. Secondo quest’ultimo, il giudice deve scegliere il significato da applicare entro le sponde del testo. Non si tratta comunque di un’operazione arbitraria.

I due autori possiedono un’idea positivista della conoscenza, per la quale quest’ultima è verificabile se la realtà corrisponde alle asserzioni dell’interprete. Il soggetto e la cosa sono entità distinte e l’interprete non è un inventore perché il suo intervento parte da un testo.

4. Rapporto tra conoscenza e interpretazione: piano epistemologico e piano pratico.

Ma allora l'interpretazione ha natura conoscitiva? Conoscere ed interpretare sono attività distinte? In sostanza l'interpretazione non è un'attività conoscitiva, ossia di scoperta del significato, come secondo la summenzionata teoria: non c'è un significato proprio all'interno del testo che si presenta come oscuro. L'interpretazione è un'attività volontaria: l'attribuzione del significato (l'interpretazione) è una questione di volontà, di scelte. Ciò non significa che il diritto sia arbitrario: la scelta è sottoposta a canoni di giustificazione, di controllo del ragionamento giuridico che avviene nei tribunali. E' una scelta che indica l'interpretazione, la soluzione data come la migliore possibile, tenuto conto del diritto esistente. E' quindi un'attività volontaria, ma sottoposta a determinati criteri. Di certo l'attività del giudice è qualificata dalla sua conoscenza del diritto, del materiale normativo dell'ordinamento: questo è un presupposto del lavoro del giudice.

Il giudice deve dimostrare che il suo atteggiamento, la sua attività pratica è orientata a sottolineare che non sta decidendo secondo le sue preferenze, ma secondo la ricostruzione migliore possibile del significato del diritto. Deve dimostrare di conoscere quello che il diritto vuole che faccia, che la sentenza è frutto delle migliori scelte possibili. Si tratta di una scelta conoscitiva. Rileva quindi il piano pratico, non quello epistemologico, della teoria della conoscenza. Sul piano epistemologico, quando il giudice arriva a N 1 o 2 o 3, fa la sua scelta, trattandosi però sempre di una scelta fatta nell'ambito del testo T. L'atteggiamento pragmatico, o pratico, ha pur sempre come scopo quello della conoscenza, come il precedente, ma non mira a raggiungere la verità oggettiva, piuttosto a convincere della bontà della soluzione. Al

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giudice non si chiede di trovare la verità, bensì di dimostrare che quello che dice è il risultato della migliore conoscenza possibile del diritto. La certezza matematica non esiste nel campo giuridico, quello che resta è la non arbitrarietà. Il giudice deve dimostrare la migliore conoscenza oggettiva possibile del diritto. E’ un controllo di argomentabilità, di giustificabilità entro parametri istituzionali che danno garanzia.

5. MODALITA’ E LIMITI ALL’OPERATORE. ARGOMENTAZIONE.

L’interpretazione non è libera ma è vincolata al rispetto di alcune regole: bisogna considerare il significato proprio delle parole, le regole interpretative definite dall’ordinamento, il contesto normativo di riferimento, la possibilità di ricorrere all’analogia (legis e iuris).

È da tenere in considerazione la costante stratificazione di usi interpretativi usati da giuristi, che l’interprete non è tenuto a seguire ma che legittimano il suo ragionamento in termini di fondamento. Questi canoni (tòpoi) coincidono con una serie di strategie argomentative , in dipendenza delle conclusioni interpretative che si vogliono raggiungere: ad esempio ricordiamo quello letterale, evolutivo, sistematico, economico, a fortiori, a posteriori, a contrario .

Si tratta di argomenti ripetuti nel corso del tempo da parte dei giuristi che costituiscono risorse per l’interprete ma anche limiti per la sua attività: in loro mancanza, infatti, non è possibile pervenire ad un ragionamento utilizzabile nel discorso giuridico. Altro limite è costituito dall’uso del linguaggio: i testi hanno un significato limitante ma variabile, ragion per cui problemi interpretativi possono nascere nonostante le parole abbiano un significato pressoché convenzionalmente consolidato. Gli argomenti (tòpoi),tuttavia, sono diversi, ed è per il diverso significato affidato alle parole che i tòpoi assumono caratteristiche diverse e producono risultati differenti. Ciascuno può trarre dal testo norme differenti in base ai canoni interpretativi scelti. Nessuno dei risultati è sbagliato, sempre che l’argomentazione sia logica. Per uscire dall’empasse, bisogna ricordare che questi canoni permettono una graduatoria tra i vari risultati: una teoria è migliore di un’altra nel momento in cui consente di spiegare cose in più rispetto ad un’altra, rafforzando ciò che essa sostiene con la coerenza per cui tutto si risolve. La capacità delle conclusioni raggiunte di resistere a più canoni fa del risultato ottenuto un dato più sicuro.

Venendo ai profili giuridici, l’operatore del diritto deve dimostrare che la sua scelta è la migliore possibile, quella che meglio rappresenta e risponde al testo. La scelta di una norma deve sempre mostrarsi come esito di una ricostruzione del testo migliore

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di altre. A questo scopo l’interpretazione non può essere concepita come disgiunta dal ragionamento giuridico. L’interpretazione non è un dictat, un oracolo, nessuna interpretazione è accettabile se non enuncia la giustificazione del risultato attraverso un ragionamento giuridico. Serve quindi un’adeguata motivazione del risultato interpretativo. Si può rinviare a ragionamenti precedenti, a decisioni di corti superiori.

Nessun’interpretazione nel diritto è accettabile come risultato se non ci mostra la giustificazione attraverso un adeguato ragionamento giuridico. Ciò che caratterizza il diritto non è l’interpretazione (come prodotto) ma il risultato, l’interpretazione può a sua volta rimandare ad altra decisione senza un’elaborazione in proprio, ad esempio il rinvio alla Corte di Cassazione. Si possono avere due effetti: l’effetto di conformazione, per cui un risultato interpretativo raggiunto da una corte superiore tende a produrre il conformarsi dei giudici inferiori che lo applicano nel rispetto delle parti e per risparmio di energie; e l’effetto trascinamento, secondo il quale il risultato interpretativo è confermato attraverso le argomentazioni, poiché la differenza di argomentazioni è aperta, rendendo possibile l’introduzione di nuovi elementi nell’argomentazione (effetto di accumulo). Mutando le basi di giustificazione del risultato, si muta interpretazione stessa, e la norma finisce per essere usata in casi differenti da quelli per cui era pensata.

Vi è un impatto rilevante delle argomentazioni: se queste cambiano o possono essere attaccate devono essere trovati argomenti migliori e la norma stessa può essere messa in discussione.

6. Esempio: il caso Volkswagen.

L’importanza della sentenza sta nel fatto che ci possono essere varie opzioni interpretative. Questo perché esistono dei margini interpretativi che hanno permesso di andare in direzioni diverse a seconda della correttezza e plausibilità dell’argomentazione.

La questione della sentenza Volkswagen è successiva ad una serie di casi risolti dalla Corte di Giustizia che ha ritenuto essere “identici”, ma in realtà non sussistono le ragioni per questa assimilazione, perché qui si discute di un profilo più generale che è quello dell’intervento pubblico nell’economia, e di un profilo più specifico relativo alla fattispecie delle golden share. Se nel dibattito politico vi è un’indeterminatezza del suo significato, dal punto di vista giuridico invece “golden share” ha un significato specifico: il Governo decide di privatizzare un impresa pubblica e si

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riserva un’azione, cosiddetta d’oro, alla quale è correlato l’esercizio di determinati poteri di controllo, di influenza e di altro genere. Le normative dei Paesi Membri che sono state sottoposte al vaglio della Corte di Giustizia rispondono solo in minima parte a questa precisa definizione, o meglio vi risponde soltanto la fattispecie prevista nel Regno Unito. Ci sono poi le fattispecie delle legislazioni portoghese, belga e spagnola che prevedono un assetto normativo ben preciso da cui scaturiscono poteri amministrativi in capo all’autorità pubblica e poi, last but not least, vi è l’esperienza italiana che differisce totalmente da quelle sin ora citate, in quanto vi sono più opzioni interpretative che incidono sullo stesso tessuto normativo. In particolare sono due le interpretazioni date che risolvono la questione della golden share: o come una clausola di diritto commerciale oppure come una manifestazione dell’esercizio di poteri autoritativi pubblici.

I problemi che pone la sentenza Volkswagen sono diversi: infatti se leggiamo le conclusioni dell’Avvocato Generale (le quali hanno un ruolo di particolare importanza giacché il giudice comunitario, nella maggior parte dei casi, recepisce le conclusioni dell’Avvocato generale dal momento che offrono spesso un ricchissimo tessuto argomentativo nell’ambito del quale si dipana la motivazione della sentenza finale del giudice, e questo ne è un esempio), quello che balza agli occhi è che gli Avvocati Generali hanno adottato una posizione non univoca ed a volte anche in contrasto. Tuttavia, possiamo individuare due posizioni nelle conclusioni degli Avv. Gen.: la prima sostenuta dall’avv. spagnolo Ruiz Arabo Colomer e la seconda dall’avv. portoghese Poiares Maduro. Le due polarità dell’interpretazione del diritto comunitario sono queste. Le due posizioni sono argomentate in modo molto ampio e approfondito dai due avvocati. La prima posizione sostiene che il giudice comunitario si deve far carico di una serie di norme contenute nei Trattati e che vanno interpretate in un certo modo ma molto spesso il giudice comunitario non ne tiene conto, perché la questione non è stata sollevata dalle parti ricorrenti (es.: art. 43CE relativo alla libertà di stabilimento che viene spesso invocato dalle parti in causa ma la corte di Giustizia non ne tiene mai conto, l’art. 56 CE libertà di movimento dei capitali ed altre due norme di cui bisognerebbe tener conto: l’art. 295 CE che riguarda l’indifferenza comunitaria rispetto al regime proprietario sia esso pubblico che privato e l’art. 86 CE IIc (ora 106TFUE), che esenta dalla normativa in materia le imprese che assolvono una missione di servizio pubblico a determinate condizioni). Tutte le conclusioni dell’ Avvocato Colomer sono in questa direzione:

In primo luogo bisogna tener conto dell’esistenza dell’art. 295 CE, il quale nel momento in cui sancisce l’indifferenza del diritto comunitario rispetto ai regimi proprietari, segnala una chiara opzione ideologica del diritto comunitario, ovvero

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della Costituzione economica comunitaria; in secondo luogo, l’applicazione degli artt. 43 e 56 CE andrebbe letta in combinato disposto con l’art 106 IIc che avrebbe una missione esimente, nel senso che potrebbe esimere dall’applicare l’illegittimità comunitaria derivata dalla violazione dell’art.56.

Ma pur essendo argomentate in modo articolato, queste conclusioni non hanno incontrato il favore della Corte, che in questo caso evita di prendere in considerazione le conclusioni degli avvocati generali e si limita a ripetere i precedenti giurisprudenziali. Ma sullo sfondo della questione interpretativa prospettata da Colomer ce n’è un’altra che si rinviene anche nelle conclusioni del caso Volkswagen e che porterà alla condanna della Repubblica Federale tedesca: Colomer sostiene che non si capisce la ragione per la quale si consente al potere pubblico il controllo di un’impresa attraverso il possesso delle azioni e poi dopo si assoggetti la stessa impresa, una volta privatizzata, ad un diverso trattamento. Di questa contraddizione la Corte sostanzialmente non si è fatta carico.

Rispetto al caso Volkswagen è più significativo il coevo caso dell’azienda milanese AEM s.p.a il cui Avvocato Generale è Maduro: è da notare che il caso Volkswagen, che si fonda sulle argomentazioni dell’avvocato Colomer, in realtà finisce per far propria l’argomentazione di Maduro creando una sorta di eterogenesi dei fini tra le conclusioni dei due. La tesi di Maduro consiste nel fatto che non vi sono ragioni esimenti dal potere del giudice comunitario di dichiarare la illegittimità delle normative relative alle golden share che si possono trovare nè nell’art.295CE, né nell’art. 106CE IIc. Tuttavia la tesi di fondo di Maduro è una tesi ideologica che giunge a due conclusioni: la Corte di Giustizia non distingue nessuna normativa in materia ma riunisce tutte le norme sulla golden share senza attribuirle un trattamento giurisprudenziale differente; l’errore interpretativo è cioè quello di trattare in maniera uguale situazioni diverse e tale errore non è giustificato dal Trattato perché esso dice che “l’UE è rispettosa delle differenze culturali e normative dei diversi Stati Membri” (questo non vuol dire che c’è indifferenza rispetto al regime proprietario, ma che c’è una presa di coscienza rispetto all’esistenza di diversi regimi proprietari, a meno che questi non urtino contro altri principi fondamentali del Trattato) quindi l’interpretazione della Corte contrasta con qualsiasi tipo di logica ermeneutica. In questo vi è la contraddizione: nel senso che non è possibile salvare il controllo pubblico delle imprese e poi sanzionare qualunque elemento di controllo successivo al passaggio di proprietà. Colomer fa poi un’altra considerazione e dice che se seguiamo il precedente percorso argomentativo arriviamo alla necessaria conclusione che non si privatizzino le imprese perché in sostanza posso comunque tutelare gli interessi pubblici che io ritengo rilevanti attraverso la conservazione pura e semplice

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della proprietà pubblica dell’impresa. In questo risiede l’ eterogenesi dei fini : la Corte, nel salvaguardare la libertà di movimento e di stabilimento in realtà le penalizza e incoraggia gli Stati membri a non privatizzare le imprese e in questo modo perde qualunque tipo di influenza. Se si scoraggia la privatizzazione delle imprese pubbliche, si privano gli Stati della possibilità di raggiungere il pareggio di bilancio o comunque la stabilità finanziaria, che rappresenta il presupposto cardine della Costituzione economica comunitaria.

L’idea di fondo è che in base all’art 295 CE, ciascuno Stato Membro possa scegliere liberamente un’impostazione economica privata “pura” o pubblica “pura” e solo in questo senso possiamo risolvere le contraddizioni. La Corte di Giustizia interviene su questo finto carattere privato e pubblico che, secondo la Corte, si produrrebbe nel momento in cui l’intervento pubblico permane nell’organizzazione dell’azienda attraverso il possesso di un pacchetto azionario dotato di privilegi come la golden share. Quindi quello che la Corte di giustizia fa è compatibile con l’art 295CE se esso viene inteso con riferimento a regimi privati o pubblici d’azienda “PURI”, invece quando trova la permanenza di una specie di regime “misto”, in cui vi è un’influenza statale attraverso il possesso di una golden share, questo carattere ibrido comporta che il ragionamento della Corte permanga contraddittorio. La Corte dice che si può scegliere qualsiasi tipo di regime anche ibrido, ma nel momento in cui lo si sceglie deve essere controllato. La Corte però non si presta a questa accusa non differenziare situazioni diverse, perché prima di tutto accetta, facendolo salvo il contenuto del 295CE così com’è rispetto ai regimi puri e in secondo luogo nel momento in cui i regimi sono ibridi non interessa la configurazione tecnica attraverso cui i poteri speciali trovano una base per funzionare; quindi alla Corte non interessa più verificare se l’art 295 sia stato osservato ma se quel regime ibrido si risolve in un ostacolo alla libera circolazione dei capitali (art.56CE). A quel punto non attacco tanto la configurazione in sé perché l’oggetto della mia critica è solo la libera circolazione dei capitali. Inoltre vi è un altro punto molto interessante e cioè la questione del FORMALISMO: quando la Corte giudica il caso Volkswagen ne fa una questione di assetto normativo e di confronto col limite normativo espresso nell’art.56CE per cui dice che la norma si presenta in modo tale da configurare un ostacolo al flusso di capitali. Ma nel caso in cui l’Italia viene condannata per la L.474/94 , qui la Corte non fa riferimento alla norma(l’art.56), ma al fatto che contrastava l’applicazione concreta al libero flusso dei capitali e perciò la posizione formalista adottata dalla Corte in questo caso non ricorre poiché ne fa una questione sostanziale. Ma come si può interpretare correttamente questo atteggiamento? Come un atteggiamento di livelli successivi di apprendimento da parte della Corte orientati

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al perseguimento di un unico scopo, cioè che l’art.56 venga rispettato sia che si tratti di una questione di forma che di sostanza. Quindi il formalismo diventa il modo della Corte per perseguire un orientamento sostanziale cioè quello di creare un’Europa con una competizione liberista senza nessuna regola, nessun correttivo, e nessun rispetto per i modelli economici degli Stati Membri.

Il Trattato tuttavia non può imporre un modello capitalistico all’Europa in quanto ve ne sono diversi ma se c’è un modello che ha ispirato l’Unione e la Costituzione economica europea è quello renano(tedesco) cioè quello dell’economia sociale di mercato e il modello Volkswagen risponde esattamente a tale modello renano. Invece le conclusioni dell’ avv. Maduro nella sentenza AEM sono inaccettabili: ha affermato che se si vuol privatizzare lo si deve fare in modo coerente e la Corte dovrà valutare tale coerenza del processo di privatizzazione: liberismo puro. Ma non c’è scritto da nessuna parte che la Corte debba fare questa verifica , qui c’è un’esuberanza sia dell’Avvocato Generale sia della Corte che ha recepito le conclusioni. Quindi la Corte di Giustizia alla fine si è arrogata dei poteri che non poteva esercitare senza tenere conto di una serie di articoli. E dunque occorre sempre fare un bilanciamento nelle Carte costituzionali cosa che la Corte non ha fatto ma ha semplicemente imposto l’art 56CE imponendo così anche un modello economico cioè quello liberista anglosassone che non è propriamente originario dell’Europa e che non è stato scelto dai Popoli europei.

Ci sono vari modi per qualificare l’atteggiamento della Corte in questa sentenza: ciò che distingue la creazione e l’interpretazione da parte del giudice è il testo e quando vi è un testo si può verificare quale interpretazione del testo sto facendo. Tra le varie possibilità vi è:l’interpretazione letterale o formalistica che è determinabile per la sua natura conservatrice ed ogni interpretazione che tende ad attenersi al testo, mette in risalto la funzione di stabilità che è rappresentata dal testo e quindi dalla forma della norma. E’ un’ interpretazione conservatrice. L’orientamento contrario è rappresentato dall’ interpretazione evolutiva o teleologica. Queste sono linee guida generiche che possono essere contestabili in qualsiasi momento. La metainterpretazione di queste categorie (cioè l’interpretazione dell’interpretazione) fa si che la Corte modifichi la realtà, applicando il testo dell’art 56 sulla base di un’ interpretazione catalogata come conservatrice, facendosi promotrice dell’economia di mercato: quindi fa di un mezzo conservatore lo strumento di sfondamento della realtà esistente e potremmo così definirlo FORMALISMO RIVOLUZIONARIO. Un altro punto, che si rinviene nella sentenza di condanna dell’Italia avente ad oggetto la legge 474/94, è quello in cui la Corte pur non avendo un atteggiamento formalista, si occupa della concreta verifica se un certo assetto viene praticato in concreto in termini empiricamente verificabili

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come un vero ostacolo al flusso di capitali; in questo caso l’interpretazione non è più testuale. La maggiore potenza dell’art.56 è data dal fatto che l’interpretazione diventa teleologica e quindi dal passaggio da un modello interpretativo ad un altro. L’interpretazione teleologica è quella che fa riferimento allo scopo finale della norma e quindi sotto questo profilo l’applicazione della norma diventa più ampia perché dovrò verificare non solo il contrasto con essa ma anche con lo scopo. Quello che la Corte non fa è una corretta interpretazione del sistema in quanto si fa dell’art.56 una norma “singled out” in quanto la si tira fuori dal resto del sistema e se ne fa una chiave di lettura del resto del sistema. Quindi nel leggere una sentenza la prima cosa che si deve fare a livello interpretativo, è verificare se si tratti di un’interpretazione formalistica, teleologica o sistematica e se questa interpretazione regga.

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CAPITOLO SECONDO

CASI E QUESTIONI INTERPRETATIVE

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SEZIONE PRIMA

IL RAPPORTO TRA ORDINAMENTI

La diversità fra gli Stati, oltre cha da motivi storici e culturali, emerge anche sul piano dell’interpretazione e del recepimento delle norme comunitarie e internazionali.

In Italia i principi generali e le consuetudini internazionali, a norma dell’art. 10 primo comma della Costituzione (”L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto.”), entrano direttamente nell’ordinamento statale, rappresentando un livello sovra-legislativo. I trattati, invece, per avere forza di diritto interno necessitano di una legge di ratifica del Parlamento (art.117 Cost. “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”). Oggi gli impegni internazionali sono sub- costituzionali e sovra- legislativi.

Da contraltare il caso della Gran Bretagna che, per recepire i trattati, adotta un procedimento di incorporazione, risultando così il perfezionamento del trattato del tutto autonomo rispetto al Parlamento, essendo un atto che compete all’esecutivo (che, tuttavia, non ha il potere di fare le leggi). Quindi gli ordinamenti sono variegati e ciascuno di essi ha una propria visione dell’ordinamento internazionale. Ci sono due correnti di pensiero per valutare il diritto internazionale, la prima monista e la seconda dualista. La teoria monista contempla un solo ordinamento di riferimento, quello internazionale, e tutti gli altri fanno parte di questo; invece la teoria dualista è incentrata sull’indipendenza degli ordinamenti nazionali rispetto all’ordinamento internazionale. In casi estremi, ciò si risolve in un totale rifiuto e l’ estraneità per tutto ciò che proviene dall’ordinamento internazionale.

(Vedere Kadi 1 allegato)

Interpretazione di norme che appartengono ad organi o a sistemi giuridici diversi.

Le diverse materie sono regolate su più livelli (matryoshke), statale, comunitario ed internazionale, che possono talvolta creare problemi interpretativi. Per risolvere tali

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questioni interviene l’art. 103 Carta ONU (“In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”). Questa gerarchia comporta invalidità di qualsiasi norma nazionale contrastante con le norme poste su livelli superiori. Il diritto internazionale nasce per regolare i rapporti fra gli Stati, il che comporta che l’accertamento di una violazione del diritto internazionale da parte di uno stato membro venga semplicemente sanzionato con la sua condanna, senza creare un ingerenza diretta nell’ordinamento interno di quello Stato. A livello europeo, invece, il rapporto tra Stati e Unione è molto più stretto, la constatazione di una violazione della norma comunitaria da parte di una norma interna comporta l’invalidità della stessa, quale immediata conseguenza dell’ efficacia diretta del diritto Europeo.

(Vedi allegato dispensa Giorgio Pino)

RAPPORTO TRA ORDINAMENTI: IL CASO MARBURY E IL CASO MEDELLIN

Judicial Review

La principale funzione svolta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America è di giudice della costituzionalità delle leggi statali e federali (c.d. judicial review). In questo senso la Corte è l'interprete autentico della Costituzione.

IL CASO MARBURY VERSUS MADISON

Il controllo di costituzionalità. In concreto esso si afferma nella sentenza Marbury versus Madison (1803) adottata dalla Corte presieduta dal giudice Marshall con riferimento alla nomina a giudice di pace di Marbury. Questi, nominato dall’uscente amministrazione di John Adams, chiese alla Corte suprema un’ordinanza che desse esecuzione a tale nomina sostituendosi così al nuovo segretario di stato Madison che, subentrato con la presidenza Jefferson, aveva bloccato le ultime nomine dell’amministrazione precedente. La Corte Suprema non accoglie la richiesta di

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Marbury affermando che la legge che attribuiva alla Corte stessa la competenza ad adottare simili atti era contraria alla Costituzione.

La decisione della Corte Suprema. La decisione (24 febbraio 1803) presa all'unanimità dalla Corte suprema diede ragione a Madison. La Costituzione che non prevedeva alcuna norma che attribuisse la competenza alla Corte Suprema in casi simili si pone in una posizione gerarchica superiore rispetto alla legge statale (la quale assegnava la competenza di emettere «Writs of Mandamus» nei confronti di chi esercita il potere in nome degli Stati Uniti d'America).

In sintesi, la Corte decise di disapplicare una legge statale (utilizzando la quale Marbury avrebbe senz'altro ricevuto una sentenza favorevole) poiché costituzionalmente illegittima.

Negli USA il controllo giurisdizionale di costituzionalità è diffuso ossia ogni giudice è titolare del potere di verifica di compatibilità rispetto alla Costituzione delle norme che è chiamato ad applicare. Questo tipo di controllo si contrappone a quello accentrato che è affidato a un organo al vertice della struttura giurisdizionale. Il giudice Marshall non è partito da una norma specifica (che non c’era) ma ha interpretato il sistema nel complesso. La sua interpretazione si basa su come funziona il sistema, sulla sua struttura e sulla sua logica (sistema sistemico).

IL CASO MEDELLIN: IL PROBLEMA DEI RAPPORTI TRA DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO AMERICANO

Caso: Medellin vs Texas

Medellin era colpevole di duplice omicidio di due ragazze, e per tale omicidio fu condannato in primo grado alla pena di morte. In appello ricorre alla convenzione di Vienna e al diritto di rivolgersi al proprio consolato ivi previsto. Il caso fu accolto dalla Corte Suprema che concesse il certiorari (indica un particolare procedimento, imperniato sull’ordine impartito da una Corte superiore ad una Corte inferiore di consegnare gli atti di un giudizio dinanzi ad essa pendente, al fine di consentire alla Corte superiore di riesaminare il procedimento ed accertare la validità degli atti compiuti dai primi giudici).

25 marzo 2008: La Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Medellin v. Texas, ha deciso che il Presidente George Bush non ha il potere di ordinare agli stati di ignorare le loro regole procedurali al fine di rispettare le sentenze emesse dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.

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Un detenuto di nazionalità messicana, Jose Medellin, condannato a morte in Texas, aveva presentato un ricorso lamentando che nei suoi confronti non fossero state rispettate le norme previste dalla Convenzione di Vienna sulle Relazioni Consolari. La Convenzione di Vienna è un accordo internazionale che risale al 1963, e che è stato sottoscritto da 166 paesi, compresi gli Stati Uniti. L’art. 36 della Convenzione prevede che quando un cittadino straniero è arrestato, le autorità locali devono informarlo esplicitamente che ha il diritto che dell’arresto siano informate le autorità consolari del suo paese, e che ha diritto a ricevere assistenza legale nella propria lingua dal proprio consolato.

Il presidente Bush inizialmente aveva contrastato l’applicazione “garantista” della Convenzione di Vienna, arrivando ad ipotizzare il ritiro degli Usa dalla Convenzione stessa. In un secondo tempo, considerando che la Corte Internazionale di Giustizia è il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha invertito l’impostazione, sostenendo pubblicamente che non è opportuno che gli Usa aprano nuovi contenziosi in politica estera, ed è quindi più opportuno che gli Usa rispettino gli accordi giudiziari internazionali. La sentenza dà torto a Medellin su due punti. Il primo riguarda la differenza tra governo federale e governi dei singoli stati. Poiché, argomenta la Corte, il reato di cui deve rispondere Medellin non è un reato federale, il presidente Bush, che è a capo del governo federale, ma non del governo locale del Texas, non può imporre la volontà del governo federale in quei casi in cui un accordo internazionale o una sua parte contrasta con la legge interna di uno stato. Questo perché i singoli stati hanno una loro autonomia giurisdizionale e legislativa fortemente garantita dalla Costituzione. A supporto di questa posizione, la Corte Suprema elenca una serie di precedenti in cui gli accordi internazionali sono divisi tra “vincolanti anche per i singoli stati” e “vincolanti solo per il governo federale”. A giudizio della Corte Suprema, l’Accordo di Vienna, quando entra in esplicito contrasto con le norme preesistenti all’interno di uno stato, è tra quelli NON vincolanti per i singoli stati. Il secondo punto, meno legato alla teoria, su cui la Corte Suprema dà torto a Medellin è nei tempi del ricorso. Secondo la Corte il ricorso di Medellin basato sul mancato rispetto dell’Accordo di Vienna è stato tardivo.

Da questo esempio emerge l’eccezionalismo americano. La Corte Internazionale di Giustizia aveva affermato che c’era stata violazione degli obblighi internazionali. La Corte Suprema afferma che finché il diritto internazionale non sia incorporato, non diviene diritto degli USA. Poiché la stessa Corte non ha il potere di incorporare, sino a quando non c’è una deliberazione del Congresso non c’è incorporazione. Le argomentazioni della Corte Suprema: l’ordinamento internazionale e l’ordinamento

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americano sono autonomi e questo implica autonomia degli USA verso il diritto internazionale (eccezionalismo).

Qual è la differenza tra l’eccezionalismo degli Stati Uniti e l’atteggiamento dell’Europa? Nel caso Kadi, la Corte tende ad assicurare i diritti, ma le argomentazioni strutturali sono le stesse di quelle della Corte Suprema. Gli stati membri dell’Unione europea sono parte dell’ordinamento internazionale, proprio per questo la Corte avrebbe dovuto parlare da membro dell’ordinamento internazionale anziché parlare della separatezza.

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21 settembre 2005

Sentenza del Tribunale di primo grado nelle cause riunite T-306/01 e T-315/01

Ahmed Ali Yusuf e Al Barakaat International Foundation e Yassin Abdullah Kadi / Consiglio

dell'Unione europea e Commissione delle Comunità europee

IL TRIBUNALE DI PRIMO GRADO PRONUNCIA LE SUE PRIME SENTENZE

SUGLI ATTI ADOTTATI NELL'AMBITO DELLA LOTTA CONTRO IL

TERRORISMO

La Comunità europea è competente a imporre il congelamento dei capitali di privati nell'ambito della lotta contro il terrorismo internazionale. Purché siano richieste dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, tali misure sfuggono in gran parte al controllo giurisdizionale. Esse non violano i diritti fondamentali della persona umana riconosciuti a livello universale.

Secondo la Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza ha il compito di mantenere la pace e la sicurezza internazionali. I membri dell'ONU devono eseguire le sue decisioni direttamente o mediante la loro azione nelle organizzazioni internazionali di cui siano membri.

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Prima e dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001, il Consiglio di sicurezza ha adottato varie risoluzioni riguardanti i talibani, Osama bin Laden, la rete Al-Qaeda e le persone ed entità loro associate. Tutti gli stati membri dell'ONU sono invitati a congelare i capitali e le altre risorse finanziarie controllate direttamente o indirettamente da tali persone ed entità. Un comitato per le sanzioni è incaricato di individuare i soggetti interessati e le risorse finanziarie da congelare e di esaminare le richieste di deroga.

Tali risoluzioni sono state attuate nella Comunità da taluni regolamenti del Consiglio che dispongono il congelamento dei capitali delle persone ed entità interessate. Queste ultime sono inserite in un elenco allegato ai regolamenti, che è regolarmente rivisto dalla Commissione, sulla base degli aggiornamenti effettuati dal comitato per le sanzioni. Gli Stati possono concedere deroghe al congelamento dei capitali per motivi umanitari.

Molte delle persone ed entità interessate hanno chiesto l'annullamento di questi regolamenti dinanzi al Tribunale di primo grado. Oggi, il Tribunale pronuncia le sue prime due sentenze relative a tali cause.

La competenza del Consiglio ad imporre sanzioni economiche a privati

Il Trattato CE 4 consente al Consiglio di imporre sanzioni economiche e finanziarie a paesi terzi, allorquando lo preveda una posizione comune adottata dall'Unione europea in ossequio alla politica estera e di sicurezza comune (PESC).

Il Tribunale dichiara che anche il Consiglio è competente, in condizioni similari, ad imporre

a privati sanzioni economiche e finanziarie, quali il congelamento dei capitali, nell'ambito

della lotta contro il terrorismo internazionale.26

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La prevalenza del diritto dell'ONU sul diritto comunitario

Il Tribunale rileva che, secondo il diritto internazionale, gli obblighi degli Stati membri dell'ONU derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite prevalgono su qualsiasi altro obbligo, ivi compresi gli obblighi derivanti dalla Convenzione europea sui diritti dell'uomo e quelli derivanti dal Trattato CE. Tale prevalenza si estende alle decisioni del Consiglio di sicurezza.

Benché non sia membro dell'ONU, la Comunità dev'essere considerata anch'essa vincolata agli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite, allo stesso modo dei suoi Stati membri, ai sensi stessi del Trattato che la istituisce. Da un lato, la Comunità non può violare gli obblighi spettanti ai suoi Stati membri ai sensi della Carta né ostacolare la loro esecuzione. Dall'altro, essa è tenuta a adottare tutte le disposizioni necessarie perché i suoi Stati membri possano ottemperare a tali obblighi.

La portata del sindacato di legittimità esercitato nella fattispecie dal Tribunale

Il Tribunale rileva che il regolamento impugnato si limita ad attuare, a livello comunitario, decisioni del Consiglio di sicurezza. Qualsiasi sindacato della legittimità interna di tale regolamento implicherebbe dunque che il Tribunale esaminasse, indirettamente, la legittimità delle decisioni in questione. Orbene, tenuto conto della regola della prevalenza sopra enunciata, tali decisioni si sottraggono in linea di principio al controllo giurisdizionale del Tribunale e quest'ultimo non può rimettere in discussione, seppure indirettamente, la loro legittimità rispetto al diritto comunitario o ai diritti fondamentali riconosciuti nell'ordinamento giuridico comunitario. Al contrario, il Tribunale è tenuto, per quanto possibile, ad interpretare e applicare tale diritto in modo che sia conforme agli obblighi degli Stati membri derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite.

.

Nondimeno, il Tribunale può controllare la legittimità del regolamento impugnato e, indirettamente, la legittimità delle decisioni del Consiglio di sicurezza attuate da tale

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regolamento, alla luce delle norme superiori del diritto internazionale generale che appartengono allo jus cogens, inteso come un ordinamento pubblico internazionale cui né gli Stati membri né le organizzazioni dell'ONU possono derogare. Ne fanno parte, in particolare, le norme imperative sulla tutela universale dei diritti fondamentali della persona umana.

I diritti fondamentali dei ricorrenti tutelati dallo jus cogens

Il Tribunale rileva che il congelamento dei capitali di cui al regolamento impugnato non viola i diritti fondamentali dei ricorrenti, quali sono tutelati dallo jus cogens. Il regolamento impugnato, infatti, prevede espressamente la possibilità di deroghe, su richiesta degli interessati, per rendere accessibili i capitali necessari a spese di base. Tali misure non hanno quindi lo scopo né l'effetto di sottoporre i ricorrenti ad un trattamento disumano o degradante.

I ricorrenti non sono neanche stati privati arbitrariamente del loro diritto alla proprietà, per quanto tale diritto sia tutelato dallo jus cogens. Il congelamento dei capitali, infatti, costituisce un aspetto della legittima lotta delle Nazioni Unite al terrorismo internazionale ed è una misura cautelare che, a differenza di una confisca, non lede la sostanza stessa del diritto di proprietà degli interessati sulle loro disponibilità finanziarie, ma soltanto il relativo utilizzo. Inoltre, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza prevedono un meccanismo di riesame periodico del regime generale delle sanzioni ed un procedimento che consente agli interessati di sottoporre il loro caso, tramite l'intermediazione del loro Stato, al comitato per le sanzioni

ai fini del riesame.

Quanto ai diritti della difesa, il Tribunale dichiara che nessuna norma di jus cogens sembra imporre un'audizione personale degli interessati da parte del comitato per le sanzioni. Trattandosi di una misura cautelare che limita la disponibilità dei beni, il rispetto dei diritti fondamentali degli interessati non impone neanche che i fatti e gli elementi di prova a loro carico siano loro comunicati, giacché il Consiglio di sicurezza ritiene che vi ostino motivi che riguardano la sicurezza della comunità

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internazionale. Il Tribunale rileva, tuttavia, che gli interessati possono rivolgersi al comitato per le sanzioni in qualsiasi momento, tramite l'intervento delle loro autorità nazionali, per ottenere che siano cancellati dall'elenco delle persone colpite dalle sanzioni.

Il Tribunale dichiara che neppure le istituzioni comunitarie erano tenute ad ascoltare gli interessati, posto che esse non disponevano di alcun margine discrezionale nell'eseguire le sanzioni decise dal Consiglio di sicurezza.

Quanto al diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo, il Tribunale rileva che, nell'ambito del ricorso presentato dai ricorrenti, esso esercita un completo sindacato di legittimità del regolamento impugnato per quanto riguarda il rispetto, da parte delle istituzioni comunitarie, delle norme di competenza, delle norme di legittimità e delle forme sostanziali che si impongono alla loro azione. Esso controlla altresì la legittimità del regolamento, in particolare sotto il profilo della sua adeguatezza formale e sostanziale, della sua coerenza interna e della sua proporzionalità rispetto alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Il Tribunale controlla inoltre la legittimità del regolamento e, indirettamente, la legittimità delle risoluzioni del

Consiglio di sicurezza alla luce dello jus cogens.

Non spetta invece al Tribunale controllare indirettamente la conformità delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza ai diritti fondamentali tutelati dall'ordinamento giuridico comunitario, né verificare l'assenza di errori di valutazione dei fatti e degli elementi di prova che il Consiglio di sicurezza ha considerato a sostegno delle misure adottate, né, ancora, controllare indirettamente l'opportunità e la proporzionalità di tali misure. In questa misura, e in mancanza di una giurisdizione internazionale incaricata di statuire sui ricorsi contro le decisioni del comitato per le sanzioni, i ricorrenti non dispongono di alcun mezzo di ricorso giurisdizionale.

Questa lacuna nella tutela giurisdizionale dei ricorrenti tuttavia non è in sé contraria allo jus cogens. Il Tribunale rileva che il diritto di adire un giudice non è assoluto. Nella fattispecie, esso si scontra con l'immunità di giurisdizione di cui gode il Consiglio di sicurezza. L'interesse dei ricorrenti a che un giudice esamini la loro

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causa nel merito non basta a prevalere sull'interesse generale essenziale a che la pace e la sicurezza internazionali siano mantenute a fronte di una minaccia chiaramente identificata dal Consiglio di sicurezza.

Di conseguenza, il Tribunale respinge i ricorsi in quanto infondati.

IMPORTANTE: Contro una decisione del Tribunale, entro due mesi a decorrere dalla

data della sua notifica, può essere proposta un'impugnazione, limitata alle questioni di

diritto, dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee.

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SEZIONE SECONDA

PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’

1.Funzione.

Il principio di proporzionalità trova le sue prime applicazioni nel diritto pubblico tedesco già nel XIX secolo, come strumento di controllo dell'azione amministrativa e, successivamente come parametro di costituzionalità della legge. Nel corso del '900, esso è stato ampiamente utilizzato dalla Corte costituzionale tedesca come strumento per valutare, tra le altre cose, il grado di ammissibilità di un'interferenza del pubblico potere legislativo ed amministrativo in una libertà fondamentale. Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia l'uso del principio risale almeno al 1970. Successivamente è stato riconosciuto come espressione dei principi generali non scritti del diritto comunitario. Sul piano europeo, inoltre, il principio di proporzionalità può essere rinvenuto anche nella CEDU, in cui opera non come clausola di limitazione orizzontale della tutela dei diritti fondamentali, ma come clausola di limitazione specifica di alcuni diritti, nei limiti in cui tale limitazione sia necessaria in una società democratica al fine di tutelare determinati interessi pubblici, ed è ampiamente utilizzato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo.

Il principio di proporzionalità si colloca al centro della strategia argomentativa seguita dalla Corte di Giustizia al fine di rendere compatibile il riconoscimento dei diritti fondamentali con gli obiettivi dell'UE. La Corte, infatti, afferma da tempo che i diritti fondamentali non sono prerogative assolute, ma devono essere contemperati con altre esigenze, in particolare con gli obiettivi di un'organizzazione comune di mercato. Il metro di questo contemperamento è il criterio di proporzionalità. Tale principio, dunque, costituisce uno snodo fondamentale della dottrina dei diritti fondamentali sul piano comunitario. Non si tratta comunque di un contributo del tutto originale, quello della Corte di Giustizia: che i diritti fondamentali possano entrare in conflitto con esigenze ulteriori, e che tali conflitti debbano essere gestiti ricorrendo a bilanciamenti, è una caratteristica probabilmente ineliminabile di ogni catalogo dei diritti, per quanto assolute possano essere le loro proclamazioni in testi costituzionali o simili. L'amministrazione dei diritti comporterà necessariamente l'esigenza di un loro contemperamento, di una loro armonizzazione, di un loro parziale sacrificio.

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(tratto liberamente da "La lotta per i diritti fondamentali in Europa. Integrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico", di G. Pino)

2. Interpretazione e principi fondamentali dell'ordinamento giuridico. Giudizio di proporzionalità.

Date queste considerazioni sul principio di proporzionalità, è del tutto ovvio come le Corti Costituzionali, anche quella italiana, vadano alla ricerca di questi principi supremi dal carattere assoluto. In realtà, proprio intorno a tali principi si creano degli equivoci: quando si parla di un principio dal carattere assoluto, si pensa, ad esempio, a quello della dignità umana, un principio a cui la nostra Costituzione non fa esplicito riferimento ma che ha, invece, espresso riconoscimento in altre fonti come la Carta dei diritti dell’uomo o la Carta di Nizza, ma anche quello della vita, della forma repubblicana. Più che considerarli come tali, però, cosa che comporterebbe l'impossibilità di trattarli in combinazione con altri in un modo che potrebbe ridurne la portata, bisogna tenere a mente una diversa caratteristica, che non consiste nella loro assolutezza, bensì nella tutela del loro contenuto essenziale. Data da una norma esplicita, si potrà intervenire e limitare tali diritti senza, però, poterne cancellarne il contenuto essenziale.

Assumendo che sia facile individuare tale area, bisogna supporre che, laddove questa sia presente, ve ne sia anche un'altra, più debole e meno illuminata. Si tratta di ulteriori contenuti che appartengono sempre allo stesso diritto, ma che non costituiscono la sua connotazione essenziale. In realtà, quando si dice che il contenuto essenziale non può essere cancellato e violato, si sta operando in termini che si riferiscono più all’interpretazione del contenuto del diritto che al problema della sua relazione con altri principi, ossia della prevalenza di un principio o diritto sull’altro.

Quando s'interpreta il significato di un diritto, limite fondamentale a tale attività è costituita dalla regola interpretativa di non cancellarne il contenuto essenziale. Oltre a questa, non si può dimenticare quella che prevede ciò, che dovendo scegliere tra un’interpretazione per la quale le parole mantengono un senso in quel testo o quell’articolo e un’interpretazione secondo la quale alcune non avrebbero più significato, è necessario scegliere la prima. Traslando questo discorso, è evidente che bisogna dare ad un articolo ovvero un diritto un significato che non lo svuoti del suo contenuto essenziale.

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Diversa è la situazione nel momento in cui vi sono due diritti fondamentali in conflitto. Quale dei due dovrà prevalere? È più difficile rispondere a quest'interrogativo: la linea giuridica prevalente è comunque quella di non interpretare alcuno dei due, in particolare quello soccombente, in modo tale da causare lo svuotamento del suo contenuto essenziale. Previsioni di tal fatta si ritrovano anche nella Carta di Nizza, nel Trattato di Lisbona, o nella Costituzione tedesca.

Per quale ragione questa previsione di limite emerge? Perché c’è una ideologica emergenza di un problema che non ha un quadro di emersione storicamente negli ordinamenti giuridici come quello anglosassone o americano. Le costituzioni e gli ordinamenti giuridici continentali hanno sempre interpretato i diritti secondo modalità non assolute: meglio, non deontologiche. Il problema, di conseguenza, non è dato dal fatto che non si possano fare ragionamenti che costringano a risolvere per la prevalenza di un principio su un altro, ma è il modo in cui quest'operazione viene compiuta a rilevare in ultima analisi, metodo che è normalmente divenuto noto con il nome di "principio di proporzionalità". Dalla ricostruzione di questo procedimento argomentativo, si possono individuare tre fasi: si parla, infatti, di un sistema trifasico:

1. idoneità della misura adottata rispetto al fine perseguito ovvero al bene tutelato;

2. necessità della misura adottata;

3. giudizio di proporzionalità in senso stretto, che a sua volta si divide in tre ulteriori passaggi logici:

3a. valutazione dell'importanza del bene tutelato;

3b. quantificazione dell'entità del danno cagionato ovvero della limitazione imposta all’altro bene;

3c. bilanciamento tra i due.

Non si tratta, comunque, di ragionare per compartimenti stagni, se anche rispondo positivamente all’ idoneità non è detto che per farlo non includa in un ragionamento sintetico anche argomenti che appartengono al punto 2 o 3, ma noi dobbiamo rispondere distintamente a questi tre passaggi.

E' necessario sottolineare come il percorso che illustreremo soccorre il giudice solo nel momento in cui egli abbia già deciso il caso. Il giudizio di proporzionalità non è altro che un sistema offerto all'operatore del diritto per l'argomentazione della sua

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decisione, per rendere controllabile da parte di altri la soluzione da lui prodotta. Come abbiamo già avuto occasione di notare, non si può pretendere dal diritto la certezza matematica: tutto quello che si può chiedere è, invece, costituito dalla razionalità, dall'argomentazione, dalla logica. Dal giudice si pretende che il modo in cui argomenta sia corretto, dovrà dimostrare di aver fatto quanto possibile per ottenere una ricostruzione razionale della conclusione sulla base dell’ordinamento giuridico. E’ certo che il giudice formulerà una decisione che potrà dipendere dalla sua cultura personale, dalle sue esperienze, insomma, da quelle che Kant definiva come "griglie": non si può arrivare alla soluzione del caso attraverso i passaggi del criterio di proporzionalità, come se si trattasse di una semplice somma algebrica; questi, però, a posteriori, devono essere esplicitati, altrimenti la decisione assunta sarà da considerarsi come arbitraria.

Ai giudici non è, allora, vietata la valutazione ovvero la conclusione in sé, il che sarebbe impossibile e inevitabile, bensì il fatto di condurre il ragionamento in modo del tutto svincolato dal principio di proporzionalità, che è il metodo canonico con il quale si usa difendere l’attività giudiziaria.

3. Le tre fasi del giudizio di proporzionalità: a) suitability.

Suitability, ovvero "idoneità", significa che il mezzo cui si fa ricorso deve essere adatto a proteggere il bene da tutelare. Facciamo alcuni esempi pratici. Pensiamo al caso Schmidberger (v. infra): la protesta degli ambientalisti condotta secondo quelle modalità era un’idonea manifestazione vietando la quale non si sarebbe potuto proteggere il bene della libertà di espressione? La priorità manifestata dalla Repubblica austriaca è coerente, idonea, adeguata alla manifestazione della libertà di pensiero?

Altro caso noto è quello che riguarda la costruzione del muro, volto a determinare la separazione tra palestinesi e territorio israeliano per motivi di sicurezza. La Corte Suprema israeliana fa un ragionamento in termini di proporzionalità, nel momento in cui viene chiamata a decidere della legittimità di tale costruzione in ossequio al principio della difesa della popolazione. La Corte affermerà che il mezzo utilizzato era idoneo, ma non adeguato.

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Consideriamo anche il caso del liquore francese Cassis de Dijon: l’impedimento della circolazione della bottiglia nel territorio tedesco e, quindi, la violazione della libertà di circolazione delle merci, si risolve attraverso il complesso ragionamento che parte dalla valutazione dell’idoneità della misura presa dalla Germania per tutelare la salute, motivazione ipocrita per proteggere in realtà i propri interessi (si temeva che l’assuefazione data dal consumo di bevande alcoliche dalla gradazione molto bassa potesse finire con l’indurre a consumare alcolici ben più pesanti). Secondo la Corte di Giustizia non c’era bisogno che la Germania, per ottenere come risultato quello della tutela della salute dei propri cittadini, ricorresse ad un simile sbarramento. Sarebbe stato, piuttosto, sufficiente indicare sull’etichetta del liquore in questione la diversa gradazione alcolica.

3.1. b) Least restrictive means.

Seconda fase del giudizio di proporzionalità è quella che consiste nella valutazione del c.d. LRM, Least Restrictive Means, il mezzo meno invasivo, quello che restringe di meno la soddisfazione del bene soccombente.

Tornando agli esempi precedenti, pensiamo al muro: era davvero necessario per difendere la sicurezza degli israeliani innalzare una costruzione di quel genere? Il problema, ovviamente, non è da valutare solo sotto il profilo estetico, ma riguarda soprattutto la compressione della mobilità vitale dei palestinesi, che risultano indubbiamente ingabbiati da tale misura, oltre a riceverne danni commerciali.

Bisogna tenere a mente, però, che spesso i giudici non posseggono una competenza idonea a valutare tutto ciò; tuttavia, evidenziare che il mezzo adottato non è il meno restrittivo a carico della posizione soccombente, implica anche l'avere la capacità di indicare quale sarebbe stato il mezzo migliore.

Tutto questo significa, quindi, entrare nel merito, in modalità che non sono proprie del lavoro dei giudici: si interviene attraverso valutazioni che hanno, ad esempio, bisogno di competenze militari, o politiche. Si tratta di fare valutazioni contestuali che non sempre sono possibili senza che il giudice non solo si studi la situazione, il che è auspicabile, ma senza che questi diventi un po’ il legislatore della circostanza concreta, dovendosi sostituire a chi ha provveduto immaginando cos’altro si sarebbe potuto fare. Diventa allora inevitabile riconoscere al giudice un ruolo creativo.

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Il mezzo adottato per tutelare l'interesse fondamentale, dunque, deve essere non solo idoneo ma, tra tutti quelli eventualmente idonei, deve essere scelta l’alternativa meno pesante che consenta di difendere, ad esempio, la sicurezza (cfr. muro palestinese), l’esercizio della libertà di espressione (cfr. caso Schmidberger), la salute dall’uso e abuso di sostanze alcoliche (cfr. caso Cassis de Dijon), il tutto comprimendo i diritti altrui o l'altro bene in questione.

3.2. c) Giudizio di proporzionalità in senso stretto.

La teoria di Robert Alexi, cui si fa riferimento per l’elaborazione logica del principio di proporzionalità, sostiene che sia possibile quantificare l’importanza del bene che si è scelto di proteggere, attraverso l'uso di aggettivazioni in tre diverse forme: modesta, media, e alta (fase 3a).

Si procede, quindi, alla valutazione dell’incidenza che si viene a determinare sul bene soccombente (fase 3b): si chiede al giudice, cioè, di quantificare la compressione di quest'ultimo. Si tratta di un tipo di giudizio completamente diverso rispetto a quello trattato nel paragrafo precedente: questo, infatti, chiedeva semplicemente di individuare, tra le varie alternative idonee, il mezzo meno pesante. Qui, invece, il giudice sarà tenuto a quantificare il danno arrecato.

Al punto 3c, infine, si procede ad un bilanciamento tra l’importanza del bene privilegiato e la gravità del danno sul bene compresso: ci deve essere dunque, ad esempio, proporzionalità tra i due elementi: quindi, se si sceglie di privilegiare un bene la cui importanza è media, ci si può ragionevolmente considerare autorizzati ad una compressione media sull’altro bene; al contrario non posso, se attribuisco una quantità di importanza media al bene che privilegio, produrre una gravissima compressione sull’altro.

4. Riferimenti giurisprudenziali: caso Schmidberger. Fatto.

Si tratta della sentenza C 112/00 del 12 giugno 2003 della Corte di Giustizia. I fatti che hanno portato all'emergere della causa sono i seguenti. L'associazione di tutela

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dell'ambiente Transitforum Austria Tirol ha organizzato una manifestazione dal 12 al 13 giugno 1998 sull'autostrada del Brennero, per sensibilizzare il pubblico sui problemi di inquinamento dovuti all'aumento del traffico su tale asse stradale, e sollecitare le autorità austriache ad assumere misure di correzione. L'associazione ha debitamente informato delle proprie intenzioni le autorità amministrative competenti (la Bezirkshauptmannschaft di Innsbruck), nonché i media, che hanno diffuso l'informazione agli utenti austriaci, tedeschi e italiani. Giudicata lecita con riferimento al diritto nazionale dalle autorità austriache, tale manifestazione si è svolta nella calma, alla data indicata ed ha cagionato un blocco totale del traffico stradale sul Brennero durante 30 ore.

La società Schmidberger, specializzata nel trasporto tra l'Italia e la Germania, ha introdotto, dinanzi ai tribunali austriaci, un ricorso per risarcimento nei confronti dell'Austria, che essa ritiene responsabile di un ostacolo alla libera circolazione delle merci, contrario al diritto comunitario. Essa richiede il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito, in quanto cinque dei suoi automezzi sono rimasti bloccati per quattro giorni consecutivi (poiché il giorno precedente la manifestazione era festivo, mentre i due giorni seguenti corrispondevano a un fine settimana, durante il quale i camion non possono, in linea di principio, circolare, secondo il codice stradale austriaco).

In primo grado, la domanda viene rigettata, per motivi procedurali, senza prendere in considerazione le disposizioni del diritto comunitario in materia di libera circolazione. Al contrario, la Corte d'appello sottolinea che se ne deve tener conto, ed effettua quindi un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'UE. In particolare, richiede che si stabilisca se il principio di libera circolazione delle merci obblighi gli Stati membri a garantire il libero accesso agli itinerari di transito importanti e se tale obbligo prevalga sui diritti fondamentali, tra cui le libertà di espressione e di riunione di cui si tratta nella presente causa.

4.1 (segue) Diritto.

La Corte adita ricorda, innanzitutto, che la libera circolazione delle merci rappresenta uno dei pilastri della Comunità europea, e che dev'essere eliminata qualsiasi restrizione che esista in tal senso tra gli Stati membri, sia che questa abbia il suo fondamento in un'azione diretta dello Stato, sia quando sia invece il risultato di una mera omissione. Quando uno Stato membro non ha assunto misure appropriate per

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affrontare ostacoli agli scambi intracomunitari (ancorché questi non derivino da un atto dello Stato, bensì da azioni imputabili a privati) può essere ritenuto responsabile, come è avvenuto per la Francia nel 1997.

Tale obbligo è ancor più essenziale, sottolinea la Corte, quando si tratta di un asse stradale di primaria importanza quale l'autostrada del Brennero, che è una delle principali vie di comunicazione tra l'Europa settentrionale ed il Nord dell'Italia. Di conseguenza, il fatto che l'Austria non abbia vietato una manifestazione che ha bloccato per quasi 30 ore tale autostrada, limita il commercio intracomunitario delle merci all'interno dell'Unione ed è, in linea di principio, incompatibile con il diritto comunitario, a meno che non sussista una giustificazione oggettiva in tal senso.

Per verificare se sia possibile giustificare tale ostacolo, si deve, a parere della Corte, prendere in considerazione non tanto l'obiettivo perseguito dall'associazione ambientalista (per quanto si tratti di legittimi interessi tali da poter consentire una limitazione alla libertà di circolazione e rendere possibile l'applicazione delle deroghe previste dall'art. 36 TFUE), quanto quello proprio delle autorità nazionali, nel momento in cui hanno concesso l'autorizzazione, ossia quello del rispetto delle libertà d'espressione e di riunione. Si tratta, com'è noto, di due diritti fondamentali, che costituiscono parte integrante dei principi generali dei quali la Corte di Giustizia garantisce l'osservanza, in più appartengono alle tradizioni costituzionali dei Paesi membri, Austria compresa. Inoltre, sono enunciati e garantiti da trattati internazionali sulla tutela dei diritti dell'uomo, tra cui la CEDU.

Tutto questo comporta che nell'UE non possono essere consentite misure incompatibili con il rispetto dei diritti dell'uomo: la Corte di Giustizia ne garantisce il rispetto.

Il problema è costituito, quindi, dallo scontro tra principi fondamentali: da un lato la libertà di circolazione (che può comunque subire alcune restrizioni, in base alle previsioni del già nominato art. 36 TFUE, e per motivi imperativi di interesse generale riconosciuti dalla giurisprudenza), dall'altro la libertà di espressione (che, per quanto rappresentante uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, diversamente da altri diritti considerati assoluti, come la vita, il divieto di discriminazione, o altri, può subire delle limitazioni. Questo sempre che tali restrizioni rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale, e che non costituiscano un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa del diritto).

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La Corte ritiene necessario, in tale situazione, bilanciare gli interessi presenti, e stabilire se sia stato rispettato un corretto equilibrio tra tali interessi.

Se volessimo ricostruire il percorso seguito dalla Corte per motivare la sua decisione, dovremmo riprendere i passaggi summenzionati del giudizio di proporzionalità, e chiederci, innanzitutto, se la misura adottata dalla repubblica austriaca, del blocco della circolazione autostradale per un periodo complessivo di 30 ore, era idoneo a perseguire gli obiettivi visti, ossia la tutela delle libertà di espressione e di riunione. La Corte risponde positivamente a tale quesito, considerando il blocco come una misura adatta a proteggere l'interesse tutelato, sottolineando che l'eventuale imposizione di misure più rigide riguardo al luogo e alla durata della manifestazione avrebbe potuto costituire una restrizione eccessiva, tale da privare l'azione di una parte sostanziale della sua portata. Al quesito se tale misura avesse costituito il mezzo meno invasivo, meno afflittivo e oneroso nei confronti del principio risultato soccombente, la Corte risponde ancora affermativamente, considerando come profondamente differente la situazione avutasi nel caso sottoposto alla sua attenzione da quello richiamato dal ricorrente, del caso Commissione/Francia del 1997: nel presente caso, i manifestanti hanno esercitato pacificamente e nelle forme di legge il loro diritto di espressione e di riunione, avendo cura di avvertire in tempo utile gli utenti interessati dell'una dell'altra parte della frontiera, ed hanno bloccato l'accesso ad un solo itinerario, in un'unica occasione e solamente per una durata limitata, il che ha permesso alle autorità austriache di trasmettere l'informazione e di assumere le misure di accompagnamento al fine di limitare, nella misura del possibile, le perturbazioni della circolazione stradale (ad esempio mediante l'attuazione di itinerari alternativi). Inoltre, la Corte considera che l'eventuale imposizione ai manifestanti di soluzioni alternative, o l'eventuale divieto della manifestazione, avrebbero potuto comportare il rischio di reazioni difficilmente controllabili, idonee a suscitare perturbazioni molto più gravi, che avrebbero potuto concretizzarsi in dimostrazioni selvagge e atti violenti.

Venendo alla fase del giudizio di proporzionalità in senso stretto, la Corte considera implicitamente elevata l'importanza del bene cui è stata data precedenza, mentre reputa media, o addirittura bassa, la misura del danno imposto all'altro principio. La coclusione del bilanciamento è quindi quella della prevalenza della libertà di espressione sul principio di libera circolazione, considerate le circostanze.

Le autorità nazionali, tenuto conto dell'ampio potere discrezionale che dev'essere loro riconosciuto in materia, hanno quindi ragionevolmente potuto ritenere che l'obiettivo

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legittimamente perseguito da tale manifestazione non poteva essere raggiunto mediante misure meno restrittive degli scambi comunitari.

La Corte di giustizia stabilisce, dunque, che l'autorizzazione di tale manifestazione ha rispettato un corretto equilibrio tra la tutela dei diritti fondamentali dei manifestanti e le esigenze della libera circolazione delle merci. Di conseguenza, non può rimproverarsi alle autorità austriache di aver commesso una violazione del diritto comunitario tale da far sorgere la responsabilità dello Stato membro interessato.

5. (segue) Il caso Omega. Fatto.

La sentenza è la n. C 36/02 del 14 ottobre 2004.

Si tratta, ancora una volta, di una domanda di decisione pregiudiziale, che verte sull’interpretazione degli articoli 49/55 CE, concernenti la libera prestazione dei servizi, e degli articoli 28/30 CE, sulla libera circolazione delle merci.

La domanda è stata presentata nell’ambito di un ricorso per cassazione proposto dalla società Omega, in occasione del quale quest’ultima ha messo in discussione la compatibilità col diritto comunitario di un provvedimento adottato nei suo confronti nel 1994, da parte del sindaco della città di Bonn.

Omega, una società di diritto tedesco, gestiva a Bonn un locale denominato “laserdromo”. L’attrezzatura utilizzata da Omega nel suo locale era stata inizialmente sviluppata come gioco per bambini; poiché successivamente si era rilevata insufficiente, l’Omega aveva fatto ricorso all’attrezzatura fornita dalla società britannica Pulsar, giungendo ad un contratto di franchising solo il 29 Maggio 1997.

Da parte del pubblico erano sorte proteste già dal 1994 e si chiedeva una precisa descrizione del gioco, ma l’Omega aveva replicato che si trattava di colpire sensori fissi installati nelle piattaforme di tiro. Poiché si era osservato che il gioco praticato prevedeva che si colpissero sensori fissati sui giubbotti indossati dai giocatori, il sindaco di Bonn, in data 14 settembre 1994, era intervenuto con l'emanazione di un provvedimento che vietava giochi che avessero come oggetto quello di colpire uomini mediante raggi laser.

Secondo tale provvedimento, i giochi realizzavano un pericolo per l’ordine pubblico, in quanto costituenti una violazione dei valori etici fondamentali riconosciuti dalla collettività.

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Il reclamo depositato dalla società contro il provvedimento era stato respinto dall’autorità amministrativa locale, così come l’impugnazione in sede contenziosa e il conseguente appello.

Successivamente, l’Omega ha proposto ricorso in cassazione, invocando tra i motivi la minaccia costituita dal provvedimento controverso per il diritto comunitario, in particolare per la libera prestazione dei servizi, di cui all’art. 49 CE, poiché si doveva utilizzare l’attrezzatura fornita dall'azienda inglese Pulsar.

La cassazione considerava che, in applicazione del diritto nazionale, il ricorso doveva essere respinto, ma si chiedeva comunque se la soluzione fosse compatibile con il diritto comunitario (artt. 49/55 e 28/30 CE).

Per il giudice del rinvio, la corte d’appello aveva giustamente concluso che il gioco svolto nel laserdromo costituiva una violazione della dignità umana, nozione stabilità all’art. 1 della Costituzione Tedesca. La dignità umana è un principio che, nel caso di specie, è stato violato, andando a risvegliare nel giocatore un’attitudine che neghi il diritto fondamentale di ogni persona ad essere riconosciuta come tale e rispettata. Tale valore non può essere soppresso, neppure nell’ambito di un gioco.

Per quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario, il giudice del rinvio ritiene che il provvedimento incida sulla libera prestazione dei servizi (contratto di franchising con la Pulsar) e violi la libera circolazione delle merci (apparecchiatura che l’Omega desiderava acquistare dalla Pulsar).

Il giudice del rinvio ritiene che la causa principale sia un'utile occasione per precisare le condizioni cui il diritto comunitario assoggetta la restrizione di una determinata categoria di prestazioni di servizi o importazioni di beni, rilevando che, secondo la giurisprudenza della Corte, le restrizioni sono consentite qualora i provvedimenti siano i) giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, ii) idonei ad assicurare il raggiungimento del fine perseguito e iii) che non eccedano quanto è a tal fine necessario.

Il giudice del rinvio si domanda se sia necessaria una nozione comune del diritto in tutti gli Stati membri, affinché tali Stati siano legittimati a limitare discrezionalmente una categoria di prestazioni protette dal trattato CE.

Alla luce di tutto ciò, si decide di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: a) se sia compatibile con le disposizione del trattato CE relative alla libera prestazione dei servizi (artt. 49/55 CE) e alla libera circolazione delle merci (artt. 28/30 CE) il fatto che una determinata attività commerciale debba essere vietata

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ai sensi della normativa nazionale, perché viola valori fondamentali costituzionalmente sanciti, e b) se la facoltà degli Stati membri di limitare, per tali ragioni, determinate libertà fondamentali garantite dal trattato sia subordinata alla condizione che tale restrizione si basi su una concezione del diritto comune a tutti gli Stati membri.

5.1. (segue) Diritto.

Quanto al primo punto, la Corte procede all’esame del provvedimento con riguardo ad una soltanto delle due libertà fondamentali, siccome risulta che, nel caso di specie, una delle due è secondaria rispetto all’altra e può essere a questa ricollegata: l’aspetto della libera prestazione dei servizi prevale su quello della libera circolazione delle merci.

In merito alla giustificazione della restrizione imposta dal provvedimento alla libera prestazione dei servizi, l’art. 46 CE ammette le restrizioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica. Il sindaco di Bonn adotta il provvedimento invocando un pericolo per l’ordine pubblico. La possibilità per uno Stato membro di fare uso di una deroga prevista dal trattato non esclude comunque un controllo giurisdizionale sull’applicazione di tale deroga. Inoltre, la nozione di ordine pubblico deve essere intesa in senso restrittivo e non determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro, quindi il principio può essere invocato solo in caso di minaccia effettiva e grave ad uno degli interessi della collettività.

Le circostanze che giustificano il richiamo all’ordine pubblico possono variare da un Paese all’altro, da un’epoca all’altra; è perciò necessario lasciare alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale.

Le autorità competenti hanno ritenuto che l’attività oggetto del provvedimento minacciasse l’ordine pubblico e i giudici nazionali aditi hanno confermato la concezione delle esigenze di tutela della dignità umana, che si deve ritenere conforme alla Costituzione Tedesca.

Secondo costante giurisprudenza, i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi fondamentali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza e, a tal fine, quest’ultima s’ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e

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alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e libertà fondamentali. L’ordinamento giuridico comunitario è diretto ad assicurare il rispetto della dignità umana e la tutela di tale diritto rappresenta un legittimo interesse che giustifica una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario.

Le misure restrittive possono essere giustificate da motivi connessi con l’ordine pubblico solo ove necessarie ai fini della tutela degli interessi che mirano a garantire, e a condizione che tali obiettivi non possano essere conseguiti con provvedimenti meno restrittivi.

Per quanto riguarda la seconda richiesta, non si ritiene necessario da parte della Corte che una misura restrittiva corrisponda ad una concezione condivisa da tutti gli Stati membri relativamente alle modalità di tutela del diritto fondamentale (par 37/38). Secondo il giudice del rinvio il divieto dell’attività commerciale corrisponde al livello di tutela della dignità umana che la costituzione nazionale ha inteso assicurare in Germania.

Inoltre, ad essere vietata è la variante del gioco finalizzata a colpire bersagli umani, non eccedendosi così al quantum necessario per conseguire l’obiettivo.

Pertanto, il provvedimento non può essere considerato una misura che incida in modo ingiustificato sulla libera prestazione dei servizi.

Per questi motivi, il diritto comunitario non osta a che un attività economica consistente nello sfruttamento commerciale di giochi di simulazione di omicidi sia vietata da un provvedimento nazionale adottato per motivi di salvaguardia dell’ordine pubblico perché tale attività viola la dignità umana.

6. (segue) Il caso Viking.

Si tratta del procedimento C 438/05, avente ad oggetto la domanda di rinvio pregiudiziale proposta alla Corte di Giustizia nell'ambito della causa che vede contrapporsi le sigle sindacali dell'International Transport Workers’ Federation e della Finnish Seamen’s Union e l'impresa finlandese Viking Line.

L’impresa Viking Line, operatore finlandese di traghetti sulla rotta tra la Finlandia e l’Estonia, essendo costretta a subire la concorrenza degli operatori estoni, che sopportano costi del lavoro sensibilmente inferiori, aveva tentato di immatricolare una delle proprie imbarcazioni (la Rosella, operante in perdita) in Estonia. Il

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cambiamento di bandiera avrebbe consentito alla Viking Line di concludere un contratto collettivo col sindacato estone, traendo cosi vantaggio competitivo dalla possibilità di applicare retribuzioni e condizioni di lavoro inferiori rispetto a quelle garantite ai lavoratori finlandesi dal loro contratto collettivo. Oltre a paventare il peggioramento del loro trattamento economico e normativo, i lavoratori temevano che, a seguito del cambiamento di bandiera, la Viking avrebbe licenziato parte dei lavoratori occupati sulla imbarcazione. L’azione di boicottaggio promossa dal sindacato finlandese FSU (sostenuta dall’azione di solidarietà della ITF, con sede in Gran Bretagna, a cui la FSU aderisce) aveva bloccato l’iniziativa della Viking, costringendola a raggiungere un accordo; ma, temendo che un ulteriore tentativo di cambiare bandiera avrebbe innescato una nuova azione di boicottaggio, la compagnia aveva dato avvio all’azione pregiudiziaria contro la ITF, per impedirle di intraprendere nuove azioni di tal genere. Il ricorso in via pregiudiziale della Corte d’Appello civile dell’Inghilterra e del Galles alla Corte di Giustizia della Comunita Europea ha dato avvio a questo caso.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte sono le seguenti: a) se nell’ambito di applicazione dell’art. 43 TCE (libertà di stabilimento) rientri un’azione collettiva promossa da un sindacato o da una associazione di sindacati al fine di indurre un’impresa a sottoscrivere un contratto collettivo, il cui contenuto sia tale da dissuaderla ad esercitare la libertà di stabilimento; b) se l’art. 43 conferisce ad un’impresa diritti opponibili ad un sindacato o ad un’associazione di sindacati; c) se un’azione collettiva (cit. supra) costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento e, in caso affermativo, in quale misura tale restrizione sia giustificata.

Nel quadro delle disposizioni comunitarie, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende, altresì, alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 48, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.

Per libertà di stabilimento s’intende la possibilità di costituire e gestire un'impresa, o intraprendere una qualsiasi attività economica in un paese della Comunità Europea, tramite l'apertura di agenzie, filiali e succursali. È inoltre garantito il diritto a

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esercitare attività non salariate. La libertà di stabilimento pone il divieto di discriminare un imprenditore in base alla nazionalità e si divide in libertà di stabilimento primaria e secondaria. La libertà di stabilimento primaria si ha quando un cittadino di uno stato membro si stabilisce in via definitiva in un altro stato per intraprendere un'attività imprenditoriale. La libertà di stabilimento secondaria si ha quando un cittadino resta nel proprio paese ed esercita un'attività secondaria in un altro paese della CE (es. apertura di una succursale)

Le questioni di cui ai punti a) e b) propongono un interrogativo essenziale e preliminare alla soluzione della controversia: infatti l'azione collettiva posta in essere da soggetti privati (i sindacati) può rientrare nell'ambito di applicazione dell’art. 43 Tce solo se si attribuisce a tale disposizione, in primo luogo, l'effetto diretto orizzontale.

Mentre è comunemente accettato che le norme comunitarie in materia di concorrenza (artt. 81 e 82 Tce) abbiano effetto orizzontale diretto (e si applichino perciò nei rapporti tra imprese private), il Trattato non chiarisce se gli artt. 43 e 49 tutelino i diritti dei soggetti attivi sul mercato limitando non solo i poteri delle autorità degli Stati membri (effetto verticale diretto), ma anche l'autonomia di altri soggetti non pubblici (e se dunque la libertà di circolazione sia opponibile da un soggetto privato ad altro soggetto privato: effetto orizzontale diretto). Le opinioni della dottrina, com’è noto, divergono, ma entrambi gli Avvocati Generali hanno sposato la tesi dell'effetto orizzontale. Dell'orientamento interpretativo di costoro, la Corte di Giustiziaha tenuto conto nella sentenza Viking: il risultato è una soluzione che possiamo scindere in due momenti logici.

Il primo momento è l'affermazione dell'effetto orizzontale dell'art. 43, che deriva dalla sua estensione agli atti di soggetti non pubblici; il secondo momento è l'attrazione di un'azione collettiva tra gli atti di soggetti privati in grado di ostacolare l'esercizio delle libertà di circolazione (di stabilimento, nel caso di specie): qui il complicato nodo da sciogliere è quello di assimilare un'azione collettiva (che è un comportamento, e dunque un fatto e non "una normativa" di carattere generale) alle azioni di soggetti privati dotate di effetti.

La Corte, richiamando come precedenti alcune note decisioni, riferite tuttavia a fattispecie assai diverse, afferma che gli artt. 39, 43 e 49 Tce non disciplinano soltanto gli atti delle autorità pubbliche, ma si applicano anche alle normative di altra natura dirette a disciplinare collettivamente il lavoro subordinato, il lavoro autonomo e le prestazioni di servizi: dunque, i contratti collettivi (in quanto normative generali) rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 43.

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La Corte attribuisce, insomma, ai contratti collettivi natura di normativa generale, non solo prescindendo dalla considerazione del loro regime giuridico nel diritto interno, ma anche ignorando che nella Direttiva Servizi (Direttiva 2006/123 Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, art. 4) le norme stabilite dai contratti collettivi sono state espressamente escluse dai "requisiti" (cioè dagli obblighi, divieti e altre limitazioni alla libera circolazione dei servizi derivanti da normative di carattere generale: leggi, atti amministrativi, regolamenti di ordini e associazioni professionali).

Se questa soluzione suscita più di una perplessità, perplessità anche maggiori fa sorgere il passo successivo: come sottolineato, la questione posta alla Corte riguardava non il contratto collettivo, ma l'azione collettiva (nel caso il boicottaggio), e la Corte ha disinvoltamente aggirato la domanda, inglobando l'azione collettiva conflittuale nel contratto collettivo.

Poiché azioni collettive come quelle poste in essere dalla sigla sidacale Fsu - argomenta la Corte - «possono costituire l'ultima risorsa a disposizione delle organizzazioni sindacali per condurre a buon fine le proprie rivendicazioni volte a disciplinare collettivamente il lavoro dei dipendenti della Viking, devono essere considerate inscindibilmente connesse al contratto collettivo». Pertanto, un'azione collettiva intrapresa da un sindacato o da un raggruppamento di sindacati nei confronti di un'impresa al fine di indurre quest'ultima a sottoscrivere un contratto collettivo il cui contenuto sia tale da dissuaderla dall'avvalersi della libertà di stabilimento rientra, in linea di principio, nell'ambito applicativo dell'art. 43 Tce» (punti 33-37).

I limiti al diritto di sciopero previsti dal diritto finlandese hanno certamente agevolato il compito di ricondurre l'azione collettiva conflittuale nell'alveo della contrattazione collettiva: non solo perché lo sciopero non può essere esercitato, secondo la Corte Suprema finlandese, se contrario al buon costume o vietato dal diritto nazionale e dal diritto comunitario, ma specialmente perché il diritto finlandese impone l'obbligo di pace sociale fino alla scadenza del contratto collettivo, creando così una stretta connessione funzionale tra azione collettiva e stipulazione del contratto collettivo.

Per quanto attiene alla seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 43 CE conferisca a un’impresa privata diritti opponibili a un sindacato o a un’associazione di sindacati. Alla luce delle considerazioni svolte, la seconda questione viene risolta dichiarando che l’art. 43 CE conferisce a un’impresa privata diritti opponibili a un sindacato o a un’associazione di sindacati.

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Riguardo alla terza questione, il giudice del rinvio chiede alla Corte se azioni collettive come quelle intraprese costituiscano restrizioni ai sensi dell’art. 43 Tce. La Corte da un lato non nega che azioni collettive come quelle intraprese dalla Fsu hanno l’effetto di scoraggiare l’esercizio da parte della Viking della sua libertà di stabilimento e dall’altro lato la politica della lotta alle bandiere di convenienza perseguita dall’ITF (cioè impedire agli armatori di immatricolare le loro navi in uno Stato diverso da quello di cui sono cittadini i proprietari effettivi) deve essere considerata come limitatrice della libertà di stabilimento.

La Corte afferma che spetterà al giudice del rinvio verificare se gli obiettivi perseguiti dalla FSU e dalla ITF riguardassero la tutela dei lavoratori. La qualificazione di restrizione non sarebbe conservata se i posti di lavoro non fossero realmente compromessi o minacciati. Se il giudice del rinvio concludesse che i posti di lavoro erano realmente compromessi, egli dovrà anche verificare se l’azione collettiva del sindacato fosse adeguata per garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non andasse al di là di ciò che era necessario per conseguirlo.

Quindi il giudice nazionale deve: verificare, innanzitutto, l’adeguatezza delle azioni intraprese dalla FSU; verificare se l’azione collettiva va al di là di ciò che è necessario a conseguire l’obiettivo perseguito. Qui il giudice del rinvio si deve chiedere: “ La FSU disponeva di altri mezzi, meno restrittivi della libertà di stabilimento, per condurre a buon fine il negoziato con la Viking? Se si, li ha posti in essere prima di avviare l’azione in questione?”; se l’art. 43 CE deve essere interpretato nel senso che azioni collettive come quelle in esame nella causa principale, finalizzate a indurre un’impresa stabilita in un certo Stato membro a sottoscrivere un contratto collettivo di lavoro con un sindacato avente sede nello stesso Stato e ad applicare le clausole previste da tale contratto ai dipendenti di una società controllata da tale impresa e stabilita in un altro Stato membro, costituiscono restrizioni ai sensi dell’articolo in parola. Tali restrizioni possono, in linea di principio, essere giustificate da una ragione imperativa d’interesse generale come la tutela dei lavoratori, purché sia accertato che le stesse sono idonee a garantire la realizzazione del legittimo obiettivo perseguito (tutela dei lavoratori) e non vanno al di là di ciò che è necessario per conseguire tale obiettivo.

La Corte dà ragione a Viking, ritenendo illegittimo lo sciopero minacciato dalle sigle sindacali. Ricordiamo però che lo sciopero è un diritto garantito, punto fondamentale delle tradizioni costituzionali dei paesi membri. Come risolvere il contrasto tra le due contrapposte pretese, la libertà di stabilimento e di circolazione nell’area europea e il

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diritto di sciopero? Naturalmente, per trarsi dall’impiccio, la Corte fa uso del già più volte menzionato principio di proporzionalità, ricostruendo inoltre una nozione di “sciopero” non del tutto conforme a quanto si ritrova nelle costituzioni dei Paesi membri. Il criterio di proporzionalità, metro di giudizio fondamentale dell’attività interpretativa e argomentativa, viene, quindi, sfruttato come un pass-par-tout per effettuare, in primo luogo, un bilanciamento, e poi per giustificare la scelta raggiunta.

Ad avviso della Corte, nel caso di specie, non sussiste alcuna proporzionalità tra l’interesse dei lavoratori e quello del datore di lavoro, la Viking. Per affermare ciò, la Corte è costretta a tracciare e definire i confini del diritto di sciopero, esplicandone il contenuto. Così, attraverso una sorta di actio finium regundorum, il giudice europeo giunge a sostenere la necessità della proporzionalità tra l’esercizio del diritto di sciopero e l’interesse dell’impresa.

È utile ricordare, a questo punto, come nel nostro diritto del lavoro, il diritto di sciopero è una forma libera di azione, rispetto alla quale non è dato riscontrare vincoli, tanto meno di proporzionalità con gl’interessi dell’impresa. La valutazione della bontà dello sciopero è rimessa unicamente al sindacato: l’apposizione di eventuali limitazioni è da ritenersi incostituzionale. È pur vero che lo sciopero viene gravato da alcune restrizioni, ma queste sono predeterminate normativamente, legislativamente. Pensiamo, ad esempio, alla normativa sullo sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali. Non è, perciò, concesso al giudice alcun tipo di sindacato sulla legittimità dello sciopero. Inoltre, non risulta da alcuna delle tradizioni costituzionali degli Stati membri la necessità di contemperare tale diritto con le esigenze dell’impresa.

Una decisione della Corte di Giustizia in tal senso risulta, quindi, difficilmente compatibile con gli ordinamenti statali, poco condivisibile e sicuramente esposta a severe critiche.

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Caso Viking

Federazione internazionale dei lavoratori dei trasporti (ITF)

Sindacato Finlandese marittimi (FSU)

CONTRO

VIKING LINE ABP

OU VIKING LINE EESTI

L’impresa Viking line, operatore finlandese di traghetti sulla rotta tra la Finlandia e l’Estonia, essendo costretta a subire la concorrenza degli operatori estoni, che sopportano costi del lavoro sensibilmente inferiori, aveva tentato di immatricolare una delle proprie imbarcazioni (la Rosella, operante in perdita) in Estonia. Il cambiamento di bandiera avrebbe consentito alla Viking Line di concludere un contratto collettivo col sindacato estone, traendo cosi vantaggio competitivo dalla possibilità di applicare retribuzioni e condizioni di lavoro inferiori rispetto a quelle garantite ai lavoratori finlandesi dal loro contratto collettivo. Oltre a paventare il peggioramento del loro trattamento economico e normativo, i lavoratori temevano che, a seguito del cambiamento di bandiera, la Viking avrebbe licenziato parte dei lavoratori occupati sulla imbarcazione Rossella. L’azione di boicottaggio promossa dal sindacato finlandese FSU (sostenuta dall’azione di solidarietà della ITF, con sede in Gran Bretagna, a cui la FSU aderisce) aveva bloccato l’iniziativa della Viking, costringendola a raggiungere un accordo con la FSU; ma, temendo che un nuovo tentativo di cambiare bandiera avrebbe innescato una nuova azione di boicottaggio, la compagnia aveva dato avvio all’azione pregiudizi aria contro la ITF per impedirle di intraprendere nuove azioni di boicottaggio. Il ricorso in via pregiudiziale della Corte d’Appello civile dell’Inghilterra e del Galles alla Corte di Giustizia della Comunita Europea ha dato avvio a questo caso.

Le questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte:

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1. Ambito di applicazione delle disposizioni in materia di libera circolazione (art.43 TCE). Se nell’ambito di applicazione dell’arti.43 TCE (libertà di stabilimento) rientri un’azione collettiva promossa da un sindacato o da una associazione di sindacati al fine di indurre un’impresa a sottoscrivere un contratto collettivo, il cui contenuto sia tale da dissuaderla ad esercitare la libertà di stabilimento.

2. Se l’art.43 conferisce ad un’impresa diritti opponibili ad un sindacato o ad un’associazione di sindacati

3. Se un’azione collettiva (cit. supra) costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento e in caso affermativo in quale misura tale restrizione sia giustificata.

Articolo 43

Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 48, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.

Per libertà di stabilimento s’intende la possibilità di costituire e gestire un'impresa o intraprendere una qualsiasi attività economica in un paese della Comunità Europea, tramite l'apertura di agenzie, filiali e succursali. È inoltre garantito il diritto a esercitare attività non salariate. La libertà di stabilimento pone il divieto di discriminare un imprenditore in base alla nazionalità e si divide in libertà di stabilimento primaria e secondaria. La libertà di stabilimento primaria si ha quando un cittadino di uno stato membro si stabilisce in via definitiva in un altro stato per intraprendere un'attività imprenditoriale. La libertà di stabilimento secondaria si ha quando un cittadino resta nel proprio paese ed esercita un'attività secondaria in un altro paese della CE (es. apertura di una succursale)

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Le questioni di cui ai punti 1) e 2), vertendo entrambe sull'attribuzione dell'effetto orizzontale dell'art. 43 Tce, possono essere esaminate insieme. Tali questioni propongono un interrogativo essenziale e preliminare alla soluzione della controversia: infatti l'azione collettiva posta in essere da soggetti privati (i sindacati) può rientrare nell'ambito di applicazione dell’ art. 43 Tce solo se si attribuisce a tale disposizione, in primo e preliminare luogo, l'effetto diretto orizzontale. Mentre è comunemente accettato che le norme comunitarie in materia di concorrenza (artt. 81 e 82 Tce) abbiano effetto orizzontale diretto (e si applichino perciò nei rapporti tra imprese private), il Trattato non chiarisce se gli artt. 43 e 49 tutelino i diritti dei soggetti attivi sul mercato limitando non solo i poteri delle autorità degli Stati membri (effetto verticale diretto), ma anche l'autonomia di altri soggetti non pubblici (e se dunque la libertà di circolazione sia opponibile da un soggetto privato ad altro soggetto privato: effetto orizzontale diretto). Le opinioni della dottrina, com’è noto, divergono, ma entrambi gli Ag hanno sposato la tesi dell'effetto orizzontale. Dell'orientamento interpretativo degli Ag la Cgce ha tenuto conto nella sentenza Viking il risultato è una soluzione che possiamo scindere in due momenti logici.

Il primo momento è l'affermazione dell'effetto orizzontale dell'art. 43, che deriva dalla sua estensione agli atti di soggetti non pubblici; il secondo momento è l'attrazione di un'azione collettiva tra gli atti di soggetti privati in grado di ostacolare l'esercizio delle libertà di circolazione (di stabilimento, nel caso di specie): qui il complicato nodo da sciogliere è quello di assimilare un'azione collettiva (che è un comportamento, e dunque un fatto e non "una normativa" di carattere generale) alle azioni di soggetti privati dotate di effetti.

La Corte, richiamando come precedenti alcune note decisioni, riferite tuttavia a fattispecie assai diverse, afferma (punti 33-37) che gli artt. 39, 43 e 49 Tce non disciplinano soltanto gli atti delle autorità pubbliche, ma si applicano anche alle normative di altra natura dirette a disciplinare collettivamente il lavoro subordinato, il lavoro autonomo e le prestazioni di servizi: dunque, i contratti collettivi (in quanto normative generali) rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 43.

La Corte attribuisce insomma ai contratti collettivi natura di normativa generale, non solo prescindendo dalla considerazione del loro regime giuridico nel diritto interno, ma anche ignorando che nella Direttiva Servizi (Direttiva 2006/123 Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, art. 4) le norme stabilite dai contratti collettivi sono state espressamente escluse dai "requisiti" (cioè dagli obblighi, divieti e altre limitazioni alla libera circolazione dei servizi derivanti da normative di carattere generale: leggi, atti amministrativi, regolamenti di ordini e associazioni professionali).

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Se questa soluzione suscita più di una perplessità, perplessità anche maggiori suscita il passo successivo: come ho detto, la questione posta alla Corte riguardava non il contratto collettivo, ma l'azione collettiva (nel caso il boicottaggio), e la Corte ha disinvoltamente aggirato la domanda (come le suggeriva peraltro 17Ag),inglobando l'azione collettiva conflittuale nel contratto collettivo.

Poiché azioni collettive come quelle poste in essere dal Fsu - argomenta la Corte - «possono costituire l'ultima risorsa a disposizione delle organizzazioni sindacali per condurre a buon fine le proprie rivendica- zioni volte a disciplinare collettivamente il lavoro dei dipendenti della Viking, devono essere considerate inscindibilmente connesse al contratto collettivo». Pertanto, un'azione collettiva intrapresa da un sindacato o da un raggruppamento di sindacati nei confronti di un'impresa al fine di indurre quest'ultima a sottoscrivere un contratto collettivo il cui contenuto sia tale da dissuaderla dall'avvalersi della libertà di stabilimento rientra, in linea di principio, nell'ambito applicativo dell'art. 43 Tce» (punti 33-37).

I limiti al diritto di sciopero previsti dal diritto finlandese hanno certamente agevolato il compito di ricondurre l'azione collettiva conflittuale nell'alveo della contrattazione collettiva: non solo perché lo sciopero non può essere esercitato, secondo la Corte Suprema finlandese, se contrario al buon costume o vietato dal diritto nazionale e dal diritto comunitario, ma specialmente perché il diritto finlandese impone l'obbligo di pace sociale fino alla scadenza del contratto collettivo, creando così una stretta connessione funzionale tra azione collettiva e stipulazione del contratto collettivo.

32 Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 43 CE debba essere interpretato nel senso che esula dal suo ambito di applicazione un’azione collettiva intrapresa da un sindacato o un raggruppamento di sindacati nei confronti di un’impresa al fine di indurre quest’ultima a sottoscrivere un contratto collettivo il cui contenuto sia in grado di dissuadere la stessa dall’avvalersi della libertà di stabilimento.

55 Sulla base di quanto precede, la prima questione va risolta dichiarando che l’art. 43 CE deve essere interpretato nel senso che, in linea di principio, non è esclusa dall’ambito di applicazione di tale articolo un’azione collettiva intrapresa da un sindacato o da un raggruppamento di sindacati nei confronti di un’impresa al fine di indurre quest’ultima a sottoscrivere un contratto collettivo il cui contenuto sia tale da dissuaderla dall’avvalersi della libertà di stabilimento.

Sulla seconda questione

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56 Con tale questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’art. 43 CE conferisca a un’impresa privata diritti opponibili a un sindacato o a un’associazione di sindacati.

66 Alla luce di tali considerazioni, la seconda questione deve essere risolta dichiarando che l’art. 43 CE conferisce a un’impresa privata diritti opponibili a un sindacato o a un’associazione di sindacati.

Sulla terza questione

Il giudice del rinvio chiede alla Corte se azioni collettive come quelle intraprese costituiscano restrizioni ai sensi dell’art. 43 Tce.

La Corte: da un lato non nega che azioni collettive come quelle intraprese dalla Fsu hanno l’effetto di scoraggiare l’esercizio da parte della Viking della sua libertà di stabilimento e dall’altro lato la politica della lotta alle bandiere di convenienza perseguita dall’ITF (cioè impedire agli armatori di immatricolare le loro navi in uno Stato diverso da quello di cui sono cittadini i proprietari effettivi) deve essere considerata come limitatrice della libertà di stabilimento.

Sulla giustificazione delle restrizioni

La Corte afferma che spetterà al giudice del rinvio verificare se gli obiettivi perseguiti dalla FSU e dalla ITF riguardassero la tutela dei lavoratori. La qualificazione di restrizione non sarebbe conservata se i posti di lavoro non fossero realmente compromessi o minacciati. SE il giudice del rinvio concludesse che i posti di lavoro erano realmente compromessi, egli dovrà anche verificare SE l’azione collettiva del sindacato sia ADEGUATA per garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vada al di la di ciò che è necessario per conseguirlo.

Quindi il giudice nazionale deve:

1. Verificare l’adeguatezza delle azioni intraprese dalla FSU

2. Verificare se l’azione collettiva vada al di la di ciò che è necessario a conseguire l’obiettivo perseguito. Qui il giudice del rinvio si deve chiedere: “ La FSU disponeva di altri mezzi, meno restrittivi della libertà di stabilimento, per condurre a buon fine il negoziato con la Viking? Se si, li ha posti in essere prima di avviare l’azione in questione?”

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3. l’art. 43 CE deve essere interpretato nel senso che azioni collettive come quelle in esame nella causa principale, finalizzate a indurre un’impresa stabilita in un certo Stato membro a sottoscrivere un contratto collettivo di lavoro con un sindacato avente sede nello stesso Stato e ad applicare le clausole previste da tale contratto ai dipendenti di una società controllata da tale impresa e stabilita in un altro Stato membro, costituiscono restrizioni ai sensi dell’articolo in parola.

Tali restrizioni possono, in linea di principio, essere giustificate da una ragione imperativa d’interesse generale come la tutela dei lavoratori, purché sia accertato che le stesse sono idonee a garantire la realizzazione del legittimo obiettivo perseguito (tutela dei lavoratori) e non vanno al di là di ciò che è necessario per conseguire tale obiettivo. La Corte dà ragione a Viking.

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OMEGA

Sentenza della Corte di Giustizia (prima sezione), 14 Ottobre 2004

Oggetto: Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte di Giustizia (ex art. 234 CE) dalla Corte di cassazione della Germania con decisione 24 Ottobre 2001, nella causa

Omega

contro

Sindaco di Bonn

La Corte ha pronunciato la seguente sentenza

La domanda di decisione pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 49/55 CE sulla libera prestazione dei servizi e degli articoli 28/30 CE sulla libera circolazione delle merci.

La domanda è stata presentata nell’ambito di un ricorso per cassazione proposto dalla società Omega in occasione del quale quest’ultima ha messo in discussione la compatibilità col diritto comunitario di un provvedimento adottato nei suo confronti il 14 settembre 1994.

FATTI

Omega, società di diritto tedesco, gestiva a Bonn un locale denominato “laserdromo”. Tale attività è stata esercitata anche dopo il 14 settembre 1994, dato che aveva

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ottenuto una licenza provvisoria per la continuazione dell’attività. L’attrezzatura utilizzata da Omega nel suo locale è stata inizialmente sviluppata a partire da un gioco per bambini; poiché successivamente si era rilevata insufficiente, l’Omega ha fatto ricorso all’ attrezzatura fornita dalla società britannica Pulsar, giungendo ad un contratto di franchising solo il 29 Maggio 1997.

Da parte del pubblico sorgevano proteste già dal 1994 e si chiedeva una precisa descrizione del gioco ma l’Omega replicava che si trattava di colpire sensori fissi installati nelle piattaforme di tiro. Poiché si è osservato che il gioco praticato prevedeva che si colpissero i sensori fissati sui giubbotti indossati dai giocatori, il sindaco di Bonn, in data 14 settembre 1994, emana un provvedimento vietando giochi che hanno come oggetto quello di colpire uomini mediante raggi laser. Il provvedimento è stato adottato in base art. 14 della legge sulla polizia amministrativa. (par. 6)

Secondo il provvedimento i giochi costituivano un pericolo per l’ordine pubblico violando valori etici fondamentali riconosciuti dalla collettività.

Il reclamo depositato dall’omega contro il provvedimento è stato respinto dall’autorità amministrativa locale, l’impugnazione in sede contenziosa è stata respinta, l’appello è stato respinto.

Successivamente, l’Omega ha proposto ricorso in cassazione invocando tra i motivi la minaccia costituita dal provvedimento controverso per il diritto comunitario, in particolare per la libera prestazione dei servizi all’art. 49 CE, poiché si doveva utilizzare l’attrezzatura fornita da Pulsar.

La cassazione considera che, in applicazione del diritto nazionale, il ricorso deve essere respinto, ma si chiede se la soluzione sia compatibile con il diritto comunitario (Artt. 49/55 e 28/30 CE).

Per il giudice del rinvio, la corte d’appello ha giustamente concluso che il gioco svolto nel laserdromo costituiva una violazione della dignità umana, nozione stabilità all’Art 1 della Costituzione Tedesca. La dignità umana è un principio costituzionale, che nel caso di specie è stato violato andando a risvegliare nel giocatore un’attitudine

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che neghi il diritto fondamentale di ogni persona ad essere riconosciuta e rispettata. Tale valore non può essere soppresso nell’ambito di un gioco.

Per quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario, il giudice del rinvio ritiene che il provvedimento incida sulla libera prestazione dei servizi (contratto franchising Pulsar) e violi la libera circolazione delle merci (apparecchiatura che l’Omega desiderava acquistare dalla Pulsar). Il giudice del rinvio ritiene che la causa principale sia occasione per precisare le condizioni cui il diritto comunitario assoggetta la restrizione di una determinata categoria di prestazioni di servizi o importazioni di beni, rilevando che, secondo la giurisprudenza della corte, le restrizioni sono consentite qualora i provvedimenti siano i) giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, ii) idonei ad assicurare il raggiungimento del fine perseguito e iii) che non eccedano quanto è a tal fine necessario. (par 14)

Il giudice del rinvio si domanda se sia necessaria una nozione comune del diritto in tutti gli Stati membri affinché tali Stati siano legittimati a limitare discrezionalmente una categoria di prestazioni protette dal trattato CE. (par. 15/16)

Alla luce di ciò si decide di sottoporre alla corte la seguente questione pregiudiziale: se sia compatibile con le disposizione del trattato CE relative alla libera prestazione dei servizi (artt. 49/55 CE) e alla libera circolazione delle merci (artt. 28/30 CE) il fatto che una determinata attività commerciale debba essere vietata ai sensi della normativa nazionale perché viola valori fondamentali costituzionalmente sanciti.

Sulla ricevibilità della questione pregiudiziale (par 18/22)

Secondo costante giurisprudenza spetta ai giudici nazionali aditi valutare sia la necessità della pronuncia in via pregiudiziale per essere posti in grado di statuire nel merito sia la pertinenza delle questioni sottoposte alla Corte, e dato che queste riguardano l’interpretazione del diritto comunitario la Corte è tenuta a statuire. (si considera il valore del provvedimento e il contenuto del divieto che è atto a limitare lo sviluppo futuro delle relazioni contrattuali tra Omega e la Pulsar). La questione deve essere dichiarata ricevibile.

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SULLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE

Il giudice del rinvio da un lato chiede se (a) il divieto dell’attività economica per ragioni di tutela dei valori fondamentali sanciti dalla costituzione nazionale (dignità umana) sia compatibile con il diritto comunitario e, dall’altro, (b) se la facoltà degli Stati membri di limitare, per tali ragioni, determinate libertà fondamentali garantite dal trattato sia subordinata alla condizione che tale restrizione si basi su una concezione del diritto comune a tutti gli Stati membri.

(a) La Corte procede all’esame del provvedimento con riguardo ad una soltanto delle due libertà fondamentali qualora risulti che, alla luce delle circostanze, una delle due sia secondaria all’altra e possa essere a questa ricollegata. Nelle circostanze della causa principale, l’aspetto della libera prestazione dei servizi prevale su quello della libera circolazione delle merci. (par 17)

In merito alla giustificazione della restrizione imposta dal provvedimento alla libera prestazione dei servizi, l’art. 46 CE ammette le restrizioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica. Il sindaco di Bonn adotta il provvedimento invocando un pericolo per l’ordine pubblico. La possibilità per uno Stato membro di fare uso di una deroga prevista dal trattato non esclude comunque un controllo giurisdizionale sull’ applicazione di tale deroga. Inoltre, la nozione di ordine pubblico deve essere intesa in senso restrittivo e non determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro, quindi l’ordine pubblico invocato solo in caso di minaccia effettiva e grave ad uno degli interessi della collettività.

Le circostanze che giustificano il richiamo all’ ordine pubblico possono variare da un Paese all’altro, da un’ epoca all’altra; è perciò necessario lasciare alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale.

Le autorità competenti hanno ritenuto che l’attività oggetto del provvedimento minacci l’ordine pubblico e i giudici nazionali aditi hanno confermato la concezione delle esigenze di tutela della dignità umana, che si deve ritenere conforme alla Costituzione Tedesca.

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Secondo costate giurisprudenza i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi fondamentali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza e, a tal fine, quest’ultima s’ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e libertà fondamentali. L’ordinamento giuridico comunitario è diretto ad assicurare il rispetto della dignità umana e la tutela di tale diritto rappresenta un legittimo interesse che giustifica una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario (caso specie libera prestazione di servizi). (par 34/35)

Le misure restrittive possono essere giustificate da motivi connessi con l’ordine pubblico solo ove necessari ai fini della tutela degli interessi che mirano a tutelare e a condizione che tali obbiettivi non possano essere conseguiti con provvedimenti meno restrittivi.

(b) Per quanto riguarda la seconda richiesta non si ritiene necessario che una misura restrittiva corrisponda ad una concezione condivisa da tutti gli Stati membri relativamente alle modalità di tutela del diritto fondamentale (par 37/38). Secondo il giudice del rinvio il divieto dell’attività commerciale corrisponde al livello di tutela della dignità umana che la costituzione nazionale ha inteso assicurare in Germania.

Inoltre, ad essere vietata è la variante del gioco finalizzata a colpire bersagli umani non eccedendo quanto necessario per conseguire l’obbiettivo.

Pertanto, il provvedimento non può essere considerato una misura che incide in modo ingiustificato sulla libera prestazione dei servizi.

Per questi motivi il diritto comunitario non osta a che un attività economica consistente nello sfruttamento commerciale di giochi di simulazione di omicidi sia vietata da un provvedimento nazionale adottato per motivi di salvaguardia dell’ordine pubblico perché tale attività viola la dignità umana.

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Dispensa di Giorgio Pino

La “lotta per i diritti fondamentali” in EuropaIntegrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico

Già in rete

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Il margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europeae della Corte europea dei Diritti dell’uomo

di Ilaria Anrò*

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. - 2.1. Definizione. - 2.2. Prime applicazioni del margine di apprezzamento: l’articolo 15 CEDU. - 2.3. Diritti fondamentali e concezioni morali. - 2.4. Margine di apprezzamento e dot- trina del consenso. – 3. L’applicazione della dottrina del margine di apprezza- mento nell’ambito del diritto comunitario. – 4. Il margine di apprezzamento nella tutela dei diritti fondamentali da parte della Corte di giustizia. - 4.1. L’utilizzo del margine di apprezzamento in relazione al conflitto tra libertà comunitarie e diritti fondamentali. - 4.2. Il test di proporzionalità. - 4.3. Il problema delle com- petenze. – 5. Conclusioni.

1. Introduzione

La «dottrina»1 del margine di apprezzamento vede il suo princi- pale sviluppo nell’ambito della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa è conosciuta e utilizzata anche negli ordi- namenti nazionali, per esempio in Francia ed in Germania, a propo- sito del controllo giudiziale delle decisioni amministrative, nonché nell’ambito di giurisdizioni internazionali, come la Corte internazio- nale di giustizia, e nel sistema del WTO2. È possibile riscontrare l’ap- plicazione di tale dottrina anche da parte della Corte di giustizia del- l’Unione europea, nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, con

* Dottoranda di ricerca in diritto dell’Unione europea - Università degli Studi di Milano.

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1 Alcuni autori criticano l’utilizzo del concetto di «dottrina» a proposito del mar- gine di apprezzamento, in quanto non si tratterebbe di un insieme di principi con una coerenza teorica, ma di un approccio metodologico o di una tecnica giudiziale. Per un’analisi di tale problematica cfr. P. Tanzarella, Il margine di apprezzamento, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione, Bologna, 2007, pp. 149 ss. Nella pre- sente relazione, tuttavia, per l’invalso uso di tale locuzione e per comodità esposi- tiva si parlerà di «dottrina del margine di apprezzamento».2 J. Cot, Margin of appreciation, in Max Planck Encyclopaedia of Public Inter- national Law, testo disponibile su www.mpepil.com, ultimo accesso 9 novembre 2009. Ilaria Anrò

modalità assimilabili a quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo. In passato è già stato evidenziato che tra le due Corti vi è una certa somiglianza nel ragionamento diretto a riconoscere agli Stati un certo margine di apprezzamento nell’attuazione dei diritti garantiti3: il pre- sente lavoro è diretto ad approfondire questa tematica sulla base dei recenti orientamenti della Corte di giustizia dell’Unione europea. Nella prima parte verrà effettuata una breve ricostruzione degli elementi principali della dottrina del margine di apprezzamento nell’ambito della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo; suc- cessivamente saranno richiamate le diverse modalità di utilizzo del concetto di margine di apprezzamento da parte della Corte di giu- stizia per poi concentrarsi sul peculiare sviluppo di tale dottrina nel- l’ambito della tutela dei diritti fondamentali nel sistema comunitario ed effettuare un confronto con quanto operato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

2. La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo

2.1. Definizione

Tra le varie definizioni che sono state fornite di «margine di ap- prezzamento» possiamo ricordare quella di Arai-Takahashi, per cui esso può essere descritto «as the measure of discretion allowed to the Member States in the manner in which they implement the Con- vention standards, taking into account their own

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particular national circumstances and conditions»4 o di Macdonald, secondo il quale «the doctrine of margin of appreciation illustrates the general approach of the European Court of Human Rights to the delicate task of balan- cing the sovereignty of Contracting Parties with their obligations un- der the Convention»5. La dottrina del margine di apprezzamento in-

3 D. Simon, Des influences réciproques entre CJCE et CEDH: «Je t’aime, moi non plus»?, in Pourvoi, 2001/1, pp. 31 ss.; N. Shuibhne, Margin of appreciation: na- tional values, fundamental rights and EC free movement law, in European Law Re- view, 2009, pp. 230 ss.; J. Sweeney, A «margin of appreciation» in the internal market: lessons from the European Court of Human Rights, in Legal Issues of Eco- nomic Integration, 2007, pp. 27 ss.4 Y. Arai-Takahashi, The defensibility of the margin of appreciation doctrine in the ECHR: value-pluralism in the European integration, in Revue Européenne de Droit Public, 2001, pp. 1162 ss.5 R.ST.J. Macdonald, The margin of appreciation in the jurisprudence of the European Court of Human Rights, in Collected Courses of the Academy of Euro- pean Law, 1992, pp. 95 ss.

dica, infatti, lo spazio lasciato agli Stati nell’applicazione della Con- venzione6 per bilanciare l’adempimento degli obblighi pattizi con la tutela di altre esigenze statali. La Corte di Strasburgo veglia sul ri- spetto da parte degli Stati dei diritti fondamentali sanciti dalla Con- venzione, ma lascia un margine di deroga per consentire agli stessi il perseguimento di altri interessi statali, nonché uno spazio di scelta e valutazione di questi ultimi.

2.2. Prime applicazioni del margine di apprezzamento: l’articolo 15CEDU

Il margine di apprezzamento è stato utilizzato inizialmente in que- stioni concernenti la sicurezza nazionale, a proposito dell’applicazione dell’articolo 15 CEDU, il quale consente agli Stati di derogare alle obbligazioni convenzionali in caso di guerra o estremo pericolo per la nazione. Nella pronuncia Grecia c. Regno Unito7 la Commissione8 dei diritti dell’uomo sanciva che deve essere lasciata allo Stato una

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certa discrezionalità nel valutare la ricorrenza degli estremi di urgenza che consentono di applicare l’articolo 15 e le misure richieste dalle esigenze della situazione. Anche in Lawless c. Irlanda9 la Corte ri- conosceva che nella determinazione circa la sussistenza di una situa- zione di emergenza, idonea a giustificare la sospensione della Con- venzione, deve essere lasciato un certo margine di apprezzamento al governo. La Corte rimetteva dunque decisioni di tale importanza nelle mani degli Stati, considerandoli in una posizione migliore per effet- tuare le necessarie valutazioni.

2.3. Diritti fondamentali e concezioni morali

Successivamente il landmark case Handyside segna l’utilizzo di tale tecnica nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali come strumento per tenere conto del pluralismo delle concezioni morali presente nel-

6 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950; di seguito: CEDU o Convenzione.7 Corte europea dei diritti umani (Commissione), Grecia c. Regno Unito (casoCipro), ricorso n. 176/56, decisione del 2 giugno 1956.8 Come è noto, la Commissione era un organo quasi giurisdizionale istituito dalla CEDU che operava svolgendo un esame preliminare della questione sottoposta alla Corte circa la ricevibilià e fornendo il proprio parere. Il Protocollo n. 11 dell’11 maggio 1994 ha fuso la Commissione e la Corte europea dei diritti dell’uomo in un unico organo giurisdizionale.9 Corte europea dei diritti umani (Commissione), Lawless c. Irlanda, ricorso n.332/57, decisione del 30 agosto 1958. Ilaria Anrò

l’ambito dei diversi Stati membri del Consiglio d’Europa. Il caso traeva origine dalla condanna del signor Handyside, da parte delle Inner Lon- don Quarter Sessions, per la detenzione ai fini della pubblicazione di un libro contente immagini giudicate oscene. Il signor Handyside aveva, dunque, fatto ricorso alla Corte di

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Strasburgo, lamentando una violazione del proprio diritto alla libertà di espressione di cui all’arti- colo 10 CEDU. Si trattava in quel caso di bilanciare la libertà di espressione con le esigenze della morale: fino a che punto è giusto consentire l’esplicazione della manifestazione delle proprie idee e fino a che punto occorre, invece, tutelare la morale? La Corte in partico- lare affermava che «It is not possible to find in the domestic law of the various Contracting States a uniform European conception of mo- rals. The view taken by their respective law of the requirements of morals varies from time to time and from place to place, especially in our era which is characterized by a rapid and far reaching evolu- tion of opinions on the subject. By reason of their direct and conti- nuous contact with the vital forces of their countries, State authori- ties are in principle in a better position than the international judge to give an opinion on the exact content of these requirements […]»10. La Corte riconosceva, dunque, in tale occasione che, in presenza di una pluralità di concezioni morali, è necessario lasciare agli Stati un margine di apprezzamento nell’applicazione dell’art. 10 CEDU.Oltre alla libertà di espressione, frequenti applicazioni della dot- trina del margine di apprezzamento si ritrovano a proposito di al- cune disposizioni che rinviano a scelte discrezionali dello Stato circa le modalità di tutela del diritto in questione: si tratta delle norme re- lative al diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), alla li- bertà di pensiero, coscienza e religione (art. 9), alla libertà di riunione e associazione (art. 11) e al diritto al matrimonio (art. 12), nonché dell’articolo 1 del Protocollo 1, relativo al diritto di proprietà. Seb- bene non sia dato riscontrare una esplicita legittimazione della dot- trina del margine di apprezzamento nel testo della CEDU, il rinvio alla legge nazionale per quanto riguarda le limitazioni o le modalità di esercizio di tali diritti rende quasi implicita la previsione dell’ope- ratività del margine di apprezzamento nella formulazione di tali di- sposizioni, in quanto risulta evidente lo spazio per la scelta e la va- lutazione degli Stati contraenti. Un largo margine di apprezzamento è poi lasciato agli Stati ove vi siano nozioni caratterizzate da una certa indeterminatezza, quali «public emergency threatening the life of the nation» (art. 15), «persons of unsoundmind» (art. 5.1, e), «respect for

10 Corte europea dei diritti umani, Handyside c. Regno Unito, ricorso n. 5493/72, sentenza del 7 dicembre 1976.

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family or private life» (art. 8) i cui contenuti possono variare da un sistema nazionale all’altro11.Un’ulteriore considerazione circa l’applicazione del margine di ap- prezzamento nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali deve es- sere fatta a proposito della distinzione tra «diritti assoluti» e diritti«soggetti a limitazioni». I diritti assoluti sono formulati in modo da impedire agli Stati di restringerli, mentre gli altri possono essere li- mitati in quanto «gli Stati possono definirne e restringerne l’eserci- zio in base a considerazioni di ordine pubblico, di sicurezza nazio- nale, di protezione della salute o di morale pubblica, il cui contenuto e la cui portata sono suscettibili di variare da uno Stato all’altro e da una situazione all’altra, sempreché la restrizione sia giustificata e non abbia la conseguenza di limitare un diritto in modo incompatibile con la sua essenza o di sopprimerlo» 12. Secondo la tradizionale in- terpretazione sarebbero diritti assoluti il diritto a non essere sotto- posto a tortura o il diritto alla vita, mentre sarebbero soggetti a li- mitazioni, anche in virtù del contemperamento con altri diritti e in- teressi, diritti quali, tra gli altri, la libertà di espressione, di associa- zione, di movimento. Tale distinzione viene presa in considerazione ed enunciata anche dalla giurisprudenza comunitaria13. In dottrina vi è chi ritiene che i diritti assoluti siano sottratti alle operazioni di bi- lanciamento e dunque anche all’applicazione del margine di apprez- zamento14. È possibile, tuttavia, riscontrare anche la tesi opposta, se- condo la quale la protezione dei diritti assoluti non può prescindere da un’attività di bilanciamento da parte del giudice, che può essere esplicita oppure mascherata all’interno del ragionamento interpreta- tivo15. Anche in quest’ultimo caso vi sarebbe quindi lo spazio per un eventuale margine di apprezzamento lasciato agli Stati.

2.4. Margine di apprezzamento e dottrina del consenso

Particolarmente interessante, ai fini della nostra analisi e del con- fronto con l’attitudine della Corte di Lussemburgo, è la combina-

11 Cfr. P. Tanzarella, op. cit., pp. 156 ss.12 Cfr. F. Pocar, Tutela dei diritti fondamentali e livelli di protezione nell’ordi- namento internazionale in P. Bilancia e E. De Marco, La tutela multilivello dei diritti, Milano, 2004, pp. 8 ss.

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13 Cfr. ad esempio Corte di giustizia delle Comunità europee, Familiapress, causaC-368/95, sentenza del 26 giugno 1997; Promusicae, causa C-275/06, sentenza del29 gennaio 2008; Varec, causa C-450/06, sentenza del 14 febbraio 2008.14 J. Cot., op. cit.15 A. Tancredi, L’emersione dei diritti fondamentali ‘assoluti’ nella giurispru- denza comunitaria, in Rivista di Diritto Internazionale, 2006, pp. 644 ss.

zione del margine di apprezzamento con la dottrina del consenso. Con questo termine si indica la ricerca effettuata dalla Corte di Stra- sburgo circa la sussistenza o meno di una concezione comune all’in- terno delle leggi e delle prassi degli Stati membri del Consiglio d’Eu- ropa16. Come indicato da Benvenisti17, l’applicazione della dottrina del consenso è inversamente proporzionale al margine di apprezzamento: quando la Corte è in grado di riscontrare un certo consenso euro- peo sul trattamento di una particolare questione, ovvero sulla tutela di un determinato diritto, lascia un minore margine di apprezzamento alle autorità nazionali. Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, nella giurisprudenza relativa al riconoscimento dei diritti dei transes- suali18: la Corte ha riconosciuto un grande margine di apprezzamento agli Stati, in ragione della mancanza di omogeneità tra i diversi or- dinamenti nell’affrontare la questione19, anche se più recentemente ha preso atto di una certa evoluzione circa la convergenza dei sistemi nazionali a favore della tutela di tali soggetti20. Per quanto riguarda le forme di tutela dei diritti degli omosessuali, la Corte continua, in- vece, a constatare la difformità delle legislazioni nazionali e dunque a concedere agli Stati un ampio margine di apprezzamento21.

3. L’applicazione della dottrina del margine di apprezzamento nel di- ritto comunitario

Tenendo presente quanto esposto in merito al Consiglio d’Europa, è interessante ora riflettere sull’utilizzo del margine di apprezzamento nel sistema comunitario. Occorre dunque procedere ad un’analisi delle pronunce della Corte di giustizia in cui è stato utilizzato tale stru- mento22, in quanto anche nel sistema comunitario esso non trova una

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16 I. Rasilla del Moral, The increasingly marginal appreciation of the Margin- of-appreciation doctrine, in German law journal, 2006, pp. 611 ss.17 E. Benvenisti, Margin of appreciation, consensus, and universal standards, inJournal of International Law and Politics, 1999, pp. 843 ss.18 G. Letsas, Two concepts of the margin of appreciation, in Oxford Journal ofLegal Studies, 2006, pp. 705 ss.19 Corte europea dei diritti umani, Cossey c. Regno Unito, ricorso n. 10843/84, sentenza del 27 settembre 1990.20 Corte europea dei diritti umani, Goodwin c. Regno Unito, ricorso n. 28957/95, sentenza dell’11 luglio 2002.21 Corte europea dei diritti umani, Frette c. Francia, ricorso n. 36515/97, sen- tenza del 26 febbraio 2002, par. 36.22 Per una maggiore precisione dei risultati la ricerca nella giurisprudenza della Corte di giustizia deve essere effettuata in francese, lingua di lavoro della stessa. Alla locuzione «marge d’appréciation» corrisponde infatti una pluralità di traduzioni ita-

esplicita formulazione all’interno dei Trattati, ma conosce il suo prin- cipale sviluppo in ambito giurisprudenziale.La nozione ed il concetto di «margine di apprezzamento» sono utilizzati nella giurisprudenza della Corte di giustizia secondo diversi profili. Un’applicazione molto importante è, innanzitutto, quella re- lativa alla discrezionalità delle istituzioni: in particolare, si parla di margine di apprezzamento della Commissione nell’ambito della con- correnza. Esso viene impiegato quale standard di revisione nel con- trollo di legittimità operato dal Tribunale e dalla Corte di giustizia sulle decisioni della Commissione relative alle intese anticoncorren- ziali e alle ipotesi di abuso di posizione dominante. La Commissione, infatti, nella propria attività di vigilanza in tale ambito svolge valuta- zioni economiche complesse che non possono essere rinnovate dal- l’autorità giurisdizionale, per il contenuto prettamente tecnico e la ne- cessità di un’ingente quantità di dati fattuali. Di conseguenza, il giu- dice comunitario si limita alla verifica del rispetto delle norme pro- cedurali, del carattere sufficiente della motivazione, dell’esattezza ma- teriale dei fatti, dell’assenza di manifesto errore di valutazione e di sviamento di potere, lasciando alla Commissione un certo margine di apprezzamento23. Questo è riservato alla Commissione anche nella valutazione della compatibilità di aiuti di Stato24. Vi è,

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invece, un con- trollo giurisdizionale più esteso da parte del giudice comunitario e, dunque, un minore margine di apprezzamento della Commissione, a proposito della qualificazione di una misura come aiuto di Stato, a meno che questa non derivi da indagini e valutazioni tecniche e com- plesse25 proprie della Commissione.Si parla poi di margine di apprezzamento nell’applicazione del di- ritto comunitario da parte degli Stati. Tale spazio di discrezionalità è implicito nello strumento della direttiva, la quale mira alla realizza- zione di un obiettivo comunitario lasciando agli Stati la facoltà di sce-

liane, tra cui «margine discrezionale», «potere di discrezionalità», «discrezionalità»: di conseguenza con una ricerca in italiano l’elenco dei casi rilevanti in materia po- trebbe risultare lacunoso.23 Cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, Remia c. Commissione, causa42/84, sentenza dell’11 luglio 1985, punto 34; British American Tobacco e Reynolds Industries c. Commissione, causa 142/84 e 156/84, sentenza del 17 novembre 1987, punto 62; Aalborg Portland e a. c. Commissione, cause riunite C-204/00 P, C-205/00P, C- 211/00 P, C-213/00 P, C-217/00 P e C-219/00 P, sentenza del 7 gennaio 2004, punto 279; conclusioni dell’ Avvocato Generale Kokott in Commissione c. Alrosa Company Ltd, causa C-441/07 P, presentate il 17 settembre 2009, punto 6824 Cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, Commissione c. Italia, causa73/79, sentenza del 21 maggio 1980, punto 11.25 Cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, British Aggregates Association c. Commissione, C-487/06 P, sentenza del 22 dicembre 2008.

Ilaria Anrò

gliere i mezzi e gli strumenti più adeguati. Dall’analisi della giuri- sprudenza emerge, poi, che la Corte di giustizia tende a lasciare agli Stati membri un ampio margine discrezionale di valutazione nel- l’ambito della verifica dei divieti di discriminazione per il consegui- mento di determinati obiettivi nella politica agraria e sociale26. Lo stesso potere di valutazione viene concesso agli Stati a proposito della verifica circa il rispetto delle libertà fondamentali27 in settori non ar- monizzati28: la Corte di giustizia consente, infatti, agli Stati di adot- tare misure di protezione di interessi quali la tutela della salute o la politica culturale in ambiti in cui non sia stato fissato uno standard comunitario di tutela, anche nei casi

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in cui possano costituire un osta- colo alle libertà di circolazione, nel rispetto del principio di propor- zionalità.

4. Il margine di apprezzamento nella tutela dei diritti fondamentali da parte della Corte di giustizia

Ai fini del presente lavoro occorre, tuttavia, concentrarsi sugli am- biti in cui la Corte di giustizia utilizza il margine di apprezzamento come tecnica giudiziaria e standard di revisione delle misure nazio- nali al pari di quanto fatto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, raggiungendo gli stessi risultati nella gestione dei conflitti relativi ai diritti fondamentali, nonché della tensione tra universalità e plurali- smo, propria di entrambi i sistemi sovranazionali.La Corte di giustizia applica inizialmente il margine di apprezza- mento in materia di sicurezza e ordine pubblico. Anche nel sistema comunitario, al pari di quanto sancito nelle pronunce della Corte eu- ropea dei diritti dell’uomo, emerge la necessità di lasciare il dovuto spazio agli Stati per la salvaguardia della propria sicurezza e per la

26 Cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, Karlsson e a., causa C-292/97, sentenza del 13 aprile 2000, punti 35 e 49; Steinicke, causa C-77/02, sentenza dell’11 settembre 2003, punto 61; Mangold, causa C-144/04, sentenza del 22 novembre2005, punto 63.27 La libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, cfr. articolo 26 TFUE, già articolo 14 CE. Sullo status di tali libertà nell’ordinamento comunitario cfr. D. Ehlers (a cura di), European Fundamental Rights and Free- doms, Berlino, 2007, pp. 227 ss.; P. Oliver e W. Roth, The Internal Market and the Four Freedoms, in Common Market Law Review, 2004, pp. 407 ss.28 Cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, 13 luglio 2004, Bacardi France, causa C-429/02, p. 33; United Pan-Europe Communications Belgio e a., causa C-250/06, sentenza del 13 dicembre 2007, p. 44; Conclusioni dell’Avvocato GeneraleKokott, in causa UTECA, C-222/07, del 4 settembre 2008.

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protezione di interessi strettamente connessi al cuore della sovranità. Nella sentenza Van Duyn la Corte affermava che «non si può […] negare che la nozione di ordine pubblico varia da un paese all’altro e da un’epoca all’altra. È perciò necessario lasciare, in questa mate- ria, alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale entro i limiti posti dal Trattato»29. Come specificato successivamente in Bouchereau «qualora possa giustificare talune limitazioni della li- bera circolazione delle persone cui si applica il diritto comunitario, il richiamo alla nozione di ordine pubblico, da parte degli organi na- zionali, presuppone, in ogni caso, oltre alla perturbazione dell’ordine sociale insita in qualsiasi infrazione di legge, l’esistenza di una mi- naccia effettiva ed abbastanza grave per uno degli interessi fonda- mentali della collettività»30. Risulta dunque evidente il confine tra la competenza della Corte di giustizia relativamente alla salvaguardia delle libertà fondamentali del Trattato e del diritto comunitario in ge- nere e l’ambito della sovranità nazionale, in cui le competenti auto- rità selezionano quali sono gli interessi qualificabili come «fonda- mentali» per la propria società e determinano quando si possa con- siderare sussistente una minaccia grave ed effettiva nei confronti di questi ultimi. Vi è dunque la consapevolezza che l’integrazione non può portare alla determinazione di uno standard comunitario in que- sto settore e la Corte, rispettando le diverse concezioni degli Stati, nel proprio controllo giurisdizionale si limita a verificare il rispetto dei limiti imposti dal Trattato31. Si tratta, dunque, di un self-restraint da parte della Corte di giustizia che discende dal rispetto del princi- pio di attribuzione, su cui è fondata l’Unione europea, in quanto la determinazione dei confini dell’ordine pubblico è di competenza na- zionale, e che si verifica al pari di quanto effettuato dalla Corte eu- ropea dei diritti dell’uomo nella stessa materia.Un simile atteggiamento di self-restraint da parte della Corte di giustizia viene applicato anche a proposito della moralità pubblica nella sentenza Henn32. È interessante osservare che in quel caso lo stesso avvocato generale delineò un parallelismo tra la discrezionalità

29 Corte di giustizia delle Comunità europee, Van Duyn, 41/74, sentenza del 4 dicembre 1974.

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30 Corte di giustizia delle Comunità europee, Bouchereau, causa 30/77, sentenza del 27 ottobre 1977, punto 34.31 Corte di giustizia delle Comunità europee, Jipa, causa C-33/07, sentenza del10 luglio 2008, p. 23.32 Corte di giustizia delle Comunità europee, Henn, causa 34/79, sentenza del14 dicembre 1979. In proposito cfr. anche Schindler, causa C-275/92, sentenza del24 marzo 1994, punto 61 e Liga Portuguesa, in causa C-42/07, sentenza dell’8 set- tembre 2009, punto 57.

lasciata agli Stati nell’ambito dell’articolo 36 CE33 rispetto alla tutela della pubblica moralità e il margine di apprezzamento di cui gode- vano le Alte parti contraenti nell’ambito dell’art. 10 CEDU34. Nel caso Henn si trattava di un conflitto tra la libera circolazione delle merci e la tutela della moralità pubblica: vi erano, infatti, delle pub- blicazioni giudicate oscene la cui importazione nel Regno Unito era stata vietata. Nel caso Handyside, presso la Corte di Strasburgo, la protezione della moralità pubblica veniva contrapposta alla libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, mentre in questo caso ciò che si faceva valere era una libertà economica. Il Trattato prevede già una deroga alla libertà di circolazione delle merci per motivi di moralità pubblica, la quale venne ritenuta applicabile al caso di spe- cie anche se le pubblicazioni in esame circolavano liberamente in al- tri Stati membri, proprio in considerazione del fatto che «spetta in linea di principio a ciascuno Stato membro determinare gli impera- tivi di moralità pubblica nell’ambito del proprio territorio in base alla scala di valori da esso scelta»35. Dunque nell’applicazione di tale ec- cezione vi è il rispetto del pluralismo e della diversità delle conce- zioni morali degli Stati membri.È possibile poi riscontrare l’applicazione del margine di apprez- zamento da parte della Corte di giustizia relativamente alla tutela dei diritti fondamentali consacrati in alcune norme della Convenzione, secondo le medesime modalità della Corte europea dei diritti del- l’uomo. Si tratta in particolare dell’art. 10 CEDU36, relativo alla li- bertà di stampa e dell’art. 8 CEDU sulla tutela della vita privata37.

33 Nella sentenza si fa riferimento alla numerazione pre-Amsterdam. Secondo la numerazione del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, così come modi- ficato da Lisbona è l’articolo 36 TFUE, già articolo 30 CE.34 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato generale Warner alla sentenza Henn, cit., del25 ottobre 1979.

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35 Cfr. Sentenza Henn, cit., punto 15.36 Cfr. ad esempio Corte di giustizia delle Comunità europee, Karner, causa C-71/02, sentenza del 25 marzo 2004, punto 51; RTL Television, causa C-245/01,sen- tenza del 23 ottobre 2003, punto 73; Connolly, causa C-274/99 P, sentenza del 6 marzo 2001. Per il confronto con la Corte europea dei diritti umani vedi Markt in- tern Verlag GmbH e Klaus Beermann c. Germania, ricorso n. 10572/83 § 33, sen- tenza del 20 novembre 1989 e VGT Verein gegen Tierfabriken c. Svizzera, ricorso n. 24699/94, sentenza del 28 giugno 2001,§§ 69-70.37 Cfr. ad esempio Corte di giustizia delle Comunità europee, Carpenter, causa C-60/00, sentenza dell’11 luglio 2002; conclusioni dell’avvocato generale Léger alla sentenza Parlamento c. Consiglio e Commissione, cause riunite C-317/04 e C-318/04, del 30 maggio 2006, punti 226-228; Tribunale di primo grado delle Comunità euro- pee, The Bavarian Lager Co. Ltd c. Commissione, causa T-194/04, punti 116-119. Per il confronto con la Corte europea dei diritti dell’uomo cfr. Peck c. Regno Unito, ricorso n. 44647/98, sentenza del 28 gennaio 2003.

Un recente esempio di tale atteggiamento della Corte di giustizia si può vedere nella sentenza Damgaard38. Tale pronuncia trae origine da un rinvio pregiudiziale effettuato da un tribunale danese in sede di appello. Il signor Damgaard, giornalista, era stato condannato per aver pubblicato sul suo sito internet delle informazioni relative alle proprietà benefiche di un medicinale il cui commercio era vietato in Danimarca, violando la relativa legge nazionale. Nel corso dell’ap- pello emergeva la questione se la pubblicazione del sig. Damgaard fosse assimilabile ad una pubblicità ai sensi della direttiva 2001/83 re- cante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano: sul punto venivano chiesti lumi alla Corte di Lussemburgo. Il giu- dice comunitario, dopo aver sancito che la direttiva in questione deve essere interpretata nel senso che la divulgazione da parte di un terzo di informazioni relative ad un medicinale può essere considerata come pubblicità, anche quando questi agisce di propria iniziativa e in au- tonomia rispetto al venditore o produttore, rinviando l’accertamento di tale circostanza al giudice nazionale, prendeva posizione sull’e- ventuale violazione della libertà di espressione di cui all’art. 10 CEDU lamentata dal sig. Damgaard. La Corte descriveva, dunque, le moda- lità di tutela di tale diritto nell’ambito della CEDU, ricordando che lo stesso articolo 10, al paragrafo 2, prevede la possibilità di limita-

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zioni all’esercizio di tale diritto giustificate da obiettivi di interesse generale ove tali deroghe siano previste dalla legge, dettate da uno o più scopi legittimi e necessarie in una società democratica, cioè giu- stificate da un bisogno sociale imperativo e proporzionate al fine per- seguito39. La Corte di giustizia ha quindi ripreso lo stesso standard di controllo applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo san- cendo che «è pacifico che il margine di valutazione discrezionale di cui dispongono le autorità competenti per stabilire dove si trovi il giusto equilibrio tra la libertà di espressione e gli obiettivi sopra- menzionati è variabile per ciascuno degli scopi che giustificano la li- mitazione di tale diritto e secondo la natura delle attività considerate. Qualora l’esercizio della libertà non contribuisca ad un dibattito di interesse generale e, per giunta, ci si collochi in un contesto in cui gli Stati membri hanno un certo margine di valutazione discrezionale, il controllo si limita alla verifica del carattere ragionevole e propor- zionale dell’ingerenza»40. In particolare, la Corte ha concluso con- clude sottolineando come quanto affermato valga anche per l’uso

38 Corte di giustizia delle Comunità europee, Damgaard, causa C-421/07, sen- tenza del 2 aprile 2009.39 Cfr. Sentenza Damgaard, cit., punto 26.40 Cfr. Sentenza Damgaard, cit., punto 27.

commerciale della libertà di espressione e soprattutto nel settore della pubblicità. La Corte di giustizia, quindi, intende tutelare il diritto alla libertà di espressione secondo le stesse modalità della Corte europea dei diritti dell’uomo, applicando il medesimo standard di revisione delle decisioni nazionali e riconoscendo lo stesso margine di apprez- zamento agli Stati membri nel bilanciare la tutela di tale diritto con il perseguimento di altri interessi. Si tratta, dunque, di «un’importa- zione» del margine di apprezzamento da parte della Corte di giusti- zia che discende dalla volontà di applicare il medesimo livello di tu- tela presente nell’ambito del Consiglio d’Europa a proposito di un diritto fondamentale iscritto nella CEDU.

4.1. L’utilizzo del margine di apprezzamento in relazione al conflitto tra libertà comunitarie e diritti fondamentali

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A partire dal 2003 è possibile individuare una serie di sentenze in cui emerge un conflitto41 tra diritti fondamentali e libertà comunita- rie42: è in tale ambito che la Corte di giustizia sviluppa la propria pe- culiare dottrina del margine di apprezzamento, quale spazio ricono- sciuto agli Stati membri nell’applicazione delle norme sulle libertà di circolazione al fine di consentire a questi il bilanciamento tra tali li- bertà e la tutela dei diritti fondamentali nazionali43. I casi in cui l’ap- plicazione della dottrina del margine di apprezzamento quale spazio

41 Una prima manifestazione di tale possibile conflitto si era avuta con la sen- tenza Cinéthèque, (cause riunite 60 e 61/84, dell’11 luglio 1985) in cui il ricorrente aveva richiesto alla Corte se una normativa che vietasse la circolazione di videocas- sette per consentire lo sfruttamento commerciale di un film nelle sale cinematogra- fiche fosse contraria alla libertà di espressione garantita dalla CEDU. La Corte tut- tavia non si era pronunciata sul punto perché non competente a valutare la compa- tibilità di una normativa nazionale con la CEDU. In generale, il rapporto tra diritti fondamentali e libertà di circolazione si ritrova secondo diversi profili, anche non conflittuali, nella giurisprudenza comunitaria. Cfr sul rapporto tra libertà comunita- rie e diritti fondamentali C. Kaddous, Droits de l’homme et libertés de circulation: complémentarité ou contradiction?, in Aa.Vv., Mélanges en hommage à Georges Van- dersanden, Bruxelles, 2008, pp. 563 ss.; A. Bailleux, Les alliances entre libre circu- lation et droits fondamentaux. Le ‘flou’ au cœur de la jurisprudence communautaire in Journal de droit européen, giugno 2009, pp. 1 ss.42 Cfr. nota 27.43 Sul ruolo della Corte di giustizia nella tutela dei diritti fondamentali cfr. per tutti A. Tizzano, The Role of the ECJ in the Protection of Fundamental Rights, in A. Arnull, P. Eeckhout e T. Tridimas (a cura di), Continuity and Change: Essays in Honour of Sir Francis Jacobs, Oxford, 2008, pp. 125 ss e La Corte di giustizia delle Comunità europee e i diritti fondamentali, in Il Diritto dell’Unione Europea,2005 nonché M. Condinanzi, Il «livello comunitario» di tutela dei diritti fonda- mentali dell’individuo in P. Bilancia e E. De Marco (a cura di), op. cit., pp. 35 ss.

discrezionale degli Stati al fine del bilanciamento tra diritti fonda- mentali e libertà comunitarie appare più evidente sono quelli oggetto delle pronunce Schmidberger44, Omega45 e, più recentemente, Dyna- mic Medien46. In tutti questi casi veniva invocata dagli Stati la tutela di un diritto fondamentale nazionale quale motivo di giustificazione di una restrizione ad una libertà comunitaria. In

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Schmidberger si op- ponevano libertà di circolazione delle merci e libertà di riunione e di espressione, in Omega libertà di prestazione di servizi e dignità umana, in Dynamic libertà di circolazione delle merci e diritti dei minori. Si tratta di conflitti tra elementi nazionali e comunitari, quindi in rela- zione a valori protetti secondo diversi livelli di tutela.Si analizzerà in particolare la recente pronuncia Dynamic Medien47, con i debiti richiami agli altri precedenti, per mostrare il metodo uti- lizzato dalla Corte di giustizia. Il caso trae origine da una domanda pregiudiziale presentata dal Landgericht Koblenz nell’ambito di una controversia tra due società di diritto tedesco. La Avides Media ven- deva per corrispondenza su internet in Germania dei supporti video provenienti dal Regno Unito, i quali erano stati oggetto di un con- trollo, ai fini della tutela del minore, da parte del British Board of Film Classification. A seguito di tale controllo, svolto in conformità alla normativa inglese, i supporti esportati venivano classificati come«vietati ai minori di anni quindici» e contrassegnati in tal modo. La Dynamic Medien, società concorrente dell’Avides Media, agiva in giu- dizio per inibire la vendita in Germania di tali supporti, contestando che gli stessi non fossero stati oggetto di controllo da parte delle competenti autorità tedesche, in violazione di quanto stabilito dallaJugendschutzgesetz, la legge di tutela dei minori del 23 luglio 200248. Tale normativa vieta, infatti, la vendita a bambini o adolescenti, tra- mite commercio al dettaglio fuori dai locali commerciali o per cor- rispondenza, di supporti video che non siano stati contrassegnati dalle competenti autorità tedesche.Il giudice tedesco si è, dunque, trovato a confrontare il divieto previsto dalla legge nazionale sulla tutela dei minori con il fonda-

44 Corte di giustizia delle Comunità europee, Schmidberger, causa C-112/00, sen- tenza del 12 giugno 2003.45 Corte di giustizia delle Comunità europee, Omega,causa C-36/02, sentenza del 14 ottobre 2004.46 Corte di giustizia delle Comunità europee, Dynamic Medien, causa C- 244/06, sentenza del 14 febbraio 2008.47 Cfr. O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giu- risprudenziali e riflessi ordinamentali, in Il Diritto dell’Unione europea, 1/09, pp.3 ss.

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48 BGBI 2002 I, p. 2730

mentale principio della libera circolazione delle merci, di cui agli artt.28 e 30 CE49, nonché con gli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/3150. Per risolvere la questione, il giudice tedesco ha ritenuto opportuno investire di una questione pregiudiziale la Corte di Lussemburgo. La Corte di giustizia ha considerato, innanzitutto, che il divieto di ven- dita previsto dalla normativa tedesca costituisse una restrizione alla libera circolazione delle merci in quanto essa «rende più ardua e di- spendiosa l’importazione di supporti video provenienti da Stati mem- bri diversi dalla Repubblica federale di Germania, e può pertanto dis- suadere taluni interessati dal commercializzare tali supporti video in quest’ultimo Stato membro». Successivamente ha valutato la sussi- stenza di una possibile giustificazione a tale restrizione. Dapprima la Corte ha considerato che la tutela dei minori costituisce un interesse tutelato sia a livello internazionale che comunitario, come testimoniail fatto che l’art. 24 della Carta di Nizza51 stabilisce che i minori hanno diritto alla tutela e alle cure necessarie per il loro benessere. La tutela del minore rappresenta dunque «un interesse legittimo che giustifica, in linea di principio, una limitazione ad una libertà fonda- mentale garantita dal Trattato CE, quale la libera circolazione delle merci»52. In concreto, la Corte riconosce che la normativa nazionale è diretta a tale obiettivo. Quindi il livello nazionale, internazionale e comunitario condividono lo stesso obiettivo. Riprendendo quanto sancito in Omega, la Corte afferma che affinché la misura restrittiva diretta alla tutela del minore sia giustificata, non occorre che essa cor-

49 L’articolo 28 CE corrisponde all’attuale articolo 34 TFUE il quale dispone che«Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente». A sua volta, l’articolo 30 CE corrisponde all’attuale articolo 36 TFUE il quale prevede che « Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pub- blica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeo- logico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri.».

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50 Direttiva 2000/31/CE del Parlamento e del Consiglio dell’8 giugno 2000 rela- tiva a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno, pubblicata in GUCE L 178, p. 1.51 Pubblicata in GUUE C 364 del 18 dicembre 2000 p.1. Il 12 dicembre 2007 la Carta è stata nuovamente proclamata dai presidenti della Commissione europea, del Parlamento e del Consiglio a Strasburgo, in previsione della firma del Trattato di Lisbona ed il testo, modificato ed aggiornato per renderlo coerente con il Trat- tato di Lisbona, è stato pubblicato in GUUE C 303 del 14 dicembre 2007 p. 1. Il testo è reperibile in B. Nascimbene, Comunità e Unione europea, Torino, 2008.52 Cfr. Sentenza Dynamic, cit., punto 42.

risponda ad una concezione condivisa da tutti gli Stati membri ri- spetto al livello o alle modalità di tale tutela. La Corte constata, in- fatti, che «poiché tale concezione può variare da uno Stato membro all’altro in funzione, in particolare, di considerazioni di carattere mo- rale o culturale, si deve riconoscere agli Stati membri un margine di- screzionale certo»53. Questa affermazione della Corte appare condi- visibile in particolare ricordando quanto scritto da Weiler, il quale ri- levava che un diritto fondamentale costituisce l’espressione di un«compromesso tra beni sociali concorrenti». In particolare, ogni di- ritto fondamentale esprime, nelle democrazie liberali, un compro- messo tra i vari interessi della collettività, rappresentati dall’autorità governativa, e l’interesse dell’individuo alla propria autonomia e li- bertà54. Il bilanciamento tra queste esigenze contrastanti esprime il compromesso sociale, il nucleo dei valori fondamentali di una società,il quale differisce da un sistema all’altro ed è dunque ragionevole la- sciare tale spazio di valutazione direttamente agli Stati. La Corte ri- leva che quello della tutela dei minori è un settore in cui non è av- venuta un’armonizzazione a livello comunitario e lascia agli Stati lo spazio per scegliere il livello di tutela da accordare a tale interesse, senza imporre un proprio standard. In questo modo allo Stato viene lasciato lo spazio per bilanciare la tutela dei minori con altri interessi nazionali o con altri diritti fondamentali, quale ad esempio la libertà di espressione.Si può osservare, dunque, che, al pari della Corte di Strasburgo, la Corte di Lussemburgo opera un certo self-restraint, in quanto non interviene sulla determinazione del livello di tutela del diritto in que- stione, non impone uno

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standard comunitario, ma lascia spazio alla scelta discrezionale dello Stato. Non richiedendo, inoltre, che la con- cezione del diritto fondamentale in questione sia la stessa in tutti gli Stati membri, ma valorizzando le peculiarità dell’ordinamento del caso di specie, la Corte di Lussemburgo rifiuta la «dottrina del consenso», non ricercando una concezione comune ai vari ordinamenti comuni- tari. È interessante notare poi che, mentre nel sistema della CEDU il margine di apprezzamento viene utilizzato per legittimare deroghe alla tutela dei diritti fondamentali, in quello comunitario esso amplia la tutela degli stessi. La Corte di giustizia, infatti, consente allo Stato di accordare la tutela più ampia ai diritti fondamentali così come con-

53 Cfr. Sentenza Dynamic, cit., punto 44.54 Cfr. J.H.H. Weiler, Fundamental Rights and Fundamental Boundaries: on Standards and Values in the Protection of Human Rights, in N.A. Neuwahl e A. Rosas, The European Union and human rights, L’Aja, 1995, nonché J.H.H. Wei- ler, La Costituzione dell’Europa, Bologna, 1999.

cepiti dal proprio ordinamento, anche ove questo si realizzi a detri- mento di una libertà comunitaria.

4.2. Il test di proporzionalità

Al pari di quanto effettuato dalla Corte europea dei diritti del- l’uomo, la Corte di giustizia delle Comunità europee effettua un con- trollo circa la misura adottata dallo Stato nell’ambito del proprio mar- gine di apprezzamento. Esso viene sviluppato in maniera peculiare nei casi di conflitto tra una libertà comunitaria e un diritto fonda- mentale. Secondo i parametri utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo55 la restrizione ad un diritto della Convenzione deve es- sere conforme alla legge o prescritto da essa; in secondo luogo, l’o- biettivo della restrizione deve essere riconducibile ad uno degli obiet- tivi specificati dalla norma rilevante nel caso di specie e, in terzo luogo, essa deve essere considerata necessaria in una società demo- cratica. La misura deve essere, inoltre, proporzionata all’obiettivo

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per- seguito. Ad esempio, nell’ambito della libertà di espressione, la Corte di Strasburgo verifica che le limitazioni operate nell’ambito del mar- gine di apprezzamento degli Stati siano dirette ad uno degli scopi previsti dalla norma stessa al paragrafo 2, ovvero «alla sicurezza na- zionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’au- torità e l’imparzialità del potere giudiziario»56. Un analogo standard di revisione viene applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a proposito dell’art. 8 CEDU, relativo alla tutela della vita privata e familiare: questa norma, strutturata similmente all’art. 10 CEDU, pre- vede che non possano esservi ingerenze da parte delle autorità, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa del- l’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui57.

55 J. Sweeney, op. cit., p. 30.56 A proposito del controllo dei limiti del margine di apprezzamento relativo al- l’applicazione dell’art. 10 CEDU cfr. ad esempio: Corte europea dei diritti umani, Sunday Times c. Regno Unito, ricorso n. 6538/74, sentenza del 26 aprile 1979; Lin- gens c. Austria, ricorso n. 9815/82, sentenza dell’8 luglio 1986; Muller e a. c. Sviz- zera, ricorso n. 10737/84, sentenza del 24 maggio 1988; Barfod c. Danimarca, ri- corso n. 11508/85, sentenza del 22 febbraio 1989.57 A proposito del controllo dei limiti del margine di apprezzamento relativo al-

Per quanto riguarda la Corte di giustizia dell’Unione europea, il controllo circa i limiti del margine di apprezzamento dello Stato, nel- l’ambito del bilanciamento tra diritti fondamentali e libertà comuni- tarie, si svolge all’interno della verifica della legittimità della restri- zione a tali libertà.Il test di proporzionalità viene normalmente effettuato dalla Corte per tutte le misure restrittive delle libertà comunitarie giustificate in base ad una norma del Trattato58 o in virtù delle esigenze impera- tive59. In sostanza, la Corte di giustizia adotta una variante del tra- dizionale metodo di controllo della legittimità di una giustificazione ad una restrizione delle libertà comunitarie modellata sulla specificità della materia dei diritti fondamentali. Le ipotesi di

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giustificazione di una restrizione in virtù della tutela dei diritti fondamentali non sono direttamente riconducibili a quelle descritte dal Trattato o ad una delle esigenze imperative proprio per la specificità della materia. Da un lato, l’invocazione dei diritti fondamentali appare trasversale in quanto riconducibile ora alle categorie di giustificazione previste dal Trattato, quali ad esempio l’ordine pubblico, ora alle esigenze imperative; dal-l’altro, essa può costituire un’autonoma causa di giustificazione60.In genere, la Corte verifica che la misura restrittiva sia riconduci-

l’applicazione dell’articolo 8 CEDU cfr. ad esempio Corte europea dei diritti umani, Johnston e a. c. Irlanda, ricorso n. 9697/82, sentenza del 18 dicembre 1986, Eriks- son c. Svezia, ricorso n. 11373/85, sentenza del 22 giugno 1989; Dudgeon c. Regno Unito, ricorso n. 7525/76, sentenza del 22 ottobre 1981.58 Il Trattato stesso prevede la possibilità di restrizioni, giustificate in virtù della considerazione di interessi propri dello Stato la cui tutela, secondo l’ottica del legi- slatore comunitario, può essere prevalente rispetto alla salvaguardia delle libertà di circolazione. Per quanto riguarda la libera circolazione delle merci, ad esempio vi è l’art. 30 CE, il quale prevede la possibilità di restrizioni per ragioni attinenti alla mo- ralità pubblica, l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza, la tutela della salute, della vita delle persone, degli animali, la preservazione dei vegetali, la protezione del pa- trimonio artistico, storico, archeologico nazionale, la tutela della proprietà industriale e commerciale. La Corte ha sottolineato che trattandosi di deroghe alla regola fon- damentale dell’eliminazione di ogni ostacolo alla libera circolazione delle merci tra Stati membri è necessario effettuarne un’interpretazione restrittiva.59 Cfr. Corte di giustizia delle Comunità europee, Rewe-Zentral AG (Cassis deDijon), causa 120/78, sentenza del 20 febbraio 1979; Canal Satélite Digital, causa C-390/99, sentenza del 22 gennaio 2002; Commissione c. Lussemburgo, causa C-286/07, sentenza del 23 aprile 2009.60 Cfr. A. Alemanno, À la recherche d’un juste équilibre entre liberté fonda- mentales et droits fondamentaux dans le cadre du marché intérieur, in Revue du Droit de l’Union Européenne 2004, pp. 709 ss nonché M. Avbelj, European Court of Justice and the question of value choices: fundamental human rights as an excep- tion to the freedom of movement of goods, Jean Monnet working paper 4/06, repe- ribile sul sito http://www.jeanmonnetprogram.org/papers/04/040601.html, ultimo ac- cesso 9 novembre

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bile ad una delle giustificazioni previste dal Trattato o ad un’esigenza imperativa e che sia rispettosa del principio di proporzionalità. Se- condo la giurisprudenza della Corte non vi possono essere delle re- strizioni giustificate per la necessità di perseguire esigenze fonda- mentali riconosciute dal diritto comunitario in settori in cui vi è stata un’armonizzazione delle misure necessarie per realizzare tale obiet- tivo61. Ove, invece, non vi sia stato tale intervento del legislatore eu- ropeo, gli Stati membri sono liberi di scegliere il livello e le moda- lità di tutela da accordare alle diverse esigenze imperative eventual- mente contrastanti con le libertà comunitarie, nel rispetto dei limiti imposti dal diritto comunitario. Talvolta, in caso di armonizzazione parziale è il legislatore comunitario a dettare i limiti per le deroghe alle libertà comunitarie62. Poiché nel settore dei diritti fondamentali non vi è e non vi può essere, per ragioni di competenza, un’armo- nizzazione della materia, spetta agli Stati «valutare il livello di tutela che essi intendono garantire all’interesse in questione»63. La Corte ri- serva, però, per sé il compito di valutare che tale potere discrezio- nale sia esercitato nel rispetto degli obblighi derivanti dal diritto co- munitario, nonché del principio di proporzionalità, e procede alla ve- rifica dell’adeguatezza della misura rispetto all’obiettivo perseguito e dell’impossibilità di raggiungere un tale obiettivo con misure meno restrittive.La Corte talvolta procede direttamente, talvolta rimette la que- stione al giudice nazionale. In Schmidberger la Corte ha esaminato accuratamente le modalità di svolgimento della manifestazione in og- getto nel giudizio nazionale concludendo che le autorità austriache avevano effettuato un corretto bilanciamento del danno arrecato alla libertà di circolazione e della tutela dei diritti fondamentali di libertà di riunione e di espressione, viste le misure adottate per limitare il pregiudizio il più possibile. In Omega la Corte ha confermato il bi- lanciamento effettuato dalle autorità tedesche constatando, inoltre, che il divieto nazionale riguardava solo una parte limitata dell’attività della società. In Dynamic Medien la Corte ha analizzato il divieto impo- sto dalla legge nazionale circa la vendita di supporti video non sot- toposti a controllo e ha constatato che non si tratta di una misura

61 Corte di giustizia delle Comunità europee, Kemikalieinspektionen c. ToolexAlpha, C-473/98, sentenza dell’11 luglio 2000, p. 25; Tadeschi c. Denkavit, causa5/77, sentenza del 5 ottobre 197762 Cfr. Free movement of goods: guide to the application of Treaty provisions go- verning free movement of goods, Commission staff working paper, 12 maggio 2009, p. 37, consultabile sul sito http://ec.europa.eu/enterprise/policies/single-market-

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oods/fi- les/goods/docs/art2830/new_guide_en.pdf, ultimo accesso 9 novembre 2009.63 Cfr. Sentenza Dynamic, cit., punto 44

generale ma che riguarda soltanto la commercializzazione con i mi- nori. Tale misura non risultava dunque essere sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito di tutela dei minori. La Corte ha indicato, tut- tavia, i criteri che devono essere seguiti dal legislatore nazionale per strutturare la procedura di controllo di tali supporti video: essa deve, infatti, essere facilmente accessibile, deve potersi concludere entro ter- mini ragionevoli e, in caso di esito negativo, il relativo divieto deve poter formare oggetto di ricorso giurisdizionale. La Corte, in pro- posito, affermava che dagli elementi del fascicolo la procedura na- zionale sembra essere conforme a tali criteri, ma rinvia al giudice na- zionale la verifica in concreto.Il test effettuato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, dun- que, differisce da quello della Corte di Strasburgo, in quanto assume le caratteristiche peculiari del sistema. In generale, tuttavia, si può dire che in entrambi i casi si tratta di una declinazione del principio di proporzionalità, nel rispetto del principio di sussidiarietà tra ordina- mento nazionale e sovranazionale.

4.3. Il problema delle competenze

L’analisi dell’applicazione del margine di apprezzamento a propo- sito della tutela dei diritti fondamentali nel sistema comunitario apre lo spazio per un’ultima riflessione in materia di riparto di compe- tenze relativamente alla tutela dei diritti fondamentali.Nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la dot- trina del margine di apprezzamento è stata sviluppata per tenere conto della sovranità nazionale degli Stati e della relativa competenza nel de- terminare il livello di tutela accordato ai diritti considerati fondamen- tali all’interno dell’ordinamento. La CEDU costituisce, infatti, un mi- nimo comune denominatore circa la tutela dei diritti umani nell’am- bito degli Stati dell’area europea, uno «strumento di ordine pubblico», ma non è diretta a sostituire le scelte delle carte costituzionali. La Corte di Strasburgo, in coerenza con tali premesse, ha dunque ope- rato un certo self-restraint per non imporre agli Stati standard che po- tevano risultare inaccettabili per il proprio ordinamento, optando per una certa deferenza per le

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decisioni nazionali nell’ambito del bilan- ciamento tra diritti fondamentali e altri interessi dello Stato.In ambito comunitario il rapporto tra controllo della Corte di giu- stizia in merito alla tutela dei diritti fondamentali e competenza de- gli Stati appare ancora più controverso. A differenza della Corte di Strasburgo, la Corte di Lussemburgo è competente a giudicare delle violazioni dei diritti fondamentali solo in un ambito limitato, ovvero relativamente agli atti comunitari adottati dalle istituzioni comunita-

rie nell’esercizio delle loro funzioni; gli atti o i comportamenti na- zionali di attuazione del diritto comunitario64; le giustificazioni ad- dotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti in- compatibile con il diritto comunitario65. Nei casi sopra ricordati il margine di apprezzamento è stato riconosciuto agli Stati in ipotesi rientranti in quest’ultima categoria: si trattava, infatti, di misure na- zionali che erano dirette a creare un limite ad una delle libertà di cir- colazione comunitarie, in ragione della tutela di un diritto fonda- mentale nazionale. La Corte di giustizia ha riconosciuto lo spazio di- screzionale di ogni Stato nel determinare il livello di tutela da accor- dare ad un singolo diritto fondamentale, in assenza di uno standard comunitario. L’imposizione di un tale standard non sarebbe coerente con il sistema comunitario, in quanto l’Unione europea non ha una competenza generale in materia di diritti fondamentali e dunque la ricostruzione del livello comunitario di tutela dei diritti fondamentali viene operata, di volta in volta, in sede giudiziaria da parte della Corte di giustizia. Nemmeno la redazione della Carta di Nizza ha la fun- zione di «armonizzare» la materia dei diritti fondamentali, di esclu- siva competenza nazionale, ma semplicemente di identificare quali sono i diritti fondamentali riconosciuti nell’ordinamento comunitario e di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza nell’ambito di competenza che le è riservato. La concessione di un margine di ap- prezzamento agli Stati, dunque, discende dall’applicazione del metodo della Corte di controllo delle misure restrittive delle libertà comuni- tarie anche ove gli Stati invochino una giustificazione dettata da esi- genze di tutela dei diritti fondamentali ed appare una scelta «obbli- gata» in ragione della carenza di competenza in questa materia. Il self-restraint della Corte appare, dunque, necessario e coerente con il sistema comunitario. Ciò nulla toglie, tuttavia, all’importanza del con- trollo della Corte di giustizia, affinché tale potere degli

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Stati venga esercitato nel rispetto dei limiti del diritto comunitario, nonché del principio di proporzionalità, e al dialogo che in tal modo viene svi- luppato con le giurisdizioni nazionali in tema di diritti fondamentali.Una tale applicazione del margine di apprezzamento, inoltre, ri- sulta coerente con le novità apportate dal Trattato di Lisbona. Il Trat- tato sull’Unione europea nella sua versione modificata prevede all’art.4 che «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai

64 Corte di giustizia delle Comunità europee, Wachauf c. Repubblica federale diGermania, in causa C- 5/88, del 13 luglio 1989.65 Corte di giustizia delle Comunità europee, Elliniki Radiophonia Tileorasi AEc. Dimotiki Etairia Pliroforissis e Sotirios, causa C-260/89, sentenza del 18 giugno1991.

Trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fonda- mentale, politica e costituzionale […]». All’art. 3 TUE viene inoltre sancito che «[L’Unione] rispetta la ricchezza della sua diversità cul- turale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del pa- trimonio culturale europeo». La promozione dei valori nazionali an- che attraverso un atteggiamento di deferenza della Corte di giustizia rispetto al livello e alle modalità di tutela dei diritti fondamentali può validamente rientrare in una politica di valorizzazione della diversità culturale e di salvaguardia dell’identità nazionale.

5. Conclusioni

L’applicazione del margine di apprezzamento da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo ha suscitato in dottrina diverse reazioni. È stato sottolineato che se le differenze nazionali rendono necessa- rio il margine di apprezzamento, questo accresce tuttavia la difficoltà della costruzione di standard europei; la Corte, inoltre, ricorrendo a tale tecnica, abdicherebbe alla propria funzione di controllo giudiziale della condotta degli Stati membri, rinviando ad essi proprio ove le materie sono più sensibili e le problematiche più delicate66. È stata, infine, rilevata la mancanza di legittimazione della Corte all’utilizzo di tale tecnica, data l’assenza

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nel testo della Convenzione di un rife- rimento esplicito al margine di apprezzamento.Altra dottrina ha, invece, sottolineato i meriti di tale tecnica giu- diziale adottata dalla Corte di Strasburgo, sottolineando, in partico- lare, come al fine di bilanciare i diritti individuali e gli altri interessi nazionali, sia inevitabile, in un sistema multiculturale e pluralista come quello del Consiglio d’Europa, la concessione di uno spazio di di- screzionalità per gli Stati. La dottrina del margine di apprezzamento ha consentito, inoltre, di evitare possibili conflitti tra la Corte e gli Stati, preoccupati di una prevaricazione della propria sovranità in aree fondamentali come quella della sicurezza e di mantenere il consenso necessario al funzionamento del Consiglio d’Europa67.Vi è, tuttavia, una certa unanimità nella ricerca di una base logica e politica più forte per l’utilizzo di tale dottrina, nonché l’aspirazione ad un maggiore sviluppo delle argomentazioni della Corte di Stra-

66 Cfr. inter alia, M.R. Hutchinson, The margin of appreciation doctrine in the European Court of Human Rights, in International and Comparative Law Quar- terly, 1999, pp. 638 ss. e Benvenisti, op. cit., pp. 853 ss.67 Cfr. Y. Arai Takahashi, op. cit.

sburgo, in modo da rendere più trasparente il ragionamento ed espli- citare i presupposti della sua applicazione.In assenza di analoghe valutazioni dottrinali per quanto riguarda l’applicazione del margine di apprezzamento da parte della Corte di giustizia, si può, tuttavia, sottolineare che l’utilizzo di tale tecnica di- mostra che vi sono ambiti in cui la Corte riconosce lo spazio di scelta degli Stati, in particolare l’ordine pubblico e la tutela dei diritti fon- damentali, evitando di imporre degli standard comunitari e consen- tendo l’emersione del pluralismo delle realtà nazionali. Questo atteg- giamento, se da un lato può apparire come un eccessivo self-restraint dell’ordinamento comunitario rispetto a quelli nazionali, comporta, invece, una tutela della diversità nazionale su cui interviene tuttavia il coordinamento e il controllo della Corte. È interessante l’utilizzo di tale tecnica, soprattutto per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali nazionali, in quanto, la Corte riconosce la piena espli- cazione

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del livello di tutela nazionale, evitando inoltre la contrappo- sizione di controlimiti da parte degli ordinamenti nazionali. Questa tecnica giudiziaria, dunque, importata dal o quanto meno «ispirata» al sistema di Strasburgo, si è rivelata favorevole alla tutela dei diritti fondamentali nel sistema comunitario, nonché un buon metodo per mediare tra universalità e particolarismo in entrambi i sistemi. Essa è inoltre coerente con il sistema comunitario e il principio di attri- buzione, nonché con quanto previsto nel Trattato di Lisbona a pro- posito della tutela dell’identità nazionale.

Margine di apprezzamento (lezioni)Rapporto tra principio di proporzionalità e margine d’apprezzamento

Il principio di proporzionalità ed il margine di apprezzamento sono tecniche interpretative e allo stesso tempo metodi argomentativi.L’uso del margine di apprezzamento è possibile solo dopo un controllo di proporzionalità per cui le possibilità sono 2:

1-Se si parte dal principio di proporzionalità, si potrà indicare ad un certo punto che la corretta valutazione di una delle fasi del giudizio potrebbe essere demandata allo Stato membro al quale si concede un margine di apprezzamento, ritenendo che per quel tipo di valutazione lo Stato sia in una posizione migliore della Corte in quanto più vicino alla questione. Significa che si lascia un margine di apprezzamento per la valutazione di uno degli elementi delle fasi del giudizio di proporzionalità.2-Viceversa, se si parte dal presupposto di attribuire un margine di apprezzamento con riguardo alla protezione di un diritto della Convenzione e quindi nel valutare se la violazione di quel diritto avvenga oppure no, la Corte concede fin da subito un certo margine agli Stati. La concessione del margine in questo caso consiste in una valutazione preliminare circa l’idoneità e necessità da parte delle Corti interne, il cui soddisfacimento rappresenta un limite a tale margine, ed in seguito la Corte si riserva il bilanciamento nella tutela dei vari diritti. Margine d’apprezzamento:Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte Europea di Giustizia a confronto

La dottrina del margine d’apprezzamento nella Corte Europea dei diritti dell’uomo indica lo spazio lasciato agli stati nell’applicazione della Convenzione per bilanciare l’adempimento degli obblighi pattizi con la tutela di altre esigenze statali. La Corte di Strasburgo veglia sul rispetto da parte degli Stati dei diritti fondamentali sanciti dalla

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Convenzione, ma lascia un margine di deroga per consentire agli stessi il perseguimento di altri interessi statali, nonché uno spazio di scelta e valutazione di questi ultimi. La Corte europea di Giustizia conosce il margine d’apprezzamento solo sulla base di uno sviluppo giurisprudenziale in quanto nel sistema comunitario non trova una esplicita formulazione al’interno dei Trattati.Nella risoluzione dei casi la Corte non deve giudicare se il diritto sia stato o meno violato ma verificare se la protezione di quel diritto sia giustificazione sufficiente per derogare ad altre norme. Immaginiamo che il diritto alla libertà di espressione venga utilizzato per realizzare un reato come l’offrire argomenti indiretti che ispirino il conflitto razziale (per esempio, la demonizzazione nel discorso pubblico dell’arrivo di alcuni immigrati). La libertà di espressione e di pensiero non possono essere limitate se non in circostanze specifiche che possano provocare gravi danni all’ordine pubblico. I primi riferimenti al margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte concernono il principio, stabilito dall’art.15CEDU, per cui gli Stati possono derogare alle norme della Convenzione nelle situazioni di emergenza. Successivamente, la dottrina viene applicata sporadicamente anche ad altre fattispecie, ma è solo nel caso Handyside che il suo contenuto viene elaborato compiutamente ed emerge una filosofia del tutto nuova che permette di utilizzare il margine d’apprezzamento in tutti i casi in cui vi sia un’effettiva lesione di un diritto non più circoscritta alle sole ipotesi di contrarietà all’ordine pubblico.

Sentenza HandysideRichard Handyside è il proprietario di una casa editrice londinese chiamata “Stage 1” nel 1968 compra i diritti di un manuale scolastico scritto da due danesi. Nel 1971 i giornali pubblicizzano il libro e indicano la loro intenzione di far richiesta all’autorità che si occupa della vigilanza sulle pubblicazioni di prendere delle misure contro la pubblicazione del libro prima che fosse pubblicato. Tale autorità blocca la pubblicazione del manuale.La versione originale in inglese del libro aveva un’introduzione intitolata “tutti gli adulti sono tigri di carta”; poi c’era un’introduzione all’edizione britannica a cui seguivano i capitoli “educazione”, “apprendimento”, “insegnanti”,”studenti”, “il sistema”. Il capitolo sugli studenti conteneva circa 26 pagine sul sesso.L’azione contro questo manuale fu basata sulle leggi del 1959 e del 1964 relative alle pubblicazioni oscene.Dinanzi alla Corte d’Appello i due problemi esaminati furono:- lo stato aveva provato oltre ogni ragionevole dubbio che il manuale poteva ritenersi osceno secondo il significato di osceno adottato nelle leggi del ‘59 e del ‘64?

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Page 89: PREMESSA - - pagina obsoletaold.unipr.it/arpa/dsgs/MD/LEZIONI_TEORIA DELL... · Web viewPREMESSA Tutte le sentenze, anche le più stupide, sono un’interpretazione del diritto e

- qualora fosse stato osceno, il responsabile era riuscito a dimostrare che la pubblicazione del manuale era giustificata dal bene pubblico?La corte affronta innanzitutto il problema dell’oscenità e rileva che nel manuale c’erano una serie di opinioni unilaterali che contraddicevano l’intento del libro ossia quello di informare e di non indottrinare. La corte conclude che dal punto di vista del bambino il manuale tendeva a rideterminare delle relazioni negative tra i docenti e i bambini.La Corte esamina dunque il secondo problema e nota come il libro tendesse a corrompere e cita a tal proposito un passaggio intitolato “sii te stesso”. Nel libro si fa menzione del funo ma non della sua illegalità; si tratta di rapporti sessuali tra un quattordicenne e una ragazza non ancora sedicenne ma anche in questo caso non si accenna all’illegalità del fatto. Il libro viene quindi considerato indecente.Nella sua richiesta Handyside lamentava che l’azione promossa contro di lui dal Regno Unito fosse in violazione del diritto alla libertà di espressione (ex art. 10 CEDU) e del diritto al pacifico godimento dei suoi possessi (ex art. 1 Protocollo n.1 CEDU).Pretesa violazione art. 10 CEDU“Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo noti impedisce che gli Stati sottopongano a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario.”Se le restrizioni e le penalità che Handyside lamenta di aver subito non sono in violazione dell’art. 10 CEDU, devono, ex art. 10 II comma, essere prescritte dal diritto o dalla legge ed era questo il caso. La prima valutazione della Corte è che le interferenze della pubblica autorità sulla libertà di espressione hanno uno scopo legittimo secondo il II comma dell’art. 10 CEDU ossia la protezione della morale in una società democratica. La Corte deve anche accertare se la protezione della pubblica moralità in una società democratica necessitava di tutte le misure prese contro il ricorrente e il manuale (riferimento al principio di proporzionalità).

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Inoltre la Corte sottolinea che il sistema di protezione stabilito dalla Convenzione è SUSSIDIARIO ai sistemi nazionali che hanno invece il compito primario di salvaguardare i diritti umani mentre i sistemi stabiliti dalla Convenzione danno il loro contributo laddove tutti i rimedi domestici siano stati esauriti.In particolare non è possibile trovare nel diritto interno dei vari Stati contraenti una CONCEZIONE UNIFORME EUROPEA DI MORALE (NB. In effetti il fatto che la Corte lasci agli Stati o meno il margine d’apprezzamento è inversamente proporzionale al fatto che si tratti o meno di un’interpretazione pacifica tra gli Stati Membri).Tuttavia gli Stati si trovano in una posizione migliore rispetto a quella dei giudici internazionali per dare un esatto contenuto a questo requisito perciò la Corte dice che le autorità nazionali debbano svolgere l’attività iniziale di valutazione del bisogno sociale prevalente con riferimento alla nozione di “necessità”. Conseguentemente l’art.10 par.2 lascia agli Stati un margine d’apprezzamento che però non è illimitato in quanto la Corte assieme alla Commissione responsabile di questo tipo di incarichi hanno il potere di fornire la decisione finale circa la questione di compatibilità della restrizione con la libertà di espressione. Quindi il margine d’apprezzamento nazionale è sottoposto alla supervisione europea e concerne sia lo scopo che la necessità della misura e copre non solo le leggi statali ma anche prassi e sentenze(NB.La Corte si occupa della violazione dei diritti umani a presindere dalla fonte da cui essa derivi!).Ovviamente la Corte deve individuare i principi che fondano una SOCIETA’ DEMOCRATICA ed afferma che la libertà di espressione ne rappresenta uno dei principali fondamenti e condizione di sviluppo per ogni essere umano e sottolinea che tale libertà non si riferisca solo alle idee indifferenti ma anche quelle che offendono lo Stato e questo significa che ogni restrizione deve necessariamente essere proporzionata al legittimo scopo perseguito. Inoltre la Corte pone l’attenzione su un fattore emerso in un giudizio del 29 ottobre 1971 in cui individua i destinatari del manuale negli adolescenti tra i 12 ed i 18 anni e il contenuto lo ritiene abbastanza diretto e di facile comprensione; riteneva inoltre che nella sezione dedicata al Sesso ci fossero delle affermazioni che ragazzi in uno stadio critico del loro sviluppo, avrebbero potuto interpretare come un incoraggiamento a precoci attività loro dannose o addirittura a reati. Il ricorrente tuttavia sosteneva che l’esigenza della protezione della morale e la lotta contro questo tipo di pubblicazioni, fossero solo un pretesto per far chiudere un editore le cui tendenze politiche erano disapprovate da una certa frazione dell’opinione pubblica. Ma il Governo inglese ha sostenuto invece il contrario e cioè che questo non avesse affatto impedito un’imparziale deliberazione della Corte.

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Sulla base di questi dati la Corte conclude che non ci sia stata una violazione dei requisiti richiesti dall’art.10 della Convenzione.Pretesa violazione dell’art.1 del PROTOCOLLO I“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”Riguardo l’asserita violazione del diritto al pacifico godimento dei beni propri la Corte in base al contenuto medesimo della norma giunge ad affermare che le misure applicate debbano ritenersi autorizzate dall’art.1 medesimo e perciò la pubblicazione del manuale fosse stata legittimamente ritenuta pericolosa per l’interesse generale(la moralità pubblica).Commento Handyside (GIORGIO REPETTO).E’ importante sottolineare come si legano tre concetti fondamentali:- Il margine di apprezzamento- L’argomentazione comparativa- La nozione di società democraticaLa Corte, ha elaborato nel tempo una vera e propria teoria dell’argomentazione della Convenzione, che è fondata sull’esigenza di salvaguardare la portata garantistica dei diritti e, al medesimo tempo, sull’ esigenza di elaborare soluzioni interpretative che assicurino il pluralismo delle scelte e degli interessi dei paesi firmatari.

La Corte, rinuncia ad un’interpretazione dell’art. 10 comma 2 della Cedu che, benchè letteramente corretta, avrebbe portato a risultati contrastanti con lo spirito della Convenzione stessa.La chiave su cui si fonda l’interpretazione della norma, risiede proprio nell’esaltazione del concetto di società democratica: nel caso di specie, la soluzione adottata dalla Corte, era giustificata dal fatto che, la nozione di morale, non poteva dirsi uniforme, quantomeno a livello europeo.Il ragionamento giuridico seguito dalla Corte, prevede diverse tecniche argomentative, che costituiscono l’una il fondamento dell’altra. Relativamente al caso Handyside, dal tema del margine di apprezzamento e dell’interpretazione comparativa, ci si sposta a quello di società democratica.

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Questo concetto, a differenza dei primi due menzionati, costituenti il frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della CEDU, è positivamente disciplinato dalla stessa.La società democratica, è considerata come l’ideale contesto in cui debbono operare i limiti sanciti dagli artt. 8-11, 1 comma, CEDU; ossia limiti associati alla necessità di proteggere beni e valori di diretto rilievo per gli Stati aderenti, come la sicurezza, la morale pubblica, la protezione della salute.. valori enunciati precisamente nell’art. 10, com.2 della CEDU.Il percorso che conduce i giudici europei a valutare il rispetto di questi beni e valori, vede l’associazione del ricorso alla teoria del margine di apprezzamento e quello dell’argomentazione interpretativa, posto che, la valutazione di un concetto come quello della morale pubblica, costituisce l’esito dell’analisi operata tra i vari paesi europei.

ARTT. ESAMINATI:ART. 8, 1 COM. CEDU: “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”.ART. 9, 1 COM. CEDU: “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, ,mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza di riti”.ART. 11, 1 COM, CEDU: “OOgni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati a e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi”.Introduzione al caso LautsiIl caso Lautsi ruota intorno al rapporto intercorrente tra lo Stato e la libertà dalla religione (come libertà negativa) che permette di stabilire quali siano gli strumenti di tutela. La Francia e gli Stati Uniti hanno già dato vita ad alcuni modelli laici: il modello francese predilige il carattere laico dello stato che si origina dall’illuminismo rivoluzionario francese e quindi bandisce severamente l’esposizione di qualsiasi simbolo religioso in luoghi pubblici (ad es. divieto di indossare il velo all’interno delle università); il modello statunitense non censura alcuna manifestazione religiosa perchè sintomo della libertà di espressione, ma allo stesso tempo lo stato resta laico in quanto non supporta in maniera specifica una fede religiosa bensì le consente tutte indistintamente.Il problema è individuare il rapporto Stato-religione che caratterizza l’Italia.

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Causa Lautsi c. Italia

Ricorsi interni prima di arrivare alla Corte CEDU.Soile Lautsi è la mamma di due ragazzi di tredici e undici anni che frequentano la scuola pubblica ad Abano Terme.La prima volta che solleva la questione del crocifisso nelle aule è il 22 Aprile 2002 davanti al consiglio d’istituto, sulla base di una precedente sentenza della Cassazione del 2000 (N 4273) secondo la quale la presenza di questo simbolo, nelle aule in cui si sarebbe votato per le elezioni politiche, è contraria al principio di laicità dello Stato. Tuttavia la direzione della scuola lascia la questione invariata.Quindi la donna si rivolge al TAR del Veneto basandosi sugli articoli 3 e 19 della Costituzione, sull’articolo 9 della Convenzione (sulla libertà di pensiero, coscienza e religione) e denunciando la violazione dell’articolo 97 Cost. sull’imparzialità della P.A. Chiede inoltre che il tribunale sollevi la questione di legittimità costituzionale.

Nel 2004 il TAR ritiene che, tenuto conto del principio di laicità (artt 2, 3, 7, 8, 9, 19, 20 della Costituzione), la questione di costituzionalità non è manifestamente infondata e rimette la questione alla Corte Costituzionale.Questa, si dichiara incompetente dato che la questione di legittimità riguarda norme di rango regolamentare prive di forza di legge, che di conseguenza non rientrano nella sua competenza.A questo punto riprende la procedura davanti al TAR che termina con il rigetto del ricorso della ricorrente ritenendo che il crocifisso sia non solo un simbolo religioso, ma anche un simbolo storico e culturale italiano, nonché simbolo di uguaglianza, di libertà e di tolleranza.La donna propone ricorso al Consiglio di Stato che lo respinge ritenendo che la croce fosse diventata uno dei valori laici della Costituzione italiana e rappresentasse i valori della vita civile.

Per quanto riguarda le norme in base alle quali il crocifisso è esposto c’è un percorso storico che inizia nel 1860, ai sensi dell’articolo 140 del Regio Decreto N 4336 secondo il quale “ogni scuola dovrà essere fornita di un crocifisso”.Con l’avvento del fascismo, lo Stato adotta una serie di circolari miranti a far rispettare l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule ( V. una circolare del 1922 che definisce “una violazione manifesta, non tollerabile e una lesione alla religione

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dominante dello Stato così come all’unità della nazione” il fatto che il crocifisso fosse stato rimosso da molte scuole).Nel 1924, il Regio Decreto N 965 prevede che “Ogni scuola deve avere la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del re..”.Nel 1928, nel Regio Decreto N 1297 il crocifisso viene poi elencato tra “ le attrezzature e i materiali necessari nelle aule delle scuole”.Queste ultime due sono le disposizioni che le giurisdizioni nazionali hanno ritenuto fossero ancora in vigore ed applicabili al caso di specie.

Con la ratifica dei Patti Lateranensi, nel 1929, il cattolicesimo è confermato come la religione ufficiale dello Stato italiano.Ma, con la Costituzione del 1948 che dichiara Stato e Chiesa come indipendenti e sovrani, e che tutela le confessioni religiose diverse e i protocolli addizionali ai Patti del 1985, viene sancito che la disposizione relativa alla religione cattolica come religione ufficiale non è più in vigore.

La Corte Costituzionale in diverse occasioni ha ribadito come l’atteggiamento dello Stato deve essere caratterizzato dall’equidistanza e dall’imparzialità, senza attribuire importanza al numero di aderenti a questa o quella religione, ci deve essere eguale protezione della coscienza di ogni persona che aderisce ad una confessione religiosa .La Costituzione contiene un principio di laicità e il carattere confessionale dello Stato è stato esplicitamente abbandonato nel 1985.

Tuttavia, la Corte Costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione sollevata dalla signora Lautsi perché riguarda norme di natura regolamentare prive di forza di legge che non rientrano nella sua competenza. IN DIRITTOSull’addotta violazione dell’art. 2 del Protocollo n.1, esaminato congiuntamente all’art. 9 della Convenzione La sig.ra Lautsi, ricorrente, sostiene che l’esposizione della croce nella scuola pubblica frequentata dai suoi figli ha costituito un’ingerenza incompatibile con il suo diritto di garantire a questi un’educazione nonché un’istruzione conformi alle proprie convinzioni religiose e filosofiche ai sensi dell’art. 2 del Protocollo n. 1 («Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose filosofiche.»).

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La ricorrente lamenta, altresì, una violazione della libertà di pensiero, coscienza e religione sancita dall’art. 9 della Convenzione («1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.»).

A. Sulla ricevibilitàI motivi di ricorso formulati dalla ricorrente non sono manifestamente infondati, sicché la questione è dichiarata ricevibile.

B. Sul meritoArgomenti delle partia) La ricorrenteL’esposizione del crocifisso si basa su disposizioni del 1924 e del 1928, che sono tuttora in vigore benché anteriori alla Costituzione italiana, agli accordi con la Santa Sede del 1984 e al protocollo addizionale a questi relativo. Tali disposizioni, tuttavia, sfuggono al controllo di costituzionalità della Corte costituzionale data la natura regolamentare degli stessi.Esse debbono considerarsi l’eredità di una concezione confessionale dello Stato che oggi si scontra con il dovere di laicità di quest’ultimo e ignora i diritti tutelati dalla Convenzione. In Italia esiste una «questione religiosa» perché, facendo obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, lo Stato accorda alla religione cattolica una posizione privilegiata che si traduce in un’ingerenza statale nel diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione della ricorrente e dei suoi figli.Il crocifisso ha una connotazione soprattutto religiosa, ed il fatto che questo possa assumere diversi significati non comporta la perdita di tale principale connotazione.Privilegiare una religione attraverso l’esposizione di un simbolo dà la sensazione agli studenti delle scuole pubbliche che lo Stato aderisce ad una determinata fede religiosa nonché, per converso, che questo sia lontano da coloro che non si riconoscono in questa confessione.Laicità, infatti, significa che lo Stato deve essere neutrale e dare prova di equidistanza rispetto alle religioni; in particolare, deve garantire a tutti i cittadini la libertà di

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coscienza, incominciando con un’istruzione pubblica capace di forgiare l’autonomia e la libertà di pensiero della persona. b) Il GovernoIl Governo osserva che la questione sollevata esce dal campo propriamente giuridico per sconfinare in quello filosofico: si tratta, infatti, di accertare se effettivamente l’esposizione di un simbolo che ha un’origine e un significato religiosi possa costituire violazione di diritti e libertà tutelati dalla stessa Convenzione.Il crocifisso è certamente un simbolo religioso, ma può assumere anche altri significati: questo avrebbe, infatti, anche un significato etico, comprensibile ed apprezzabile indipendentemente dal dall’adesione alla tradizione religiosa e storica in quanto evoca principi e valori condivisibili anche al di fuori della fede cristiana (non-violenza, condivisione, giustizia, amore per il prossimo, perdono dei nemici), valori e principi che stanno alla base delle nostre democrazie. Tale conclusione è corroborata dalla giurisprudenza della Corte, che esige un’ingerenza molto più attiva della semplice esposizione di un simbolo per constatare una violazione di diritti e libertà.Nella fattispecie, in effetti, non è in gioco la libertà di aderire o non aderire ad un credo religioso, né la libertà di praticare una religione o non praticarne alcuna: l’esposizione del crocifisso, infatti, non implica che a insegnanti o studenti sia richiesto il benché minimo segno di saluto o attenzione.Neppure la libertà di educare i figli conformemente alle convinzioni dei genitori è in causa, essendo l’insegnamento in Italia pluralistico e totalmente laico, nonché l’istruzione religiosa puramente facoltativa.Alle autorità nazionali è lasciato un notevole margine di valutazione per questioni così complesse, sicché il limite non sembra essere stato travalicato.Secondo il Governo l’esposizione del crocifisso non metterebbe in discussione la laicità dello Stato, né sarebbe il segno di una preferenza nei confronti della fede cattolica, in quanto esso richiamerebbe soltanto una tradizione culturale e dei valori umanisti condivisi da altre persone diverse dai cristiani.Del resto, non vi è consenso europeo circa il contenuto concreto della nozione di laicità, il che contribuisce ad aumentare il margine di valutazione in materia. Il Governo chiede alla Corte di astenersi dal dare un contenuto preciso che arrivi fino a proibire la semplice esposizione di simboli, con ciò potendosi produrre conseguenze del tutto imprevedibili.Fra i motivi che hanno indotto lo Stato a mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche, infine, anche la necessità di trovare un compromesso politico tra partiti di ispirazione cristiana con il sentimento religioso di una parte essenziale della popolazione.

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c) Intervento di terzoIl Greek Helsinki Monitor (GHM) contesta le tesi del Governo convenuto, dal momento che la croce, ed ancor più il crocifisso, non possono che essere percepiti come simboli religiosi.

Valutazione della Corte

La Corte deve stabilire se lo Stato convenuto, imponendo l’esposizione del crocifisso nella aule scolastiche, abbia vigilato nell’esercizio delle proprie funzioni di insegnamento ed educazione a che le conoscenze fossero impartite in modo oggettivo, critico e pluralistico e abbia rispettato le convinzioni religiose filosofiche dei genitori.Per esaminare tale questione la Corte tiene conto soprattutto della natura del simbolo religioso e del suo impatto sugli allievi di giovane età.Da un lato, il Governo giustifica l’obbligo di esporre il crocifisso facendo riferimento al messaggio morale positivo della fede cristiana e attribuendo al crocifisso un significato morale in riferimento alla storia e alle tradizioni italiane; dall’altro, la ricorrente sostiene la connotazione principalmente religiosa del crocifisso che, in quanto simbolo religioso, urta contro le sue convinzioni e viola il diritto dei suoi figli di non professare la religione cattolica.Secondo la Corte, il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati, fra i quali il significato religioso è predominante.Quanto all’impatto dell’esposizione del crocifisso sui figli, la Corte riconosce che, per come è esposto, è impossibile non notare la sua presenza nella aule scolastiche, di modo che questo possa essere considerato “un segno esterno forte” : gli studenti si sentiranno, così, educati in un ambiente scolastico contrassegnato da una data religione.L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può essere giustificata né con la richiesta di altri genitori né, come il Governo sostiene, con la necessità di un compromesso con partiti politici di ispirazione cristiana.La Corte, infine, non vede come l’esposizione, nelle aule di scuole pubbliche, di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la preservazione di una società democratica.In conclusione, la Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una data confessione nell’esercizio della funzione pubblica relativamente a situazioni specifiche sottoposte a controllo governativo, in particolare nelle aule scolastiche, viola il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o di non credere.

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Pertanto, vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 congiuntamente all’art. 9 della Convenzione.

Sulla addotta violazione dell’art. 14 della Convenzione

La ricorrente sostiene anche che l’ingerenza da lei denunciata violi anche il principio della non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione. Tuttavia, la Corte non ritiene necessario esaminare la questione anche per quanto riguarda l’art. 14, preso isolatamente o combinato con le disposizioni di cui sopra.

IN DIRITTO

Sull’addotta violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1, esaminato congiuntamente all’art. 9 della Convenzione

La sig.ra Lautsi, ricorrente, sostiene che l’esposizione della croce nella scuola pubblica frequentata dai suoi figli ha costituito un’ingerenza incompatibile con il suo diritto di garantire a questi un’educazione nonché un’istruzione conformi alle proprie convinzioni religiose e filosofiche ai sensi dell’art. 2 del Protocollo n. 1 («Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose filosofiche.»).La ricorrente lamenta, altresì, una violazione della libertà di pensiero, coscienza e religione sancita dall’art. 9 della Convenzione («1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui.»).

A. Sulla ricevibilitàI motivi di ricorso formulati dalla ricorrente non sono manifestamente infondati, sicché la questione è dichiarata ricevibile.

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B. Sul merito

Argomenti delle parti

a) La ricorrente

L’esposizione del crocifisso si basa su disposizioni del 1924 e del 1928, che sono tuttora in vigore benché anteriori alla Costituzione italiana, agli accordi con la Santa Sede del 1984 e al protocollo addizionale a questi relativo. Tali disposizioni, tuttavia, sfuggono al controllo di costituzionalità della Corte costituzionale data la natura regolamentare degli stessi.Esse debbono considerarsi l’eredità di una concezione confessionale dello Stato che oggi si scontra con il dovere di laicità di quest’ultimo e ignora i diritti tutelati dalla Convenzione. In Italia esiste una «questione religiosa» perché, facendo obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, lo Stato accorda alla religione cattolica una posizione privilegiata che si traduce in un’ingerenza statale nel diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione della ricorrente e dei suoi figli.Il crocifisso ha una connotazione soprattutto religiosa, ed il fatto che questo possa assumere diversi significati non comporta la perdita di tale principale connotazione.Privilegiare una religione attraverso l’esposizione di un simbolo dà la sensazione agli studenti delle scuole pubbliche che lo Stato aderisce ad una determinata fede religiosa nonché, per converso, che questo sia lontano da coloro che non si riconoscono in questa confessione.Laicità, infatti, significa che lo Stato deve essere neutrale e dare prova di equidistanza rispetto alle religioni; in particolare, deve garantire a tutti i cittadini la libertà di coscienza, incominciando con un’istruzione pubblica capace di forgiare l’autonomia e la libertà di pensiero della persona.

b) Il Governo

Il Governo osserva che la questione sollevata esce dal campo propriamente giuridico per sconfinare in quello filosofico: si tratta, infatti, di accertare se effettivamente l’esposizione di un simbolo che ha un’origine e un significato religiosi possa costituire violazione di diritti e libertà tutelati dalla stessa Convenzione.Il crocifisso è certamente un simbolo religioso, ma può assumere anche altri significati: questo avrebbe, infatti, anche un significato etico, comprensibile ed

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apprezzabile indipendentemente dal dall’adesione alla tradizione religiosa e storica in quanto evoca principi e valori condivisibili anche al di fuori della fede cristiana (non-violenza, condivisione, giustizia, amore per il prossimo, perdono dei nemici), valori e principi che stanno alla base delle nostre democrazie. Tale conclusione è corroborata dalla giurisprudenza della Corte, che esige un’ingerenza molto più attiva della semplice esposizione di un simbolo per constatare una violazione di diritti e libertà.Nella fattispecie, in effetti, non è in gioco la libertà di aderire o non aderire ad un credo religioso, né la libertà di praticare una religione o non praticarne alcuna: l’esposizione del crocifisso, infatti, non implica che a insegnanti o studenti sia richiesto il benché minimo segno di saluto o attenzione.Neppure la libertà di educare i figli conformemente alle convinzioni dei genitori è in causa, essendo l’insegnamento in Italia pluralistico e totalmente laico, nonché l’istruzione religiosa puramente facoltativa.Alle autorità nazionali è lasciato un notevole margine di valutazione per questioni così complesse, sicché il limite non sembra essere stato travalicato.Secondo il Governo l’esposizione del crocifisso non metterebbe in discussione la laicità dello Stato, né sarebbe il segno di una preferenza nei confronti della fede cattolica, in quanto esso richiamerebbe soltanto una tradizione culturale e dei valori umanisti condivisi da altre persone diverse dai cristiani.Del resto, non vi è consenso europeo circa il contenuto concreto della nozione di laicità, il che contribuisce ad aumentare il margine di valutazione in materia. Il Governo chiede alla Corte di astenersi dal dare un contenuto preciso che arrivi fino a proibire la semplice esposizione di simboli, con ciò potendosi produrre conseguenze del tutto imprevedibili.Fra i motivi che hanno indotto lo Stato a mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche, infine, anche la necessità di trovare un compromesso politico tra partiti di ispirazione cristiana con il sentimento religioso di una parte essenziale della popolazione.

c) Intervento di terzo

Il Greek Helsinki Monitor (GHM) contesta le tesi del Governo convenuto, dal momento che la croce, ed ancor più il crocifisso, non possono che essere percepiti come simboli religiosi.

Valutazione della Corte

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La Corte deve stabilire se lo Stato convenuto, imponendo l’esposizione del crocifisso nella aule scolastiche, abbia vigilato nell’esercizio delle proprie funzioni di insegnamento ed educazione a che le conoscenze fossero impartite in modo oggettivo, critico e pluralistico e abbia rispettato le convinzioni religiose filosofiche dei genitori.Per esaminare tale questione la Corte tiene conto soprattutto della natura del simbolo religioso e del suo impatto sugli allievi di giovane età.Da un lato, il Governo giustifica l’obbligo di esporre il crocifisso facendo riferimento al messaggio morale positivo della fede cristiana e attribuendo al crocifisso un significato morale in riferimento alla storia e alle tradizioni italiane; dall’altro, la ricorrente sostiene la connotazione principalmente religiosa del crocifisso che, in quanto simbolo religioso, urta contro le sue convinzioni e viola il diritto dei suoi figli di non professare la religione cattolica.Secondo la Corte, il simbolo del crocifisso ha una pluralità di significati, fra i quali il significato religioso è predominante.Quanto all’impatto dell’esposizione del crocifisso sui figli, la Corte riconosce che, per come è esposto, è impossibile non notare la sua presenza nella aule scolastiche, di modo che questo possa essere considerato “un segno esterno forte” : gli studenti si sentiranno, così, educati in un ambiente scolastico contrassegnato da una data religione.L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può essere giustificata né con la richiesta di altri genitori né, come il Governo sostiene, con la necessità di un compromesso con partiti politici di ispirazione cristiana.La Corte, infine, non vede come l’esposizione, nelle aule di scuole pubbliche, di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo possa servire al pluralismo educativo che è essenziale per la preservazione di una società democratica.In conclusione, la Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una data confessione nell’esercizio della funzione pubblica relativamente a situazioni specifiche sottoposte a controllo governativo, in particolare nelle aule scolastiche, viola il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o di non credere. Pertanto, vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 congiuntamente all’art. 9 della Convenzione.

Sulla addotta violazione dell’art. 14 della Convenzione

La ricorrente sostiene anche che l’ingerenza da lei denunciata violi anche il principio della non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione. Tuttavia, la Corte

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non ritiene necessario esaminare la questione anche per quanto riguarda l’art. 14, preso isolatamente o combinato con le disposizioni di cui sopra.

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IN CORSO DI PUBBLICAZIONESU “GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE”, 2009 FASCICOLO N. 5

La supervisione europea presa sul serio:la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti

Sommario: Premessa - 1. Margine di apprezzamento, consenso e ruolo contro-maggioritario della Corte EDU – 1.1. La dottrina del margine di apprezzamento. - 1.2. Il lato oscuro della dottrina del margine di apprezzamento. - 1.3. La svolta del caso Lautsi: la Corte EDU protegge i dissidenti dalla tirannia delle maggioranze. - 2. Il crocifisso in classe e i limiti della tolleranza. – 2.1. La sconsacrazione dei simboli e la tolleranza preferenziali sta. - 2.2. La laicità post-secolare: la pretesa neutralità del Cristianesimo e il carattere settoriale delle religioni “altre”. – 2.3. La dicotomia Cristianesimo-Islam e la costruzione di un nuovo nemico oggettivo. - 3. Conclusioni: gli Italiani possono scegliere di non dirsi cristiani

Premessa. Con la sentenza Lautsi del 3 novembre scorso1, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che l’affissione del crocifisso nelle scuole pubbliche vïola la libertà religiosa degli alunni e il diritto dei genitori di educare la prole secondo le proprie convinzioni, tutelati, rispettivamente, dagli articoli 9 della Convenzione e 2 del Protocollo aggiuntivo n. 1.Le reazione, più o meno scomposte, provocate dalla sentenza, dimostrano come il nodo dei simboli religiosi nella sfera pubblica rispecchi le principali angosce e contraddizioni che agitano le democrazie occidentali nell’epoca della globalizzazione. La circostanza che la decisione provenga da un organo di giustizia internazionale aggiunge poi un altro ordine di considerazioni, legato al ruolo della supervisione internazionale nella tutela dei diritti fondamentali, e, in particolare, al problema del consenso come condizione per l’armonizzazione della tutela.

Il mio intervento ha dunque un duplice fine. Il primo è quello di dimostrare come la pronuncia costituisca un fondamentale passo avanti nell’assestamento della Corte EDU nel ruolo contro- maggioritario di “custode contro la tirannia delle maggioranze” e sia quindi da salutare positivamente. Il secondo fine è di mettere in luce l’infondatezza degli argomenti a sostegno della liceità dell’esposizione del crocifisso, sulla base di un’analisi comparata dei conflitti sul “posto” dei simboli religiosi nella sfera pubblica2.

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1. Margine di apprezzamento, consenso e ruolo contro-maggioritario della Corte EDU

1.1 La dottrina del margine di apprezzamento. Il sistema CEDU di distribuzione delle competenze è basato sul principio di sussidiarietà, nel senso che “Il meccanismo di protezione costituito dalla Convenzione è sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di protezione dei diritti umani. La

1 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Lautsi c. Italia, 3 novembre 2009.2 A questo duplice fine, sintetizzo qui le argomentazioni che sostengo in Susanna Mancini, Il potere dei simboli, i simboli del potere. Laicità e religione alla prova del pluralismo, Padova, Cedam, 2008, ulteriormente sviluppate in Susanna Mancini, The Power ofSymbols and Symbols as Power. Secularism and Religion as Guarantors of Cultural Convergence, Cardozo Law Review, vol. 30, june 2009, number 6, nonchè in Susanna Mancini and Michel Rosenfeld, Unveiling the Limits of Tolerance. The Dichotomy BetweenMajority and Minority Religious Symbols In the Public Sphere, In L. Zucca and C. Ungureanu (eds.) Law, State and Religion in theNew Europe- Debates on the role of religion in Europe –, Cambridge University Press, 2010 (forthcoming) Convenzione lascia in primo luogo ad ogni stato contraente il compito di assicurare i diritti e le libertà che essa contiene. In ragione del loro diretto e continuo contatto con le forze vitali dei lori paesi, le autorità degli stati sono in linea di principio in una posizione avvantaggiata rispetto al giudice internazionale…”3.D’altro canto, la Convenzione stabilisce alcuni standards universali di protezione che devono essere applicati in tutti gli stati membri. La Corte EDU ha sottolineato in numerose occasioni che il potere degli stati di dettare le regole “va mano nella mano con la supervisione europea”4.Ciò produce inevitabilmente una tensione tra sussidiarietà e universalità, tensione che può essere risolta solo con un approccio case-to-case5. La Corte si è dunque dovuta dotare di alcuni congegni interpretativi necessari per fissare la linea di confine tra l’ambito di competenza propria di ogni comunità di decidere a livello locale e la necessità di applicare standards universali a tutti gli stati, quali che siano le differenze tra di essi, in termini di tradizione e cultura6. Nel sistema CEDU questa funzione è assolta dalla dottrina del margine di apprezzamento”7, che riserva agli stati uno

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spazio per decidere come applicare gli standards della Convenzione nel modo più corrispondente alle condizioni interne8. Il margine di apprezzamento, che pure si basa, almeno nella sua versione più avanzata, sulla logica stessa della sussidiarietà9, non trova collocazione nel testo scritto della Convenzione. La sua elaborazione si deve dunque interamente alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, a cui è rimesso in ultima analisi, il compito di stabilire l’ambito di discrezionalità di cui godono gli stati10I primi riferimenti, al margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte concernono il principio, stabilito dall’articolo 15, per cui gli stati possono derogare alle norme della Convezione nelle situazioni di emergenza11. In questa prima fase il margine di apprezzamento rispondeva alla necessità di evitare che le politiche internazionali potessero compromettere la sicurezza interna12. Alle autorità nazionali andava dunque riconosciuto un certo margine per derogare ai diritti negli stati di emergenza, quando “the interest which the public itself has in effective government and in the maintenance of order justifies and requires a decision in favour of the legality of the Government’s appreciation”13.Successivamente, la dottrina viene applicata sporadicamente anche ad altre fattispecie14 ma è solo nel caso Handyside che il suo contenuto viene elaborato compiutamente15 e in cui emerge una filosofia del tutto nuova, rispetto a quella che presiedeva all’applicazione del margine di apprezzamento ai casi di emergenza, collegata al principio di sussidiarietà e al desiderio di ogni società di mantenere le proprie specificità in termini di valori e di risposte ai propri bisogni16.Con il passare degli anni, l’uso del margine di apprezzamento diviene più frequente e la dottrina comincia ad essere applicata a fattispecie particolarmente sensibili, come l’incitamento alla

3Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 7 dicembre 1976, Handyside c. Regno Unito, par. 48.4Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, par. 49.5Garlicki L., Cultural Values in Supranational Adjudication: Is there a “cultural margin of appreciation” in Strasbourg?, Relazione presentata alla Tavola Rotonda della IACL-AIDC su “Constitution and Culture(s)”, Ravenna, 23-24 marzo 2007.6 Ibid.7 Mahoney P., Marvelous Richness of Diversity or Invidious Cultural Relativism?, in Human Law Journal, 1998., p. 1.8 Wildhaber L., A Constitutional Future for the ECHR?, in Human Rights Law Journal, 2002, n.. 5-7, p. 162.

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9 V. Villiger M.E., The Principle of Subsidiarity in the ECHR in Promoting Justice, Human Rights and Conflict Resolution throughInternational Law (Liber Amicorum Lucius Caflish), Leiden 2007, pp. 624-626.10 Garlicki L., Cultural Values, cit., il quale sottolinea come la teoria del margine di apprezzamento non sia un’invenzione della Corte EDU. Inizialmente essa è stata sviluppata dal Consiglio di Stato francese in relazione allo scrutinio dell’azione governativa. E’ stata però la Corte EDU a dotare questa dottrina di un carattere universale: basti pensare che prima della Convenzione la locuzione“margin of appreciation” non era mai stata utilizzata in Inglese.11 Cfr. per questi primi casi Brems E., The Margin of Appreciation Doctrine in the Case-Law of the ECtHR, in ZfAORuV 1996, H. 1-2, p. 242-243.12 Ni Aolain F., The Emergence of Diversity: Differences in Human Rights Jurisprudence, in 19 Fordham International Law Journal,(1995), p.112.13 Sono le parole di Sir Humphrey Waldock, Presidente della Commissione, nel caso Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Lawless v. Ireland, 1 luglio 1961) (relativo a misure di sicurezza nazionale in una situazione di emergenza).14 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 18 giugno 1971, DeWilde, Ooms e Versyp c. Belgio, par. 93.15 Handyside, par. 48-50.16 Benvenisti E., Margin of Appreciation, Consensus and Universal Standards , in International Law and Politics, vol. 31, 1999, p.849. violenza17 o il hate speech 18.

I principi su cui si fonda l’applicazione della dottrina del margine di apprezzamento sono fondamentalmente tre19:

1. la CEDU stabilisce standards universali, all’interno dei quali agli stati membri è lasciato un certo margine di scelta;

2. la Corte deve rispettare le scelte effettuate dalle autorità nazionali fino a quando esse non collidono con gli standards universali;

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3. l’ampiezza della scelta statale varia in relazione ad alcuni fattori: in determinate situazioni essa è ampia, in altre limitata, in altre ancora molto limitata o addirittura inesistente.

L’estensione del margine di apprezzamento statale è determinata da alcuni fattori20.

- “La natura (materiale) del diritto in questione. Sia il testo della CEDU che la giurisprudenza della Corte stabiliscono una gerarchia dei diritti, la quale determina la legittimità … dei limiti che ad essi possono apportare. La natura del diritto determina dunque anche l’ambito dell’azione permessa agli stati. Vi sono diritti di natura assoluta o quasi assoluta, come la proibizione della tortura, in cui l’universalità degli standards è tale da non consentire alcun margine di apprezzamento. Altri diritti invece consentono un certo margine di apprezzamento in quanto meno uniformemente strutturati a livello europeo, come per esempio il diritto di proprietà o i diritti connessi alla scelta da parte dello stato del sistema elettorale”21.

- “La natura dei doveri statali: il margine di apprezzamento è ampio relativamente alle obbligazioni positive da parte dello stato, quando cioè quest’ultimo deve intervenire attivamente per assicurare l’implementazione di un diritto”22.

- “La natura dello scopo perseguito dall’azione statale. Alcuni (obiettivi statali), e in particolare la protezione della sicurezza nazionale, sono più compelling di altri”23.

- “Le circostanze esterne: inizialmente, il margine di apprezzamento è stato usato dalla Corte nelle situazioni di emergenza, quando cioè gli stati attivavano l’art. 15 della CEDU. Oggi possiamo ancora ritenere che agli stati «sarà riconosciuto un margine più ampio nelle situazioni di emergenza o di minaccia….»24. In particolare, il margine riconosciuto all’azione statale è più ampio nei processi di transizione democratica”25.- “L’esistenza di un terreno comune tra i sistemi degli stati membri26. La Corte spesso esamina le

17 V. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Zana c. Turchia, 25 novembre 1997, in cui la Corte riconosce un ampio margine di apprezzamento alla Turchia nella valutazione dell’incitamento commesso da un politico curdo.

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18 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Jersild c. Denimarca, 23 settembre 1994in cui la Corte stabilisce che la Danimarca abbia oltrepassato il legittimo margine di apprezzamento in un caso relativo ai messaggi di contenuto razzista diffusi da un giornalista.19 Garlicki L., Cultural Values, cit.20 Ibid.21Ibid.22Ibid.23Ibid.24Mahoney P., op. cit., p. 5.25Ad esempio in Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Jahn et Al. c. Germania, 30 giugno 2005, la Corte afferma che “lo stato gode di un ampio margine di apprezzamento quando legifera nel contesto nel mutamento del regime politico ed economico”, un argomento, questo, già avanzato nel conteso particolare della riunificazione tedesca. V. Garlicki L., L’application de l’article 1er du Protocole No 1 de la CEDH dans l’Europe centrale et orientale – problemes de transition in Vandenberghe H. (cur.), Proprieté et droits de l’homme, Bruxelles, 2006, pp. 156-158.26 Rozakis C., The European Judge as Comparatist, Tulane Law Review, 2005, 80, no. 1, p. 273. soluzioni legislative adottate in diversi stati membri e cerca di stabilire se vi sia un comune denominatore adottato nella maggior parte di essi. L’esistenza del consenso o almeno di un trend comune può costituire un motivo per restringere il margine di apprezzamento”27.

- L’esistenza di un comune contesto morale e culturale in cui operano particolari diritti all’interno della società. La CEDU si basa su di una filosofia politica di un certo tipo e presuppone quindi l’accettazione universale di alcuni valori sociali, culturali e morali, ma, al tempo stesso essa accetta e rispetta le identità e le differenze profondissime che vi sono tra le società degli stati membri”28.La dottrina del margine di apprezzamento si basa dunque sull’assunto per cui ogni società ha diritto ad una certa latitudine nel risolvere i conflitti tra i diritti individuali e gli interessi nazionali o tra diverse convinzioni morali. Il margine di apprezzamento, cioè, corrisponde ad una visione relativistica dei diritti umani29, che debbono declinarsi a seconda della cultura locale. In pratica, questo si traduce nella legittimazione da parte della Corte della limitazione dei diritti fondamentali in ragione del particolare contesto morale, religioso, e culturale del loro esercizio.

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1.2. Il lato oscuro della dottrina del margine di apprezzamento. E’ del tutto chiaro che, se applicata con ampiezza, la dottrina del margine di apprezzamento può minare alle fondamenta la tutela sovranazionale dei diritti umani. Come si comprende facilmente, infatti, il “fattore consenso” determina una notevole dose di incertezza, e pone il rischio di vanificare qualsiasi pretesa di universalità nell’applicazione degli standards europei. Oltre a mettere in dubbio le aspirazioni universalistiche della Convenzione, l’uso della dottrina del margine di apprezzamento rischia poi di compromettere la stessa credibilità della Corte. L’applicazione ineguale della Convenzione a fattispecie analoghe, dovuta al diverso margine di apprezzamento riconosciuto alle autorità nazionali, fa nascere infatti il sospetto del doppio standard. Infine, la concessione di un margine di apprezzamento particolarmente ampio alle autorità nazionali, può ingenerare facilmente in queste ultime la convinzione del carattere non fondamentale della supervisione internazionale, indebolendone così l’autorevolezza.A fare le spese dell’applicazione del margine di apprezzamento è stata in molti casi la libertà di manifestare il pensiero. Nel caso-pilota in cui la Corte applica questa dottrina per la prima volta non in relazione all’emergenza, Handyside, la libertà di manifestare il pensiero collide con la morale tradizionale. “Non vi è - afferma la Corte - nel diritto interno degli stati membri una concezione comune europea della morale. ... la concezione che è fatta propria dalle diverse leggi degli stati membri varia in ragione del tempo e dello spazio…. In ragione del loro rapporto diretto e continuo con le forze vitali dei loro paesi, le autorità statali in linea di principio sono in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale quando si tratta di valutare il contenuto esatto di tali requisisti ….” (par. 48). La dottrina del margine di apprezzamento colpisce successivamente la libertà di espressione artistica. In Muller et Al. c. Svizzera30, la Corte legittima le restrizioni apposte dalle autorità svizzere alla esibizione di alcuni dipinti perché: “Oggi … non è possibile rinvenire nell’ordine sociale e nell’ordinamento giuridico degli stati membri una concezione uniforme europea della morale” (par. 35). Nel notissimo (ed altrettanto criticato) caso Otto-Preminger-Institut c. Austria31, la Corte ritiene legittimi la censura e il successivo sequestro del film Das Liebeskonzil ai sensi dell’Articolo 10 della Convenzione. Le argomentazioni della Corte sono di tre ordini: in primo luogo, coloro i quali esercitano la libertà di espressione in relazione alle opinioni e alle credenze religiose debbono “evitare il più possibile espressioni gratuitamente offensive per altri soggetti, che costituiscono quindi una violazione dei diritti di

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questi ultimi e che non contribuiscono in alcun modo al dibattito pubblico” (par. 49). Il secondo argomento è quello dell’assenza di una

27 Garlicki L., Cultural Values, cit..28 Ibid.29 V. sul dibattito in materia di relativismo culturale applicato ai diritti umani Donnelly J. International Human Rights, 3rd ed., Boulder, Colorado 2006.30 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Muller et Al. c. Svizzera, 24 maggio 1988.31Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Otto-Preminger-Institut c. Austria, 20 settembre 1994. comune sensibilità europea rispetto ai sentimenti religiosi: “Come nel caso della morale, non è possibile rinvenire in Europa una concezione uniforme del significato della religione nella società; queste concezioni, addirittura, possono variare anche all’interno di stesso uno stato. Per questa ragione non è possibile formulare una definizione comprensiva di che cosa costituisce una limitazione legittima all’esercizio del diritto a manifestare il pensiero, quando l’espressione è diretta contro i sentimenti religiosi altrui. Un certo margine di apprezzamento deve quindi essere lasciato alle autorità nazionali per accertare l’esistenza e l’estensione della necessità di tale limitazione” (par. 50). Infine, la Corte ritiene che questi sentimenti in alcuni casi possano essere valutati in base a standards puramente locali: “Le Corti austriache… sostengono che il film costituisce un attacco illegittimo alla religione cattolica romana, secondo la concezione del pubblico tirolese …. La Corte non può non considerare il fatto che la religione cattolica romana costituisce la confessione della grande maggioranza dei tirolesi. Nel censurare il film, le autorità austriache hanno agito al fine di assicurare la pace religiosa nella regione…. E non hanno quindi valicato il margine di apprezzamento” (par. 56).Otto-Preminger costituisce certamente il momento più basso nella giurisprudenza del margine di apprezzamento. Come in Handyside, la Corte applica una logica puramente maggioritaria alla protezione dei diritti fondamentali, con in più l’aggravante di individuare la maggioranza a livello locale, e cioè in un contesto necessariamente più omogeneo rispetto a quello nazionale, e nel quale, di conseguenza, gli spazi per le manifestazione di dissenso sono minori.. L’argomento è del tutto analogo a quello sostenuto dalla Corte Suprema bavarese nella controversia sul crocifisso, e dal legislativo dello stesso Land nella legge costruita, come si vedrà successivamente, con l’intento di aggirare la pronuncia della Corte Costituzionale tedesca in materia. In quest’ottica, la protezione della libertà individuale e del pluralismo possono essere soggetti a restrizioni al fine di tutelare la libertà religiosa

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positiva della maggioranza e ad evitare le tensione tra libertà religiosa negativa e positiva.Dopo Otto Preminger, la scure della Corte si abbatte, nel caso Wingrove c. Regno Unito32, in cui la Corte stabilisce che in materia di blasfemia “non è possibile rinvenire per il momento un terreno comune nell’ordine normativo e sociale degli stati membri”. La Corte enfatizza anche l’importanza della natura religiosa delle convinzioni offese: “Mentre vi è un margine limitato per restringere il dibattito politico o il dibattito su questioni di pubblico interesse, il margine di apprezzamento riconosciuto agli stati membri è generalmente più ampio quando essi regolano la libertà di espressione in relazione a materie suscettibili di offendere convinzioni personali nella sfera della morale o, particolarmente, della religione” (il corsivo è mio). La Corte ribadisce poi l’assenza di una concezione europea uniforme del carattere che deve assumere la “protezione dei diritti altrui”, in relazione all’offesa alle convinzioni religiose: “Ciò che causa un’offesa alle persone di una particolare confessione religiosa, varia significativamente da momento a momento e da luogo a luogo specialmente in un’epoca caratterizzata da un crescente numero di fedi e religioni” (par. 58). Pur non escludendo, anche se a questo punto non si capisce a che pro, “la supervisione europea”, la Corte ritiene dunque la decisone delle autorità nazionali non arbitraria né eccessiva (par. 61).

L’applicazione della dottrina del margine di apprezzamento ai casi relativi alla legittimità di indossare il velo islamico produce risultati simili a quelli analizzati più sopra: le minoranze ideologiche e religiose finiscono per pagare un prezzo sproporzionato per l’accomodamento della sensibilità culturale e religiosa maggioritaria. In tutti e sei i casi “sul velo”, infatti, la decisione è stata nel senso dell’accoglimento delle ragioni degli stati, e cioè della legittimazione del divieto di sfoggiare questo simbolo religioso. In tre di questi casi le misure impugnate riguardano il divieto di sfoggiare il velo nelle università turche. Qui, dunque, il problema concerne tecnicamente la libertà religiosa degli appartenenti alla confessione di maggioranza. Questa circostanza non sposta però più di tanto i termini del problema; semmai, lo arricchisce di nuovi elementi, che contribuiscono a

32Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Wingrove c. Regno Unito25 novembre 1996,. svelare il lato oscuro della dottrina del margine di apprezzamento. I musulmani costituiscono la maggioranza in Turchia. Legittimando la restrizione operata dalle autorità turche alla libertà di manifestare la religione islamica, la Corte apparentemente compie dunque un’operazione contraria a quelle effettuate in

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Handyside, Otto Preminger e Windgrove: difende cioè le minoranze ideologiche e religiose dalla pressione maggioritaria. Se però si considera che la popolazione musulmana rappresenta la minoranza all’interno del contesto europeo globalmente inteso, e che l’Islam è percepito in Europa sempre più come un sistema di valori incompatibile con la democrazia occidentale, la costruzione della Corte scricchiola. I giudici di Strasburgo, nel legittimare l’ampiezza del margine di apprezzamento riconosciuto alle autorità turche, assumono questa incompatibilità come un dato di fatto incontrovertibile. La Corte afferma cioè a chiare lettere l’alterità dell’Islam rispetto al modello della democrazia occidentale, la sua incompatibilità con i principi dell’eguaglianza e della tolleranza e quindi la necessità di regolamentare restrittivamente ad esso l’accesso alla sfera pubblica. Inoltre, come tutti sanno, è in corso in Turchia un confronto serrato tra le forze religiose moderate del partito del Primo Ministro Erdogan e il laicismo militante dei Kemalisti, alleati dell’esercito, i quali controllano il sistema giudiziario e specificamente la Corte Costituzionale. Quest’ultima, dunque, non difende le minoranze ideologiche e religiose dalla maggioranza islamica, ma, piuttosto, la posizione privilegiata dell’élite militare, auto-proclamatasi “custode del Kemalismo”. La configurazione del rapporto maggioranza/minoranza in Turchia è dunque più complicata rispetto ad altri contesti nazionali. La maggioranza della popolazione è musulmana, ma le Corti rispondono ad una logica francamente repressiva dell’Islam. Ed è a queste ultime che la Corte di Strasburgo riconosce in termini particolarmente generosi il margine di apprezzamento.Sia in Dahab c. Svizzera33, che in Sahin c. Turchia34, la Corte fonda le proprie argomentazioni sul margine di apprezzamento. In Dahab la Corte non censura la decisione di allontanare dall’insegnamento una maestra a motivo del suo rifiuto di levare il velo. Qui assume un particolare rilievo la tradizione laica del cantone svizzero in cui hanno luogo i fatti e la tenera età degli scolari della ricorrente, che li rende facilmente “impressionabili”. In Sahin, la Corte dichiara legittima la misura turca che vieta alle studentesse di indossare il velo nelle università statali, perchè: “All’interno di una società democratica le opinioni circa il rapporto tra stato e religione possono ampiamente variare. In questo tipo di questioni deve essere dunque riconosciuta una importanza speciale al ruolo degli organi decisionali nazionali. Ciò è particolarmente vero quando la questione verte sulla regolamentazione dello sfoggio dei simboli religiosi nei luoghi di istruzione…. Non è possibile rinvenire in Europa una concezione uniforme del significato della religione nella società…. il significato e l’impatto della manifestazione pubblica delle credenze religiose varia in base al momento e al contesto…. Le regole in questa sfera variano dunque da un paese all’altro in base alle tradizioni nazionali…. Quindi la scelta della forma e

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dell’estensione che devono avere le regole necessarie a garantire i diritti di tutti i soggetti e a tutelare l’ordine pubblico, in questa materia, deve inevitabilmente essere lasciata allo stato, dal momento che essa dipende dal contesto interno….” (Leyla Şahin, Grande Camera, 5-4). Nei due casi francesi del 2008 (Dogru c. Francia35 e Kervanci c. Francia36), la Corte afferma che la laicità è un principio fondamentale e che lo stato deve godere di un ampio margine di apprezzamento nella sfera della rapporto tra lo stato e le confessioni religiose.

1.3. La svolta del caso Lautsi: la Corte EDU protegge i dissidenti dalla tirannia delle maggioranze Con la decisione nel caso Lautsi, tuttavia, la Corte sembra invertire decisamente la propria rotta. Il margine di apprezzamento è nominato in tre occasioni, ma sempre dal Governo

33Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Dahab c. Svizzera, 15 febbraio 2001. Il caso era stato portato precedentemente davanti alComitato dei Diritti Umani durante le considerazioni sul rapporto periodico svizzero: UN Doc CCPR/C/SR 1539 (1997).34 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Leyla Şahin c. Turchia10 novembre 2005.35 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Dogru c. Francia, 5 dicembre 2008.36 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Kervanci c. Francia, 5 dicembre 2008. italiano, nella speranza di sottrarre la disciplina del crocifisso al controllo dei giudici di Strasburgo. Con ciò, la Corte EDU non ignora il contesto interno: al contrario, ricostruisce con precisione la storia dell’obbligo di affissione del crocifisso, nel quadro dei rapporti tra lo stato italiano e la chiesa, e menziona la giurisprudenza costituzionale rilevante, sottolineando in particolare come la Consulta abbia esplicitamente affermato il superamento dell’assetto confessionale dopo il 1985 (punto 25). Dato che l’obbligo di affissione si fonda su di una normativa risalente al 1924 e al 1928, la Corte di Strasburgo non può che sposare la tesi della ricorrente: si tratta di un obbligo che costituisce l’eredità di una concezione confessionale dello stato, la quale collide con il dovere di laicità di quest’ultimo e con i diritti contenuti nella Convenzione (punto 30).

La Corte sottolinea come il Protocollo n. 1 vada interpretato alla luce delle disposizioni della Convenzione, in particolare gli articoli 8, 9 e 10 (punto 47 lett. a).

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Emerge così che il fine del Protocollo è quello di salvaguardare la possibilità del pluralismo educativo, essenziale alla preservazione di una società democratica così come la concepisce la Convenzione. E, nel modello di stato attuale, questo obiettivo si realizza soprattutto attraverso l’insegnamento pubblico. (punto47 lett. b). Le convinzioni dei genitori sono infatti rispettate solo nel quadro di un ambiente scolastico aperto, che favorisca l’inclusione piuttosto che l’esclusione, indipendentemente dall’origine sociale degli scolari, dalle loro credenze religiose o dall’origine etnica. La scuola non deve essere il teatro di attività proselitistiche, ma piuttosto un luogo di incontro tra diverse religioni e convinzioni filosofiche, dove gli scolari possono conoscere le rispettive concezioni e tradizioni (punto 47 lett. c.). Nel contesto dell’insegnamento, solo la neutralità da parte dello stato garantisce il pluralismo (lett. d). Da qui l’obbligo statale di astensione dall’imporre, anche indirettamente, determinate credenze nei luoghi in cui le persone dipendono dallo stato o nei contesti in cui esse sono particolarmente vulnerabili. La scolarizzazione dei bambini rappresenta un settore tra i più sensibili, perché, in questo caso, il potere costrittivo statale è imposto a chi non è dotato ancora della capacità critica sufficiente a poter prendere le distanze dal messaggio che proviene da una scelta preferenziale manifestata dallo stato in materia religiosa. (punto 47 punto 48).

La Corte ricostruisce anche meticolosamente la posizione (francamente suicida) del Governo italiano, il quale fonda la legittimità dell’obbligo di affissione del crocifisso su due argomenti mutuamente escludenti:

- il crocifisso ha un significato culturale ed è idoneo a rappresentare i valori costituzionali, l’identità nazionale, l’eredità storica e il principio di laicità (punti 34, 35 e 40);

- l’obbligo di affissione è legato in Italia alla necessità di realizzare un compromesso politico con i partiti di ispirazione cristiana, che rappresentano larghi settori della popolazione e ne riflettono le convinzioni religiose (punto 42).

Sembrerebbe dunque emergere che l’esposizione del crocifisso non vïola la libertà religiosa, né attenua la portata del principio di laicità, perché questo, nel contesto italiano, impone allo stato di tenere un atteggiamento equidistante rispetto alle convinzioni religiose, ma anche di preferire quella maggioritaria, in virtù di un necessario compromesso politico.

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Come aveva già sostenuto nel caso Karaduman c. Turchia37 , la Corte afferma però che nei contesti in cui la maggioranza appartiene ad una determinata religione, non tutte le manifestazioni della stessa sono accettabili, poiché possono costituire una forma di pressione su coloro che non vi appartengono. (punto 50). E poiché il crocifisso, nonostante le argomentazioni bizantine del governo italiano, può ragionevolmente essere interpretato come un simbolo religioso tale

37 Karaduman c. Turchia (ricorso n.16278/90), decisione della Commissione del 3 maggio 1993. esposizione può turbare le coscienze di coloro che non si riconoscono nel Cattolicesimo, i quali si “sentiranno istruiti in un ambiente scolastico marcato da una determinata religione”. “La libertà négativa non si limita all’assenza di servizi o insegnamenti religiosi, ma si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione, o l’ateismo (punto55). Questo diritto negativo merita una protezione particolare quando è lo stato ad esprimere una credenza e se il soggetto è posto in una situazione da cui non può sottrarsi o può farlo solo a prezzo di un sacrificio sproporzionato38. “Ciò che può essere incoraggiante per alcuni scolari può essere emotivamente disturbante per altri, che non appartengono alla religione di maggioranza. E poiché lo scopo dell’istruzione pubblica è quello di sviluppare nei bambini la capacità di pensare criticamente, in questo quadro lo stato è tenuto ad attenersi al principio della neutralitàconfessionale (punto 56).

La sentenza riecheggia il linguaggio del Tribunale Federale svizzero, il quale, in una decisione del1990, stabilì l’incostituzionalità di un regolamento del comune di Cadro, nel Canton Ticino, che disponeva l’obbligatoria esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole elementari39. La Confederazione Elvetica costituisce un buon termine di comparazione rispetto all’Italia, perché anche nell’ordinamento svizzero la laicità non ha un connotato strettamente neutrale. In Svizzera le confessioni religiose godono di un riconoscimento pubblico e a livello cantonale alle religioni di maggioranza è garantito uno status privilegiato. Nel caso del crocifisso, il Tribunale di Lucerna ha stabilito che l’applicazione della laicità (“neutralità statale”) obbliga la scuola pubblica ad accogliere e rispettare gli individui che hanno convinzioni diverse e a

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intervenire perché essi non percepiscano un sentimento di estraneità rispetto all’ambiente circostante. Quest’obbligo protegge in particolar modo gli alunni che appartengono alle minoranze religiose non riconosciute e tutti coloro che sono atei, agnostici o indifferenti al fenomeno religioso. La conseguenza di questa costruzione è che l’esposizione obbligatoria del crocifisso vïola il principio di laicità, perché, suggerendo che la scuola favorisce la religione della maggioranza, può ingenerare in alcuni alunni, che ad essa non appartengono, la percezione di una interferenza con le loro convinzioni. “E ciò produce nel loro sviluppo spirituale e nelle loro convinzioni religiose esattamente il genere diconseguenza che la laicità intende scongiurare”40.

Il Tribunale di Losanna fa anche riferimento alla teoria del “significato culturale” del crocifisso: “Il fatto che l’autorità decida di far appendere il crocifisso nelle aule scolastiche può essere inteso come attaccamento alla tradizione e ai fondamenti cristiani della civiltà e cultura occidentale. Si potrebbe quindi ritenere che tale decisione… non vïoli il principio di neutralità confessionale dell’insegnamento: essa testimonierebbe unicamente una certa sensibilità dello stato al fenomeno religioso e alla civiltà cristiana”. Il compito dello stato, tuttavia, è quello di garantire la neutralità confessionale della scuola, evitando di identificarsi con una confessione religiosa. Quindi, anche la sola possibilità che “chi frequenta la scuola pubblica veda nell’esposizione del crocifisso la volontà di rifarsi a concezioni della religione cristiana in materia di insegnamento o quella di porre l’insegnamento sotto l’influsso di tale religione” è sufficiente per rigettare la pretesa laicizzazione del crocifisso. Alcune persone si possono sentire “lese nella loro convinzioni religiose dalla costante presenza nella scuola di un simbolo di una religione alla quale non appartengono”, e il dovere di inclusione che incombe sullo stato, gli impone di tutelare questi soggetti, indipendentemente dal significato che la maggioranza attribuisce al simbolo della propria religione.

38 La Corte afferma anche che la presenza del crocifisso non può essere assimilata all’uso dei simboli in contesti storici specifici. Del resto, già in . Buscarini et al c. San Marino[GC], n o 24645/94, CEDH 1999 I la Corte aveva considerato che il carattere tradizionale nel senso sociale e storico, di un testo utilizzato dai parlamentari in occasione di un giuramento non perdesse la sua natura religiosa. (punto 52)

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39 Comune di Cadro c. Bernasconi, Tribunale federale svizzero, I Corte di Diritto Pubblico, 26 Settembre1990.40 Ibid. Analogamente, per la Corte di Strasburgo,. “Il crocifisso ha molti significati, tra i quali quello religioso è predominante” (punto 51), anche in considerazione del fatto che la chiesa cattolica attribuisce ad esso un messaggio fondamentale (punto 53). “La Corte non vede dunque come l’esposizione di un simbolo che può ragionevolmente essere associato al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) possa sostenere il pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione di una società democratica, così come lo assume la Convenzione” e lo riconosce la Corte Costituzionale nel diritto interno (punto 56).

Nel far propria questa costruzione, e rifiutando così di dirimere i conflitti tra maggioranza e minoranze sulla base della dottrina del margine di apprezzamento, i giudici di Strasburgo conquistano finalmente un fisiologico ruolo “contro maggioritario”, il ruolo di una Corte che bilancia la logica democratica maggioritaria, per la salvaguardia dei diritti delle minoranze. Il sistema internazionale di tutela dei diritti, serve infatti precisamente per correggere alcune delle maggiori deficienze della democrazia maggioritaria, in particolar modo fornendo un surplus di tutela alle minoranze. Sono innumerevoli gli studi che testimoniano come gli interessi nazionali (definiti tali da istituzioni controllate dalla maggioranza) finiscano spesso con il prevalere nei sistemi giurisdizionali nazionali41. Rispetto ai giudici nazionali, tuttavia, quelli internazionali si trovano in questo senso in una posizione di notevole vantaggio, non essendo altrettanto sensibili alle pressioni e alle valutazioni che possono influenzare il livello statale42. “Garantire un ampio margine di apprezzamento ad autorità nazionali controllate dalle maggioranze in situazioni di questo genere equivale, dunque, a svuotare di sostanza il sistema internazionale e la sua vocazione a proteggere le minoranze, già svantaggiate dalla logica sottesa alla democrazia maggioritaria”43.

La dottrina del margine di apprezzamento trae la propria giustificazione solo dalle teorie ottocentesche del consenso statale44. La Corte si mostra cioè deferente nei confronti del principio di sovranità e della nozione di sussidiarietà e rispetto alla logica della democrazia nazionale: per imporre agli stati membri della Convenzione nuovi doveri, non trova altro metodo che far leva sul consenso, evitando così di assumere direttamente la responsabilità delle proprie decisioni. Applicando generosamente la dottrina del margine di apprezzamento, la Corte, invece di far leva

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sulla sua “posizione unica di voce collettiva sopranazionale di ragione e moralità”, rinuncia all’imposizione di standard autenticamente internazionali. E vanifica così la propria missione di custode esterno contro la tirannia delle maggioranze45.

I principi che animano il costituzionalismo, e specificamente la protezione dei diritti fondamentali, trovano la propria ragion d’essere solo se nella comunità esiste un pluralismo di fatto, vale a dire se all’interno di essa coesistono concezioni religiose, culturali, ideologiche e filosofiche diverse. In caso contrario, se cioè una società è completamente omogenea perché tutti i suoi membri condividono la stessa concezione della vita buona, il costituzionalismo e le istituzioni in cui esso prende corpo non sono necessari. E ciò perché in questa ipotetica società del tutto coesa “la legislazione dovrà dare luogo a leggi giuste, e la giurisdizione ad applicazioni corrette delle leggi in vigore, in basi ai valori sostanziali cui la comunità politica aderisce…

Le cose si presentano necessariamente in maniera diversa nelle comunità eterogenee, all’interno delle quali coesistono assunzioni normative ed obiettivi divergenti. (Queste) possono presentarsi in una varietà di gradazioni, che vanno dal caso delle società quasi omogenee, a quello delle società talmente divise sui valori sostanziali da far dubitare che vi sia un qualunque terreno comune tra le varie fazioni in

41 Benvenisti E., Judicial Misgivings Regarding the Application of International Norms: An Analysis of Attitudes of National Courts,4 European Journal of International Law, 1993, p.159.42 Benvenisti E., Margin, cit.43 Ibid.44 Ibid.45 Ibid. conflitto”46. Ora, si può forse sostenere che la società italiana rientri nella categoria delle comunità quasi omogenee, caratterizzate cioè da una forte coesione sui valori sostanziali (religiosi), ma non si può certamente negare che all’interno di essa esistano concezioni diverse rispetto a quella maggioritaria. Di qui l’importanza dei congegni antimaggioritari che sono posti a salvaguardia delle minoranze dagli abusi del legislatore interno. La dottrina del margine di apprezzamento, nella sua

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applicazioni massimalista, vanifica l’effettività di tali congegni e risolve la “supervisione europea” in una acritica aderenza alle scelte maggioritarie.

La novità della decisione Lautsi sta dunque nel superamento di questa posizione pilatesca della Corte EDU e della sua tradizionale deferenza nei confronti degli stati nella sfera della libertà religiosa. Una svolta, che, se confermata dalla giurisprudenza a venire, fa sperare che in futuro i diritti delle minoranze religiose ed ideologiche saranno presi davvero sul serio, anche quando la loro tutela impone un ripensamento dei tradizionali assetti nazionali.

2. Il crocifisso in classe e i limiti della tolleranza.

E veniamo ora alla sostanza della questione, e cioè agli argomenti a sostegno dell’illiceità dell’esposizione del crocifisso.

2.1.La sconsacrazione dei simboli e la tolleranza preferenziali sta. La presenza obbligatoria del crocifisso corrisponde ad un modello non pluralista di tolleranza, di cui fornisce una lucida definizione Jaques Derrida: “tolleranza è dire all’altro, da una posizione sopraelevata io ti lascio esistere, ti faccio posto nella mia casa, ma tu non devi mai dimenticare di essere a casa mia…”47.Le radici di questo modello di tolleranza monista vanno ricercate nel processo di secolarizzazione e di transizione al liberalismo degli stati europei. La forma di stato che emerge da questo processo, in opposizione rispetto alle forme del passato, non fa propria una concezione della vita buona legata ad una determinata religione. D’altro canto, questo processo pone però il problema di individuare le basi su cui costruire la nuova identità all’interno della una società secolarizzata. Lo stato-nazione, con la sua enfasi sui caratteri distintivi dell’identità nazionale si àncora alla storia, alla lingua, alla tradizione e alla cultura, ed è la comune identità nazionale a sostituire la religione come fonte di integrazione della polis. Questa rimozione esplicita della religione come collante identitario non preclude però la sua sopravvivenza come pilastro implicito della tradizione e della cultura della nazione secolarizzata. E dal momento che gli stati europei sono tradizionalmente cristiani, è il Cristianesimo a riemergere sotto forma di cultura e tradizione. “Di conseguenza la tolleranza religiosa storicamente viene relegata dal livello delle convinzioni religiose a quello delle tradizioni nazionali, che restano, anche se in modo diverso, permeate dai valori cristiani” 48. I conflitti sul posto dei simboli religiosi nello spazio pubblico offrono un esempio eloquente di come questo "entanglement" tra identità nazionale e eredità cristiana condizioni il modello di tolleranza e

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l'interpretazione delle libertà religiose.

Nelle democrazie consolidate, i conflitti sul “posto” dei simboli della confessione maggioritaria (i crocifissi in Italia, Svizzera e Germania, i Dieci Comandamenti e il Presepe negli Stati Uniti) nascono invariabilmente dalla pretesa secolarizzazione da parte del potere pubblico dei valori, della religione maggioritaria e dall’uso di quest’ultima in chiave di promozione identitaria. Nella quasi totalità dei casi che ho analizzato, e che sono tratti da giurisdizioni molto diverse tra loro, anche sotto il profilo dei modelli di giustizia costituzionale, emergono due elementi comuni. Uno è quello che Alessandro Morelli definisce felicemente come la scelta da parte dell’autorità pubblica dei

46 Rosenfeld M., Interpretazioni. Il diritto tra etica e politica (trad. it.), Bologna, 2000, p. 21.47 Derrida J., Autoimmunity: Real and Symbolic Suicide, in Borradori G., Philosophy in a Time of Terror: Dialogues with JürgenHabermas and Jacques Derrida, Chicago, 2003, pp. 127 s.48 Augenstein D., A European Culture of Religious Tolerance, European University Institute Working Paper LAW 2008/04, p. 7. “significati funzionali alla tesi da dimostrare” e la conseguente relegazione “di tutti gli altri - compreso quello più strettamente confessionale - nel limbo del «solipsismo interpretativo», privo di tutela giuridica e costituzionale”49. Il secondo è l’offuscamento della linea di demarcazione tra laicità e religione, per cui lo stato, da garante del pluralismo confessionale e culturale, diviene parte in causa nei conflitti tra di esse.

Il caso italiano e quello bavarese costituiscono esempio eloquenti di queste tendenze. In entrambi il crocifisso è assunto a simbolo di una non meglio identificata "identità occidentale" o "europea" di cui la cristianità, nella sua versione laicizzata, costituirebbe una radice fondamentale.Nella sentenza del TAR Veneto50, poi confermata dal Consiglio di Stato51, sul caso Lautsi, il giudice coglie “una percepibile affinità ... tra il «nocciolo duro» del cristianesimo, che, privilegiando la carità su ogni altro aspetto, fede inclusa, pone l’accento sull’accettazione del diverso, e il «nocciolo duro» della Costituzione repubblicana, che consiste nella valorizzazione solidale della libertà di ciascuno e quindi nella garanzia giuridica del rispetto dell’altro”. Quindi, nonostante alcuni

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disgraziati incidenti quali "l’inquisizione, l’antisemitismo e le crociate”, Il “nucleo centrale e costante della fede cristiana” si rinviene "agevolmente" (!) nel “principio di dignità dell’uomo, di tolleranza, di libertà anche religiosa e quindi in ultima analisi nel fondamento della stessa laicità dello Stato”(11.6). Sarebbe dunque paradossale escludere nel nome della laicitàproprio il simbolo che ne costituisce la rappresentazione. Al contrario, il crocifisso va esposto,perché simboleggiando i valori fondamentali del patto costituzionale, ha una importante funzione pedagogica per tutti gli scolari, indipendentemente dalla religione che essi professano.Anni prima, nel 199152, argomentazioni analoghe erano state espresse dalla Corte Suprema della Baviera, secondo la quale: “L’affissione del crocifisso o di altre rappresentazioni della croce nelle aule scolastiche delle scuole pubbliche non vïola il diritto fondamentale alla libertà religiosa negativa degli alunni e dei genitori che rigettano tale rappresentazione su base religiosa o filosofica”53. Il simbolo del crocifisso, infatti, non ha di per sé un significato specificamente religioso. “Con la rappresentazione della croce come icona della sofferenza e della autorità di Gesù Cristo… i ricorrenti… si confrontano con una visione religiosa diffusa in cui si afferma il potere formativo delle credenze cristiane.… Rappresentazioni

della croce di questo tipo non costituiscono... l’espressione di una convinzione legata ad una specifica confessione, ma piuttosto un oggetto essenziale della tradizione generale cristiano-occidentale…”. Se ne deve concludere che “la mera rappresentazione di una croce non richiede né l’identificazione con le idee e le credenze che essa incorpora, né alcun’altra forma di comportamento attivo orientato in questo senso”54.Vale la pena di ricordare che gran parte della memoria del governo italiano alla Corte EDU nel caso Lautsi è fondata esattamente su queste argomentazioni, le quali non sono dunque più da considerare solo come gli exploits involontariamente comici di giudici poco versati nelle scienze teologiche, ma anche come la posizione ufficiale di uno stato sovrano davanti ad un tribunale internazionale.

Una democrazia liberale costruita, almeno teoricamente, sugli ideali dell'Illuminismo non può imporre l'obbligo di affissione di un simbolo come il crocifisso senza neutralizzarne, o almeno attenuarne, il significato religioso. E' dunque necessario un processo di disarticolazione semantica55 del crocifisso, che perde così il suo significato specificamente religioso per divenire un simbolo

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49Morelli A., Porciello A., Verità, potere e simboli religiosi, Comunicazione al Convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti su Problemi della laicità agli inizi del secolo XXI, Napoli, 26-27 ottobre 2007, p. 16.50 T.A.R. Veneto, sentenza n. 1110 del 17 marzo 2005.51 Consiglio di Stato, sentenza n. 556 del 13 febbraio 2006.52 Il testo di questa sentenza si può consultare in Neue Zeitschrift für Verwaltungsrecht 11 (1991), pp. 1099-1101.53 Neue Zeitschrift für Verwaltungsrecht, cit., p. 1099.54 Ibid. p. 1101.55 Alessandro Morelli, Simboli, religioni e valori negli ordinamenti democratici, in I simboli religiosi tra diritto e culture (a cura diE. Dieni et al)., Milano, 2006, p. 85. generico di civiltà e di cultura, atto ad essere utilizzato liberamente dallo stato per soddisfare le necessità della comunità politica56. Un uso così apertamente strumentale della confessione di maggioranza appanna però definitivamente la linea di demarcazione tra laicità e religione. Da un lato, lo stato rinunzia a governare la sfera pubblica in armonia con i dettami della ragione pubblica;dall'altro, si ingenera un tasso inaccettabile di interferenza tra fede e Ragione. Correttamente, nella sentenza del 199557 che dichiarò l'incostituzionalità dell'obbligo di affissione del crocifisso in Baviera, la Corte Costituzionale tedesca affermò che “Profanare la croce, attribuendole meramenteil significato di espressione della tradizione occidentale, o di generico segno di culto senza specifiche implicazioni di fede…. significherebbe contraddire l’autocomprensione stessa della cristianità e della chiesa“58.Un argomento del tutto analogo si rinviene anche in una famosa dissenting opinion del giudice Brennan della Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Lynch v. Donnelly59. In quell’occasione, la Corte concluse che la città di Pawtucket, nel Rhode Island, non aveva violato la Establishment Clause includendo un presepe nella sua fiera natalizia, che si teneva nell’area commerciale cittadina. Per Brennan, “Il presepe è stato relegato nel ruolo di un oggetto neutrale che annunzia la stagione delle vacanze invernali, utile per scopi commerciali, ma privo di qualsiasi significato proprio e incapace di valorizzare il contenuto religioso della fiera di cui è parte integrante. La decisione della Corte finisce per incoraggiare l'uso del presepe in una fiera comunale sponsorizzata, e quindi un ambiente dove i cristiani si sentono costretti a riconoscere il suo significato simbolico e i non- cristiani si sentono alienati dalla sua presenza. Sicuramente questo vuol dire fare un uso improprio di un simbolo sacro”60.

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La preoccupazione espressa da Brennan è diffusa anche presso diverse comunità religiose, che reputano l’attribuzione di un significato genericamente culturale al crocifisso contrario al Concilio Vaticano II. In una dichiarazione congiunta di tre comunità missionarie, ad esempio, si legge che “la croce… è un simbolo religioso che interpella tutte le coscienze in tutti i tempi e la si abbraccia nella fede liberamente scelta. Ci sembrano, perciò, particolarmente deplorevoli quelle motivazioni che intendono evidenziare la funzione di "baluardo" della croce nei confronti di altre religioni e di "difesa" dell'identità cattolica del nostro paese. Si tratta chiaramente di un uso strumentale del simbolo religioso con motivazioni che contrastano con i principi della Costituzione italiana (Art. 3) e con il magistero del Concilio confluito nel documento sulla libertà religiosa il quale chiede che "ovunque la libertà religiosa sia munita di una efficace tutela giuridica" affinchè "si instaurino e consolidino relazioni di concordia e di pace" (Dignitatis Humanae 15d)”61.

Riconoscere che il crocifisso, o il presepe, sono i simboli di una determinata confessione non significa, ovviamente, negare la rilevanza della dimensione culturale della religione, ma, più semplicemente, condannarne l’uso strumentale da parte delle autorità pubbliche. Nella sua dissenting opinion sempre nel caso Lynch, il giudice Brennan traccia con chiarezza questa distinzione. “Vi sono casi in cui la dimensione culturale è ovviamente predominante. Ad esempio, l’adozione da parte di un college statale del “Paradiso Perduto” di Milton tra i materiali del corso di letteratura inglese, non ha lo scopo di diffondere o sostenere lo spirito religioso che ha ispirato la stesura di quest’opera, ma piuttosto l’intento di cogliere “le linee del più ampio universo immaginativo che essa ha in comune con altre forme di espressione letteraria”. “Al contrario, gli

56Silvio Ferrari, Dalla tolleranza ai diritti: le religioni nel processo di unificazione, CONCILIUM, 2, 2004, pp. 64, 67.57 Bundesverfassungsgericht, sentenza 16 maggio 1995, 1 BvR 1087/91 (“Kruzifix-Urteil”). Il testo della sentenza è pubblicato inNeue Juristiche Wochenschrift, 38 (1995), pp. 2477-83.58Ibid. p 2479.59 Lynch v. Donnelly, 465 U.S. 668 (1984).60 [465 U.S. 668, 728]61CEM MONDIALITA' - MISSIONE OGGI - MISSIONARI SAVERIANI COMUNICATO STAMPA IN MERITO AL DIBATTITO CIRCA LA

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PROPOSTA DI LEGGE SULL'OBBLIGO DEL CROCEFISSO NEI LUOGHI PUBBLICIhttp://www.ecquologia.it/cms/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=1195 angeli, i pastori, i re magi e il bambino della scena della natività di Pawtucket non possono che essere percepiti come i simboli di un particolare credo religioso. Il fatto che Pawtucket organizzi un’elaborata celebrazione pubblica, che include il presepe in un contesto per altri versi secolare, rafforza la convinzione che la città intende esprimere solidarietà con il messaggio cristiano ed emarginare altre fedi, che non sono giudicate meritevoli di altrettanta attenzione”.La conclusione di Brennan è amara, e difficilmente non condivisibile: insistendo sulla natura meramente tradizionale del messaggio, così ovviamente settoriale, diffuso dall’esposizione del presepe, la Corte compie un clamoroso passo indietro, per tornare al “giorno in cui in cui il giudice Brewer poté arrogantemente dichiarare: ‘questa è una nazione cristiana’”62.

2.2. La laicità post-secolare: la pretesa neutralità del Cristianesimo e il carattere settoriale delle religioni “altre”. Un altro argomento ricorrente negli argomenti a sostegno dell’affissione dei simboli cristiani, è il preteso carattere universalistico del Cristianesimo, che si opporrebbe alla natura settoriale delle altre confessioni.

Nonostante né nel caso italiano né in quello bavarese l’affissione del crocifisso fosse stata contestata da parte di genitori musulmani, entrambe le sentenze si fondano (anche) esplicitamente su di una comparazione tra il Cristianesimo e l’Islam, per concludere che, mentre il primo è radicato nei valori democratici dello stato, il secondo è incompatibile rispetto ad essi. In altri termini, il Cristianesimo diversamente da altre religioni, è assunto come naturalmente inclusivo e trasversale, oltre che strutturalmente radicato nella forma democratica. Per il TAR Veneto “sarebbe ingenuo e inesatto considerare tutte le religioni uguali o simili nel loro nucleo essenziale" (10.1). “Il meccanismo logico dell’esclusione dell’infedele – infatti – è insito in ogni credo religioso, anche se gli interessati non ne sono consapevoli; peraltro, con la sola eccezione del cristianesimo, … il quale considera secondaria la stessa fede nell’onnisciente di fronte alla carità, cioè al rispetto per il prossimo. Ne consegue che il rifiuto del non credente da parte di un cristiano implica la radicale negazione dello stesso cristianesimo, una sostanziale abiura, il che non vale per le altre fedi religiose, per le quali può costituire al massimo la violazione di un importante precetto” (13.3). A quali altre fedi religiose il giudice

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faccia riferimento non è un mistero, dal momento che la sentenza fa poi riferimento ai “problematici rapporti tra alcuni Stati e la religione islamica, i cui esponenti spesso contestano la stessa laicità dello Stato (10.1). Il crocifisso, simbolo del cristianesimo, insomma “non può quindi escludere nessuno senza negare sé stesso”, perché il suo significato è quello dell’accettazione universale e del rispetto per ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da ogni sua credenza, religiosa o meno” (13.4).La Corte bavarese è, se possibile, ancora più esplicita. E per meglio rendere la dicotomia tra cultura (cristiana maggioritaria) che si pretende universale e culture (non cristiane e minoritarie) settoriali, si premura di sottolineare la differenza tra l'affissione del crocifisso nelle scuole “e i casi in cui l’insegnante attraverso determinati comportamenti - e in particolare attraverso l’uso di abiti che attirano l’attenzione (Baghwan) - che indicano senza ambiguità una specifica convinzione religiosa o filosofica, illegittimamente vïola il diritto fondamentale alla libertà religiosa negativa degli alunni e dei genitori”63.Un’analoga certezza circa il carattere universalistico del Cristianesimo, ma non di altre religioni, è stata espressa recentemente dal giudice Scalia durante una procedura orale davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il caso, Salazar v. Buono 64, verte sulla legittimità a norma della Establishment Clause della presenza di una gigantesca croce in un cimitero di veterani. Scalia ha definito come una “conclusione oltraggiosa” l’osservazione dell’avvocato dei ricorrenti, secondo cui “gli unici caduti in battaglia onorati dalla presenza della croce sono i caduti cristiani”. Per Scalia “la croce è il simbolo più comune nei cimiteri”. “Che cosa avrebbe voluto che fosse eretto -così

62Church of Holy Trinity v. United States, 143 U.S. 457, 471 (1892).63 Neue Juristiche Wochenschrift , cit. p. 1101.64 Ken L. Salazar et al., v. Frank Buono, No. 08-472, October 7, 2009, oral argument. Scalia ha apostrofato l’avvocato- Una croce----un qualche conglomerato di una croce, una stella di David, e, dica lei, una mezza luna musulmana?” 65. La reazione disarmante dell’avvocato (“Io sono stato in alcuni cimiteri ebraici. Non c'è mai una croce sulla tomba di un Ebreo") ha provocato un moto di ilarità nella sala dell'udienza66 e l’imbarazzo del Chief Justice Roberts, che si affrettato a cambiare argomento.

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Come nel caso italiano e in quello bavarese, tuttavia, gli argomenti del giudice Scalia non sono da prendere alla leggera, perché testimoniano un tentativo di riconquista dello spazio pubblico da parte delle religioni di maggioranza, con il definitivo superamento della concezione del principio di laicità, inteso come atteggiamento non preferenzialista rispetto alle diverse confessioni religiose e alle manifestazioni non religiose della coscienza. Una nozione della laicità sempre più spesso soggetta ad attacchi. In italia si parla di una nuova declinazione della laicità, che viene definita “sana”, “giusta”, o “positiva”, senza che sia meglio specificato in che cosa esattamente consistano queste caratteristiche, che la “vecchia” laicità non potrebbe più vantare. Quello che emerge con certezza, però, è che la laicità “sana” e “giusta” non pone tutte le concezioni religiose e non religiose sullo stesso piano. Nell’intento dichiarato di fornire un antidoto alla deriva relativistica che colpisce l’Occidente nell’era della globalizzazione, i fautori della “nuova” laicità chiedono allo stato il “riconoscimento pubblico” del patrimonio religioso nazionale. Detto altrimenti, chiedono che “sia riconosciuta e protetta in modo particolare, cioè non come una tra le molte forze spirituali presenti nella società, ma come un “patrimonio civile” speciale, la «religione nazionale storica» e che questa sia riconosciuta non (solo) quale espressione di un diritto fondamentale della coscienza,ma quale fattore di coesione civile”67. Ne segue la pretesa a nuove forme di bilanciamento, “che riconoscano la legittimità di trattamenti speciali a favore della «religione dell’identità» e, per il resto, la semplice tolleranza”68.

Questa costruzione è viziata da un fondamentale difetto concettuale, e cioè la considerazione degli essere umani solo in base ad un’unica affiliazione, nonché da un errore storico, che consiste nel trascurare le fondamentali interrelazioni tra civiltà, che vengono presentate come irrimediabilmente separate e distinte le une dalle altre69. Le differenze religiose, nella loro versione laicizzata e politicizzata, vengono elette a caratteristica fondamentale delle divergenze tra culture, così trascurando l’eterogeneità delle affiliazioni religiose che è propria della stragrande maggioranza degli stati e della totalità delle civiltà70. Che questa laicità, che si fonda sull’uso primario dell’appartenenza religiosa per classificare gli essere umani, sia effettivamente una laicità “nuova” non è poi affatto certo. Gustavo Zagrebelsky la definisce felicemente una “pallida reincarnazione del passato, una sorta di “semi-laicità” che rappresenta ciò che rimane dell’antico sogno della “repubblica cristiana” che inconsapevolmente si appoggia sull’opposto del principio di Westfalia: cuius religio, eius et regio”71. E’ dunque una laicità che si può definire “post-secolare”, perché combatte l’equidistanza dello Stato dalle manifestazioni della coscienza, religiose e non religiose,

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per imporre nuove forme di confessionalizzazione degli spazi. Nell’ottica della laicità post-secolare, lo stato abdica al suo ruolo di garante imparziale del pluralismo, di “osservatore esterno” delle diverse concezioni del bene presenti nella società, e si cala apertamente nel conflitto tra di esse, assumendone una come superiore. Così, non fa che accentuarsi quel processo di scolorimento della linea di demarcazione tra laicità e religione a cui ho già fatto riferimento. Lo stato “semi-laico” associa sé stesso, il proprio apparato, i propri fondamenti alla religione secolarizzata, e così “ripropone un’alleanza tra religione e potere pubblico, dove la forza etica dell’una è chiamata a

65 Ibid. p. 39.66 Ibid.67 Zagrebelsky G., Stato e chiesa. Cittadini e cattolici, in Passato e Presente, 73, 2008, p. 16.68 Ibid., p. 17.69 Sen A., Identità e violenza (trad. it.), Roma, 2006, pp. 60 ss.70 Ibid.71 Zagrebelsky G.,op. cit., p. 18.

sorreggere la forza politica dell’altro, e viceversa”72. Le conseguenze in termini di esclusione e di discriminazione delle minoranze ideologiche e religiose non sono certamente né “sane”, né “giuste”. La “nuova” laicità produce la legittimazione delle agevolazioni economiche alla Chiesa cattolica, la partecipazione

istituzionale delle autorità religiose alle cerimonie civili, “l’enfatizzazione nella sfera civile delle cerimonie religiose… la loro spettacolarizzazione e, quindi, l’omologazione concettuale e culturale del momento religioso pubblico e di quello civile”73 . Produce, naturalmente, anche, la secolarizzazione dei simboli del cattolicesimo e la loroimposizione nello spazio pubblico condiviso.

2.3. La dicotomia Cristianesimo-Islam e la costruzione di un nuovo nemico oggettivo. L'imposizione dei crocifissi ad opera dello stato riflette, infine, una costruzione dicotomica tra Cristianesimo ed Islam, che struttura il primo come una componente del patrimonio democratico, ed il secondo come un "altro" irrimediabilmente inconciliabile. In fondo, si tratta della versione contemporanea degli antichi miti orientalistici: il crudele maomettano di ieri si è trasformato nelle

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società postmoderne in un fondamentalista illiberale, violento e sessista, e potenzialmente in un dirottatore di aerei. Vari sondaggi condotti tra il 2004 e il 2006 indicano come la maggioranza degli Europei guardi agli Islamici “con sospetto”, sia “preoccupata dal loro fondamentalismo”, ritengache essi abbiano un forte senso dell’“identità islamica” e “non desiderino integrarsi”74. Un gran numero di Europei ed Americani, poi, è convinto che sia effettivamente in atto uno “scontro di civiltà” e che “l’Islam sia una religione più fanatica di tutte le altre”. Un Americano su quattro, inoltre, afferma di non volere un vicino di casa musulmano, il che è particolarmente preoccupante, perché significa che, oltre a ritenere che lo scontro di civiltà sia in atto, una buona percentuale di persone si comporta di fatto come se ciò fosse vero75. Per contro, il Pew Survey del 2006 indica che la maggioranza degli Islamici residenti in Europa non crede nello scontro di civiltà e tende ad associare agli “occidentali” qualità positive, quali la tolleranza, la generosità ed il rispetto nei confronti delle donne76.I media sono in gran parte responsabili della diffusione di questa visione statica e fondamentalista dell’Islam. Per esempio, da uno studio condotto su di un campione di mille film hollywoodiani, in cui comparivano personaggi arabi o musulmani, emerge che dodici di essi erano personaggi positivi, cinquantadue né positivi né negativi e i restanti novecentotrentasei erano caratterizzazioni nettamente negative, rispondenti a stereotipi quali lo sceicco poco intelligente che brutalizza o tenta di brutalizzare le donne occidentali, il beduino crudele sul suo cammello o, prevedibilmente, il terrorista dirottatore di aerei77. Lo stesso vale per le spy stories (a partire da James Bond) e per i fumetti per bambini, come Superman e Spiderman, in cui alle temibili spie dell’Est si sono sostituiti di recente i non meno crudeli e pericolosi terroristi medio-orientali78. In tutta Europa, i musulmani sono divenuti la comunità più vulnerabile rispetto a manifestazioni dipregiudizio e di odio, che vanno dalle aggressioni verbali a quelle fisiche nei confronti delle personee della proprietà. Nel luglio del 2008, il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, ha denunciato il “misto di islamofobia e razzismo … diretto contro gli immigrati musulmani e i loro figli”, come “una tendenza che è aumentata considerevolmente dopo l’11 settembre e le risposte dei governi agli attacchi terroristici. Si sono avute aggressioni fisiche nei confronti di persone musulmane, e molte sono state le moschee vandalizzate e bruciate in vari

72 Ibid., p. 19.73 Ibid., p. 17.

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74 Muslims in the European Union : Discrimination andIslamophobia, 2006:

<http://eumc.europa.eu/eumc/material/pub/muslim/Manifestations_EN.pdf>.75 Bottici C., Challand B., Islam and the European Public Sphere: a Challenge?, paper presentato al seminario su “Religion in theEuropean Public sphere: A Secular Dilemma?” tenutosi all’Istituto Universitario Europeo nel giugno 2008.76 Muslims in the European Union, cit.77Bottici C., Challand B., op. cit.78 Ibid. paesi.”79.La lingua utilizzata nelle sentenze sui crocifissi è ovviamente ricettiva rispetto all'islamofobia dilagante.Il TAR Veneto, ad esempio, fa esplicito riferimento alle due principali angosce che popolano gli incubi di milioni di Occidentali dopo il trauma dell’11 settembre: lo scontro di civiltà e la minaccia del fondamentalismo islamico. “Il simbolo del crocifisso –vi si afferma- assume oggi, con il richiamo ai valori di tolleranza, una valenza particolare nella considerazione che la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari, ai quali risulta.. importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità

e di rifiuto di ogni integralismo…”(12.6). Inoltre, poiché l’epoca attuale appare caratterizzata da un “tumultuoso incontro con altre culture”, il giudice ritiene “indispensabile riaffermare anche simbolicamente (attraverso l’esposizione del crocifisso) la nostra identità”, “per evitare che esso si trasformi in scontro” (12.6).La sentenza della corte bavarese, come si è visto più sopra, sottolinea la differenza tra il crocifisso e gli abiti degli insegnanti “che indicano senza ambiguità una specifica convinzione religiosa (Baghwan)”. Questa dicotomia è stata ulteriormente rafforzata –e candidamente esplicitata- non solo in Baviera, ma anche in altri quattro Länder tedeschi, da leggi adottate recentemente per regolamentare l’uso dei simboli religiosi da parte dei pubblici dipendenti e, in particolar modo, degli insegnanti. Queste leggi vietano lo sfoggio dei simboli “esotici”, ma non di quelli cristiani, perché questi ultimi, non sono solo compatibili con la neutralità dell’impiego pubblico, ma ne costituiscono addirittura elementi strutturali. Per contro i simboli islamici sono indice di convinzioni che possono essere avvertite come non neutrali, o francamente contrarie al carattere democratico dello stato. Ad esempio, la legge del Hessen obbliga i pubblici

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dipendenti a “condursi in modo neutrale sotto il profilo politico, ideologico e religioso” e vieta loro di “indossare o usare abiti, simboli o altri oggetti che obiettivamente possono minare la fiducia pubblica nella loro gestione neutrale dell’ufficio o mettere a repentaglio la pace politica, religiosa o ideologica”. Tuttavia, “nel decidere se (tali) requisiti sono soddisfatti, … deve essere presa in considerazione la tradizione cristiana e occidentale del Land”. In Baviera il divieto posto agli insegnati di “indossare abiti e simboli che esprimono un credo religioso o ideologico” è giustificato dalla necessità di “evitare che gli alunni o i genitori possano interpretare tali simboli o abiti come espressioni di un atteggiamento che non è compatibile con i principi fondamentali della Costituzione, inclusi i valori educativi e culturali cristiano-occidentali”. La costruzione, se è possibile, è ancora più rozza, ma sostanzialmente non diversa da quella a cui giungono i giudici del TAR italiano: “neutralità” coincide con “Cristianesimo”, “antisistemicità” con “Islam”.

Pur senza giungere a manifestazioni così esplicite di razzismo culturale, molte decisioni relative alla legittimità della sfoggio dei simboli islamici nella scuola pubblica si fondano sulla dicotomia Cristianesimo/democrazia contro Islam/fondamentalismo. In alcuni casi, come quelli decisi dalle Corti svizzere (Dahab80) e dalla Corte di Strasburgo (Dahab81, Şahin82), si fa riferimento a principi- cardine specifici, come l’eguaglianza di genere, che i simboli minoritari metterebbero a repentaglio, oppure alla possibilità che la loro ostentazione “impressioni” i soggetti più deboli dell’ordinamento o si traduca in forme di pressione nei loro confronti, nel senso di conformarsi al loro uso. Nel caso inglese di Shabina Begum, la House of Lords legittima la decisione da parte di una scuola di “scegliere” quale abbigliamento islamico sia compatibile con i principi che animano la missione educatrice della scuola, ed i valori che essa deve trasmettere agli alunni, e quale invece non lo sia83.

79 <http://www.coe.int/t/commissioner/Viewpoints/080721_en.asp>80 La decisione delle autorità svizzere è citata nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Dahab c. Svizzera, 15 febbraio 2001.81 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Dahab c. Svizzera, 15 febbraio 2001.82 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Leyla Şahin c. Turchia, 10 novembre 2005.83 [2006] 2 WLR 719; [2006] UKHL 15. Su questa pronuncia cfr. Mancini S., La Camera dei Lords sul caso di Sabina Begum, inQuaderni costituzionali, 3, 2003.

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Insomma, i simboli maggioritari possono essere imposti nello spazio pubblico perché la versione laicizzata dei valori cristiani che essi rappresentano si fonde con le tradizioni culturali e i valori che sono riflessi nell’identità nazionale e costituzionale (democratica), mentre i simboli delle minoranze islamiche debbono essere esclusi o regolamentati restrittivamente, perché rispecchiano concezioni inconciliabili con i principi dello stato democratico, e in particolare con i diritti dell’uomo. Se ne deduce che mentre il cristianesimo ne costituisce un fondamento, l’Islam è incompatibile con la democrazia.

Stabilendo un’identità di massima tra valori cristiani e civiltà occidentale, in particolare con il riferimento alla tolleranza come monopolio dell’identità cristiano-occidentale, si finisce però per allinearsi con i teorici dello “scontro di civiltà”, come Samuel Huntington. Nell’ottica di quest’ultimo, la tolleranza viene considerata una caratteristica strutturale dell’Occidente, che si estende anche alla sua storia passata: “L’Occidente era l’Occidente molto prima di essere moderno”, grazie alla sua “tradizione di diritti e libertà individuali assolutamente senza eguale tra le società civili”84. In realtà, come afferma Amartya Sen, si tratta di tesi molto difficili da sostenere: “La tolleranza e la libertà fanno sicuramente parte delle grandi conquiste dell’Europa moderna…, ma vedere una linea di demarcazione, risalente a millenni or sono” è insostenibile. “La difesa della libertà politica e della tolleranza religiosa, nella loro forma compiuta attuale, non è prerogativaantica di nessun paese o civiltà nel mondo. Il pensiero di… Tommaso d’Aquino non era meno autoritario di quello di Confucio”. I paladini della tolleranza sono esistiti anche in altre culture85, come, ad esempio, quella indiana. Si pensi all’imperatore Ashoka, che nel III secolo A.C. stabiliva il principio per cui “le sette altrui meritano tutto il rispetto”, e all’analogo precetto adottato secoli dopo, mentre l’Europa dell’Inquisizione bruciava gli eretici, dal Gran Mogul Akbar: “Che nessunosi intrometta nelle faccende altrui in riferimento alla religione e che a ciascuno sia consentito di accostarsi alla religione che gli aggrada”86.L’uso in chiave antagonistica della religione e della laicità, ripropone poi una rivisitazione del binomio schmittiano amico-nemico, l’individuazione di un’identità collettiva omogenea che si oppone agli outsiders, ai quali chiede forzatamente di adeguarsi, accettando di condividere, anche visivamente, i valori maggioritari, pena il divieto o la limitazione dell’accesso alla sfera pubblica. Non importa che ciò avvenga attraverso l’imposizione indiscriminata del dovere di “studiare sotto la croce” oppure di studiare “a testa scoperta”. In entrambi i casi la democrazia si allontana dal modello “costituzionale”, il quale, nella lucida

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definizione che ne dà Marina Lalatta, “non si concentra sul contenuto delle ragioni sostenute dalle parti, e giudica implicitamente instabili e incerte le motivazioni che intervengono nel processo deliberativo. Decisiva è piuttosto la condivisione, lo scambio costante, il movimento della discussione dall’esito non prestabilito e non legato al riconoscimento della superiorità di una delle parti, esclusivamente basato sulla ponderazione quantitativa della forza”87.Esattamente come nella classica dialettica antisemita, le paure associate alla sicurezza e alla stabilità vengono canalizzate in un discorso strutturato in termini di “civiltà contro barbarie”, nel quale l’equazione tra tradizione religiosa e identità gioca un ruolo fondamentale. In entrambi i casi, infatti, la differenza religiosa (nella sua versione patologizzata) diventa l’elemento primario per la costruzione del nemico. Dal “complotto ebraico” alla minaccia del terrorismo islamico, possiamo individuare il medesimo processo di emarginazione, esclusione e, infine, di colpevolizzazione di una minoranza che finisce per divenire un “nemico oggettivo”. William Connolly, del resto, dopo gli attentati dell’11 dicembre, aveva preconizzato il risorgere di un nuovo “Maccartismo… che connette la sicurezza interna ad una versione escludente della tradizione giudaico-cristiana”88.

84 Il pensiero di Huntington è riportato da Sen A., op. cit., pp. 50 s.85 Sen A., op. cit., pp. 50 s.86 Ibid., p. 52.87 Lalatta Costerbosa M., Diritto e potere, in La Torre M., Scerbo A., Una introduzione alla filosofia del diritto, Cosenza, 2003, p.183.88Connolly W. E., Pluralism, Durham/London, 2005, p. 6. 3. Conclusioni: gli Italiani possono scegliere di non dirsi cristiani

La relatrice della sentenza Lautsi, la giudice belga Françoise Tulkens, è l’autrice della opinione dissenziente della Corte nel caso Sahin, menzionato più sopra. In quell’occasione, come è ben noto, la Corte EDU giudicò il divieto di portare il velo nelle università turche, in applicazione del principio di laicità, compatibile con la Convenzione. “L’espulsione subita da Leyla Sahin in nome della laicità e della eguaglianza” assomiglia, nell’ottica della giudice Tulkens, ad una misura che risponde di più ad un’ottica fondamentalista che ad una democratica. “Escludendo in nome della tolleranza, si rischia di perdere la possibilità di educare le giovani generazioni alla tolleranza, di radicalizzare i conflitti e di ritornare ad un sistema parallelo di istruzione privata religiosa”. L’intolleranza produce intolleranza,

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dunque, “Il messaggio che non bisogna stancarsi di ripetere è che il sistema migliore per prevenire e combattere il fanatismo e l’estremismo è supportare i diritti umani” (op. diss., 20). La giudice belga ritiene infatti che la democrazia presupponga l’armonizzazione e non la collisione tra i principi della laicità, dell’eguaglianza e della libertà. “Non è sufficiente affermare che il principio di laicità è necessario per proteggere la democrazia in Turchia, perché anche la libertà religiosa è un principio fondamentale delle società democratiche” (op diss., 5).La sentenza Lauti, come la sua relatrice, non è animata da un intento di neutralizzazione della sfera pubblica. Piuttosto, la preoccupazione della Corte è che la scuola pubblica garantisca le condizioni di base per rispettare il pluralismo. E il pluralismo promuove unicamente le condizioni di eguale libertà e dignità delle concezioni morali o religiose degli individui e dei gruppi, e non privilegia quindi nessuna concezione relativa. Si creano così le premesse per la realizzazione di una società aperta e democratica, che, nelle belle parole della Corte Costituzionale sudafricana, “accoglie tutti ed accetta le persone così come sono. Penalizzare le persone per chi e ciò che sono è profondamente irrispettoso della personalità umana e lesivo dell’eguaglianza. Eguaglianza significa eguale considerazione e rispetto attraverso la differenza. Il rispetto dei diritti umani implica l’affermazione e non la negazione di sé stessi. L’eguaglianza quindi non implica un livellamento od omogeneizzazione del comportamento, o il decantare una forma come suprema, e un’altra come inferiore, ma il riconoscimento e l’accettazione della differenza”. Nessuna costituzione dovrebbe accettare l’idea di supremazia di un gruppo, di una razza, di un sesso, di una cultura, di una religione, di un orientamento sessuale, e dovrebbe invece “riconoscerei le variabilità degli esseri umani (genetiche e socio-culturali), affermare il diritto ad essere diversi e celebrare la diversità della nazione”89.Gli Italiani, semplicemente, non sono tutti cristiani, e non solo per il fatto che alcuni di essi hanno tradizioni religiose diverse, ma anche perché sono individualmente dotati del libero arbitrio e possono dunque scegliere di non essere cristiani, e anche di rifiutare attivamente ed esplicitamente la cristianità in tutte le sue declinazioni, radici culturali comprese. Le identità non sono monoliti dai confini-frontiere tracciati una volta per tutte, ancorati alla propria storia e insuscettibili di trasformazione e quindi strutturalmente disposti allo scontro piuttosto che al confronto90. Ingessare gli Italiani all’interno di un’identità collettiva statica e immutabile, li trasforma in una “comunità di destino”, unificata da un patrimonio culturale-religioso. Il rischio insito in questa logica è che l’Italia, l’Europa, e il mondo intero, divengano, nelle parole di Amartya Sen, nulla più che “un insieme di religioni (o di “civiltà” o di “culture”), ignorando le altre identità che gli individui possiedono e che giudicano importanti,

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legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale e alla politica”91. Le relazioni interpersonali finiscono così per essere considerate unicamente in termini di “rapporti tra gruppi, come amicizia o dialogo fra civiltà

89 Constitutional Court of South Africa. Case CCT 60/04 Fourie and Another v. Minister of Home Affairs and Others, 2005 (3) SA429 (SCA).90 Habermas J., Lotta per il riconoscimento nello Stato democratico di diritto (trad. it.) in Habermas J., Taylor C. H.,Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, 1998, pp. 63 e ss.91Sen A., Identità e violenza, (trad. it.), Roma-Bari, 2006, p. XIV dell’Introduzione.

o comunità religiose”, il che provoca la suddivisione degli individui “in tanti piccoli contenitori”92. “La stessa persona –continua Sen- può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, progressista, femminista… ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona. L’inaggirabile natura plurale delle nostre identità ci costringe a prendere delle decisioni sull’importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni contesto specifico”93. “Trascurare la pluralità delle nostre affiliazioni e la necessità di una scelta razionale” –avverte Sen- “rende più cupo il mondo in cui viviamo”94.“A promuovere la violenza è (infatti proprio) la coltivazione di un sentimento di inevitabilità riguardo a qualche presunta identità unica, spesso belligerante che noi possederemmo che apparentemente pretende molto da noi… L’imposizione di una presunta identità unica spesso è una componente fondamentale di quell’arte marziale che consiste nel fomentare conflitti settari”.

Questo, mi sembra, è il messaggio della Corte di Strasburgo: lo stato laico non può imporre identità precostituite e omnicomprensive, e deve offrire un ambiente includente a tutti, specialmente a chi è più vulnerabile, come i bambini. E per questo non può dar adito al sospetto di preferire una religione rispetto alle altre o all’assenza di religione, attraverso l’affissione di simboli che, per lo meno plausibilmente, possono essere ad essa associati.

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La decisione della Corte di Strasburgo non è certo una mosca bianca nel panorama comparato. Come si è visto, non è mai avvenuto, in una democrazia consolidata, che una corte di ultima istanza abbia affermato la liceità dell’esposizione dei simboli di maggioranza nella scuola pubblica. La Corte Costituzionale tedesca, il Tribunale Federale svizzero, la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno escluso senza appello la possibilità di affiggere a scuola i simboli della cristianità.Certo, esiste la soluzione bavarese, da alcuni auspicata, e cioè la soluzione di obbligare le scuole all’affissione del crocifisso, salvo individuare specifici compromessi nel caso qualcuno protesti95. Non è però una soluzione giusta, anche solo semplicemente perché pretende un sacrificio sproporzionato da parte dei singoli dissidenti, che devono sfidare la volontà delle maggioranze per ottenere il rispetto dei propri diritti. Non è una soluzione giusta, anche perché va letta insieme alla legge, summenzionata, che vieta agli insegnanti il velo islamico, ma ammette gli abiti delle suore, e alla sentenza che l’ha dichiarata legittima, sulla base del “pericolo” insito negli abiti islamici per la trasmissione dei valori alle giovani generazioni96.

92Ibid.93Ibid., p. IX .94Ibid., p. XI.95 Nel 1995, la Corte Costituzionale tedesca stabilì che l’incostituzionalità dell’articolo 13.13 della legge bavarese che obbligava all’esposizione della croce nelle aule della scuola dell’obbligo (1 BvR 1087/91, d.d.“Kruzifix-Urteil”). Con l’ovvio intento diaggirare il disposto di questa sentenza, il legislativo bavarese ha adottato un nuovo atto, il quale “in considerazione della connotazione storica e culturale della Baviera” obbliga ad esporre il crocifisso in tutte le aule. Se tuttavia qualcuno obietta “perragioni serie e comprensibili inerenti alla fede o a una visione del mondo”, il preside della scuola deve condurre un procedimento di conciliazione. Se non si raggiunge nessuna soluzione, il preside deve ricercare una soluzione ad hoc che rispetti la libertà religiosadel dissenziente, realizzi un bilanciamento tra le convinzioni ideologiche e religiose di tutta la classe e, come se non bastasse, prenda anche in considerazione la volontà della maggioranza (Art. 7, Bayerische Gesetz über das Erziehungs und Unterrichtswesen,

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BayEUG). L’ambiguità di questa procedura è emersa chiaramente quando una scuola e, successivamente, la corte amministrativa della Baviera hanno rigettato le obiezioni dei genitori di uno scolaro, definendole “pretestuose e polemiche” ed affermando chel’ateismo della famiglia non costituisce un motivo serio per obiettare all’esposizione del crocifisso. In ultima istanza la CorteSuprema Amministrativa (Bundesverwaltungsgericht) ha accolto invece le argomentazioni dei genitori dissenzienti, affermando che la libertà di coscienza include anche quella di non credere (Bundesverwaltungsgericht, sentenza n. 21/1999, 21 aprile 1999)...96 Con la sentenza del 15 gennaio 2007l a Corte bavarese fa leva sulle disposizioni della locale Costituzione, per affermare che iriferimenti alla cristianità non coincidono con i contenuti di fede delle singole confessioni cristiane, ma con i valori che, seppur radicati nel Cristianesimo, sono ormai divenuti patrimonio comune della civiltà occidentale. La Corte sottolinea inoltre che la libertà religiosa incontra dei limiti, costituiti dai diritti degli altri soggetti dell’ordinamento e dai “valori” costituzionali, che gli insegnanti hanno il dovere di trasmettere agli alunni. Spetta quindi al legislatore effettuare un bilanciamento, per realizzare “un equilibrio tra i valori costituzionali confliggenti”, attraverso l’individuazione della “posizione costituzionale cui spetta maggior peso”. Questa, prevedibilmente, coincide, nel caso in esame, con l’esigenza di tutelare gli obiettivi educativi e “la trasmissione credibile dei valori Dal razzismo culturale bavarese, al sogno originalista di Scalia, l’imposizione della croce nella sfera pubblica non risponde ad una logica laica e pluralista. Dalle reazioni scomposte alla sentenza di Starsburgo e dalle pulsioni che questa ha fatto emergere, l’Italia sembra purtroppo intenzionata ad allinearsi con i primi e non con la seconda.

Susanna Mancini

fondamentali” dal “pericolo” ingenerato dagli abiti degli insegnanti che ne marcano visibilmente l’orientamento religioso non cristiano. Se ne deduce che i segni cristiani eventualmente esibiti dagli insegnanti sono ammissibili perché simboleggiano la cultura “cristiano-occidentale”, mentre i segni religiosi non cristiani

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rappresentano (dis)valori in grado di mettere a repentaglio l’insegnamento dei principi fondamentali.

Lautsi II: la rivincita della tolleranza preferenzialista

di Susanna Mancini

L’unica cosa buona della sentenza Lautsi è l’opinione dissenziente del giudice Malinverni. Per il resto, la Corte EDU dà con questa decisione una delle prove più penose della sua storia. Concentro le mie osservazioni su due profili: l’uso incoerente del margine di apprezzamento (nominato 28 volte, un dato di per sé imbarazzante) e la confusione tra laicità dello stato e libertà religiosa individuale.La dottrina del margine di apprezzamento risponde, teoricamente, all’esigenza di conciliare universalismo e diversità. Dovrebbe cioè presiedere ad un’applicazione di standard universali di tutela dei diritti rispettosa dei contesti normativi e culturali degli stati membri della Convenzione. Si tratta di un’alchimia delicatissima, a cui la Corte dovrebbe giungere dopo un’attenta valutazione di più fattori: la natura del diritto e del dovere statale, le circostanze esterne, la gravità della violazione ecc. In pratica la Corte, specie quando è in gioco la libertà religiosa, fa dipendere l’estensione del margine di apprezzamento dall’esistenza o

meno del consenso, cioè da quanto il dirittoin questioneè omogeneamente strutturato in Europa. Maggiore l’omogeneità, minore il

margine di apprezzamento.Il margine di apprezzamento suppone che le autorità nazionali siano in una posizione migliore rispetto alla Corte per applicare la Convenzione armoniosamente rispetto al contesto interno. La logica è pericolosa, perché, rispetto ad una Corte esterna, le “autorità nazionali” sono più sensibili alla cultura

maggioritaria, mentre i diritti sono fondamentalmente contro-maggioritari, dato che le maggioranze dispongono già dello strumento legislativo per soddisfare i propri bisogni e desideri. Dunque, nell’applicare il margine di apprezzamento, la Corte dovrebbe essere molto cauta quando individua le “autorità nazionali” a cui riconoscerlo. Ora, anche i più intransigenti sostenitori della legittimità dell’affissione del crocifisso ammetteranno che la giurisprudenza interna è divisa. La Corte EDU, dunque, nonostante affermi il contrario, prende posizione in una disputa tra giurisdizioni interne, schierandosi con i giudici amministrativi. La Corte, è vero, deve giudicare solo sulla compatibilità

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dell’affissione del crocifisso con la Convenzione. Nel riconoscere però un ampio margine di apprezzamento alle autorità nazionali, la Corte implicitamente afferma il dovere di queste ultime di agire nel rispetto del sistema interno. Le autorità nazionali, infatti, sono in una posizione di vantaggio perché conoscono il sistema interno, la cultura giuridica, i valori che ne sono alla radice. Non a caso, quando la Corte

concede un ampiomargine di apprezzamento, fasempre riferimento a caratteristiche del sistema interno, che giudica

compatibili con la Convenzione, e che giustificano la limitazione del diritto in questione. Per esempio, sia in Dahab che in Sahin, che in Dogru, la Corte, nel legittimare il divieto apposto, rispettivamente, dalla Svizzera, dalla Turchia e dalla Francia, all’uso del velo islamico, fa abbondantemente leva sulla particolare importanza della laicità in quegli ordinamenti, definendola una pietra angolare del sistema, e un principio fondamentale che tutti debbono rispettare. Quindi è implicito nella dottrina del margine di apprezzamento che le autorità interne agiscano in difesa, ma anche nel rispetto, del particolare contesto nazionale. Nel caso italiano non è affatto pacifico che l’affissione del crocifisso –che la Corte EDU, in un inconsueto guizzo di lucidità, chiarisce essere un simbolo religioso e non culturale- sia compatibile con l’accezione di laicità come equidistanza, elaborata dalla Corte Costituzionale, cioè l’unico organo deputato ad interpretare la Costituzione. L’affissione del crocifisso è una questione delicatissima, che investe la stessa autocomprensione dello stato italiano e la sua autonomia morale e politica rispetto alla Chiesa. La Corte EDU è entrata come un elefante in una cristalleria, lasciando il campo non ad una soluzione condivisa dalle autorità italiane, ma ad una lettura confessionale della laicità che consente la strutturazione del privilegio della Chiesa Cattolica. In questo senso, Lautsi non è una decisione pilatesca, né tantomeno minimalista –nel senso che Cass Sunstein attribuisce al minimalismo giudiziario- perché la Corte EDU, trincerandosi dietro il margine di apprezzamento, decide, schierandosi nettamente con una parte della società, della politica, della magistratura italiana, contro un’altra, e non certamente solo contro la pretesa della signora Lautsi.La Corte non è in grado di separare i significati storici, filosofici ed ideologici della laicità dalla sua funzione in un sistema costituzionale, che è quella di metodo. La laicità dello stato, cioè, per quanto possa tradursi in modelli diversi di gestione del rapporto tra stato e religione, non può essere posta sullo stesso piano dell’ateismo della signora Lautsi. La laicità statale deve servire ad assicurare che i processi decisionali riflettano un pluralismo di vedute e non invece concezioni particolaristiche, comprese quelle maggioritarie. La laicità non è quindi “una

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concezione tra tante.” La Corte pone sullo stesso piano la protezione dei simboli religiosi da parte dello stato e la difesa delle convinzioni filosofiche della ricorrente, affermando il dovere statale di rispettare queste ultime, ma anche che il rispetto varia da caso a caso, a seconda dell’esistenza o meno del consenso europeo. Questo modo di ragionare riduce la funzione della Corte al controllo sull’esistenza del consenso, in assenza del quale essa abdica al suo ruolo fisiologico di supervisore esterno. E ciò è esattamente quello che succede in questo caso, in cui la Corte si arrampica penosamente sugli specchi, in un crescendo di illogicità e di incoerenza. La Corte afferma che la presenza del crocifisso si accompagna nella scuola italiana ad un atteggiamento di apertura rispetto agli alunni di altre religioni, che sono liberi di sfoggiare i loro simboli religiosi, senza capire che, esponendo il crocifisso, lo stato non esercita la propria libertà religiosa, ma fa una chiara scelta di campo. Inspiegabilmente, poi, la Corte evidenzia che i genitori restano liberi di educare la prole secondo i propri principi al di fuori dell’influenza esercitata dalla scuola pubblica, quando la controversia verte sulla possibile interferenza del crocifisso con la libertà nella scuola pubblica di un paese democratico, e non sulla pervasività della propaganda religiosa in uno stato teocratico. Del resto, la pur bellicosa signora Lautsi non ha mai insinuato che i crocifissi tormentassero i suoi figli anche a casa. Alla fine, la Corte è costretta ad ammettere che il crocifisso a scuola non può non notarsi, e che la sua presenza conferisce effettivamente maggiore visibilità alla religione di maggioranza, ma che questo non comprime la libertà religiosa perché non si traduce nell’indottrinamento degli alunni. Questa conclusione è di per sé gravissima, perché abbassa catastroficamente lo standard minimo di tutela delle minoranze religiose ed ideologiche, che sono ora costrette a tollerare qualunque manifestazione religiosa maggioritaria che non sconfini in un esplicito tentativo di indottrinamento. Ma ancora più sgomentante è l’argomento che sostiene la costruzione. La Corte afferma di non essere in possesso di dati che provino inequivocabilmente che la presenza del crocifisso a scuola interferisce con la sfera della coscienza degli alunni. E ciò perché il crocifisso è un “simbolo religioso essenzialmente passivo,” diverso, si suppone, da altri simboli (attivi?) perniciosi per le coscienze dei bambini che ad essi siano esposti. In che cosa consista questa differenza non è chiarissimo, anche perché “attivo” e “passivo” non sono aggettivi che usualmente connotano i simboli religiosi. Per fortuna però la giurisprudenza di Strasburgo ci viene in soccorso. In Dahab, la Corte aveva infatti legittimato il divieto apposto ad un’insegnate di sfoggiare il velo, giudicato un “potente simbolo religioso” in grado di “impressionare” gli alunni. Forse, quindi, il velo è attivo, e impressionante, perché si muove sulla testa della maestra, mentre il crocifisso è passivo, e poco interessante, perché, essendo attaccato al muro, sta

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fermo. Se è così, domani i locali delle scuole pubbliche potranno essere ornati, ad esempio, di statue di cera del papa a grandezza naturale, basta solo che non si muovano. La realtà è che Lautsi si pone su di una linea di continuità rispetto alla giurisprudenza della Corte EDU, volta a legittimare restrizioni importanti ai diritti fondamentali pur di salvaguardare la libertà delle maggioranze cristiane (Otto Preminger, Wingrove), e assai meno benevola nei confronti delle minoranze ideologiche e religiose, in particolare islamiche (Karandum, Dahab, Sahin, Dogru, Kervanci). Costruendo la Cristianità come elemento strutturale, ma anche escludente, della democrazia, la Corte non inventa certo nulla di nuovo, ma asseconda, e questo è grave, la deriva identitaria che sta travolgendo l’Europa e di cui la nuova costituzione clerico-fascista ungherese non costituisce che la punta dell’iceberg. Lautsi è in fondo solo un triste riflesso della crisi del progetto europeo e delle sue aspirazioni universalistiche. Una crisi che si coglie perfettamente nella solo apparentemente surreale opinione concorrente del giudice Bonello, il quale invita la Corte a limitarsi al suo “modesto ruolo,” a non preoccuparsi di pluralismo e laicità, e a non mettere in questione le tradizioni nazionali, e si inalbera moltissimo ripensando alla decisione in cui sotto i colpi di Strasburgo cadde la censura turca a Les onze milles verges di Apolinnaire. Come si può, si chiede Catone-Bonello, proteggere una simile “sconcezza trascendentale” e non il crocifisso, "simbolo senza tempo della redenzione attraverso l'amore universale”?

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Principio di dignità umana e altri concettiNella sentenza Omega il principio considerato è quello della dignità umana, principio vago, aperto e sdrucciolevole (slippery slope) che induce a chiedersi quale sia l’incidenza di esso sull’interpretazione ai vari livelli di diritto. Come per il concetto di calvizie, anche per quello di dignità umana è possibile individuare con certezza solo i casi estremi; infatti si è certi che la dignità sia offesa in situazioni macroscopiche, non anche in circostanze intermedie. Questa sentenza è il risultato della vaghezza di tale concetto e dell’attività interpretativa che ne deriva. Le problematiche a riguardo sono tre:1. Natura vaga e indeterminata del concetto2. Continuità del significato tra gli stati membri, trasversalmente3. Standard minimo1. Un esempio della vaghezza del concetto è riscontrabile in bioetica in cui è possibile individuare due tipi di interpretazione: • un’interpretazione soggettiva tipica dei paesi anglosassoni e liberali che attribuisce all’individuo di cui la dignità si tratta, l’ultima parola circa il contenuto della dignità ai fini della limitazione dei poteri pubblici – essere libero dall’intervento del potere pubblico - ; • un’interpretazione oggettiva tipica dei paesi europei continentali influenzati da culture sociali, religiose e solidaristiche. In questa accezione la dignità è intesa in senso generale-paternalistico per cui il significato è attribuito non dall’individuo ma dalla collettività, visto il suo carattere comunitario e pubblicistico. La collettività necessita di una definizione data da tutti per avere un concetto di soglia minima poiché proteggendo tutti gli individui si protegge tutta la collettività.Anche con riferimento all’eutanasia viene considerato il concetto di dignità come poggiante sulla sacralità della vita: la vita è sacra, finchè esiste è tale e la dignità della vita è in se stessa.

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Nel momento in cui per un concetto è possibile che vengano individuati più significati questo comporta sceglierne uno: più un concetto si avvicina agli estremi e più viene utilizzato come baluardo. A tal proposito gli Usa hanno ritenuto che la pratica del waterboarding nelle carceri di Guantanamo non rappresentasse una forma di tortura, ma un giornalista, di parere inverso, si sottopose alla stessa dimostrandone l’offesa alla dignità umana e quindi la sua connotazione come tortura. La tortura è un caso di dignità intesa in senso estremo e la cui violazione è sempre ingiustificata. Tuttavia la legalità di una pratica non può dipendere solo dalla dignità, ma dal fatto che vi siano ulteriori valori da tutelare e se in un primo momento non vi erano altri valori da controbilanciare, dopo l’11 settembre 2001 ci si è resi conto che ci sono dei valori che possono mettere in discussione il concetto di dignità: nella lotta al terrorismo salvare la vita a migliaia di persone può giustificare il sottoporre a tortura chi si sospetta esserne il responsabile? Non c’è una risposta univoca.2. I giudici della Corte europea dei diritti non possiedono ancora un concetto trasversale di dignità perciò minore è l’omogeneità di significato e maggiore sarà il margine di apprezzamento che la corte attribuisce agli stati.3. Anche se non posso avere omogeneità posso comunque prevedere un minimo standard (ad es. garantire la tutela sanitaria minima in casi di necessità ed urgenza).

OMEGASentenza della Corte di Giustizia (prima sezione), 14 Ottobre 2004

Oggetto: Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte di Giustizia (ex art. 234 CE) dalla Corte di cassazione della Germania con decisione 24 Ottobre 2001, nella causa

Omega

contro

Sindaco di Bonn

La Corte ha pronunciato la seguente sentenza142

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La domanda di decisione pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 49/55 CE sulla libera prestazione dei servizi e degli articoli 28/30 CE sulla libera circolazione delle merci.La domanda è stata presentata nell’ambito di un ricorso per cassazione proposto dalla società Omega in occasione del quale quest’ultima ha messo in discussione la compatibilità col diritto comunitario di un provvedimento adottato nei suo confronti il 14 settembre 1994.

FATTI

Omega, società di diritto tedesco, gestiva a Bonn un locale denominato “laserdromo”. Tale attività è stata esercitata anche dopo il 14 settembre 1994, dato che aveva ottenuto una licenza provvisoria per la continuazione dell’attività. L’attrezzatura utilizzata da Omega nel suo locale è stata inizialmente sviluppata a partire da un gioco per bambini; poiché successivamente si era rilevata insufficiente, l’Omega ha fatto ricorso all’ attrezzatura fornita dalla società britannica Pulsar, giungendo ad un contratto di franchising solo il 29 Maggio 1997.

Da parte del pubblico sorgevano proteste già dal 1994 e si chiedeva una precisa descrizione del gioco ma l’Omega replicava che si trattava di colpire sensori fissi installati nelle piattaforme di tiro. Poiché si è osservato che il gioco praticato prevedeva che si colpissero i sensori fissati sui giubbotti indossati dai giocatori, il sindaco di Bonn, in data 14 settembre 1994, emana un provvedimento vietando giochi che hanno come oggetto quello di colpire uomini mediante raggi laser. Il provvedimento è stato adottato in base art. 14 della legge sulla polizia amministrativa. (par. 6)

Secondo il provvedimento i giochi costituivano un pericolo per l’ordine pubblico violando valori etici fondamentali riconosciuti dalla collettività.

Il reclamo depositato dall’omega contro il provvedimento è stato respinto dall’autorità amministrativa locale, l’impugnazione in sede contenziosa è stata respinta, l’appello è stato respinto. Successivamente, l’Omega ha proposto ricorso in cassazione invocando tra i motivi la minaccia costituita dal provvedimento controverso per il diritto comunitario, in particolare per la libera prestazione dei servizi all’art. 49 CE, poiché si doveva utilizzare l’attrezzatura fornita da Pulsar.

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La cassazione considera che, in applicazione del diritto nazionale, il ricorso deve essere respinto, ma si chiede se la soluzione sia compatibile con il diritto comunitario (Artt. 49/55 e 28/30 CE).

Per il giudice del rinvio, la corte d’appello ha giustamente concluso che il gioco svolto nel laserdromo costituiva una violazione della dignità umana, nozione stabilità all’Art 1 della Costituzione Tedesca. La dignità umana è un principio costituzionale, che nel caso di specie è stato violato andando a risvegliare nel giocatore un’attitudine che neghi il diritto fondamentale di ogni persona ad essere riconosciuta e rispettata. Tale valore non può essere soppresso nell’ambito di un gioco.

Per quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario, il giudice del rinvio ritiene che il provvedimento incida sulla libera prestazione dei servizi (contratto franchising Pulsar) e violi la libera circolazione delle merci (apparecchiatura che l’Omega desiderava acquistare dalla Pulsar). Il giudice del rinvio ritiene che la causa principale sia occasione per precisare le condizioni cui il diritto comunitario assoggetta la restrizione di una determinata categoria di prestazioni di servizi o importazioni di beni, rilevando che, secondo la giurisprudenza della corte, le restrizioni sono consentite qualora i provvedimenti siano i) giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, ii) idonei ad assicurare il raggiungimento del fine perseguito e iii) che non eccedano quanto è a tal fine necessario. (par 14)

Il giudice del rinvio si domanda se sia necessaria una nozione comune del diritto in tutti gli Stati membri affinché tali Stati siano legittimati a limitare discrezionalmente una categoria di prestazioni protette dal trattato CE. (par. 15/16)

Alla luce di ciò si decide di sottoporre alla corte la seguente questione pregiudiziale: se sia compatibile con le disposizione del trattato CE relative alla libera prestazione dei servizi (artt. 49/55 CE) e alla libera circolazione delle merci (artt. 28/30 CE) il fatto che una determinata attività commerciale debba essere vietata ai sensi della normativa nazionale perché viola valori fondamentali costituzionalmente sanciti.

Sulla ricevibilità della questione pregiudiziale (par 18/22)

Secondo costante giurisprudenza spetta ai giudici nazionali aditi valutare sia la necessità della pronuncia in via pregiudiziale per essere posti in grado di statuire nel merito sia la pertinenza delle questioni sottoposte alla Corte, e dato che queste riguardano l’interpretazione del diritto comunitario la Corte è tenuta a statuire. (si

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considera il valore del provvedimento e il contenuto del divieto che è atto a limitare lo sviluppo futuro delle relazioni contrattuali tra Omega e la Pulsar). La questione deve essere dichiarata ricevibile.

SULLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE

Il giudice del rinvio da un lato chiede se (a) il divieto dell’attività economica per ragioni di tutela dei valori fondamentali sanciti dalla costituzione nazionale (dignità umana) sia compatibile con il diritto comunitario e, dall’altro, (b) se la facoltà degli Stati membri di limitare, per tali ragioni, determinate libertà fondamentali garantite dal trattato sia subordinata alla condizione che tale restrizione si basi su una concezione del diritto comune a tutti gli Stati membri.

(a) La Corte procede all’esame del provvedimento con riguardo ad una soltanto delle due libertà fondamentali qualora risulti che, alla luce delle circostanze, una delle due sia secondaria all’altra e possa essere a questa ricollegata. Nelle circostanze della causa principale, l’aspetto della libera prestazione dei servizi prevale su quello della libera circolazione delle merci. (par 17)

In merito alla giustificazione della restrizione imposta dal provvedimento alla libera prestazione dei servizi, l’art. 46 CE ammette le restrizioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica. Il sindaco di Bonn adotta il provvedimento invocando un pericolo per l’ordine pubblico. La possibilità per uno Stato membro di fare uso di una deroga prevista dal trattato non esclude comunque un controllo giurisdizionale sull’ applicazione di tale deroga. Inoltre, la nozione di ordine pubblico deve essere intesa in senso restrittivo e non determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro, quindi l’ordine pubblico invocato solo in caso di minaccia effettiva e grave ad uno degli interessi della collettività.

Le circostanze che giustificano il richiamo all’ ordine pubblico possono variare da un Paese all’altro, da un’ epoca all’altra; è perciò necessario lasciare alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale.Le autorità competenti hanno ritenuto che l’attività oggetto del provvedimento minacci l’ordine pubblico e i giudici nazionali aditi hanno confermato la concezione delle esigenze di tutela della dignità umana, che si deve ritenere conforme alla Costituzione Tedesca.

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Secondo costate giurisprudenza i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi fondamentali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza e, a tal fine, quest’ultima s’ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e libertà fondamentali. L’ordinamento giuridico comunitario è diretto ad assicurare il rispetto della dignità umana e la tutela di tale diritto rappresenta un legittimo interesse che giustifica una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario (caso specie libera prestazione di servizi). (par 34/35)

Le misure restrittive possono essere giustificate da motivi connessi con l’ordine pubblico solo ove necessari ai fini della tutela degli interessi che mirano a tutelare e a condizione che tali obbiettivi non possano essere conseguiti con provvedimenti meno restrittivi.

(b) Per quanto riguarda la seconda richiesta non si ritiene necessario che una misura restrittiva corrisponda ad una concezione condivisa da tutti gli Stati membri relativamente alle modalità di tutela del diritto fondamentale (par 37/38). Secondo il giudice del rinvio il divieto dell’attività commerciale corrisponde al livello di tutela della dignità umana che la costituzione nazionale ha inteso assicurare in Germania.Inoltre, ad essere vietata è la variante del gioco finalizzata a colpire bersagli umani non eccedendo quanto necessario per conseguire l’obbiettivo.

Pertanto, il provvedimento non può essere considerato una misura che incide in modo ingiustificato sulla libera prestazione dei servizi.

Per questi motivi il diritto comunitario non osta a che un attività economica consistente nello sfruttamento commerciale di giochi di simulazione di omicidi sia vietata da un provvedimento nazionale adottato per motivi di salvaguardia dell’ordine pubblico perché tale attività viola la dignità umana.

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