PREMESSA ALLA SESTA EDIZIONE - giappichelli.it · “Tradizione giuridica occidentale”...

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PREMESSA ALLA SESTA EDIZIONE È con piacere che presentiamo ai Colleghi – che ci onorano con la loro stima, la loro fiducia e i loro preziosi suggerimenti – e agli Studenti, una sesta edizione della “Tradizione giuridica occidentale” considerevolmente rinnovata rispetto alla prece- dente, pubblicata nel 2014. Alcune parti del Manuale sono state semplicemente aggiornate, ma altre sono state riscritte. Fra queste, ricordiamo il paragrafo sul “dialogo fra corti” nel Primo capitolo, le pagine sulle codificazioni germaniche nel Secondo capitolo che escono riequilibrate dagli interventi effettuati, e la sezione sull’amministrazione della giusti- zia in Inghilterra la cui riscrittura tiene conto del consolidamento delle grandi ri- forme che si sono susseguite a cavallo fra il secondo e il terzo millennio. Ci piace tuttavia sottolineare come le modifiche più importanti riguardino il Quinto capitolo. Caterina Mugelli ha riscritto la sezione dedicata all’“incontro” con il diritto cinese, e le siamo sinceramente grati per aver voluto dare alla luce una nuova versione di tale sezione terminandola pochi giorni prima di dare alla luce Giovanni. Deborah Scolart, che ringraziamo con particolare calore per avere accet- tato di entrare a far parte della squadra del Manuale riscrivendo la sezione sui Paesi Islamici. Come di consueto, infine, abbiamo rivisto le Appendici dei materiali: alcu- ni documenti, rivelatisi di non grande utilità didattica, sono stati espunti, ma qua e là ne sono stati aggiunti di nuovi, che contiamo possano suscitare interesse. In parti- colare, sono state aggiunte nell’Appendice del Terzo capitolo importanti sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti, alcune recentissime altre di considerevole va- lore storico. La traduzione dei materiali presentati in lingua originale (indicata nel testo con il simbolo ) è, come nella quinta edizione, accessibile, attraverso il codice presen- te in ciascun volume, sul sito dell’Editore Giappichelli. Chiudiamo con il piacevole compito di ringraziare tutti coloro che hanno colla- borato ad approntare nei tempi previsti questa nuova edizione, a cominciare da Ca- terina Mugelli e Deborah Scolart che abbiamo già ricordato. Con loro ringraziamo Alessandra De Luca e Alessandro Simoni, che ormai da tempo si impegnano con noi, adesso insieme anche a Sara Benvenuti, a vigilare sullo “stato di salute” del Manuale. Ringraziamo poi i nostri allievi lontani Katalin Kelemen, per la cura della sezione dedicata ai sistemi giuridici dell’Europa centro-orientale, e Filippo Valguarnera, cui si deve il costante aggiornamento del capitolo sui sistemi nordici, la prima ora pres- so la facoltà giuridica di Örebro e l’altro in quella di Göteborg. Un ringraziamento, infine, continua ad andare a Cecilia Del Re e Francesca Mariani, che hanno collabo-

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PREMESSA ALLA SESTA EDIZIONE

È con piacere che presentiamo ai Colleghi – che ci onorano con la loro stima, la loro fiducia e i loro preziosi suggerimenti – e agli Studenti, una sesta edizione della “Tradizione giuridica occidentale” considerevolmente rinnovata rispetto alla prece-dente, pubblicata nel 2014.

Alcune parti del Manuale sono state semplicemente aggiornate, ma altre sono state riscritte. Fra queste, ricordiamo il paragrafo sul “dialogo fra corti” nel Primo capitolo, le pagine sulle codificazioni germaniche nel Secondo capitolo che escono riequilibrate dagli interventi effettuati, e la sezione sull’amministrazione della giusti-zia in Inghilterra la cui riscrittura tiene conto del consolidamento delle grandi ri-forme che si sono susseguite a cavallo fra il secondo e il terzo millennio.

Ci piace tuttavia sottolineare come le modifiche più importanti riguardino il Quinto capitolo. Caterina Mugelli ha riscritto la sezione dedicata all’“incontro” con il diritto cinese, e le siamo sinceramente grati per aver voluto dare alla luce una nuova versione di tale sezione terminandola pochi giorni prima di dare alla luce Giovanni. Deborah Scolart, che ringraziamo con particolare calore per avere accet-tato di entrare a far parte della squadra del Manuale riscrivendo la sezione sui Paesi Islamici. Come di consueto, infine, abbiamo rivisto le Appendici dei materiali: alcu-ni documenti, rivelatisi di non grande utilità didattica, sono stati espunti, ma qua e là ne sono stati aggiunti di nuovi, che contiamo possano suscitare interesse. In parti-colare, sono state aggiunte nell’Appendice del Terzo capitolo importanti sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti, alcune recentissime altre di considerevole va-lore storico.

La traduzione dei materiali presentati in lingua originale (indicata nel testo con il simbolo ) è, come nella quinta edizione, accessibile, attraverso il codice presen-te in ciascun volume, sul sito dell’Editore Giappichelli.

Chiudiamo con il piacevole compito di ringraziare tutti coloro che hanno colla-borato ad approntare nei tempi previsti questa nuova edizione, a cominciare da Ca-terina Mugelli e Deborah Scolart che abbiamo già ricordato. Con loro ringraziamo Alessandra De Luca e Alessandro Simoni, che ormai da tempo si impegnano con noi, adesso insieme anche a Sara Benvenuti, a vigilare sullo “stato di salute” del Manuale.

Ringraziamo poi i nostri allievi lontani Katalin Kelemen, per la cura della sezione dedicata ai sistemi giuridici dell’Europa centro-orientale, e Filippo Valguarnera, cui si deve il costante aggiornamento del capitolo sui sistemi nordici, la prima ora pres-so la facoltà giuridica di Örebro e l’altro in quella di Göteborg. Un ringraziamento, infine, continua ad andare a Cecilia Del Re e Francesca Mariani, che hanno collabo-

Premessa alla sesta edizione XX

rato alle precedenti edizioni, nonché a Camilla Cordelli, Maria Sole De Cristofaro, Luca Giacomelli, Lucrezia Palandri e Ylenia Rocchini, che pure in vari tempi e mo-di ci hanno aiutato a far progredire il Manuale fino a questa sesta edizione.

Firenze, febbraio 2018

VV VB

PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

Questa introduzione alla comparazione giuridica e ai sistemi della tradizione oc-cidentale nasce dall’esperienza didattica (più o meno lunga) che abbiamo maturato nell’insegnamento del corso di Sistemi giuridici comparati presso la Facoltà giuridi-ca fiorentina.

L’idea che ci ha guidato nell’insegnamento, e poi nella decisione di metter mano a un nuovo manuale, è di offrire agli studenti una base testuale, che riteniamo indi-spensabile, integrata, resa più comprensibile e più viva, dal riferimento a casi e altri materiali riprodotti nelle appendici ai vari capitoli in cui il libro si articola, e nel se-condo tomo, di imminente pubblicazione, dedicato ad approfondimenti tematici.

Un nuovo manuale ci è parso inoltre necessario per far fronte alle esigenze dei nuovi ordinamenti didattici. In questo spirito, abbiamo pensato a un testo il più possibile chiaro, di dimensioni contenute anche in funzione del sistema dei crediti, e che nella parte dei materiali si prestasse ad aprire il dialogo con gli studenti che la riforma vorrebbe soprattutto vedere come “frequentanti”. Molti dei materiali sia del primo che del secondo tomo sono presentati in traduzione italiana; qua e là abbia-mo lasciato qualche pagina in lingua originale, perché in realtà riterremmo il suo uso essenziale per una più piena comprensione di altri ordinamenti.

Avremmo potuto seguire la nostra comune inclinazione all’understatement, e in-titolare il libro “Corso” o “Lezioni” di Sistemi giuridici comparati. Ci rendiamo conto che “La tradizione giuridica occidentale” è titolo assai impegnativo, solo in parte temperato dal sottotitolo; d’altra parte, è esatto, rappresenta fedelmente il contenuto e lo spirito del libro. Questo è in primo luogo dedicato a civil law e common law (oltre che ai Paesi scandinavi che partecipano di aspetti importanti di ambedue i sistemi): sono questi i sistemi alle cui caratteristiche fondamentali ab-biamo deciso di dedicare il nostro corso. In secondo luogo, è il titolo che meglio rie-sce a tradurre la convinzione diffusa, da noi condivisa, che sia da evitare la contrap-posizione netta fra civil law e common law. Pur se i due sistemi si formano ed evol-vono in maniera diversa, pur se restano differenze ancora significative in tema, ad esempio, di rapporti fra le fonti del diritto o di ruolo del precedente giudiziario, ri-saltano tuttavia convergenze altrettanto significative (chi negherebbe, ad esempio, un ruolo ormai dominante della legge anche nella famiglia di common law, e, di converso, un ruolo della giurisprudenza nella famiglia di civil law assai diverso da quello che una tradizione stereotipata ci ha consegnato?), e una concezione unitaria del diritto e del suo ruolo nella società, che incoraggiano l’uso di espressioni unifi-canti quale “tradizione giuridica occidentale”.

L’impianto del primo volume, specialmente, potrà apparire tradizionale: non lo

Premessa alla prima edizione XXII

neghiamo. Abbiamo però voluto tenere presente uno studente, quello del triennio, che potrà non avere altri contatti con la comparazione giuridica. A questo studente si ha il dovere di dare un’informazione di base sulla comparazione, sulla sua natura e i suoi fini (pur se lo studioso considera ormai superati questi interrogativi), sulle classi-ficazioni in famiglie e il loro carattere relativo, magari presentandogli, fra i materiali, le opinioni di alcuni padri della comparazione. Per le stesse ragioni, è importante che lo studente abbia chiara la diversa formazione storica dei sistemi, e attraverso la storia possa valutare le ragioni delle divergenze, ma ancor più delle convergenze fra i siste-mi, particolarmente evidenti nell’epoca attuale in cui è ben possibile pensare che certi fenomeni (si parla molto di globalizzazione) possano addirittura rivoluzionare l’ap-proccio alle tradizionali fonti del diritto in questa e in quella famiglia giuridica.

Meno tradizionale potrà invece essere considerato il secondo volume del manua-le, in fase di elaborazione ormai assai avanzata, dedicato ad un approfondimento per argomenti, e svolto esclusivamente, come si è già accennato, sulla base di mate-riali. Lì, lo studente di un corso di Sistemi più “pesante” in termini di crediti, o avanzato, potrà saggiare la propria formazione di base attraverso esercizi di compa-razione sincronica, su temi classici o anche di attualità, che naturalmente rispondo-no agli interessi e agli orientamenti degli autori. Questi ultimi considerano il manua-le, nei suoi due volumi, un “work in progress”: saranno sinceramente grati a quanti, amici, colleghi, studenti, vorranno formulare opinioni, critiche, suggerimenti per mi-gliorarlo e completarlo.

***

Il manuale è opera dei due autori, che lo hanno pensato e progettato insieme, e

perciò ne condividono per intero la responsabilità. In concreto, come spesso accade nelle opere a più mani, ci siamo distribuiti i compiti di redazione dei vari capitoli: V. Varano ha così scritto i capitoli I e II, V. Barsotti il capitolo III. Ci siamo poi potuti av-valere di tante preziose collaborazioni, all’interno di quella comunità scientifica, di quella scuola fiorentina di diritto comparato fondata da Mauro Cappelletti, alla quale sentiamo di appartenere. Innanzi tutto, ad Alessandro Simoni si deve la redazione del quarto capitolo sui paesi scandinavi, e gliene siamo assai grati: anziché fare un corretto ma modesto riassunto di seconda mano di quelle esperienze, abbiamo potuto infatti contare sulla penna competente e generosa di chi le conosce a fondo. Dobbiamo poi molto alla collaborazione di alcuni giovani, e tutti li ringraziamo. Un ringraziamento particolare lo dobbiamo a Ilaria Crociani e Alessandra De Luca, dottorande fiorentine in Diritto comparato del XV ciclo, per il loro impegno e la loro dedizione non comuni.

Firenze-Boston, agosto 2002

Vincenzo Varano Vittoria Barsotti

CAPITOLO I

INTRODUZIONE AL DIRITTO COMPARATO

SOMMARIO: 1. L’evoluzione del diritto comparato e del suo insegnamento. – 2. Natura del diritto comparato. – Diritto comparato e diritto positivo. – Diritto comparato e diritto straniero. – Rapporti fra diritto comparato e altri rami della scienza giuridica. – 3. Funzioni e fini del dirit-to comparato. – Diritto comparato e conoscenza. – Diritto comparato e universalità della scienza giuridica. – Diritto comparato e comprensione. – Diritto comparato e comunicazione. – Diritto comparato e politica legislativa. – Diritto comparato e interpretazione del diritto na-zionale: un dialogo tra corti? – Diritto comparato, globalizzazione e armonizzazione del dirit-to. – 4. La varietà dei diritti positivi. – Forme e manifestazioni della varietà. – Fattori di avvi-cinamento. – 5. Comparazione giuridica e classificazioni: le famiglie giuridiche. – Il carattere relativo di ogni classificazione. – Le classificazioni proposte. – Qualche riflessione conclusiva sul tema delle classificazioni. – APPENDICE I.

1. L’evoluzione del diritto comparato e del suo insegnamento

È ormai dalla fine degli anni ’70 che gli insegnamenti comparatistici si sono sempre più diffusi nelle facoltà italiane non solo giuridiche ma anche in corsi di lau-rea pertinenti ad indirizzi di studio quali economia, scienze politiche, scienze della formazione, lettere, lingue. La comparazione, in altre parole, si è venuta affermando in tutta la sua necessità per la formazione di giuristi, di diplomatici, di operatori di pace, di mediatori culturali, di operatori economici. La globalizzazione dell’econo-mia, l’intensificarsi dei rapporti commerciali e culturali con mondi fino a pochi lu-stri or sono semi-nascosti all’occhio dell’occidente (dalla Cina al Giappone ai Paesi Islamici) hanno fatto il resto, favorendo la crescita e la diffusione degli insegnamenti comparatistici, in Italia come in altri paesi.

Fra questi spicca, quale propedeutico ai tanti insegnamenti settoriali (ad esem-pio, il diritto privato comparato, o il diritto costituzionale comparato) e areali (ad esempio, il diritto anglo-americano o il diritto cinese), l’insegnamento di “Sistemi giuridici comparati”, un corso, spesso obbligatorio, di introduzione ai grandi siste-mi giuridici contemporanei.

L’obiettivo principale di un corso di “Sistemi” è quello di stimolare lo studente alle prese con le prime nozioni del proprio diritto interno, positivo e storico, a prendere coscienza immediata dell’esistenza di altre e diverse tradizioni giuridiche, di altri modi di concepire il diritto, di altri protagonisti della vita e dell’evoluzione del diritto, delle ragioni delle convergenze, ma anche, e forse soprattutto, delle dif-ferenze fra i vari sistemi giuridici.

Capitolo I 2

Tenteremo, in questo capitolo, di cominciare a dare risposte via via più precise sul significato da attribuire all’espressione «Sistemi giuridici comparati» e al con-fronto critico e ragionato (e cioè alla comparazione) fra di loro.

Tuttavia, fin da ora, e in via di introduzione, occorre riflettere su un fatto che è sotto gli occhi di tutti, ossia la crescita di interesse per gli altri sistemi giuridici, sia a livello pratico sia a livello teorico.

In effetti, il fenomeno della diversità dei vari sistemi giuridici è costante nel cor-so della storia; l’attenzione consapevole degli studiosi del diritto nei suoi confronti è invece relativamente recente e risale agli inizi del XX secolo.

Prima di allora, occasionalmente, storici, filosofi, e anche giuristi hanno mostrato interesse per la diversità delle istituzioni giuridiche e delle norme di altri paesi, ma studi più sistematici e maturi non appaiono prima della fine del XIX secolo.

Come curiosità storiche possiamo ricordare Platone che nell’opera Le Leggi fa una comparazione delle città stato della Grecia, o Aristotele che pone alla base del suo trattato sulla Politica l’analisi delle costituzioni di molte città greche e barbare. La leggenda narra poi che i decemviri redassero la legge delle XII Tavole, una delle fonti più antiche del diritto romano, dopo aver condotto un’indagine sulle città del-la Magna Grecia. In tempi più recenti, Sir John Fortescue (1395(?)-1479), nel De Laudibus Legum Angliae, si propone, in un certo senso, come comparatista, anche se lo scopo della sua comparazione fra diritto inglese e diritto francese è quello di far risaltare la superiorità del diritto inglese. Montesquieu – uno dei più illustri pen-satori politici dell’epoca moderna, padre della famosa dottrina della separazione dei poteri su cui si fonda l’assetto dello stato dopo la Rivoluzione francese – nella sua opera L’Esprit des Lois guarda per la prima volta al diritto come fenomeno sociale, e considera la diversità dei vari diritti quale prodotto di diversità naturali, storiche, politiche, etniche e di altri fattori dell’assetto sociale. In ogni caso si tratta spesso, più che di consapevole uso del metodo comparativo, di geografismo e, soprattutto nel caso di Montesquieu, di aspirazione a un modello di diritto superiore. Le leggi, i vari diritti, vengono comparate non tanto fra di loro quanto con riferimento a un modello astratto.

Il XIX secolo è invece caratterizzato da una chiusura netta nei confronti di ciò che è estraneo, è il secolo delle codificazioni e dello statualismo. Ciò è particolar-mente vero in Francia, dove per lungo tempo la visione dominante è quella propria della scuola esegetica che si chiude nella contemplazione del monumento Code, ostile ad ogni altra fonte interna o straniera. In Germania, gran parte del secolo è dominata dalla figura di Savigny e della scuola storica, per la quale il diritto è il ri-sultato necessario dell’organizzazione interna della nazione e della sua storia, che nel caso tedesco si riteneva esprimesse una cultura giuridica ispirata alla tradizione romanistica, che assurgeva quindi a carattere di “diritto tedesco” a tutti gli effetti. Pur con differenti declinazioni nelle aree rispettivamente francese e tedesca, la se-conda metà del secolo è quindi pervasa dal positivismo, giurisprudenziale o legisla-tivo, e dalla percezione del diritto come fenomeno eminentemente nazionale.

Non mancano, pur in questo clima, alcuni eventi che testimoniano l’interesse della cultura giuridica per la comparazione. Sono, ad esempio, della seconda metà dell’800 la fondazione in Francia della Société de Législation Comparée (1869), e, a cura di tale ente, di una rivista che dal 1949 continua ancora oggi con il titolo Revue

Introduzione al diritto comparato

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internationale de droit comparé; è del 1878 il primo numero della Zeitschrift für ver-gleichende Rechtswissenschaft, rivista in origine prevalentemente destinata a studi antropologici, e ormai vicina all’annata n. 150; risale al 1894 la fondazione a Londra della Society of Comparative Legislation, che, dopo il Journal of Comparative Legisla-tion and International Law, continua ancora oggi (dal 1952) a pubblicare una pre-stigiosa rivista, l’International and Comparative Law Quarterly. Si snoda poi nel cor-so del XIX secolo l’opera di EMERICO AMARI, autore nel 1857 della Critica di una scienza delle legislazioni comparate (ristampata a Palermo nel 1959 a cura delle Edi-zioni della Regione Siciliana, con Introduzione di VITTORIO FROSINI), assai opportu-namente ricordato da GIUSEPPE PORTALE, nelle sue Lezioni di diritto privato compa-rato, come

«padre del diritto comparato moderno, perché egli andò oltre la semplice giustappo-sizione di norme, arrivando allo studio del diritto vivente, del law in action» (p. 7).

Al diritto comparato nella sua connotazione odierna può essere attribuita una data di nascita: il 1900, quando si svolge a Parigi, sotto l’impulso di due grandi giu-risti francesi, Raymond Saleilles e Edouard Lambert, il Congresso internazionale di diritto comparato, nel clima dell’esposizione mondiale, un clima di fiducia esaltante nella scienza e nel progresso. L’idea utopica dei due giuristi era quella di un diritto comune dell’umanità. Doveva crearsi un diritto mondiale, e lo strumento per giun-gervi doveva essere il diritto comparato, in quanto esso serve a ricavare i principi comuni da leggi, sentenze, prassi, dottrina dei vari sistemi. Il diritto comparato do-veva cioè servire a superare le barriere tra i diversi diritti e le diverse concezioni giu-ridiche, create da mere contingenze e da accidenti storici, e non da profonde e in-trinseche ragioni di fondo (si vedano: SALEILLES, Conception et objet de la science du droit comparé, p. 383 ss.; LAMBERT, La fonction du droit civil comparé).

In effetti, il periodo che va dal 1900 agli anni ’30, gli anni della depressione, dei totalitarismi, degli isolazionismi, gli anni che vedono l’esplosione di una guerra dalle proporzioni spaventose, è un periodo di lancio euforico del diritto comparato sulla scia di tanti fattori: lo sviluppo della comparazione nelle scienze esatte; il cosiddetto «clima dell’Aja» (ANCEL, Utilità e metodi, p. 17), che produce convenzioni volte a istituire una corte permanente di arbitrato per risolvere pacificamente le controver-sie fra gli stati e una serie di convenzioni volte ad unificare le norme di diritto inter-nazionale privato in materia di procedura, di matrimonio, divorzio, filiazione e tute-la, di successioni e testamenti; la comparsa e l’entrata in vigore, proprio il 1° gen-naio 1900, di un nuovo codice, il codice civile tedesco, che per tanti aspetti si di-stingue e si contrappone al codice civile francese, stimolando così un confronto fra i due; la formazione di nuovi stati dopo la prima grande guerra, ansiosi di dotarsi di un proprio diritto e quindi naturalmente aperti all’indagine sulle soluzioni più pro-mettenti offerte da altri ordinamenti; la presa di coscienza reciproca, anche a causa della prima guerra mondiale che coinvolge paesi appartenenti ad ambedue le aree, fra paesi di tradizione romanistica e codicistica da un lato, e paesi di common law dall’altro; l’affermazione, con la Rivoluzione d’ottobre del 1917, di una nuova fami-glia, ispirata ai principi della dottrina marxista, ossia la famiglia giuridica socialista che dominerà la Russia, e una gran parte dei Paesi dell’Europa Orientale, fino al dissolvimento dell’impero sovietico nei primi anni ’90 del secolo scorso, e che con-

Capitolo I 4

tinua ad essere presente in alcuni altri Paesi del mondo fra i quali la Corea del Nord, la Cina e Cuba, pur non senza incertezze e tentennamenti. È anche il periodo in cui, superato lo spettro della guerra, si avverte l’esigenza di una cooperazione non solo politica ma anche giuridica internazionale che si traduce nella costituzione di una Società delle Nazioni (1920) e di una Corte internazionale di giustizia per la so-luzione pacifica delle controversie fra gli stati, nel tentativo, vano come dimostre-ranno gli eventi successivi (in una certa misura anche quelli odierni), di evitare il ri-corso alla guerra.

Il mondo che si sveglia dall’incubo dei campi di concentramento e della secon-da guerra mondiale è un mondo caratterizzato da uno straordinario progresso tec-nologico, e al tempo stesso e in larga misura forse proprio per questo, dal bisogno di sopravvivenza. È un’epoca di esigenze nuove per cui è necessario un nuovo diritto, o meglio la consapevolezza che il diritto è un fenomeno sociale in continua trasfor-mazione. In questo mondo, in questa nostra epoca, è essenziale il contributo che la comparazione può portare allo sviluppo del nuovo diritto, adeguato alle esigenze in continuo rinnovamento del mondo contemporaneo: contributo che si esprime nella ricerca di valori, di regole, di istituti di portata tendenzialmente sovranazionale e universale basata sull’analisi realistica e induttiva dei vari ordinamenti (v. per queste idee il saggio di CAPPELLETTI, Il diritto comparato e il suo insegnamento, p. 265 ss.).

In sostanza, nell’epoca contemporanea, contrassegnata dalla facilità degli scambi – personali, economici, culturali fra uomini e popoli – e dallo straordinario sviluppo dei mezzi di comunicazione, dalla televisione a internet, non è più lecito, per ragioni storiche e pratiche, considerare il diritto come un fenomeno puramente nazionale, refrattario alle influenze esterne. Nel momento stesso in cui si comincia a prendere contatto con il fenomeno giuridico, con le sue tecniche, con la sua radice storica, occorre rendersi conto che esistono altre dimensioni del diritto, altre tecniche, altre storie. Ad esempio, quel codice civile che ci accompagna fin dai primi giorni dei no-stri studi giuridici non dobbiamo darlo per scontato: dobbiamo capire perché siamo arrivati ad avere un codice, dobbiamo capire perché altre tradizioni giuridiche non hanno un codice, o hanno qualcosa che pur andando sotto il medesimo nome, è profondamente diverso dal codice francese, da quello tedesco o dal nostro. Lo stes-so tipo di riflessione dobbiamo farla con riferimento alle costituzioni: rigida o fles-sibile? scritta o non scritta?, e a certi istituti che delle costituzioni sono un attributo e una garanzia fondamentali, quali il controllo di costituzionalità delle leggi: con-trollo giudiziario o controllo politico? controllo diffuso o controllo accentrato? per-ché l’uno o l’altro?

Come vedremo meglio in seguito (in questo capitolo, § 3), inoltre, il fenomeno globalizzazione, e l’armonizzazione perseguita in vari campi sia a livello regionale sia a livello mondiale, che si accompagnano alla crisi dell’idea di un diritto monopolio dello stato e del legislatore nazionale, offrono oggi al comparatista un ruolo fonda-mentale non solo per quello che riguarda l’individuazione delle vie appropriate e della misura opportuna della convergenza ma anche, e forse soprattutto, la com-prensione delle divergenze.

Che tutti gli eventi che abbiamo ricordato (e non solo quelli, si intende) abbiano prodotto un forte sviluppo della comparazione è evidente sia sotto il profilo scien-tifico sia sotto il profilo didattico. Sotto il primo profilo, è innanzi tutto aumentata

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la produzione di opere sistemologiche. Le opzioni dei primi anni ’70 erano limitate a pochi testi: spiccava la traduzione italiana, curata da Rodolfo Sacco, di Les grands systèmes de droit contemporains (la prima edizione è Padova, Cedam, 1967; l’ultima è la quinta, 2004).

Poi sono venuti C.A. CANNATA, A. GAMBARO, Lineamenti di storia della giuri-sprudenza europea, Torino, Giappichelli (1973); A. PIZZORUSSO, Sistemi giuridici comparati, Milano, Giuffrè (l’ultima edizione è del 1998, ma nasce come Corso di Diritto Comparato nel 1983); K. ZWEIGERT, H. KÖTZ, Introduzione al diritto compa-rato, Milano, Giuffrè, 1992, rist. 1998; R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, in Trattato di diritto comparato diretto da R. Sacco, Torino, UTET (1992, ma nasce in edizione litografata con Giappichelli, Torino, 1980); A. GAMBARO, R. SACCO, Si-stemi giuridici comparati, in Trattato di diritto comparato diretto da R. Sacco, Tori-no, UTET, 3a ed., 2008 (la prima edizione è del 1996); U. MATTEI, P.G. MONATERI, Introduzione breve al diritto comparato, Padova, Cedam, 1997; M.G. LOSANO, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Bari, Laterza, 2000 (ma la stessa opera era già uscita nel 1978 per i tipi di Einaudi, Torino); A. GUARNERI, Lineamenti di diritto comparato, Padova, Cedam, 6a ed., 2014. Ai ma-nuali di taglio più tradizionale si accompagna, di recente, una produzione più origi-nale. Si va dalla personalissima «Traccia» di M. LUPOI (Sistemi giuridici comparati. Traccia di un corso, Napoli, ESI, 2001) ai «casi e materiali» che sempre più frequen-temente vengono proposti come testo primario e non più solo complementare al manuale (G. AJANI, Sistemi giuridici comparati. Lezioni e materiali, Torino, Giappi-chelli, 2005; G. AJANI, B. PASA, Diritto comparato. Casi e materiali, Torino, Giappi-chelli, 2013). Altri testi hanno un prevalente carattere di rassegna paese per paese: v. ad esempio di AA.VV., Sistemi giuridici nel mondo, Torino, Giappichelli, 2010. Ri-costruisce i “Sistemi” sulla base della analisi del diverso atteggiarsi di alcuni temi di fondo (values, repression of crimes, judges and jurisdiction ecc.) V. ZENO ZENCOVICH, Comparative Legal Systems, Roma TrE-Press, 2017. Va infine ricordata la serie de-nominata “Sistemi giuridici comparati” curata da A. PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, e pubblicata da Giappichelli. Essa comprende opere di L. COSTANTINESCO, U. MATTEI, P.G. MONATERI, G. AJANI, M. GUADAGNI, F. CASTRO.

In secondo luogo, è cresciuta la produzione di studi specialistici dedicati a que-sto o quell’aspetto o istituto di diritto straniero, o di monografie comparatistiche.

Infine, ed è forse questa la notazione più importante, è chiaramente visibile la crescita della curiosità e della sensibilità per il diritto straniero e comparato da parte dei giuristi non professionalmente militanti fra le fila dei comparatisti. Non è oggi possibile essere giuristi se non si è anche, in qualche misura, comparatisti. Come scrivono GAMBARO, MONATERI e SACCO nella loro voce (Comparazione giuridica, p. 49) negli ultimi anni la letteratura nazionale ha

«raramente fornito scritti di rilievo che non siano nutriti di informazione comparati-stica».

Le enciclopedie giuridiche dell’ultima generazione, dal canto loro, dalla En-ciclopedia Giuridica Treccani al Digesto IV, contengono numerose voci di diritto straniero e comparato. Del pari, è ormai prassi che anche le riviste giuridiche rivol-gano lo sguardo al di fuori dei confini nazionali, anche, ma non esclusivamente, de-

Capitolo I 6

dicando apposite rubriche al diritto straniero e comparato. Si va dalla «Parte IV» del Foro italiano all’Osservatorio sulle riforme legislative all’estero della Rivista di di-ritto civile alle rubriche di diritto straniero e comparato della Rivista trimestrale di diritto e procedura civile e della Rivista di diritto processuale. Sono poi nate, o rinate, riviste che hanno la comparazione come loro oggetto principale: mi riferisco, rispet-tivamente, alla Comparative Law Review (dal 2010) e all’Annuario di diritto compara-to e di studi legislativi (anch’esso rifondato nel 2010). Infine, in questo contesto, non è fuori luogo ricordare anche la fortuna del genere letterario “traduzioni” (ad esem-pio, la collana Giuristi stranieri di oggi, fondata e diretta dal 1986 da C.M. MAZZONI e V. VARANO, è arrivata al 55° titolo), sicuramente dovuta all’interesse per il diritto e la cultura giuridica non municipali.

Sotto il profilo didattico, è sufficiente richiamare quanto detto all’inizio del para-grafo sulla crescente diffusione degli insegnamenti comparatistici nelle nostre facoltà giuridiche, dove si è passati dall’unica cattedra di diritto privato comparato esistente nel 1960 (la cattedra romana di Gino Gorla) alle varie decine di oggi, e sottolineare l’importanza che in generale l’insegnamento del diritto si apra sempre di più all’in-formazione e all’analisi delle fonti di produzione non locale: il diritto straniero, il dirit-to comparato, il diritto europeo, il diritto internazionale nelle sue varie proiezioni.

L’obiettivo ultimo dell’interesse per la comparazione potrà essere, in un domani non lontano, preparato anche dalla circolazione degli studenti, altro fenomeno cre-scente nelle università europee, la scuola giuridica transnazionale, il cui fine non è quello della formazione dello specialista ma quello della formazione di un nuovo giurista attraverso l’insegnamento comparatistico del diritto, sulla scia di quanto au-torevolmente sostenuto da autori del prestigio di ZWEIGERT, KÖTZ, Introduzione, p. 27 ss., ove è citato un illuminante passo di Roscoe Pound, e di GORLA, voce Diritto comparato e diritto straniero, p. 13. (A parte i programmi di scambio di studenti e docenti con università europee ed extraeuropee, si progettano ormai da tempo corsi di laurea congiunti; Firenze, ad esempio, ne ha ormai da tempo uno con Paris I, Panthéon Sorbonne, e da un paio di anni un altro con l’Università di Colonia).

2. Natura del diritto comparato

Il diritto comparato è quella parte della scienza giuridica che si propone di sot-toporre a confronto critico e ragionato più sistemi o gruppi di sistemi giuridici na-zionali (o meglio, lo spirito e lo stile di più sistemi: macrocomparazione), o più isti-tuti (o meglio, il modo in cui diversi sistemi affrontano determinati problemi giuri-dici e regolano particolari aspetti del vivere sociale ed economico: microcompara-zione). (Di macro e microcomparazione si accoglie qui la definizione di ZWEIGERT, KÖTZ, Introduzione, pp. 5-6, che si ritrova sostanzialmente anche in GORLA, voce Diritto comparato e diritto straniero, § 7).

Diritto comparato e diritto positivo

L’espressione «diritto comparato» è quella più comunemente usata, ma è troppo evocativa di diritto positivo. Il diritto comparato è invece diverso dai tradizionali

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rami del diritto positivo: non è un complesso di norme, non è fonte di rapporti, come, ad esempio, il diritto privato (definibile come un complesso di comandi giu-ridici destinati a regolare nel campo personale e familiare e nel campo patrimoniale i rapporti reciproci fra le persone nonché l’organizzazione e l’attività di società, asso-ciazioni ed altri enti privati), o il diritto pubblico (che regola l’organizzazione dello stato, degli enti pubblici territoriali e di altri enti pubblici, i rapporti reciproci di tali enti, quando riguardano l’esercizio delle loro funzioni pubbliche, e i rapporti fra que-sti enti e i privati, quando in essi si manifesta la supremazia dell’ente e la soggezione del privato, come nel caso del rapporto fisco/contribuente; regolamentazione attività edilizia; pretesa punitiva dello stato nei confronti dell’autore di un reato) (le due defi-nizioni sono sostanzialmente quelle offerte da TRIMARCHI, Istituzioni, p. 21 ss.).

Anche il diritto internazionale privato, che indica quale diritto deve essere ap-plicato in un caso con collegamenti stranieri, è parte del diritto positivo nazionale, ed è quindi diverso dal diritto comparato. Tuttavia, come è stato scritto, «il diritto comparato è utile, quasi indispensabile, al diritto internazionale privato», sia al fine di «qualificare» i concetti utilizzati dalle norme di conflitto, come vogliono le più moderne scuole di pensiero, sia al fine di applicare correttamente il diritto straniero dalle stesse richiamato, sia al fine di comprendere più correttamente nozioni come quella di ordine pubblico (ZWEIGERT, KÖTZ, Introduzione, p. 8 ss.).

Il diritto internazionale pubblico, dal canto suo, è un sistema giuridico sopran-nazionale e globale diretto a regolare le relazioni fra gli stati, ed è quindi anch’esso diverso dal diritto comparato. Vedremo tuttavia più avanti in questo stesso paragra-fo il contributo essenziale che la comparazione giuridica offre alla enucleazione dei c.d. «principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili», di cui all’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia. (Per una opportuna rivisitazio-ne dei rapporti fra diritto internazionale e diritto comparato alla luce dei nuovi me-todi di formazione e attuazione della norma internazionale nell’era della globalizza-zione, v. AJANI, Diritto comparato e diritto internazionale).

Quanto fin qui detto a proposito del rapporto diritto comparato/diritto positivo è utile per capire perché sarebbe più corretto usare l’espressione comparazione giu-ridica anziché diritto comparato, imitando i tedeschi: Rechtsvergleichung piuttosto che vergleichendes Recht. L’uso di questa espressione non significa affatto conside-rare la comparazione metodo anziché scienza. Essa, come ogni disciplina, «è in par-te scienza in parte metodo» (SACCO, Introduzione, p. 10) ( Appendice I, n. 5).

Se di norma la comparazione non è diritto positivo, vi sono tuttavia ipotesi in cui la comparazione può essa stessa presentarsi come diritto positivo, fonte cioè di norme direttamente regolatrici di rapporti.

Si pensi, ad esempio, all’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giu-stizia:

«La Corte, la cui funzione è di decidere in base al diritto internazionale le controver-sie che le sono sottoposte, applica: a) le convenzioni internazionali … b) le consuetudini … c) i principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili».

La disposizione che ci interessa è quella sub c), la cui formulazione risente natu-

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ralmente dell’epoca in cui è stata emanata e riflette una visione eurocentrica della società internazionale. Ciò premesso, la norma suggerisce un procedimento di com-parazione attraverso il quale la corte arriverà a distillare i «principi generali», che costituiranno la regola per il caso sottoposto ad essa, il diritto positivo del caso con-creto. Naturalmente, non è da pensare che la corte possa prendere in considerazio-ne tutti gli stati: si tratterà di esaminare l’atteggiamento degli stati per così dire rap-presentativi delle varie concezioni giuridiche. L’esempio è importante, ma non da sopravalutare. Si fa infatti notare che la Corte, in realtà, spesso ricostruisce un prin-cipio proprio dell’ordinamento internazionale, senza necessariamente riferirsi agli ordinamenti statali o con riferimenti sommari «in funzione di conferma dell’esisten-za di un principio che può già essere considerato come operante nella società inter-nazionale» (GAJA, voce Principi del diritto, p. 540; per una discussione dei «principi fondamentali della comunità internazionale», v. CASSESE, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, p. 149 ss.).

Il secondo esempio proviene dall’ordinamento dell’Unione europea. Il riferi-mento è all’art. 340 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE – v. infra Cap. II, § 3.4) che riprende l’art. 288, comma 2 (ex art. 215) del Trattato istitutivo della CE (come modificato dal Trattato di Maastricht del 1992 e dal tratta-to di Amsterdam del 1997 entrato in vigore il 1° maggio 1999):

«In materia di responsabilità extracontrattuale, la Comunità deve risarcire, confor-memente ai principi generali comuni ai diritti degli stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni».

La Corte di giustizia di Lussemburgo fa tuttavia riferimento ai principi generali comuni ben al di là dei richiami testuali – che, come la norma sopra riportata chia-ramente indica, hanno di per sé una portata molto limitata –, spesso con la funzione di rendere meno trasparente, con l’utilizzazione di un parametro «obiettivo», il ruo-lo creativo di regole giuridiche svolto dalla Corte. Il ricorso a presunti principi ge-nerali comuni è la via per arrivare da parte della corte al controllo della legittimità degli atti comunitari (v. la decisione nella causa 44/79, Hauer, discussa ancora da GAJA, voce Principi del diritto, p. 535 ss.): la premessa è che i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui la corte garan-tisce l’osservanza; nel garantire la tutela di tali diritti, essa è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e non potrebbe, quindi, ammette-re provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali stati. Nel far ciò, anche la Corte di giustizia farà compara-zione, e dalla comparazione distillerà la regola «comune», il diritto positivo del caso concreto. Questa posizione è stata integralmente recepita dal trattato di Maastricht, dal Preambolo della Carta Europea dei diritti fondamentali (la c.d. Carta di Nizza), e oggi dal Trattato sull’Unione Europea (TUE – v. infra Cap. II, § 3.4) che all’art. 6 così recita:

«1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati … 2. L’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti del-

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l’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze del-l’Unione definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea … e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unio-ne in quanto principi generali».

Un ultimo esempio può venire dalla pratica commerciale internazionale, in te-ma di contratti fra privati o fra privati e stati. In genere, essi contengono una clauso-la di deferimento ad arbitri per la soluzione delle controversie eventualmente insor-genti e l’indicazione del diritto applicabile. Al riguardo, sono frequenti le clausole che fanno riferimento ai principi comuni agli ordinamenti dei contraenti, o ai prin-cipi riconosciuti da una pluralità di ordinamenti rappresentativi delle varie tradizio-ni giuridiche e principalmente a quelli che sono già stati applicati dai tribunali in-ternazionali (v. SERENI, Funzione e metodo, p. 160; v. infra § 3 a proposito dei «Principles» dell’UNIDROIT).

Diritto comparato e diritto straniero

La comparazione giuridica, ovvero la ricerca comparativa, il confronto critico e ragionato fra più sistemi o fra più istituti, è diversa dallo studio del diritto straniero e anche da ciò che di un dato sistema straniero dicono i giuristi di quel paese. Lo studio del diritto straniero è generalmente il presupposto della comparazione giuri-dica, ed è tuttavia implicitamente comparatistico dal momento in cui pone conti-nuamente a confronto la categoria giuridica «straniera» con le categorie nazionali, sottolineando le coincidenze e le diversità, e mettendo così in luce i dati impliciti del sistema straniero (GAMBARO, MONATERI, SACCO, voce Comparazione giuridica, p. 53). Mentre lo studio del diritto straniero può essere implicitamente comparatistico, il giurista nazionale che «racconta» il proprio sistema senza «staccarsi» da questo non compie nessuna comparazione, nemmeno implicita, e forse conosce il proprio sistema meno bene dello studioso straniero, nella misura in cui «se da una parte è favorito dall’abbondanza di informazione, sarà però impacciato più di ogni altro dal presupposto che gli enunciati teoretici presenti nel sistema siano pienamente coe-renti con le regole operazionali del sistema considerato» (ID., p. 56).

Rapporti fra diritto comparato e altri rami della scienza giuridica

Stretti sono i rapporti che intercorrono fra il diritto comparato ed altre discipline non positive: la teoria generale del diritto, la storia del diritto, la sociologia, l’etnologia giuridica.

La comparazione è essenziale per comprendere la relatività di concetti, di distin-zioni, di metodi, per trovare illustrazioni concrete di teorie astratte, per saggiare la validità di ipotesi generali sulla realtà di più ordinamenti, per costruire una teoria generale del diritto, della sua natura, dei suoi fini, che si elevi sui particolarismi propri dei diritti locali.

Lo storico del diritto è comparatista nel senso che «valuta» il diritto storico og-getto del suo studio alla luce della propria formazione di giurista nazionale moder-no, e anche nel senso che oggetto del suo studio può essere una pluralità di diritti

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antichi da sottoporre a comparazione. Il comparatista, dal canto suo, sa che il diritto straniero è comprensibile solo alla luce della sua storia: non può, ad esempio, capire il contract, e le sue differenze dal contratto, senza risalire alle origini della common law, alle forme di azione, alla originaria matrice delittuale, in tort cioè, della tutela contrattuale.

Il sociologo, e in particolare il sociologo del diritto, può essere tanto più convin-cente nella prospettazione delle sue ipotesi circa l’interazione fra diritto e società se la sua indagine abbraccia un orizzonte più ampio di una singola società o di un sin-golo diritto. Dal canto suo, il comparatista è, o deve essere, consapevole che l’analisi sulla law in action richiede conoscenza dei meccanismi sociali, e che, nel momento in cui si pone come promotore della riforma del diritto, deve tener conto delle con-dizioni economiche e sociali presenti nell’ordinamento interessato.

Molti sono infine i profili di affinità e contiguità fra etnogiurista e comparati-sta, sia che il primo osservi i valori e i diritti, prevalentemente spontanei e «non verbalizzati» delle società tradizionali, o si occupi dei modi in cui esse gestiscono eventuali modelli giuridici europei ricevuti in epoca coloniale, sia che il compara-tista si proponga di assistere l’evoluzione del diritto delle società tradizionali con i risultati della sua ricerca (più diffusamente, v. ZWEIGERT, KÖTZ, Introduzione, p. 11 ss.; SACCO, Introduzione, p. 24 ss.).

3. Funzioni e fini del diritto comparato

Si è detto nel paragrafo precedente che il diritto comparato, come ogni discipli-na, è in parte scienza in parte metodo. Ciò premesso, è corretto porsi il problema delle funzioni e dei fini della comparazione, o è invece antiscientifico? Gli autori di questo «corso» concordano con la tesi appena adombrata, che cioè, almeno in teo-ria, la comparazione come ogni e qualsiasi scienza, non abbia bisogno di interrogarsi sui suoi fini, quasi a giustificare la propria esistenza e la propria dignità. Tuttavia, la comparazione giuridica è una scienza relativamente giovane, che ha cominciato ad acquisire consapevolezza di sé poco più di un secolo fa, con il Congresso di Parigi del 1900, e che solo negli ultimi decenni, e non dovunque allo stesso modo, ha visto crescere il proprio peso nella ricerca giuridica e nei curricula universitari, anche se siamo ancora lontani, in Italia e altrove, da quella collocazione, e da quella conside-razione, nel percorso formativo del giurista, che le esigenze della società moderna richiederebbero. Riteniamo quindi corretto spiegare, e far capire agli studenti, che senso ha, a quali fini risponde il diritto comparato, «a che serve» la comparazione nell’educazione e nella professione del giurista.

La comparazione, e il comparatista, perseguono alcune funzioni fondamentali.

Diritto comparato e conoscenza

La prima fondamentale funzione è tipica di ogni scienza, ed è assai felicemente espressa da alcuni fra i padri fondatori della moderna scienza comparatistica.

Scrive, ad esempio, GINO GORLA:

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«… gli interessi immediati del comparatista sono interessi di conoscenza pura» (voce Diritto comparato e diritto straniero, p. 5) ( Appendice I, n. a).

Scrive RODOLFO SACCO nell’Introduzione (1992, p. 13; ma v. già Les buts et les méthodes de la comparaison du droit, p. 113 ss.).

«… la migliore conoscenza dei modelli deve essere considerata come lo scopo essen-ziale e primario della comparazione intesa come scienza» ( Appendice I, n. 5).

Nel 1987, poi, un gruppo di giuristi raccolti intorno a Rodolfo Sacco ha redatto – in occasione di uno dei colloqui biennali dell’Associazione Italiana di Diritto Comparato – un «Manifesto» della comparazione giuridica articolato in cinque tesi, le c.d. Tesi di Trento ( Appendice I, n. 6); su di esse, e sul dibattito che hanno provocato, v. GRANDE, Development, pp. 117-120). La prima di tali tesi, enunciata da GAMBARO, MONATERI, SACCO (voce Comparazione giuridica, p. 51 s.), così recita:

«Il compito della comparazione giuridica, senza il quale essa comparazione giuridica non sarebbe scienza, è l’acquisizione di una migliore conoscenza del diritto, così co-me in genere il compito di tutte le scienze comparatistiche è l’acquisizione di una migliore conoscenza dei dati appartenenti all’area a cui essa si applica. L’ulteriore ricerca e promozione del modello legale o interpretativo migliore sono ri-sultati notevolissimi della comparazione; ma quest’ultima rimane scienza anche se questi risultati fanno difetto».

Infine, ZWEIGERT E KÖTZ così si esprimono nella loro Introduzione, p. 16:

«La funzione primaria della comparazione giuridica … è la conoscenza …» ( Ap-pendice I, n. c).

Non si può, crediamo, non concordare con l’approccio teso a porre l’acquisi-zione di nuova conoscenza come compito essenziale e primario del diritto compara-to. Vogliamo tuttavia sottolineare essenziale e primario, non necessariamente esau-stivo. Alcuni (Sacco) indubbiamente privilegiano l’«attività di conoscenza pura», una

«“fredda misurazione delle analogie, dei parallelismi e delle divergenze fra più ordi-namenti”, dove “fredda” sta per politicamente neutrale» (così DENTI, Diritto com-parato e scienza del processo, p. 340),

anche se l’evoluzione di queste linee di pensiero porta oggi altri autorevoli esponen-ti della medesima scuola «strutturalista» (MONATERI, Critica all’ideologia) a negare la neutralità della comparazione (pur continuando a rivendicare «l’indipendenza di diritto e società»).

Altri (Gorla) intende invece la «conoscenza» come «conoscenza storica», rife-rendosi a un

«canone della conoscenza storica di ciascun termine di comparazione o della sua spiegazione o comprensione storica» (GORLA, voce Diritto comparato e diritto stra-niero, p. 940).

Per quanto ci riguarda, la lezione di Mauro Cappelletti e di Vittorio Denti ci porta a privilegiare l’approccio metodologico che vede la comparazione come stru-

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mento di politica del diritto, a collocare il dato giuridico in un più ampio contesto culturale, a perseguire obiettivi che si legano ad un progetto «politico», alle prospet-tive di riforma nell’ambito dei singoli ordinamenti, alla ricerca del modello migliore (v. DENTI, Diritto comparato e scienza del processo, p. 334). In questa prospettiva, quello della conoscenza è il presupposto imprescindibile di una ricerca volta a scelte di valore, le quali sono dunque il risultato naturale e non meramente eventuale della comparazione ( Appendice I, nn. 7, 8). V. anche VARANO, Vittorio Denti com-paratista).

Diritto comparato e universalità della scienza giuridica

Può essere utile allo studente riflettere su una serie di altri scopi, di carattere teo-rico e pratico, che possono attribuirsi alla comparazione.

La comparazione mira a restituire alla scienza giuridica il carattere di universalità che è proprio di ogni scienza. Lo studio del diritto è di regola ancora oggi accentra-to sull’homo italicus (o germanicus o gallus etc.), non sull’uomo in quanto tale; le altre scienze studiano invece l’uomo, ora nel suo ambiente (fisica, ingegneria, medi-cina, biologia), ora nelle sue idee (scienze politiche, lettere, filosofia), nei suoi biso-gni (economia), nei suoi fini (sociologia, teologia). Nelle facoltà giuridiche, lo studio più che concentrarsi sull’uomo in quanto tale, in quello che potremmo definire il suo destino di convivenza, si concentra invece sull’homo italicus, o gallus, o germa-nicus. Paradossalmente, si può arrivare a dire che l’unica facoltà non umanistica sia la facoltà giuridica, se per umanesimo si intende l’interesse per i problemi e le crea-zioni dell’uomo, al di là dei gretti limiti locali.

Ma non fu sempre così, se solo si riflette sul fatto che nei suoi grandi periodi di fioritura la scienza giuridica ha avuto carattere di universalità. Si pensi all’espansio-ne universale del diritto romano, prima ratione auctoritatis ma poi auctoritate ratio-nis. Si pensi all’opera eccelsa delle scuole universitarie che fiorirono in Italia (Bolo-gna ha le sue origini nell’XI secolo), ma che diffusero i frutti del loro insegnamento in tutta Europa. In tali università si riscopriva, riadattandolo ai tempi, il diritto ro-mano: non si insegnavano gli jura locali, si insegnava a ricercare i principi e le solu-zioni di un diritto giusto, ossia «il metodo attraverso il quale era possibile individua-re, in qualsiasi paese, le soluzioni rispondenti a giustizia» (DAVID, JAUFFRET-SPINOSI, Sistemi, p. 2). Si pensi ancora al giusnaturalismo dei secoli XVII e XVIII.

In una certa misura, può dirsi che una unità di base si è mantenuta piuttosto nel-la tradizione di common law, ove non si è avuta una rottura rivoluzionaria con il passato come è avvenuto nella tradizione di civil law con le codificazioni, ove per lungo tempo ha svolto una importante funzione di uniformazione del diritto la Cor-te del Privy Council, ove la comunanza linguistica ha favorito scambi fra i vari paesi dell’area. Nella tradizione di civil law, invece, il periodo dell’universalità è finito con la nascita dello stato moderno e si è consolidato con le grandi codificazioni civilisti-che dell’800 che hanno profondamente minato il carattere extrastatuale del diritto civile. Scriveva in proposito nel 1951 FILIPPO VASSALLI (L’extrastatualità del diritto civile) parole tuttora valide:

«il diritto civile non è mai stato mancipio dello stato come è avvenuto nella fase più re-cente … ciò gli ha assicurato caratteri di eccellenza, di nobiltà e l’universalità durata at-

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traverso i secoli: poiché ha validità universale tra gli uomini la ragione, e poiché v’è una notevole costanza nel rapporto tra la natura umana e i mezzi per soddisfarne i bisogni».

Quella universalità è cessata con il collegamento del diritto civile alla sovranità de-gli stati nazionali, con le codificazioni posteriori alla rivoluzione francese, ispirate al

«pensiero degli uomini del 1789 …; il pensiero per cui il diritto positivo si identifica tutto con la legge, intesa come manifestazione … della volontà dello Stato» (ID.).

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il DAVID dei Grands Systèmes che però nel-la codificazione vede anche il germe della comparazione: con le codificazioni, infatti,

«la nozione di un diritto di valore universale perde credito, e, a seguito di questa ‘ri-voluzione culturale’, si manifestano a poco a poco dapprima l’opportunità, poi la ne-cessità, di confrontare le leggi tra loro … Lo sviluppo del diritto comparato è stata la conseguenza logica, inevitabile della nazionalizzazione che si è prodotta nella conce-zione stessa del diritto del XIX secolo» (cit., p. 2).

Dunque, può sostenersi che tra le funzioni della comparazione giuridica vi è an-che quella di recuperare la perduta universalità della scienza giuridica, andando ol-tre i confini nazionali, riscoprendo le analogie, ricostruendo le varie tradizioni giu-ridiche, comprendendo le ragioni storiche economiche sociologiche culturali delle differenze, chiarendo le tendenze di sviluppo. Non sfugge che questa funzione di-venta oggi della massima importanza, solo che riflettiamo, ad esempio, sull’inci-denza che sul diritto hanno i mezzi di comunicazione telematica: si parla di una new economy, di un e-commerce insofferenti a un legislatore esclusivamente nazionale. Si parla, più in generale, del fenomeno «globalizzazione» che non ha influenza solo sull’economia, ma anche sul diritto, e le sue fonti, sempre più sottratte al potere monopolistico di un legislatore (v. infra, Cap. II, §§ 3.2, 3.9).

Diritto comparato e comprensione

Si può ritenere, e ciò è tanto più importante in relazione con le esigenze del mondo in cui viviamo, che la comparazione mira a farci capire che non è barbarie la diversità di linguaggio, di costumi, di istituti, di leggi. Scriveva Tullio Ascarelli che questa è la massima funzione del diritto comparato:

«la comprensione e l’intelligenza, quella comprensione e intelligenza che, nell’ambito della comparazione tra diritti di popoli e stati diversi, significa cooperazione e pace: comprendersi … è un passo … sempre necessario per la cooperazione e la pace. Rompere il chiuso del proprio sistema giuridico significa allargare il proprio orizzon-te e la propria esperienza e perciò arricchirsi spiritualmente e rendersi conto dei propri limiti in uno spirito di modestia che, a sua volta, comporta tolleranza e liber-tà. Nella umanità della storia e del diritto, la rinuncia allo studio comparativo induce ad assumere come eterne e naturali caratteristiche invece storiche e transeunti e per-ciò conduce ad una rinuncia a quel rinnovamento che è legge di vita, ad una rinuncia all’esperienza altrui, chiudendosi in una specie di provincialismo intellettuale che mette facilmente capo ad un bizantinismo auto-soddisfatto» (ASCARELLI, Studi di di-ritto comparato, p. 43; cfr. anche CAPPELLETTI Appendice I, n. 7, e, per una di-versa prospettiva, SACCO, Introduzione, p. 5).

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Diritto comparato e comunicazione

Da un punto di vista pratico, il diritto comparato mira a far comunicare giuristi ap-partenenti a tradizioni diverse. La comparazione può cioè, attraverso la conoscenza di sistemi diversi, gettare un ponte fra di essi. UGO MATTEI e PIER GIUSEPPE MONATERI, nella loro Introduzione breve, pp. 9-10, possono aiutare a comprendere questo punto.

«Supponiamo che in un determinato paese un soggetto ‘A’ non voglia figurare come controllore di una certa società e perciò acquisti ugualmente il 51% delle azioni, ma intesti un 10% di esse ad altro soggetto ‘B’. Per essere certo di mantenere il control-lo su tali azioni A si fa rilasciare da B una dichiarazione con cui B riconosce che A è il ‘vero proprietario’ delle azioni, tanto che si impegna a votare sempre in assemblea secondo i voleri di A. Come affronterebbe questa vicenda un avvocato «romanista»: italiano, francese, spagnolo? Come affronterebbe questo stesso caso un common lawyer, cioè un avvo-cato inglese o americano? Il primo avvocato ragionerebbe in termini di simulazione e di titolarità fiduciaria. Questi termini non evocano nulla nella mente dell’avvocato inglese, anche perché nel suo diritto dei contratti manca assolutamente un capitolo dedicato alla simulazione. Peggio ancora se l’avvocato romanista cercasse di spiegarsi in termini di divergenza voluta tra volontà e dichiarazione nel negozio giuridico. L’avvocato americano reste-rebbe annichilito: in common law non esiste una teoria del negozio giuridico ed il lessico angloamericano impedirebbe di tradurre in modo significativo l’idea di una contrapposizione voluta tra volontà e dichiarazione. A sua volta l’avvocato inglese porrebbe immediatamente la questione in questi ter-mini: chi ha un ‘legal right’ e chi ha un ‘equitable interest’ sulle azioni? I termini legal right e equitable interest non hanno equivalenti nei sistemi romanisti e l’avvocato ita-liano non capirebbe nulla. Cercare di tradurli con «diritto legale» e «interesse equi-tativo» sarebbe sciocco e naïf. Insomma, la comunicazione tra avvocati appartenenti a due tradizioni giuridiche differenti sarebbe interrotta e la stessa operazione finan-ziaria ne risulterebbe compromessa».

Tra i compiti fondamentali del comparatista vi è dunque anche quello di far co-municare giuristi di tradizioni diverse assolvendo a compiti sia pratici sia teorici. Il comparatista si interroga, infatti, su come i diversi sistemi affrontino problemi ana-loghi. Il sistema inglese fa riferimento ad una contrapposizione tra law ed equity che si è realizzata storicamente e che ha contribuito a formare le categorie giuridiche at-traverso cui si affronta la questione dell’esempio; categorie diverse da quelle impie-gate per affrontarla nei sistemi romanisti. Proprio il modo concreto di costruire giu-ridicamente un dato problema di fatto indicherà al comparatista se i giuristi appar-tengono o meno alla stessa tradizione. Il comparatista osserverà quindi come le so-luzioni concrete, offerte dai vari avvocati, non saranno diverse, ma come siano espresse e spiegate in termini differenti, spesso incomunicabili. In tal modo il com-paratista giunge a conoscere come si organizzano, per esempio, il sistema inglese e quello italiano, aiutando le due tradizioni a comunicare fra loro.

In questo quadro si inserisce un’altra possibile finalità del diritto comparato, quella cioè di fornire gli strumenti per tradurre correttamente i testi giuridici. In-fatti, per ottenere tale risultato è necessario che l’interessato sia in grado di accertare che esista, nella lingua verso la quale traduce, un vocabolo concettualmente analogo

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a quello della lingua di partenza. Egli deve dunque ricostruire, attraverso il ricorso al diritto comparato, l’effettivo significato del termine nel contesto dell’ordinamento giuridico al quale appartiene per confrontare poi l’esito di tale operazione con il vo-cabolo offerto dall’altra lingua ed il relativo contesto. Quando la verifica di corri-spondenza produce un risultato positivo e le eventuali differenze di senso vengono giudicate trascurabili, la traduzione diretta non dà luogo a difficoltà. In caso contra-rio il traduttore potrà, alternativamente, lasciare il vocabolo nella sua lingua origina-le (come accade per es. per trust, franchising, šarī‘a) oppure creare un neologismo (come accadde a suo tempo per il negozio giudico rispetto al tedesco Rechtsge-schäft). (V. GAMBARO, SACCO, Sistemi giuridici comparati, p. 10 ss.).

La problematica sollevata dalla traduzione giuridica presenta, oltre che un inte-resse di tipo scientifico, anche un rilievo pratico assai significativo e pressante per gli organi dell’Unione europea i cui atti, come si sa, devono essere pubblicati in tut-te le lingue ufficiali dei paesi che la compongono. Attualmente, le lingue ufficiali sono 24 in rappresentanza di 28 stati membri. Sui temi “lingua e diritto” e “tradut-tologia”, e sull’importanza che hanno assunto nella comparazione, e in particolare nel quadro appena accennato dell’Unione europea, è venuta sviluppandosi una let-teratura assai ricca. Fra le tante opere, possono vedersi AJANI, PERUGINELLI, SARTOR, TISCORNIA (a cura di), The Multilanguage Complexity; FERRERI, Falsi amici; IORIATTI, Interpretazioni comparative; POZZO (a cura di), Lingua e diritto.

Diritto comparato e politica legislativa

I legislatori di tutto il mondo hanno sempre trovato che in molti settori non è possibile emanare buone leggi senza essere al corrente delle soluzioni e della disci-plina offerta negli stessi settori da altri paesi.

La storia fornisce vari esempi di imitazione, o addirittura di trapianti ( Appendice I, n. n) massicci di interi sistemi normativi da un paese all’altro (per un’articolata di-scussione sui problemi di trapianti e recezioni v. GRAZIADEI, Comparative law). L’e-sempio classico è quello del Code civil, che le armate napoleoniche imposero in molti paesi europei ma che rimase in vigore anche dopo la restaurazione e costituì il modello cui si ispirò, ad esempio, la nostra prima codificazione unitaria perché continuava a ri-spondere bene alle esigenze della società italiana del tempo. Un altro esempio può esse-re quello dei codici latinoamericani che derivano da indagini comparatistiche e scelte eclettiche fra varie soluzioni europee (v. infra, Cap. V, § 1.2). Può anche ricordarsi l’esperienza della Turchia di Kemal Atatürk, che negli anni ’20 recepisce, nella sua ansia di modernizzazione, il codice civile svizzero e un blend dei codici di commercio tedesco e italiano, o l’esperienza del Giappone che, dopo avere subito una forte influenza dei codici tedeschi (civile e di procedura civile), accoglie, nel secondo dopoguerra, molte istituzioni dell’ordinamento degli Stati Uniti d’America (v. infra, Cap. V, sez. III).

Il processo di utilizzazione di esperienze straniere suggerisce qualche considera-zione non secondaria, e qualche cautela, anche al fine di controllare il fenomeno dei flussi giuridici cui fa molto opportunamente riferimento Maurizio Lupoi, intenden-do per «flusso giuridico» «qualsiasi dato dell’esperienza giuridica il quale, proprio di un sistema, sia percepito in un altro e qui introduca un elemento di squilibrio» (LUPOI, Sistemi, p. 60, e, più in generale, Cap. II, § 2).

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In primo luogo, il comparatista sa che anche se due testi normativi sono identici, non è detto che la pratica applicativa sia anch’essa identica. In altre parole, il com-paratista sa che non è sufficiente, per un soddisfacente confronto e un eventuale trapianto, stare sulla superficie della law on the books, ma occorre spingersi a guar-dare attentamente anche la law in action.

In secondo luogo, ai fini dell’adozione di una soluzione accolta in un altro ordi-namento, occorre verificare da un lato se tale soluzione funziona bene nel paese che l’ha seguita, e dall’altro se può funzionare bene anche altrove senza provocare crisi di rigetto, tenuto conto delle differenze fra le strutture politiche, economiche e so-ciali sottostanti a ordinamenti giuridici diversi. Si parla non a caso di trapianti giuri-dici (legal transplants), i quali possono avvenire vuoi per il prestigio del modello, vuoi per le particolari relazioni politiche tra gli Stati, vuoi per la contiguità linguisti-ca tra i sistemi, vuoi per motivi legati ai processi di colonizzazione: come i trapianti di organi, anche i trapianti giuridici non sempre hanno esiti positivi.

Qualche esempio può essere utile per illustrare questo punto.

Come è noto, negli ordinamenti di civil law la donazione è un contratto che deve essere stipulato per atto pubblico a pena di nullità (v., ad es., gli artt. 769 e 782 del codice civile italiano). Nella common law un contratto è valido solo se implica prestazioni corrispettive, una consideration adeguata, e pertanto la donazione, in quanto promessa non sostenuta da una consideration adeguata, è valida solo se fatta in una forma circondata di particolari solennità (under seal). Al fine di liberare il diritto di New York dalle incrostazioni medievali del diritto inglese, la Law Revision Commission di quello Stato propose, nel 1941, di adottare per le donazioni la solu-zione di civil law e di attribuire al notary public il compito di redigere i relativi atti. Fu il Professor Schlesinger, della Cornell Law School, chiamato a fornire il suo pa-rere di esperto, a segnalare al legislatore di New York l’errore che stava per com-mettere, affidando funzioni delicate e complesse del notaio di civil law ad un sogget-to, il notary, che non era assolutamente attrezzato a compierle. L’esempio è riporta-to appunto nel Casebook di MATTEI, RUSKOLA, GIDI, Schlesinger’s Comparative Law, p. 145 ss., ove si sottolinea che, a parte il nome, il notary public di New York e in generale degli Stati Uniti, ha ben poco in comune con il notaio della civil law, di-fettando della sua preparazione giuridica e del suo status professionale.

Un secondo esempio viene dal diritto pubblico, e muove dalla constatazione che gli USA sono la culla del costituzionalismo moderno, caratterizzato da una co-stituzione scritta e rigida, vecchia più di duecento anni, e dal controllo che i giudici si sono attribuiti, con il famoso caso Marbury v. Madison (1803), sulla costituzionali-tà delle leggi (v. infra, Cap. III, § 4.5). Molti paesi di civil law, hanno mutuato dagli Stati Uniti l’idea di costituzione scritta e rigida, ma quando si è trattato di disegnare il meccanismo di controllo della costituzionalità delle leggi non hanno adottato il modello americano di controllo diffuso fra tutti i giudici e solo in ultima istanza af-fidato alla Corte suprema, preferendo invece il modello di controllo accentrato, af-fidato ad una apposita Corte costituzionale, che Kelsen utilizzò per la costituzione austriaca del 1920-29. Le ragioni della scelta sono varie e tutte convincenti. Si va da una più rigida adesione dei paesi di civil law alla dottrina della separazione dei pote-ri (che porta la Francia al rifiuto, almeno in linea di principio, e almeno fino alla ri-

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forma costituzionale del 2008, dell’idea di controllo giudiziario; v. infra, Cap. II, § 3.3), alla pluralità di corti supreme, e quindi alla possibilità di conflitti fra le stesse, a fronte dell’unica Corte suprema federale degli Stati Uniti; alla struttura complessa delle corti supreme di civil law, articolate in una pluralità di sezioni con molte deci-ne di giudici a fronte della semplice, compatta e autorevole struttura della Corte su-prema degli USA (9 giudici in tutto); al fatto che le corti supreme di civil law difet-tano del potere discrezionale di selezione dei casi; alla inidoneità del giudice di car-riera a formulare i giudizi di valore tipici dell’interpretazione costituzionale (molte opere di MAURO CAPPELLETTI hanno sottoposto ad accurata analisi e valutazione comparativa i vari modelli di controllo di costituzionalità delle leggi: si va dal fortu-nato volumetto Il controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi, ai saggi contenu-ti nella Part II di The Judicial Process in Comparative Perspective, p. 115 ss.).

Per chiudere con la carrellata degli esempi, siamo poi convinti che il nuovo codi-ce di procedura penale, entrato in vigore in Italia nel 1989, non abbia avuto quel suc-cesso che i suoi proponenti si aspettavano, anche perché il legislatore non ha tenuto nel debito conto che il modello avversario cui il codice si ispirava non poteva funzio-nare da noi come negli Stati Uniti, dove il prosecutor è un funzionario del Diparti-mento della Giustizia, gode di una grande discrezionalità, e il trial, il dibattimento, è un lusso cui si ricorre in una percentuale bassissima di casi (per questi rilievi, v. già DENTI, Diritto comparato, p. 348 ss., nonché GRANDE, Italian Criminal Justice).

Diritto comparato e interpretazione del diritto nazionale: un dialogo tra corti?

Se appare scontato che il confronto con altri sistemi giuridici, il ricorso cioè alla comparazione, può consentirci una migliore conoscenza del nostro diritto, ed essere utilissimo, come si è visto, a fini di riforma, ci si deve chiedere se e in che limiti ci si possa avvalere di una soluzione straniera per l’interpretazione del diritto del proprio paese (è particolarmente attento a sottolineare questa funzione della comparazione MARKESINIS, Il metodo della comparazione).

Tradizionalmente i comparatisti si sono occupati di circolazione di modelli giu-ridici e di trapianti che presuppongono un sistema che “esporta” e un sistema che “importa” idee, istituti, interi codici o costituzioni e di questi argomenti abbiamo appena parlato e parleremo ancora più avanti. Qui è opportuno osservare che oggi, soprattutto guardando ad alcune corti che operano il controllo di costituzionalità e guardando anche alla Corte di giustizia di Lussemburgo e a quella dei Diritti del-l’uomo di Strasburgo, si è instaurata una forma quasi dialogica di rapporto: le corti supreme talvolta dialogano tra loro (vedi il sapiente volumetto di CASSESE, I tribuna-li di Babele). Ciò ha reso la comparazione uno strumento di interpretazione. E se leggiamo i casi che spingono i giudici a guardare oltre i propri confini, ci accorgia-mo che molto spesso questi concernono i diritti fondamentali o, come dice Zagre-belsky, «gli aspetti fondamentali dei diritti fondamentali: la pena di morte, l’età e lo stato psichico dei condannati; i diritti delle persone omosessuali; le azioni positive a favore della partecipazione politica delle donne o contro storiche discriminazioni razziali, ad es. nell’accesso al lavoro o all’istruzione; la regolamentazione dell’aborto e, in generale, i problemi posti dalle applicazioni tecniche delle scienze biologiche a

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numerosi aspetti dell’esistenza umana; la libertà di coscienza rispetto alle religioni dominanti e alle politiche pubbliche nei confronti di scuole e confessioni religiose» (ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, p. 403).

Non tutti i giudici hanno, però, la medesima propensione alla comparazione. Vi sono ordinamenti in cui il richiamo all’esperienza straniera, soprattutto quando si devono risolvere questioni nuove o particolarmente difficili, è frequente, ordina-menti in cui ciò avviene meno frequentemente ed ordinamenti in cui è piuttosto ra-ro. È possibile quindi classificare alcuni paesi significativi in considerazione della propensione delle corti alla comparazione.

Prima di individuare i differenti modelli, si può osservare in via generale che nei sistemi di common law ove, come vedremo meglio in seguito, non si è conosciuto il fenomeno della codificazione e che continuano ad essere “sistemi aperti” in cui il giudice è chiamato a svolgere una funzione esplicitamente creativa, è relativamente frequente il caso di sentenze che si richiamano ad esperienze di altri paesi, apparte-nenti non solo alla medesima tradizione ma anche ad altre (GROPPI, PONTHOREAU, The Use of Foreign Precedents by Constitutional Judges).

Mentre alcuni autori propongono quattro gruppi (MARKESINIS e FEDKE, Giudici e diritto straniero, p. 99), a noi pare più opportuno limitare i gruppi a tre.

Nel primo gruppo devono essere compresi quei paesi che non sembrano molto favorevoli alla comparazione. È il caso della Francia, dato che le sentenze delle corti superiori sono famose per la loro brevità e i giudici sono abituati a na-scondere la loro funzione creativa dietro lo stretto riferimento alla legge nazionale. Diversa la situazione del Conseil constitutionnel le cui decisioni, soprattutto dopo la recente e importante riforma del 2008, seguono uno stile più discorsivo e aper-to ai riferimenti diversi dal solo testo legislativo nazionale (sulla riforma del Con-seil v. infra, Cap. II, § 3.3).

Anche con riferimento all’Italia, è stata osservata la «disattenzione di avvocati e magistrati … a quanto avviene all’estero» (ALPA, L’arte di giudicare, p. 37; v. anche ZENO-ZENCOVICH, Il contributo storico-comparatistico). Tuttavia nel nostro paese non mancano importanti e via via meno rari esempi di comparazione svolta sia dalla Corte di cassazione sia dalla Corte costituzionale.

Per la prima ipotesi si ricorda il caso di Scientology, del 1996, in cui la Suprema corte cassò la decisione dei giudici d’appello di Milano in quanto avevano esplici-tamente escluso di poter ricorrere, nella determinazione della natura religiosa del gruppo di Scientology, alle «sentenze di autorità giudiziarie di altri stati». E soprat-tutto si ricorda la sentenza n. 21748 del 2007 in tema fine vita. Si tratta del noto ca-so Englaro, ove si doveva decidere circa la legittimità della richiesta, da parte del padre, di interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiali della figlia in coma vegetativo permanente. Per risolvere il difficile caso la Cassazione, in assenza di una specifica disciplina legislativa, fa riferimento ai principi costituzionali ed inoltre prende in considerazione, attraverso citazioni puntuali ed estese, addirittura in lin-gua originale, la giurisprudenza delle corti americane, della House of Lords, del tri-bunale costituzionale federale tedesco e la legislazione francese ( Appendice I, n. e. Il caso Englaro è stato poi richiamato anche dal Presidente Carbone nella rela-zione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2007 proprio come importante

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esempio di uso giurisprudenziale della comparazione. Non si può non ricordare che la disciplina del fine vita è stata adottata dal legislatore del nostro paese nel 2017, a dieci anni di distanza dal caso Englaro.

Per la seconda ipotesi si ricorda la sentenza n. 71 del 1987 con cui la Corte costitu-zionale ha dichiarato illegittima la disposizione di diritto internazionale privato che in caso di divorzio prevedeva l’applicazione dell’ultima legge nazionale comune dei co-niugi e, in mancanza, della legge nazionale del marito al momento del matrimonio, per contrasto con il principio di uguaglianza e di parità tra marito e moglie: nel fare ciò ha richiamato la giurisprudenza tedesca. Ma più significativo è citare la sentenza n. 123 del 2017: qui la Corte costituzionale, decidendo che l’istituto della revocazione non si estende all’ipotesi del giudicato amministrativo contrastante con una sopravve-nuta sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, analizza con grande attenzio-ne la rilevante giurisprudenza di Strasburgo. La Corte osserva inoltre come solo la metà degli stati del Consiglio d’Europa abbia introdotto strumenti volti a consentire la riapertura dei processi civili a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti del-l’uomo di accertamento di violazioni convenzionali e analizza in dettaglio la disciplina adottata da Germania, Spagna e Francia ( Appendice I, n. f).

Il secondo gruppo raccoglie i paesi in cui le corti fanno uso della comparazione quale strumento di interpretazione in modo piuttosto frequente. È il caso del-l’Inghilterra ove, soprattutto a partire dagli anni ’80 e dall’entrata in vigore dello Human Rights Act, vi è la tendenza dei giudici a invocare il diritto straniero come prova supplementare o a supporto di quello che cercano di dimostrare. White v. Jo-nes, pur non recente, è un caso estremamente significativo sotto il profilo del meto-do comparativo. Qui la House of Lords doveva decidere della responsabilità dei so-licitors di un testatore defunto. I solicitors non avevano infatti modificato il testa-mento, secondo le indicazioni del testatore, e quando questi morì le figlie, che non avevano ricevuto quanto sarebbe spettato loro se i solicitors avessero modificato il testamento per tempo, citarono in giudizio i solicitors. Nel decidere la questione, i Law Lords presero in considerazione numerosi ordinamenti stranieri (Nuova Ze-landa, Canada, California, Francia, Olanda) ed esaminarono con grande attenzione e dovizia di particolari la soluzione tedesca. Soluzione che fu seguita e che portò alla condanna dei solicitors al risarcimento del danno ( Appendice I, n. g). Per ciò che concerne il sistema inglese, ci possiamo chiedere se la particolare apertura della nuova Supreme Court rimarrà tale anche con l’uscita dall’Unione europea.

In questo gruppo si può inserire la Corte costituzionale ungherese, di istituzione relativamente recente che, soprattutto quando deve decidere questioni che riguar-dano i diritti fondamentali, adotta il metodo comparativo ( Appendice I, n. h).

Alcuni autori inseriscono nel secondo gruppo anche la Germania ove, princi-palmente a livello di Bundesverfassungsgericht, il tribunale costituzionale federa-le, il metodo comparativo viene spesso usato in aggiunta ai mezzi di interpretazio-ne tradizionali per confermare e per promuovere un risultato (MARKESINIS e FEDKE, Giudici e diritto straniero, p. 111; SOMMA, L’uso giurisprudenziale della comparazione).

Infine vi sono alcuni, rari, ordinamenti nei quali i giudici fanno apertamente uso della comparazione come prassi regolare.

Capitolo I 20

Gli esempi più noti sono due: Canada e Sud Africa. Ragioni storiche e istituzio-nali spiegano la particolare attitudine di questi due paesi.

Per quanto riguarda il primo caso, le vicende storiche hanno spinto il Canada verso un approccio aperto e multiculturale al diritto: le corti canadesi citano non solo la giurisprudenza inglese, del Commonwealth o americana, ma anche i sistemi di civil law, al di là dell’ovvio interesse per il diritto francese; inoltre, soprattutto a partire dagli anni ’80, questo paese è stato attratto intensamente dall’ordinamento statunitense non solo per ragioni geografiche ma soprattutto perché, con l’intro-duzione della Charter of Rights and Freedoms, l’ordinamento confinante si è rivela-to un’ottima fonte di ispirazione. Un esempio significativo è offerto dal famoso caso, del 1995, Hill v. Church of Scientology of Toronto, in cui la Corte suprema ha affer-mato che non avrebbe più seguito in materia di diffamazione la regola dell’“actual malice” ricavabile dalla giurisprudenza della Corte suprema degli Stati Uniti. La Corte canadese è giunta alla conclusione di abbandonare la regola americana dopo avere attentamente considerato le sentenze delle corti superiori inglesi e australiane nonché le conclusioni della Reform Commission sia australiana sia irlandese. La di-sponibilità al dialogo con altre corti trova conferma anche in pronunce meno datate tra le quali è importante ricordare United States v. Burns, del 2001, ove la Corte su-prema canadese affronta la questione dell’estradizione di un cittadino verso un pae-se (nel caso particolare, verso gli Stati Uniti) in cui è ammessa la pena capitale. La Corte conclude che la Charter of Rights and Freedoms (in cui si sancisce il diritto alla vita e si vieta ogni punizione crudele) impone al governo canadese di richiedere obbligatoriamente assicurazione al paese terzo che l’estradato non sarà condannato alla pena di morte. La Corte trova sostegno per queste conclusioni in una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Soering c. Regno Unito, 1989) in cui, ana-logamente, il Regno Unito aveva rifiutato l’estradizione di un proprio cittadino ver-so gli Stati Uniti e ricorda inoltre come in numerosi paesi sia da tempo avvertita la preoccupazione per le condanne alla pena capitale a seguito di errori giudiziari. A questo proposito essa richiama alcune affermazioni della House of Lords, della cor-te d’appello e del Privy Council inglesi, nonché i molti studi condotti negli Stati Uniti sul tema e le affermazioni espresse in alcune opinioni dissenzienti dei giudici della Corte suprema americana.

Le ragioni che hanno spinto il Sud Africa ad un atteggiamento tra i più aperti ri-spetto al diritto straniero sono ovviamente diverse. La recente e travagliata storia politico-costituzionale di questo paese, che ha portato ad una costituzione provviso-ria per gli anni 1993-1995 e al testo definitivo in vigore dal 1996, ha prodotto una originalissima disposizione in tema di interpretazione dei diritti fondamentali. Infat-ti, il secondo capitolo della costituzione, che contiene il Bill of Rights, prevede, nel primo paragrafo dell’art. 39, che:

«When interpreting the Bill of Rights, a court, a tribunal or forum a) must promote the values that underlie an open and democratic society based on human dignity, equality and freedom; b) must consider international law; c) may consider foreign law».

La lettera c) dell’articolo riportato prevede evidentemente una positivizzazione,

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a livello di carta fondamentale, del metodo comparativo quale canone ermeneutico. Tra i vari casi in cui la Corte suprema sudafricana “dialoga” con corti straniere, di particolare interesse è la pronuncia resa nel 1997 in S. v. Lawrence, ove si richiama la giurisprudenza nordamericana relativa alla laicità dello stato sebbene questo principio non sia espressamente accolto nella costituzione sudafricana. Uno dei giu-dici, nel giustificare il ricorso alla comparazione, afferma di basarsi sulle considera-zioni di alcuni membri della Corte suprema degli Stati Uniti non certo perché le de-cisioni di questa corte costituiscono un precedente, ma perché esprimono

“in an elegant and helpful manner problems which face any modern court. Thus, though drawn from another legal culture, they express values and dilemmas in a way which I find most helpful in elucidating the meaning of our constitutional text”.

Disposizioni simili a quella nordafricana si trovano oggi anche nelle costituzioni di Papua Nuova Guinea, Repubblica delle Isole Fiji e Repubblica delle Isole Sey-chelles.

Nel manuale dedichiamo uno spazio considerevole all’esperienza giuridica degli Stati Uniti e tuttavia questo paese non si trova in nessuno dei tre gruppi sopra indi-viduati. L’esperienza americana merita infatti un discorso a parte, in considerazione dei recenti sviluppi della giurisprudenza e dei nuovi contributi della dottrina. Come si pone la Corte suprema degli Stati Uniti rispetto alla questione dell’espresso rife-rimento al diritto straniero? La risposta deve essere collocata in prospettiva storica. Anche alcuni di coloro che oggi criticano duramente il riferimento alle esperienze straniere dei giudici americani riconoscono che tale prassi è parte della tradizione di common law e che nelle storia vi sono molti e risalenti esempi di questa prassi.

Senza andare a cercare lontano, è sufficiente aprire un noto manuale di introdu-zione al diritto comparato per leggere due esempi classici americani (SCHLESINGER et al., Comparative Law, 6th ed., p. 3).

Il primo è Muller v. Oregon (1908), un famoso caso della Corte suprema degli Stati Uniti, in cui l’avvocato Brandeis (che diventerà in seguito giudice della medesima corte) vinse la causa per lo stato dell’Oregon grazie ad una memoria in cui si facevano ampi riferimenti alle legislazioni straniere in materia di limite al numero di ore lavora-tive per le donne: leggi di numerosi stati americani, leggi di Gran Bretagna, Svizzera, Austria, Olanda, Italia, Germania. Nella sua opinione la corte riprese esplicitamente tutti questi riferimenti per affermare che una legge, concernente una particolare disci-plina per l’orario delle donne lavoratrici nell’Oregon, che trovava rispondenza nella maggior parte delle nazioni civili, non poteva essere ritenuta costituzionalmente inva-lida in quanto irragionevole o arbitraria ( Appendice I, n. i).

Il secondo è Greenspan v. Slate (1953), un caso deciso dalla Corte suprema del New Jersey. L’oggetto della questione, portato per la prima volta all’attenzione della Corte, era se i genitori di un minore fossero responsabili, in assenza di un contratto espresso o tacito, nei confronti di un terzo per avere questi prestato il necessario aiuto al figlio in caso d’emergenza. La corte aveva davanti a sé la scelta tra la regola di common law, secondo la quale l’obbligo dei genitori di mantenere il figlio è una mera obbligazione naturale, e quella di equity assai simile a quella della tradizione di civil law. La corte scelse di privilegiare quest’ultima, affermando che il diritto romano e la

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moderna civil law dimostrano la superiorità della regola di equity. Nella sentenza si citano per esteso, a sostegno della regola prescelta, le disposizioni rilevanti dei codici austriaco, francese, tedesco, italiano, svizzero ( Appendice I, n. j).

Dunque negli Stati Uniti non è una novità che le corti, nel momento in cui devo-no risolvere casi nuovi o difficili, prendano in considerazione, come ausilio interpre-tativo, esperienze giuridiche diverse dalla propria. Tuttavia in questo paese alcuni giudici e parte della dottrina oggi contestano duramente tale prassi e l’atteggiamen-to negativo forse è dovuto, oltre che alla presente accentuata contrapposizione ideo-logica che divide i giudici della Corte suprema, anche a tre recenti ed importanti sentenze che probabilmente sono all’origine di gran parte del dibattito.

Atkins v. Virginia, del 2002, e Roper v. Simmons, del 2005, riguardano entrambe l’interpretazione dell’VIII emendamento che vieta la comminazione di pene crudeli e insolite. Nei due casi, facendo anche riferimento ad esperienze diverse da quella americana, si dichiarano illegittime rispettivamente una legge statale che prevede la pena capitale per persone mentalmente incapaci ed una che prevede la pena capita-le per le persone minori.

Ma la sentenza che ha suscitato il maggior clamore è senz’altro Lawrence v. Te-xas, del 2003 ( Appendice I, n. l). Qui la Corte suprema decide che la “sodomy law” del Texas – che sanziona penalmente gli atti di sodomia anche se svolti tra adulti consenzienti nell’intimità domestica – costituisce una violazione del diritto di libertà, nella sua veste di privacy, tutelato dalla due process clause del XIV emen-damento. L’opinione di maggioranza fa in più occasioni espresso e preciso riferi-mento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e ad alcuni do-cumenti internazionali. Il giudice Scalia scrive una durissima opinione dissenziente sia riguardo al merito sia riguardo all’uso delle fonti straniere (su questa importante sentenza, v. BARSOTTI, Privacy).

È dopo queste sentenze che il dibattito sul tema dell’uso giurisprudenziale della comparazione si intensifica, concretandosi non solo in prese di posizione pubbliche da parte dei giudici e in interventi della dottrina ma anche in una Risoluzione alla Camera dei rappresentanti, che non ha avuto alcun seguito, volta ad impedire ai giudici federali qualunque riferimento a fonti straniere ( Appendice I, n. m).

L’espressione “dialogo tra corti” può riferirsi non solo al fenomeno dell’uso della comparazione come strumento di interpretazione (e in questo caso si parla di dialogo orizzontale), ma può riferirsi anche al proficuo rapporto che si instaura tra le corti na-zionali e le due corti europee, la Corte di giustizia dell’Unione europea con sede a Lussemburgo e la Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo (e in que-sto caso si parla di dialogo verticale). V. diffusamente, infra, Cap. II, §§ 3.4 e 3.5.

Diritto comparato, globalizzazione e armonizzazione del diritto

Diritto comparato e globalizzazione

Si è già accennato, ricordando il convegno parigino del 1900, che Saleilles e Lambert attribuivano alla comparazione giuridica il compito di gettare le basi per un diritto comune dell’umanità. Se questo era, ed è, utopia, è però indispensabile, tanto più nella realtà contemporanea, cercare una certa unificazione/armonizza-zione del diritto, soprattutto in alcuni settori, a livello regionale ma anche su scala

Introduzione al diritto comparato

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mondiale. (Incidentalmente, l’unificazione/armonizzazione del diritto è un obiettivo talvolta molto sentito anche a livello di ordinamenti nazionali. L’esempio classico è quello degli Stati Uniti, dove molti strumenti e metodi sostanzialmente di compara-zione sono usati per avvicinare i diritti dei singoli Stati, dalle “leggi modello”, al Re-statement, all’educazione giuridica quale viene impartita nelle grandi Law Schools: sul punto, v. più diffusamente infra, Cap. III, § 4.7).

Un metodo di unificazione è quello risultante da convenzioni internazionali. Oltre alle più risalenti, quali la convenzione di Ginevra del 7 giugno 1930 sulla cambiale e il vaglia cambiario o la convenzione di Ginevra del 19 marzo 1931 sull’as-segno, si deve ricordare che più recentemente convenzioni internazionali di ogni tipo sono state elaborate sotto gli auspici della Conferenza dell’Aja sul diritto internaziona-le privato; dell’UNCITRAL, ossia la Commissione delle Nazioni Unite istituita nel 1966 con il compito di modernizzare e armonizzare le regole del commercio interna-zionale; dell’Istituto per l’unificazione del diritto privato (UNIDROIT), istituito nel 1926 come organo della Società delle Nazioni, oggi un istituto indipendente con se-de a Roma. Le aree toccate dalle convenzioni (e/o dalle leggi modello predisposte da questi organismi) sono molte, sia di diritto sostanziale che di diritto processuale: dalla Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sui contratti di vendita internazio-nale di merci, alla Convenzione di New York sul riconoscimento e l’esecuzione del-le sentenze arbitrali straniere (1958), alla Convenzione dell’Aja del 18 marzo 1970 sull’assunzione di prove all’estero in materia civile e commerciale, alla Convenzione dell’Aja sugli accordi di scelta del foro del 30 giugno 2005.

Il fenomeno globalizzazione caratterizza gli ultimi decenni del secolo scorso e l’inizio di questo. Anche il diritto è pienamente coinvolto dalla tendenza, che ne scaturisce, ad attenuare le differenze, ad imporre un unico modello di regolamenta-zione economico-sociale. In che cosa si manifesta la globalizzazione del diritto, e qual è il compito che il comparatista deve porsi di fronte a questo fenomeno?

In primo luogo, sono sorti molti organismi, molti sistemi giuridici, se si vuole usa-re questa espressione, dotati di poteri normativi e anche di meccanismi di soluzione delle controversie e attuazione delle decisioni, accanto e al di sopra degli stati naziona-li che hanno ceduto ad essi parte della propria sovranità. A livello globale, spiccano organi quali la World Trade Organization (WTO), creata allo scopo di stabilire regole del commercio internazionale fra gli oltre 150 paesi partecipanti e risolvere le contro-versie fra di essi; a livello regionale, spicca l’Unione europea, sulla quale ritorneremo più avanti.

In secondo luogo, è da segnalare – a testimonianza ulteriore della crisi delle fonti e del diritto statuali – il fiorire della c.d. soft law (per non parlare delle prassi svi-luppate dai grandi studi legali internazionali) che, auspice la globalizzazione, tende a sostituirsi ai legislatori nazionali per regolare molte relazioni sociali, soprattutto a carattere transnazionale. Gli esempi sono molti, ma piace qui ricordarne due. L’UNIDROIT ha elaborato fra il 1980 e il 1994, sotto l’impulso di Joachim Bonell, e rivisto nel 2004, nel 2010, e nel 2016, una disciplina uniforme dei principi dei con-tratti commerciali internazionali, che sta diventando un punto di riferimento non marginale per corti e collegi arbitrali ( Appendice I, nn. 2 e 3); BONELL, Un co-dice internazionale, spec. il cap. 6 su “I principi UNIDROIT nell’esperienza prati-

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ca”). L’altro esempio è quello dei “Principles and Rules of Transnational Procedu-re” ( Appendice I, n. 4) che ha origine, ad opera soprattutto di Geoffrey Hazard e Michele Taruffo, nell’ambito dell’American Law Institute, cui nel 2001 si affianca ancora l’UNIDROIT. Ambedue gli organismi approvano, nel 2004, la prima parte, quella dei “Principles”, sui quali l’accordo era più semplice, data la loro generalità, definiti come una sorta di distillato delle caratteristiche fondamentali del processo civile, o di uno jus gentium in materia di procedura civile. Lo scopo primario di questa impresa tipicamente dottrinale è quello di proporre un modello di processo accettabile in tutto il mondo (e quindi privo di una identificazione troppo marcata con i connotati culturali di un ordinamento) per la soluzione delle controversie commerciali transnazionali. Ma non manca uno scopo più ambizioso: offrire ai legi-slatori dei vari paesi un modello di soluzione delle controversie civili al quale ispi-rarsi per le iniziative di riforma nazionali con l’obiettivo di attenuare le divergenze fra i vari ordinamenti processuali.

In terzo luogo, sembra da molti esempi che vi sia una sorta di dialogo fra legisla-tori, che tendono a riforme caratterizzate da una filosofia della convergenza. Ciò è di particolare interesse, ancora una volta, nell’area della giustizia civile, proprio perché questa è tradizionalmente collegata in modo assai stretto con lo stato e i suoi confini. Eppure, a fronte del carattere nazionale del processo civile, l’esperienza comparativa dimostra che si sta verificando un ampio e complesso movimento di armonizzazione, che probabilmente ha avuto inizio nel momento in cui le nuove co-stituzioni del secondo dopoguerra, e strumenti internazionali come la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU, art. 6), hanno promosso una prima condivisione di quei valori e garanzie fondamen-tali che si esprimono nell’indipendenza e imparzialità del giudice e nel giusto pro-cesso (due process, fair trial). Nonostante che alcune delle differenze siano radicate profondamente nell’identità culturale di un popolo (si pensi alla giuria negli Stati Uniti), e che molte regole di dettaglio continuino a essere diverse, numerosi sistemi di giustizia civile sono stati investiti da un movimento di riforma inteso a rendere sempre più effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti. Tale movimento, che ha coinvolto paesi fra loro tanto diversi quali Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Spagna, Olanda, Norvegia, e fuori d’Europa, ad esempio, Australia e Giappone, con-ferma l’affermazione di una filosofia della convergenza. La ragione è bene espressa nella relazione di accompagnamento al nuovo codice norvegese del 2008: «È impor-tante che il processo sia in linea di principio comprensibile anche per gli stranieri, giacché sempre più spesso le corti norvegesi hanno a che fare con controversie che coinvolgono parti non norvegesi» (VALGUARNERA, Le riforme, p. 887; sul grande movimento di riforma e di armonizzazione che attraversa il mondo della giustizia civile, v. il recente volume curato da WALKER, CHASE, Common Law Civil Law non-ché il saggio di CHASE, VARANO, Comparative Civil Justice).

Di fronte a questi esempi di armonizzazione, nei quali si esprime il fenomeno globalizzazione del diritto, il comparatista ha una grande occasione per fare il suo mestiere e portare il suo contributo metodologico e di conoscenza all’individua-zione delle vie possibili della convergenza. Diverso invece è il caso in cui globalizza-zione diventa sinonimo di imperialismo culturale, di matrice prettamente statuni-

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tense. In questo caso istituzioni quali la Banca mondiale o il Fondo monetario in-ternazionale e quei gruppi di giuristi ed economisti che insieme esprimono la dot-trina del c.d. Washington consensus pretenderebbero dal diritto comparato di esse-re uno strumento volto a fare emergere ciò che difetta in altre società e che impedi-sce loro di essere più simili al mondo occidentale, chiedendo dunque a sistemi non occidentali o “meno avanzati” di rinunciare, in cambio di aiuti finanziari, alle pro-prie particolarità politiche e culturali (v. in argomento MATTEI, RUSKOLA, GIDI, Schlesinger’s Comparative Law, p. 13 ss., e, in particolare, la sintesi del World Deve-lopment Report 2002, Chapter 6. The Judicial System, pp. 5-30, in cui la World Bank sostanzialmente prescrive ai paesi “assistiti” di conformarsi alle proprie direttive in materia di organizzazione giudiziaria; di grande interesse è anche il libro di BUSSANI, Il diritto dell’Occidente, che si interroga su questioni cruciali vicine a quelle appena ricordate, e volte a capire chi “fabbrica il diritto”, “chi decide le regole del com-mercio, della finanza, dei diritti umani”, a livello locale e globale). È questo un ap-proccio alla comparazione da respingere con decisione. Il comparatista non ha in-fatti solo il compito di favorire armonizzazione e convergenza, a tutti i costi, ma ha anche un altro compito – che Cappelletti definiva “pacificatore” – quello di «capire e di far capire le differenze, intendendole nelle loro significazioni storiche, sociali, ideali» (CAPPELLETTI, Il diritto comparato e il suo insegnamento, pp. 276-277). Il comparatista deve cioè comprendere che la globalizzazione, «è [sicuramente] un fattore molto potente che produce uniformità – o almeno una spinta verso l’unifor-mità – della cultura», ma «crea [anche] numerose e diversificate controspinte negli ambienti sociali e culturali che resistono alla omogeneizzazione forzata … donde la riemersione o il rafforzamento “difensivo” dei fattori socio-culturali locali» (TARUF-FO, Dimensioni transculturali, p. 1059; su questi temi, v. anche VARANO, Civil law e common law, p. 38 ss.).

Diritto comparato e unificazione e armonizzazione regionale

Vari esempi potrebbero farsi di unificazione e armonizzazione a livello regionale, ma soprattutto due sono gli esempi che hanno prodotto i risultati più convincenti, e meritano quindi di essere qui ricordati.

Il primo, che sarà trattato diffusamente nel Capitolo IV, è quello costituito dal-l’esperienza dei paesi scandinavi che sono riusciti a disciplinare con successo in maniera uniforme settori relativamente ampi del diritto fin dal XIX secolo.

Il secondo esempio è quello dell’Unione europea, che ha prodotto fra i suoi paesi membri, dai sei fondatori (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lus-semburgo) ai ventotto attuali, un livello notevole di armonizzazione. Come è noto, in origine esistevano tre distinte comunità, la Comunità del carbone e dell’acciaio (1952), la Comunità economica europea (1958), e la Comunità per l’energia atomica (EURATOM, 1958), riunite nel 1967 in un’unica Comunità europea articolata in quattro istituzioni, che, dopo il Trattato di Lisbona del 2009, si presentano schema-ticamente, come segue.

La Commissione è sicuramente una delle istituzioni più importanti dell’Unione, suo organo esecutivo e motore della produzione normativa, avendo anzi il monopo-

Capitolo I 26

lio sul potere di iniziativa legislativa. È composta da 28 membri, uno per ogni stato compreso il Presidente e l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di si-curezza. Nonostante tale composizione apparentemente rappresentativa degli inte-ressi degli Stati, la Commissione rappresenta gli interessi dell’Europa nel suo insie-me. La Commissione presenta proposte di legge al Parlamento e al Consiglio, gesti-sce le politiche e il bilancio dell’Unione, e svolge un importante compito di vigilan-za, insieme alla Corte di giustizia, sull’applicazione del diritto europeo. A partire dalle elezioni europee del 2009, è invalsa la prassi, per i partiti, di indicare ciascuno il proprio candidato per la carica di Presidente della Commissione, che sarà poi formalmente eletto dal Parlamento. Il Presidente della Commissione, tanto più do-po questa sorta di legittimazione popolare di cui è investito, esercita una forte su-premazia all’interno della Commissione, di cui detta gli orientamenti e l’agenda po-litica.

Il Consiglio Europeo, composto dai capi di stato o di governo, dal suo Presiden-te, e dal Presidente della Commissione, definisce gli orientamenti e le politiche ge-nerali dell’Unione e, pur non avendo poteri di iniziativa legislativa, concorre con la Commissione e il Parlamento alla formazione della legislazione comunitaria.

Il Parlamento Europeo, pur eletto direttamente dai cittadini fin dal 1979, non ha poteri autonomi di iniziativa legislativa, ma, come appena detto, concorre con Commissione e Consiglio alla formazione delle norme comunitarie. Fra le altre fun-zioni spiccano quella di controllo sulle altre istituzioni, per accertarsi che agiscano democraticamente, e quella di approvazione del bilancio insieme al Consiglio.

Ultima, ma non certo la meno importante delle istituzioni dell’Unione, è la Corte di giustizia, con sede a Lussemburgo. Essa è composta da un giudice per ogni stato membro e da nove avvocati generali, chiamati a presentare pareri motivati sulle cau-se sottoposte al giudizio della Corte: la sua funzione principale è di essere l’inter-prete ultimo del diritto comunitario con effetti erga omnes.

Il cammino istituzionale dell’Europa vede, fra il 1987 e il 1992, l’attuazione del mercato unico europeo; e i due Trattati, di Maastricht (in vigore dal 1° novembre 1993) e di Amsterdam (1997, in vigore dal 1° maggio 1999), che portano all’Unione europea, ossia a un nuovo disegno della cooperazione fra gli stati membri, in vista fra l’altro dell’ampliamento dell’Unione stessa, fondata su tre pilastri, il primo costi-tuito dalla Comunità Europea, che si occupa dell’instaurazione del mercato comune e dell’unione economica e monetaria; il secondo e il terzo costituiti rispettivamente dalla politica estera e sicurezza comune; e dalla giustizia e affari interni.

Il cammino politico-istituzionale termina, per ora almeno, con il Trattato di Li-sbona del 2007, in vigore dal 1° dicembre 2009, che cerca di recuperare il fallimen-to del progetto di costituzione europea, respinto dal voto popolare di Francia e Olanda nel 2005, e che attribuisce valore giuridico alla Carta dei diritti fondamenta-li, la c.d. Carta di Nizza, in vigore, almeno come documento “politico”, dal 1° feb-braio 2002.

Accanto al diritto “istituzionale”, che si è appena tracciato, si è venuto svilup-pando un sistema volto sempre più a rendere uniforme, o quanto meno ad armo-nizzare le regole, al fine di favorire l’attuazione di un vero «mercato unico, unitario, fondato sulla libera concorrenza», in cui «tutti gli operatori, anche se appartengono ad ordinamenti giuridici differenti, devono essere posti sullo stesso piano e … com-