Pop Economy: Mutual Aid Economy - Articolo di Loretta Napoleoni su Wired (Italia) di dicembre 2010

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Pop Economy: l'economia del mutuo soccorso - Articolo di Loretta Napoleoni su Wired (Italia http://www.wired.it/) di dicembre 2010 (il numero originale cartaceo contiene anche una piccola guida) per gentile concessione di Riccardo Luna.Pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/Pop-Economy/135369273190013Sito: www.popeconomy.net

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S O C C O R S O

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Come navigare nel mare calmo della Pop Economy e vivere felici in tempo di crisi

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Sulla copertina del nostro manuale Loretta Napoleoni, economista. Il suo prossimo libro sarà dedicato alla Pop Economy.

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Per 69 giorni 33 minatori cileni sopravvivono a 700 metri di profondità in condizioni quasi disumane: 90 per cento di umidità, 40 gradi e nessun contatto con il mon-do esterno. Un miracolo? No, la straordinaria forza del gruppo. Distribuiti tra di loro compiti e mansioni – quali la salute spirituale e quella fi sica – gli uomini condivido-no tutto, dal cibo alla paura, diventano un’entità unica. Se avessero abbracciato il credo individualista, un’ideo-logia ispirata alla dottrina economica di Milton Friedman e che da vent’anni l’Occidente celebra, a Natale del 2011 Hollywood non potrebbe proporci l’ennesimo kolossal a lieto fi ne, ma un fi lm dell’orrore girato nelle viscere della terra. I nuovi eroi della globalizzazione appartengono alla classe operaia e professano valori simili a quelli dell’Inter-nazionale comunista. Luis Urzua, il cinquantenne leader dei minatori, è fi glio del socialismo latino americano, il regime di Pinochet gli ha ammazzato prima il padre e poi l’amato patrigno. Siamo lontani mille miglia dalle icone degli anni Novanta, gli astuti banchieri di Wall Street. Ecco perché mentre sul grande schermo Oliver Stone propone un nuovo capitolo della vita di Gordon Gekko, un miliardo di persone rimane incollato a quello piccolo per seguire minuto per minuto il reality dei minatori cileni e delle loro famiglie. Altrettanto popolare è il reality che da due an-ni si svolge in Rete: all’interno di comunità virtuali come eBay e Swaptree la gente si scambia di tutto, dall’iPad alla bicicletta, dal trapano al divano letto. Si tratta di una vera rivoluzione sociale, la prima che dal dopoguerra ridi-segna i comportamenti economici e sociali occidentali.

Un solo esempio: il bike sharing è di-ventato il mezzo di trasporto globale che si espande di più: nel 2010, i nuo-vi servizi dovrebbero crescere del 200 per cento. E tutto ciò avviene senza che a ispirarla sia stata una te-oria economica, al contrario questo cambiamento proviene dal basso e si sviluppa nel quotidiano. Postulati e principi dell’economia partecipativa, questo il nome del nuovo fenomeno, sono il prodotto dell’interazione della generazione millennium, quella nata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottan-ta, la stessa che all’indomani della crisi del credito ha voltato le spalle all’indi-vidualismo neo-liberista.

Figli dei super-egoisti baby boomers, i millennium sono a tutti gli eff etti gio-vani sui generis. La delocalizzazione, trasferendo gran parte della produzio-ne in Asia, ha fatto sì che per loro non

ci sia più posto nel sistema produttivo occidentale dove questi giovani esisto-no esclusivamente in funzione di ciò che consumano. E questo spiega per-ché sin dalla nascita le corporation li hanno considerati “accessori’” dei ge-nitori, ma anche il motivo per il quale il marketing d’assalto li tiene costan-temente sotto tiro. E per consumare sempre di più è stato loro insegnato che è giusto indebitarsi.

I millennium sono le prime vere vit-time di un’economia disfunzionale, che ha geografi camente e socialmen-te scisso le funzioni di produzione e di consumo. Senza la sicurezza di un lavoro stabile, destinati a convivere con il precariato e la sottoccupazione, questi ragazzi spesso scambiano la fa-miglia per un ammortizzatore sociale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat sulla povertà in Italia più di 2 milioni

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S C A M B I A

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Pop-Economy!

Q U A L I T À T E S T A T A C O L L E T T I V A M E N T E

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di giovani vivono con i genitori, non la-vorano né studiano.

I millennium sono consapevoli di essere cresciuti in un’economia di-sfunzionale e proprio per questo non possiedono tutte le caratteristiche dell’homo economicus classico: gli manca l’egoismo, il bisogno di pos-sesso e l’individualismo dei genitori. Spontaneità, improvvisazione e fi ducia nel prossimo ne descrivono i compor-tamenti, aggettivi che condividono con gli hippy d’America ed i “capello-ni” europei. Ma intorno a questi valori i millennium stanno costruendo un’eco-nomia alternativa piuttosto che la contestazione giovanile. «Quando siamo andati a vivere a Belgravia, al centro di Londra, abbiamo deciso di non comprare una macchina ma di usare i car sharing, i gruppi virtuali che affi ttano auto ad ore, ce ne sono tan-tissimi in questa città. Quando ci serve un’auto andiamo in Rete e ne trovia-mo sempre una dietro casa», spiega Amanda, una trentenne madre di due bambini sposata con un consulente fi -nanziario americano.

Lo scambio produce sempre un ri-sparmio e un guadagno, principi poco conosciuti dai Figli dei Fiori. «A Parigi abbiamo affi ttato per un lungo fi ne set-timana la casa di una studentessa che era andata a trovare i suoi genitori in Bretagna; per soli 50 euro a notte, me-no della metà di una stanza d’albergo, abbiamo abitato in un appartamento munito di tutto, la padrona ci ha per-fino lasciato una bottiglia di vino in regalo», racconta Andrew Gerson, un giovane americano che studia gastro-nomia all’università di Slow Food.

Lo scambio e la condivisione rim-piazzano il consumismo sfrenato degli ultimi vent’anni scardinando così un’economia per la quale si è so-lo e sempre un soggetto passivo: un consumatore. «La condivisione ci fa sentire parte attiva della società, non è più il mercato a stabilire i termini del-lo scambio e noi a subirli, siamo noi stessi che contrattiamo», spiegano tre studentesse di biologia di George-town incontrate in un internet-café di Washington. Cresciuti in Rete, questi giovani si identifi cano con le comunità virtuali a cui appartengono, come Fa-cebook e MySpace. Ed è attraverso la Rete che l’equazione produttore-con-sumatore si rovescia. «Faccio tutto

in Rete e lo faccio sempre più spesso dall’iPhone», spiega Andrew. «Prima di acquistare qualcosa controllo se qualcuno me la può prestare o se pos-so affi ttarla, perché buttare soldi che non ho?». La Rete virtuale, proprio co-me quella reale da cui provenivano i minatori cileni, è il supporto socio-eco-nomico della comunità: così l’economia partecipativa aiuta a rimpinguare gli scarsi redditi. E quando ci si sa orga-nizzare e autoregolarsi le comunità funzionano meglio dello Stato. È quel-lo che ci ha insegnato Elinor Ostrom, vincitrice nel 2009 del premio Nobel per l’economia.

L’economia partecipativa è dun-que la risposta intelligente e allo stesso tempo naturale di una gene-razione relegata ai margini o al di fuori dell’economia tradizionale, che per contrastare questa esclusione si è organizzata virtualmente dando vita a comportamenti economici e sociali radicali. E dato che i millennium ap-partengono alla moltitudine virtuale, l’applicazione di questi nuovi model-li sta dando vita a movimenti di massa che minacciano di ridisegnare l’econo-mia capitalista.

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- CONSUMO PARTECIPATIVO -Le parole chiave della nuova dottrina economica sono: condivisione, parte-cipazione e niente sprechi, principi che prendono forma grazie a Web2. Vuoi viaggiare ma non hai molti soldi? Re-gistrati a Couchsurfi ng e gira il mondo dormendo sul divano letto di giovani come te. Hai bisogno di qualcuno che ti faccia la web ma non puoi pagare? En-tra a far parte di una banca del tempo e off ri qualcosa che sai fare in cambio. Sei sensibile ai problemi ecologici del pianeta? Salta su una macchina dei car pool off erti in Rete e condividi il tra-gitto con altra gente. A Washington, e in molte metropoli americane, accan-to alle fermate degli autobus si stanno moltiplicando quelle dei car pool. Chi viaggia solo prende su tre passeggeri e così può accedere alle corsie preferen-ziali in autostrada ed evitare le code.

«Naturalmente ricerca, con-trattazione e scambio avvengono esclusivamente in Rete», spiega Diego Hidalgo, un giovane ventenne fondato-re di Amoves, una società di car pool spagnola. E in Rete si trovano anche

Le parole chiavedella nuovaeconomia sono:condivisione,partecipazionee niente sprechi.Il Web 2.0 lerende possibili

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✹«Condividereè pulito,postmoderno,urbano eprogressivo. Ilpossesso è noioso,egoista, timidoe arretrato»

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tutte le referenze di cui si ha bisogno. Web2 è la piazza principale del villag-gio globale che possiede un numero di abitanti con sei zeri. I principi regola-tori della vita societaria sono gli stessi delle microscopiche comunità pre-in-dustriali o di quelle indigene descritte dalla Ostrum: chi sgarra non la fa mai franca e fi nisce subito alla gogna, la re-putazione è un bene che se si perde non si riconquista più. Siti come Tripadvi-sors, gratuito e gestito esclusivamente dai viaggiatori, svergognano quotidia-namente hotel e bed & breakfast che pretendono di essere ciò che non sono e consigliano ai viaggiatori dove anda-re in funzione dei loro bisogni.

Altro postulato dell’economia parte-cipativa è il superamento del possesso, che proprio grazie alla tecnologia serve sempre meno. iTunes e Spotify, una sor-ta di jukebox del XXI secolo con milioni e milioni di canzoni, fanno scaricare di tutto senza dover acquistare un solo cd. «Un prodotto costoso e ormai su-perfl uo dal momento che ciò che voglio è solo la musica che emette», conclu-de Rachel Botsman, guru del consumo partecipativo e coautrice con Roo Ro-gers di What’s Mine is Yours, la bibbia concettuale della nuova economia.

Senza dubbio la presa della Bastiglia della rivoluzione partecipativa è stata la distruzione del feudo delle Majors, le case discografi che multinazionali. I primi a scalare le torri d’avorio del copyright sono stati gli hacker, veri pionieri dell’economia partecipativa, che hanno aperto la strada ai primi si-ti musicali da dove i giovani scaricano e si scambiano la musica.

L’economia partecipativa picco-na il copyright dalla vita lunga come Matusalemme, costruito cioè esclusi-vamente a vantaggio delle corporation e a discapito del consumatore e spes-so anche dell’artista. «Nel nostro studio avevamo sempre la radio acce-sa», racconta Nicky Hall, un’architetta londinese. «A un certo punto ci è stato chiesto di pagare il copyright perché ad ascoltare la musica era tutto l’uffi -cio. Allora abbiamo spento la radio e acceso iTunes».

Siamo al capolinea del copyright? Non ancora. I millennium sono fre-quentatori di siti dove per scaricare musica e video si paga, ma l’ammon-tare è accessibile a tutti e lo scambio è permesso come succede per esem-

pio con Netfl ix, una web che per una modesta sottoscrizione mensile fa scaricare e scambiare dal salotto di casa fi lm e documentari a volontà.

Alla radice di questa rivoluzione socio-economica c’è dunque la tra-sgressione, il riciclaggio e il rifi uto del modello consumistico funzio-nale al capitalismo globalizzato. Lady GaGa, icona dei millennium, ben incarna questi principi: mentre Ma-donna cantava I am a material girl lei canta Paparazzi. La prima è confor-mista, la seconda anti-conformista al punto da denunciare il martellamen-to della propaganda mediatica. E se l’economia partecipativa fosse solo l’ennesima moda passeggera del vil-laggio globale? Una domanda lecita, in un mondo globalizzato costruito a immagine e somiglianza del capi-talismo occidentale. «Condividere è pulito, postmoderno, urbano e pro-gressivo», scrive Mark Levine sul New York Times. «Il possesso è no-ioso, egoista, timido e arretrato». Paroloni che gli intellettuali new-yorkesi usavano anche negli anni Sessanta per descrivere la rivolu-zione (fallita) dei Figli dei Fiori. Perfino Sex and the City, il serial del consumismo sfrenato, si è ac-corto dell’economia partecipativa. In un episodio, uno dei personaggi principali affi tta per una serata una costosissima borsa fi rmata.

Il pericolo è dunque reale ma tre punti depongono a favore del per-durare dell’economia partecipativa: l’esclusione inderogabile dei giovani dal sistema produttivo occidentale – e quindi le loro modeste condizioni economiche –, l’esistenza di Web2 e i problemi ambientali. Un nuovo cock-tail esplosivo, dunque, che potrebbe rivoluzionare il capitalismo.

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- IL NUOVO MARXISMO? -Consumatori di tutto il mondo uni-tevi e scambiatevi i beni di consumo! Questo il mantra che da un paio d’anni rimbomba in Rete. Gli adepti cresco-no a vista d’occhio, tant’è che lo stile di vita che promuovono comincia ad avere un impatto sul sistema di pro-duzione. Ne sa qualcosa Blockbuster, il gigante americano delle videocasset-te e dei cd a noleggio, che a ottobre del 2010 è fi nito a

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EventiInternet For Peace in tour

In collaborazione con

Le storie e le foto di I4P in una mostra in giro per l’Italia.

un passo dalla bancarotta. A metterlo ko è stata Netfl ix, che gli ha sottratto milioni e milioni di clienti. Perché comprare libri e accatastarli nelle librerie quando posso scaricarli da Ama-zon e leggerli comodamente sul mio iPad o sul Kindle? Perché acquistare una mac-china, pagare l’assicurazione, il bollo, il parcheggio se quando mi serve posso usa-re quella del vicino grazie a RelayRides o affi ttare dal comune una bici in strada come succede a Parigi e Londra? Potenzialmen-te la condivisione dei beni è un concetto rivoluzionario tanto quanto lo è stato due secoli fa la nascita del sindacato. Se non cambiano, le case discografi che, quelle edi-toriali, persino Hollywood diventeranno i dinosauri del capitalismo. Dovunque cade l’occhio il panorama industriale è giurassi-co: l’industria automobilistica, ad esempio, è ferma ai tempi di Henry Ford e Gianni Agnelli, quando si poteva contare su una domanda quasi illimitata di autovetture. Ma oggigiorno, con l’incalzare dei problemi ambientali e di quelli politici provenienti dai paesi produttori di petrolio, che senso ha produrre sempre più macchine?

La collaborazione tra consumatori, co-me la solidarietà operaia, diventa anche l’ombrello che protegge dalle intempe-rie economiche. Nel profilo di Facebook di What’s Mine is Yours, abbondano i rin-graziamenti delle vittime disoccupate del crollo del 2008. Dall’affitto del divano letto fi no a quello della scatola degli at-trezzi, si sopravvive grazie all’economia partecipativa. C’è persino chi trasforma la propria casa in bed & breakfast per coppie in luna di miele e chi affi tta una parte del proprio giardino ad appassionati giardi-nieri senza terra. Come quella capitalista e marxista, anche l’economia partecipativa è essenzialmente a scopo di lucro: nel 2009 Netfl ix ha fatturato ben 116 milioni di dol-lari di profi tti, e naturalmente tutte e tre

ruotano intorno al controllo dei mezzi di produzione. Se oggi Carlo Marx fosse vivo scriverebbe il Manifesto del Partito Parte-cipativo dove parlerebbe della coscienza della Rete quale primo passo verso il con-trollo dei mezzi di produzione. Quando affi tto parte del mio orto percepisco una rendita; e quando insieme a decine di altre persone utilizzo il capannone e gli attrezzi di TechShop in Menlo Park, California, per riciclare vecchi lampadari in lampade mo-derne, che poi vendo in qualche boutique di San Francisco, divento un produttore grazie alla condivisione dei mezzi di pro-duzione con il gruppo creato in Rete da Jim Newton, ideatore di TechShop. L’economia partecipativa ci libera dalla schiavitù del consumo poiché attraverso la condivisione prendiamo possesso dei mezzi di produzio-ne: da consumatori diventiamo produttori. Questo oggi scriverebbe Carlo Marx.

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LO SCONTRO FRA MARKETING E BISOGNI REALI

Uno dei principi regolatori dell’economia capitalista è l’esclusione, che è l’altra fac-cia della medaglia del possesso: l’operaio non può accedere ai mezzi di produzione perché sono di proprietà dell’industriale. Marx ha dedicato tutta una vita a spiega-re come abbattere questa barriera; Lenin, Mao e una schiera interminabile di intel-lettuali di sinistra hanno fatto altrettanto con scarsissimi risultati, la rivoluzione dell’economia partecipativa e Web2 l’han-no buttata giù con un clic del mouse.

Sebbene oggi parole come lotta e coscien-za di classe non abbiano più signifi cato, anche l’ascesa del consumo collaborativo comporta scontri tra due modelli di vita. Tutti i giorni i millennium fanno i conti con le oligarchie post-industriali, società come la Fiat o la Chrysler che vorrebbe-ro venderci macchine che non vogliamo più, che non ci servono. La sopravvivenza del sistema capitalista dipende ormai dal mantenimento di un modello industriale asfi ttico e sempre più obsoleto, che poggia sul concetto di merce, di possesso, di accu-mulazione e di consumo sfrenato, spesso indotto dal martellamento del marketing. Allo scontro classico tra capitale e lavoro si sovrappone quindi quello tra marketing e bisogni reali.

Nel film The Joneses una grossa so-cietà di marketing usa famiglie fi nte per penetrare il tessuto sociale delle gated

communities, veri e propri recinti per i ricchi americani. Madre, padre e i classici due adolescenti sfoggiano continuamente nuovi prodotti e gadget incitando gli amici a provarli e naturalmente ad acquistar-li. Ogni mese l’indice di vendita di ciò che promuovono subisce un aumento e nuovi prodotti vengono introdotti. L’emulazione è una leva potentissima del consumo ma lo è anche per il suo opposto: la condivisio-ne. Che succede quando una moltitudine dei consumatori, i millennium, non vuo-le più saperne di acquistare e decide di scambiarsi ciò che già possiede? Rallenta un ingranaggio importante dell’economia capitalista: il consumo. Le oligarchie indu-striali vorrebbero farci credere che questo comportamento distruggerebbe l’intero si-stema economico. Ma non è così!

Ai millennium interessa solo la sod-disfazione di un bisogno e se questa può avvenire scavalcando il prodotto e il pos-sesso del bene, che ben venga. Perché acquistare l’ennesima nuova versione di Microsoft se posso accedere gratis a un servizio analogo via Linux, un sistema di software creato attraverso lo scambio di programmi su Internet? Perché spendere soldi che non si hanno per un iPad e getta-re via il vecchio lap-top quando lo si può scambiare per un iPhone e affi ttare l’iPad quando se ne ha bisogno? Come si è visto, qui non si tratta di risparmiare ma di allo-care le scarsissime risorse a disposizione nel modo più effi ciente possibile.

Tecnologia e Web2, ma anche l’esclusio-ne delle nuove generazioni dal processo produttivo, hanno dematerializzato gran parte delle merci: libri, giornali e cd, insie-me ad auto, attrezzi e allo stesso pianeta si stanno trasformando da beni in servizi quali la lettura, la cultura, l’informazione, il trasporto e l’ambiente. L’economia parteci-pativa propone un modello di “decrescita” nuovo, che non ha nulla a che vedere con la dottrina di Latouche, dettato dalle esigenze della generazione sui generis millennium e che ridisegna il capitalismo lungo linee an-tiche, pre-globalizzazione.

Globalizzazione e consumo sfrenato hanno prodotto Microsoft, una corporation che solo in apparenza vende un prodot-to ma che in realtà fornisce un servizio che posso ottenere anche altrove e a co-sti stracciati. L’economia partecipativa impedisce la formazione dei grandi mono-poli e oligopoli che fanno sì che Microsoft accumuli una ricchezza spropositata, fa-

cilitando invece la redistribuzione tra la comunità degli utenti attraverso i siti di fi -le sharing. È dunque più concorrenziale. Lo stesso vale per l’economia locale: dai car pool fi no all’affi tto degli orti, la comunità si riappropria della dimensione economica che le corporation le hanno scippato negli ultimi vent’anni.

Per la prima volta dai tempi della rivolu-zione industriale i postulati dell’economia capitalista vacillano, i millennium li riscri-vono lungo giganteschi graffi ti economici dove i tag abbondano e si sovrappongono. A picconare le fondamenta del capitalismo non è stato il marxismo sovietico né quello cinese ma un cocktail rivoluzionario dove l’esclusione generazionale va a braccetto con l’innovazione tecnologica e i proble-mi ambientali. Come Marx aveva predetto, questo terremoto economico si sta verifi -cando nella società post-industriale, nel sempre meno ricco Occidente.

La prima generazione cresciuta con il lap-top in una mano e i biberon nell’altra ci sta dando una lezione economica dura da digerire. I giovani imprenditori dell’eco-nomia partecipativa hanno infatti le idee ben chiare e sono coscienti di proporre un nuovo modello socio-economico so-stenibile. «Ho fondato Amoves nel 2008, all’indomani del crollo della Lehman Bro-thers; l’ho fatto per andare controcorrente e per fare qualcosa che aiutasse il pianeta a sopravvivere», spiega il ventenne Diego Hidalgo. Oggi la grande sfi da economica del capitalismo non è la caduta del saggio di profi tto ma la sostenibilità del modello stesso. «Se tutti i membri di Netfl ix pren-dessero la macchina per andare e tornare da negozi come Blockbuster, in America ogni anno si consumerebbe un milione e mezzo di litri di benzina in più, pari a 2,2 milioni di tonnellate di diossido di car-bonio», scrive Rachel Botsman. Come gli operai del XIX secolo, accompagnati dal-le note degli inni al socialismo, lottavano contro gli industriali per migliorare le condizioni del lavoro in fabbrica, che gli accorciava la vita, i millennium si scon-trano con il consumismo per un pianeta migliore dove brilli ogni giorno il sole, in-contaminato, dell’avvenire. �

loretta napoleoni ([email protected]) si è occupata di fi nanza del terrorismo e maonomics. Ora aff ronta per noi l’economia partecipativa.

dello studio) e io rispondiamo alla chiu-sura del pub ripiegando alla Molecule. Al piano di lavoro incontriamo, sdraiato su dei cuscinoni, il pad in mano, David Smith, quarto fondatore dell’azienda. Anche lui, come gli altri tre, è indistinguibile dall’ulti-mo arrivato. Al momento ci sarà una decina di persone, tra chi lavora e chi cazzeggia (posto che ci sia una diff erenza). Dave sta osservando i nuovi livelli arrivati in se-rata. «Guardate», dice, tutto soddisfatto. «Hanno fatto un clone di Lemmings». E sul-lo schermo una colonna di piccoli Sackboy e Sackgirl cammina pericolosamente in ci-ma a un crinale di roccia, verso un mare di lava.

Dopo un quarto d’ora saliamo all’ultimo piano, quello ricreativo, con cucina, divani e vista sul Surrey. Lì troviamo Danny e Jo-hn, due progettisti di livelli, appena sopra i vent’anni. Sul grande tavolo dove si man-gia giocano a Warhammer, un wargame, di quelli con i modellini dipinti a mano, i lan-ci di dadi, i punti ferita. I due sono rapiti dalla partita, come in una barzelletta an-che troppo prevedibile sui giochi da sfi gati dei nerd. Al piano sotto, su una parete, un tabellone luminoso ricorda che il software presenta ancora 1097 bachi da eliminare. Mancano poche settimane alla consegna e questi due stanno giocando coi soldatini e i dadi, misurano l’avanzamento delle trup-pe con un metro a rotella da cassetta degli attrezzi. Siamo a Guildford, nel Surrey. È l’una di notte. Danny si mette a preparare dei toast al formaggio. Ecco. Hanno la pelle al posto della stoff a, gli manca una lampo sulla pancia, ma questi ragazzi sono i pu-pazzetti del loro gioco. Ed è questo a fare davvero la diff erenza. �

matteo bordone ([email protected]) prova macchine domestiche, gelati (ma soltanto i più buoni del mondo) ed ecars.

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Pop Economy CONTINUA DA PAG.

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