PONTIFICIA UNIVERSITA¶ LATERANENSE ISTITUTO ......della vita e della fede»4. Alla base della fede...

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PONTIFICIA UNIVERSITA’ LATERANENSE ISTITUTO TEOLOGICO MARCHIGIANO aggregato alla Facoltà di teologia SEDE DI FERMO Tesi di Baccalaureato LA TRASMISSIONE DELLA FEDE AI FIGLI DALLE RADICI EBRAICHE ALLA CHIESA DOMESTICA Relatore Mons. Luigi Valentini Alunno Miguel Sancho anno accademico 2004-2005

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PONTIFICIA UNIVERSITA’ LATERANENSE

ISTITUTO TEOLOGICO MARCHIGIANO

aggregato alla Facoltà di teologia

SEDE DI FERMO

Tesi di Baccalaureato

LA TRASMISSIONE DELLA FEDE AI FIGLI

DALLE RADICI EBRAICHE ALLA CHIESA DOMESTICA

Relatore

Mons. Luigi Valentini

Alunno

Miguel Sancho

anno accademico 2004-2005

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«Già dalla casa innalzate la lode:

è dalle case che nasce la Chiesa;

di porta in porta recate la pace

e padre a figlio tramandi la fede»

(David Maria Turoldo)

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(Dt 6,4)

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SOMMARIO

SOMMARIO 3

INTRODUZIONE 5

ABBREVIAZIONI E SIGLE 8

CAPITOLO I LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NELLA TRADIZIONE EBRAICA 9

1.1 La fede di Israele 9

1.1.1 Il credo di Israele 9

1.1.2 Tre momenti principali della trasmissione della fede 13

1.1.2.1 Lo Shema‘ 15

1.1.2.2 Pesaµ 23

1.1.2.3 Bar/bat miƒwà 35

1.1.3 La trasmissione della fede nel Talmud 39

1.2 Gesù, figlio della fede ebraica 42

CAPITOLO II LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NELLA PRASSI DELLA CHIESA

48

2.1 Epoca apostolica e patristica 48

2.2 Dal medioevo fino al periodo della Riforma 59

2.3 Dal periodo della Riforma al Concilio Vaticano II 63

CAPITOLO III LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NEL CONCILIO VATICANO II E

NELLE RIFLESSIONI POST-CONCILIARI 81

3.1 La famiglia nel contesto odierno 81

3.2 La risposta del Concilio Vaticano II 88

3.3 Il magistero post-conciliare 97

3.3.1 Catechesi tradendæ 97

3.3.2 Familiaris consortio 100

3.3.3 Catechismo della Chiesa Cattolica 107

3.3.4 Direttorio di pastorale familiare 112

CONCLUSIONE 115

APPENDICE 118

BIBLIOGRAFIA 121

Documenti del Magistero 121

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Ebraismo 122

Parte storica 124

Catechesi e educazione 127

Articoli 127

Dizionari 128

Supporti informatici 129

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INTRODUZIONE

Dio si è manifestato al suo popolo sul monte Sinai. Dio ha voluto scegliere un popolo

per rivelarsi, attraverso il suo agire, all’umanità’ intera. Ha scelto un popolo di schiavi in

Egitto e ha cominciato ad agire con loro. Dio si è rivelato tramite il suo agire nella loro storia.

Dopo avere compiuto dei miracoli, aprendo il mare e guidando il popolo attraverso il deserto,

Dio ha fatto un’alleanza con loro. E’ apparso sul Monte Sinai, lì, dove il popolo vide la

montagna tremare e udì un rumore terribile, l’umanità ha sentito per la prima volta la voce

di Dio. E Dio parlò così: «Shema‘ Israel. Adonai Elohenu, Adonai Ehad! Ascolta Israele, io

sono l’unico! E tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e

con tutte la tue forze e amerai il tuo prossimo come te stesso!» (cfr. Dt 6,4-5), ma subito

aggiunge: «questo lo ripeterai ai tuoi figli quando sarai in casa, quando sarai per strada,

quando ti coricherai e quando ti alzerai! E quando arriverà il momento in cui tuo figlio ti

chiederà: “qual è il significato di queste leggi, di questi comandamenti?”, tu gli dirai:

“eravamo schiavi del faraone in terra d’Egitto e il Signore ci ha tirato fuori con mano potente.

Davanti ai nostri occhi il Signore ha operato segni e prodigi contro il faraone e contro la sua

casa. Ci ha tratto fuori per guidarci verso una terra che aveva giurato di dare ai nostri padri”»

(cfr. Dt 6,6-7.20-23).

Migliaia di famiglie oggi si trovano di fronte al problema dei loro figli che, a scuola

e all’università, stanno abbandonando la Chiesa. Come possono le famiglie cristiane

rispondere a questa situazione di secolarizzazione, a questo cambio epocale, la

globalizzazione, a un ambiente contrario ai valori cristiani?

Si sente spesso parlare di “diffusione dei valori cristiani” o di “educazione alla fede”,

termini che il Concilio Vaticano II utilizza, ma preferirei parlare di “trasmissione della fede”,

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perché questa espressione implica un donare qualcosa di proprio: indica un’esperienza

previa, fatta carne, vissuta. Primo di dodici figli, infatti, ho potuto vedere l’amore dei miei

genitori per Dio e come loro, grazie a questo amore, hanno combattuto contro sé stessi,

contro la loro mentalità, contro i loro piaceri, contro i loro progetti (e anche contro di noi

figli) per trasmetterci la fede che hanno ricevuto dalla Chiesa. Questa mia esperienza è alla

base di questo elaborato. E’ stata essa a stimolare e a guidare la curiosità per vedere in quale

modo la Chiesa ha trasmesso la fede ai figli lungo i sui venti secoli di storia e in quale modo

oggi, nello spirito del Vaticano II, ha ispirato i miei genitori il modo di trasmetterla ai miei

fratelli e a me.

Mostrerò quindi nel primo capitolo come la parola Shema‘ era, e continua ad essere

oggi, il Credo fondamentale di Israele. Gli ebrei ortodossi lo proclamano tre volte al giorno.

Questo brano, così importante per il popolo d’Israele lungo i secoli e che ha tenuto la

famiglia ebraica unita, ci aiuta a capire come sia importante per i genitori trasmettere la fede

ai loro figli e ci mostra anche che questo comandamento divino è dato ai genitori e non può

essere delegato a nessun altro. Sono loro che devono raccontare ai loro figli le opere che Dio

ha compiuto in loro favore.

Nel secondo capitolo, facendo un breve excursus storico, presenterò come questa

tradizione è stata mantenuta in diverse forme nella famiglia cristiana lungo le varie epoche

della storia cominciando dai primi cristiani che sono i figli diretti della tradizione ebraica e

per i quali la trasmissione della fede ai figli, attraverso le Scritture compiute i Gesù Cristo,

era una missione fondamentale (cfr. 2 Tm 3,14-15), sino ad arrivare alle soglie del Concilio

Vaticano II.

Infine, nel terzo capitolo prenderò in esame la drammatica situazione in cui la società

di oggi si sta distruggendo. L’Europa stessa sta andando verso l’apostasia e verso la

soppressione della famiglia. Ma Dio non si è dimenticato dell’Europa e, in questo contesto,

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ha suscitato il Concilio Vaticano II come risposta. Così anche il magistero odierno, trattando

questo problema, ha avuto una speciale attenzione nei confronti della famiglia, specialmente

prendendo in considerazione le difficoltà dei genitori nel compiere il loro dovere di

“trasmissione della fede”. Data la gran quantità di materiale e disposizione, non ho avuto la

pretesa di analizzare punto per punto quanto la Chiesa ha detto in relazione alla trasmissione

della fede ai figli, di conseguenza, presenterò i punti più importanti del Vaticano II e di

quattro documenti del magistero post-conciliare: l’Esortazione apostolica Catechesi

tradendæ sulla catechesi nel nostro tempo, l’Esortazione apostolica Familiaris consortio sui

compiti della famiglia cristiana, il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Direttorio di

pastorale famigliare per la Chiesa in Italia.

E’ ovvio che questo elaborato, data la vastità dell’argomento, sia come importanza,

sia come estensione di periodo storico, dalle radici ebraiche ai nostri giorni, non vuole essere

esaustivo. Il lavoro vuole essere soltanto un contributo, una traccia, uno stimolo per suscitare

la ricerca per l’approfondimento dei diversi punti che in esso vengono trattati. Desidero che

tale sforzo possa essere uno spunto di riferimento per tutti quei genitori che vorranno

accedere alla dottrina della Chiesa sulla famiglia e che, per vari motivi, non hanno la

possibilità di farlo.

Auspico che questo lavoro faccia trasparire l’amore che la Chiesa ha sempre avuto

per la famiglia e il suo bisogno di ammaestrarla affinché, diventando Chiesa domestica,

continui a riconoscere la necessità della trasmissione della fede.

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ABBREVIAZIONI E SIGLE

CCC Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del

Vaticano 19992.

Direttorio C.E.I., Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia. Annunciare,

celebrare, servire il “Vangelo della famiglia”, Fondazione di Religione “Santi

Francesco d’Assisi e Caterina da Siena”, Roma 1993.

ECEI Enchiridion della Conferenza Episcopale Italiana, 5 voll., EDB, Bologna

1985ss.

EF Enchiridion della Famiglia, EDB, Bologna 2000.

EŒ Conciliorum Œcumenicorum Decreta (a cura dell’Istituto per le scienze

religiose), EDB, Bologna 1991.

EV Enchiridion Vaticanum, 17 + 2 voll., EDB, Bologna 1976ss.

PL J.-P. MIGNE (a cura di), Patrologiæ cursus completus. Series Latina, Parisiis

1841-1864.

Sussidi COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO, Sussidi per la corretta

presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi

della chiesa cattolica: EV 9/1615-1658.

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CAPITOLO I

LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NELLA TRADIZIONE EBRAICA

1.1 La fede di Israele

1.1.1 Il credo di Israele

Israele è un popolo basato fermamente sulla tradizione ricevuta dai padri, una

tradizione che ha segnato il suo pensiero facendolo dipendente dagli eventi vissuti lungo la

storia della salvezza; di fatto, il Dio del Sinai non è il Dio dei filosofi ma è il padrone della

storia e si conosce attraverso le sue opere1. Questo fatto fa si che l’ebraismo non sia

semplicemente una religione, una cultura, un riferimento storico-nazionale ma una

combinazione di tutto questo, creando un patrimonio complessivo senza che questi elementi

si possano separare2.

Nel giudaismo non troviamo una espressione organizzata dei dogmi, ma lungo la storia

alcuni pensatori e maestri hanno tentato di comporre una serie di articoli di fede. Filone

enunciò cinque principi basilari, Maimonide invece dispose un elenco di tredici articoli di

fede. Ci furono altri che suggerirono enunciazioni diverse3.

Malgrado non ci sia una formulazione sistematica della fede, possiamo dire che la fede

di Israele è:

«La fede in un unico Dio, il riconoscimento di un rapporto esclusivo con questo Dio, che

implica anche la consapevolezza di una propria funzione nel mondo, l’osservanza di una legge,

la memoria di un passato, la trasmissione alle generazioni successive, un comportamento civile

1 Cfr. A. CHOURAQUI, Il pensiero ebraico, Queriniana, Brescia 1989, pp. 6-7.

2 Cfr. E. LOEWENTHAL, Gli ebrei questi sconosciuti. Le parole per saperne di più, Baldini&Castoldi, Milano

1996, p. 22. 3 Cfr. “Credo”, in D. COHN-SHERBOK, Ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, p. 127.

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improntati ai valori si cui si è depositari: [...] questo insieme [...] caratterizza e definisce

l’identità ebraica, tenendo sempre presente una profonda coesione interna dei vari elementi

della vita e della fede»4.

Alla base della fede d’Israele, come abbiamo già detto, sta la storia. I fatti vissuti con

l’interpretazione della fede maturata lungo gli anni hanno creato “quella visione della

storia – così caratteristica di Israele – che fa della storia stessa il luogo

dell’automanifestazione di Dio”5.

Quindi, perfino le più antiche professioni di fede in Jahvè avevano carattere storico,

ossia collegavano il nome di quel Dio col racconto di un suo intervento nella storia6.

La formula “Jahvè che trasse Israele dall’Egitto” è una espressione che ricorre

frequentemente e nei contesti più diversi e in esse si esprime la più antica e la più diffusa

delle professioni di fede israelitiche7.

Altre formule brevi di fede raccolgono un minimo di materiale in forma di sommari

della storia salvifica i quali hanno un carattere nettamente confessionale. Uno dei più

importanti dei “credi storici”, come vengono chiamati da Gerhard Von Rad, è quello che

troviamo in Dt 26,5-9:

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente

e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono

e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il

Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra

oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso,

spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo

paese, dove scorre latte e miele».

4 E. LOEWENTHAL, Gli ebrei questi sconosciuti. Le parole per saperne di più, op. cit., p. 22. 5 R. CAVEDO, Per una lettura del Pentateuco. Tradizioni storia e fede d’Israele, A.V.E., Roma 1984, p. 39. 6 Cfr. G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 1972, vol. I, p. 149. 7 Ibidem, p. 207. Per uno studio approfondito sulle antiche professioni di fede in Jahvé e il problema che li lega

vedi M. NOTH, Überlieferungsgeschichte des Pentateuco, Kohlhammer, Stuttgart 1948, pp. 48ss.

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Come possiamo evidenziare, ci troviamo davanti ad una formula di fede che sintetizza

i fatti esenziali della storia della salvezza sottolineando le opere che Dio ha compiuto in

mezzo al popolo di Israele.

«Questo testo non è una preghiera – non vi è né invocazione né supplica – ma una vera e

propria professione di fede. Ricapitolando i dati essenziali della storia salvifica dall’età

patriarcale (l’Arameo è Giacobbe) fino all’ingresso della terra, li limita rigorosamente ai fatti

storici oggettivi. Non vi è il minimo cenno (come nel simbolo apostolico!) a rivelazioni,

promesse o dottrine, e tanto meno riflessioni sull’atteggiamento assunto da Israele di fronte a

tali interventi divini. Il sentimento che anima questa recitazione si condensa in una severa

esaltazione delle opere compiute da Dio. Era stata cosi toccata la nota destinata a rimanere

dominante nella storia religiosa d’Israele. Nella lode e nell’esaltazione di Dio, Israele fu

sempre più forte che nell’ultima riflessione teologica»8.

Un’altra formula importante è riferita da Giosuè nella solenne riunione delle tribù a

Sichem (Gs 24,2-13):

«Giosuè disse a tutto il popolo: “Dice il Signore, Dio d’Israele: I vostri padri, come Terach

padre di Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume e servirono altri

dei. Io presi il padre vostro Abramo da oltre il fiume e gli feci percorrere tutto il paese di

Canaan; moltiplicai la sua discendenza e gli diedi Isacco. Ad Isacco diedi Giacobbe ed Esaù e

assegnai ad Esaù il possesso delle montagne di Seir; Giacobbe e i suoi figli scesero in Egitto.

Poi mandai Mosè e Aronne e colpii l’Egitto con i prodigi che feci in mezzo ad esso; dopo vi

feci uscire. Feci dunque uscire dall’Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani

inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mare Rosso. Quelli gridarono al Signore

ed egli pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; poi spinsi sopra loro il mare, che li sommerse;

i vostri occhi videro ciò che io avevo fatto agli Egiziani. Dimoraste lungo tempo nel deserto.

Io vi condussi poi nel paese degli Amorrei, che abitavano oltre il Giordano; essi combatterono

contro di voi e io li misi in vostro potere; voi prendeste possesso del loro paese e io li distrussi

dinanzi a voi. Poi sorse Balak, figlio di Zippor, re di Moab, per muover guerra a Israele; mandò

8 G. VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, op. cit., p. 150.

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a chiamare Balaam, figlio di Beor, perché vi maledicesse; ma io non volli ascoltare Balaam;

egli dovette benedirvi e vi liberai dalle mani di Balak. Passaste il Giordano e arrivaste a Gerico.

Gli abitanti di Gerico, gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Hittiti, i Gergesei, gli Evei e i

Gebusei combatterono contro di voi e io li misi in vostro potere. Mandai avanti a voi i

calabroni, che li scacciarono dinanzi a voi, com’era avvenuto dei due re amorrei: ma ciò non

avvenne per la vostra spada, né per il vostro arco. Vi diedi una terra, che voi non avevate

lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli

oliveti, che non avete piantati».

Questo brano è strettamente affine al passo di Dt 26,5-9, sempre tratta di fatti oggettivi

partendo dai patriarchi per arrivare in fine alla Terra Promessa. Questi fatti che troviamo in

Gs 24, potrebbero essere veramente fatti vissuti dal popolo, accettando la sintesi di alcune

esperienza fondamentali come la sintesi di una fede comune tra le tribù di Israele, poi

arricchita lungo la storia9. Troviamo anche in più rispetto a Deuteronomio il soggiorno nel

deserto che diventerà anche fondamentale prima della Terra Promessa.

Il terzo dei credi storici più importanti lo troviamo in Dt 6,10-12:

«Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto entrare nel paese che ai tuoi padri Abramo, Isacco e

Giacobbe aveva giurato di darti; quando ti avrà condotto alle città grandi e belle che tu non hai

edificate, alle case piene di ogni bene che tu non hai riempite, alle cisterne scavate ma non da

te, alle vigne e agli oliveti che tu non hai piantati, quando avrai mangiato e ti sarai saziato,

guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione

servile».

Concludendo possiamo dire che da questi testi si vede come la fede di Israele, nel suo

nucleo più antico, si centra su due fatti fondamentali: la liberazione dall’Egitto e la promessa

e conquista della Terra. Troviamo in Giosuè anche il soggiorno nel deserto.

9 Cfr. R. CAVEDO, Per una lettura del Pentateuco. Tradizioni storia e fede d’Israele, op. cit., p. 150.

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I prodigi compiuti da JHWH nell’esodo dall’Egitto insieme alle altre tradizioni, come

l’Alleanza del Sinai, faranno parte della professione di fede del popolo di Israele fino ai

nostri giorni.

Dobbiamo però, tener conto soprattutto della frase biblica “Ascolta, Israele, il signore

è il nostro Dio, il Signore è uno” (Dt 6,4), confessione fondamentale ed originaria

dell’israelita, e con la quale si esprime la propria fede nel Dio uno e unico, accanto al quale

non c’è alcun essere divino. Questa fede sul Dio uno e unico, come ho già detto, non è

un’idea filosofica ma si basa su una esperienza viva storica d’Israele e il rapporto con il suo

Dio10. Questo rapporto personale che il popolo ha con Dio, che già vediamo dal modo in cui

Lui parla al suo popolo (“Ascolta, Israele”), è evidente dato il fatto che è Dio che dona un

nome al popolo (Israele), conferito da Lui stesso a Giacobbe nella lotta notturna del guado

di Iabbok, quando il patriarca ricevette la benedizione da JHWH (Gn 32, 27-30); ogni

israelita si sente chiamato e benedetto da JHWH. E’, di fatto, il padre colui che impone il

nome, così il popolo vive questa condizione di sottomissione al senso della sua vocazione,

che è obbedire alla parola del Padre in modo integro11.

1.1.2 Tre momenti principali della trasmissione della fede

La specificità della Torà non è immediatamente legata a ciò che dice, al suo messaggio

originale e forte, ma la sua specificità consiste, innanzi tutto, nella sua forza e nella capacità

di tramandare12. Questo aspetto fece che l’educazione morale e religiosa dei figli fosse

10 Cfr. G. FOHRER, Fede e vita nel giudaismo, Paideia, Brescia 1984, pp. 15-17. 11 Cfr. P. BOVATI, Il libro del Deuteronomio (1-11), Città Nuova, Roma 1994, p. 81. 12 Cfr. M.-A. OUAKNIM, Le dieci parole. Il decalogo riletto e commentato dai maestri ebrei antichi e moderni,

Poline, Roma 2001, p. 39.

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considerata dagli ebrei, fin dall’inizio della loro storia, come uno dei doveri più importanti.

È nella famiglia dove si costituisce il tesoro prezioso della tradizione, la trasmissione del

credo storico israelitico13. La madre e soprattutto il padre sono i primi a dare ai figli

l’educazione religiosa e morale, il patrimonio della Rivelazione che Dio ha fatto a Israele e

che deve essere trasmesso dai genitori di generazione in generazione (cfr. Dt 4,9-10; 11,19-

21; 32,46), come eredità: “Ascolta figlio l’istruzione di tuo padre e non disprezzare

l’insegnamento di tua madre” si dice nel libro dei Proverbi (1,8)14. Di fatto, Dio disse di

Abramo: “Io l’ho scelto perché egli obblighi i suoi figli e la sua casa dopo di lui ad osservare

la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto” (Gn 18,19), di conseguenza tutte le feste

e le liturgie di Israele hanno lo scopo di trasmettere ai bambini insegnamenti religiosi e

morali (cfr. Es 12,26s; 13,8.14; Dt 4,9s; 6,6.20s; 32,7.46)

In particolare le formule del credo d’Israele vengono accompagnate dall’esortazione

di insegnarlo ai figli e di renderli costantemente coscienti di esso attraverso parole e segni.

Questo comando divino di tramandare la fede ai figli lo troviamo soprattutto in Dt 6,7: “li

ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via,

quando ti coricherai e quando ti alzerai”. Questo testo forma parte della più importante

preghiera del popolo di Israele, che poi vedremo: Lo Shema‘. La prescrizione di proclamarlo

quotidianamente imponeva ai padri il sacro dovere di insegnare la Torà ai propri figli.

In seguito prenderemo in esame tre dei momenti fondamentali nella trasmissione della

fede: un momento quotidiano (Lo Shema‘), un momento annuale (Pesaµ) e in fine il

momento in cui l’ebreo diventa maggiorenne (bar/bat miƒwà).

13 «E’ incerto, anche se possibile, che vi sia uno stretto rapporto tra b¢n “figlio” e bnh “costruire”, così pure

che vi sia una affinità etimologica tra bhn e br’ “creare”» (A. R. HULST, “bhn”, in E. JENNI – C. WESTERMANN,

Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1975, p. 282. 14 Per questo da Abramo i figli vengono celebrati come la più grande benedizione che Dio poteva concedere,

così come la sterile era la peggiore maledizione (cfr. Gn 15,2).

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1.1.2.1 Lo Shema‘

Il termine šema‛ è il modo imperativo che deriva dalla radice ebraica šm‛ che può avere

diversi significati: “udire” (cfr. Gn 3,10; Gs 2,10; Sal 94,9), “ascoltare” (cfr. Dt 1,16; 1,17;

1Sam 3,9; 1Re 12,15; Gb 15,17; Sal 92, 12), “obbedire” (cfr. Gn 1,18; 28,7; Es 6,12; Gs

1,18; 1Sam 15,22; 2Cr 25,16; Ger 26,5), “comprendere” (cfr. Gn 11,7; 2Sam 14,17),

“ascoltare” nel senso di esaudire” (cfr. Gn 17,20; 30,6; 30,22; Is 65,24)15.

Questa è la parola iniziale e titolo dalla preghiera fondamentale dell’ebraismo. E’

anche un’invocazione e una professione di fede che viene recitata mattina e sera, preceduta

da due benedizioni e seguita da una al mattino e due alla sera. Lo Shema‘ si mormora anche

prima di andare a dormire16.

Con Lo Shema‘ entriamo nel cuore della preghiera e del credo ebraico. Queste sono le

parole che hanno accompagnato il popolo eletto lungo tutta la sua storia, sia nella vita

quotidiana, nei momenti più fatidici ma soprattutto nei momenti più dolorosi, fino ad oggi.

Con esse si affermano sia una fede in Dio da cui il cuore dell’uomo mai si allontana, sia la

ferma volontà di tramandare ai propri figli tutto questo17.

Ma lo Shema‘ non è una preghiera nel senso comune del termine però per migliaia di

anni è stata una parte integrale del servizio di preghiere giudaiche. E’ una proclamazione di

fede, una promessa di fedeltà al Dio Unico, una affermazione di giudaismo. E’ la prima

“preghiera” che s’insegna ad un bambino giudeo. E’ l’ultima dichiarazione dei martiri

giudei.

15 Cfr. “šm‛”, in P. REYMOND (a cura di), Dizionario di ebraico e aramaico biblici, ed. it. a cura di J. A. SOGGIN,

Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1995, p. 435. 16 Cfr. D. COHN-SHERBOK, Ebraismo, op. cit., p. 505. 17 Cfr. Ibidem, pp. 610-611.

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«E’ la professione di fede che accompagna l’ebreo dalla più tenera età fino alla tomba. Lo

shema‘ è con lui, anche quando egli è separato o isolato da tutti i suoi fratelli, e lo rende

cosciente del suo ebraismo. Lo shema è alla base del lavoro educativo dei genitori e, in ogni

focolare ebraico, lo si recita quando ci si corica e quando si ci alza. Lo shema‘ è l’assioma del

pensiero e dirige la volontà sia nella vita familiare che in quella comunitaria. Lo shema‘ è stato

scelto tra i 4875 versetti del Pentateuco per essere il segno di riconoscimento di Israele in tutti

i tempi e sotto ogni orizzonte. Con lo shema‘ i martiri sono saliti sul rogo e hanno sofferto per

Israele e per il suo Dio»18.

L’obbligo di recitare lo Shema‘ è indipendente dall’obbligo di pregare, la sua

importanza è risaltata dall’apparizione di questo versetto (Dt 6,4) in altre parti del servizio

di preghiere. Troviamo lo Shema‘ tra le benedizioni iniziali del mattino. Nello Shabbat e nei

giorni di festa si dice questa frase nella Kedushàh della Amidah del Musaf 19 e quando si tira

fuori il Rotolo della Torà dall’Arca Sacra. Nel Rosh Hashanà è parte della Amidah del

Musaf, e nello Yom Kipur segna la conclusione di quel giorno così speciale. Si recita come

parte della preghiera prima di coricarsi e come parte della confessione finale nel letto di

morte20.

a) Composizione e origine

Lo Shema‘ si compone di tre brani biblici, tratti dal Pentateuco, e di alcune berakot

(benedizioni) che lo precedono e lo concludono. Il brano più importante dei tre è il primo

18 E. MUNK, La voix de la Torah. Commentaire du Pentateuque. Deutéronome, Fondation Samuel et Odette

Levy, Paris 19813, p. 60. Le traduzioni dei libri in lingua originale sono personali. 19 Il Kedushah (“santificazioni”) proclama, nel “Santo” ripetuto tre volte dai serafini (Is 6,3), la santità di Dio

L’Amidah (“in piedi”) consiste in diciannove benedizioni, le prime tre in lode della sovranità, onnipotenza e

santità di Dio e le ultime tre in ringraziamento dei Suoi continui atti di generosità, e si conclude con una

preghiera per la pace, le tredici benedizioni intermedie riguardano una vasta gama di bisogni umani e

comprende le preghiere per la restaurazione nazionale di Israele. Il Musaf è un Amidah supplementare (cfr. I.

EPSTEIN, Il giudaismo. Studio storico, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1967, pp. 141-142). 20 Cfr. H. H. DONIN, Rezar como judío. Guia para el libro de oraciones y el culto en sinagoga, Editorial Eliner,

Jerusalem 19902, pp. 187-188.

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(Dt 6,4-9), mentre il secondo (Dt 11,13-21) e il terzo (Nm 15,37-41) possono omettersi o

abbreviarsi, di fatto nella preghiera della sera solo si recita il primo.

E’ difficile ricostruire l’epoca e le cause della scelta di questi brani e il fatto che furono

incorniciati da alcune preghiere di benedizione. Possiamo in ogni modo essere certi che gli

elementi essenziali risalgono ad un’epoca precristiana e sono quindi stati recitati sia da Gesù

che dalla chiesa primitiva. Troviamo la prima testimonianza storica nella Mišnà:

«L’officiante insegnava loro [ai sacerdoti]: “Pronunciate una benedizione”. Ed essi la

pronunciarono. Poi lessero le dieci parole [il Decalogo], il brano “Ascolta” (Dt 6,4-9), il brano

“e se ascolterai” (Dt 11,13-21) e il brano “il Signore disse a Mosè” (Nm 15,37-41). Poi

impartirono al popolo tre benedizioni: la benedizione “vero e stabile”, la benedizione del

“culto” (per ringraziare in Signore per il culto che ci permette di rendergli nel tempio) e la

benedizione sacerdotale (Nm 6,24-26). Di sabato si aggiunge ancora una benedizione per la

guardia uscente»21.

Troviamo in questo testo molte informazioni che ci mostrano l’uso dello Shema‘ già

nella liturgia del Tempio: la lettura del decalogo, brani dello Shema‘, la benedizione

conclusiva dello Shema‘ (“vero e stabile”) e una benedizione precedente (“amore grande”)22.

Questi elementi, ad eccezione del decalogo, passano alla Sinagoga.

Il primo versetto dello Shema‘: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore

è uno solo” (Dt 6,4) è quello che viene maggiormente commentato nella Mišnà e nel Talmud

(Berakot 13b, Sukkah 42), è per questo che si considera sia il brano più antico e origine della

prima unità strutturale della preghiera ebraica. Possiamo quindi dire che probabilmente le

fasi di sviluppo possono essere queste:

21 Mišnà Tamid 5,1; cfr. pure TB Berakot, UTET, pp. 138-139. 22 Su questo sviluppo storico dello Shema‘, con relativa documentazione, cfr. L. JACOBS, “Shema‘, Reading

of”, in Enciclopedia Judaica, Keter Publishing House, Jerusalem 1971, p. 1370.

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- Primo momento: recita di Dt 6,4.

- Secondo momento: ampliamento aggiungendo i versetti 5-9.

- Terzo momento: aggiunta dei brani Dt 11,13-21 e Nm 15,37-41 e le berakot più

importanti: “Vero e stabile” e “Amore grande”.

- In fine c’è l’aggiunta delle altre berakot.

Troviamo altre testimonianze nella Mišnà e nel Talmud che ci mostrano la duplice

utilizzazione dello Shema‘: nell’ambito sinagogale e nell’ambito personale23; e anche sul

modo di recitarlo, soprattutto in Mišnà Berakot 1 che ha una grande importanza perché,

essendo facilmente databile (sotto il regno di Erode il Grande, 37-4 a.C.), ci da una prova

storica per datare l’uso liturgico dello Shema‘; già un secolo prima di Cristo era considerato

tradizionale l’obbligo di recitarlo mattina e sera24.

b) Il senso dello Shema‘ 25

Vediamo adesso il testo dello Shema‘ che segue a Dt 6,4:

Il primo brano contiene una serie di imperativi attraverso i quali Dio si rivolge al suo

popolo vincolandolo alla sua volontà. Gli ebrei dicono che in questo paragrafo dello Shema‘

dichiarando la loro “accettazione del giogo della Legge Divina”:

«Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi

precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai

seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li

legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai

sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,5-9).

23 Cfr. Talmud Berakot 4b. 24 Cfr. C. DI SANTE, La preghiera di Israele, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 51-53. 25 Cfr. H. H. DONIN, Rezar como judío…, op. cit., pp. 192-201.

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Questo brano contiene tre elementi: l’affermazione della credenza dell’Unicità di Dio

e la Sua sovranità sul mondo intero; un profondo e incondizionato amore a Dio; e lo studio

dei Suoi insegnamenti.

Si sottolineano diversi doveri religiosi fondamentali: 1) amare Dio integralmente e

radicalmente; 2) insegnare fedelmente e continuamente la Torà ai figli; 3) parlare della Torà

in ogni occasione nella quale sia possibile; 4) mettersi i tefillin, cioè due capsule che

contengono quattro passi della Torà, nel braccio e sulla testa; e 5) mettere la mezuzah, astucci

contenente Dt 6,4-9 e Dt 11,13-20, sugli stipiti delle porte di casa a destra di chi entra.

La Mišnà dice che amare Dio “con tutto il cuore”, significa farlo con ambedue le

inclinazioni (del cuore): sia al male26 sia al bene; “con tutta l’anima” significa anche quando

Dio porti via l’anima (la vita); “e con tutte le forze” vuole dire con tutti i beni o con tutto

quello che Dio ha donato. L’amore a Dio deve essere incondizionato, sia in una situazione

di benessere, sia nella sofferenza.

In questo paragrafo di fondamentale importanza si include come abbiamo visto

l’obbligo di trasmettere il legato giudeo insegnando la Torà ai figli. We¬inn¦nt¹m, questa

parola che si traduce come “la ripeterai”, non significa una semplice ripetizione. In realtà

significa “le ripeterai continuamente”, “giorno dopo giorno” finché i figli arrivino ad essere

ben immersi nella Torà.

E la frase seguente è la ragione per cui si deve recitare due volte al giorno: “Gliele

dirai…sia coricato che in piedi” (cfr. Dt 6,7).

26 «Quello che i saggi vollero esprimere con il termine “inclinazione al male” è la necessità di soddisfare certi

impulsi fisici o psicologici. L’impulso sessuale, l’impulso verso il benessere personale, e l’ambizione di

raggiungere realizzazioni, possono essere disciplinati per conformare e servire i propositi Divini. Se si dirige

adeguatamente, anche “inclinazione al male”costituisce una componente necessaria e indispensabile della vita

e del progresso relativo» (Bereshit Rabà 9,7).

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Conclude con i precetti rispetto ai tefillin e la mezuzah, simboli fondamentali del patto

tra Dio e il popolo giudeo.

I comandi divini vanno intesi nel senso che sono precetti di vita e di libertà al di fuori

dei quali germogliano il non-senso e la morte.

Il secondo brano dello Shema‘ si sposta dai principi della fede alla applicazione della

fede, dal teorico al pratico. Si esplicitano le conseguenze positive derivanti dalla fedeltà ai

precetti e a quelle negative derivanti dalla loro inadempienza, oppure, come dicono gli ebrei,

“l’accettazione del giogo dei precetti” o sia compromettersi a compiere le disposizioni

specifiche – le mitzvot – evidenziando così la loro lealtà a Dio.

«Ora, se obbedirete diligentemente ai comandi che oggi vi do, amando il Signore vostro Dio

e servendolo con tutto il cuore e con tutta l’anima, io darò al vostro paese la pioggia al suo

tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo

frumento, il tuo vino e il tuo olio; farò anche crescere nella tua campagna l’erba per il tuo

bestiame; tu mangerai e sarai saziato. State in guardia perché il vostro cuore non si lasci sedurre

e voi vi allontaniate, servendo dei stranieri o prostrandovi davanti a loro. Allora si

accenderebbe contro di voi l’ira del Signore ed egli chiuderebbe i cieli e non vi sarebbe più

pioggia e la terra non darebbe più i prodotti e voi perireste ben presto, scomparendo dalla

fertile terra che il Signore sta per darvi.

Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un

segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone

quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti

alzerai; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, perché i vostri giorni e i giorni

dei vostri figli, nel paese che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro, siano numerosi

come i giorni dei cieli sopra la terra» (Dt 11,13-21).

Questo brano evidenzia l’osservanza della Torà. Mentre il primo brano utilizza la

seconda persona del singolare, il secondo si esprime nella seconda persona del plurale. Nel

primo Mosè si dirige all’individuo giudeo, mentre il secondo si dirige al popolo giudeo.

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La maggior parte del testo è dedicata a quello che costituisce un elemento essenziale

nella fede giudaica; il principio della ricompensa e del castigo qui sono di carattere

comunitario, dirette all’organismo collettivo del popolo di Israele. Anche la promessa di

prolungare i giorni va intesa in questo senso comunitario. Non è una promessa di aggiungere

anni di vita all’individuo, ma si riferisce all’estensione della vita del popolo giudeo nella sua

propria terra.

Possiamo dividere il brano in tre proposizioni principali:

- la prima è una proposizione condizionale della realtà: “se obbedirete…io

darò…farò…” (vv.13-15): Le condizioni sono l’obbedienza e l’amore al Signore

(v.13); le conseguenze sono la fertilità (v.14) e l’abbondanza del raccolto (v.15).

questi sono, forse, tra i versetti più profondi e originali della Torà: perché

promettono un frutto di ricchezza e di sazietà, e poi perché ne fissano le condizioni

di realizzazione. L’abbondanza non dipende né dalle stagioni né dal lavoro

dell’uomo ma dall’amore al Signore e dall’obbedienza ai suoi comandi;

- la seconda proposizione costituisce un lungo imperativo/esortativo (vv.16-17) in

cui si esprimono in negativo e in positivo i concetti prima espressi in positivo;

- la terza proposizione costituisce una serie di imperativi (vv.18-21) che in sostanza

ripetono Dt 6,6-9: l’obbligo di avere sempre presenti i comandamenti divini (v.18)

anche fisicamente (tefillin); l’obbligo di insegnarli e tramandarli giorno dopo

giorno ai propri figli (v,19); e l’obbligo di custodirli nella propria casa (vv.20-21)

(mezuzah).

Il terzo brano dello Shema‘ si riferisce al precetto de tzitzit (fiocchi) per ricordare i

precetti Divini e liberarsi dei pensieri empi del cuore o dei desideri immorali degli occhi.

Non si possono evitare le fantasie del pensiero ne controllare le sue speculazioni; ma si può

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regolare la condotta. In questo brano si ricorda che l’obbiettivo principale dell’adempimento

dei precetti è di mantenere la santità di Israele27.

«Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla agli Israeliti e ordina loro che si facciano, di generazione

in generazione, fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un

cordone di porpora viola. Avrete tali fiocchi e, quando li guarderete, vi ricorderete di tutti i

comandi del Signore per metterli in pratica; non andrete vagando dietro il vostro cuore e i

vostri occhi, seguendo i quali vi prostituite. Così vi ricorderete di tutti i miei comandi, li

metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho

fatti uscire dal paese di Egitto per essere il vostro Dio. Io sono il Signore vostro Dio”» (Nm

15,37-41).

In questo brano conclusivo della lettura dello Shema‘ ci sono tre affermazioni:

- l’ordine di portare il tallit, un mantello a forma di scapolare più o meno ampio a

seconda della tradizione e dei riti locali. Il v.38 descrive le caratteristiche

(originariamente l’abito comune portato dall’israelita) e il suo adattamento

liturgico (i fiocchi o frange con un cordone di porpora viola);

- i vv.39-40 spiegano il significato del tallit. Si tratta di un memoriale che ha la

triplice funzione di: “mettere in pratica i comandi del Signore”, “non prostituirsi

seguendo le cattive inclinazioni del proprio cuore e dei propri occhi”, essere “santi

per il proprio Dio”. In realtà si tratta non di una molteplice funzione ma di una

sola: “sarete santi per il vostro Dio”. Ha quindi un significato teologico-

pedagogico, vuole far vivere nella santità alla quale il Signore chiama;

- possiamo considerare il v.41 come l’auto-presentazione che Dio fa di se stesso e

con la quale si conclude la recita dello Shema‘. “Io sono il Signore vostro Dio, che

vi ho fatti uscire dal paese d’Egitto per essere il vostro Dio. Io sono il Signore

27 Per il concetto di santità vedi in H. H. DONIN, Rezar como judío…, op. cit., pp. 164-167.

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vostro Dio” (v.41). Con queste parole Dio vuole ricordare tre cose: innanzitutto

vuole rivendicare la sua signoria su Israele che viene a costituirsi come sua

“proprietà” (cfr. Es 34,9; 1Sam 10,1; 26,19), suo “popolo” (cfr. Is 1,3), ecc. Poi

Dio vuole precisare la sua signoria, non come padrone ma in quanto liberatore. In

un terzo momento esplicita il senso di questa libertà, non per lasciarlo

nell’autonomia ma per “essere suo Dio” (v.41).

«E’ per tutto questo che Israele mattina e sera, “sia stando in casa” che “camminando”, sia

“quando si corica” che “quando si alza” (cfr. Dt 6,7), proclama, con la preghiera dello shema‘,

la sua obbedienza e il suo attaccamento al Dio dell’esodo e della libertà: per la sua scoperta

(che vale non solo per sé ma per tutti i popoli) che solo sul terreno della fedeltà a Dio cresce

l’albero della libertà e della pace, solo sulla logica dell’alleanza si realizza il sogno

messianico»28.

1.1.2.2 Pesaµ

a) Il significato della festa

La festa di Pesaµ, la quale commemora l’esodo dei giudei dall’Egitto tremila anni fa,

comincia con i vespri del 14 del mese ebraico di nisan, coincidendo con il mese di aprile,

con l’arrivo dell’oscurità (cfr. Nm 9,1-5). In Israele, e anche tra i giudei riformisti, la festa

dura sette giorni, mentre per i giudei della diaspora è celebrata per otto giorni, dal 15 al 22

di nisan29.

28 C. DI SANTE, La preghiera di Israele, op. cit., pp. 64-65. 29 «Il calendario giudaico è lunare. L’anno comune è formato da dodici mesi lunari, ciascuno dei quali dura

poco più di ventinove giorni e mezzo, e ogni novilunio costituisce una festa minore. Il novilunio, all’epoca del

Tempio, veniva determinato non solamente in base ai calcoli, ma anche all’osservazione diretta. Vale a dire

che non lo si proclamava finché dei testimoni non si presentavano al Gran Sinedrio in Gerusalemme (o in altri

luoghi della Palestina nei quali esso risiedesse) a dimostrare di aver visto la nuova luna; ma le prove dovevano

essere presentate entro il trentesimo giorno dal novilunio precedente. Se i testimoni non si presentavano entro

questo termine, il novilunio era fissato per il giorno seguente, perché anche senza testimoni non c’era dubbio

che la luna si fosse nel frattempo rinnovata. Fissato il giorno del novilunio si inviavano messaggeri nei distretti

più remoti della Palestina per informarne le comunità, affinché sapessero in quale giorno si doveva celebrare

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Questa festa, il cui nome in ebraico significa “passare sopra qualcosa”, “passare oltre”,

ricorda quella notte portentosa nella quale il faraone permise che il popolo giudeo fosse

liberato dal giogo della sua oppressione durata secoli. In quella notte, la notte della decima

piaga, l’Angelo della Morte uccise i figli primogeniti del popolo egiziano, passando sopra le

dimore dei giudei, i cui stipiti furono segnati con il sangue dell’agnello, l’offerta di Pesaµ,

sacrificata nella stessa notte. Allo spuntare del giorno, i giudei fuggirono dall’Egitto e

iniziarono il loro cammino per il deserto, un popolo libero (cfr. Es 12-13).

Essa è detta anche “festa della primavera”, perché l’esodo ebbe luogo durante il primo

mese di primavera, quando la natura si rinnovava dopo i lunghi mesi d’inverno; “festa della

liberazione” oppure “festa dei pani azzimi”, perché si deve mangiare solo questo pane

(maƒƒâ) che rappresenta il patimento degli schiavi giudei nell’Egitto e, a sua volta, il loro

cammino verso la liberazione dato che fuggirono dall’Egitto così velocemente che il pane

non ebbe tempo di lievitare.

b) La sera del seder e i suoi contenuti pedagogici

Il dovere di raccontare ai figli l’esodo dall’Egitto e di spiegar loro il senso delle usanze

pasquali è menzionato per quattro volte nella Torà (Es 12,26-27; 13,8; Dt 6,7; 11,19). Ciò

avviene nell’ambito di una liturgia domestica, detta seder, “ordine”.

Esso inizia con l’antipasto in una stanza a parte, che comprende erbe amare (mārœr),

salsa dolce (µ¦rœset), frutta sciolta nell’aceto; segue la benedizione sul vino, prima coppa.

la festa. Le comunità giudaiche della Diaspora, che i messaggeri non potevano raggiungere in tempo, dovevano

celebrare la festa per due giorni, per avere la sicurezza di osservarla nel giorno giusto. Nacquero casi i due

giorni di festa della Diaspora, osservati dagli ebrei fuori dalla Palestina anche dopo l’adozione del calendario

di Hillel II (un patriarca del IV secolo), in virtù del quale i giorni delle feste vengono stabiliti unicamente in

base ai calcoli. E questo non soltanto per deferenza verso il costume degli avi, ma anche per significare, come

era nel passato, la loro dipendenza dalla Palestina» (I. EPSTEIN, Il giudaismo. Studio storico, op. cit., pp. 98-

99).

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Associata alla benedizione del vino è quella della festa, in cui si fa la commemorazione

dell’evento salvifico dell’esodo. Si lava quindi la mano destra, che serve per mangiare, e

inizia così il pasto centrale, consumato al piano superiore, stesi su divani in segno di libertà.

A questo punto viene fatto il racconto della pasqua (maggîd, “raccontare”), con la

spiegazione dei riti da parte del padre che risponde alle domande del figlio minore. Segue la

presentazione della seconda coppa di vino e il canto dell’Hallel (“loda”), salmi pasquali 113-

114. La benedizione e frazione del pane azzimo (maƒƒâ) da parte del capo-tavola, che lo

distribuisce ai commensali, precedono la consumazione dell’agnello. La terza coppa di vino,

con la relativa benedizione di ringraziamento, precede il canto finale dell’Hallel, salmi 114-

118. Una quarta coppa di vino chiude il rituale della cena di pasqua. Finisce il seder con un

inno30.

Quattro sono gli elementi fondamentali:

1. il racconto della liberazione dall’Egitto;

2. il banchetto festivo;

3. l’Hallel e altri inni;

4. la consumazione di quattro bicchieri di vino.

E’ compito del genitore occuparsi in prima persona dell’educazione intellettuale e

spirituale dei propri figli ed in special modo per ciò che riguarda la trasmissione dell’identità

30 Cfr. R. FABRIS, “Pasqua”, in P. ROSSANO-G. RAVASI-A. GIRVANDA (a cura di), Nuovo dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cinisello Balsamo, Milano 1988, p. 1118. «E’ importante ricordare il significato dei vari

elementi della cena pasquale ebraica per la comprensione della celebrazione cristiana. L ‘agnello è il simbolo

del sacrificio e dell’offerta a Dio, con un valore salvifico per il perdono dei peccati. Esso è anche simbolo del

messia, connesso con le figure di Mosè e di Davide. Il pane azzimo rappresenta il pane della fretta e della fuga,

pane di miseria, mangiato nel deserto; ma è anche il primo frutto della terra promessa. La benedizione del pane

fa partecipare alla salvezza dono di Dio. Il vino nel pasto pasquale è d’obbligo anche per i più poveri. Esso

infatti rappresenta la gioia e la festa per il dono della salvezza. Le quattro coppe di vino ricordano i gesti

liberatori di Dio elencati in Es 6,6. Il convito pasquale ebraico, con il suo significato religioso salvifico, offre

la cornice per la comprensione della pasqua di Gesù e di quella cristiana. Esso è memoria, annuncio e speranza

della salvezza definitiva» (R. FABRIS, “Pasqua”, in P. ROSSANO- G. RAVASI-A. GIRVANDA (a cura di), Nuovo

dizionario di Teologia Biblica, op. cit., pp. 1118-1119).

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ebraica. La Pasqua ebraica richiede talmente tanti preparativi che viene naturale domandarsi

perché proprio le domande che i bambini indirizzano ai genitori circa il significato della

celebrazione sono il nucleo di essa e devono essere soddisfatte prima di ogni altra cosa.

Innanzitutto è necessario comprendere come la Pasqua ebraica sia la festa con maggior

enfasi e significato pedagogico tra i numerosi riti ebraici. Un particolare significato,

caratteristico, di questa celebrazione è il fatto di evidenziare come nessuna educazione

impartita da terzi, quale un insegnante, può prendere il posto di un educazione trasmessa,

attraverso un coinvolgimento personale, dal genitore stesso. Il sapere ebraico non è una

questione semplicemente teorica o meccanica bensì una questione pratica che investe lo stile

di vita di un uomo ed è per questo motivo che non può essere trasmessa unicamente a livello

quasi del tutto teorico a scuola.

Questo è un messaggio importante che proviene dalla celebrazione della Pasqua che

mette al centro l’ambiente familiare ed enfatizza il ruolo educativo parentale31. Così come

ogni padre ha il dovere di adempiere alla sua funzione educativa, allo stesso modo la legge

ebraica si assicura che ogni carattere del figlio possa beneficiare dell’istruzione parentale.

I primi insegnamenti al rampollo vengono impartiti in famiglia dalla madre e dal padre

i quali sentono come un dovere “parlare” ai figli, almeno sino al bar miƒwà, dei

comandamenti, dei gesti, dei riti cultuali della loro fede. Il procedimento si potrebbe

schematizzare nell’esecuzione di un rito o di un precetto da parte del genitore, nella domanda

del figlio che ne chiede il significato, e nella spiegazione "narrativa" del genitore. Ciò è

molto evidente nella celebrazione della festa di Pesaµ.

31 Cfr. L. DI NOLA, Pedagogia della trasmissione della fede nella tradizione ebraica, in AA.VV., Ecumenismo

e Catechesi. Atti della XXIV Sessione di formazione ecumenica organizzata dal Segretariato Attività

Ecumeniche (SAE), Edizioni Dehoniane, Napoli 1987, p. 197.

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«In ogni generazione l’ebreo deve raccontare ai figli (che poi diventeranno padri e madri e

faranno lo stesso con i loro figli) la storia della propria fede, perché, come si proclama nella

celebrazione della cena pasquale, «in ogni generazione ognuno deve considerare se stesso

come se fosse uscito dall’Egitto»32.

Nessun bambino ebreo arriva alla maggiore età religiosa (l’età del bar miƒwà) senza

aver vissuto come esperienza personale la storia dell’uscita dall’Egitto, e senza averne

parlato con partecipazione. La Pasqua infatti è sopratutto una festa di famiglia, nella quale i

bambini svolgono un ruolo centrale.

E’ impossibile seguire tutte le fasi della cena pasquale ebraica; cercherò peraltro di

coglierne il senso fondamentale, sottolineandone particolarmente la funzione pedagogica.

Parecchi elementi del seder evidenziano il ruolo attivo svolto dai fanciulli ed il

tentativo di sollecitarne l’attenzione e la partecipazione corso della celebrazione: la tavola

rotonda solennemente imbandita, i cibi simbolici, la preparazione alla festa, in modo che la

celebrazione pasquale si trasformi in una memorabile esperienza educativa e di fede33.

Il loro ruolo comunque, è davvero decisivo in occasione della fase detta “maggîd”,

“raccontare”, ossia la fase narrativa, la quale prende la forma di risposta-racconto alle

domande formulate dai figli.

A questo punto, il minore dei figli rivolge quattro domande introdotte da una quinta di

carattere generale: “Cosa distingue questa notte da tutte le altre notti?” chiedendo quale sia

il senso della celebrazione con quattro osservazioni:

1. In ogni altra notte mangiamo pane lievitato o azzimo, perché in questa notte

mangiamo solo azzimo?

32 P. DE BENEDETTI, Introduzione al giudaismo, Morcelliana, Brescia 1999, p. 15. 33 Cfr. L. DI NOLA, Pedagogia della trasmissione della fede nella tradizione ebraica, in AA.VV., Ecumenismo

e Catechesi…, op. cit., p. 209.

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2. In tutte le altre notti mangiamo ogni tipo di erbe, perché in questa notte mangiamo

erbe amare?

3. In tutte le altre notti non siamo tenuti a intingere neanche una volta; perché in

questa notte intingiamo il nostro cibo due volte?

4. In tutte le altre notti mangiamo o stando seduti o appoggiati, perché in questa notte

tutti stiamo appoggiati.

Il capofamiglia risponde in cinque momenti. Nei primi quattro espone in diversi modi

l’antichissima storia d’Israele: è l’haggadà pasquale, che comprende i testi di Dt 6,20-25;

26,5-11; Gs 24,2-13. Questo è il “credo” di Israele riproposto nel contesto della cena

pasquale.

«a) La prima risposta è data però dai commensali stessi:

Un tempo eravamo schiavi del Faraone in Egitto, ma il Signore nostro Dio ci ha condotti fuori

di là con mano forte e braccio teso. Se il Signore – sia egli benedetto – non avesse condotto i

nostri padri fuori dall’Egitto, veramente noi, i nostri figli e i figli dei nostri figli avremmo

dovuto rimanere per sempre in schiavitù in Egitto. Fossimo anche tutti uomini sapienti,

intelligenti ed esperti, fossimo anche tutti conoscitori della torà, tuttavia avremmo egualmente

l’obbligo di raccontare storia dell’esodo dall’Egitto; e chi più ne racconta è degno di lode.

Il narratore si limita alla menzione della schiavitù e della liberazione e spiega il perché

dell’obbligo di parlare ampiamente dell’esodo durante questa sera. Egli spiega anche come nel

raccontare si debba tener conto del temperamento dei vari figli. Che cosa sì dice al figlio

sapiente? che cosa a quello scellerato, che cosa a quello semplice e che cosa a quello attento?

b) La seconda parte inizia con uno sguardo ai patriarchi: “All’inizio i nostri padri erano

idolatri, ma ora Dio ci ha consacrati al suo servizio”. In poche frasi il narratore partendo da

Abramo arriva a Giacobbe che è disceso in Egitto con la sua famiglia, e menziona quanto era

stato detto ad Abramo; egli sarebbe vissuto in un paese straniero, in una schiavitù e

oppressione di 400 anni, ci sarebbe stato il giudizio sul popolo straniero e quindi l’esodo degli

Israeliti. Così l’esodo viene descritto come compimento di una promessa, una promessa che

riguarda anche i celebranti attuali; infatti:

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È questa (la promessa) che ha sostenuto i nostri padri e noi. Infatti non fu solo uno a sollevarsi

contro di noi per annientarci, ma in tutte le generazioni c’è chi si solleva contro di noi per

annientarci. Ma il Santo, sia egli benedetto, ci strappa dalle loro mani.

c) La terza parte prende le mosse da Dt 26,5-8:

“L’arameo (Labano) voleva annientare mio padre (Giacobbe), e questi discese in Egitto,

soggiornò colà in piccolo numero e divenne un popolo grande, potente e numeroso”. Segue

un’ampia spiegazione e interpretazione del midrash del passo biblico citato, di cui fa parte

anche l’elenco delle piaghe egiziane. Infine in un inno vengono enumerate tutte le gesta di

benevolenza che Dio ha compiuto in favore degli Israeliti, dall’esodo fino all’edificazione del

tempio, sottolineando il dovere di riconoscenza che ne deriva»34.

Nel quinto momento risponde alle quattro domande esaltando e ringraziando Dio per

i benefici da Lui fatti in quel tempo:

1. Quando i nostri antenati abbandonarono l’Egitto, fecero la massa per il pane però

non ebbero tempo di farla lievitare. Allora il sole cucinò la massa sulle loro schiene

e chiamarono maƒƒâ il pane azzimo.

2. I nostri antenati furono schiavi in Egitto e le loro vite furono molto amare. In Pesaµ

mangiamo mārœr, che è molto amaro, per ricordare la loro sofferenza.

3. Intingiamo le nostre verdure in acqua e sale per ricordare che la primavera e la

rinascita vengono dopo le lacrime della sofferenza. Spalmiamo mārœr in µ¦rœset

per ricordare che l’amarezza della schiavitù fu addolcita dal sogno della libertà.

4. Molto tempo fa, i ricchi e i liberi si appoggiavano su divani mentre mangiavano.

In Pesaµ, siamo ricchi con la memoria di essere liberi e ci appoggiamo mentre

mangiamo.35

34 G. FOHRER, Fede e vita nel giudaismo, op. cit., pp. 128-130. Il testo biblico di Dt 26,5-8 dice: «Mio padre

era un Arameo errante; scese in Egitto…». L’interpretazione rabbinica, invece di applicare l’appellativo

“arameo” a Giacobbe, lo applica a Làbano, zio e suocero di Giacobbe, e dice di lui che cercò di distruggere

Giacobbe. (cfr. V. SERRANO, La Pascua de Jesús en su tiempo y en el nuestro, Centro de Estudios Judeo-

Cristianos, Madrid 1978, pp. 138-139). 35 Cfr. PALLER D., The Interactive Haggadah, Jerusalem Multimedia Productions Ltd., Jerusalem 1997

(supporto in cd-rom).

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30

La liturgia ha qui al suo centro la narrazione dell’esodo dalla schiavitù egiziana in

modo da rafforzare la propria identità ebraica e contemporaneamente trasmettere importanti

insegnamenti pedagogici, diretti sia ai figli che ai genitori, e valori universali. E’ dovere dei

genitori trasmettere l’insegnamento storico dell’uscita dall’Egitto rispondendo alle domande

dei figli in accordo con l’intelligenza di ciascuno36.

Ad evidenziare la grande varietà della personalità umana con la consapevolezza che

ogni persona è diversa ed unica nel suo genere, sul piano pedagogico, il testo della cena

pasquale fa riferimento a quattro simbolici modelli filiali per altrettanti figli presenti: uno

saggio, uno malvagio, il terzo “semplice” e l’ultimo incapace persino di formulare domande.

«Il narratore si limita alla menzione della schiavitù e della liberazione e spiega il perché

dell’obbligo di parlare ampiamente dell’esodo durante questa sera. Egli spiega anche come nel

raccontare si debba tener conto del temperamento dei vari figli. Che cosa si dice al figlio

sapiente? che cosa a quello scellerato, che cosa a quello semplice e che cosa a quello

attento?»37.

Sulla bocca dei primi tre vengono poste domande provocatrici, per fornire al

capofamiglia esempi di risposte pertinenti, che lui può ampliare a piacimento. Tutto questo

per illustrare plasticamente e in modo molteplice, adatto alle diverse mentalità, l’epopea

della liberazione del popolo ebraico. L’Ebraismo presenta qui la sua caratteristica di libertà,

di apertura a diverse possibilità di interpretazione della festa: da quella del sapiente, propria

di chi conosce il senso di Pesaµ, di chi ne sperimenta quotidianamente la libertà e la gloria,

a cui viene risposto di proseguire per tale strada, approfondendo sempre più; a quella del

malvagio, che addirittura ignora la Pasqua, non conosce la libertà; è incapace di apprendere.

36 Cfr. L. DI NOLA, Pedagogia della trasmissione della fede nella tradizione ebraica, in AA.VV., Ecumenismo

e Catechesi…, op. cit., p. 208. 37 G. FOHRER, Fede e vita nel giudaismo, op. cit., p. 128.

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C’è poi il “semplice”, l’ingenuo che appare del tutto superficiale e impossibilitato a porre

vere questioni, ad evolvere. E’ l’uomo che crede di sapere e che, per questo, vittima della

sua illusione, resta condannato all’ignoranza. Infine il figlio che non sa fare domande,

probabilmente il più giovane, ma è disponibile ad apprendere, seguendo una pedagogia

correttamente fondata. Il suggerimento del midraš è di “aprirgli la bocca”, in modo socratico,

stimolandolo ad interrogare, catturandone l’attenzione, rendendolo partecipe alla riflessione

comune. Il sostantivo latino “infans”, da cui derive la parola “infante” ossia colui che non

parla e che deve essere introdotto a parlare, riflette una fondamentale necessità pedagogica

che l’Ebraismo dice consistere essenzialmente nell’indurre il bambino anzitutto a fare

domande.

Consideriamo una per volta queste tipologie caratteriali identificate da quattro diversi

figli ipotetici. La Haggadà38, parla del “figlio che non sa domandare” ossia un bambino il

cui desiderio di conoscenza è assopito, ciò che accade intorno a lui lo lascia indifferente e

non stimola la sua curiosità a tal punto da non sentire la necessità di domandare. Egli può

anche non avere ancora raggiunto lo stadio in cui sente la necessità di domandare. La lezione

pedagogica che è possibile trarre da ciò si riferisce al fatto che un infante formula le domande

nella propria mente ancor prima di poterle esprimere verbalmente e a ben vedere è proprio

la capacità di fare domande a distinguere l’uomo dal resto degli esseri viventi.

38 Sintetizza l’insieme di preghiere, letture e cantici che servono di guida attraverso il seder. Il termine haggadà

ha la sua origine nel precetto “e istruirai il tuo figlio” (Dt 6,7), obbligando gli ebrei a trasmettere la storia della

redenzione d’Egitto di generazione in generazione: «Una volta terminato il culto del tempio, la celebrazione

della festa fu spostata nella casa giudaica e all’interno della famiglia. Rimase la prescrizione del pane azzimo

(e della erbe amare). S’aggiunsero altre usanze e poco a poco si formò un ordinamento fisso (seder) che la

regolava. Per motivi pratici più tardi questo rituale domestico è stato sintetizzato in un libretto, che fu detto

haggadà, “racconto”, o più precisamente, “haggadà di Pasqua”, o seder, “ordine della haggadà di pasqua”. Fu

redatto nel periodo posttalmudico e la sua forma attuale risale al X secolo; è vecchia quindi di circa un millennio

[…] Questo ordinamento fa parte del genere esegetico midrašico» (G. FOHRER, Fede e vita nel giudaismo, op.

cit., p. 120).

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Un neonato impara molto durante il primo anno di vita perché la sua mente attiva è in

continua ricerca di risposte da dare alle proprie domande. E’ necessario accogliere la

curiosità di un bambino quale segno della sua normalità ed un genitore non dovrebbe mai

stancarsi di fornire risposte alle domande del proprio figlio proprio come lui non sembra

stancarsi di formularle continuamente. Un genitore dovrebbe essere volenteroso ed attento

nell’occuparsi di soddisfare le necessità intellettuali del proprio figlio proprio come lo

sarebbe riguardo il suo benessere fisico. Se un infante non riceve risposte perde la propria

curiosità naturale ed eventualmente smette di domandare; ciò potrebbe andare anche a

discapito della sua capacità e potenzialità d’apprendimento.

Nel caso il figlio non avesse ancora raggiunto lo stadio in cui è capace di formulare

domande è compito del genitore prendere l’iniziativa ed intavolare una conversazione per

primo in modo da offrirgli degli stimoli: «In quel giorno tu istruirai tuo figlio: E’ a causa di

quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto» (Es 13,8). Durante la

narrazione di Pesaµ si discute anche a proposito del figlio “semplice” cui desiderio di

conoscere è vivo e si esprime verbalmente attraverso le domande. E’ necessario, quindi, che

i suoi genitori siano preparati nel rispondere adeguatamente alle sue domande considerando

che anche qualora non si conosca la risposta adeguata, il dichiarare apertamente la propria

ignoranza, oltre ad essere un segno di modestia, permette al figlio di realizzare che vi sono

limiti alla conoscenza umana. Inoltre l’essere consapevole che una persona non può essere

alla conoscenza di tutto è essa stessa una conoscenza. E’ proprio al figlio considerato

“semplice” o “ingenuo” che dovrebbero dedicare il proprio tempo dei genitori attenti, in

modo da fornirgli risposte adeguate alla sua personalità ed al suo livello di comprensione:

«Quando tuo figlio ti chiederà: Che significa ciò?, tu gli risponderai: Con braccio potente il

Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto, dalla condizione servile» (Es 13,14).

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33

Nella parte strettamente narrativa della Haggadà si parla, inoltre, del figlio “saggio”

come colui che non solo possiede già un certo bagaglio di conoscenze ma mostra anche segni

della propria responsabile attitudine primariamente nei confronti della religione. Egli è in

possesso di un bagaglio culturale, arricchito ulteriormente dalla fede.

Ciò che i genitori insegnano a questo “genere” di figlio attraverso la Pasqua riguarda

innanzitutto la trasmissione del concetto che la fede ebraica si basa sull’esperienza vissuta

dai propri antenati con l’uscita dall’Egitto e la fine della propria schiavitù, e non su principi

filosofici riguardanti la natura divina.

«Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e

queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?, tu risponderai a tuo figlio: Eravamo schiavi

del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò

sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro

tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di

darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore

nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi.

La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore

Dio nostro, come ci ha ordinato» (Dt 6,20-25).

Vi è, però, un ulteriore valore di estrema importanza che è necessario trasmettergli: il

popolo ebraico fu schiavo in Egitto e fu straniero. La legge ebraica ha particolari statuti che

proteggono lo straniero e lo tutelano in quanto è necessario comprendere i problemi dello

straniero proprio come lo furono gli ebrei in Egitto. L’Egitto è spesso considerato un

allegoria per i diversi paesi in cui gli ebrei, nei secoli, furono ospiti. E’, quindi, comprensibile

l’estremo interesse ed empatia che gli ebrei ebbero nel tempo, e dovrebbero avere, nei

confronti dello straniero, dell’immigrato. Il figlio saggio deve essere comunque introdotto

allo studio teoretico della cultura ebraica e generale che deve continuamente essere

alimentata e trasformata in azioni adeguate.

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L’ultimo figlio di cui si discute durante la fase narrativa del seder è il “malvagio” ossia

colui che pur se in tenera età considera già qualunque attività in termini del proprio beneficio

ed interesse personale. Egli tende a smuovere ogni tendenza positiva e nobile in lui; il suo

comportamento e le sue scelte sono determinate da un unica considerazione: se ciò gli

procurerà un piacere personale.

Egli tende ad escludersi dalla famiglia e dalla collettività ebraica; infatti, nella

Haggadà, egli domanda simbolicamente “quale valore ha ciò per voi?” e non “per noi?”

come ci si aspetterebbe: «Che significa questo atto di culto?» (Es 12,26)39. Con tale domanda

egli si riferisce non tanto alla celebrazione quanto ai preparativi precedenti la festa che

vengono effettuati molto minuziosamente (la pulizia della casa e di qualunque proprietà da

qualunque presenza di lievito) e che possono apparire inutili ed insensati se al di fuori di un

contesto religioso e di fede. Il figlio “malvagio” fa fatica a comprendere il motivo per cui,

per un gesto di pura fede e non di interesse e beneficio pratico, l’uomo possa fare dei sacrifici

personali. In questo senso tale figlio può essere considerato quello meno “spirituale” e

maggiormente legato alla mondanità ed ai piaceri fisici della vita. E’ necessario dare risposte

a tale figlio in tutta serenità e solennità in modo da renderlo partecipe dell’atmosfera festiva

e renderlo consapevole della felicità e del beneficio spirituale e non solo fisico che se ne trae

in modo da ottenerne almeno il rispetto.

La felicità della liberazione dalla schiavitù, simbolo della schiavitù personale che ogni

persona può sperimentare quotidianamente nei confronti dei piaceri fisici ma anche di

un’infinità di altre esperienze che possono limitare la naturale libertà, spirituale e fisica, a

cui l’uomo aspira, può essere rivissuta attraverso la celebrazione che la ricorda cercando di

39 Cfr. L. DI NOLA, Pedagogia della trasmissione della fede nella tradizione ebraica, in AA.VV., Ecumenismo

e Catechesi…, op. cit., p. 196.

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ricreare l’atmosfera in cui gli ebrei si trovarono alla loro uscita dall’Egitto. Ogni uomo deve

riuscire a liberarsi dalla “schiavitù” in cui vive quotidianamente ossia da ciò che sente come

“schiavizzante” e aspirare ad una situazione migliore ed un bene maggiore. Infatti il popolo

ebraico non solo fu liberato ma la sua condizione di vita migliorò una volta trovato un paese

in cui risiedere.

Il valore della libertà deve essere insegnato, attraverso l’esperienza pratica, a tutti i

figli, anche al “malvagio” che è in grado di comprenderlo. La conclusione del “botta e

risposta”, certo non formale, tra il capofamiglia ed il rappresentante dei bambini, viene ad

essere il canto detto “dayy¢nû”, alla conclusione della fase narrativa del seder, che anche i

piccoli sono in grado di modulare assieme agli adulti.

1.1.2.3 Bar/bat miƒwà

Letteralmente il termine Bar/bat miƒwà significa "figlio/a del comandamento" ed

indica sia il raggiungimento della maturità religiosa e legale sia la cerimonia in occasione

dell’acquisizione formale dello status di maggiorità religiosa, assunta all’età di tredici anni

per i maschi e dodici per le femmine. Una volta raggiunta tale età un ebreo è obbligato

all’osservanza dei comandamenti.

«A 12 anni le ragazze e a 13 i ragazzi sono considerati religiosamente adulti. D’ora innanzi

sono obbligati all’osservanza di tutti i comandamenti della torà e sono ritenuti responsabili per

le loro azioni e omissioni. Per questo i ragazzi vengono chiamati bar miƒwà, “figlio del

comandamento”»40.

Malgrado sia presente nel Talmud il termine bar miƒwà ad indicare colui che è soggetto

alla legge, il suo uso in occasione della maturità legale e religiosa non compare in testi

40 G. FOHRER, Fede e vita nel giudaismo, op. cit., p. 196.

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ufficiali prima del quindicesimo secolo. Una persona che sia già divenuta bar miƒwà è

responsabile delle implicazioni legali dei propri atti. La legge ebraica stabilisce l’età dei

tredici anni in quanto è considerata l’età della maturità fisica in cui è presunto che una

persona cominci a divenire capace di controllo sui propri istinti41.

La prima fase dell’educazione religiosa del fanciullo ebreo si conclude appunto con la

liturgia del bar miƒwà grazie alla quale si diventa membri a pieno diritto della comunità,

capaci di assumersi in prima persona le responsabilità delle proprie azioni. Essa consiste in

una benedizione che il padre pronuncia per essere sciolto dalla responsabilità legale delle

azioni del proprio figlio. A sua volta, quest’ultimo, per provare pubblicamente la maturità

raggiunta, il sabato che segue il compimento dei tredici anni è convocato a leggere la Torà

nella sinagoga: pronunciando una serie di benedizioni appropriate, leggendo una parte della

pericope settimanale nonché il passo dei profeti e tenendo un’esposizione omiletica al

gruppo dei presenti; ponendosi infine a loro disposizione e rispondendo a eventuali

domande.

«L’obbligo di obbedire ai comandamenti positivi comincia, a rigor di termini, a tredici anni

compiuti, quando l’ebreo raggiunge la maggiore età giuridica, e diventa Bar Mitzvah (figlio

del comandamento). A tredici anni è confermato nei suoi doveri e nei suoi privilegi, quando

indossa i tefillin ed è “convocato” alla lettura pubblica della Torah»42.

I rituali ciclici nel corso della vita sono particolarmente significativi alla luce della

visione ebraica della donna.

Innanzitutto, la donna è protagonista di significativi cambiamenti personali mentre

contemporaneamente partecipa a rituali che riguardano la comunità nel suo insieme: la

41 Cfr. L. DI NOLA, Pedagogia della trasmissione della fede nella tradizione ebraica, in AA.VV., Ecumenismo

e Catechesi…, op. cit., p. 215. 42 I. EPSTEIN, Il giudaismo. Studio storico, op. cit., p. 145.

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nascita e il rituale del conferimento del nome, il matrimonio e la cerimonia nuziale, la

pubertà e la cerimonia del bat miƒwà. Queste sono tutte occasioni in cui la donna è in

relazione ad altre persone; fa eccezione, in un certo senso, il bat miƒwà in quanto parte del

suo significato si ricollega alla separazione dall’infanzia e dalla dipendenza dalla famiglia.

Quindi la cerimonia del bat miƒwà ha un forte potenziale intrinseco di educazione e crescita

personale. Essa è una cerimonia piuttosto inusuale nell’ottica della civiltà del mondo

occidentale in quanto lo stadio della pubertà risulta essere caratterizzato, spesso, dalla

devianza o delle ideologie di gruppo spesso lontane dal mondo adulto. L’Ebraismo cerca in

questo modo di creare un momento in cui il giovane viene posto al centro dell’attenzione in

famiglia e all’interno della comunità che lo accoglie trattandolo come un adulto a tutti gli

effetti. Ciò ha il vantaggio di avere una funzione di spinta verso l’autonomia. Vi sono

particolari differenze, però, fra il bar miƒwà ed il bat miƒwà quale il fatto che per il secondo

non vi siano simboli centrali e particolari l’indossare i filatteri, rappresentanti nuovi ruoli.

Inoltre a livello di responsabilità religiosa, una fanciulla non assume un ampia varietà di

obblighi personali quanti quelli maschili43. Comunque l’importanza di una celebrazione per

la maturità della donna quale il bat miƒwà sta crescendo d’importanza e viene sempre più

adottata nelle comunità in quanto essa è sia un occasione importante per la comunità che in

tal modo accoglie al suo interno un nuovo membro sia nell’ambito delle esperienze

significative nella vita di tale persona.

«Le donne sono esentate da molti comandamenti positivi che vanno osservati nelle epoche

prescritte. L’esenzione non sta a significare inferiorità, ma è conforme al principio talmudico

secondo cui “chi è occupato in prati che religiose è esentato dalle richieste che altri hanno

diritto di rivolgergli” (T. Sukkah, 26a). I compiti tipici della donna sono considerati in se stessi

43 Cfr. L. DI NOLA, Pedagogia della trasmissione della fede nella tradizione ebraica, in AA.VV., Ecumenismo

e Catechesi…, op. cit., p. 215.

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di carattere sufficientemente sacro per assorbire tutta la sua attenzione, fino a esentarla da tutti

quei doveri religiosi cui bisogna adempiere in certe epoche stabilite e che di conseguenza

potrebbero distoglierla dai suoi compiti. Tuttavia è tenuta ad osservare tutti quei doveri per i

quali non esiste una limitazione temporale e tutte le proibizioni vigenti per l’uomo. La

maggiore età religiosa delle ragazze comincia a dodici anni e un giorno; ma non c’è una

celebrazione particolare a caratterizzare l’avvenimento, poiché — non esistendo nel loro caso

comandamenti positivi — la confermazione nel senso giudaico della parola è di scarsa

importanza. Alcune comunità, in epoca moderna, hanno però adottato una sorta di

confermazione o consacrazione generale riservata alle ragazze maggiorenni, che in molti casi

si tiene il giorno in cui si festeggia il Dono della Legge (Pentecoste)»44.

Questo rito di passaggio ha valore fondamentale alla luce del traguardo a cui mira lo

stadio della pubertà: l’entrare a far parte effettivamente ed a pieno titolo nel mondo adulto.

Esso è segnalato di fatto attraverso l’assolvimento di un compito importante quale la lettura

ed il discorso pubblico sia per l’uomo che per la donna. E’ proprio in questo stadio di vita

che il bambino/a scopre la propria virilità o femminilità e la pone in relazione con la propria

capacità di avere successo nelle proprie azioni. Spesso, però, vengono messe in questione e

alla prova le proprie capacità mentali ed intellettive ed è in questo contesto che il bar/bat

miƒwà può divenire un campo di prova e di confronto. Il ragazzo o la ragazza si rendono

conto che la loro virilità o femminilità vengono posti maggiormente in risalto ed affermate

proprio attraverso il successo in compiti di tipo intellettivo. In questo modo la propria

identità ebraica viene saldata assieme alla preoccupazione per il figlio in quanto adolescente

in modo da averne un mutuo beneficio.

E’ importante infine la fase preparatoria che precede il bar/bat miƒwà in cui il bambino

lavora e cresce assieme ad un tutore personale che lo pone in diretto confronto con una

44 I. EPSTEIN, Il giudaismo. Studio storico, op. cit., p. 146.

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personalità adulta che può divenire per lui un modello. Questa esperienza ha la potenzialità

di divenire un evento fondamentale nel corso della vita.

1.1.3 La trasmissione della fede nel Talmud45

Obiettivo principale del Talmud era quello di provvedere il popolo ebreo di un corpo

di insegnamenti il quale, più che un credo, fosse anche la guida di vita in ogni momento.

Il Talmud comincia a formarsi nel periodo dell’esilio quando il popolo di Israele,

lontano dalla terra promessa, sente la necessità che la Torà sia la guida completa della loro

esistenza e anche vuole dimostrare che la Torà Orale sia parte integrante della Torà Scritta.

Possiamo affermare che il Talmud rispecchia fedelmente le dottrine ebraiche del grande

periodo formativo che si estende dal III a.C. (con tradizioni anche più antiche) al V d.C.,

periodo in cui si svilupparono i principi mosaici e profetici nel giudaismo come li troviamo

fino ad oggi46.

«Il Talmud, dunque, è la storia, in lingua ebraica ed aramaica, dell’interpretazione biblica,

della formazione delle leggi locali minori e delle aggiunte fate al patrimonio di norme pratiche

e di saggi consigli impartiti dai capi intellettuali e religiosi del popolo giudaico lungo un

periodo di tempo che abbraccia quasi mille anni, dall’epoca di Esdra alla fine del V secolo»47.

Si sono formati due Talmudim (plurale): quello di Gerusalemme, con tradizioni

anteriori al 400 d.C, e quello babilonese, il più importante e vasto, con tradizioni fra il III e

il VI d.C..

45 Per uno studio complessivo del Talmud vedi A. COHEN, Il Talmud, Laterza, Bari 19915; oppure G.

STEMBERG, Il Talmud. Introduzione, testi, commenti, EDB, Bologna 1989. 46 Cfr. A. COHEN, Il Talmud, op. cit., p. 24. 47 I. EPSTEIN, Il giudaismo. Studio storico, op. cit., p. 114.

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Il testo talmudico è costituito dalla Mishnah e dal commento e interpretazione di

questa, la Ghemarah (“completamento”).

Troviamo nel pensiero talmudico due aspetti principali: l’esegesi giuridica (halakica),

elaborata in un periodo compresso far il 200 d.C e il 500 d.C., che scruta la Torà per fondare

il diritto, e l’esegesi morale (haggadica), una vera e propria summa della cultura, della

tradizione e della scienza ebraica, in cui sono contenute numerose digressioni che spaziano

dalla favola alla disquisizione metafisica, dalla medicina alla geografia, e che si sforza di

scoprire il senso spirituale, religioso o mistico della Torà 48.

Andiamo però al nostro argomento evidenziando l’importanza che il Talmud dà al

dovere di trasmettere la fede ai figli.

Come abbiamo già comprovato nei punti precedenti, incombeva ai genitori l’obbligo

primario di educare i loro figli a vivere come membri della comunità di Israel, costruendo

così solidi anelli della catena ininterrotta del patrimonio religioso ereditato dalle passate

generazioni, perché fosse trasmesso intatto alle generazioni future. Troviamo molte

dichiarazioni del Talmud che sottolineano l’importanza di questo dovere. Ne riporto due a

modo di esempio:

«Colui che alleva i suoi figli nella Torà è fra coloro che godono il frutto di questo mondo,

mentre il capitale rimane loro per il Mondo Avvenire»49.

«Chiunque insegna a suo figlio la Torà, la Scrittura glielo considera come se l’avesse ricevuta

dal monte Horeb; come è detto: “Le farai conoscere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli” (Dt

4,9), e subito dopo; “Il giorno in cui stesti dinanzi al Signore Dio tuo in Horeb” (Dt 4,10)»50.

48 Cfr. “Talmud”, in D. COHN-SHERBOK, Ebraismo, op. cit., p. 538. 49 Shabat 127a. 50 Berakot 21b.

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Ogni padre aveva personalmente l’obbligo di educare ai propri figli secondo

l’insegnamento religioso. Tuttavia molto spesso questi non era in grado di insegnare ai propri

figli e non poteva neanche pagare un precettore privato. Come conseguenza di questo

compito di educare i figli e del precetto religioso dello studio della Bibbia, si sentì la

necessità di istituire delle scuole pubbliche gratuite che con il passare del tempo si evolsero

diventando, poco prima della distruzione del tempio, un sistema ben strutturato.

«Conseguenza del vivo desiderio di istruire i fanciulli è 1’istituzione di scuole. Il primo

tentativo di creare un sistema di scuole pare sia dovuto a Shimon b. Shatach nella prima metà

del primo secolo avanti l’èra volgare; ma un piano organico fu stabilito solo da Jeoshua b.

Gamla pochi anni prima della distruzione del Tempio. “Sia ricordato per bene l’uomo

chiamato Jeoshua b. Gamla, perché, se non fosse stato per lui, la Torah sarebbe stata

dimenticata da Israel. Dapprima il bambino veniva istruito da suo padre, e per conseguenza

l’orfano rimaneva privo di insegnamento. Si decise allora che dei maestri fossero stabiliti a

Gerusalemme; e un padre (abitante fuori della città) vi avrebbe condotto suo figlio perché fosse

istruito; ma ancora l’orfano veniva lasciato senza istruzione. Si decise in seguito di stabilire

maestri (per una educazione più elevata) in ciascun distretto, e i ragazzi di sedici e diciassette

anni venivano posti sotto di loro; ma accadde che quando il maestro si adirava con uno scolaro,

questi si ribellava e usciva. Finalmente venne Jeoshua b. Gamla e decise che si stabilissero

maestri in ogni provincia e in ogni città e che fossero loro affidati i bambini dell’età circa di

sei o sette anni” (B. B. 21 a)»51.

«Il pensiero talmudico è stato la fortezza che ha consentito il salvataggio dei resti di

Israele dopo l’esilio. Di qui la sua importanza storica e filosofica»52.

51 A. COHEN, Il Talmud, op. cit., p. 216. 52 A. CHOURAQUI, Il pensiero ebraico, op. cit., p. 30.

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1.2 Gesù, figlio della fede ebraica

A tutti è noto che Gesù è stato un ebreo: chiunque legga il Vangelo può vedere come

appaiono chiaramente gli elementi dell’ebraicità di Gesù, che è presentato sin dalla nascita

fino all’inizio del suo ministero come un giovane ebreo. Possiamo dire che l’ebraicità di

Gesù è un dato di fatto palese, a partire del Nuovo Testamento. Basta andare a vedere la

relazione che Gesù ha avuto con la legge ebraica, come è stato circonciso all’ottavo giorno53,

presentato al tempio, formato all’osservanza della legge come qualsiasi altro ebreo vissuto

nel suo tempo.

«Non vi è alcun dubbio, tuttavia, che egli voglia sottomettersi alla legge (cfr. Gal 4,4), che sia

stato circonciso e presentato al tempio, come qualunque altro ebreo del suo tempo (cfr. Lc

2,21.22-24), e che sia stato formato all’osservanza della legge (cfr. Mt 5,17-20) e l’obbedienza

ad essa (cfr. Mt 8,4). Il ritmo della sua vita è scandito, sin dall’infanzia, dai pellegrinaggi in

occasione delle grandi feste (cfr. Lc 2,41-52; Gv 2,13; 7,10; ecc.). Si è rilevata spesso

l’importanza, nel Vangelo di Giovanni, del ciclo delle feste ebraiche (cfr. 2,13; 5,1; 7,2.10.37;

10,22; 12,1; 13,1; 18,28; 19,42; ecc.)»54.

«Ci sono delle pubblicazioni, dei testi anche scolastici, in ebraico, che parlano del Cristo come

di un ebreo perfetto, osservante della legge, tutto ligio alla tradizione e alla fedeltà alla Torà»55.

Di fatto Gesù, “il Galileo nato ebreo”, si è inserito nella genealogia ebraica, dentro la

storia, attraverso la quale era garantita la linea delle Promesse. Educato all’interno di una

famiglia ebraica, ha imparato a conoscere il “Dio dei Padri”, gli insegnamenti che venivano

tramandati ininterrottamente lungo i secoli di generazione in generazione.

53 «La circoncisione di Gesù, otto giorni dopo la nascita, [cfr. Lc 2,21] è segno del suo inserimento nella

discendenza di Abramo, nel popolo dell'Alleanza, della sua sottomissione alla Legge, [cfr. Gal 4,4] della sua

abilitazione al culto d'Israele al quale parteciperà durante tutta la vita. Questo segno è prefigurazione della

“circoncisione di Cristo” che è il Battesimo [cfr. Col 2,11-13]» (CCC 527, p. 157). 54Sussidi, III,2: EV 9/1637. 55 G. SORANI , Le radici ebraiche del cristianesimo, “Amicizia Ebraico-Cristiana”, 1990 (XXV), n. 1-2, p. 6.

Cfr. anche CCC 577, p. 172.

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«Quello che in tutti i Vangeli viene chiamato il Dio di Gesù, quello che Gesù chiama suo

padre, è senz’altro il Dio dei Suoi Padri […], non è un altro Dio, è il Dio di Israele. E questo

Dio s’impara a conoscere alla scuola di Abramo e alla scuola dei discendenti di Abramo,

all’interno di una tradizione vivente, cioè all’interno del popolo ebraico»56.

Nella sua infanzia Gesù ha vissuto sottomesso ai suoi genitori, in obbedienza nel

quotidiano della sua vita nascosta e ricevendo la fede da loro mentre faceva una vita come

facevano la maggioranza degli uomini del suo tempo.

«Durante la maggior parte della sua vita, Gesù ha condiviso la condizione della stragrande

maggioranza degli uomini: un'esistenza quotidiana senza apparente grandezza, vita di lavoro

manuale, vita religiosa giudaica sottomessa alla Legge di Dio [cfr. Gal 4,4], vita nella

comunità. Riguardo a tutto questo periodo ci è rivelato che Gesù era sottomesso ai suoi genitori

e che “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52)»57.

Gesù ha imparato le preghiere del suo popolo secondo quanto gli è stato trasmesso

all’interno della famiglia di Nazaret. La sua iniziazione alla preghiera ripercorre le stesse

tappe comuni ad ogni ebreo. Impara, anzitutto, dalla madre le prime formule – sicuramente

ha recitato lo Shema‘, almeno nei i suoi elementi essenziali –, in seguito, si inserisce

all’interno della sinagoga di Nazaret e, in un secondo momento, nel culto del tempio.

«Il Figlio di Dio diventato Figlio della Vergine ha anche imparato a pregare secondo il suo

cuore d'uomo. Egli apprende le formule di preghiera da sua Madre, che serbava e meditava nel

suo cuore tutte le “grandi cose” fatte dall'Onnipotente [cfr. Lc 1,49; 2,19; 2,51]. Egli prega

nelle parole e nei ritmi della preghiera del suo popolo, nella sinagoga di Nazaret e al Tempio.

Ma la sua preghiera sgorga da una sorgente ben più segreta, come lascia presagire già all'età

di dodici anni: “Io devo occuparmi delle cose del Padre mio” (Lc 2,49). Qui comincia a

rivelarsi la novità della preghiera nella pienezza dei tempi: la preghiera filiale, che il Padre

56 G. SORANI , Le radici ebraiche del cristianesimo, “Amicizia Ebraico-Cristiana”, 1990 (XXV), n. 1-2, p. 6. 57 CCC 531, p. 158.

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aspettava dai suoi figli, viene finalmente vissuta dallo stesso Figlio unigenito nella sua

umanità, con e per gli uomini»58.

«Gesù, come prima di lui i profeti, ha manifestato per il Tempio di Gerusalemme il più

profondo rispetto. Vi è stato presentato da Giuseppe e Maria quaranta giorni dopo la nascita

[Lc 2,22-39]. All'età di dodici anni decide di rimanere nel Tempio, per ricordare ai suoi genitori

che egli deve occuparsi delle cose del Padre suo [cfr. Lc 2,46-49]. Vi è salito ogni anno, almeno

per la Pasqua, durante la sua vita nascosta [cfr. Lc 2,41]; lo stesso suo ministero pubblico è

stato ritmato dai suoi pellegrinaggi a Gerusalemme per le grandi feste ebraiche [cfr. Gv 2,13-

14; 5,1.14; 7,1.10.14; 8,2; 22-23]»59.

Una volta cresciuto, Gesù insegna nelle sinagoghe (cfr. Mt 4,23; 9,35; Lc 4,15-18; Gv

18,20; ecc.) e frequenta il tempio (cfr. Gv 18,20; ecc.), come facevano i suoi discepoli anche

dopo la risurrezione. Nella stessa maniera, si inserisce all’interno della liturgia domestica

della pasqua, dove istituisce l’eucaristia60. Mi sembra utile riportare il commento che M.

Remaud fa all’affermazione «Gesù è ebreo e lo è per sempre»61 che troviamo nei Sussidi:

«Gesù è ebreo e lo è per sempre. Fra tutte le affermazioni contenute nel testo, questa è forse

la più pregna di conseguenze... E una tale affermazione infatti a illuminare il fondamento della

relazione unica e originale che unisce la Chiesa al popolo di Israele... Per questo, il testo

afferma che Gesù è ebreo per sempre. Il che significa, in primo luogo, che Gesù non è un

convertito. Non ha mai abiurato al proprio giudaismo, mai negato in alcun modo né le proprie

origini né il proprio passato. Ma significa pure che Gesù risorto rimane ebreo. Lungi dal

cancellare ciò che è stato, la risurrezione lo glorifica e lo rende eterno... Così la Chiesa si trova

legata, per natura e per l’eternità, all’ebreo Gesù e, per mezzo suo, a tutto il suo popolo. Da un

58 CCC, 2599, p. 683. 59 Ibidem, 583, p. 174. 60 Cfr. Sussidi, III,2: EV 9/1638. 61 Il testo inglese legge invece: “Jesus was and always remained a Jew” (INTERNATIONAL CATHOLIC-JEWISH

LIASON COMMITTEE, Fifteen Years of Dialoghe, 1970-1985. Selected Papers, L.E.V. Pontificia Università

Laterananse, Città del Vaticano 1988). Anche il testo francese legge: “Jésus était juif et l’est toujours resté”

(SIDIC, Service International de Documentation Judéo-Chrétienne, edizione francese e inglese, 1986 (XIX), n.

2, p. 15). Tedesco: “und ist es immer geblieben” (R. RENDTORFF-H. H. HENRIX, Die Kirken und das Judentum.

Dokumente von 1945 bis 1985, Bonifatius-Kaiser Verlag, Paderborn-München 19892).

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ebreo, in cui vede realizzar il progetto di Dio, riceve in permanenza la sua stessa vita. E dunque

nella medesima persona del Risorto che la Chiesa incontra il giudaismo»62.

Gesù è quindi pienamente un ebreo palestinese del I secolo, nato “dalla stirpe di

Davide secondo la carne” (Rm 1,3). Egli è veramente “nato da donna” (Gal 4,4); egli è

veramente “nato sotto la legge” (Gal 4,4). Queste affermazioni di Paolo ci mostrano come,

il fatto che Gesù sia nato all’interno del popolo ebraico, non può rimanere in secondo piano

anzi, è essenziale per la fede cristiana essendo l’unico modo perché Gesù entrasse nella

Storia.

«Paolo non dice solo che è nato da donna, e che cioè ha un corpo come tutti gli altri uomini ed

è stato partorito come qualsiasi altro uomo da una donna. Paolo non limita l’umanità di Gesù

al fatto fisico, ma la estende anche a quello etnico e culturale: Gesù è nato dalla stirpe di

Davide e perciò fa parte di un popolo specifico e di una cultura specifica, quella ebraica. Ma

Paolo estende l’umanità di Gesù anche al fatto religioso: Gesù è “nato sotto la Legge”. Gesù

ha condiviso la religione ebraica del suo tempo vivendo in essa, sotto la Legge. Gesù non si è

ribellato alla Legge, ma l’ha adempiuta»63.

Oggi c’è una grande sensibilità e attenzione per cogliere questo “radicamento” e questa

“ebraicità” di Gesù64, anche in un livello più tecnico, nella esegesi, nella storia della

interpretazione del Nuovo Testamento. Infatti, sono stati realizzati diversi studi che tentano

di sottolineare l’ebraicità di Gesù cercando la sua posizione all’interno del giudaismo del

suo tempo.

62 M. REMAUD, Commento ai Sussidi, in SIDIC (a cura di), “Parlare correttamente degli Ebrei e dell’Ebraismo.

Testo e commento dei Sussidi della Santa Sede del 1985 indirizzati ai predicatori e catechisti”, SIDIC, Roma

1986, pp. 16-22. 63 M. PESCE, Il cristianesimo e la sua radice ebraica. Con una raccolta di testi sul dialogo ebraico-cristiano,

EDB, Bologna 1994, p. 94. 64 «R. Bultmann, per esempio, nel suo Cristianesimo primitivo nel quadro delle religioni antiche, ha inserito

la figura di Gesù non nel cristianesimo, ma nel giudaismo» (G. JOSSA, Giudei o cristiani? I seguaci di Gesù in

cerca di una propria identità, Paideia, Brescia 2004, p. 33).

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«Samuel Sandmel […] ammetteva che Gesù poteva essere visto come un maestro ebraico, un

ribelle all’autorità di Roma, un profeta, un pensatore apocalittico e un riformatore sociale […]

David Daube vide Gesù come totalmente ebreo ed affermò che il vero punto di conflitto tra la

chiesa e la Sinagoga fu l’identità messianica di Gesù, non la sua ebraicità. L’ebraicità di Gesù

è oggi particolarmente sottolineata da David Flusser il quale asserisce che Gesù e i suoi

discepoli furono più vicini al giudaismo farisaico che a quello qumramico […] Geza Vermes

ritiene che Gesù fu un hasid della Galilea […] sulla base delle testimonianze offerte dai primi

tre vangeli, Vermes ritiene che Gesù fosse un maestro carismatico, guaritore ed esorcista»65.

Notiamo inoltre come Gesù usi spesso una tipica forma di ragionamento rabbinico

(cfr. Mt 5,21-22.27-28.31-48; Lc 6,27-35) mostrando come condivida alcune dottrine

farisaiche di quel tempo.

«Gesù condivide con la maggioranza degli ebrei palestinesi di quel tempo alcune dottrine

farisaiche: la risurrezione dei corpi; le forme di pietà: elemosina, preghiera, digiuno (cfr. Mt

6,1-18), e l’abitudine liturgica di rivolgersi a Dio come Padre; la priorità del comandamento

dell’amore di Dio e del prossimo (cfr. Mc 12,28-34). Lo stesso si può dire di Paolo (cfr. per

es., At 23,8), il quale ha sempre considerato come un titolo d’onore la sua appartenenza al

gruppo farisaico (cfr. At 23,6; 26,5; Fil 3,5)»66.

L’incarnazione di Gesù all’interno del popolo ebraico è, come abbiamo detto prima,

fondamentale per il compimento della Storia della Salvezza: Egli si doveva necessariamente

incarnare in questa cultura per redimere gli uomini.

«L’ebraicità di Gesù […] sottolinea anche “il significato stesso della storia della salvezza”. Se

Gesù non avesse condiviso totalmente l’umanità degli uomini che era stato mandato a salvare

non si sarebbe potuta verificare la salvezza. Gesù “è nato sotto la Legge per riscattare coloro

che erano sotto la Legge”. E ciò che dice anche la Lettera agli Ebrei: Gesù doveva essere

“partecipe” della carne e del sangue degli uomini per poter “ridurre all’impotenza mediante la

morte colui che della morte ha il potere” (Eb 2,14); “egli infatti non si prende cura degli angeli,

65 H. G. PERELMUTER, Gesù l’ebreo: un punto di vista ebraico, “Amicizia Ebraico-Cristiana”, 1994 (XXIX),

n. 1-2, p. 32. 66 Sussidi, III,6: EV 9/1641.

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ma della stirpe di Abramo si prende cura» (2,16); egli “doveva rendersi in tutto simile ai

fratelli…, allo scopo di espiare i peccati del popolo” (2,17). Anche per la Lettera agli Ebrei

Gesù, per redimere gli ebrei deve essere un vero uomo ebreo. Ecco perché l’ebraicità di Gesù

sottolinea sia la realtà dell’incarnazione che il significato della storia della salvezza»67.

67 M. PESCE, Il cristianesimo e la sua radice ebraica…, op. cit., pp. 94-95.

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CAPITOLO II

LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NELLA PRASSI DELLA CHIESA

2.1 Epoca apostolica e patristica

I cristiani della prima comunità non vedono se stessi come una “religione” separata

dall’ebraismo ma sono e rimangono ebrei restando uniti ai loro connazionali, continuando a

prendere parte al culto nel tempio e nelle sinagoghe. Questo dimostra che i cristiani non

rinnegano la loro appartenenza al popolo eletto e confessano la fede nel Dio di Israele68.

Il contenuto della fede di questi primi cristiani è determinato dalle apparizioni di Cristo

risorto. Questa nuova fede non è una semplice aggiunta alle credenze e alle tradizioni

ebraiche, dalle quali in realtà non si separano, ma porta con sé una nuova comprensione della

tradizione dottrinale e morale ebraica. Essi non hanno una idea di Dio, della storia e del

mondo diversa da quella che è stata trasmessa loro, anzi, la concezione che hanno è proprio

quella ebraica. Questo si vede anche dalla relazione con l’apocalittica giudaica, l’attesa della

fine del mondo e la risurrezione dei corpi, del giudizio universale e del Regno di Dio (Dn

7,13-14; 12,2-3), il concetto della misericordia divina, del cielo, di Satana e, soprattutto, si

vede dalla definizione di Gesù con i titolo che Israele dava al salvatore: “messia”, “figlio

dell’uomo”.

«Coloro che si radunavano nella comunità sapevano di essere uniti nella confessione di fede.

Fu sempre una confessione di fede in Gesù di Nazaret che si dimostrò quindi fin dall’inizio, il

centro della chiesa. La confessione di fede si formò riprendendo nomi, titoli, predicati che già

circolavano nell’ambiente e che già erano stati attribuiti all’attesa figura del redentore degli

68 Cfr. H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo. I risultati della ricerca storica, Claudiana, Torino 1976,

p. 69.

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ultimi tempi. Poiché questi nomi avevano la loro culla nel giudaismo, la nuova comunità non

poteva essere sentita come un corpo estraneo»69.

La comunità primitiva palestinese, con il passare degli anni sviluppa una autocoscienza

sempre maggiore che non era contraddetta dato che, come abbiamo già accennato, i discepoli

rimanevano ancora legati alla legge e al tempio (cfr. At 2,46; 3,1ss, 21,26). Essa, infatti, fino

al momento in cui si incontrerà con le comunità etnico-cristiane, si attenne strettamente alla

legge mosaica. Tuttavia, con la legge e con il tempio, si è comportata in un modo nuovo che

si differenziava da tutti gli altri giudei; nei suoi primi anni, infatti, la comunità palestinese si

proietta verso il nuovo, verso l’originalità del messaggio cristiano, attraverso l’annuncio

della morte e della risurrezione. Tuttavia la questione del rapporto con la legge non era

completamente risolta70.

La comunità primitiva, dato che si trova all’interno dell’ambiente giudaico, non ha

bisogno di confessare che c’è un unico Dio, quello che confessano è l’azione di questo Dio

ora, cioè, che Egli ha risuscitato Gesù dai morti. Solo quando il cristianesimo comincerà a

espandersi anche nell’ambiente ellenistico sarà necessario premettere l’unicità di Dio.

«Tuttavia, le forme e il contenuto della confessione di fede rivelano anche uno sviluppo: finché

la missione si rivolgeva soltanto agli ebrei, i cristiani non avevano bisogno di confessare

espressamente la loro fede monoteistica: questa non era argomento di discussione, anzi

costituiva la premessa ovvia: i cristiani sono giudei quindi, per definizione, sono monoteisti.

Ciò che confessano, invece, è che Dio ha fatto qualcosa di nuovo: ha mandato Gesù perché sia

il messia promesso. Di fronte ai pagani, però, occorre anche esplicitare le premesse: che c’è

un solo Dio, e perciò c’è anche un solo Signore (I Corinzi 8:6)»71.

69 J. GNILKA, I primi cristiani. Origini e inizio della chiesa, Paideia, Brescia 2000, pp. 273-274. 70 Cfr. L. GOPPELT, L’età apostolica e subapostolica, Paideia, Brescia 1986, pp. 45-49. 71 H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo, op. cit., p. 98.

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Nel Nuovo Testamento vediamo come questa confessione di fede viene riassunta in

frasi brevi, facili da ricordare. Principalmente ne troviamo due tipi: il primo si esprime

intorno alla figura di Gesù, come “Gesù è il messia” (Mc 8,29 sulle labbra di Pietro). Il

secondo riguarda le affermazioni che esprimono l’opera di salvezza “Dio ha risuscitato Gesù

dai morti” (Rm 10,9; cfr. 1Co 15,3-5). Questi due tipi possono venire uniti (cfr. Rm 1,3-4)72.

Da queste due confessioni sorgeranno ulteriori modifiche nate da riflessioni posteriori

perché le definizioni di fede sono in relazione con l’ambiente circostante: è l’avvenimento

di salvezza (un fatto in un luogo concreto, un’epoca, un ambiente) proclamato nella

confessione di fede.

L’insegnamento degli apostoli (cfr. At 2, 42) era anzitutto l’insegnamento della

dottrina, non un contenuto dottrinale: si tratta di ciò che hanno trasmesso coloro che fin dal

principio sono stati testimoni oculari e ministri della parola.

Deve anche essere visto all’interno del contesto di quello che era l’insegnamento nel

mondo giudaico in cui la comunità viveva. Nel mondo giudaico l’insegnamento veniva fatto

dagli scribi i quali erano segnati da una impostazione di stampo farisaico. L’insegnamento

degli scribi consisteva nell’applicazione autoritaria alla vita della Scrittura, e in particolar

modo della legge. L’insegnamento dello scriba avveniva sotto forma orale e si svolgeva

all’interno del culto sinagogale. Inoltre ogni padre di famiglia, come abbiamo affermato nel

capitolo precedente, era chiamato a trasmettere la fede ai propri figli (cfr. Dt 6,6-7). Per i

primi cristiani, la trasmissione della fede ai figli, attraverso le scritture compiute in Gesù

Cristo, era una missione fondamentale. Ne conosciamo la testimonianza nella seconda lettera

di San Paolo a Timoteo.

72 Cfr. H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo, op. cit., p. 64.

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«Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai

appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la

salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù» (2Tm 3,14-15).

Questa tradizione, come vedremo in questo capitolo, è stata mantenuta in diverse

forme nelle famiglie cristiane lungo i secoli.

Il contesto della prima comunità, data la sua radice ebraica, era adeguato per suscitare

la domanda del figlio, ma anche di chiunque si incontrava con i primi cristiani. Sia il padre,

sia la comunità dovevano essere capaci di saper rispondere. Nascerà così la catechesi come

risposta alle domande su cui la comunità viene interpellata. Sarà la famiglia che in ogni modo

resterà il luogo naturalmente privilegiato di catechesi, in cui i genitori, vivono la

responsabilità di rispondere alle prime domande dei figli.

«Cristo ha voluto nascere e crescere in seno alla Santa Famiglia di Giuseppe e di Maria. La

Chiesa non è altro che la “famiglia di Dio”. Fin dalle sue origini, il nucleo della Chiesa era

spesso costituito da coloro che, insieme con tutta la loro famiglia, erano divenuti credenti [cfr.

At 18,8 ]. Allorché si convertivano, desideravano che anche “tutta la loro famiglia” fosse

salvata [cfr. At 16,31; 11,14]. Queste famiglie divenute credenti erano piccole isole di vita

cristiana in un mondo incredulo»73.

Pur ammettendo che vi sono analogie tra l’insegnamento degli apostoli e quello degli

scribi nel modo di trasmettere i propri messaggi, senza dubbio dobbiamo riconoscere che le

differenze sono notevoli. Gli apostoli avevano una propria dottrina che spesso entra in

contrapposizione con quella degli scribi. Inoltre l’autorità degli apostoli proveniva dal fatto

che li aveva istituiti Gesù come tali e che erano stati suoi testimoni oculari. Per questo, agli

occhi di coloro che li ascoltavano, rappresentavano Gesù. Essi, come Gesù, spiegano e

ammaestrano (cfr. Mt 5,2; Mc 8,31) con la grazia dello Spirito Santo e l’autorità della

73 CCC 1655, p. 464.

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Scrittura e, in ogni situazione, sono chiamati a discernere quale sia la volontà di Dio. Il

contenuto del loro insegnamento non è più centrato sulla tradizione della legge: loro tema

principale è il kerigma pasquale, kerigma che costituisce il principio e il fondamento della

loro dottrina.

«Da questo suo fondamento si può dedurre il contenuto dell’insegnamento. Per un verso esso

forma il kerigma pasquale a partire dall’opera terrena di Gesù. Come dall’annuncio ed

insegnamento missionario deriva la tradizione sinottica che porta al vangelo di Marco, così da

quello interno alla comunità risulta la tradizione che sfocia nella «fonte dei discorsi» (Q) e nel

vangelo di Matteo. Per un altro verso, il kerigma pasquale che aveva come contenuto l’opera

terrena di Gesù viene sviluppato, attraverso l’insegnamento, in affermazioni cristologiche e

soteriologiche, in norme etiche ecc., come vediamo più tardi in modo particolarmente

imponente in 1Cor o Eb. Anche da questa dottrina si sviluppa, come vedremo, una

tradizione»74.

Questa convinzione della fede cristiana però, porterà a una rottura con l’ebraismo. La

questione che produsse questa divisione non fu il fatto che i cristiani seguivano uno che si

era dichiarato il messia ma che quest’uomo era stato condannato a morte a causa

dell’incitamento dei dirigenti ebrei. Il conflitto scoppia anche sulla Legge dato che a un certo

punto i cristiani arrivarono alla conclusione che per la loro fede essi erano ormai liberi dalla

Legge75.

La comunità primitiva, che come si è visto, presenta delle analogie riguardo l’aspetto

formale dell’insegnamento, seguiva, nella sua pratica, il costume giudaico. L’insegnamento

infatti, fin dall’inizio, era affidato anche al padre di famiglia il quale istruiva la propria prole

durante il pasto sacro. Tuttavia non è possibile stabilire con certezza se, all’interno della

prassi della primitiva comunità cristiana, si siano sviluppate delle forme di insegnamento

74 L. GOPPELT, L’età apostolica e subaposolica, op. cit., pp. 63. 75 Cfr. H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo, op. cit., pp. 66-67.

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analoghe a quella dell’ammaestramento dei giovani presso gli esseni o alla formazione

pedagogica degli scribi (Mt 23,8ss). Le redazioni dei Vangeli sinottici e di Giovanni lasciano

presuppone l’esistenza di un tipo di scuole di questo genere; che ebbe come effetto il

costituirsi della tradizione dei Vangeli e che improntò l’atteggiamento delle prime comunità

cristiane76.

Col passare del tempo si va formando una solida tradizione che la comunità tramanda

alle generazioni successive. Il termine tradizione è stato utilizzato dalla comunità primitiva

in un modo molto simile a quello del popolo giudaico, sia pur discostandosene dandogli

nuovi contenuti.

Dagli studi fatti, è emerso che i testi del Nuovo Testamento sono preceduti da una

tradizione orale. Già la scuola della storia delle forme, studiando questo elemento, aveva

affermato che, non soltanto i Vangeli, ma tutti i testi del Nuovo Testamento esprimevano la

fede di una comunità viva e tutto questo poteva essere sintetizzato in una parola: la

«Tradizione».

«La tradizione di Gesù in un primo tempo viene tramandata oralmente; presto però è anche

messa per scritto. Le più antiche raccolte sono state completamente soppiantate dai Vangeli.

Il più antico è quello che la tradizione attribuisce a Marco […] Gli autori dei Vangeli di Matteo

e di Luca non si limitano a completare Marco, ma lo riplasmano anche energicamente […]

L’autore del Vangelo di Giovanni fa un uso particolarmente libero della tradizione. In

conclusione: la forma e il tenore della tradizione non sono sacri»77.

La comunità primitiva intende per tradizione la vita di una comunità caratterizzata da

una propria fede. Tutto il materiale che aveva ricevuto dagli Apostoli lo ha riletto e

interpretato alla luce di quella fede che andava sempre più maturando. Solo alla fine è

76 Cfr. L. GOPPELT, L’età apostolica e subaposolica, op. cit., pp. 61-63 77 H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo, op. cit., p. 206.

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arrivata alla fase della redazione, fase che è avvenuta in modo analogo a quella che ha portato

alla stesura dei testi dell’Antico Testamento.

Sappiamo, dagli studi fatti, che gli apostoli, oltre a trasmettere gli insegnamenti di

Gesù, ne hanno trasmesso anche la vita. Inoltre la comunità primitiva, alla luce del mistero

pasquale e del dono dello Spirito Santo, possiede una comprensione maggiore dei fatti

espressi nella rivelazione. La testimonianza apostolica che viene accolta dalla comunità, si

attualizza nel momento in cui viene annunciata sotto l’azione dello Spirito Santo.

In ultima analisi, si può dire che all’interno della comunità primitiva si viene a formare

un deposito di fede cui la Chiesa post-apostolica deve rimanere fedele (cfr. 1 Tm 6,20). Tutto

questo processo vissuto dalla comunità primitiva è sintetizzato nel concetto di

«tradizione»78.

E’ lo stesso Paolo, definito il teologo della tradizione, che esorta la comunità a

trasmettere ciò che ha ricevuto, invitando alla fedeltà e all’obbedienza agli insegnamenti

ricevuti (cfr. 2 Ts 2,15; 3,6; Fil 4,9; Col 2,6-7). La comunità primitiva dimostra, per mezzo

del suo atteggiamento, questa fedeltà a Gesù affermandone la signoria e la messianicità (cfr.

At 2,36).

In definitiva, la comunità primitiva è depositaria di ciò che gli apostoli avevano

annunciato; ad essa spetta di custodire il deposito della fede e tramandarlo alle generazioni

successive. Questo deposito, già alla fine del primo secolo, assume dei lineamenti stabili; in

altre parole esso non è più soggetto a mutamenti. E’ il fondamento su cui la Chiesa è

chiamata a costruire il suo edificio spirituale (cfr. 1 Cor 3,10-11).

Nonostante la redazione dei Vangeli, la trasmissione orale dei detti di Gesù continua

ad essere tramandata anche lungo il II secolo, negli scritti dei padri apostolici, forse anche

78 Cfr. Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni, Paoline, Roma 1961, pp. 21-23.

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in Giustino, che conosce e fa uso dei Vangeli, e in Papia vescovo di Gerapoli che manifesta

che per lui la tradizione orale vale più dei libri79.

Già nel secolo apostolico si era già cominciata a organizzare la catechesi come

istruzione per far vivere ciò che si annunzia (cfr. Gal 6,6), erano gli stessi apostoli che,

attraverso una prima forma di iniziazione cristiana, preparavano i candidati al battesimo. In

seguito si è sviluppata la prassi del catecumenato che, secondo le testimonianze che abbiamo,

nel III secolo era già ben organizzato80 e ha avuto il suo massimo splendore nel IV secolo,

chiamato il secolo d’oro della catechesi perché è di questo periodo che ci sono rimaste opere

di grande importanza per la catechesi: la catechesi di san Cirillo di Gerusalemme, le omelie

catechetiche di Teodoro di Mopsuestia. Le catechesi battesimali di San Giovanni

Crisostomo, i trattati sui sacramenti e sui misteri di Sant’Ambrogio di Milano, il discorso

catechetico di San Gregorio di Nissa, il De catechizandis rudibus di Sant’Agostino, ecc.81.

Si svilupperanno lungo i decenni diversi modelli di iniziazione cristiana, all’inizio il

catecumenato per gli adulti e, successivamente, anche un’educazione religiosa per i bambini

che avveniva in diverse forme.

«In contesti culturali e religiosi differenti, con diverse esperienze di vita e organizzazioni

sociali, sono sorte varie forme di introduzione alla vita cristiana sia degli adulti sia dei figli

ancora minorenni. Per questi ultimi, secondo le limitate testimonianze dei Padri, si possono

identificare alcune forme fondamentali

Una prima forma di iniziazione prevedeva un’educazione religiosa, soprattutto familiare,

nell’infanzia e fino alla preadolescenza, rinviando la decisione per il Battesimo all’età più

matura. Divenuto adulto o avendo raggiunto una sufficiente capacità di scelta responsabile,

79 Cfr. H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo, op. cit., p. 206. 80 Abbiamo conservato gli scritti di alcuni padri come Clemente Alessandrino, Origene o Tertuliano che ci

testimoniano come questa prassi era già consolidata nel III secolo. 81 Cfr. T. VALDMAN, La catechesi apostolica e patristica, in AA.VV., Ecumenismo e Catechesi…, op. cit., p.

382-383.

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chi decideva di accedere al Battesimo doveva iscriversi al catecumenato e percorrere il

cammino formativo previsto […]

Un’altra forma di iniziazione cristiana prevedeva l’ammissione dei bambini di genitori

cristiani ai sacramenti dell’iniziazione, a cui seguiva una educazione religiosa a carico

soprattutto della famiglia. Il Battesimo degli infanti, presente con ogni probabilità già nella

Chiesa delle prime generazioni, è una pratica diffusa nel III secolo ed espressamente attestata

a Roma, ad Alessandria, a Cartagine. Secondo la Tradizione apostolica, al termine della

solenne Veglia battesimale, prima degli adulti venivano battezzati i bambini, alcuni capaci di

rispondere e altri ancora infanti, per i quali rispondevano i genitori o qualcuno della famiglia

[cfr. IPPOLITO ROMANO, Tradizione apostolica, 21]»82.

Non abbiamo molte testimonianze che ci diano informazione sull’educazione dei

bambini nei primi secoli del cristianesimo, grazie ai Padri del III-IV secolo possiamo vedere

l’importanza che i figli avevano all’interno della comunità e, particolarmente, all’interno

della famiglia e la necessità di trasmettere loro sin dalla più tenera età gli insegnamenti degli

apostoli.

«Ordinariamente nei primi secoli non sembra che la Chiesa abbia rivolto una specifica e diretta

attenzione all’educazione dei fanciulli. I bambini dei genitori cristiani, eccetto quelli in

pericolo di morte, quando venivano battezzati in tenera età erano associati alla fase conclusiva

dell’iniziazione degli adulti, che culminava nella celebrazione unitaria di Battesimo,

Confermazione ed Eucaristia durante la Veglia pasquale nella chiesa madre, sotto la

presidenza del vescovo.

I genitori cristiani erano gli unici educatori della fede dei loro figli. Nel loro compito educativo

potevano contare sul sostegno e sull’incoraggiamento dei pastori. Questi esortavano a educare

i figli nel timore di Dio e ad ammonirli nel Signore, a raccomandare loro di servire Dio nella

verità e di fare ciò che a lui piace, a formarli a operare la giustizia, fare elemosine, pregare

Dio, e, all’occorrenza, a frenarli con utili rimproveri [cfr. CLEMENTE ROMANO, Lettera ai

Corinzi, 21]. Non mancano Padri della Chiesa, come Girolamo, Origene, Basilio e Agostino,

che invitano con insistenza alla lettura della Sacra Scrittura in famiglia. Particolarmente

suggestiva è l’immagine scelta da Giovanni Crisostomo nel rivolgersi ai genitori cristiani:

82 C.E.I., L’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, 11: ECEI 6/2056-2057.

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“Tornati a casa, prepariamo due tavole: una per il cibo del corpo, l’altra per il cibo della Sacra

Scrittura” [GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla Genesi, 2, 4]. I genitori con la cura dei figli

non solo assolvono a una funzione educativa cristiana, ma svolgono anche un’azione di

intermediari nella loro santificazione [cfr. GELASIO, Lettera 97, 58-59]»83.

E’ proprio nel IV secolo che troviamo la lettera che San Girolamo scrive a Leta84.

Questa lettera è un piccolo trattatello pedagogico per l’educazione della figlia Paola, è la

prima testimonianza che abbiamo di come i genitori dovrebbero trasmettere la fede ai loro

figli, nonostante l’intenzione di questa lettera sia di aiutare Leta a indirizzare sua figlia verso

una vita contemplativa.

Il primo principio dell’educazione, dice Girolamo, è questo: «Bisogna educarla con

l’unico fine di farne un tempio di Dio»85. Girolamo evidenzia che nell’educazione di Paola

il ruolo dei genitori si rivela fondamentale essendo loro la sua guida.

«Non appena sia grandicella, ed avrà cominciato – sul modello del suo Sposo – a crescere in

sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini [cfr. Lc 2,39], vada con i suoi genitori al

tempio del vero Padre, ma non ritorni fuori del tempio assieme a loro. Se la cerchino lungo le

strade del mondo, tra la folla e lo sciame dei parenti, e non la trovino mai in nessun’altra parte

che non sia l’intimo santuario della Scrittura, mentre sta interrogando i Profeti e gli Apostoli

sulle sue nozze spirituali [cfr. Lc 2,41ss]»86.

I genitori, secondo Girolamo, devono essere anche i modelli che la figlia dovrà imitare.

83 C.E.I., L’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, 12: ECEI 6/2058-2059. 84 «Figlia del pontefice romano Albino, Leta si era unita in matrimonio con Tossozio, figlio di Paola. Dopo una

serie di parti infelici ebbe la gioia di avere una figlia, che chiamò Paola in omaggio alla nonna e che consacrò

a Dio per ringraziarlo della maternità che le aveva accordato. Ma come educarla nella prima infanzia? Leta è

piena d’ammirazione per la verginità illibata di Eustochio, figlia spirituale di Girolamo. Chi, meglio di questi,

potrà darle utili norme pedagogiche? Scrive pertanto al monaco di Betlemme. Che le risponde con un autentico

trattatello, un piccolo gioiello di pedagogia pratica (Lett. CVII)» (SAN GIROLAMO, Lettere, CVII, a cura di S.

COLA, Città Nuova, Roma 1997, vol. III, pp. 51-52). 85 SAN GIROLAMO, Epistola, CVII,4: PL XXII, coll. 871. Per S. Girolamo utilizzerò la traduzione di S. COLA. 86 Ibidem, 7: PL XXII, coll. 874.

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«Né in te né in suo padre deve mai vedere atteggiamenti che la portino al peccato nel caso che

vi imiti. Ricordatevi che siete i genitori di una vergine, e che l’educazione potete dargliela più

con l’esempio che con le parole»87.

In questi primi secoli di cristianesimo troviamo diverse persecuzioni (del II secolo fino

agli inizi del IV secolo), controversie teologiche, scismi (per buona parte del IV secolo) che

però portarono ad una unità della fede, fondamentale per la coesione dell’impero, e allo

sviluppo di quello che oggi chiamiamo la cristianità antica, che diede origine a delle

tradizioni frutto di un ripensamento e di una rielaborazione della cultura romana poi

tramandata nel futuro.

«Durante questa evoluzione di quasi due secoli si sviluppò, nel senso più ampio del termine,

la cultura cristiana della tarda Antichità. Prendendo a prestito la retorica, la filosofia e l’arte,

come anche alcune tradizioni e valori della civiltà antica, il cristianesimo vi immise una nuova

vitalità, trasformò la cultura romana e ne trasmise l’eredità ai secoli successivi»88.

Conservando le proprie tradizioni, la Chiesa riuscì a mettere insieme il rispetto della

tradizione – la trasmissione fedele della rivelazione di generazione in generazione a partire

dagli apostoli – e il bisogno dell’indispensabile adattamento al mondo nel quale aveva la

responsabilità di far conoscere la fede: adattamento alla cultura delle popolazioni, ma anche

adattamento allo sviluppo della loro politica89.

Il fatto che il cristianesimo era capace di adattarsi alle diverse culture e lo stesso

comando del Signore di annunciare il Vangelo in tutto il mondo fece si che in breve tempo

il cristianesimo cominciasse ad estendersi, grazie ai missionari cristiani, al di là delle

87 SAN GIROLAMO, Epistola, CVII, 9: PL XXII, coll. 875. 88 L. PIETRI - C. PIETRI (a cura di), La nascita di una nuova cristianità (250-430), (Storia del cristianesimo:

Religione - Politica – Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 2000, vol. II, pp.

884-885. 89 Cfr. Ibidem, pp. 884-885.

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frontiere dell’Impero romano che nel V secolo stava già tramontando il Occidente e

“bizantinizzandosi” in Oriente, non impedendo però l’espansione del cristianesimo90.

2.2 Dal medioevo fino al periodo della Riforma

Nel VI secolo, inizio di quello che possiamo chiamare il primo medioevo (secoli VI-

XII), vediamo come il catecumenato è già decaduto e la catechesi ai cristiani, giovani e

adulti, viene impartita soltanto con la predicazione liturgica, mentre l’educazione cristiana

dei bambini viene affidata esclusivamente alla famiglia. I genitori hanno il dovere di far loro

imparare a memoria come minimo il Simbolo e il Padre Nostro. In compenso, il

cristianesimo si inserisce sempre di più nel contesto pubblico, il messaggio cristiano si

incultura favorendo il processo di educazione cristiana che nell’epoca patristica si impartiva

nel periodo del catecumenato91.

In questo periodo in cui i fedeli perdono il contatto con la Bibbia e la liturgia in latino

diventa sempre più incomprensibile per loro, diventa fondamentale l’educazione che i figli

ricevono nelle loro famiglie, che viene appoggiata dalla predicazione dei presbiteri.

«Questa predicazione si distacca progressivamente dalla Bibbia, perde la prospettiva storico-

salvifica e cristocentrica, propria dell’epoca patristica, e assume un tono moraleggiante.

Subentra spesso la preoccupazione di chiarire le verità di fede e di insegnare le regole della

buona condotta morale. Ciò è dovuto anche al bisogno di normalizzare la vita dei popoli

convertiti da poco alla fede cristiana e di educarli a diventare insieme buoni cristiani e buoni

cittadini. Una preoccupazione tipica non solo dell’epoca carolingia, ma di tutto il periodo

medievale. Dominano i temi del peccato, della fuga dal male, della pratica delle buone opere,

della vita eterna»92.

90 Cfr. L. PIETRI - C. PIETRI (a cura di), La nascita di una nuova cristianità (250-430), op. cit., p. 885. 91 Cfr. A. ETCHEGARAY CRUZ, Storia della catechesi, Paoline, Roma 1967, p. 181. 92 L. SORAVITO, La catechesi tra annuncio e teologia. Il contributo teologico del Medio Evo, in AA.VV.,

Ecumenismo e Catechesi…, op. cit., pp. 396-397.

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Questi fatti avranno come conseguenza l’imposizione da parte della legislazione

canonica dell’uso della lingua del popolo nella catechesi fin dal secolo VIII93.

Nei secoli XII-XIII che costituiscono quello che possiamo chiamare il vero e proprio

medioevo, c’è una generale fioritura religiosa e culturale grazie alla quale si sviluppa anche

una riflessione teologica nuova ed originale: la teologia scolastica94.

«Questa elabora una interpretazione filosofico-teologica unitaria del Cristianesimo, in cui

ragione e rivelazione si legano armonicamente insieme. Essa analizza ed approfondisce i

dogmi delle fede cristiana con un severo procedimento logico, li difende da tutte le possibili

obiezioni e li raccoglie in costruzioni dottrinali unitarie: le Somme teologiche»95.

Il pensiero teologico non rimane chiuso tra gli esperti ma, con la nascita degli ordini

religiosi e, soprattutto degli ordini mendicanti, prende una grande forza la predicazione che

diventa la forma principale di catechesi e uno dei principali strumenti per la formazione

cristiana. Accanto alla predicazione si sviluppa anche una forma di catechesi che avviene

mediante l’illustrazione dei cicli pittorici, che riempiono le pareti delle chiese (“bibbia

pauperum”)96.

Per coloro che non hanno la possibilità di assistere alla catechesi a motivo dell’età, del

sesso, del tipo di occupazione, del domicilio, della durezza dei tempi, la formazione cristiana

si rende possibile fondamentalmente nelle comunità naturali, a cominciare dalla famiglia.

Nel battesimo dei bambini, a pochi giorni dalla nascita, viene conferito un nome di un santo

93 Cfr. J. LONGERE, La prédication médiévale, Etudes Augustiniennes, Paris 1983, pp. 35-54. 94 Cfr. L. SORAVITO, La catechesi tra annuncio e teologia. Il contributo teologico del Medio Evo, op. cit., p.

401. 95 Ibidem, pp. 401-402. 96 Questi cicli pittorici, di solito, avevano come tema centrale la vita di Cristo e, come scene collaterali, i fatti

dell’Antico Testamento che prefiguravano la vita di Gesù. Ogni immagine presentava spesso una breve

didascalia. Già Gregorio Magno aveva sottolineato il grande valore pedagogico di questo metodo catechistico

(cfr. L. CSONKA, Storia della catechesi, (Educare, a cura di BRAIDO P.), Pas-Verlag, Zürich 1964, vol. III, p.

101.

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e/o un parente che, secondo la tradizione, segnerà il suo destino97. E’ fondamentale anche la

figura del padrino o la madrina come un aiuto ai genitori per la trasmissione della fede ai

loro figli, come un ampliamento della parentela spirituale98.

«I genitori erano coadiuvati nella loro missione educativa dai padrini, chiamati anch’essi a

“istruire i bambini” [SINODO DI ARLES (813), can. 10 e 19]. Il loro impegno viene connesso al

Battesimo. Si ricorda che “genitori e padrini devono educare i bambini nella fede religiosa

cattolica, perché quelli li hanno generati e Dio li ha dati a loro, questi perché divennero garanti”

[CONCILIO DI AIX LE CHAPELLE (813), can. 18.]»99.

I genitori insegnano al bambino le preghiere fondamentali, i comandamenti e, man

mano che va crescendo comincia partecipare alle diverse celebrazioni insieme ai suoi

genitori, a recitare le preghiere insieme al padre.

«In questo ambiente, sotto la guida dei genitori e dei vicini, il bambino impara il Pater e l’Ave,

come sanno recitare i bambini dice un contemporaneo di Giovanna d’Arco. Si inculcano loro

anche i comandamenti di Dio alla loro portata: amare Dio, pensare agli altri. Più cresciuto, il

bambino può ascoltare nelle vigilie (negli ambienti che ne sono forniti) la lettura di testi

edificanti fatta da un adulto (vangelo, vita dei santi...) e trarre profitto dalle conversazioni e

istruzioni che eventualmente la seguono. Vi Partecipa anche alle preghiere che il padre, se

membro di una confraternita, deve recitare nell’arco della giornata (al mattino, ai pasti, prima

del riposo). E sin da piccoli si viene portati a condividere l’inquietudine, le preghiere,

l’angoscia, la speranza legate alle agonie, ai sacramenti, ai funerali, a tutte le tappe

sconvolgenti e misteriose legate ai decessi. Il bambino comprende presto che Dio, la Madonna

e i santi sono i maestri, assieme ai genitori, della sua vita. Ma anche il diavolo e le streghe vi

hanno la loro parte; e il bambino impara presto le pratiche e le formule atte a costruire uno

schermo contro le forze diaboliche e magiche o a canalizzarle»100.

97 Sulla scelta del nome per il bambino vedere specialmente CH. KLAPISCH-ZUBER, Le “Nom refait”, la

transmission des prénoms à Florence (XlV siècles), “L’Homme”, 1980 (XX), pp. 77-104. 98 IDEM, Parrains et filleuls. Une approche comparée de la France, l’Angleterre et l’Italie méridionale,

“Medieval Prosopography”, 1985 (VI), pp. 55-77. 99 C.E.I., L’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, 14: ECEI 6/2063. 100 M. MOLLAT DU JOURDIN – A. VAUCHEZ (a cura di), Un tempo di prove (1274-1449), (Storia del

cristianesimo: Religione - Politica – Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 1998,

vol. VI, pp. 367-369.

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Mentre cresce il bambino si inserisce nelle diverse esperienze cristiane e, aiutato

dall’ambiente che lo circonda, va prendendo coscienza del suo essere cristiano, delle sue

responsabilità come tale e rendendo più forte il suo senso delle cose sacre e del culto.

«Altre esperienze cristiane completano quella della famiglia e i bambini vi vengono presto

inseriti. Uscendo di casa, si incontrano croci, chiese, monasteri, cappelle, che costellano le

campagne e le città, la cui voce bronzea va ripetendo possente, secondo le ore, il messaggio

cristiano familiare sino ai campi e ai prati più remoti. Uscire è entrare in terra cristiana.

Frequentando i santuari, soprattutto se affollati, il bambino rafforza notevolmente il suo senso

del sacro: vi scopre gli oggetti di culto, osserva la venerazione di cui li circondano i fedeli,

particolarmente se si tratta di oggetti legati al culto eucaristico (l’altare, il calice, il

tabernacolo)»101.

Questo ambiente culturale, ispirato più che mai da una visione cristiana della vita,

supplisce, come abbiamo evidenziato, le deficienze e i limiti di una catechesi nella quale

diventa sempre più preponderante la morale sui diversi elementi del messaggio. Scrive J. A.

Jungmann:

«Il pensiero religioso si nutriva non tanto di formule concettuali, quanto di istruzioni

solide…Dimostrano quanto l’anima popolare fosse profondamente compenetrata delle verità

di fede, i cosiddetti ‘misteri’ (le sacre rappresentazioni), che dal secolo X in poi andarono

sviluppandosi, cominciando dalla festa del Natale e delle solennità della settimana santa e

arrivando ad abbracciare tutta la storia sacra. L’’imperatore saliva sul trono con una cerimonia

religiosa; le corporazioni avevano i loro patroni e le loro feste particolari; quasi tutti gli

ospedali erano dedicati allo Spirito Santo, le farmacie hanno ancor oggi nomi religiosi. In

questo modo tutta la vita era immersa in un ambiente saturo di spirito cristiano»102.

101 Ibidem, p. 369. 102 J. A. JUNGMANN, Catechetica, Paoline, Roma 1956, pp. 27-28.

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Già nel declino del medioevo, verso i secoli XIV e XV, si sviluppa un anticlericalismo

che prende di mira i capi ma senza rifiutare il loro insegnamento della fede. Questo

anticlericalismo avrà come frutto alla fine del medioevo nuove sfumature delle pratiche e

delle devozioni popolari (come in qualsiasi altra epoca) che risponderanno alle aspirazioni

delle generazioni successive.

La crescente laicizzazione della società, la povertà della riflessione teologica, il

moralismo ed il soggettivismo dominante nei secoli XIV e XV, determinano la decadenza

sia della catechesi, che si articola secondo lo schema classico del medioevo103 ma dando

un’enfasi ancora più rilevante ai problemi morali, sia della vita cristiana. Ci troviamo ormai,

non solo per il moralismo, ma anche per l’assenza dell’elemento biblico e la progressiva

scissione tra catechesi e liturgia, agli antipodi della catechesi patristica104.

Tuttavia alla fine del XV si registrano due fatti significativi: la nascita delle scuole

della dottrina cristiana, nate grazie all’interesse per gli studi classici e a un inatteso interesse

per il mondo giovanile, e la compilazione dei primi catechismi per fanciulli e giovani105.

2.3 Dal periodo della Riforma al Concilio Vaticano II

Si sviluppa quindi in questi secoli l’esigenza di una riforma della Chiesa che si farà

sempre più pressante negli ultimi anni del secolo XV e nei primi del XVI e che sboccherà

nella Riforma. Per il cattolico Fiorimond de Raemond, che scrive alla fine del secolo XVI,

si tratta di una catastrofe che ha colpito il mondo intero. Riporto qui un testo di questo autore

103 Il contenuto catechistico che si trasmette nella predicazione era distribuito in base allo schema seguente:

Credo (quid credendum), Pater (quid petendum), Comandamenti (quid faciendum), Novissimi (quid

sperandum) (cfr. L. CSONKA, Storia della catechesi, op. cit., p. 97). 104 Cfr. L. SORAVITO, La catechesi tra annuncio e teologia. Il contributo teologico del Medio Evo, op. cit., pp.

412-413. 105 Cfr. A. ETCHEGARAY CRUZ, Storia della catechesi, op. cit., p. 212.

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che ci mostra la sua concezione del cristianesimo e anche la consapevolezza di avere una

fede che veniva trasmessa e vissuta in famiglia:

«Tutta la terra universale stava in pace per le religioni, ciascuno nel suo distretto viveva in

pace nella fede dei suoi padri [...] quando, all’inizio del secolo decimosesto [...] E [...] tutto si

disunì e si divise in scismi ed eresie che coprirono tutte le contrade del mondo di miserie e di

desolazioni»106.

Aldilà dei contributi dati in relazione all’educazione e che poi vedremo, possiamo

notare come la Riforma accelererà il processo di secolarizzazione svolgendo un ruolo

fondamentale. Lutero “secolarizza” il matrimonio e la famiglia rompendo l'unità

dell'esperienza umana in Regno di Cristo e Regno del mondo, e poi spostando in questo

secondo l’esperienza del matrimonio, istituto che egli ritiene appartenere all'ordine

terreno107.

Come nota l’antropologo Dieter Lenzen: «Si può affermare che la dottrina di Lutero

sul matrimonio aprì la porta alla successiva statalizzazione della paternità»108. E quindi toglie

alla figura del padre quel riflesso di figura del Padre divino, che le conferiva enormi

responsabilità, sconvolto appunto dalla secolarizzazione.

Conseguenza di quest'affermazione è che il divorzio da allora non riguarda più la

Chiesa, bensì lo Stato. Infatti, dice il riformatore:

106 F. DE RAEMOND, L’Histoire de la naissance, progrès et décadence de l’hérésie de ce siècle, Berthelin,

Rouen 1648, p. 6. Florimond de Raemond (1540-1601) era un magistrato del parlamento di Bordeaux. Dopo

la sua morte venne pubblicata la sua grande opera l’Histoire de la naissance, progrez et decadence de l’heresie

de ce siécle (la ed. 1605). 107 Per Lutero il matrimonio esce dall'ambito giuridico del regno spirituale ed entra nel regno del mondo,

divenendo parte integrante del suo ordinamento giuridico. Sulla concezione dei sacramenti per Lutero vedi J.

HECKEL, Lex Charitatis. Eine juristische Untersuchung über dar Recht in der teologie Martin Luthers, Verlag

der bayerischen Akademie der Wissenschaften, München 1953. 108 D. LENZEN, Alla ricerca del padre. Dal patriarcato agli alimenti, Laterza, Bari 1991, p., 205.

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«Le questioni relative al matrimonio e al divorzio, vanno affidate ai giuristi, e collocate entro

l'ordine mondano. Poiché il matrimonio è cosa mondana, esteriore, così come lo sono la donna,

i figli, la casa, […] esso appartiene all'ordine delle autorità secolare, è sottomesso alla

ragione»109.

Come osserva Lenzen:

«Le conseguenze della dottrina matrimoniale di Lutero sul piano giuridico, variamente

differenziate a livello regionale, in alcuni casi sono state individuate solo dopo 250 anni, o

più»110.

E’ ancora con Lutero che comincia il processo di trasferimento delle responsabilità

dell'educazione dal padre (che di lì a poco diventerà una figura di rilievo essenzialmente

economico) alla donna madre e alla educatrice.

Questi sono due secoli durante i quali si va allo scontro aperto, spesso anche in modo

cruento, sulla concezione della salvezza, del peccato e della grazia, sulla Bibbia e sulla

tradizione, sulla Chiesa e sui sacramenti, sul culto dei santi e sulle immagini fino a far

dimenticare che questi fratelli nemici conservano tutti lo stesso Credo formulato nei primi

secoli della Chiesa e recitano ciascuno nella sua lingua la stessa preghiera insegnata da Gesù

ai suoi discepoli. Inoltre, disputando in tal modo su problemi teologici che non sono tutti

della stessa importanza, i cristiani perdono di vista le questioni fondamentali emerse agli

inizi del secolo XVI, concernenti la natura dell’uomo e il suo posto nell’universo, la divinità

di Cristo e l’intervento di Dio nel mondo, il senso della storia. Questioni solo nascoste, e

come sotterrate, che si riprenderanno con forza nel secolo dei Lumi.111.

109 M. LUTHER, Werke. Kritische Gesamtausgabe, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1883, vol. XXXII,

pp. 376-377. 110 D. LENZEN, Alla ricerca del padre. Dal patriarcato agli alimenti, op. cit., p. 209. 111 Cfr. M. VENARD (a cura di), Dalla riforma della Chiesa alla riforma protestante (1450-1530), (Storia del

cristianesimo: Religione - Politica – Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 2000,

vol. VII, p. 802.

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Ci troviamo comunque in un epoca in cui l’idea fondamentale, che non ha cessato di

affermarsi a partire dagli ultimi decenni del Medioevo, è che nessuno può salvarsi senza un

minimo di conoscenza delle verità della fede (il Credo), dei comandamenti di Dio (il

Decalogo) e delle preghiere fondamentali (il Pater e l’Ave Maria). Sono questi i “rudimenti

della fede”, le “verità necessarie alla salvezza”. Per tramandarle, la Chiesa antica aveva

contato sulla predica parrocchiale e sull’insegnamento dei bambini in casa e a scuola, ciò

nonostante, agli inizi del secolo XVI, ci si lamenta ovunque che né i parroci né i genitori

compiono questo loro obbligo. E si sostiene che i cristiani, in materia di religione, sono di

un’ ignoranza “bestiale”112.

Grazie ai riformatori, che prepareranno sin dall’infanzia un nuovo tipo di credenti, la

formazione dei bambini diventerà uno degli aspetti più importanti della

confessionalizzazione del cristianesimo.

Lo stesso Lutero non concepisce una comunità cristiana la cui prima preoccupazione

non sia quella di educare i bambini. In fondo egli non suggerisce nulla di rivoluzionario.

«Questo insegnamento, scrive Lutero nel 1526, io non saprei esporlo più semplicemente né

meglio di quanto è avvenuto agli inizi della cristianità, e di quanto è rimasto sino al presente,

cioè nei tre punti: i dieci comandamenti, la fede e il Padre Nostro. In questi tre punti ritroviamo,

in una forma semplice e breve, quasi tutto ciò che un cristiano ha bisogno di conoscere»113.

Così Lutero compone nel 1529 un Piccolo Catechismo, uno dei pochissimi che siano

adatti ai bambini dato il suo linguaggio semplice, ritmato e facile da capire.

«E’ certo il migliore catechismo della Riforma […] Esso ha la struttura normale dei catechismi

del suo tempo: i 10 comandamenti, il Credo, il Pater Noster, il Battesimo, l’Eucaristia, la

112 Cfr. M. VENARD (a cura di), Il tempo delle confessioni (1530-1620/30), (Storia del cristianesimo: Religione

- Politica – Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 2000, vol. VIII, p. 898. 113 Ibidem, p. 898.

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confessione privata (Lutero mantiene la confessione privata) poi delle preghiere per i pasti,

per la mattina, per la sera e tavole per i doveri familiari. Chi doveva insegnare questo

catechismo era il padre della famiglia, dunque si mantiene la tradizione ebraica che il padre

della famiglia è in qualche modo il pastore, il sacerdote. Il sacerdozio comune dei fedeli è

praticato in questa maniera»114.

Il successo ottenuto dai catechismi protestanti, e in particolare da quello di Lutero,

incita i cattolici a redigere a loro volta dei manuali simili, con una struttura a domande e

risposte.

I catechismi somministrano i contenuti dell’insegnamento religioso. I bambini che

sanno leggere possono avere in mano un libro alla loro portata. Altri, i più numerosi, non

potranno leggere un manuale, anzi nemmeno ottenerlo. E’ enorme l’impegno in tutta

l’Europa per offrire loro un’educazione cristiana115.

Il catechismo, quindi, si indirizza essenzialmente ai bambini e agli adolescenti. In ogni

caso, non è facile riuscire ad avere una assiduità regolare. Le ordinanze ecclesiastiche di

Ginevra, nel 1541, introducono la frequenza obbligatoria e impongono a tutti i cittadini e

abitanti di portare o mandare i loro bambini la domenica a mezzogiorno al catechismo.

«L’educazione cristiana dei fanciulli e ragazzi trovava espressione pratica nella partecipazione

alla vita religiosa e cultuale della comunità parrocchiale. Numerosi sono i sinodi locali che

fanno obbligo ai genitori di condurre alla chiesa i figli che hanno raggiunto l’età della

discrezione. Il fanciullo così era presente alla Messa e alla preghiera dei vespri della comunità,

ascoltava i sermoni, prendeva parte alle diverse forme di religiosità popolare, familiarizzava

con le immagini sacre. Mediante i sacramenti e con la partecipazione alla vita religiosa del

popolo di Dio, l’educazione cristiana dei fanciulli e ragazzi in famiglia e a scuola trovò

sostegno e compimento, aprendosi nello stesso tempo alla dimensione comunitaria della

114 V. VINAY, Catechesi evangelica. Storia e caratteristiche, in AA.VV., Ecumenismo e Catechesi…, op. cit., p.

423. 115 Cfr. M. VENARD (a cura di), Il tempo delle confessioni (1530-1620/30), op. cit., pp. 901.

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parrocchia. L’atmosfera generale di questi secoli costituì una sorta di liturgia della vita, nella

quale ogni dettaglio dell’esistenza rivestiva un significato religioso.

In questa educazione cristiana dei fanciulli e ragazzi rivive una parte non trascurabile dello

spirito del catecumenato antico: istruzione religiosa, formazione pratica alla vita morale,

presenza determinante di accompagnatori spirituali – genitori, padrini, maestri, sacerdoti –,

ampio spazio dato alla preghiera personale e comunitaria, esercizio della carità e delle opere

di misericordia, progressiva partecipazione alla vita sacramentale, cultuale e religiosa della

comunità cristiana»116.

Negli Stati luterani si adottano mezzi di pressione. Nell’ambiente cattolico si possono

esercitare sui genitori solo delle pressioni morali, unite a piccole ricompense per i bambini

più assidui117.

I metodi di insegnamento fanno appello essenzialmente alla memoria. I bambini

imparano a memoria le formule di preghiera e le risposte ad una serie di domande, espresse

in un vocabolario che spesso supera la loro capacità di comprensione. A misura che il

catechismo si va istituzionalizzando, si introduce una divisione dei ragazzi per livelli.

Tutto sommato, la finalità della catechesi è la stessa in tutte le confessioni, pur con

sfumature diverse. Si tratta di istruire le nuove generazioni nelle certezze della salvezza e di

radicarle nella propria confessione, preservandole dalle altre confessioni.

Nell’ambiente cattolico, con il Concilio di Trento, si fece obbligo di promuovere in

ogni parrocchia, nelle domeniche e nei giorni festivi, un’istruzione religiosa elementare per

tutti i fanciulli118. Così la catechesi dei fanciulli, già presente in alcune Chiese locali, divenne

116 C.E.I., L’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, 15: ECEI 6/2064-2065. 117 Molti parroci prendono a pretesto il fatto che i fanciulli non vengono al catechismo per sottrarsi a tale

incombenza. Si veda, ad esempio, la relazione della visita pastorale della diocesi di Mariana (Corsica) del 1584,

come pure A. TURCHINI, Clero e fedeli a Rimini, Herder, Roma 1978, p. 190. 118 I vescovi «provvederanno anche che almeno nelle domeniche e nelle altre feste in ogni parrocchia i bambini

siano diligentemente istruiti nei rudimenti della fede e nell’obbedienza a Dio e ai genitori da parte di appositi

incaricati che, se sarà necessario, costringeranno anche con le censure ecclesiastiche» (CONCILIO DI TRENTO,

Sessione XXIV, Decreto di riforma, can. IV: CŒ, p. 764).

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dovere ufficiale e obbligatorio per tutte le parrocchie119. Il catechismo, che vuol essere una

scienza della salvezza, un sommario della dottrina cristiana a domande e risposte, diventerà

il mezzo privilegiato per l’istruzione dei fanciulli: ciascuna lezione comporta un

insegnamento pratico, orientato alle opere, e insegna a pregare correttamente. È una scuola

di vita cristiana per l’educazione dei ragazzi. Sostituendo alla tradizione orale il testo

stampato, esso dà alla fede una consistenza più salda e conferisce all’ortodossia tridentina

una dimensione popolare120.

«I genitori erano sostenuti nella loro missione educativa in diversi modi dalla Chiesa. Nella

predicazione si indicavano loro i contenuti dell’istruzione da impartire ai figli e il modo di

condurli a una condotta virtuosa. Inoltre venivano offerti ai fedeli laici manuali di vita

cristiana, nei quali non mancavano norme e suggerimenti sul come “ottenere l’obbedienza”,

“insegnare le preghiere e le verità fondamentali della dottrina cristiana”, “fare partecipare i

figli alle funzioni religiose”. La Confessione, almeno annuale, era occasione per richiamare la

responsabilità dei genitori, invitati a interrogarsi su come avevano assolto il loro compito

educativo verso i figli»121.

Non possiamo fare a meno di ricordare anzitutto il Catechismo del concilio di Trento,

detto anche Catechismo romano, promulgato da Pio V nel 1566, tre anni dopo la chiusura

del concilio.

«È un’opera rivolta essenzialmente ai parroci, perché anch’essi erano ignoranti e quindi

bisognosi di una seria catechesi. Secondo la linea più generale del concilio di Trento si nota

un certo equilibrio o, se vogliamo, un certo compromesso, tra l’ispirazione biblica e il

riferimento alla scolastica e alla tradizione catechetica medioevale. Particolarmente nel

prologo ci sono cose molto positive: per esempio si richiama la centralità di Cristo; la morale

cristiana viene vista essenzialmente come un modo di vivere il mistero di Cristo; si ricorda che

la preghiera non deve limitarsi a chiedere favori; si presenta l’amore verso Dio come il

119 Cfr. C.E.I., L’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, 13: ECEI 6/2061. 120 Cfr. M. VENARD (a cura di), Il tempo delle confessioni (1530-1620/30), op. cit., p. 904. 121 C.E.I., L’iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, 14: ECEI 6/2062.

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principio ispiratore della vita cristiana, più che la paura del peccato, dei castighi o della morte,

motivi che erano stati molto sottolineati nel declino del Medioevo. Se questo è il prologo, le

parti successive sono più tradizionali. La trattazione dei sacramenti ha un’impostazione

prevalentemente istituzionale; la messa viene vista essenzialmente come sacrificio ed i

sacramenti come aiuti per poter osservare i comandamenti»122.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, fatto nel 1992, elogia nella prefazione il

Catechismo Romano per l’importanza data alla catechesi, il quale ha dato origine ad una

migliore organizzazione di essa all’interno della Chiesa.

«Il ministero della catechesi attinge energie sempre nuove dai Concili. A tal riguardo, il

Concilio di Trento rappresenta un esempio da sottolineare: nelle sue costituzioni e nei suoi

decreti ha dato priorità alla catechesi; è all'origine del Catechismo Romano che porta anche il

suo nome e che costituisce un'opera di prim'ordine come compendio della dottrina cristiana;

ha suscitato nella Chiesa un'eccellente organizzazione della catechesi; grazie a santi Vescovi

e teologi, quali san Pietro Canisio, san Carlo Borromeo, san Turibio di Mogrovejo, san Roberto

Bellarmino, ha portato alla pubblicazione di numerosi catechismi»123.

Come conseguenza di tutto questo processo “manualistico”, nell’età della

Controriforma assistiamo a un allontanamento della Bibbia, un processo già iniziato molti

secoli prima, oltre che per la predominanza di contenuti e metodi tratti dalla scolastica, anche

per il diverso modo di concepire la fede. Prevale la preoccupazione istituzionale: l’unità di

dottrina, l’unità di governo. Dio è salvezza, certo, ma solo attraverso la mediazione

istituzionale; i sacramenti sono il momento essenziale di questa mediazione. Nella Scrittura

non si cerca tanto il disegno salvifico di Dio, quanto delle verità; questo evidentemente si

riflette nella catechesi. I catechismi sono piccoli trattati di teologia, nei quali si trova tutto al

livello dottrinale; infatti spesso si dice, lo afferma anche Roberto Bellarmino, che il

122 P. G. CAMAIANI, La catechesi cattolica nell’età moderna, in AA.VV., Ecumenismo e Catechesi…, op. cit.,

pp. 432. 123 CCC 9, p. 19.

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catechismo basta; non c’è bisogno di leggere la Bibbia. Può essere utile citare un brano per

avere un’idea delle posizioni di Bellarmino, i quali non rispecchiano il concetto biblico di

fede.

«Che vuoi dire: io credo? Vuoi dire che io tengo per certo e per verissimo tutto quello che in

questi dodici articoli si contiene [sono le dodici proposizioni del simbolo degli apostoli]; e la

ragione è questa: perché queste sentenze le ha insegnate lo stesso Dio ai santi apostoli, ed i

santi apostoli alla Chiesa, e la Chiesa le insegna a noi. E perché è impossibile che Dio dica il

falso»124.

Aldilà di tutte queste controversie, dal secolo XV al XVIII, quale che sia la loro

confessione, i cristiani, uomini e donne, sono invitati a porre la loro giornata sotto lo sguardo

di Dio in modi analoghi. Il fedele viene invitato a pregare mattino e sera, in rendimento di

grazie per la notte e la giornata trascorse. Egli chiede a Dio il suo aiuto con spirito di fiducia.

A mezzogiorno recita il benedicite e il ringraziamento.

«Per i riformati, l’esempio proposto è quello dell’ammiraglio de Coligny, elevato a modello

dalla sua stessa grandezza d’animo e dal suo tragico destino. Appena alzato, ci viene detto,

egli si metteva in ginocchio con tutte le persone presenti e “faceva egli stesso la preghiera,

nella forma consueta delle Chiese di Francia”. Più tardi, all’ora del pranzo (il pasto di metà

giornata), egli ascoltava la predica un giorno su due, con canto di salmi; se non c’era la predica,

tutti in piedi attorno alla mensa cantavano un salmo, prima di pronunciare la benedizione. La

stessa cosa si ripeteva a cena, dopo la quale tutta la famiglia riunita cantava un salmo e recitava

la preghiera della sera. E si comportavano allo stesso modo tutte le famiglie nobili, “non

essendo sufficiente che il padre di famiglia vivesse santamente e religiosamente, se con il suo

esempio non induceva i suoi alla stessa regola)”»125.

124 Citazione tratta da P. G. CAMAIANI, La catechesi cattolica nell’età moderna, op. cit., pp. 433. 125 M. VENARD (a cura di), Il tempo delle confessioni (1530-1620/30), op. cit., p. 935.

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In questo stesso spirito si svolge la giornata della donna cristiana. La domenica

mattina, dopo essersi alzata, deve ringraziare a Dio e invocarlo perché accresca in lei la fede,

la speranza e la carità e perché gli angeli tengano distante il demonio. Poi deve recarsi in

chiesa per assistere alla messa. Nei giorni lavorativi si comporterà allo stesso modo se ne

avrà il tempo; nel caso contrario offrirà a Dio tutte le sue occupazioni, avendo cura della

famiglia e portando avanti la casa126.

«In ogni caso, l’obiettivo è la promozione di un culto familiare che faccia di ciascun focolare

una ecclesiola. La pratica religiosa domestica è frutto di un’educazione portata avanti dalle

autorità ecclesiastiche e dalle élite sociali. Per i protestanti, essa è l’espressione quotidiana del

sacerdozio universale, e fa sì che il lavoro professionale sia benedetto da Dio. Per i cattolici è

la condotta meritoria del fedele in stato di grazia. “Lavora per amore di Dio con gioia, scrive

lo stesso Jean de Brétigny a un suo cugino spagnolo, e fa ciò che devi fare […] con gioia

spirituale, amando Dio ed elevando spesso il tuo cuore verso di lui con amore”»127.

All’interno della prassi quotidiana, soprattutto per le Chiese della Riforma,

l’importanza del culto domestico è una della caratteristiche peculiari, in conformità al

sacerdozio regale. Di fatto, in una popolazione per lo più analfabeta, diventa fondamentale

questo tipo di culto che è presieduto generalmente dal padre, attorno al quale la famiglia si

riunisce128. Gli elementi base per gli analfabeti diventano, dal XVII secolo: la conoscenza a

memoria del Pater, dell’Ave Maria, del Credo e dei comandamenti di Dio e della Chiesa,

che saranno gli elementi fondamentali sia della preghiera pubblica sia di quella privata: il

catechismo di Nantes suggerisce, come molti altri, di ripeterli quando ci si alza dal letto e

quando si corica, seguendo la tradizione ebraica della preghiera dello Shema‘129.

126 Cfr. M. VENARD (a cura di), Il tempo delle confessioni (1530-1620/30), op. cit., p. 937. 127 Ibidem, p. 937. 128 IDEM (a cura di), L’età della ragione (1620/30-1750), (Storia del cristianesimo: Religione - Politica –

Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 2003, vol. IX, pp. 817-818. 129 Ibidem, p. 818.

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Nella seconda metà del XVII secolo ci troviamo in un ambiente culturale illuminista

che dà importanza assoluta alla ragione. Ciò che non è secondo la ragione viene messo da

parte e molte delle verità cristiane vanno perse. La teologia influenzata dall’Illuminismo,

cerca di proteggere alcune di queste verità utilizzando le nozioni del pensiero illuminista:

chiama Dio l’Essere Supremo e conserva la fede nel Dio vivente, le facoltà teologiche

insegnano una teologia tutta fondata sulla ragione. Di conseguenza, anche tutta la catechesi

fissa l’attenzione sui valori etici, si insegna ai giovani a mettere in pratica la virtù, ed essere

buoni cittadini. La confermazione diventa momento di passaggio dall’infanzia

all’adolescenza e viene festeggiata nel nucleo familiare in modo del tutto speciale130.

In relazione a questo scrivono due ecclesiastici francesi: Jean de la Motte de Fénelon,

vescovo di Cambrai, che insiste molto nel presentare il messaggio in funzione della storia

della salvezza, e Claude Fleury, che pubblica nel 1683 un Catechismo storico dove si vede

la consapevolezza dei limiti della catechesi effettuata fino ad allora.

«Nelle prediche si tratta solo di argomenti particolari della festa, del Vangelo e di qualche idea

particolare del predicatore; argomenti quasi sempre slegati tra loro. Molto raramente si

spiegano i primi principi e i fatti che sono il fondamento di tutti i dogmi. Non è spiegare il

Vangelo prendere una parola come testo e cercare di far entrare in esso tutto ciò che si vuole.

Per questo, le letture pubbliche della Sacra Scrittura, che fanno parte dei doveri della Chiesa,

servono così poco per l’istruzione dei fedeli, mentre in realtà è appunto questo il loro fine […]

Il metodo migliore per insegnare non è quello che ci pare più naturale quando consideriamo le

verità astrattamente in sé, ma quello che l’esperienza ci dimostra più adatto per far entrare

queste verità nello spirito dei nostri uditori. Orbene, a me pare che dobbiamo tenere in conto

l’esperienza di tutti i secoli »131.

130 Cfr. V. VINAY , Catechesi evangelica. Storia e caratteristiche, op. cit., pp. 425. 131 Citazione tratta da P. G. CAMAIANI, La catechesi cattolica nell’età moderna, op. cit., pp. 436-437.

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Tra l’altro, di questa esperienza Fleury ricorda quella del popolo ebraico, in cui erano

i genitori ad avere il compito di raccontare ai figli le “meraviglie” che Dio aveva operato

sotto i loro occhi. Fénelon mette in risalto che ripercorrendo la storia della salvezza si segue

il metodo con cui Dio si è rivelato. La narrazione delle mirabilia Dei era già stato il metodo

di S. Agostino nel De catechizandis rudibus; il racconto cioè di eventi meravigliosi: la

creazione, l’attesa di Cristo, la sua venuta, la sua vita, le sue opere, la sua morte, la sua

risurrezione.

Ci troviamo alle porte della Rivoluzione francese che avrà conseguenze devastanti

all’interno della famiglia e delle quali oggi soffriamo le conseguenze. Dobbiamo tener conto

di alcuni attacchi alla famiglia cristiana presenti nella Rivoluzione e che contribuiscono

all’assenza del padre, testa della famiglia e responsabile principale, insieme alla madre, della

trasmissione della fede. Ci sono molti fatti che simboleggiano questi attacchi. Claudio Risè,

psicanalista, cattolico vicino a Don Giussani, nel suo libro “Il Padre, l’assente inaccettabile”,

scrive:

«Quando i rivoluzionari francesi, dopo aver decapitato nella cattedrale di Notre Dame, le

statue dei re di Giuda e di Israele, e sventrato le tombe dell'abbazia di Saint-Dénis per

raccogliere l'oro dei denti e degli anelli dei re e dei vescovi, tagliarono la testa e bruciarono la

statua miracolosa di Notre Dame de sous-Terre, nella cattedrale di Chartres (uno dei maggiori

simboli della spiritualità cristiana), ciò che viene chiamato processo di secolarizzazione, va1e

a dire l'espulsione dell' esperienza religiosa de1 sacro dalla vita quotidiana in Europa, era già

a buon punto. Tutte le campane dell'abbazia di Mont-Saint-Michel erano state fuse, e il loro

bronzo era stato consegnato all'esercito rivoluzionario perché ne facesse armi contro i paesi

che ancora si dichiaravano cattolici»132.

«Il “Sacro”, l’esperienza religiosa cristiana e i suoi simboli, che avevano segnato la civiltà

europea, erano ormai fuori gioco, almeno così credevano i giacobini, socialisti e liberali. La

132 C. RISÈ, Il Padre, l’assente inaccettabile, San Paolo, Roma 2003, p. 49.

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vita dell'uomo si sarebbe finalmente svolta nell'ambito “secolare”, mondano, delle cose e della

materia, senza essere ingombrata da credenze trascendenti»133

.

Per entrambi i fenomeni tuttavia, declino del padre e separazione da Dio (secolarizzazione),

l’abbattimento rivoluzionario delle immagini sacre dei re di Giuda e di Israele non fa altro

che continuare, anche se accelerandolo drammaticamente, un processo che, come abbiamo visto,

era iniziato molto tempo prima.

Una delle conseguenze di questi attacchi alla famiglia sarà l’istituzione del divorzio, il

20 settembre 1792, che renderà insicuro il valore sociale e il giusto concetto del legame

coniugale134.

Queste controversie faranno della catechesi il cuore della pastorale sacramentale. La

grande miseria spirituale, durante la Rivoluzione, incita alla diffusione di opuscoli di

circostanza che mescolano l’iniziazione alla fede, le condizioni di ammissione ai sacramenti,

l’obbligo del rispetto delle domeniche e delle feste. Fede, morale e politica si intessono in

raccolte alle volte disordinate, che del catechismo hanno ormai esclusivamente la struttura a

domande e risposte. Di questo tipo, ad esempio, è un catechismo anonimo di 1799, diviso in

sette capitoli; nel sesto, che è quello che a noi interessa, si traccia un piano di condotta della

famiglia e delle feste, riprendendo delle prescrizioni e le proibizioni sulla santificazione della

Domenica, l’ascolto della messa nelle Domeniche e nelle feste e limitando il “culto laicale”,

di cui in seguito parleremo135.

La Rivoluzione fa della prima comunione un segno forte dell’appartenenza alla

comunità cristiana diventando anche festiva e luogo di socializzazione per tutte le famiglie

cristiane.

133 Ibidem, p. 50. 134 Cfr. B. PLONGERON (a cura di), Le sfide della modernità (1750-1840), (Storia del cristianesimo: Religione

- Politica – Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 2004, vol. X, p. 483. 135 Cfr. Ibidem, pp. 486-487.

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Durante la Rivoluzione, la vita religiosa dei laici dipendeva dalla gerarchia clericale

che, tra l’altro, era perseguitata. Ci troviamo davanti alla concezione post-tridentina di una

Chiesa docente (papa e vescovi) che detta le direttive pastorali a fedeli sottomessi ai chierici,

all’interno delle parrocchie e secondo la quale la vita religiosa e l’ortodossia delle pratiche

devono avere radici in una fede compatta. Mentre l’inquadramento clericale si impoverisce

e i luoghi di culto tradizionali diventano inaccessibili, le espressioni della pietà popolare

rivelano la presenza di risorse infinite e di radicamenti tanto solidi da attraversare i periodi

di crisi modificandosi e adattandosi. Di conseguenza, la Rivoluzione forgia un nuovo tipo di

laici responsabili del culto e della catechesi, inventando anche nuove tecniche di

evangelizzazione136. Questo dà luogo a una trasgressione chiamata “culto laicale”.

«Questi laici, desiderosi di presiedere e di incantare con i loro canti, sembrano dimenticare la

necessità del ministero […] Ho già trovato alcuni di questi capi d’assemblea nelle chiese, ai

quali è girata la testa. Essi vogliono riformare, fare i parroci […] Il popolo si abitua a questa

figura esterna, a questi simulacri di culto; si abitua a fare a meno delle mitre. Si assopisce,

ingannato dall’apparenza […]»137.

«I fedeli sono stati lasciati a loro stessi e altre istanze – il sindaco, per esempio – hanno

occupato il posto, nella gerarchia del villaggio, tenuto fino a quel momento dal parroco. Dopo

il Concordato è seguita naturalmente tutta una lotta di influenza e di prestigio che mette di

fronte il parroco o il cappellano, le autorità municipali e i fabbricieri»138.

In questa situazione è necessario affermare l’esistenza di un “culto domestico” che

rimane fedele agli insegnamenti acquisiti e come il ruolo del bambino, della donna e della

famiglia nella sociologia religiosa rivoluzionaria restano fondamentali per la trasmissione

della fede.

136 Cfr. B. PLONGERON (a cura di), Le sfide della modernità (1750-1840), op. cit., pp. 470-471. 137 C. LEDRE, Le culte caché sous la Révolution. Les missions de l’abbé Linsolas, Bonne Presse, Parigi 1949,

p. 229. 138 A. MINKE, Un prélat concordataire dans les départements réunis : Mgr Zaepffel, évêque de Liège (1802-

1808), Boreau du Recueil, Louvain-la-Neuve 1985, p. 342.

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La Rivoluzione, come abbiamo potuto notare, porterà conseguenze devastanti

soprattutto per la famiglia che diventerà una istituzione del tutto secolarizzata e spesso

discussa.

«Deferita davanti al XIX secolo, la Rivoluzione sarà incolpata di omicidio della famiglia e lo

rimarrà fino al governo di Vichy, ancora impregnato della sociologia organicista (Bonald, Le

Play, A. de Chàteaubriant...) secondo la quale l’organizzazione familiare è al centro

dell’architettura sociale in quanto cellula di riproduzione biologica, di riproduzione sociale e

luogo di acquisizione dei «valori» che ordinano il gioco sociale. Miseria, immoralità,

instabilità sarebbero figlie della destabilizzazione rivoluzionaria»139.

Ci troviamo quindi davanti a una situazione di degenerazione occasionata

evidentemente dall’introduzione del divorzio140 ma soprattutto dall’accelerazione

demagogica.

«L’anno 1793 vide, nello Stato, la demagogia più sfrenata; nella famiglia, la dissoluzione

sconfinata del legame coniugale; nello stesso culto, l’empietà più esecrabile. La potestà

paterna decadde insieme all’autorità maritale; la minor età dei figli fu abbreviata, e il padre

perse, per l’uguaglianza forzata delle parti, la salvaguardia dell’autorità, il mezzo di punire e

di ricompensare»141.

Vediamo le conseguenze di questo periodo storico nei secoli successivi, sia nella

società sia nel magistero.

Nel XVIII secolo l’istituzionalizzazione del catechismo è ormai assestata e si comincia

a formare l’idea di un catechismo “universale”.

139 B. PLONGERON (a cura di), Le sfide della modernità (1750-1840), op. cit., p. 491. 140 Cfr. L. DE BONALD, Du divorce considéré au XIX siècle relativement à l’état domestique, Imprimerie

Bianco, Turin 1824. 141 B. PLONGERON (a cura di), Le sfide della modernità (1750-1840), op. cit., p. 491.

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«La formazione religiosa iniziale è diventata, quattro secoli dopo l’invenzione del catechismo,

uno dei grandi “servizi pubblici” della Chiesa, se non il primo. Si tratta di inculcare nei

bambini, in un numero di anni che può variare (tre o quattro, dopo gli otto anni, nel secolo

XX), alcune solide nozioni della dottrina cattolica. Dopo l’elaborazione del Catechismo

romano (o del Concilio di Trento), il punto di riferimento resta quello di un compendio, il più

completo e preciso possibile, di tale dottrina. Il catechismo — sia come manuale che come

contenuto — presenta le conoscenze che ogni fedele deve assimilare dall’età della ragione in

poi»142.

Sarà Pio X che, dopo il primo congresso catechistico italiano tenuto a Piacenza nel

1889, si interesserà di persona e renderà pubblici due catechismi – il primo nel 1905 e il

secondo nel 1912 in forma sintetizzata – che dovevano diventare il catechismo “universale”.

Malgrado il tentativo fatto dal Vaticano I, in un primo momento, e ripreso da Pio X, i progetti

di un “catechismo universale” non arrivano a realizzarsi.

Con questi fatti comincerà il “movimento catechetico”, ispirate dalla Catechetica di

von Hirscher (1831), che prenderà forza sviluppandosi negli anni successivi, con l’idea di

una trasmissione “progressiva” della fede143.

«L’enciclica Acerbo nimis del 1905 dispone la creazione della Congregazione della Dottrina

cristiana. Da allora lo sviluppo della catechesi è caratterizzato dai congressi e successivamente

dalle settimane catechetiche.

Con il concordato l’insegnamento religioso è introdotto in tutte le istituzioni scolastiche,

impartito da preti e laici scelti dai vescovi. Nel 1935 vengono creati gli uffici catechistici

diocesani. La congregazione dei Salesiani, già dotata di una ricca esperienza nel campo

dell’insegnamento, si dedica principalmente all’educazione religiosa dei giovani.

Negli anni Cinquanta la catechesi riceve nuovo impulso particolarmente dall’Azione cattolica,

con la creazione del Centro nazionale delle attività catechistiche (CENAC), che organizza

142 J.-M. MAYEUR (a cura di), Guerre mondiali e totalitarismi (1914-1958), (Storia del cristianesimo: Religione

- Politica – Cultura, a cura di J.-M. MAYEUR ET ALII), Borla/Città Nuova, Roma 1997, vol. XII, p. 203. 143 Cfr. P. G. CAMAIANI, La catechesi cattolica nell’età moderna, op. cit., pp. 438.

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scuole estive per la formazione dei catechisti. Si organizzano pure alcune Settimane di

pedagogia religiosa (la prima ebbe luogo a Roma nel 1953)»144.

Nasceranno però tra il 1920 e il 1960 i catechismi nazionali con una suddivisione

essenzialmente uguale per tutti145 e il metodo, ormai adoperato da quattro secoli, delle

domande-risposte.

«Questa atomizzazione suggerisce quel metodo di inculcarlo, che viene applicato in forme

simili un po’ ovunque: spiegazione di una serie di domande, apprendimento a memoria,

recitazione più o meno meccanica. Materia tra le altre, con i suoi orari, i suoi esami e le sue

classificazioni, da cui dipende l’ammissione alla comunione solenne, il catechismo fluisce in

una pedagogia fondata sulla memoria»146.

Ci troviamo ormai in una società completamente secolarizzata, nonostante la prima

guerra mondiale che rappresenterà una tappa importante nell’evoluzione dei rapporti tra

Chiesa e Stato e che porterà alla affermazione di una volontà generale tesa alla costruzione

di una “società integralmente cristiana”.

«La Chiesa rivendica di essere l’unica roccia solida sulla quale si può costruire il futuro e

afferma il suo fermo proposito di voler procedere alla ricristianizzazione non soltanto degli

individui ma della società e degli stati, instaurando il regno sociale del Cristo»147.

Questa volontà di una società cristiana non sarà mai attuata, tanto che, come vedremo

nel terzo capitolo, la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, si collocherà in una posizione, verso

l’esterno, di dialogo con il mondo contemporaneo e, verso l’interno, di ritorno alle origini.

144 J.-M. MAYEUR (a cura di), Guerre mondiali e totalitarismi (1914-1958), op. cit., p. 349. 145 Quasi tutti suddividono la materia in tre parti: verità da credere, sacramenti da ricevere, comandamenti da

rispettare. 146 J.-M. MAYEUR (a cura di), Guerre mondiali e totalitarismi (1914-1958), op. cit., p. 204. 147 Ibidem, p. 357.

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«Si può solo osservare che la fine della società cristiana, la secolarizzazione avanzata (molti

la chiamano scristianizzazione) hanno imposto un ritorno alle origini; quindi si potrebbe dire

che ora stiamo ritornando alla catechesi dell’età patristica, grazie alla secolarizzazione»148.

148 P. G. CAMAIANI, La catechesi cattolica nell’età moderna, op. cit., pp. 438.

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CAPITOLO III

LA TRASMISSIONE DELLA FEDE NEL CONCILIO VATICANO II E NELLE

RIFLESSIONI POST-CONCILIARI

3.1 La famiglia nel contesto odierno

La problematica attuale della famiglia è una tema vastissimo, lo affronterò in un modo

sintetico.

Anzitutto, ci troviamo davanti ad una “cambiamento epocale” che si ripercuote

inevitabilmente sulla famiglia, sulla sua composizione e sulla sua concezione.

«La famiglia è sembrata per molto tempo uno scoglio immobile tra le tempeste di un mondo

in trasformazione. Oggi ci rendiamo conto che anch’essa partecipa profondamente del

dinamismo storico di questo mondo, alle cui trasformazioni non può restare estranea»149.

Il ’68 ha segnato una vera e propria rivoluzione culturale, della quale portiamo ancora

oggi le conseguenze. Vengono messe in discussione le basi che hanno sorretto la cultura

occidentale sorta dal giudeo-cristianesimo. Assieme alla perdita del senso di Dio e quindi

del senso del padre, viene messa in discussione l’autorità sia civile che ecclesiastica, viene

proclamata la libertà sessuale, si esalta l’autonomia morale, si destruttura la famiglia.

Cambiamenti questi che hanno intaccato la Chiesa stessa, soprattutto nelle famiglie religiose,

nelle quali non si parla più di obbedienza ma di dialogo e invece di Superiore si parla di

leadership.

149 G. GATTI, Morale sessuale, educazione dell’amore, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1991, p. 168.

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Su questo argomento mi pare significativo un brano della prolusione del Cardinale

Édouard Gagnon, allora presidente del “Pontificio Consiglio per la Famiglia”, al IX Corso

dello Studio Biblico Teologico Aquilano che ebbe luogo nel 1987:

«Era un momento difficile. Ricordo bene la Conferenza delle Nazioni Unite a Bucarest, dove

il tema era il problema della popolazione, cioè il problema dei figli che nascono. La

documentazione, per quella conferenza, avrebbe coperto tutte le pareti qui intorno a me, e mai

in tutta quella documentazione si menzionava la parola «padre»; non si parlava del padre.

Quando si parlava della famiglia era unicamente per dire come la famiglia doveva praticare la

contraccezione. Molti politici chiedevano di cambiare le espressioni degli strumenti del diritto

internazionale, come la dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei diritti dei giovani, per

sostituire alle parole “diritto della famiglia” le parole “diritto dell’individuo”. Era un momento

in cui si dava come finita la famiglia»150.

Un altro fenomeno che senz’altro ha influito sulla perdita del padre e anche sulla crisi

di identità dell’uomo è stato il passaggio dalla famiglia patriarcale, tipica della civiltà rurale,

alla famiglia mononucleare, frutto della civiltà industriale, soprattutto del cosmopolitismo.

Nella società di tipo patriarcale, l’autorità del padre che trasmetteva ai figli l’arte del

mestiere, e i valori familiari era rispettata e indiscussa. La trasmissione alle nuove

generazioni era favorita dalla presenza dei nonni, degli zii, dei cugini, dei nipoti: un tipo di

famiglia allargata in cui i figli erano aiutati nel loro sviluppo e le nuove famiglie trovavano

un sostegno. Il “Pater familiæ”, in genere il più anziano, il nonno o bisnonno, come pure la

donna più anziana godevano di stima e di autorità.

«La famiglia tradizionale era normalmente una famiglia allargata, costituita dall’insieme

strettamente coordinato di diversi nuclei familiari, conviventi sotto uno stesso tetto, attorno a

150 É. GAGNON, La problematica attuale della famiglia e la risposta della Chiesa, in V. LIBERTI (a cura di), La

famiglia nella Bibbia, Edizioni Dehoniane, Roma 1989, p. 16.

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uno stesso patrimonio e sotto la comune autorità del patriarca: era la cosiddetta “famiglia

polinucleare” o molecolare o patriarcale, tipica di una cultura agricola e precittadina»151.

Tuttavia è innegabile che in seno alla struttura patriarcale c’erano anche forti

condizionamenti, che se a volte salvavano da pericoli, in altre limitavano la libertà dei singoli

e dei vari nuclei familiari.

«La famiglia patriarcale era a sua volta l’elemento portante di una società fondamentalmente

familista: l’individuo non esisteva, non agiva e non pensava se non come membro di una

famiglia o di un clan familiare. La struttura familiare prevaleva su quella statale. La società

era più una realtà interfamiliare che interpersonale, era vista più come una unione di famiglie

che come una unione di persone»152.

Con l’avvento della società industriale, e soprattutto dell’esodo dalle campagne alle

città, le famiglie patriarcali progressivamente si sono smembrate. Le giovani coppie e le

nuove famiglie si sono trovate proiettate nell’anonimato di grandi città, costrette a vivere in

piccoli appartamenti di grandi palazzi, abitati da gente per lo più sconosciuta, e con ritmi

famigliari imposti dal lavoro, dalla scuola e da tanti altri nuovi impegni.

Nella città il padre non trasmette più l’arte del mestiere al figlio, anzi è il figlio che

molte volte insegna al padre a districarsi nella società moderna. La famiglia si trova per lo

più sola, isolata in un appartamento. I conflitti inevitabili della convivenza accrescono e la

piccola famiglia non ha più il sostegno diretto e immediato della famiglia più grande, la

parentela, o il paese.

«La dissoluzione della famiglia patriarcale come unità economica autonoma e autosufficiente

ha portato a unità familiari più piccole (famiglia nucleare)»153.

151 G. GATTI, Morale sessuale, educazione dell’amore, op. cit., p. 169. 152 Ivi. 153 Ivi.

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Certamente la coppia acquista maggior libertà, si sente meno condizionata dalla

famiglia allargata e dalla società, ma si trova anche più debole di fronte alle sfide del nuovo

tipo di società. Anche per questo si moltiplicano i fallimenti matrimoniali, aumentano i

divorzi e le convivenze libere, si approva l’aborto, i nonni e gli zii anziani sono messi nei

ricoveri.

I figli si sentono liberi di seguire la propria strada, non si sentono più di obbedire a

delle persone che non sono preparate a trasmettere loro valori che li aiutino a far fronte alla

modernità e perciò reclamano il diritto a “fare la propria vita”.

Di fronte a questa nuova situazione i genitori si vedono impreparati e sprovvisti nella

educazione dei figli che fanno parte di una generazione che loro non hanno conosciuto e che

fanno difficoltà a comprendere.

«Ma la famiglia nucleare ha anche innegabili pericoli e svantaggi: la solitudine dei coniugi in

balia dei loro problemi affettivi; l’emarginazione della donna e una sua eccessiva

responsabilizzazione nella educazione dei figli; l’esautoramento del padre, troppo lontano

dalla famiglia e incapace di rappresentare per i figli un modello di identificazione credibile,

l’esclusione degli anziani da ruoli familiari riconosciuti e significativi»154.

L’educazione familiare va in crisi: il padre per motivo di lavoro è sempre più assente,

anche molte madri trovano un lavoro155, molti figli si trovano soli di fronte ad un mondo

pieno di pericoli156. L’atteggiamento di molti genitori è di assecondare in tutto i propri

figli157: cresce una generazione di figli indeboliti, non preparati alla sofferenza, incapaci di

soffrire, figli che hanno paura a stringere un rapporto serio con una ragazza e a sposarsi, si

154 G. GATTI, Morale sessuale, educazione dell’amore, op. cit., p. 172. 155 Cfr. N. GALLI, L’Europa delle famiglie. Considerazioni pedagogiche ed educative agli albori del XXI

secolo, “Pedagogia e vita”, 2003 (LXIII), pp. 35-37. 156 Cfr. Ibidem, pp. 43-44. 157 Cfr. Ibidem, p. 35.

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sposta l’età dei matrimoni, molti figli pur accettandone i limiti preferiscono restare a casa

dove trovano alimento, un rifugio per vivere. Aumentano gli omosessuali e cresce la

impotenza maschile158, mentre le ragazze si fanno più sicure ed aggressive.

«Si può rilevare a modo di sintesi come il costituirsi e l’infittirsi di legami societari più vasti

restringa l’ambito di quelli comunitari propri della famiglia; il lavoro dipendente, l’estraneità

reciproca delle generazioni, l’essenza di legami stabili e indipendenti dalla volontà degli

individui rischiano di dissolvere la famiglia, riducendola a un fatto puramente soggettivo,

privatistico e provvisorio»159.

C’è un altro fenomeno di cui si parla spesso: il fenomeno della violenza verso i

bambini. Questo è vero, ma spesso, da più di trent’anni, si presenta il figlio come un peso,

come una cosa da evitare, è normale che non ci sia amore nei genitori e che ci sia violenza.

Conseguenza di questi fatti sono anche delle leggi abusive che tolgono la custodia dei

figli ai genitori160.

Ci troviamo davanti al fenomeno della cosiddetta “secolarizzazione”. La

secolarizzazione della società è un fenomeno che attacca molto la famiglia, continuamente

esposta, sia nella televisione, sia nelle riviste o altri mezzi di comunicazione, alla propaganda

dell’edonismo, del piacere, della facilità del materialismo che rende il compito dei genitori

molto difficile per il fatto che presenta il piacere come la cosa più importante della vita161.

«Accade così che, anche nelle famiglie in cui i genitori professano e vivono una fede cristiana,

gli adolescenti si sentono sollecitati dall’ambiente, dalla scuola, dai mezzi di comunicazione,

verso prospettive di vita diverse da quelle loro proposte in famiglia. Questo rende difficile la

158 «Ormai quasi il 40% dei maschi bianchi, in Occidente, non è in grado di fecondare» (C. RISÈ, Il Padre,

l’assente inaccettabile, op. cit., p. 104). 159 G. GATTI, Morale sessuale, educazione dell’amore, op. cit., p. 170. 160 Cfr. É. GAGNON, La problematica attuale della famiglia e la risposta della Chiesa, op. cit., pp. 18-21. 161 Cfr. N. GALLI, L’Europa delle famiglie…, op. cit., p. 42.

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trasmissione della fede e dello stesso dialogo intergenerazionale, anche quando i giovani, per

mancanza di lavoro, sono costretti a prolungare la loro dipendenza dai genitori»162.

Soprattutto si punta anche sul dimostrare che la felicità perfetta è quella della persona

sola, non impegnata con un uomo, con una donna, una moglie o un marito, ma che vive sola.

Con tutti questi fatti si distrugge la famiglia.

In questo contesto, la famiglia ha incontrato anche delle difficoltà all’interno della

Chiesa come la confusione nell’insegnamento delle dottrina della Chiesa sul matrimonio,

specialmente nel campo della contraccezione, temi affrontati con il passare del tempo e

grazie anche alla creazione del Comitato per la famiglia (Paolo VI) e dopo del Pontificio

Consiglio per la Famiglia (Giovanni Paolo II) e alla promulgazione di documenti relazionati

con questi temi163.

Un’altra delle principali cause delle difficoltà della famiglia, frutto della

secolarizzazione, è l’indebolimento dei suoi sostegni legali e sociali. Le leggi, sia del

divorzio o dell’aborto sia di tante altre di ordine sociale, sono in gran parte contrarie alla

missione della Chiesa e della famiglia.

La diminuzione dei matrimoni a favore delle convivenze, la crescita delle separazioni

e dei divorzi a cui segue l’aumento delle famiglie con un solo genitore164 o delle famiglie

ricostituite165, l’abbassamento complessivo delle nascite e l’aumento delle nascite al di fuori

del matrimonio sono fenomeni che portano inevitabilmente a dei profondi mutamenti della

natura stessa della famiglia e del matrimonio: quest’ultimo non indica più il passaggio

162 GIOVANNI PAOLO II, Messaggio ai partecipanti alla XII Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la

famiglia sul tema “La trasmissione della fede nella famiglia” (29 settembre 1995) 1: EF 2370. 163 Vedi ad esempio PAOLO VI, Lettera Enciclica Humanæ Vitæ sulla regolazione della natalità (25 luglio

1986): EV 3/587-617; GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio sui compiti della

famiglia cristiana (22 novembre 1981): EV 7/1522-1810; EF 472-476; GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica

Evangelium Vitæ sul valore e l’inviolabilità della vita umana (25 marzo 1995): EV 14/2167-2517. 164 Cfr. N. GALLI, L’Europa delle famiglie…, op. cit., pp. 44-46. 165 Cfr. Ibidem, pp. 46-47.

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simbolico dall’adolescenza all’età adulta, non è più l’evento che legittima l’accesso alla vita

sessuale, come è stato fino all’inizio degli anni Sessanta, né il fondamento necessario della

famiglia e della procreazione.

Si accentua la crisi del matrimonio e si diffondono modi di vita di coppia diversi da

quello coniugale, c’è un progressivo allontanamento tra le generazioni dal punto di vista

culturale, ma la famiglia rimane un valore essenziale, prioritario rispetto a qualsiasi altro,

per gli adulti e per i giovani come risulta da tutte le più recenti inchieste.

«Mentre la famiglia, come istituzione, è riconosciuta nel suo valore in molte Carte dei diritti e

Costituzioni, nelle legislazione e nelle politiche sociali, è ormai il matrimonio che fa problema:

è questo il “caso serio” della cultura dell’Occidente»166.

Ci troviamo, quindi, davanti a una situazione difficile, in cui la realtà si incentra

sull’individuo, l’autorità dei genitori viene meno e, ogni volta di più, si presenta per loro la

fatica di educare i figli e trasmettere loro la fede. E’ necessario, di conseguenza, un nuovo

“metodo”, tornando alle origini.

«Sino agli anni Cinquanta l’autorità dei genitori si fondava sull’“ordine delle cose” : il padre

ne era l’interprete; ne conseguiva “un’armonia logica tra società, matrimonio ed educazione

dei figli”. Oggi invece tutto s’impernia sull’individuo, fonte della verità; nasce quindi un

nuovo modello di cura per loro»167.

166 G. CAMPANINI, Un caso serio: il matrimonio oggi, “Rivista di Teologia Morale”, 2001 (CXXXII), p. 492. 167 N. GALLI, L’Europa delle famiglie…, op. cit., p. 39. Cfr. L. ROUSSEL, L’enfanze oubliée, Éditions O. Jacob,

Paris 2001, pp. 167ss.

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3.2 La risposta del Concilio Vaticano II

Di fronte a questi fatti, questa mentalità che attacca la famiglia, il Concilio Vaticano

II ha voluto dare una risposta, anzitutto evidenziando l’importanza del matrimonio e della

famiglia e, all’interno di essa, la funzione fondamentale nei genitori, responsabili

dell’educazione della prole e, soprattutto, della trasmissione della fede.

In seguito vedremo, citando dei passi di alcuni documenti scelti, come il concilio

evidenzia questo. Troviamo diverse affermazioni che evidenziano l’importanza della

famiglia. Già nella Costituzione conciliare Sacrosanctum concilium si mostra la necessità di

rivedere il rito del battesimo dei bambini evidenziando la funzione che hanno i genitori e i

padrini168, per i figli molto importante. Lo si evidenzia pure nella Costituzione dogmatica

Lumen Gentium quando, parlando della partecipazione dei laici alla funzione profetica di

Cristo, afferma che il primo luogo di apostolato dei coniugi è la famiglia che, a sua volta, è

testimone della presenza di Cristo, luce nel mondo.

«In questo ordine di funzioni appare di grande valore quello stato di vita che è santificato da

uno speciale sacramento: la vita matrimoniale e familiare. L’esercizio e scuola per eccellenza

di apostolato dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta l’organizzazione della

vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione: essere l’uno

all’altro e ai figli testimoni della fede e dell’amore di Cristo. La famiglia cristiana proclama

ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e della speranza della vita

beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina

quelli che cercano la verità»169

168 Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione conciliare Sacrosanctum concilium sulla sacra liturgia (4

dicembre 1963), 67: EV 1/118. 169 CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa (21 novembre 1964), 35: EV

1/376.

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La famiglia fa nascere nuovi cittadini che, in virtù del battesimo, diventano Figli di

Dio, la famiglia è quindi una “Chiesa Domestica” dove i genitori sono i “sacerdoti” in quanto

sono per i figli i primi, sia cronologicamente che per importanza, maestri nella fede170. E’

quindi uno dei doveri più importanti dei genitori quello di trasmettere ciò che loro stessi

hanno amorosamente accettato da Dio171.

La Costituzione pastorale Gaudium et spes, parlando della condizione dell’uomo nel

mondo contemporaneo, evidenzia il cambiamento di mentalità che abbiamo notato nel primo

punto di questo capitolo. Questo cambiamento di mentalità, che, come abbiamo già visto,

spesso mette in discussione i valori tradizionali, soprattutto nei giovani, influisce

enormemente, creando difficoltà, nel compito non solo dei genitori ma anche degli educatori

e maestri172.

La Gaudium et spes dedica espressamente una parte al tema del matrimonio e della

famiglia173. In un primo momento analizza la situazione della famiglia nel mondo d’oggi

facendo notare come la famiglia è alla base di ogni società essendo il suo nucleo più piccolo.

Mostra gli aspetti positivi della situazione in un primo momento per poi presentare gli aspetti

negativi, soprattutto l’attacco alla dignità della famiglia (divorzio, poligamia, ecc.) e del

matrimonio (egoismo, edonismo, ecc.).

In seguito, la Gaudium et spes dedica un paragrafo per far risaltare il primo aspetto del

matrimonio: la santità174, stabilita dalla alleanza dei coniugi e per l’ordinamento divino. In

questa unione i coniugi si prestano a “un mutuo aiuto e servizio con l’intima unione delle

170 Cfr. Lumen gentium, 11: EV 1/314. 171 Cfr. Ibidem, 41: EV 1/394. 172 Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo

(7 dicembre 1965), 7: EV 1/1338. 173 Concretamente il primo capitolo della parte II (nn. 47-52) 174 Cfr. Ibidem, 48: EV 1/1471-1474.

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persone e delle attività”175. Questa intima unione e il bene dei figli esigono la fedeltà e

l’indissolubilità nel matrimonio176.

«La Costituzione parla dei figli come della vetta e del coronamento dell’amore coniugale e,

senza voler entrare nella questione della gerarchia dei fini, afferma che il matrimonio e l’amore

coniugale sono intrinsecamente ordinati alla prole»177.

Nel seno della famiglia sono, dunque, fondamentali i figli in quanto sono il frutto e il

coronamento dell’amore coniugale. E’ dovere dei genitori creare un ambiente adeguato per

la loro crescita sia fisica ma, soprattutto, spirituale.

«Ecco perché deve essere cura dei genitori creare un focolare che sia insieme spiritualmente

ed umanamente ricco e profondmente cristiano, in modo che i figli – e tutti quelli che vivono

nell’ambito familiare – trovino più facilmente – come dice la Costituzione – “la strada di una

formazione pienamente umana, della salvezza e della santità”»178.

La Costituzione non dice espressamente come creare questo ambiente ma parla

dell’esempio che i genitori devono dare ai figli e dell’importanza della preghiera in famiglia.

«Affermazione, questa, di grande importanza, poiché il destino della famiglia cristiana è

deciso da due fattori: l’esempio di vita cristiana dato dai genitori, particolarmente dal padre, e

della preghiera comune in famiglia, per cui questa diviene la “Chiesa domestica” di cui parla

la Costituzione Lumen gentium»179.

La preghiera è, quindi, un modo con cui i genitori istruiscono i figli ma, soprattutto, è

un’occasione per i genitori di testimoniare la propria fede, mostrando come essa non è

175 Ibidem, 48: EV 1/1471. 176 Ivi. 177 G. DE ROSA, Dignità del matrimonio e della sua famiglia e sua valorizzazione, in Z. ALSZEGHY ET ALII, La

Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Introduzione storico-dottrinale. Testo latino e

traduzione italiana. Esposizione e commento, Elle Di Ci, Torino-Leumann 1966, p. 754. 178 Ibidem, p. 761. 179 Ivi.

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soltanto un insieme di formule da recitare, qualcosa di superstizioso ma uno strumento

capace di mettere la propria vita in mano alla divina provvidenza.

«E’ di somma importanza educare i figli alla preghiera fin dalla prima infanzia. Ma ciò non

sarebbe possibile se i genitori non hanno il gusto e la giusta estimazione della preghiera. Assai

più che un’educazione a recitare formule (anch’esse necessarie almeno nella prima età) di

indole puramente mnemomica, superficiale ed esteriore, vale la testimonianza di genitori che

vivono di preghiera e in preghiera e sanno trasformare la loro stessa vita, attuando la

santificazione del lavoro e dei doveri quotidiani, divenuti adempimento concreto della volontà

di Dio.

La testimonianza di preghiera vissuta comunicherà ai figli il senso e il bisogno della medesima.

Un insegnamento superficiale, più o meno infetto di spirito superstizioso, rimane un edificio

fragile destinato a crollare al primo spirar di venti. La preghiera dev’essere qualcosa di

spontaneo, di gioioso, senza eccessiva lunghezza, che abbia come scopo l’unione con Cristo e

sia piuttosto l’inizio che la conclusione del nostro incontro giornaliero con Lui. Proprio questo

è lo scopo della preghiera del mattino e della sera. Fortunati quei genitori cristiani, che sanno

trovare tempo e modo di dedicarsi a un po’ di riflessione spirituale con l’aiuto di un buon libro

o anche senza libro, e ne insegnano l’arte ai figli adolescenti»180.

A questo punto, la Gaudium et spes fa un fugace cenno al dovere dei genitori di educare

i figli, perché si parla a lungo nella Dichiarazione conciliare Gravissimum educationis, che

analizzerò in seguito. Ricorda tuttavia che i genitori sono i primi responsabili

dell’educazione religiosa dei figli, ricordando quanto si dice nella Lumen gentium.

Fondamentale per l’educazione dei figli è “la consultazione reciproca ed una continua

collaborazione tra i genitori”181, l’importanza, sia del padre sia della madre, viene

evidenziata dal concilio come due figure delle quali i figli hanno bisogno per crescere.

180 L. BOGLIOLO, Vari campi di apostolato, in L. BOGLIOLO ET ALII, Il decreto sull’apostolato dei laici. Genesi

storico-dottrinale. Testo latino e traduzione italiana. Esposizione e commento, Elle Di Ci, Torino-Leumann

1966, pp. 228-229. 181 Gaudium et spes, 52: EV 1/1485.

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«L’educazione del fanciullo ha bisogno del padre e della madre. Anzitutto, del padre: in lui il

fanciullo deve trovare prima di ogni cosa il modello e l’ideale della sua vita, donde la

responsabilità del padre di essere – e non solo di apparire – agli occhi del figlio un modello ed

un ideale; deve poi trovare la sicurezza e l’appoggio di cui ha bisogno, perché tutto il suo

mondo è fragile ed insicuro; deve trovare ancora la guida nei passi e nelle situazioni difficili,

sicuro che egli saprà aiutarlo; deve, infine, trovare il giudice di cui ha bisogno per sapere se

ha agito bene o male. Ma, affinché ciò avvenga, è necessario che la presenza del padre nella

famiglia sia una presenza “attiva”: “La presenza attiva del padre giova grandemente alla

formazione dei figli”, dice la Costituzione. Purtroppo oggi, in molte famiglie, manca la

presenza “attiva” del padre: assorbito durante il giorno dal lavoro e dalle preoccupazioni,

quando torna a casa la sera, stanco e preoccupato, non è certo nelle migliori condizioni

spirituali per esercitare una presenza “attiva” nell’educazione dei figli; nei giorni di festa, poi,

è assorbito da preoccupazioni di altro genere, cosicché non gli restano tempo ed opportunità

di fare un colloquio, che sia un vero dialogo, con i figli, i quali, perciò, crescono senza aver

mai veramente conosciuto il loro padre e senza aver mai “parlato” con lui. Perciò, un padre,

che senta la responsabilità della sua paternità, farà di tutto, magari sacrificando cose ed affari

meno importanti, per essere “attivamente” presente nell’educazione dei figli.

Ma se è importante la presenza del padre nell’educazione, è ancora più importante la presenza

della madre, particolarmente nei primi – e non solo nei primissimi – anni di vita. Sorge a questo

punto un grave problema, che è caratteristico della società industriale: quello del lavoro

estradomestico della donna e della madre di famiglia, che assume oggi proporzioni

impressionanti.

[…] Ora per molte donne e madri di famiglia il lavoro estradomestico è una dura necessità;

per altre è un mezzo di promozione sociale della donna, poiché, oltre a consentirle

l’indipendenza economica, la fa sentire utile alla società e le permette, lavorando, di

valorizzare le proprie qualità e capacità. Si tratta, perciò, di armonizzare – cosa non sempre

facile – le esigenze della donna e della madre di oggi di lavorare fuori casa con il suo compito

materno. Dice la Costituzione: “Deve essere anche messa al sicuro la possibilità per la madre,

di cui i figli specialmente più piccoli hanno bisogno, di prendersi cura della casa, senza che

sia, però, trascurata la legittima promozione sociale della donna”»182.

I genitori devono sforzarsi di dare ai propri figli una educazione che li aiuti a diventare

adulti, maturi, capaci di prendere le proprie responsabilità secondo la loro vocazione, dando

182 G. DE ROSA, Dignità del matrimonio e della sua famiglia e sua valorizzazione, op. cit., pp. 795-797.

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un tono profondamente cristiano a tutta l’educazione in modo che possano vedere nella vita

un compito e una missione affidatali da Dio stesso e si possano preparare sin da piccoli a

quella che sarà la loro “vocazione” di domani183.

Già nel Decreto Apostolicam actuositatem, approvato una ventina di giorni prima della

Gaudium et spes, si tratta questo tema parlando dei vari campi di apostolato dei laici, quando

espone il compito dei genitori all’interno della famiglia:

«I coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede l’uno per l’altro, nei

confronti dei figli e di tutti gli altri familiari. Sono essi i primi araldi della fede ed educatori

dei loro figli; li formano alla vita cristiana e apostolica con la parola e con l’esempio, li aiutano

con prudenza nella scelta della loro vocazione e favoriscono con ogni diligenza la sacra

vocazione eventualmente in essi scoperta»184.

Questa affermazione della Apostolicam actuositatem ci mostra come questo Decreto

sia in perfetta armonia con i precedenti documenti conciliari.

La famiglia è, inoltre, inserita nella liturgia della Chiesa, considerata la più alta scuola

di preghiera comunitaria. Sono infatti i genitori che, attraverso la loro educazione, hanno il

dovere di aprire le porte degli adolescenti alla vita comunitaria e missionaria della Chiesa.

La famiglia è, come auspica il Decreto, trasformata attraverso la preghiera, in un “santuario

domestico”185.

«La famiglia ha ricevuto da Dio la missione di essere la cellula prima e vitale della società. E

essa adempirà tale missione se, mediante il mutuo affetto dei membri e la preghiera elevata a

Dio in comune, si mostrerà come il santuario domestico della Chiesa; se tutta la famiglia si

183 Cfr. G. DE ROSA, Dignità del matrimonio e della sua famiglia e sua valorizzazione, op. cit., p. 797. 184 CONCILIO VATICANO II, Decreto Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici (18 novembre 1965),

11: EV 1/953. La questione della vocazione dei figli viene poi trattata, o per lo meno accennata, in altri

documenti conciliari, vedi ad esempio: Gravissimum educationis, 3; Presbyterorum ordinis, 11; Optatam

totius, 2. 185 Cfr. L. BOGLIOLO, Vari campi di apostolato, op. cit., pp. 229-230.

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inserirà nel culto liturgico e se promuoverà la giustizia e le buone opere a servizio dei fratelli

che si trovano in necessità»186.

Il documento sull’apostolato dei laici è indirizzato principalmente ai giovani che

“esercitano un influsso di somma importanza nella società odierna”187. Lo dice anche

nell’esortazione finale: “In modo speciale sentano questo appello come rivolto a se stessi i

più giovani e l’accolgano con gioia e magnanimità”188.

Di conseguenza, i genitori, e tutti gli adulti, sono chiamati ad “instaurare con i giovani

un dialogo amichevole, che permetta ad ambedue le parti, passando sopra la distanza dell’età, di

comunicarsi reciprocamente le proprie ricchezze interiori”189.

La Chiesa ha sempre avuto una speciale attenzione per i giovani, per questo insiste

sull’importanza di educarli ai fini dell’apostolato. E’, quindi, compito dei genitori scegliere

i mezzi adeguati affinché i figli acquistino la coscienza di essere strumenti attivi della Chiesa.

«È compito dei genitori disporre nella famiglia i loro figli fin dalla fanciullezza a riconoscere

l’amore di Dio verso tutti gli uomini. Insegnino loro gradualmente, specialmente con

l’esempio, la sollecitudine verso le necessità sia materiali che spirituali del prossimo. Tutta la

famiglia dunque, nella sua vita in comune, diventi quasi un tirocinio di apostolato.

È necessario inoltre educare i fanciulli in modo che, oltrepassando i confini della famiglia,

aprano il loro animo alla vita delle comunità sia ecclesiali che temporali. Vengano accolti nella

locale comunità parrocchiale in maniera tale che acquistino in essa la coscienza d’essere

membri vivi e attivi del popolo di Dio»190.

186 Apostolicam actuositatem, 11: EV 1/955. 187 Apostolicam actuositatem, 12: EV 1/958. 188 Ibidem, 33: EV 1/1041. 189 Ibidem, 12: EV 1/960. 190 Ibidem, 30: EV 1/1026-1027.

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Questo tema viene evidenziato specialmente dalla Dichiarazione Gravissimum

educationis sull’educazione cristiana191.

«La Dichiarazione ha voluto definire l’educazione umana e cristiana nel nucleo della loro

concezione, lasciando ad altri Documenti uno sviluppo ulteriore. Vennero resi espliciti il

dovere della famiglia per l’educazione e la missione educativa della famiglia cristiana,

determinando chiaramente doveri e compiti dei genitori, della società civile e della Chiesa. La

Dichiarazione ha voluto anche enucleare la missione della scuola e quella della scuola

cattolica»192.

Il documento parla di responsabilità personali, proprie dei genitori in quanto

procreatori. Evidenzia l’importanza dell’educazione dei figli da parte dei genitori come un

compito fondamentale, insostituibile; una educazione non solo personale e sociale ma,

soprattutto, cristiana.

«I genitori, poiché han trasmesso la vita ai figli, hanno ,l’obbligo gravissimo di educare la

prole: vanno pertanto considerati come i primi e i principali educatori di essa. Questa loro

funzione educativa è tanto importante che, se manca, può difficilmente essere supplita. Tocca

infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell’atmosfera vivificata dall’amore e dalla pietà

verso Dio e verso gli uomini, che favorisce l’educazione completa dei figli in senso personale

e sociale. La famiglia è dunque la prima scuola di virtù sociali, di cui appunto han bisogno

tutte le società. Soprattutto nella famiglia cristiana, arricchita della grazia e delle esigenze del

matrimonio-sacramento, i figli fin dalla più tenera età devono imparare a percepire il senso di

Dio e a venerarlo, e ad amare il prossimo, conformemente alla fede che han ricevuto nel

battesimo; lì anche fanno la prima esperienza di una sana società umana e della Chiesa; sempre

attraverso la famiglia, infine, vengono pian piano introdotti nella comunità degli uomini e nel

popolo di Dio. Perciò i genitori si rendano esattamente conto della grande importanza che la

famiglia autenticamente cristiana ha per la vita e lo sviluppo dello stesso popolo di Dio»193.

191 In questa dichiarazione ci sono 36 note di riferimento, le quali presentano 71 citazioni che riportano

numerosi documenti che illustrano l’importanza dell’educazione. 192 L. MACARIO, Declaratio de educatione christiana. Rilettura e riflessioni, “Anthropotes”, 2002 (XVIII), n.2,

p. 160. 193 CONCILIO VATICANO II, Dichiarazione Gravissimum educationis sull’educazione cristiana (28 ottobre

1965), 3: EV 1/826.

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La Gravissimum educationis propone i vari mezzi che la Chiesa, in quanto madre194,

pone a servizio dell’educazione cristiana, i quali sono di aiuto ai genitori per facilitare

l’educazione dei loro figli. La Chiesa cura anzitutto la catechesi che educa alla fede, alla vita

secondo Cristo, alla partecipazione cosciente e attiva alla liturgia e all’apostolato. Apprezza

e tende a penetrare del suo spirito tutti i mezzi comuni che concorrono al perfezionamento

morale e alla formazione umana, quali gli strumenti di comunicazione sociale, le

associazioni culturali e sportive, giovanili e in, primo luogo, le scuole195.

In seguito la Dichiarazione descrive la funzione della scuola, uno strumento educativo

di particolare importanza, e il dovere e diritto dei genitori di scegliere la scuola adeguata per

l’educazione dei loro figli, secondo la loro coscienza.

«I genitori, avendo il dovere ed il diritto primario e irrinunciabile di educare i figli, debbono

godere di una reale libertà nella scelta della scuola, Perciò i pubblici poteri, a cui incombe la

tutela e la difesa della libertà dei cittadini, nel rispetto della giustizia distributiva, debbono

preoccuparsi che le sovvenzioni pubbliche siano erogate in maniera che i genitori possano

scegliere le scuole per i propri figli in piena libertà, secondo la loro coscienza»196.

Il Concilio, poi, esorta i fedeli a collaborare nella ricerca di metodi educativi idonei

ad aiutare positivamente e costantemente la scuola ad assolvere il suo compiti197.

Si consiglia ai genitori di affidare i loro figli alle scuole cattoliche per quanto sia

possibile.

Si è messo in evidenza come il Concilio Vaticano II si è interessato esplicitamente dei

problemi riguardanti l’educazione cristiana in generale e, specificamente, del compito

194 Cfr. Ibidem, 3: EV 1/828. 195 Cfr. Gravissimum educationis, 4: EV 1/829. 196 Cfr. Ibidem, 6: EV 1/832. 197 Cfr. Ibidem, 6: EV 1/834.

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fondamentale e insostituibile che i genitori svolgono nella trasmissione e nell’educazione

alla fede dei propri figli.

3.3 Il magistero post-conciliare

Il magistero post-conciliare riguardante la famiglia e, in particolar modo la

trasmissione della fede ai figli, è vastissimo, per questa ragione tratterò soltanto

l’Esortazione apostolica Catechesi tradendæ, l’Esortazione apostolica Familiaris consortio,

il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Direttorio di Pastorale familiare dando appena

accenni di quei temi che riguardano il lavoro.

3.3.1 Catechesi tradendæ198

L’Esortazione apostolica Catechesi tradendæ, affrontando come tema la catechesi

nel nostro tempo, eredità del comando del Signore di rendere discepole tutte le genti e di

insegnare loro ad osservare tutto ciò che Egli aveva prescritto199, evidenzia come questa

attività si è svolta sin dagli inizi, con i primi discepoli e ha accompagnato l’attività della

Chiesa lungo i suoi venti secoli di storia200.

Di questa attività fondamentale della Chiesa, strettamente legata all’evangelizzazione,

sono oggetto tutti gli uomini: bambini, fanciulli, adolescenti, giovani e adulti201 e la Chiesa

198 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Catechesi tradendæ sulla catechesi nel nostro tempo (16

ottobre 1979): EV 6/1764-1939. 199 Cfr. Mt 28,19-20. 200 Cfr. Catechesi tradendæ, 1: EV 6/1765. 201 Cfr. Ibidem, 35-45: EV 6/1852-1870.

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utilizza tutti i modi possibili (mezzi di comunicazione, l’omelia o i catechismi) affinché

l’annuncio giunto a noi possa essere diffuso in tutto il mondo202.

Giovanni Paolo II incoraggia poi tutti i responsabili dell’insegnamento religioso e

dell’addestramento della vita secondo il vangelo. Questi responsabili, secondo l’Esortazione,

siamo tutti noi203 cominciando dai vescovi fino ai catechisti laici.

La catechesi deve essere svolta in un luogo concreto. L’Esortazione parla di quattro

luoghi: parrocchia, famiglia, scuola, movimento204. Si porrà in evidenza l’importanza della

famiglia come luogo di catechesi.

Nella Catechesi tradendæ si constata come esiste una perfetta continuità con il

Concilio Vaticano II205. Anzitutto, appare evidente come ogni membro della famiglia abbia

il compito di aiutare nella quotidianità gli altri membri a crescere nella fede.

«Questa educazione alla fede da parte dei genitori – educazione che deve iniziare dalla più

giovane età dei figli – si esplica già quando i membri di una famiglia si aiutano

vicendevolmente a crescere nella fede grazie alla loro testimonianza cristiana, spesso

silenziosa, ma perseverante nel ritmo di una vita quotidiana vissuta secondo il vangelo»206.

Sono comunque i genitori i primi ad essere chiamati a promuovere con la loro fede

alla formazione di un ambiente cristiano, loro stessi riceveranno doni dai figli.

«Occorre, però, andare più lontano: i genitori cristiani sui sforzeranno di seguire e di riprendere

nel contesto familiare la formazione più metodica ricevuta altrove. Il fatto che la verità sulle

principali questioni della fede e della vita cristiana siano così riprese in un ambiente familiare,

impregnato di amore e di rispetto, permetterà sovente di dare ai figli un’impronta decisiva e

202 Cfr. Ibidem, 46-50: EV 6/1871-1883. 203 Cfr. Ibidem, 62: EV 6/1908. 204 Su questi argomenti ne fa un cenno al n. 47 per poi svilupparlo nei nn. 67-70. 205 Cfr. con i documenti conciliari che abbiamo visto precedentemente. 206 Cfr. Catechesi tradendæ, 68: EV 6/1920.

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tale da durare per la vita. I genitori stessi traggono vantaggio dallo sforzo che ciò comporta,

perché in tale dialogo catechetico ognuno riceve e dona»207.

La catechesi familiare viene poi presentata come la più importante e, in alcuni casi

estremi, come l’unico ambiente per la crescita religiosa dei fanciulli. Perciò i genitori

devono, per amore ai figli, essere loro stessi preparati ad affrontare ogni tipo di situazione,

approfittando anche dei mezzi che, come abbiamo detto prima, la Chiesa mette a loro

disposizione.

«La catechesi familiare, pertanto, precede, accompagna ed arricchisce ogni altra forma di

catechesi Inoltre, laddove una legislazione antireligiosa pretende persino di impedire

l’educazione alla fede, laddove una diffusa miscredenza o un invadente secolarismo rendono

praticamente impossibile una vera crescita religiosa, “questa che si potrebbe chiamare chiesa

domestica” resta l’unico ambiente, in cui fanciulli e giovani possono ricevere un’autentica

catechesi. Così i genitori cristiani non si sforzeranno mai abbastanza per prepararsi ad un tale

ministero di catechisti dei loro figli e per esercitarlo con uno zelo instancabile. Ed occorre,

parimenti, incoraggiare le persone o le istituzioni che, mediante contatti individuali, mediante

incontri o riunioni ed ogni genere di strumenti pedagogici, aiutano questi genitori a svolgere

il loro compito: essi rendono un inestimabile servizio alla catechesi»208.

Possiamo quindi osservare come, oltre alla continuità con il Concili Vaticano II, nella

Catechesi tradendæ si evidenzia fortemente sia il ruolo dei genitori ma, soprattutto, il fatto

che loro sono aiutati dalla Chiesa nella svolgimento del loro compito e il fatto che sono

edificati e aiutati anche dalla loro stessa famiglia, incominciando dai propri figli. E’ così che

la famiglia diventa “Chiesa domestica”.

207 Cfr. Ivi. 208 Cfr. Catechesi tradendæ, 68: EV 6/1921.

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3.3.2 Familiaris consortio209

Attraverso un’attenta lettura della Familiaris consortio si può evidenziare lo speciale

interesse che Giovanni Paolo II ha nell’applicare l’immagine della Chiesa domestica alla

famiglia cristiana210 ed utilizza questa categoria per esprimere l’identità cristiana della

famiglia, il suo “intimo essere”.

Già nel sacramento del matrimonio, i coniugi «sono la rappresentazione reale del

rapporto di Cristo stesso nella Chiesa»211, memoriale del Mistero Pasquale.

«In quanto memoriale, il sacramento dà loro la grazia e il dovere di fare memoria delle grandi

opere di Dio e di darne testimonianza presso i loro figli; in quanto attualizzazione, dà loro la

grazia e il dovere di mettere in opera nel presente, l’uno verso l’altra e verso i figli, le esigenze

di un amore che perdona e che redime; in quanto profezia, dà loro la grazia e il dovere di vivere

e di testimoniare la speranza del futuro incontro con Cristo»212.

La famiglia è quindi il luogo dove i figli vengono inseriti nella Chiesa, “famiglia di

Cristo”, mediante il battesimo, e il luogo dove vengono educati alla fede.

«Nel matrimonio e nella famiglia si costituisce un complesso di relazioni interpersonali –

nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità –, mediante le quali ogni persona umana è

introdotta nella “famiglia umana” e nella “famiglia di Dio”, che è la Chiesa […] Il matrimonio

cristiano, partecipe dell’efficacia salvifica di questo avvenimento, costituisce il luogo naturale

nel quale si compie l’inserimento della persona umana nella grande famiglia della Chiesa»213.

209 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio sui compiti della famiglia cristiana (22

novembre 1981): EV 7/1522-1810; EF 472-476. 210 Possiamo «rilevare la particolare frequenza con cui la famiglia cristiana viene chiamata “chiesa domestica”

o “piccola chiesa”: in modo esplicito e diretto ben quattordici volte (cfr. nn. 21, 38, 48, 49, 51, 52, 53, 54, 55,

59, 61, 65, 86)» (D. TETTAMANZI, La famiglia via della Chiesa, Massimo, Milano 19912, p. 71). 211 Familiaris consortio, 13: EV 6/1568. 212 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Delegati del “Centre de Liaison des Equipes de Recherche”, 3 (3 Novembre

1979): Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 1979 (II), p. 909. Citato in Familiaris consortio, 13. 213 Familiaris consortio, 15: EV 6/1573.

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La famiglia, in quanto immagine della Chiesa universale e dell’amore che Cristo ha

per essa, «riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore»214 e, di

conseguenza viene condotta ad una comunione, in primo luogo coniugale, sulla quale viene

fondata anche la comunione della famiglia215, costituita da tutti i membri, diventando così

immagine perfetta della comunione ecclesiale.

«Una rivelazione e attuazione specifica della comunione ecclesiale è costituita dalla famiglia

cristiana, che anche per questo può e deve dirsi “Chiesa domestica”»216.

In questa relazione di comunione viene perfettamente inserito il compito dei genitori

all’interno della famiglia: la donna come sposa e madre e l’uomo come sposo e padre217, i

quali hanno una diversa vocazione. La donna ha un ruolo fondamentale nell’educazione e

nell’attività familiare.

«Pertanto la Chiesa può e deve aiutare la società attuale, chiedendo instancabilmente che sia

da tutti riconosciuto e onorato nel suo valore insostituibile il lavoro della donna in casa. Ciò è

di particolare importanza nell’opera educativa: viene eliminata, infatti, la radice stessa della

possibile discriminazione tra i diversi lavori e professioni, una volta che risulti chiaramente

come tutti, in ogni campo, si impegnino con identico diritto e con identica responsabilità.

Apparirà così più splendida l’immagine di Dio nell’uomo e nella donna»218.

L’uomo ha un’importanza unica e insostituibile, tanto che la sua assenza può portare

gravi conseguenze nella crescita dei figli

214 Ibidem, 17: EV 6/1580. 215 Cfr. Ibidem, 18-21: EV 6/1582-1593. 216 Ibidem, 21: EV 6/1590. Cfr. Lumen gentium, 11 e Apostolicam actuositatem, 11. 217 Cfr. Familiaris consortio, 22-25: EV 6/1594-1606. 218 Ibidem, 23: EV 6/1598.

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«Come l’esperienza insegna, l’assenza del padre provoca squilibri psicologici e morali e

difficoltà notevoli nelle relazioni familiari, come pure, in circostanze opposte, la presenza

oppressiva del padre»219.

Inoltre, «l’uomo è chiamato a garantire lo sviluppo unitario di tutti i membri della

famiglia»220.

Gli sposi sono chiamati a cooperare con Dio Creatore attraverso la trasmissione della

vita.

«La fecondità dell’amore coniugale non si restringe però alla sola procreazione dei figli, sia

pure intesa nella sua dimensione specificamente umana: si allarga e si arricchisce di tutti quei

frutti di vita morale, spirituale e soprannaturale che il padre e la madre sono chiamati a donare

ai figli e, mediante i figli, alla Chiesa e al mondo»221.

Questi frutti sono conseguenza di un’educazione adeguata, derivata dalla

partecipazione dei coniugi all’opera creatrice di Dio e compimento dell’amore paterno e

materno222. I genitori educano ai valori essenziali della vita umana: la socialità, l’educazione

all’amore e di conseguenza l’educazione sessuale e alla castità223. Particolarmente i genitori

cristiani in virtù del sacramento del matrimonio sono consacrati all’educazione propriamente

cristiana dei figli.

«Dal sacramento del matrimonio il compito educativo riceve la dignità e la vocazione di essere

un vero e proprio «ministero» della Chiesa al servizio della edificazione dei suoi membri»224.

219 Ibidem, 25: EV 6/1605. 220 Ibidem, 25: EV 6/1606. 221 Familiaris consortio, 28: EV 6/1612. 222 Cfr. Ibidem, 36: EV 6/1638. 223 Cfr. Ibidem, 37: EV 6/1643-1646. 224 Ibidem, 38: EV 6/1648.

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Così la Chiesa universale viene edificata attraverso questo servizio che la Chiesa

domestica fa.

«La coscienza viva e vigile della missione ricevuta col sacramento del matrimonio aiuterà i

genitori cristiani a porsi con grande serenità e fiducia al servizio educativo dei figli e, nello

stesso tempo, con senso di responsabilità di fronte a Dio che li chiama e li manda ad edificare

la Chiesa nei figli. Così la famiglia dei battezzati, convocata quale chiesa domestica dalla

Parola e dal Sacramento, diventa insieme, come la grande Chiesa, maestra e madre»225.

In tal modo i figli, all’interno della famiglia, fanno la loro prima esperienza di Chiesa

e i genitori, consapevoli di avere un compito affidatogli da Dio, diventano i primi araldi del

vangelo.

«Dio affida ai genitori il compito del primo annuncio del Vangelo ai loro figli e li rende capaci

di questo annuncio, qualunque sia la loro preparazione culturale, con il dono della

partecipazione al suo amore, che essi ricevono appunto col sacramento del matrimonio»226.

Sono essi che davanti alla situazione odierna di secolarizzazione hanno il dovere, per

poter trasmettere la fede ai propri figli, di fare carne in loro stessi l’immagine dell’uomo

nuovo secondo quanto Gesù dice nel discorso della Montagna227.

«Ma è proprio nell’ambito di questa missione evangelizzatrice e di educazione alla fede che si

rivela oggi in modo drammatico il fenomeno più generale della difficoltà di comunicazione

esistente tra genitori e figli; è qui che esplode spesso il dramma dell’inefficacia e del fallimento

degli sforzi educativi anche meglio intenzionati e illuminati In molte famiglie cristiane, i figli,

giunti a una certa età, prendono le distanze dalle tradizioni religiose e morali dei genitori,

compromettendo l’unità religiosa della famiglia e dando ai genitori l’impressione dolorosa di

un fallimento della loro missione educativa, I genitori sono così tentati di abbandonare del

tutto l’impresa educativa, rassegnandosi al fallimento. In una situazione del genere, i genitori

225 Ibidem, 38: EV 6/1649. 226 Cfr. D. TETTAMANZI, La famiglia via della Chiesa, op. cit., p. 78. 227 Cfr. Mt 5-7.

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hanno anzitutto bisogno di una parola di rassicurazione. La fede è l’accettazione del messaggio

di Cristo nella propria vita come senso e ragione profonda di tutte le proprie esperienze e di

tutte le proprie scelte. Essa si traduce in una serie di convinzioni precise, fondate sulla parola

stessa di Dio. I genitori sono chiamati a essere i portatori di questo sapere della fede, con la

loro parola, accompagnata dall’esempio che la rende più convincente e comprensibile»228.

E’ questa testimonianza di vita che li fa diventare pienamente genitori, generatori della

vita spirituale229.

Per aiutare a compiere degnamente questo ministero la Familiaris consortio sollecita

l’elaborazione di un “catechismo per le famiglie”, che sarà concretizzato con il Direttorio di

pastorale familiare per la Chiesa in Italia, approvato dalla C.E.I. il 25 luglio 1993230.

Possiamo dire che c’è un movimento di evangelizzazione all’interno della famiglia

ma, la stessa famiglia ha la necessità di essere evangelizzata costantemente231.

«Per questo, come la grande Chiesa, così anche la piccola Chiesa domestica ha bisogno di

essere continuamente e intensamente evangelizzata: da qui il suo dovere di educazione

permanente nella fede»232.

La famiglia, mentre esperimenta nel suo seno l’evangelizzazione, è luce nell’ambiente

dove si trova. Lo diceva già Paolo VI.

«La famiglia, come la chiesa, deve essere uno spazio in cui il vangelo è trasmesso e da cui il

vangelo si irradia.

Dunque nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti

evangelizzano e sono evangelizzati. I genitori non soltanto comunicano ai figli il vangelo, ma

228 G.GATTI, Morale sessuale, educazione dell’amore, op. cit., p. 185. 229 Cfr. Familiaris consortio, 39: EV 6/1653. 230 Vedremo il Direttorio dopo aver esaminato il Catechismo della Chiesa Cattolica. 231 Cfr. D. TETTAMANZI, La famiglia via della Chiesa, op. cit., p. 74. 232 Familiaris consortio, 51: EV 6/1687.

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possono ricevere da loro lo stesso vangelo profondamente vissuto. E una simile famiglia

diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita»233.

Questo “ministero di evangelizzazione” della famiglia è fondamentale per il mondo

odierno234. E’ essa la prima scuola missionaria e vocazionale in cui i genitori sono maestri e

guide per i propri figli.

«Il ministero di evangelizzazione dei genitori cristiani è originale e insostituibile: assume le

connotazioni tipiche della vita familiare, intessuta come dovrebbe essere d’amore, di

semplicità, di concretezza e di testimonianza quotidiana.

La famiglia deve formare i figli alla vita, in modo che ciascuno adempia in pienezza il suo

compito secondo la vocazione ricevuta da Dio. Infatti, la famiglia che è aperta ai valori

trascendenti, che serve i fratelli nella gioia, che adempie con generosa fedeltà i suoi compiti

ed è consapevole della sua quotidiana partecipazione al mistero della Croce gloriosa di Cristo,

diventa il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di

Dio.

Il ministero di evangelizzazione e di catechesi dei genitori deve accompagnare la vita dei figli

anche negli anni della loro adolescenza e giovinezza, quando questi, come spesso avviene,

contestano o addirittura rifiutano la fede cristiana ricevuta nei primi anni della loro vita. Come

nella Chiesa l’opera di evangelizzazione non va mai disgiunta dalla sofferenza dell’apostolo,

così nella famiglia cristiana i genitori devono affrontare con coraggio e con grande serenità

d’animo le difficoltà, che il loro ministero di evangelizzazione alcune volte incontra negli

stessi figli.

Non si dovrà dimenticare che il servizio svolto dai coniugi e dai genitori cristiani in favore del

Vangelo è essenzialmente un servizio ecclesiale, rientra cioè nel contesto dell’intera Chiesa

quale comunità evangelizzata ed evangelizzante. In quanto radicato e derivato dall’unica

missione della Chiesa ed in quanto ordinato all’edificazione dell’unico Corpo di Cristo [cfr.

1Cor 12,4ss; Ef 4,12s], il ministero di evangelizzazione e di catechesi della Chiesa domestica

deve restare in intima comunione e deve responsabilmente armonizzarsi con tutti gli altri

233 PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (8

dicembre 1975), 71: EV 5/1688-1699. Citazione fatta in Familiaris consortio, 52: EV 6/1688. 234 Cfr. Familiaris consortio, 52: EV 6/1688.

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servizi di evangelizzazione e di catechesi, presenti e operanti nella comunità ecclesiale, sia

diocesana sia parrocchiale»235.

Le famiglie cristiane sono chiamate a essere luce, un segno della presenza reale di

Cristo nella Sua Chiesa, una testimonianza viva del vangelo fatto carne.

«Animata dallo spirito missionario già al proprio interno, la Chiesa domestica è chiamata ad

essere un segno luminoso della presenza di Cristo e del suo amore anche per i “lontani”, per

le famiglie che non credono ancora e per le stesse famiglie cristiane che non vivono più in

coerenza con la fede ricevuta: è chiamata “col suo esempio e con la sua testimonianza” a

illuminare “quelli che cercano la verità”»236.

I figli sono quindi educati per essere testimoni veri dell’amore di Dio secondo la

vocazione alla quale sono chiamati e i genitori, nella misura delle loro possibilità, sono

chiamati a far scoprire la loro particolare vocazione.

«Le famiglie cristiane portano un particolare contributo alla causa missionaria della Chiesa

coltivando le vocazioni missionarie in mezzo ai loro figli e figlie e, più generalmente, con

un'opera educativa che fa “disporre i loro figli, fin dalla giovinezza, a riconoscere l'amore di

Dio verso tutti gli uomini”»237.

La Familiaris consortio evidenzia il sacerdozio battesimale dei fedeli, vissuto nel

“matrimonio-sacramento” che «costituisce per i coniugi e per la famiglia il fondamento di

una vocazione e di una missione sacerdotale»238. A questo scopo diventa centrale la

preghiera familiare che, secondo l’Esortazione, ha due caratteristiche: è fatta in comune, ha

come contenuto originale la stessa vita di famiglia239 e si può esprimere in diversi modi240.

235 Familiaris consortio, 53: EV 6/1690-1692. 236 Ibidem, 54: EV 6/1694. 237 Familiaris consortio, 54: EV 6/1695. 238 Ibidem, 59: EV 6/1707. 239 Cfr. Ibidem, 59: EV 6/1708-1709. 240 Cfr. Ibidem, 61: EV 6/1712-1714.

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La preghiera ha come scopo principale introdurre i figli all’intimità con Cristo e alla liturgia

dell’intera Chiesa.

«In forza della loro dignità e missione, i genitori cristiani hanno il compito specifico di educare

i figli alla preghiera, di introdurli nella progressiva scoperta del mistero di Dio e nel colloquio

con lui»241.

«Ora una finalità importante della preghiera della Chiesa domestica è di costituire, per i figli,

la naturale introduzione alla preghiera liturgica propria dell’intera Chiesa, nel senso sia di

preparare ad essa, sia di estenderla nell’ambito della vita personale, familiare e sociale. Di qui

la necessità di una progressiva partecipazione di tutti i membri della famiglia cristiana

all’Eucaristia, soprattutto domenicale e festiva, e agli altri sacramenti, in particolare quelli

dell’iniziazione cristiana dei figli»242.

Il fatto che la Chiesa si preoccupi così tanto della famiglia mostra l’importanza che

essa ha all’interno non solo della Chiesa ma della società intera, è per questo che la

Familiaris consortio conclude con una esortazione a tutti gli uomini ad avere cura di essa.

«L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia!

E’, dunque, indispensabile ed urgente che ogni uomo di buona volontà si impegni a salvare ed

a promuovere i valori e le esigenze della famiglia»243.

3.3.3 Catechismo della Chiesa Cattolica244

Già nella prefazione il Catechismo presenta l’importanza della trasmissione della fede

ricevuta dagli apostoli e custodita fino ai nostri giorni in diversi modi.

241 Ibidem, 60: EV 6/1710. 242 Ibidem, 61: EV 6/1712. 243 Familiaris consortio, 86: EV 6/1805-1806. 244 CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, Libreria Editrice Vaticana (LEV), Città del Vaticano 19992.

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«Coloro che, con l’aiuto di Dio, hanno accolto l’invito di Cristo e vi hanno liberamente

risposto, a loro volta sono stati spinti dall’amore di Cristo ad annunziare ovunque nel mondo

la Buona Novella. Questo tesoro ricevuto dagli Apostoli è stato fedelmente custodito dai loro

successori. Tutti i credenti in Cristo sono chiamati a trasmetterlo di generazione in

generazione, annunziando la fede, vivendola nell’unione fraterna e celebrandola nella Liturgia

e nella preghiera»245.

I punti in cui il Catechismo evidenzia l’importanza della trasmissione della fede

nell’ambito familiare come responsabilità primariamente affidata ai genitori sono diversi.

In primo luogo vorrei evidenziare come il Catechismo, parlando della celebrazione del

mistero pasquale, presenta la domenica, “giorno del Signore”, come il giorno dell’assemblea

liturgica e quindi il giorno della famiglia cristiana in quanto Chiesa domestica246, secondo

quanto già detto commentando la Familiaris consortio.

I genitori, secondo il ruolo che Dio ha affidato loro, sono chiamati a portare i loro

bambini al battesimo affinché, rinascendo a vita nuova in Cristo, diventino figli di Dio.

Questo è il primo dovere del genitore cristiano.

«Poiché nascono con una natura umana decaduta e contaminata dal peccato originale, anche i

bambini hanno bisogno della nuova nascita nel Battesimo per essere liberati dal potere delle

tenebre e trasferiti nel regno della libertà dei figli di Dio, [cfr. Col 1,12-14] alla quale tutti gli

uomini sono chiamati. La pura gratuità della grazia della salvezza si manifesta in modo tutto

particolare nel Battesimo dei bambini. La Chiesa e i genitori priverebbero quindi il bambino

della grazia inestimabile di diventare figlio di Dio se non gli conferissero il Battesimo poco

dopo la nascita.

I genitori cristiani riconosceranno che questa pratica corrisponde pure al loro ruolo di

alimentare la vita che Dio ha loro affidato»247.

245 Ibidem 3. 246 Cfr. Ibidem 1193. 247 CCC 1250-1251.

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I genitori da quel momento in poi si occuperanno dello sviluppo della grazia

battesimale insieme al padrino o alla madrina che «devono essere credenti solidi, capaci e

pronti a sostenere nel cammino della vita cristiana il neo-battezzato, bambino o adulto»248.

Il Catechismo, riprendendo la Gaudium et spes e la Gravissimus educationis,

riconferma quanto il Concilio Vaticano II aveva detto riguardo all’educazione dei figli249.

E’ però evidente la difficoltà di trasmettere la fede nel contesto odierno, per questo è

sempre più importante la presenza di famiglie veramente cristiane che, come nella Chiesa

delle origini, siano «piccole isole di vita cristiana in un mondo incredulo»250.

«Ai nostri giorni, in un mondo spesso estraneo e persino ostile alla fede, le famiglie credenti

sono di fondamentale importanza, come focolari di fede viva e irradiante. E’ per questo motivo

che il Concilio Vaticano II, usando un'antica espressione, chiama la famiglia “Ecclesia

domestica” – Chiesa domestica»251.

La “Chiesa domestica”, alla quale il Catechismo dedica una parte, è la prima scuola di

vita cristiana, il luogo privilegiato dell’esercizio del sacerdozio battesimale di tutti i membri

della famiglia252.

«Il focolare cristiano è il luogo in cui i figli ricevono il primo annuncio della fede. Ecco perché

la casa familiare è chiamata a buon diritto “la Chiesa domestica”, comunità di grazia e di

preghiera, scuola delle virtù umane e della carità cristiana»253.

E’ poi la cellula originaria della vita sociale e, in quanto tale, i genitori hanno la

funzione educativa e il dovere di «considerare i figli come figli di Dio e rispettarli come

248 Ibidem 1255. 249 Cfr. Ibidem 1652-1653. Cfr. anche Gaudium et spes, 50 ; Gravissimus educationis, 3. 250 Ibidem 1655. 251 Ibidem 1656. Cfr. Lumen gentium, 11; Familiaris consortio, 21. 252 Cfr. CCC 1657. 253 Ibidem 1666.

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persone umane»254. Nell’educazione i genitori hanno una grandissima responsabilità in

quanto sono loro i primi che con la propria vita e con i propri insegnamenti devono formare

le coscienze dei figli affinché si conformino alla volontà di Dio.

«I genitori sono i primi responsabili dell’educazione dei loro figli. Testimoniano tale

responsabilità innanzitutto con la creazione di una famiglia, in cui la tenerezza, il perdono, il

rispetto, la fedeltà e il servizio disinteressato rappresentano la norma. Il focolare domestico è

un luogo particolarmente adatto per educare alle virtù. Questa educazione richiede che si

impari l’abnegazione, un retto modo di giudicare, la padronanza di sé, condizioni di ogni vera

libertà. I genitori insegneranno ai figli a subordinare “le dimensioni materiali e istintive a

quelle interiori e spirituali”. I genitori hanno anche la grave responsabilità di dare ai loro figli

buoni esempi. Riconoscendo con franchezza davanti ai figli le proprie mancanze, saranno

meglio in grado di guidarli e di correggerli»255.

Attraverso questa educazione i genitori saranno strumenti di Dio affinché i figli

imparino a discernere tra il bene e il male nella società odierna.

«Il focolare domestico costituisce l’ambito naturale per l’iniziazione dell’essere umano alla

solidarietà e alle responsabilità comunitarie. I genitori insegneranno ai figli a guardarsi dai

compromessi e dagli sbandamenti che minacciano le società umane».

In una famiglia cristiana i genitori non hanno solo il dovere di “educare” in maniera

generica i figli ma, in quanto sono cristiani, hanno la responsabilità e il privilegio di

evangelizzarli attraverso una iniziazione sin dalla nascita introducendoli alla vita della

Chiesa, portandoli in primo luogo al sacramento del battesimo e, poi, con la testimonianza

di vita cristiana e con la catechesi256.

254 Ibidem 2222. 255 Ibidem 2223. «Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta […] Chi corregge il proprio figlio ne trarrà

vantaggio» (Sir 30,1-2). «E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell'educazione e nella disciplina

del Signore» (Ef 6,4). 256 CCC 2225.

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«L’educazione alla fede da parte dei genitori deve incominciare fin dalla più tenera età dei

figli. Essa si realizza già allorché i membri della famiglia si aiutano a crescere nella fede

attraverso la testimonianza di una vita cristiana vissuta in conformità al Vangelo. La catechesi

familiare precede, accompagna e arricchisce le altre forme d’insegnamento della fede. I

genitori hanno la missione di insegnare ai figli a pregare e a scoprire la loro vocazione di figli

di Dio. La parrocchia è la comunità eucaristica e il cuore della vita liturgica delle famiglie

cristiane; è un luogo privilegiato della catechesi dei figli e dei genitori»257.

E’ presente anche qui il tema già trattato della preghiera familiare che il Catechismo

definisce come la prima testimonianza di Chiesa per i fanciulli:

«La famiglia cristiana è il primo luogo dell'educazione alla preghiera. Fondata sul sacramento

del Matrimonio, essa è “la Chiesa domestica” dove i figli di Dio imparano a pregare “come

Chiesa” e a perseverare nella preghiera. Per i fanciulli in particolare, la preghiera familiare

quotidiana è la prima testimonianza della memoria vivente della Chiesa pazientemente

risvegliata dallo Spirito Santo»258.

Con il Catechismo, la Chiesa ha realizzato un lavoro che rende più accessibile la sua

dottrina, sia per ciò che riguarda la fede che la morale «affinché tutti i fedeli meglio

aderiscano ad esso (il Concilio Vaticano II, n.d.r.) e ne promuovano la conoscenza e

l’applicazione»259.

257 Ibidem 2226. 258 Ibidem 2685. 259 GIOVANNO PAOLO II , Costituzione Apostolica Fidei depositum per la pubblicazione del Catechismo della

Chiesa Cattolica redatto dopo il Concilio Vaticano II (11 ottobre 1992), 1: EV 13/2051. Il Catechismo contiene

oltre 800 citazioni dei documenti del Concilio Vaticano II.

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3.3.4 Direttorio di pastorale familiare260

Un semplice accenno su quanto il Direttorio di pastorale familiare dice

sull’educazione dei figli. Questo tema viene trattato dal Direttorio all’interno del capitolo

VI riguardante “la missione della famiglia nella Chiesa e nella società”.

La famiglia partecipa alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù Cristo e

della Chiesa261. In quanto profetica, la famiglia ha la missione di essere evangelizzatrice. Il

primo luogo di evangelizzazione è l’interno stesso della famiglia, particolarmente nella

relazione che c’è tra i genitori e i figli. I genitori, «primi araldi della fede ed educazione dei

loro figli»262, hanno il compito di formare i loro figli come un dovere insito nello stesso

essere genitori.

«Tale ministero di evangelizzazione dei genitori cristiani non è altro che logica conseguenza

e naturale dimensione della nativa esigenza educativa iscritta nel loro essere genitori.

L’originario rapporto educativo che, in virtù della generazione, li lega ai figli esige, infatti, che

i genitori rispettino e promuovano pienamente l’identità personale, sociale ed ecclesiale dei

figli, in tale prospettiva la loro opera educativa ha come scopo irrinunciabile anche la

formazione di ogni figlio quale membro vivo e vitale della Chiesa di Cristo»263.

Il Direttorio, spesso riprendendo il Concilio, propone per i genitori diverse tappe e

forme del compito educativo a servizio della fede dei figli. In primo luogo, devono essere

loro i primi maestri nella fede, poi, devono accompagnarli «nel cammino di preparazione ai

sacramenti dell’iniziazione cristiana»264 attraverso la catechesi parrocchiale e le attività che

260 C.E.I., Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia. Annunciare, celebrare, servire il “Vangelo

della famiglia”, Fondazione di Religione “Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena”, Roma 1993. 261 Cfr. Direttorio, 137. 262 Direttorio, 143. Riprende Apostolicam actuositatem, 11. 263 Ibidem, 143. 264 Direttorio, 144.

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essa propone per i genitori ma, allo stesso tempo, non devono mai «delegare totalmente ad

altri (sacerdoti, religiosi o laici) il loro diritto-dovere anche di educarli nella fede»265. I

genitori sono anche chiamati a completare altre forme di catechesi, soprattutto con la

comunicazione nella fede, non solo come dialogo ma, specialmente vivendo secondo il

vangelo ogni giorno266.

Esprime anche l’importanza della presenza sia di segni messi in risalto nella casa sia

di gesti che aiutino i figli ad avere presente la fede.

«Condividano l’importanza e ritrovino la semplicità di alcuni segni visibili da mettere in risalto

nella casa (dal crocifisso a un quadro religioso, dal libro della sacra Scrittura al segno che

ricorda il battesimo...) e di alcuni gesti concreti da vivere con gioiosa e intelligente fedeltà (dal

segno di croce, alla preghiera prima e dopo i pasti, ad alcune espressioni di attenzione, di

carità, di aiuto e di festa che le varie tradizioni locali e familiari sanno indicare e

suggerire...)»267.

In fine sono responsabili di creare le premesse per una scelta vocazionale matura e

responsabile attraverso l’ascolto della parola, la preghiera, la carità, una retta condotta e una

generosa partecipazione alla vita della Chiesa268.

Il Direttorio evidenzia con forza l’importanza della preghiera in famiglia fatta in

comune come nutrimento della comunione con Cristo.

«Tale preghiera in famiglia è intrinseca esigenza che scaturisce dalla natura della famiglia

stessa quale “Chiesa domestica”; è impegno derivante dal sacramento del matrimonio, che

chiama i coniugi a esercitare il loro sacerdozio battesimale anche attraverso la celebrazione

della liturgia familiare della preghiera e l’educazione dei figli a parteciparvi consapevolmente

e liberamente con devozione; è espressione e alimento di quell’intima comunione di vita e di

265 Ivi. 266 Cfr. Ivi. 267 Ivi. 268 Ivi.

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amore che definisce l’alleanza coniugale e informa e anima la comunità familiare. La preghiera

familiare, inoltre, è aiuto e forza perché ciascuno, secondo la propria vocazione, possa

sviluppare le intrinseche virtualità di grazia e le radicali esigenze di crescita che gli sono

affidate; è, infine, invito e sprone continuo per ogni famiglia all’impegno nelle diverse forme

di evangelizzazione e di promozione umana»269.

Per questo diventa fondamentale, in quanto cardine della vita del cristiano,

l’educazione dei figli alla preghiera spontanea secondo le circostanze.

«In forza della loro dignità e missione, i genitori cristiani assumano e vivano con gioia la loro

responsabilità di educare i figli alla preghiera. A tal fine coltivino nelle loro case quegli

atteggiamenti di ammirazione, stupore, lode, ringraziamento, supplica, intercessione, ascolto,

richiesta di perdono e offerta, che sono alla base di ogni preghiera. Sappiano creare in seno

alla famiglia un’atmosfera vivificata dall’amore e dalla pietà verso Dio e verso il prossimo,

promuovano l’ascolto docile della Parola di Dio e la capacità di discernere la voce dello Spirito

anche attraverso un’attenta lettura dei segni dei tempi, così da aiutare i figli a rimanere aperti

alla volontà del Padre e ad accogliere i suoi doni e la sua chiamata. Insegnino ai figli non solo

la preghiera che si esprime nelle formule consacrate dall’approvazione della Chiesa e dalla

tradizione, ma anche quella libera da formule, come il cuore la detta nelle diverse circostanze;

soprattutto insegnino a pregare con l’esempio»270.

269 Direttorio, 149. 270 Ibidem, 151.

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CONCLUSIONE

Nel concludere la ricerca desidero mettere in luce alcuni elementi significativi.

Una prima considerazione che mi ha molto colpito mentre preparavo il materiale è la

gran quantità di documenti che la Chiesa dedica alla famiglia. Questo fatto ci fa vedere

l’amore che Essa ha per la famiglia e la preoccupazione che mostra affinché ogni famiglia

diventi una Chiesa domestica, curando in primo luogo la formazione alla fede degli stessi

genitori. E’ stato possibile percepire, in modo singolare, che, la Chiesa domestica possiede

l’unico e insostituibile ministero di evangelizzazione: il ministero coniugale-familiare.

Questo ministero è esercitato, principalmente, nella forma specifica dell’amore e della vita.

La seconda osservazione riguarda l’importanza della stretta relazione che esiste tra il

popolo ebreo e i cristiani nel trasmettere la fede ai figli. Secondo me possiamo riassumere

questa realtà con la parola we¬inn¦nt¹m, cioè “le ripeterai continuamente”, “giorno dopo

giorno”. Questo termine sintetizza il modo in cui ebrei e cristiani dovrebbero trasmettere la

fede ai figli. Non parliamo soltanto di una ripetizione di parole ma anche di fatti, di

atteggiamenti, di testimonianza di vita. Quest’ultima è stata essenziale per la trasmissione

della fede lungo la storia della Chiesa. E’ ovvio che la Chiesa come “istituzione” ha avuto,

e continua ad avere, un ruolo fondamentale, anzi unico e insostituibile, ma la famiglia

cristiana, in quanto cellula originaria della società, è il luogo privilegiato della nascita dei

figli alla fede, la “palestra” dove i futuri testimoni vengono “allenati” al duro combattimento

della vita cristiana.

Lo stesso Gesù Cristo ha voluto incarnarsi all’interno della “Sacra Famiglia”, modello

della Chiesa domestica. Il Verbo scelse per sé la famiglia umana affinché fosse l’esempio

per tutte le famiglie e addirittura per tutta intera l’umanità e per la Chiesa. La Santa Famiglia

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di Nazaret, progettata come Regno di Dio, è santa di fatto perché è presente Cristo, Dio fatto

carne. Fu Lui che, nonostante fosse Dio, obbedì in tutto ai suoi genitori nel nascondimento

e per questo “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di Lui”

(Lc 2,40; cfr. Lc 2,52). Tale vita nascosta con i suoi genitori “umani”, costituisce un mistero

insondabile per tutti i cristiani. E’ una vita segnata non dalla spettacolarità degli atti ma dalla

straordinarietà dell’amore col quale si fanno le cose comuni. Ogni famiglia può essere una

santa famiglia. In questo senso ogni famiglia è Chiesa: chiesa domestica perché iscritta nelle

relazioni familiari.

La Santa Famiglia è indispensabile punto di riferimento di qualsiasi famiglia che

pretenda essere cristiana, non solo perché di essa ne è il modello, ma anche efficace

protezione del cielo:

«Desidero invocare la protezione della santa famiglia di Nazaret. Per misterioso disegno di

Dio, in essa è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: esse è dunque prototipo ed

esempio di tutte le famiglie cristiane»271.

Vorrei concludere rimarcando il fatto che il problema della famiglia non è secondario,

è una questione vitale per la Chiesa. Provvidenzialmente, Colui che conosce la storia e anche

la Chiesa suscita i mezzi affinché Essa sia capace di trasmettere la fede alle prossime

generazioni. Sono convinto che la reale battaglia che la Chiesa è chiamata a fronteggiare nel

Terzo Millennio, la sfida che dobbiamo raccogliere, nella quale si gioca il nostro futuro, è

quella della famiglia.

271 Familiaris consortio, 63; cfr. Lumen gentium, 59 e 68.

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«Il deposito è affidato a una Chiesa che vive “storicamente” la storia della salvezza. Esso

ammette una specie di attività “midrashica” di attualizzazione e, in questo senso, anche di

completamento: conservarlo “con l’aiuto dello Spirito Santo” significa viverne»272.

272 Cfr. Y. CONGAR, La Tradizione e le tradizioni, Paoline, Roma 1961, pp. 46-49.

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APPENDICE

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

AI PARTECIPANTI ALLA XII ASSEMBLEA PLENARIA

DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA

29 Settembre 1995

Signori Cardinali,

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Sono lieto di rivolgermi a voi, in occasione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio

Consiglio per la Famiglia. Porgo a tutti il mio cordiale saluto, a cominciare dal Signor

Cardinale Alfonso López Trujillo, Presidente del Dicastero, e Mons. Elio Sgreccia, suo

Segretario. Questo incontro giunge mentre è ancora molto viva in noi la grande esperienza

di preghiera, di riflessione, di condivisione dell’Anno della Famiglia. Desidero esprimervi

apprezzamento e riconoscenza per il contributo da voi offerto in tale circostanza, in

particolare per l’impegno con cui avete fatto conoscere e continuate a diffondere la Lettera

alle Famiglie.

Il tema del presente incontro, “La trasmissione della fede nella famiglia”, si impone

all’attenzione della Comunità ecclesiale in modo rilevante ed urgente. La Chiesa infatti si

trova oggi a confronto con società sempre più secolarizzate e complesse, non più strutturate

sui valori religiosi ed anzi segnate, specialmente in alcune nazioni, da spiccato

indifferentismo. Ciò non favorisce, certo, una efficace proposta di fede alle nuove

generazioni ed ostacola, anzi, la stessa conquista, da parte loro, di un autentico senso della

vita.

Accade così che, anche nelle famiglie in cui i genitori professano e vivono la fede cristiana,

gli adolescenti si sentono sollecitati dall’ambiente, dalla scuola, dai mezzi di comunicazione,

verso prospettive di vita diverse da quelle loro proposte in famiglia. Questo rende difficile

la trasmissione della fede e lo stesso dialogo intergenerazionale, anche quando i giovani, per

mancanza di lavoro, sono costretti a prolungare la loro dipendenza dai genitori.

2. Le famiglie, d’altro canto, si trovano messe alla prova nella loro capacità educativa. Là

dove la comunità familiare subisce il trauma della separazione e del divorzio, la concezione

stessa del matrimonio e della famiglia perde l’essenziale connotazione umana e spirituale

della comunione indissolubile tra le persone. Le condizioni di lavoro, inoltre, fanno sì che

l’incontro educativo dei genitori con i figli si riduca spesso alle ore serali o venga a mancare

del tutto. Di conseguenza, l’educazione religiosa è non di rado delegata alla parrocchia ed

alle associazioni. Non mancano, tuttavia, famiglie che, nel rispetto delle caratteristiche

personali di ciascuno, camminano unite nella fede, realizzando un’esperienza di crescita

insieme nella vita cristiana. Né voglio dimenticare i coniugi abbandonati, che con non piccoli

sacrifici si sforzano di offrire ai figli, pur nella difficile situazione creatasi, una educazione

veramente cristiana. Ad essi va una speciale parola di incoraggiamento.

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Porre l’accento sulla trasmissione della fede nelle famiglie vuol dire promuovere in esse una

solida esperienza religiosa e difendere così genitori, figli ed anziani dal pericolo

dell’indifferenza e della dispersione. È questa la premessa per la trasmissione di una fede

genuina e forte, alimentata dalla Parola di Dio, celebrata nei Sacramenti, vissuta nella

testimonianza.

È proprio in questa prospettiva che, nell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, ho

rilevato che “tra i compiti fondamentali della famiglia cristiana si pone il compito ecclesiale:

essa, cioè, è posta al servizio dell’edificazione del Regno di Dio nella storia, mediante la

partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa” (Familiaris Consortio, 49). Se dunque

è vero che “è anzitutto la Chiesa Madre che genera, educa, edifica la famiglia cristiana”, è

altrettanto vero che “la famiglia cristiana è inserita a tal punto nel mistero della Chiesa da

diventare partecipe, a suo modo, della missione di salvezza propria di questa” (Familiaris

Consortio, 49).

3. Carissimi Fratelli e Sorelle! La vostra riflessione di questi giorni si propone di precisare

il modo proprio e originale con cui la famiglia è chiamata a prendere parte attiva e

responsabile alla missione della Chiesa nella trasmissione della fede. Questa missione in se

stessa è unica, ma si diversifica in compiti e modalità proprie, secondo le diverse vocazioni.

Essa investe in modo speciale i pastori, eletti a pascere il gregge del Signore come ministri

e dispensatori dei misteri di Dio (cf. 1 Cor 4,1) e ad esserne custodi e garanti in comunione

fra loro e col Successore di Pietro.

Anche la famiglia cristiana ha, al riguardo, un suo compito specifico. In forza della sua

particolare vocazione e missione, essa è chiamata a trasmettere la fede in modo proprio e

originale, complementare a quello dei pastori. Là dove viene meno questa funzione propria

del nucleo familiare, la stessa missione evangelizzatrice della Chiesa viene a mancare di una

componente insostituibile. L’“intima comunità di vita e di amore” (Familiaris Consortio,

50), che è il contesto proprio della famiglia, si radica nella presenza santificatrice di Cristo,

che, riconosciuta, accolta e celebrata nella preghiera e nei sacramenti, diventa nutrimento

spirituale, vincolo di unità e annuncio di verità. In questo modo la fede viene vissuta e

trasmessa in forma comunitaria: “Partecipe della vita e della missione della Chiesa, la

famiglia cristiana vive il suo compito profetico accogliendo e annunciando la Parola di Dio:

diventa così, ogni giorno di più, comunità credente ed evangelizzante” (Familiaris

Consortio, 51).

4. La trasmissione della fede nella famiglia presuppone nei suoi componenti una vita

cristiana intensa, che si traduce in testimonianza quotidiana, fatta di atteggiamenti concreti

e ordinari, di attenzione all’altro ed alla comunità domestica nel suo insieme.

Pertanto, la vita spirituale della famiglia ha bisogno di essere sostenuta con mezzi specifici

e modalità peculiari: anzitutto il contatto costante con la comunità cristiana, con la

parrocchia e con i momenti che essa offre per l’alimentazione della fede. Da sottolineare, in

particolare, è l’importanza della santificazione della Domenica: in essa i membri della

famiglia possono insieme rinnovarsi alle fonti della Parola e dei Sacramenti. La famiglia

infatti, pur essendo Chiesa, non è autosufficiente quanto ai mezzi della salvezza.

“L’Eucaristia – ho scritto nella Lettera alle Famiglie – è sacramento veramente mirabile...

Essa è per voi, cari sposi, genitori e famiglie!” (Lettera alle Famiglie, 18). Le varie forme di

catechesi parrocchiale o di partecipazione ai movimenti di spiritualità sono, poi, necessarie

non soltanto per i bambini e i giovani, ma anzitutto per i coniugi.

È importante, inoltre, che anche tra le pareti domestiche si vivano significativi momenti di

fede. “Lo sposo – Cristo – è con voi”, scrivevo ai coniugi nella stessa Lettera (Lettera alle

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Famiglie, 18). A partire da questa certezza, la famiglia cristiana sa creare momenti semplici

ma intensi: meditare insieme una pagina della Scrittura, leggere un Salmo, recitare il Rosario

meditando i misteri del Signore e della Santa Famiglia. La santificazione del lavoro,

domestico ed esterno, trova sostegno interiore in queste soste preziose, che culminano

nell’offerta spirituale della Messa domenicale.

5. Vi sono anche occasioni speciali che impegnano la fede della famiglia: la nascita di un

figlio, il Battesimo e gli altri Sacramenti dell’iniziazione cristiana, che coinvolgono i genitori

nella preparazione. E che dire dei momenti di prova, di tentazione, di dolore? Affrontare le

situazioni difficili fortifica la fede delle famiglie, se queste incontrano la luce della Parola di

Dio e la solidarietà dei fratelli.

Molte sono le circostanze che possono stimolare la vita cristiana della famiglia: accogliere

un povero, soccorrere un vicino di casa, ospitare un pellegrino. La pratica delle opere di

misericordia trova nella famiglia l’ambiente ideale: è così che il “vangelo della vita” ha il

suo primo spazio di annuncio, di celebrazione e di servizio. Occorre aiutare le famiglie a

maturare la loro fede e a tradurla nella vita. È da incoraggiare l’iniziativa di alcune

Conferenze Episcopali di predisporre opportuni sussidi per la preghiera e per la meditazione

della Parola di Dio con suggerimenti spirituali per le varie circostanze familiari.

6. Non si dovrà inoltre trascurare di formare le coscienze ad assumere criteri di fede di fronte

alle sfide culturali e sociali. Ciò è necessario soprattutto nei riguardi dei fanciulli e degli

adolescenti, che inserendosi nella società e fruendo dei mezzi di comunicazione sono posti

a contatto anche con modelli di pensiero e di comportamento differenti da quelli ispirati alla

fede cristiana. È nel periodo dell’adolescenza che spesso si interrompe la trasmissione della

fede. Non di rado ciò avviene in situazioni in cui manca il dialogo con i genitori e il confronto

con la fede degli adulti. Il sorgere della coscienza critica e del senso della personalità

nell’adolescente, se accompagnato da autentiche testimonianze di fede, non lo porterà allo

smarrimento ma, al contrario, all’elaborazione di un adeguato progetto di vita.

Alla luce di queste riflessioni, emerge con chiarezza l’esigenza di formare famiglie

veramente cristiane attraverso validi itinerari di preparazione dei fidanzati. So che il

Pontificio Consiglio ha posto all’attenzione delle Conferenze Episcopali questo problema.

Auspico che tali itinerari possano aiutare le nuove famiglie ad assumere con gioia e con

fiducia la responsabilità di trasmettere la vita, per cooperare a tenere accesa nel mondo la

fiamma della fede e della speranza.

Mi piace, carissimi, concludere rivolgendo il pensiero alla nuova generazione di famiglie,

che varcherà la soglia del terzo millennio cristiano. Nell’affidare alla Madonna il lavoro che

in loro favore va compiendo codesto Pontificio Consiglio, imparto con vivo affetto a

ciascuno di voi ed a quanti con voi condividono un così prezioso servizio ecclesiale una

speciale Benedizione Apostolica.

Castel Gandolfo, 29 Settembre 1995.

IOANNES PAULUS PP. II

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