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PERIODICO QUADRIMESTRALE DELL’UCIDUNIONE CRISTIANA IMPRENDITORI DIRIGENTI

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pag.UCIDLETTER N. 2/2017

INDICE

Prefazioni

Cardinale Salvatore De Giorgi 4

Dott. Giancarlo Abete 6

Introduzione

Dott. Giovanni Scanagatta 8

Lo scenario

Il disegno storico e ideale dell’Europa Intervista a Benedetto XVI (26 novembre 2009) 10

Contributi di amici dell’UCID 4

Prof. Antonio Marzano 13

Prof. Adriano Giannola 17

On. Santo Versace 21

Dott. Giorgio Anselmi 23

Dott. Pier Virgilio Dastoli 25

Contributi di soci dell’ UCID

Dott. Antonio Bertani 28

Dott. Piergiorgio Marino 32

Dott. Attilio Pasetto 37

Sen. Riccardo Pedrizzi 40

Dott. Giovanni Scanagatta 44

I problemi dell’Euro (tratto da una Lectio Magistralis del Dott. Antonio Fazio, 2015) 50

Atti del Convegno sul nuovo ordine economico mondiale e l’Europa (a cura del Dott. Marcello Carli e del Dott. Giovanni Scanagatta, Trento, 5 novembre 2016) 56

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PrefazioniCardinale Salvatore De GiorgiConsulente Ecclesiastico UCID Nazionale

Abbiamo celebrato il 31 gennaio scorso i 70 anni dalla nascita dell’UCID, avvenuta a Mila-no nel 1947. I Trattati di Roma sono stati firmati a Roma dai sei paesi aderenti il 25 marzo 1957. Una distanza di 10 anni che testimonia che dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un fiorire di istituzioni e accordi per la rinascita dell’Eu-ropa dopo le grandi distruzioni fisiche e morali provocate dalla seconda guerra mondiale.

Nello scenario del numero speciale di UCID Letter per l’anniversario dei 60 anni dei Trattati di Roma, si è riportata l’illuminata intervista a Benedetto XVI del 26 settembre 2009 sull’Eu-ropa scristianizzata e sulla necessità di puntare sulle minoranze creative per la sua rinascita.

Stiamo purtroppo vedendo che un’Europa sen-za valori non ha futuro. E questo crea grande insicurezza, soprattutto per i nostri giovani che sono la speranza di un mondo migliore.

Dobbiamo trarre ispirazione dai Patroni d’Eu-ropa: S. Benedetto da Norcia e Santa Caterina da Siena.

La straordinaria diffusione del monachesimo benedettino nei secoli cruciali della storia euro-pea, porta Paolo VI a definire S. Benedetto «Pa-dre dell’Europa», in occasione della ricostruita Basilica di Montecassino (24 ottobre 1964). Il documento pontificio emanato in quella circo-stanza giustifica così la scelta di San Benedetto: « Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà, e soprattutto araldo della

religione di Cristo e ordinatore della vita mo-nastica in Occidente: questi i giusti titoli della esaltazione di san Benedetto abate. Al crollare dell’Impero Romano, ormai esausto, mentre al-cune regioni d’Europa sembravano cadere nelle tenebre ed altre erano ancora prive di civiltà e di valori spirituali, fu lui con costante ed assiduo impegno a far nascere in questo nostro conti-nente l’aurora di una nuova era. Principalmente lui e i suoi figli portarono con la croce, con il libro e con l’aratro il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scan-dinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia» (Breve Pacis nuntius di Paolo VI).

La Regola di San Benetto “Ora et Labora” può costituire il Manifesto europeo degli impren-ditori e dei dirigenti cristiani dell’UCID che hanno la vocazione dello sviluppo per la costru-zione del bene comune. L’Ora porta alla dimen-sione spirituale e teologica della Dottrina So-ciale della Chiesa, mentre il Labora rappresenta la dimensione orizzontale per il discernimento morale ed etico degli atti umani.

L’Europa per rinascere ha bisogno di una fu-sione della cultura del lavoro con la cultura dell’impresa, animate dalla preghiera. Il lavoro è preghiera e la preghiera santifica il lavoro. Ce lo ha insegnato il grande Maestro della Dottrina Sociale della Chiesa Giovanni Paolo II che nel-la Laborem exercens del 1981 parla di lavoro in senso soggettivo perchè è la persona uma-na al centro di ogni processo di sviluppo, con i suoi valori di libertà, responsabilità, dignità, creatività.

Papa Francesco nella Evangelii gaudium affer-ma che il lavoro dell’imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci illuminare da una visione più ampia della vita e dei suoi valori.

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L’imprenditore è colui che moltiplica i talenti ricevuti rischiando e facendosi illuminare dal-la fede e dalla speranza. La ricchezza creata dall’impresa dovrebbe essere distribuita secon-do principi di equità e di giustizia per la costru-zione del bene comune, che è bene di tutti e di ciascuno, senza escludere nessuno perchè tutti gli uomini sono fatti ad immagine e somiglian-za di Dio.

Parole illuminanti per il nostro cammino di eu-ropei ci ha offerto Papa Francesco nel discorso che ha pronunciato a Strasburgo davanti al Par-lamento europeo alla fine del 2014. “Un’Europa

che non è più capace di aprirsi alla dimensio-ne trascendente della vita rischia di perdere la propria anima e anche quello spirito umanistico che pure ama e difende”.

I cittadini europei devono raccogliere tutte le loro forze per la ricostruzione di un’ Europa dei valori, con l’impegno particolare degli impren-ditori di essere “minoranze creative” cristiane per il bene comune. Solo così l’Europa potrà ritornare a essere nel mondo protagonista nella costruzione delle direttrici fondamentali della storia.

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Dott. Giancarlo AbetePresidente UCID Nazionale

Con questo numero speciale di UCID Letter la nostra associazione intende ritornare ad essere presente con discussioni e proposte nella vita economica e civile dell’Italia e dell’Europa, come avveniva nei primi anni di vita dell’U-CID.

L’anniversario dei 60 anni è una tappa impor-tante della costruzione europea, ma la data cade in un periodo di difficoltà dell’Unione Europea, sia per cause interne che per cause internazio-nali.

Stiamo uscendo con difficoltà dalla lunga crisi che è iniziata nel 2007/2008 e ora ci troviamo di fronte ad una svolta per la vita dell’Unione Eu-ropea. Siamo convinti che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di un’Europa diversa. Un’Europa dei cittadini e dei valori, e non delle burocrazie, che ci leghino insieme, facendo leva sulla no-stra identità cristiana. Per il suo futuro l’Europa deve guardare più ad Est di quanto non abbia fatto finora, perchè la cultura del cristianesimo si estende fino ai confini dell’Asia. E’ l’Est eu-ropeo che costituisce il vero ponte tra l’’Europa e l’Asia: la famosa via della seta.

Per una Europa diversa, gli imprenditori cristia-ni devono diventare protagonisti di una nuova stagione di sviluppo per il bene comune. Sono pertanto fondamentali le “buone pratiche”, per-chè le testimonianze sono molto più importanti di qualsiasi bel discorso. Guardando alla nostra realtà dell’UCID abbiamo imprese, grandi, me-die e piccole, nelle quali sono molto diffuse le

varie forme di welfare aziendale sussidiario e la contrattazione a livello aziendale. La tendenza è di non vedere più l’impresa come una con-troparte a cui strappare le migliori condizioni contrattuali, ma un soggetto con cui collaborare per lo sviluppo e la sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo. Come dice Giovanni Paolo II nella Centesimus annus del 1991, l’impresa è sempre più una comunità di persone in cui l’imprenditore esercita la sua autorità non come potere ma come servizio per lo sviluppo e la co-struzione del bene comune.

Lo Stato non è l’unico costruttore di bene co-mune (Welfare State), ma lo sono anche, e sempre di più, la famiglia, l’impresa, gli enti intermedi e molti altri soggetti che operano nella società civile (Welfare Society). Quindi, come ci dice Giovanni Paolo II, il nostro futuro dipende da tre pilastri: lo Stato, il mercato, la comunità civile. Giovanni Paolo II nella Cen-tesimus annus e Benedetto XVI nella Caritas in veritate parlano del ruolo strategico dell’im-presa e dell’imprenditore per lo sviluppo e la costruzione del bene comune. Il giusto profitto, non la massimizzazione dei profitti, è un impor-tante strumento per sostenere l’accumulazione, lo sviluppo, l’occupazione e il bene comune, che è l’obiettivo finale della Dottrina Sociale della Chiesa. In questo modo il profitto assume natura etica.

Per un nuovo modello di sviluppo dobbiamo ripartire dal basso, facendo leva sul grande pa-trimonio delle nostre piccole e medie imprese, e sulle specificità e le vocazioni dei territori. Abbiamo delle medie imprese eccellenti, molto internazionalizzate che possono fare da traino a tutto il nostro grande sistema delle piccole im-prese e delle imprese artigiane. La tecnologia favorisce tutto questo, potendo puntare sul mo-

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dello “piccole imprese grandi reti”.

Siamo entrati nella quarta rivoluzione industria-le, con effetti profondissimi sia per la vecchia economia che per quella nuova e per il mercato del lavoro. Per superare queste grandi sfide che ci aspettano nei prossimi 20 anni, dobbiamo pri-ma di tutto puntare su un adeguata formazione a tutti i livelli del capitale umano, eliminando le attuali asimmetrie che esistono sul mercato del lavoro, in termini di struttura e qualità della domanda e dell’ offerta.

Come afferma Papa Francesco, dobbiamo im-pegnarci per superare le grandi iniquità e disu-guaglianze che abbiamo davanti ai nostri occhi,

accrescendo lo spirito di solidarietà, ma senza dimenticare il ruolo fondamentale che ha la sussidiarietà per un durevole modello di svilup-po. L’impresa può costituire una grande via per l’integrazione, di fronte ai fenomeni migratori a cui stiamo assistendo.

L’impresa crea e distribuisce ricchezza grazie al ruolo fondamentale dell’imprenditore inno-vatore, che è colui che crea portando avanti il grande disegno di Dio. La ricchezza aumenta non difendendola ma diffondendola, secondo principi di giustizia. Quella giustiza che cre-scendo diventa carità.

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IntroduzioneDott. Giovanni ScanagattaSegretario Generale UCID Nazionale

Assieme all’amico Piergiorgio Marino ci è venuta l’idea di preparare una testimonianza dell’UCID per l’anniversario dei Trattati di Roma del 25 marzo 2017.

Come è noto, i Paesi che hanno fondato a Roma la Comunità Europea il 25 marzo 1957 sono sei: Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio, Lus-semburgo. Un nucleo di Paesi piuttosto omo-geneo in termini di indicatori economici, ma anche sociali, storici e religiosi.

All’Unione Europea aderiscono attualmente 27 Paesi, dopo l’uscita del Regno Unito. Si è assistito ad una stratificazione successiva, con Paesi che hanno aderito all’Unione Europea in fasi diverse, con forti differenze in termini di indicatori economici, finanziari e sociali. La moneta unica a circolazione effettiva che poi è nata, l’euro, non può certo definirsi perno di un’area monetaria ottimale, come dicono gli economisti.

La situazione in cui ci troviamo oggi, certamen-te di una certa gravità, ci porta a dire che la tesi “funzionalista” non ha avuto buona sorte: prima l’economia e poi la politica e i cittadini. L’Eu-ropa della moneta e delle banche ci ha portato in un vicolo cieco da cui ora dobbiamo uscire.

Forse per questo dobbiamo tornare alle origini, ripartendo dal nucleo storico costitutivo dei sei Paesi. Gli altri Paesi potrebbero aggregarsi per cerchi concentrici attorno al nucleo centrale, con vincoli via via meno stringenti.

Il nucleo centrale, oltre ad avere una moneta

comune, dovrebbe avere una politica monetaria e una politica fiscale comuni. Lo stesso nucleo dovrebbe costituire il grande propulsore degli investimenti, sia materiali che immateriali di rete, facendo da locomotiva e forza integratrice di tutti gli altri Paesi che fanno parte dell’Unio-ne. Nel contempo, dovrebbero essere rafforzati gli organi politici del nucleo centrale, con un bilancio che dovrebbe rappresentare una quo-ta significativa del reddito complessivo dei sei Paesi.

Di tutto questo si ragiona nei contributi con-tenuti nel presente numero speciale di UCID Letter dedicato all’anniversario dei 60 anni dei Trattati di Roma. Con questa iniziativa, l’UCID vuole ritornare ad essere propositiva sui diversi temi economici e sociali, interni e internazio-nali, alla luce dei grandi principi della Dottrina Sociale della Chiesa.

Come dice Benedetto XVI, i cristiani devono costituire la minoranza creativa per la rinascita dell’Europa, partendo dai valori e dallo svilup-po integrale della persona umana. E’ un nuovo umanesimo che deve animare la ricerca di un nuovo ordine economico e sociale europeo.

Solo così l’Europa potrà ritornare ad essere protagonista rispetto alle grandi direttici della storia. In questo senso, ci piace ricordare il pen-siero di Keynes che leggiamo nella profetica monografia del 1919 sulle conseguenze eco-nomiche della pace, all’indomani della prima guerra mondiale. “Il rovinoso dissesto dell’Eu-ropa, se non vi poniamo un freno, a lungo anda-re colpirà tutti; ma forse non subito e in modo traumatico. E questo ci offre una felice possibi-lità. Forse abbiamo ancora il tempo di riconsi-derare la nostra condotta e di vedere il mondo con occhi nuovi”.

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Dobbiamo superare la sindrome di Clemenceau per aprire cieli nuovi e terre nuove in Europa. Come afferma Keynes nella citata monografia “Clemenceau vede le cose in termini di Francia e Germania, non di umanità e di civiltà europea in cerca di un nuovo ordine”.

Papa Francesco, in occasione del conferimento a Roma del Premio Carlo Magno il 6 maggio 2016, davanti ai vertici dell’Unione Europea, ha affermato che sogna “un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia”; “un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’one-stà”; “un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate più sui volti che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni”.

Sono questi i sogni che hanno animato e rea-lizzato i padri fondatori dell’Europa, che erano dei grandi cristiani con una memoria e un’iden-tità. Sta a noi riprendere la strada che ci hanno indicato per una ricostruzione dell’Europa dei cittadini, per lo sviluppo umano integrale e il bene comune.

I contributi qui raccolti sono organizzati in tre parti, con una premessa di Benedetto XVI sulla necessità di trovare nuovi modelli di sviluppo per una economia responsabile, sia nei singoli paesi che nelle comunità come l’Unione Euro-pea. E’ la grande sfida che abbiamo davanti a noi: l’etica come principio interiore dell’econo-mia per la costruzione del bene comune.

La prima parte contiene i contributi di amici dell’UCID sull’esperienza della Comunità Eco-nomica Europea, dell’Unione Europea e sulla loro visione del futuro dell’Europa. La secon-da parte raccoglie contributi di soci dell’UCID sull’Europa, con una presentazione in ordine alfabetico. La terza parte riporta una Lectio Ma-gistralis del Dott. Antonio Fazio del 2015 sui problemi dell’Euro e gli atti di un Convegno che si è svolto a Trento il 5 novembre 2016 sulla ricerca di un nuovo ordine economico mondiale e sugli spazi per un nuovo umanesimo.

Un vivo ringraziamento a tutti gli amici che hanno collaborato a questa iniziativa dell’UCID per una nuova Europa.

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Lo scenarioIl disegno storico e ideale dell’Europa

Intervista a Benedetto XVI(26 novembre 2009)

D. – Santità, come lei ha detto all’Angelus di domenica scorsa, la Repubblica Ceca si trova non solo geograficamente, ma anche storica-mente nel cuore dell’Europa. Vuole spiegarci meglio questo “storicamente” e dirci come e perché pensa che questa visita possa essere si-gnificativa per il continente nel suo insieme, nel suo cammino culturale, spirituale ed eventual-mente anche politico, di costruzione dell’Unio-ne Europea?

R. – In tutti i secoli, la Repubblica Ceca, il ter-ritorio della Repubblica Ceca è stato luogo di incontro di culture. Cominciamo nel IX seco-lo: da una parte, in Moravia, abbiamo la gran-de missione dei fratelli Cirillo e Metodio, che da Bisanzio portano la cultura bizantina, ma creano una cultura slava, con i caratteri cirilli-ci e con una liturgia in lingua slava; dall’altra parte, in Boemia, sono le diocesi confinanti di Regensburg e Passau che portano il Vangelo in lingua latina, e, nella connessione con la cultura romano-latina, si incontrano così le due culture. Ogni incontro è difficile, ma anche fecondo. Si potrebbe facilmente mostrare con questo esem-pio.

Faccio un grande salto: nel XIII secolo è Carlo IV che crea qui, a Praga, la prima uni-versità nel Centro Europa. L’università di per sé è un luogo di incontro di culture; in que-sto caso, diventa inoltre un luogo di incon-tro tra cultura slava e germanofona. Come nel secolo e nei tempi della Riforma, proprio in questo territorio gli incontri e gli scon-

tri diventano decisi e forti, lo sappiamo tutti. Faccio ora un salto al nostro presente: nel secolo scorso, la Repubblica Ceca ha sofferto sotto una dittatura comunista particolarmente rigorosa, ma ha anche avuto una resistenza sia cattolica, sia laica di grandissimo livello. Penso ai testi di Václav Havel, del cardinale Vlk, a personalità come il cardinale Tomášek, che realmente han-no dato all’Europa un messaggio di che cosa sia la libertà e di come dobbiamo vivere e lavorare nella libertà. E penso che da questo incontro di culture nei secoli, e proprio da questa ultima fase di riflessione, non solo, di sofferenza per un concetto nuovo di libertà e di società libera, escano per noi tanti messaggi importanti, che possono e devono essere fecondi per la costru-zione dell’Europa. Dobbiamo essere molto attenti proprio al messaggio di questo Paese. D. – Siamo a vent’anni dalla caduta dei re-gimi comunisti nell’Est europeo; Giovanni Paolo II, visitando diversi paesi reduci dal comunismo, li incoraggiava ad usare con responsabilità la libertà recuperata. Qual è oggi il suo messaggio per i popoli dell’Eu-ropa orientale in questa nuova fase storica? R. – Come ho detto, questi paesi hanno sofferto particolarmente sotto la dittatura, ma nella sof-ferenza sono anche maturati concetti di libertà che sono attuali e che adesso devono essere an-cora ulteriormente elaborati e realizzati. Penso, per esempio, ad un testo di Václav Havel che dice: “La dittatura è basata sulla menzogna e se la menzogna andasse superata, se nessuno mentisse più e se venisse alla luce la verità, ci sarebbe anche la libertà”. E così ha elaborato questo nesso tra verità e libertà, dove libertà non è libertinismo, arbitrarietà, ma è connessa e condizionata dai grandi valori della verità e

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dell’amore e della solidarietà e del bene in ge-nerale.

Così, penso che questi concetti, queste idee maturate nel tempo della dittatura non debbano andare persi: ora dobbiamo proprio ritornare ad essi! E nella libertà spesso un po’ vuota e senza valori, di nuovo riconoscere che libertà e valori, libertà e bene, libertà e verità vanno insieme: al-trimenti si distrugge anche la libertà. Questo mi sembra il messaggio che viene da questi paesi e che dev’essere attualizzato in questo momento.

D. – Santità, la Repubblica Ceca è un pa-ese molto secolarizzato in cui la Chie-sa cattolica è una minoranza. In tale si-tuazione, come può contribuire la Chiesa effettivamente al bene comune del paese? R. – Direi che normalmente sono le mino-ranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la Chiesa cattolica deve com-prendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale. La Chiesa deve attualizzare, essere presente nel dibattito pubblico, nella nostra lotta per un concetto vero di libertà e di pace. Così, può contribuire in diversi settori. Direi che il primo è proprio il dialogo intellettuale tra agnostici e credenti. Ambedue hanno bisogno dell’altro: l’agnostico non può essere contento di non sapere se Dio esiste o no, ma deve essere in ricerca e sentire la grande eredità della fede; il cattolico non può accontentarsi di avere la fede, ma deve essere alla ricerca di Dio ancora di più, e nel dialogo con gli altri ri-imparare Dio in modo più profondo. Questo è il primo livello: il grande dialogo intellettuale, etico ed umano.

Poi, nel settore educativo, la Chiesa ha mol-to da fare e da dare, per quanto riguarda la formazione. In Italia parliamo del proble-ma dell’emergenza educativa. È un pro-blema comune a tutto l’Occidente: qui la Chiesa deve di nuovo attualizzare, concretiz-zare, aprire per il futuro la sua grande eredità. Un terzo settore è la “Caritas”. La Chiesa ha sempre avuto questo come segno della sua identità: quello di venire in aiuto ai poveri, di essere strumento della carità. La Caritas nella Repubblica Ceca fa moltissimo nelle diverse comunità, nelle situazioni di bisogno, e offre molto anche all’umanità sofferente nei diversi continenti, dando così un esempio di responsa-bilità per gli altri, di solidarietà internazionale, che è anche condizione della pace.

D. – Santità, la sua ultima enciclica “Caritas in veritate” ha avuto un’ampia eco nel mondo. Come valuta questa eco? Ne è soddisfatto? Pen-sa che effettivamente la crisi mondiale recente sia un’occasione in cui l’umanità sia divenu-ta più disponibile a riflettere sull’importanza dei valori morali e spirituali, per fronteggiare i grandi problemi del suo futuro? E la Chiesa, continuerà ad offrire orientamenti in questa di-rezione?

R – Sono molto contento per questa grande di-scussione. Era proprio questo lo scopo: incenti-vare e motivare una discussione su questi pro-blemi, non lasciare andare le cose come sono, ma trovare nuovi modelli per una economia re-sponsabile, sia nei singoli paesi, sia per la totali-tà dell’umanità unificata. Mi sembra realmente visibile, oggi, che l’etica non è qualcosa di este-riore all’economia, la quale come una tecnica potrebbe funzionare da sé, ma è un principio interiore dell’economia, la quale non funziona

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se non tiene conto dei valori umani della soli-darietà, delle responsabilità reciproche e se non integra l’etica nella costruzione dell’economia stessa: è la grande sfida di questo momento. Spero, con l’enciclica, di aver contribuito a questa sfida. Il dibattito in corso mi sembra in-coraggiante. Certamente vogliamo continuare

a rispondere alle sfide del momento e ad aiu-tare affinché il senso della responsabilità sia più forte della volontà del profitto, che la re-sponsabilità nei riguardi degli altri sia più forte dell’egoismo; in questo senso, vogliamo contri-buire ad un’economia umana anche in futuro.

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L’Europa: crisi e valoriProf. Antonio Marzano (*)

1) La pace tra i popoli è il più grande merito dell’Unione Europea. Il ricor-do delle due guerre mondiali e la stra-ge, soprattutto dei giovani, che esse hanno provocato non può e non deve essere cancellato. E si tratta solo di parte della storia d’Europa.

La verità è che questa storia ha vis-suto, certo, lunghi periodi di relativa pacificazione. L’Impero romano uni-ficò il nucleo centrale dall’Europa. Seguirono i regni barbarici, associati all’Impero bizantino. Carlo Magno avrebbe più tardi stabilizzato i rap-porti tra paesi, con la conquista del-la Germania. Ma le tensioni tra la Monarchia francese gli Asburgo, tra gli imperi britannico e germanico, la guerra dei trent’anni, gli scontri reli-giosi sono stati una sequenza terribile di odi e di sangue, anche per effetto di conflitti interni di potere.

2) Dopo la seconda guerra mondiale, si affermò l’idea che gli interessi eco-nomici contrapposti fossero alla base dei conflitti militari. Così, a partire dal 1951, si intrapresero trattati di natura appunto economica, e si co-struirono Istituzioni preposte al rela-tivo governo: l’Eurotom, la CECA,

la CEE, il MEC. Lo SME nel 1979 e il Parlamento europeo, l’Atto Unico Europeo (1986), il Trattato di Maa-stricht e l’Unione monetaria (1999), l’euro come moneta legale nel 2002 sono una storia economica ed assie-me politica di cooperazione ed uni-ficazione che i giovani, i più provati dalle guerre, dovrebbero apprendere dai libri di scuola.

E’ regola vissuta che quanti più alte sono le ambizioni, tanto più probabili sono le delusioni. Il fallimento della Costituzione europea, la Brexit, la cri-si in corso dell’Europa comprovano la regola. Ma è bene che le ambizioni resistano alle esperienze negative, di fronte alle quali l’auspicio che le am-bizioni resistano dovrebbe restare la guida del cammino ulteriore.

3) I grandi principi di civiltà, che sono stati alla base della costruzione eu-ropea, cioè la libertà, l’eguaglianza, lo Stato di diritto, sono stati evocati di recente dai Paesi del Benelux. E in concreto, in applicazione di quei principi nella forma della libertà di circolazione delle persone, dei capi-tali, dei prodotti hanno contribuito in misura decisiva alla storia del comu-ne sviluppo economico. Pur tuttavia, la costruzione di muri, la disoccu-pazione, specie e ancora una volta

Contributi di amici dell’UCID

(*) Già Ministro delle Attività Produttive

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giovanile, la durata senza precedenti del ciclo economico, cresciute dise-guaglianze, il diffuso sentimento di incertezza, hanno incrinato la fiducia in qui principi.

Ai meriti dell’unificazione si sono an-date contrapponendo i suoi limiti. Oc-corre migliorare l’Europa, sebbene si debba por mano anche ai limiti propri di ogni Stato.

4) La prime due linee di azione per ri-formare l’Europa sono via via emerse da un dibattito intenso, sebbene talora confuso.

Da un lato stanno le priorità insoddi-sfatte dai tempi d’oggi: l’ambiente e l’energia, la sicurezza, la difesa. Sono collegate agli eventi straordinari della nostra vita comune, come la crisi con la Russia, le migrazioni senza prece-denti, il terrorismo, le guerre vicine.

Andrebbe richiamata un’antica, ma sempre attuale, teoria neo-classica, che potrebbe ispirare più incisiva-mente la insoddisfacente politica mediterranea: pur entro i limiti del realismo, e in fase ciclica comunque favorevole, gli investimenti vadano dove scarseggia il capitale, e le forze di lavoro arrivino dove la demografia è in crisi.

5) Una seconda linea di azione riforma-

trice dell’Europa sta quasi nel contra-rio della sua insufficienza di fronte agli eventi straordinaria. Sta, cioè, nella sua invasività regolamentatrice interna. Così all’eccesso di legisla-zioni nazionali si sovrappone quello di regolamentazioni europee in troppi campi, con il risultato di frenare con-giuntamente le iniziative produttive e di peggiorare, più in generale, la qua-lità della vita delle cittadinanze.

Andrebbe introdotto il principio se-condo cui alla base dall’intervento legislativo europeo dovrebbe esserci la verifica dell’effettivo suo valore aggiunto rispetto all’iniziativa nazio-nale. L’auspicio della sovranità dei singoli paesi dovrebbe concretizzarsi su questa base logica.

Questo principio potrebbe trovare ap-plicazione anche nella verifica del re-alismo delle regole contenute in talu-ni trattati, come quelle di Maastricht. Siamo tutti consapevoli del possibile contrasto tra disposizioni giustificate all’epoca della loro adozione, ma rese meno idonee alle esigenze di una re-altà che si evolve nel tempo. La rela-tività storica delle normative richiede forse una riflessione generale.

6) Ma tutto ciò è auspicabile solo nella consapevolezza che non può né deve derivarne una caduta del senso di re-sponsabilità dei governi. Una finan-za allegra non è mai stata fattore di progresso, come non lo è l’instabilità

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bancaria o l’instabilità politica inter-na. Più in generale, questo è il limite dell’ambizione di sovranità naziona-le.

Questa non può essere intesa come facoltà di singoli Paesi di destinare i vantaggi di bilancio derivanti dalla politica di bassi tassi d’interesse non alla riduzione del debito (oggi, in Ita-lia, circa il 133% del PIL) ma a mag-giori spese pubbliche improduttive; o di ridurre g li investimenti pubblici (scesi dal 2008 al 2015 dal 6,7 al 4,4% della spesa totale) per maggiori elar-gizioni di natura elettorale; o come facoltà di attuare politiche di sostegno della domanda globale senza adottare le riforme necessarie ad accrescere la propria competitività con il risultato di favorire le importazioni di beni e servizi più convenienti (il nostro sur-plus commerciale è in larga parte do-vuto, in Italia come in Germania, alla carenza di domanda interna).

Una domanda interna debole promuo-ve d’altronde il beneficio di una bassa inflazione, però con tassi di sviluppo contenuti e maggiore disoccupazione.

Uno dei maggiori contributi della moderna analisi economica sta nel rilievo attribuito alla credibilità e alla reputazione dei governi.

Se questa vien meno, il costo può ri-velarsi molto elevato e capace, inol-tre, di suscitare circoli viziosi diffi-cili da governare, tra rialzi dei tassi di interesse sul debito e volume di

quest’ultimo.

7) La criticità dell’euro si è manifestata in forma particolare in Italia anche nel periodo immediatamente succes-sivo alla sua introduzione, quindici anni or sono.

Molti prezzi al consumo assunsero un livello maggiore rispetto a quello cal-colato in base alla semplice traduzio-ne in euro dei prezzi pre-esistenti in lire. L’obbligo di indicare, per un ade-guato periodo, nei listini al dettaglio i prezzi euro assieme a quelli in lire avrebbe consentito un migliore con-trollo, da parte dei consumatori, della correttezza della transizione. Ma la proposta in tal senso non fu accolta in sede UE.

Il seguito è stato diverso, l’inflazione in Europa ed in Italia è stata modera-ta, specie se confrontata all’esperien-za storica: nel nostro Paese, rispetto al 20% del 1980, è stimata inferiore allo zero nel 2016. La crisi economi-ca iniziata nel 2008 ha naturalmente contribuito a determinare il fenome-no, definito da alcuni deflazionistico. D’altronde, l’obiettivo prefissato alla BCE è a sua volta molto contenuto (cioè, del 2%). Un’inflazione con-tenuta, in sé, è fatto positivo, anche perché conferisce maggiore stabilità al cambio dell’euro. Ma vi sono due possibili criticità.

La prima deriva dall’eventualità che si associ ad un tasso di disoccupazio-ne maggiore di quello naturale (e al

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un tasso di sviluppo inferiore al natu-rale). Una disoccupazione maggiore del 10% ed un tasso di sviluppo attor-no all’1% non sembrano naturali. Se lo fossero, sarebbero indispensabili ed urgenti interventi strutturali per migliorare il loro livello naturale.

La seconda criticità deriva dalla dif-ficoltà di convivenza tra un cambio unico e una struttura economica e finanziaria molto diversificata tra i paesi che l’adottano. E’ certamente il caso dell’Italia rispetto alla Germania (ed altri): ai vantaggi di alcuni si ac-compagneranno criticità difficili per altri: il surplus commerciale tedesco è stato di 253 miliardi nel 2016. Con un cambio che, se vigesse il marco, sarebbe sicuramente più alto, quel

surplus sarebbe certamente minore.

L’uscita dall’euro sarebbe tuttavia causa di diverse, ma ulteriori, critici-tà. Si potrebbero evitare, con politi-che mirate a ridurre, se non a colmare, le differenze strutturali tra i paesi.

Sarebbero anche opportune politiche dei paesi avvantaggiati, meno mirate al conseguimento di surplus commer-ciali, e più disponibili al sostegno del-la domanda interna.

Ma soprattutto nei paesi a maggiore criticità, servono politiche di riforme strutturali volte a maggiore svilup-po, maggiore occupazione, maggiore competitività.

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Sud ed Europa: una prospettiva necessariaProf. Adriano Giannola (*)

Gli anni della Grande Recessione, hanno inci-so pesantemente sull’ economia italiana e con particolare intensità su quella del Mezzogiorno dove la perdita del prodotto lordo supera il 14% con una emorragia di oltre 500.000 posti di la-voro. Ne consegue che il nostro Sud, con venti milioni di abitanti, rappresenta la più vasta area depressa dell’ Unione; il paradosso è che, al tempo stesso questa macro-area rappresenta il più rilevante potenziale di ripresa dello svilup-po per l’ economia nazionale.

Proprio perchè il Mezzogiorno mostra in mas-sima evidenza i segni della crisi va detto che, a sua volta, l’Italia stessa è l’ area più critica tra i grandi Paesi d’ Europa. E critica è quindi anche la situazione del Centro-Nord pesante-mente condizionato dalle pessime performance del Mezzogiorno che rappresenta il tradizionale suo mercato interno. In termini relativi molte regioni del Nord hanno performance simili a quelle del Mezzogiorno; e tutte perdono decine di posizioni nelle classifiche europee.

La nostra crisi si inquadra in uno scenario che, come noto, vede in difficoltà gran parte dei Pa-esi dell’ Unione, percorsa da crescente insoffe-renza e tensioni sociali che arrivano a porne in discussione la solidità e, addirittura, la continu-ità.

La crisi del 2008 ha mostrato l’ incapacità del modello di politica economica dominante in Europa, a conseguire le finalità del progetto europeo: sviluppo armonioso ed equilibrato,

elevati livelli di occupazione e protezione so-ciale, e -tradotto in termini territoriali- un ele-vato grado di convergenza e di solidarietà tra gli Stati membri.

Alla radice di tutto ciò ha certamente grande rilievo il mancato controllo di un fattore ostati-vo decisivo rappresentato dall’ istituzione della valuta unica. Gli effetti del passaggio all’Euro erano ben noti e prevedibili ex-ante e sono stati per nulla contrastati per l’ incapacità dei parteci-panti al club della moneta unica di conformarsi in pratica a quello che la teoria prescriveva con chiarezza. La non ottimalità valutaria dell’area euro, è stata infatti fortemente acuita nei suoi effetti dall’incompiutezza della governance macroeconomica che ha esasperato le asimme-trie, gli squilibri, le disparità. E i vincoli posti a valle e non a monte (patto di stabilità in primis) hanno creato una sofisticata gabbia che ha dato piena libertà ai fattori strutturali squilibranti di operare con progressiva efficacia. E così l’ euro che doveva essere un collante dell’ Unione -in assenza delle necessarie e coerenti politiche ed istituzioni- diviene quasi un capro espiatorio, un fattore di insofferenza e quindi di disgrega-zione istituzionale e territoriale, annunciando e poi concretizzando i segni di crescenti tensioni sul piano sociale.

Data la natura fortemente dualistica del nostro Paese, in Italia osserviamo la crescente distanza del Paese dal core produttivo dell’Europa che per il Mezzogiorno si traduce in una crescente divaricazione rispetto alle aree depresse dell’ Unione. Ciò si deve in particolare e paradossal-mente proprio alle cosiddette politiche di con-vergenza (le famose “Agende europee” che di fatto -stante l’ euro in presenza delle persistenti

(*) Presidente della SVIMEZ

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asimmetrie fiscali e financo valutarie interne all’ Unione hanno favorito una convergenza regio-nale «selettiva», che ha nettamente favorito le regioni della convergenza dell’Est Europa.

Le regioni mediterranee, ed in testa le nostre, hanno infatti subito i peggiori effetti economici e sociali della crisi.

Queste evidenze si prestano a una lettura ambi-valente: per un verso sembrano legittimare le posizioni che valutano come inutili le politiche di convergenza ed inclusione; d’altro lato, in al-ternativa a questa lettura di superficie esse più realisticamente, segnalano l’ esigenza di un ri-pensamento profondo delle politiche economi-che generali dell’Unione, a partire da una finora inesistente politica fiscale comune.

L’ importanza della politiche di coesione va in-fatti al di là delle contraddizioni che contraddi-stinguono i suoi risultati

A livello europeo, è stata l’unica politica federa-le che si è posta obiettivi di sviluppo, di crescita e occupazione. E ha compensato, come vanta la stessa Commissione, il crollo degli investi-menti pubblici dell’area. Ma allo stesso tempo, alla luce dei risultati, questo merito è la testi-monianza di un fallimento: sancito dalla man-cata addizionalità delle politiche di coesione; la loro sostitutività, che in Italia conosciamo bene, rispetto alle politiche ordinarie, peraltro segna-te, con effetti territoriali anch’essi asimmetrici, dall’austerità. Ne consegue che il potenziale di convergenza attivabile con le politiche di coe-sione è molto indebolito a causa di meccanismi

strutturali che, in assenza di armonizzazione delle politiche macroeconomiche europee, sono all’opera tra centro e periferia e all’interno della stessa periferia dell’Unione.

In altri termini una politica della Coesione da sola non basta, se non c’è una coerente gover-nance economica generale dell’Europa ed è una fuga dalla realtà attribuire all’ Euro responsa-bilità che invece derivano dall’ incapacità di gestione di un area non ottimale. Ce lo ricorda il Governatore della BCE: “in una unione mo-netaria non ci si può permettere di avere grandi e crescenti divergenze strutturali tra i paesi, perché tendono a diventare esplosive”.

Il che significa comprendere che l’obiettivo del-la convergenza corrisponde all’obiettivo dell’ inclusione. E’ illusorio che l’uno possa andare separatamente dall’ altro.

Alla luce dei limiti evidenziati, la futura agen-da della riforma delle politiche di convergenza europee dovrebbe fissare tre priorità che inevi-tabilmente chiamano in causa “altre” e più ge-nerali politiche:

a) una golden rule (esenzione dei vinco-li del patto di stabilità) per investimenti pubblici giudicati strategici e coerenti a politiche di sviluppo nelle aree in ritardo.

b) un adeguato e finora del tutto inesisten-te sistema di compensazione fiscale (che -per il caso Italia- significa anche la possi-bilità di introdurre Fiscalità di Vantaggio nelle aree della coesione). Tutto ciò non per privilegiare ma al contrario per con-trollare e almeno parzialmente, controbi-

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lanciare, anche all’interno della periferia beneficiaria delle politiche di coesione, gli svantaggi concorrenziali che le regio-ni del Mezzogiorno subiscono a causa del dumping fiscale e di altre asimmetrie strutturali, particolarmente effettive e di-storsive all’interno dell’Eurozona.

c) a livello generale, poi, va incentivato un riequilibrio dell’attuale configurazio-ne geopolitica che punti sulle politiche di cooperazione e sviluppo per l’area medi-terranea, andando ben oltre la gestione, peraltro insufficiente, dei flussi migratori. E questo fa bene al nostro Paese, alle aree deboli della frontiera meridionale dell’U-nione e all’intera Unione.

In assenza (più che scontata) di un’immediata prospettiva di armonizzazione dei sistemi fisca-li e di compensazione, si impone una linea di intervento in tempi brevi, che può essere rap-presentato dall’attivazione immediata di stru-menti operativi come le Zone Economiche Spe-ciali (ZES). Esse rappresentano un ingrediente fondamentale per avviare quella messa a frutto delle enormi potenzialità offerte dalla nuova centralità del Mediterraneo. Dovremmo coglie-re le opportunità iniziando a utilizzare concre-tamente quegli strumenti (appunto le ZES) che fungono da efficace elemento di attrazione di risorse e attivazione di iniziative a partire dal sistema dei porti della nostra piattaforma logi-stica (Napoli, Taranto, Gioia Tauro, ecc.). E per farlo bisogna realizzare le opere necessarie. Per questo insistiamo a proporre la complementari-tà tra ZES e golden rule.

Questo meccanismo potrebbe contribuire al ri-

lancio nella macro area di quegli investimenti pubblici, crollati più della media nazionale e ri-partiti nel 2015 come un fuoco di paglia acceso dalla chiusura dell’ “Agenda 2007-2013”.

Il rilancio degli investimenti pubblici nel Mez-zogiorno non è fine a se stesso, bensì il fulcro di una precisa strategia di sviluppo in settori come la logistica, la rigenerazione urbana e la produzione energetica. E gli investimenti pub-blici, sono a tal fine, la tipologia di intervento più capace di generare reddito e occupazione. Il Sud ne ha sete, e per questo è l’ area più reattiva del Paese.

Si stima che l’impatto di 4 mld € di investimenti aggiuntivi nel Mezzogiorno determinerebbero un aumento del Pil di 1,8 punti nell’anno e di 2,4 cumulati a cinque anni, e complessivamente un aumento dell’occupazione di 115 mila unità, la stessa manovra al Centro Nord darebbe risul-tati decisamente molto inferiori.

Sono dati molti interessanti, che confermano che si potrebbe puntare all’obiettivo di recupe-rare per il 2020, il PIL perso nella Grande re-cessione, un obiettivo per il quale occorrerebbe realizzare al Sud un incremento medio annuo di 2,7 punti percentuali.

A risorse date, per un sistema come l’ Italia è strategico utilizzare gli effetti differenziali ter-ritorialmente degli investimenti pubblici. Una accorta redistribuzione delle risorse, finalizzata strategicamente determinerebbe significativi in-crementi dei tassi di crescita a livello nazionale e l’ eliminazione di strozzature strutturali e, per-ciò, ulteriori effetti: accelerazione del processo di conseguimento del pareggio del bilancio

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strutturale, riduzione più rapida del rapporto debito/PIL, un’ attenuazione del regime di au-sterità che comunque continua a condizionare l’ economia.

Di questo deve discutere non il Mezzogiorno, ma l’Italia e portare queste opzioni in Europa,

prospettando con evidenze concrete il “ruolo nuovo” che le condizioni poste a salvaguardia della politica di coesione possono e debbono svolgere, non ultimo, a salvaguardia della so-pravvivenza di questa sofferente Unione.

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Il futuro dell’Europa e le mino-ranze creativeOn. Santo Versace (*)

Il futuro dell’Europa dipende molto dalle mino-ranze creative di cui parla Benedetto XVI. E’ anche il pensiero di Luigi Einaudi sugli uomi-ni della minoranza che sono fondamentali per lo sviluppo economico e sociale di ogni Paese perché investono sul futuro e sono per questo sempre pronti a rischiare. Si tratta in fondo della famosa teoria delle èlite: èlite aperte e non chiu-èlite: èlite aperte e non chiu-: èlite aperte e non chiu-èlite aperte e non chiu- aperte e non chiu-se, per assicurare il ricambio che costituisce il fondamento di una vera democrazia. Se le èlite non sono autentiche portano inevitabilmente all’oligarchia, con il perseguimento di interessi di pochi e quindi lontani dalla costruzione del bene comune che costituisce l’obiettivo fon-damentale della Dottrina Sociale della Chiesa. La mancanza o l’insufficienza di èlite autenti-èlite autenti- autenti-che costituisce una specie di malattia genetica dell’Italia. Ma ci stiamo ora accorgendo che tale malattia affligge la gran parte delle demo-crazie occidentali. Essa si annida particolar-mente all’interno dell’Unione Europea. Al pari delle èlite sociali, economiche e professionali, la classe politica non spunta per caso. Come per le èlite, in sostanza, così anche per la clas-èlite, in sostanza, così anche per la clas-, in sostanza, così anche per la clas-se politica l’aspetto più critico è quello della formazione. E la formazione alla politica è cer-tamente fra le principali risorse indispensabili affinchè la difficile professione della politica non risulti un’attività di terz’ordine, praticata da persone improvvisate e inseguita da aspiranti sempre più improponibili. Da qui l’importanza fondamentale della riscoperta e del rilancio del-la scuole di formazione socio-politica che han-no svolto in passato un ruolo forte per la pre-parazione di èlite autentiche, capaci di offrire una politica ispirata ai grandi valori della Dot-

trina Sociale della Chiesa. Diversamente, come stiamo vedendo, i migliori sono fortemente disincentivati a fare politica come servizio per la costruzione del bene comune, lasciando il terreno aperto ai meno adatti, con una mera gestione del potere, perseguendo unicamente gli interessi di parte e non di rado personali. Tramontata definitivamente la stagione dei par-titi quali formatori di classe politica, occorre chiedersi se la formazione di èlite e l’educa-èlite e l’educa- e l’educa-zione a forme migliori di leadership non solo costituiscano oggi un’occasione di rinnovato slancio dell’Italia, ma siano, ancora prima, fat-tibili. La risposta per essere positiva richiede che la formazione e l’educazione abbiano natu-ra fortemente culturale e basata sui grandi prin-cipi etici, sapendo che la massima espressione dell’etica è il bene comune. Da questo punto di vista, la vera politica è la più alta espressione della carità. Per molti aspetti, l’abbassamen-to e l’appiattimento culturale dei nostri giorni sono il risultato dei residui lasciati dal ritiro delle onde lunghe della secolarizzazione. Per questo motivo, esso rappresenta il più perico-loso antagonista della formazione di nuove èlite autentiche e dell’educazione alla leadership. Abbiamo bisogno di ideali e di valori, senza i quali nessuna autentica èlite riesce a formarsi e poi a sfuggire alle tentazioni di tipo oligarchico. De Gasperi, in un discorso tenuto a Bruxelles nel 1948, parlava di “civiltà cristiana” che pur-troppo l’Europa ha smarrito percorrendo strade senza uscita, permeate da riduzionismo econo-mico e relativismo etico. E’ quell’Europa della moneta e delle banche che ci siamo illusi potes-se portare all’Europa dei cittadini, senza alcuna memoria e identità. Come ci esorta Benedetto XVI, dobbiamo “formare” autentiche minoran-ze creative perché “Il destino di una società di-pende sempre da minoranze creative. I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come

(*) Presidente della Gianni Versace S.p.A.

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una tale minoranza creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti nuovamente il meglio del-la sua creatività e sia così a servizio dell’intera

umanità”. Diversamente, fa capire Benedetto XVI, l’Europa è destinata ad uscire dalle grandi traiettorie della storia.

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La base etica dell’unificazione europea Dott. Giorgio Anselmi (*)

“Questa non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca.” Forse perché viene “dalla fine del mondo”, Papa Francesco riesce a comprendere meglio gli sconvolgimenti che l’emergere di nuove potenze sulla scena del mondo, da un lato, e le rivoluzioni tecnologiche e produttive, dall’altro, stanno imprimendo al corso della storia. Del resto, non è certo senza significato che per la prima volta sieda sulla cattedra di Pietro un pontefice non europeo, pur provenendo da una famiglia originaria del Vecchio Continente.

Diversamente da quelle del passato, l’attuale accelerazione di tutti i processi storici è così impetuosa e dirompente da lasciare disorientate e quasi interdette non solo le persone comuni, ma anche le élite e gli stessi intellettuali. Nell’anno appena trascorso ne abbiamo avuto una prova prima con la scelta del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea, poi con l’elezione del nuovo presidente americano. Quando accadono simili eventi inaspettati, si fa spesso ricorso alla metafora del cigno nero. Se d’improvviso tutti i cigni appaiono neri, significa però che non si è più capaci di interpretare la realtà.

Allora è un’altra indovinata affermazione di Papa Francesco che può aiutarci a comprendere il passaggio epocale che stiamo vivendo: “Siamo alla terza guerra mondiale, ma a pezzi.” Che cosa ha prodotto le due guerre mondiali nella prima

metà del XX secolo? Sulla risposta mi sembra non esistano dubbi: il nazionalismo. Ed oggi è di nuovo il nazionalismo, questa religione dei tempi moderni che non a caso ha contraffatto e deturpato il sacro persino nel lessico e nei simboli, a ripresentarsi minacciosamente sulla scena. Ci sono molti episodi che dimostrano il pervertimento dei valori umani e religiosi operato dal nazionalismo. Uno tuttavia si offre con una evidenza particolare alla memoria storica degli europei. Come previsto dal Trattato di Versailles, il 14 gennaio 1935 si tenne nella Saar un plebiscito per decidere se la regione avrebbe dovuto rimanere sotto l’amministrazione della Società delle Nazioni, passare alla Francia o tornare alla Germania. Il Land era abitato in larga parte da operai di religione cattolica, impiegati nelle numerose industrie carbosiderurgiche. Hitler aveva già preso il potere da due anni e numerosi espatriati tedeschi si recarono nella Saar per fare campagna elettorale contro l’annessione alla Germania, illustrando il terrore instaurato dal Terzo Reich. Un corpo di spedizione multinazionale, sotto l’egida della SdN, vigilò sulla regolarità e sulla segretezza del voto. Nonostante tutto questo, il 90 % dei votanti si pronunciò a favore del ritorno alla Germania e quindi per un regime che avrebbe conculcato le loro libertà religiose, politiche, sindacali.

Il contributo dei cattolici al processo di unificazione europea, a partire dai Padri fondatori, ha una profonda radice valoriale ed etica, così ben illustrata da don Sturzo: «Più si affermano i vincoli internazionali e più vengono limitati i poteri dei singoli Stati; l’orientamento verso la limitazione dei poteri sovrani ha una base etica, in quanto razionale nelle sue

(*) Presidente del Movimento Federalista Europeo (MFE)

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premesse universalistiche, contrarie alle teorie delle monarchie assolute dell’ancien régime, ai nazionalismi dell’Ottocento, al nazismo e fascismo dell’anteguerra, che contenevano in sé un virus individualista e statalista con tendenze contrarie alla morale». Dietro ai risorgenti nazionalismi, anche quando si proclamano difensori delle tradizioni religiose, vi è la perdita di questa base etica ed universalistica, perdita che si coglie persino negli slogan così cari a tutti gli euroscettici: prima gli italiani, prima gli inglesi, prima i francesi ed ora anche “America First!”

Solo recuperando l’ispirazione ideale ed indicando chiaramente l’obiettivo finale è possibile riaccendere quella fiducia nel cammino europeo che è andata via via scemando sotto i colpi di una crisi che ha rotto la solidarietà e riportato in auge gli egoismi nazionali. Il 9 maggio 1950, ad appena 5 anni dalla conclusione del secondo conflitto civile

europeo, Robert Schuman aveva il coraggio di proclamare che la CECA costituiva”les premières assises concrètes d’une fédération européenne, indispensable à la préservation de la paix.” Il prossimo 25 marzo una riunione straordinaria del Consiglio europeo celebrerà nella nostra capitale il 60° anniversario dei Trattati di Roma, un’altra tappa fondamentale in questo ormai lungo percorso. Purtroppo è piuttosto improbabile che i Capi di Stato e di governo abbiano la stessa lungimiranza del Ministro degli esteri francese d’allora. Eppure per molti aspetti la situazione odierna è ancor più grave. Finito l’equilibrio bipolare e caduta anche l’illusione degli Usa di poter governare da soli il pianeta, il mondo sta precipitando nel caos e l’Europa si rivela sempre più un vaso di coccio in balia degli eventi. Anche per questo i federalisti europei invitano tutti gli uomini di buona volontà a partecipare alla Marcia per l’Europa prevista lo stesso 25 marzo nel centro storico di Roma (www.marciaperleuropa2017.it/).

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Cambiamo rotta all’Europa Dott. Pier Virgilio Dastoli (*)

Un mondo di pace, solidarietà e giustizia esi-ge più Europa di pace, di solidarietà e giusti-zia. Eppure l’Unione europea può disgregarsi per gravi errori di strategia politica ed econo-mica, per l’inadeguatezza delle istituzioni e la mancanza di democrazia. Sono stati costruiti muri con i mattoni degli egoismi nazionali sof-focando l’idea d’Europa che sanciva la libertà di circolazione delle persone. Così rischia di disintegrarsi la comune casa europea, disegna-ta nel “Manifesto di Ventotene”, che unisce la prospettiva dello stato federale alla democrazia europea, alla pace e alla lotta alle diseguaglian-ze. E così si cancellano le speranze di milioni di europei.

Negli ultimi dieci anni le politiche di austerità hanno frenato gli investimenti nell’economia reale, esasperato le diseguaglianze, creato pre-carietà e destrutturato il modello sociale euro-peo. L’Europa deve invece essere terra di diritti, di welfare, di cultura, di innovazione. Dovrebbe aver appreso dalla parte migliore della sua sto-ria e dalle sue tragedie i valori dell’accoglienza, della pace, dell’uguaglianza e della convivenza.

L’Unione europea deve affrontare le grandi sfide della nostra epoca restituendo all’idea d’Europa la speranza nel benessere per l’intera collettività, la forza dei diritti e della solidarietà. E’ indispensabile e urgente ridare senso alla po-litica per eliminare le disuguaglianze ponendo fine alle politiche di austerità e agli strumenti che le hanno attuate, creare coesione sociale e territoriale, dare priorità all’ambiente come leva e motore per un diverso sviluppo combattendo

i cambiamenti climatici, ridurre il divario gene-razionale e di genere, favorire la partecipazione e la cittadinanza attiva con un welfare europeo, ripudiare le guerre e perseguire il rispetto dei diritti, garantire l’accoglienza dei rifugiati e la libertà di migrare, impegnarsi a risolvere i pro-blemi globali che sono causa delle migrazioni.

Serve una democrazia europea, dove la sovrani-tà appartiene a uomini e donne che eleggono un governo federale responsabile davanti al Parla-mento europeo.

Una riforma dei Trattati è tuttavia difficile nel breve termine per due ragioni principali, ambe-due importanti. In primo luogo, bisognerebbe che il cambiamento delle politiche economiche e sociali producesse i risultati attesi in termini di miglioramento della qualità della vita degli Europei, soprattutto di coloro che vivono nei paesi in cui cresce il sentimento antieuropeo. In secondo luogo, occorre preparare bene tale ri-forma, con il coinvolgimento e un dialogo con-tinuo, reale e aperto con le cittadine e i cittadini dell’Unione, con le associazioni rappresentative della società civile e con le forze politiche eu-ropee. In questo spirito, è stata una scelta errata l’idea di tenere separati gli incontri, da un lato, fra i rappresentanti delle istituzioni e dall’altro, fra le organizzazioni della società civile, in oc-casione degli eventi organizzati a Roma per il sessantesimo anniversario dei Trattati del 1957.

Il metodo abituale di riforma dei trattati, con la sua priorità agli accordi fra i governi, non ap-pare più consono ai tempi attuali e ancor meno a quelli futuri. Del pari, rischia di non rispon-dere agli auspici il metodo della Convenzione, convocata a prescindere da un vero dibattito europeo. Non basta definire gli elementi di un progetto di riforma del sistema dell’Unione;

(*) Presidente Italiano del Movimento Europeo (CIME)

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operazione realizzabile anche con l’ausilio di idonei gruppi di esperti per le varie materie. E’ invece indispensabile procedere in maniera pie-namente trasparente e partecipativa.

Per definire il futuro dell’Unione, occorrerà un dibattito articolato che coinvolga i cittadini, i movimenti di opinione, i partiti politici e che stimoli i governi degli Stati, ciascun Parlamento nazionale, le assemblee legislative regionali e il Parlamento Europeo, con un dialogo fra dele-gazioni parlamentari. Bisogna avere un’ampia discussione e non sfuggire al contradittorio con gli euro-scettici e gli euro-critici, oggi appa-rentemente in gran numero. Va rigorosamente garantita la migliore e capillare informazione, tanto sul metodo quanto sui contenuti. A tito-lo di esempio, un luogo ideale per avviare un simile dibattito potrebbe essere costituito dalle Università, facilitando occasioni di confronto strutturato, aperte alla cittadinanza, alla società civile.

A valle, dev’esserci il lavoro redazionale del nuovo Trattato che abbia al suo centro il Parla-mento Europeo in un dialogo costante con i par-lamenti nazionali, lavoro su cui va preservata la massima trasparenza e pubblicità. Seguirà la fase deliberativa e quella delle ratifiche, secon-do le procedure costituzionali di ciascuno Sta-to aderente. Alla fine è ineludibile un responso popolare, attraverso referendum in tutti i paesi, da tenersi contestualmente il medesimo giorno. Del resto, lo strumento referendario è già ob-bligatorio in molti paesi membri ed è politica-mente imprescindibile in altri. Nel referendum le cittadine e i cittadini si esprimeranno espres-samente sul nuovo assetto federale europeo, sulle sue regole costituenti e fondanti e sul su-peramento della dimensione degli attuali Stati nazionali. Si tratterebbe di consultazioni popo-lari del tutto inedite. Se la fase preparatoria sarà

sufficientemente coinvolgente e efficace, verrà chiamato a esprimersi un corpo elettorale che, a quel punto, risulterà più coscientemente “euro-peo”, anche grazie alle discussioni e ai percorsi identitari evidenziati dalla presente relazione.

Nessuno Stato europeo può illudersi di riusci-re ad affrontare da solo le grandi sfide globali: mondializzazione degli scambi e/o possibili cri-si economiche e finanziarie globali; le disegua-glianze e la povertà, il cambiamento climatico, il degrado ambientale e le politiche energetiche; le dinamiche dei mercati finanziari, la fiscalità e la sua elusione; i crescenti flussi migratori, le politiche dell’asilo e dell’integrazione; la lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale. E nessun’azienda europea, confidando solo nelle anguste risorse e nelle politiche nazionali, può competere con successo contro i giganti dell’e-conomia globale.

L’obiettivo, l’esplicito traguardo della prossima riforma non può che essere una federazione eu-ropea: non un super-Stato, bensì una Comunità federale. E’ difficile, probabilmente impossi-bile, arrivarci emendando gli attuali Trattati: va predisposto un nuovo Trattato che doti tale entità delle opportune competenze esclusive, in tutti i settori dove l’azione dei singoli Stati risulti inadeguata, delineando un vero sistema costituzionale che le consenta di esercitarle con efficacia e metodo democratico.

A titolo esemplificativo, la possibile architettu-ra istituzionale di una federazione europea po-trebbe essere così sintetizzata:

- un livello federale dotato delle necessarie competenze esclusive in tutti i settori in cui l’a-zione dei singoli Stati risulti inadeguata;

- un Parlamento Europeo con pieni poteri legi-slativi (incluso un diritto di iniziativa, in caso di

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carenza della Commissione), da esercitare con-giuntamente a una “Camera degli Stati” che sia l’evoluzione dell’attuale Consiglio;

- la Commissione con le funzioni di un vero go-verno europeo, legato a un vincolo democratico e fiduciario al Parlamento Europeo;

- il Consiglio Europeo vincolato al suo ruolo di eminente istanza che discute e indica gli orien-tamenti strategici, sede di dibattiti semestrali sulle grandi priorità politiche;

- opportune forme di coinvolgimento dei Par-lamenti nazionali e delle assemblee legislative regionali dei vari Stati federati;

- un bilancio federale con una dimensione co-erente con gli obiettivi comuni e le cui entrate siano tributi europei.

A queste modifiche dell’assetto costituzionale dovrà accompagnarsi l’introduzione di una vera e propria cittadinanza europea federale, svinco-lata dalle cittadinanze nazionali, e dotata di un autonomo nucleo di diritti, anche sociali. Tra questi, andrebbero contemplati e finanziati da un bilancio federale, sia il diritto a un reddito minimo di inclusione e dignità, sia dei livelli minimi comuni di prestazioni sociali.

Per queste ragioni, il 25 marzo 2017 si deve avviare un percorso che conduca l’Unione ver-so una fase costituente che superi il principio dell’unanimità, coinvolga comunità locali, atto-ri economici e sociali, movimenti della socie-tà civile insieme a rappresentanti dei cittadini a livello regionale, nazionale ed europeo e si concluda in vista delle elezioni europee nella primavera 2019. Per queste ragioni oltre cen-to associazioni rappresentative della società civile europea si confronteranno il 24 marzo dalle 17h00 alle 24h00 nell’Aula Magna della Sapienza a Roma, convinte che l’Europa potrà cambiare rotta solo se lo vorranno le sue citta-dine e i suoi cittadini.

Per queste ragioni esponenti del mondo politico e della cultura, rappresentanti delle organizza-zioni giovanili e dei partner sociali animeranno durante la settimana dal 20 al 26 marzo decine di incontri tematici dal forum sull’immigrazio-ne del 21 marzo alla conferenza sullo sviluppo sostenibile del 23 marzo, dall’incontro di 200 accademici del 23 e 24 marzo alla veglia di pre-ghiera interconfessionale “insieme per l’Euro-pa” del 24 marzo per concludersi al Colosseo con la Marcia per l’Europa.

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Dott. Antonio Bertani (*)

DALLA COMUNITA’ EUROPEA DEL 25 MARZO 1957

ALL’UNIONE EUROPEA DEL 25 MARZO 2017

IL 25 MARZO 1957

Il 25 marzo 1957 i rappresentanti di sei paesi europei: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lus-semburgo e Paesi Bassi con la sottoscrizione del Trattato di Roma istituirono, oltre all’Eura-tom, la Comunità Economica Europea.

Veniva così realizzato, senza alcuna consul-tazione popolare, un traguardo fondamentale nella costruzione di un’Europa unita, disegno progettato e proposto da Richard Nikolaus di Coudenhove – Kalergi fin dagli anni successivi alla fine della prima guerra mondiale, iniziativa interrotta a seguito dell’ascesa di regimi na-zionalisti prima in Italia e poi in Portogallo, in Germania e in Spagna e quindi ripreso alla fine della seconda guerra mondiale.

Già nel 1951 gli stessi sei paesi in esecuzione di tale progetto avevano fondato la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio al fine di mettere in comune le risorse energetiche e la più importante industria di base.

L’obiettivo sia della CECA che della CEE era quello di creare condizioni che impedissero lo scoppio di nuove guerre fra gli stati europei.

SUCCESSIVAMENTE

L’allargamento della UE

Grazie ai benefici economici, di cui, special-mente nella fase iniziale, hanno beneficiato i Paesi aderenti, a seguito del successo del-la creazione del Mercato Unico Europeo, si è messo in moto un meccanismo che ha portato a un allargamento indiscriminato delle adesioni iniziato nel 1973 con l’ingresso di Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda e proseguito successi-vamente fino a raggiungere il numero attuale di 28 Paesi membri.

Sono inoltre state avviate, e sono tuttora in cor-so, trattative per l’ingresso nell’Unione di altri Paesi, fra i quali la Turchia, Paese asiatico.

Nel 1993 la Comunità Economica Europea, alla ricerca di un’unione politica, con il Trattato di Maastricht si trasforma senza alcuna consulta-zione popolare nell’Unione Europea.

I grandi eventi

La caduta del Muro di Berlino nel 1989, l’in-gresso nel regime di economia di mercato di Russia e Cina, il trauma dell’abbattimento delle torri gemelle di New York, la creazione del WTO (World Trade Organization), la de-regulation monetaria e finanziaria e l’avvento di nuove tecnologie nelle telecomunicazioni, unitamente allo sviluppo di internet, e la grande crisi del 2007 sono stati i principali eventi con i quali l’UE ha dovuto confrontarsi successiva-mente alla sua creazione.

Contributi di soci dell’ UCID

(*) Già Presidente del Gruppo Regionale UCID del Lazio

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L’euro

Il primo gennaio 1999, sempre senza alcuna consultazione popolare, nasce l’Euro, la mone-ta unica europea; tale moneta viene adottata da 19 Paesi membri, non viene adottata da 9 Paesi membri e viene adottata da altri Paesi minori non membri o spontaneamente o in virtù di preesistenti accordi monetari con singoli Paesi membri.

Taluni Paesi per poter adottare l’euro – rispet-tando i rigidi parametri richiesti – si sono spinti fino a intervenire sugli aspetti dei propri conti pubblici con conseguenze sociali che tuttora gravano sulle rispettive politiche di bilancio.

L’avvio dell’euro è stata un’iniziativa davvero coraggiosa considerato che è stata attuata sen-za che nell’unione si fosse realizzato un potere politico condiviso, potere del quale la moneta è da sempre espressione e che non è mai esistita una moneta priva di un corrispondente potere politico.

I tassi di cambio iniziali delle singole valute rispetto al nascente euro sono stati determina-ti con un’operazione puramente matematica, senza, come sarebbe stato auspicabile, una va-lutazione preventiva e approfondita della loro congruità sotto i vari profili politici, sociali, economici, psicologici e gestionali. Va soggiun-to che non in tutti i Paesi si è arrivati allo storico cambiamento nella consapevolezza del suo pro-fondo significato, consistente, da un lato, nella perdita dello strumento della politica monetaria e dall’altro nel passaggio da una moneta nazio-nale a una moneta strutturalmente diversa.

Infine il processo in corso di sostituzione della carta moneta con la moneta elettronica ha fatto

sì che l’euro si trovasse ad operare in un mondo nuovo nel quale il click del mouse ha sostituito la pressa della zecca, alias la politica della spesa ha sostituito la politica monetaria.

Qualunque osservatore può oggi facilmente verificare una variabilità dei prezzi dei beni e servizi anche del mille per cento, o più, a fronte di differenze marginali della qualità che non de-rivano dalla azione della domanda e dell’offer-ta, ma semplicemente della perdita del controllo del segno monetario.

La Costituzione europea

Il 29 ottobre 2004 i capi di Stato e di Governo dei 25 Paesi aderenti all’UE, oltre ai Ministri degli Esteri di tre Paesi candidati, senza alcuna consultazione popolare, hanno solennemente firmato la Costituzione Europea.

L’iniziativa, che si concretizzava in un testo complesso e articolato, è stato abbandonato dopo la bocciatura ottenuta dai referendum po-polari indetti in Francia e nei Paesi bassi.

L’ANNO SCORSO

Brexit

Il 23 giugno 2016 i cittadini del Regno Unito chiamati a un referendum, hanno votato favore-volmente alla uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea.

L’insoddisfazione da più parti e più volte denun-ciata per il funzionamento dell’Unione Europea ha così avuto una manifestazione eclatante.

La Gran Bretagna ha urlato che “ l’imperatore è nudo”, ma purtroppo il pensiero dominante, che ha sempre tacciato di euroscetticismo chi chie-

(*) Già Presidente del Gruppo Regionale UCID del Lazio

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deva un miglior funzionamento dell’Europa, ha continuato a magnificare i vestiti dell’impera-tore, addossando la responsabilità della Brexit alla cattiva volontà britannica invece che all’in-capacità dell’Unione di promuovere il benesse-re, non solo economico, degli Stati membri e dei loro cittadini.

Sarà necessaria una laboriosa contrattazione per definire i termini e le modalità dell’uscita del Regno Unito dalla UE, così come la regolamen-tazione dei rapporti futuri.

Da un lato siederanno i rappresentanti della Gran Bretagna che cercheranno di tutelare gli interessi dei sudditi di Sua Maestà e dall’altra i burocrati europei che cercheranno di tutelare i propri interessi: non è difficile prevedere che entrambi raggiungeranno i rispettivi obiettivi.

LO STATO ATTUALE DELL’UE

Per quanto si possa essere innamorati del pro-getto europeo e preso atto dei risultati ottenuti non si può negare lo stato di difficoltà in cui esso versa.

In merito, fra le tante, si possono proporre le seguenti osservazioni:

- i padri fondatori sono usciti di scena senza la-sciare eredi;

- la mancanza di leaders non consente di per sé che siano proposti progetti;

- l’assenza di una guida politica lascia la guida dell’UE alla burocrazia;

- caratteristica della burocrazia è l’obiettivo di

aumentare le proprie competenze;

- di conseguenza sia gli Stati aderenti che i po-poli soffrono il peso dell’ingerenza sempre più estesa e capillare della burocrazia europea;

- per come è stato immaginato l’assetto orga-nizzativo delle istituzioni europee non esistono strumenti idonei per un coinvolgimento più diretto delle popolazioni sulle più importanti decisioni, come pure sarebbe in linea di princi-pio auspicabile. Pertanto è mancato il coinvol-gimento dei popoli in occasione dei principali passaggi: costituzione della CEE, trasforma-zione nella UE, adozione dell’Euro, adozione della Costituzione nella maggior parte dei paesi membri;

- gli insuccessi registrati con la bocciatura di una Costituzione illeggibile e improponibile, la mancata adozione di misure di armonizzazione in campo fiscale, di bilancio, militare, delle sca-denze elettorali e più in generale degli assetti politici hanno fatto perdere fiducia e credibilità all’intero progetto;

- non si è tenuto in alcun conto, nei singoli provvedimenti tesi all’armonizzazione, della forte identità culturale, storica, religiosa e di costumi di ciascun paese, né degli ostacoli deri-vanti dalla divisione linguistica;

- un’area è tanto più integrata, e non solo econo-micamente, quanto più è alta la mobilità dei fat-tori della produzione, capitale e lavoro, rispetto alla mobilità con l’esterno dell’area.Paradossalmente di entrambi i fattori di produ-zione è stata privilegiata la mobilità con l’ester-no dell’area rispetto a quella interna (per quanto riguarda il fattore lavoro anche a causa della va-riabile demografica fuori controllo). Peraltro il

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progetto Erasmus per lo scambio di studenti ha rappresentato una rara, lodevole eccezione che meriterebbe comunque di essere incrementata;

- il meccanismo decisionale all’interno della UE non è mai stato diretto, né può esserlo, a ricercare la miglior scelta per l’Europa, ma a trovare la soluzione che evita la contrarietà dei singoli Stati membri, mentre i grandi Paesi con i quali l’Europa si trova a competere sono in grado di operare scelte nel proprio interesse.

Indipendentemente dall’architettura politico-amministrativa l’Europa, a seguito delle inizia-tive comunitarie e della c.d. globalizzazione, indubbiamente ha realizzato le condizioni che impediscono che si verifichino guerre fra i paesi aderenti, almeno nella forma di guerre fra inte-ri popoli come avvenuto a partire dalle guerre napoleoniche fino alla seconda guerra mondiale compresa.

IL FUTURO DELL’UE

Non è dato all’uomo conoscere il futuro, tutta-via gli è connaturale interrogarsi su quello che sarà.

Usciranno altri Paesi dall’UE?

Non lo so, ma al limite possono anche uscire tutti e restare la UE quale centro di coordina-mento e stanza di compensazione delle politi-che dei Paesi ex UE. Ma anche questa ipotesi, come qualsiasi altro progetto, richiede un pro-gettista, una successiva condivisione e conse-guente esecuzione; condizioni che attualmente non si vedono, neppure all’orizzonte.

Gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, il Giappo-ne sono paesi amministrati nell’interesse dei rispettivi popoli, paesi che agiscono a livello mondiale e operano scelte certamente non prive di influenza sull’Europa e sui suoi futuri assetti.

Io ritengo di rappresentare la prima generazione di italiani che dopo secoli non ha visto la guerra in casa propria. Per i miei figli e nipoti mi augu-ro che l’Italia così come gli altri paesi europei possa, voglia e sappia amministrarsi nell’inte-resse, non solo economico, dei proprio cittadini in una dignitosa convivenza con i grandi paesi dominanti e che sappia dare una risposta positi-va alla domanda di progresso morale (vox cla-mantis in deserto) avanzata da S.S. Benedetto XVI nella lettera enciclica “ Spe salvi”.

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Quale futuro per l’Europa?Dott. Piergiorgio Marino (*)

Mai come in occasione della 60° ricorrenza dei trattati di Roma che cade il 25 marzo 2017 l’Unione Europea è vista come un problema e non come una soluzione dei proble-mi per i cittadini europei, con prime richieste di uscirne (la Brexit), che contrastano con la crescente richiesta di entrarvi da parte di diversi paesi, che ha contraddistinto il periodo prece-dente.

In particolare i giudizi sono divisi tra:

- gli antieuropeisti, che incolpano l’Europa di essere solo burocratica, comandata dai poteri finanziari che hanno imposto l’euro e la legge di stabilità, incapace di gestire le emergenze del terrorismo e della immigrazione, inadeguata per superare la crisi economica e occupazionale.

- gli europeisti che invece ritengono che l’Eu-ropa abbia assicurato un lungo periodo di pace, benessere e solidarietà e sia ancora in grado di perseguire più sviluppo e meno austerità per uscire dalla crisi economica, gestendo in modo più adeguato a livello europeo le emergenze del terrorismo e della immigrazione.

Ma cosa è questa Unione Europea a cui tutti si riferiscono, quali sono i risultati rag-giunti, quali sono le sfide che ha di fronte e le prospettive per il futuro.

Senza ovviamente la pretesa di dare interpreta-zioni e risposte esaurienti a tutti questi grandi interrogativi, mi limito ad evidenziare alcuni spunti di riflessione sui temi che credo interes-sino maggiormente i cittadini.

Innanzitutto occorre tenere presente che l’Unione Europea attuale è il frutto delle decisioni nel tempo dei governanti dei paesi che ne fanno parte, e nella sua configurazione istituzionale risultante dai trattati emerge che, in estrema sintesi, è una organizzazione sovra-nazionale che:

- regola prevalentemente il mercato interno, tu-telando la libertà di circolazione di merci, capi-tali e persone. I paesi membri mantengono però la loro sovranità nazionale sulle materie più im-portanti (Fisco, Politica Estera, Politica Eco-nomica, Esercito e Difesa) e quindi, anche se alcuni stati utilizzano una moneta unica (l’eu-ro), gestita da una banca centrale indipendente, e aderiscono a patti di stabilità tramite vincoli sui bilanci pubblici, l’Unione Europea non ha la possibilità di occuparsi di tali materie;

- dispone di istituzioni analoghe a quelle degli stati democratici che ne fanno parte ma non è una Unione del tutto Democratica, in quanto i rapporti tra gli stati sono regolati da Trattati e non da una Costituzione approvata dai cittadini, la Commissione (Governo UE) , il Consiglio Europeo e il Consiglio dell’UE rispondono agli Stati, che conservano il diritto di veto sulle ma-terie più rilevanti, ed infine il Parlamento, anche se eletto direttamente dai cittadini, ha poteri li-mitati;

- ha un bilancio proprio, costituito dai contribu-ti degli stati membri, ma di dimensioni insuf-ficienti per consentirle di affrontare i bisogni principali dei cittadini europei, data la mancata competenza sulle materie più importanti di cui sopra (entità pari a circa l’1% circa del PIL eu-ropeo, a fronte di bilanci dei paesi membri pari al 40-50% dei rispettivi PIL. Da notare che il bilancio federale USA è di circa il 25% del PIL)

(*) Presidente dell’Associazione Strategie d’Impresa per il Bene Comune (SIBC))

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Inoltre, per questi vincoli ed in particolare per il diritto di veto di alcuni paesi, non è stato possi-bile ricorrere a finanziamenti a debito a livello europeo per investimenti pubblici destinati in particolare a fronteggiare la crisi economica ed occupazionale.

Dato che l’Europa non è quindi una vera unione politica, ma ancora una confede-razione di stati che conservano poteri sovrani sulle materie più rilevanti, è quantomeno singo-lare, se non strumentale, che da parte di diver-si esponenti anche politici dei paesi europei si chieda alla stessa Europa di risolvere problemi rilevanti per i loro cittadini, sapendo che questa non ha i poteri e le risorse per affrontarli.

In termini di risultati questo tipo di Europa ha comunque:

- assicurato la pace all’interno della Europa, come era negli obiettivi dei padri fondatori, partendo dalla assegnazione alle istituzioni europee sovranazionali della giurisdizione sul carbone e l’acciaio per impedire le ricorrenti guerre mondiali originate dalle contese a questo riguardo tra Francia e Germania, ma oggi, per il mancato trasferimento di competenze e risorse da parte degli stati membri in materia di politica estera e difesa, non è messa in grado di contri-buire alla pace, sicurezza e democrazia a livello internazionale

- aumentato il livello di sviluppo e quindi di be-nessere dei cittadini degli stati membri princi-palmente attraverso il mercato comune di mer-ci, capitali e persone, anche per il contenimento dei prezzi dovuto alla maggiore concorrenza. Ha inoltre mantenuto bassi i tassi di interesse e l’inflazione, a beneficio degli stati con alto debito pubblico e dei cittadini in termini di po-

tere d’acquisto, facilitato dall’utilizzo per alcu-ni paesi di una moneta e di regole di bilancio comuni. Ciò nonostante oggi, per la mancanza del trasferimento di competenze e risorse ade-guate da parte degli stati membri in materia di politica economica e fiscale, l’Unione Europea non è messa in grado di dare al suo interno ed anche a livello internazionale risposte adeguate alla attuale crisi economica e occupazionale

- realizzato la solidarietà tra i paesi membri, sia con l’allargamento a nuovi paesi (es. dell’est Europa), sia con la distribuzione di incentivi economici per lo sviluppo delle regioni più po-vere, nei limiti del bilancio

Le nuove sfide che i paesi europei hanno di fronte sono sotto gli occhi di tutti:

- la mondializzazione della economia, con le sue opportunità ma anche i suoi rischi, se non governata

- il progressivo sfruttamento delle risorse natu-rali, con aumento del livello di inquinamento

- la crescente importanza della finanza, con ri-schi speculativi a discapito della economia reale

- le guerre locali in paesi vicini all’Europa ed il terrorismo, che colpisce anche i paesi europei

- l’aumento dei flussi migratori verso i paesi europei, provenienti dai paesi che risentono maggiormente delle emergenze precedenti

- le ricadute delle innovazioni tecnologiche, con le loro opportunità ma anche con i rischi di ac-centuazione dei divari tra chi le possiede e le utilizza e chi non è in grado di farlo

- il crescente distacco dalle istituzioni europee

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dei cittadini, in quanto non ritengono che queste istituzioni li rappresentino democraticamente e tutelino i loro interessi.

Il perdurare della crisi economica e le minacce esterne derivanti dalle nuove sfide precedenti, in mancanza di rimedi adeguati a livello Euro-peo, danno quindi spazio alla ricerca di soluzio-ni nazionali che rischiano di mettere in gioco i risultati raggiunti e la stessa esistenza della Unione Europea.

Di fronte a questi rischi viene quindi spontanea la domanda su quali siano le prospet-tive dell’Europa per il futuro, ma specialmen-te per questo aspetto è d’obbligo la cautela e la consapevolezza che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi e che sono molte ed anche contraddittorie le proposte al riguardo. Di conseguenza ritengo sia ancora più neces-sario limitarmi ad alcuni spunti di riflessione, prendendo come riferimento le indicazioni del Magistero della Chiesa al riguardo, dato il suo innegabile interesse prioritario per il bene co-mune delle persone e dei popoli che la posizio-na “super partes”.

Parto dall’interrogativo posto da Papa Francesco al Parlamento Europeo in occasione della sua visita del 2014 “ Come dunque rida-re speranza al futuro, così che, a partire dalle giovani generazioni, si ritrovi la fiducia nel per-seguire il grande ideale di un’Europa unita e in pace, creativa e intraprendente, rispettosa dei diritti e consapevole dei propri doveri?”

In risposta a questo interrogativo, nella stessa occasione papa Francesco ha ricordato il “con-tributo del cristianesimo alla formazione socio culturale del continente… che non costituisce un pericolo per la laicità degli stati e per l’indi-

pendenza dell’Unione, bensì un arricchimento. Ce lo indicano gli ideali che l’hanno formata fin dal principio, quali la pace, la sussidiarietà e la solidarietà reciproca”. E durante al sua visita al Consiglio d’Europa sempre nel 2014 ha eviden-ziato che “sono assai numerosi e attuali i temi in cui sono convinto vi possa essere reciproco arricchimento, nei quali la Chiesa Cattolica – particolarmente attraverso il Consiglio delle Conferenza Episcopali d’Europa (CCEE) – può …dare un contributo fondamentale” citando in particolare “la riflessione etica sui diritti umani …e la tutela della vita umana…l’accoglienza dei migranti…il problema del lavoro...gli aspetti sociali ed economici (ricordando il con-tributo di molti uomini e donne, alcuni dei quali la Chiesa considera santi),…tanto attraverso l’attività imprenditoriale che con opere educa-tive, assistenziali e di promozione umana…,la difesa dell’ambiente”. A tale proposito, anche nel recente incontro (gennaio 2017) con i par-lamentari Europei a Bruxelles, il neo Presidente della CCEE Card. Bagnasco, ha dichiarato che “la Chiesa crede nell’Unione Europea”, ma oc-corre che “L’Europa riscopra la centralità della persona umana, la politica non abbia paura del-la sfera religiosa, che cresce. E i cristiani sia-no più presenti, sappiano argomentare a favore dei valori in cui credono”. Infine, in occasione della citata assegnazione del Premio Carlo Ma-gno nel 2016 Papa Francesco ha detto “Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre” e che “occorre tornare ai progetti dei padri fondatori e che c’è bisogno di una Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare”

Sulla base degli indirizzi e delle ri-flessioni precedenti, ed anche attraverso ulte-riori specificazioni del Magistero della Chiesa

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che seguono relative a queste capacità, partendo dall’ultima citata, si possono trarre alcune con-siderazioni sulle necessità che l’Unione Euro-pea dovrebbe soddisfare:

- la capacità di generare per Papa Francesco riguarda in particolare “ il bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, spe-cialmente per i nostri giovani”. Ed al Consiglio d’Europa nella citata visita ricordava la posizio-ne di Paolo VI sul “compito fondamentale delle Istituzioni per mantenere la pace”. Lo stesso Papa Paolo VI nella Enciclica Populorum Pro-gressio affermava anche che lo “sviluppo è il nome nuovo della pace”, in quanto “le disugua-glianze economiche, sociali e culturali troppo grandi tra i popoli provocano tensioni e discor-die, e mettono in pericolo la pace”. Sempre nel discorso al Parlamento Europeo Papa Francesco ha apprezzato “l’impegno dell’Europa a favore dell’ecologia” ma ha ricordato che “siamo cu-stodi ma non padroni del creato” e nella sua en-ciclica Laudato si’ ha sostenuto che “gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse naturali non sono una spesa inutile, ma un investimento”

La prima considerazione riguarda quindi la necessità di una Europa che realizzi uno sviluppo sostenibile sotto gli aspetti econo-mici, sociali e ambientali, continuando a mante-nere la pace e creando occupazione e benessere tramite adeguati investimenti che utilizzino an-che le nuove tecnologie.

- la capacità di integrare per Papa Francesco deve tradursi in “una solidarietà che non può mai esser confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perchè tutti gli abi-tanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità”. Al Parlamento Europeo ha ricordato che ”L’Euro-

pa sarà in grado fare fronte alle problematiche connesse all’immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e met-tere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamen-to dei conflitti interni – causa principale di tale fenomeno – invece delle politiche di interesse che alimentano tali conflitti. E’ necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti”

La seconda considerazione riguarda quindi la necessità di un’Europa che realizzi la solidarietà interna ed anche nei confronti dei migranti, rimuovendo le cause che generano questo fenomeno. A tale scopo è importante realizzare e diffondere tra i paesi europei un adeguato livello di sviluppo sostenibile, come delineato in precedenza, in modo da poter mi-gliorare innanzitutto il livello di benessere e occupazione di tutti i cittadini europei, esten-dendoli anche ai paesi poveri attraverso specifi-ci piani di aiuto che generano rilevanti benefici reciproci (come già avvenuto a favore dell’Eu-ropa nel dopoguerra con il Piano Marshall)

-la capacità di dialogare richiede per Papa Fran-cesco, come affermato in occasione della asse-gnazione del Premio Carlo Magno, che si rea-lizzino “coalizioni non più solamente militari ed economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose”. Al Parlamento Europeo ha ricordato che “il Motto dell’Unione Europea è unità nel-la diversità, ma l’unità non significa uniformità politica, economica, culturale, o di pensiero… Ritengo che l’Europa sia una famiglia di popo-li, i quali potranno sentire vicine le istituzioni dell’Unione se esse sapranno sapientemente

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coniugare l’ideale dell’unità cui si anela, alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni”. “D’altra parte le peculiarità di ciascuno costituiscono un’autentica ricchez-za nella misura in cui sono messe al servizio di tutti. Occorre ricordare sempre l’architettura propria dell’Unione Europea basata sui principi di solidarietà e sussidiarietà, così che prevalga l’aiuto vicendevole e si possa camminare ani-mati da reciproca fiducia”. “In questa dinamica di unità- particolarità, si pone a voi, Signori e Signore Eurodeputati, anche l’esigenza di far-vi carico di mantenere viva la democrazia, la democrazia dei popoli d’Europa”. Anche Papa Benedetto XVI nella sua Enciclica Caritas in Veritate affermava che “La sussidiarietà rispet-ta la dignità della persona…Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia del loro coordinamento. Si tratta di un principio partico-larmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano”

La terza considerazione riguarda quindi la necessità di un’Europa che sia più de-mocratica e sia organizzata secondo il principio di sussidiarietà, distribuendo i poteri e le risor-se tra l’Europa ed i Paesi membri in modo che si affrontino i problemi al livello più adeguato per risolverli. In altre parole si tratta di costruire una federazione degli stati europei, che consen-ta di venire incontro a queste esigenze nel modo più efficace ed efficiente possibile.

In definitiva si prefigura una nuova Europa che, partendo da quanto di buono già realizzato, soddisfi in particolare le necessità

precedenti (rappresentabili per caso da tre ter-mini che incominciano per S: Sviluppo, Solida-rietà e Sussidiarietà), eventualmente realizzata da una avanguardia di paesi che sono in grado per primi di realizzarla, come è già avvenuto in passato nel processo di costruzione della UE.

Per le conclusioni riprendo ancora al-cune sollecitazioni di Papa Francesco effettuate nelle occasioni prima citate, quanto mai attuali e incisive, confidando che vengano seguite dai rappresentanti dei paesi europei per ritrovare la lungimiranza dei padri fondatori, anche sotto la spinta dei cittadini dei loro paesi che in esse si riconoscono e vedono nell’Europa un futuro di pace e di benessere per se e per il loro figli.

“ E’ giunto il momento di abbandonare l’idea di una Europa impaurita e piegata su sé stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista”

“ L’Europa deve riflettere se il suo immenso patrimonio umano, artistico, tecnico, sociale, politico, economico e religioso è un semplice retaggio museale del passato, oppure se è anco-ra capace di ispirare la cultura e di dischiudere i suoi tesori all’umanità intera”

“ I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati. Ispi-rano, oggi più che mai, a costruire ponti e ab-battere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qual-che trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate”.

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Dalla Brexit alle geometrie variabili: quale futuro per l’Unione Europea?Dott. Attilio Pasetto (*)

Il referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è un fatto indubbia-mente traumatico, che assume tanti significati. Uno su tutti: la disaffezione molto forte che i cittadini europei provano verso quella che do-vrebbe essere la casa comune europea. E’ vero che gli inglesi nei confronti dell’Europa hanno sempre avuto un senso di distacco e di scettici-smo abbastanza evidente, ma è altrettanto vero che quello che è successo in Gran Bretagna po-trebbe accadere anche in altri paesi a comincia-re dalla Francia. Se, sulla spinta di un successo elettorale di Marine Le Pen, la Francia andasse a un referendum sull’euro e sull’UE e se a questo referendum vincessero i contrari alla permanen-za nella moneta unica e nella stessa Unione, la costruzione europea, almeno nel senso in cui la conosciamo ora, crollerebbe immediatamente. La verità, ribadita da più parti, è che l’Unione europea appare sempre più lontana dai cittadini, dai loro problemi concreti ed è vissuta come un peso, una gabbia da cui uscire. I cittadini, per far sentire la loro voce, non possono far altro che votare a favore dei partiti populisti o euro-scettici non appena ne hanno la possibilità.

Il modello politico-economico seguito dall’UE - al di là della dimensione sociale di cui pure occorre tener conto - è sostanzialmente neo-li-berista, ma di un liberismo particolare, che non è quello dell’assenza di regole, tutt’altro! Non un mercato senza regole, ma un mercato con troppe regole dettate dalla tecnocrazia di Bru-xelles. Una tipologia di mercato, che funziona bene per alcuni – le grandi imprese, la burocra-

zia di Bruxelles – e male per altri – i cittadini, le piccole imprese. Assistiamo oggi in Europa a un avvitamento perverso tra mercato e regole: il mercato, che dovrebbe essere disciplinato dalle regole, in realtà se ne avvale per imporre il suo dominio sui singoli, siano essi persone o picco-le imprese. E’ un mercato dominato da grandi attori, che conoscono molto bene le sue regole e il suo funzionamento, di fronte al quale il singo-lo consumatore o la piccola impresa si sentono disarmati, disorientati, esclusi. Per non parlare degli emarginati, come i migranti e i disoccu-pati, che all’Europa chiedono accoglienza, in-clusione e dall’Europa vengono invece respinti. La conseguenza è che stiamo allontanandoci sempre più dalla democrazia sostanziale, che significa partecipazione di tutti alla vita sociale ed economica. Un’involuzione pericolosa.

Quale risposta stanno dando i governi e la stessa Commissione a questi problemi? Direttamente nessuna, tuttavia qualcosa si sta muovendo con la proposta lanciata dai tre paesi del Benelux e sostenuta dalla Germania di un’Europa a più velocità, o a geometria variabile, come prefe-risce dire Angela Merkel. (Qualcun altro parla di cerchi concentrici). Questo significa che, per superare l’impasse in cui versa l’Unione, un gruppo di paesi può decidere di andare avanti da solo su alcuni temi specifici, su cui è im-possibile raggiungere l’unanimità. Del resto, l’Europa a geometria variabile già esiste. Basta guardare ai tassi di crescita! Ed esiste anche in altri campi, come la moneta, in cui solo 19 pa-esi su 28 partecipano all’euro, e la circolazione delle persone, dove 23 paesi su 28 aderiscono allo spazio di Schengen. La Merkel, incontran-do Draghi, ha poi precisato che l’Europa a più velocità non riguarda i paesi dell’euro, che anzi devono essere il più possibile coesi, ma soltanto i Paesi UE al di fuori della moneta unica. Si può

(*) Economista collaboratore delle iniziative editoriali di UCID Nazionale

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avere – ha aggiunto la Merkel – una “coopera-zione rafforzata” su alcuni temi, come recente-mente proposto dalla Danimarca sulla giustizia, e comunque questi progetti devono essere aper-ti a tutti, non a un club esclusivo di Paesi.

La crescita a più velocità dell’Europa

(variazioni percentuali del Pil)

0,9 1,2

1,9

3,2

1,72,0 1,9

0,9

1,41,6

2,3

1,6 1,51,8

Italia Francia Germania Spagna Area euro RegnoUnito

UE 28

2016 2017

Fonte: Commissione europea, febbraio 2017

Ci sono almeno quattro grandi temi urgenti per i quali potrebbe essere proposta una strategia di cooperazione rafforzata: il commercio este-ro, dove la nuova politica americana sembra virare verso il protezionismo, la difesa, dopo l’accenno al disimpegno di Trump nei confron-ti dell’Europa, la sicurezza, legata al problema del terrorismo, e le migrazioni, che a loro volta si intrecciano con le problematiche della sicu-rezza. Ma nessuno vieta ovviamente che questa strategia possa essere estesa anche ad altre que-stioni, come l’energia e la politica industriale. Su questi temi – caso emblematico sono proprio le migrazioni - le posizioni oggi in Europa sono così divergenti da portare al blocco di ogni ini-

ziativa comune. Di qui la mossa tedesca e dei paesi del Benelux, che nasce dopo il trauma del-la Brexit e prima della grande tornata elettorale del 2017, che riguarderà la l’Olanda, Francia, la Germania e forse l’Italia. Un’idea su cui di-scutere in concomitanza con le celebrazioni di marzo del sessantesimo anniversario dei Trat-tati di Roma.

In linea di principio l’idea può essere giusta, anche perché su certe questioni di fondo l’Eu-ropa non può più permettersi l’immobilismo che l’ha contraddistinta negli ultimi anni. Il vento internazionale è profondamente cambiato con l’elezione di Donald Trump e l’Europa, in particolare la Germania, si sente pesantemente condizionata da Putin, che gode della simpatia dello stesso Trump.

Ma questa nuova strategia è esposta ad alcuni rischi. Il primo è che si formino tante UE a due o più velocità, con conseguente frammenta-zione del disegno unitario complessivo. Il se-condo che le regole si facciano più stringenti e che questa logica venga estesa anche ad altri campi, a cominciare dall’euro. Ciò potrebbe essere negativo soprattutto per un paese come l’Italia, che invoca politiche fiscali più flessibili e rimanda di anno in anno uno sforzo più deci-so per la riduzione del debito pubblico. Il terzo pericolo è la netta affermazione dell’egemonia tedesca e lo svuotamento del ruolo della Com-missione, che dovrebbe invece essere il princi-pale motore dell’Unione.

Ma soprattutto l’Europa a due velocità non risolve il problema di fondo che la Brexit ha evidenziato: quello della disaffezione popolare,

La crescita a più velocità in Europa(variazioni percentuali del PIL)

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che richiede di riesaminare le fondamenta del modello europeo. Il modello politico-economi-co dell’Unione europea non può essere quello neo-liberista, ma deve essere ispirato ai principi del bene comune, cui conduce l’evoluzione del-la cultura umanistica laica e del pensiero cristia-no. Questo significa porre al centro dell’atten-zione il benessere effettivo dei cittadini e delle imprese, dando a tutti la possibilità concreta di raggiungere i propri obiettivi e il livello desi-derato della propria qualità della vita. Significa soprattutto fare un grande sforzo per abbattere la disoccupazione e dare un’accoglienza digni-tosa agli immigrati.

In secondo luogo, occorre intervenire sulla go-vernance europea. Oggi abbiamo un Parlamen-to europeo, eletto dai cittadini di tutti i Paesi membri, che conta poco, se paragonato ai vari Parlamenti nazionali. Accanto ad esso troviamo una Commissione, non eletta dai cittadini eu-ropei, ma nominata dai governi nazionali, che rappresenta il vero potere in Europa e che si confronta a sua volta con i governi stessi. Se si vuole andare verso un’unione politica, la Com-missione deve essere nominata dal Parlamento europeo e rispondere ad esso, non ai governi na-zionali, che altrimenti rimarranno i veri arbitri dei destini dell’intera Comunità.

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Ci può salvare solo l’Europa delle patrieDott. Riccardo Pedrizzi (*)

La crisi dell’Unione Europea che stiamo vi-vendo trova origine nella debolezza culturale, prima ancora che politica, del processo di unifi-cazione e della stessa filosofia che sottende alla sua costruzione.

Non vi è dubbio che l’Europa attraversi una crisi di struttura e non solo finanziaria ed econo-mica. La verità è che oggi appaiono indeboliti gli stessi fondamenti di quella che chiamiamo la civiltà europea e cioè l’affermazione della centralità della persona e della comunità - ed in particolare delle comunità intermedie naturali e volontarie - e dei connessi diritti, l’economia sociale di mercato, lo stesso sistema di garanzie sociali.

È chiaro perciò, come ha scritto Giovan-ni Reale nelle “Radici culturali e spirituali dell’Europa” che «non basta più una Carta costituzionale dell’Europa redatta in maniera astratta e prevalentemente su basi giuridiche ed economiche, non basta questo tipo di Costituzio-ne a creare il cittadino europeo».

Finora i Governi e le classi dirigenti euro-pee hanno voluto realizzare un’area nella quale persone, capitali e merci possano circolare li-beramente, in un’ottica esclusivamente econo-micistica. In tale contesto, si spiegano i segnali di euroscetticismo provenienti dalle singole opinioni pubbliche nazionali, nonché il radi-calizzarsi delle prese di posizione degli Stati membri.

In effetti l’Unione Europea non è, e non può essere, soltanto una zona economica di libero scambio. Essa è soprattutto, o avrebbe dovuto essere, e fin dalle origini, un organismo politico; una terra di diritti; una realtà che non si contrappone alle nostre patrie nazionali, ma le collega e le completa. E’, o avrebbe dovuto es-sere, un soggetto politico che non nega l’iden-tità dei nostri Stati nazionali, ma li rafforza di fronte alle grandi sfide di un orizzonte sempre più vasto.

Questa concezione viene ancor più confer-mata oggi dagli scenari internazionali attuali e futuri, caratterizzati dal protagonismo dei sub-continenti indiano, cinese e dell’America latina, dalla fine della guerra bipolare Est-Ovest e dalla contrapposizione mondo occidentale ed Islam, che dovrebbero indirizzare ed incoraggiare l’Europa verso la costruzione di un soggetto politico forte ed unito.

Questa sfida si potrà vincere solo partendo dalla riscoperta dell’identità europea come ele-mento fondante delle istituzioni politiche.

L’obiettivo strettamente economico ha di-mostrato infatti di poter funzionare - la decisio-ne di aderire o meno all’Unione dei nuovi Paesi ebbe motivazioni eminentemente economiche - in un contesto espansivo e di sviluppo lineare. In breve, quando tutto va bene e non nascono problemi, la Unione Europea funziona.

Quando, invece, aumentano i timori per l’in-certezza futura e per le conseguenze della crisi finanziaria ed economica, si affacciano spinte populistiche nazionali e visioni particolaristi-che, che stanno mettendo a rischio l’intero edi-ficio comunitario.

(*) Vice Presidente UCID Nazionale e Presidente Gruppo Regionale UCID del Lazio

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La globalizzazione avrebbe dovuto distrug-gere lo Stato-nazione. I trasporti e le comuni-cazioni avrebbero dovuto cancellare i confini e reso il mondo più piccolo. Le reti transnaziona-li, le organizzazioni internazionali e le istituzio-ni multilaterali avrebbero dovuto soppiantare i legislatori nazionali. Invece sono stati gli Stati nazionali a salvare le banche, ad immettere li-quidità nel sistema finanziario, a lanciare sti-moli fiscali ed assicurare ammortizzatori socia-li ai disoccupati. Il G-20, il Fondo monetario internazionale e le Istituzioni comunitarie non hanno fatto niente finora per evitare le crisi fi-nanziarie.

Al momento, il laissez-faire del mercato che si autoregolamenta da sè e la tecnocrazia inter-nazionale non hanno fornito una valida alterna-tiva allo Stato-nazione.

Anzi l’attaccamento allo Stato-nazione ri-mane piuttosto forte.

Tutte le indagini in diversi Paesi hanno di-mostrato che il numero di chi si considera citta-dino nazionale supera di gran lunga chi si con-siderava cittadino del mondo e che l’identità nazionale prevale persino sull’identità locale. Solo i cosiddetti intellettuali snob e radical chic, che appartengono all’alta società, si dichiarano cittadini del mondo.

Per tali motivi l’Europa, l’Europa delle Pa-trie e delle Nazioni, tutte con parità di dignità e di diritti, si trova di fronte ad un bivio: o guar-dare alla sua storia millenaria, ritrovare le sue radici profonde e i valori di civiltà, solidarietà ed identità, ovvero scivolare verso un progres-sivo svuotamento delle istituzioni comunitarie con il conseguente indebolimento degli stessi Stati membri, o, addirittura, assistere alla de-

flagrazione di tutta l’area con il tramonto di un sogno.

Appaiono particolarmente appropriate per-tanto, nella ricerca dell’elemento unificante, le affermazioni che l’allora cardinale Ratzin-ger pronunciò nella Biblioteca del Senato nel suo intervento proprio sull’Europa: “... la fis-sazione per iscritto del valore e della dignità dell’uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà con le affermazioni di fondo della democrazia e dello stato di diritto, implica un’immagine dell’uomo, un’opzione morale e un’idea di di-ritto niente affatto ovvia, ma che sono di fatto fondamentali fattori di identità dell’Europa...”. Il cammino dell’Europa cioè potrà riprendere e diventerà più saldo e spedito se riformerà le sue istituzioni progettando la costruzione di un vero e proprio soggetto politico che incarnerà tali va-lori.

Nel 1799 allorquando si diffondeva in tutta Europa il vento impetuoso della Rivoluzione francese alimentato dall’illusione illuministi-ca giacobina, anticristiana ed antitradizionale, in Germania il giovanissimo Novalis, uno dei padri del romanticismo tedesco, pubblicava un breve trattato dal titolo molto significativo: “La cristianità, ossia l’Europa”.

Il saggio sollevò, come è comprensibile, violente polemiche tra gli intellettuali del tem-po che consideravano provocatorio un richiamo così imperioso alla necessità della presenza e della sopravvivenza dei valori religiosi in una società, che si era appena avviata alla laicizza-zione dei rapporti interpersonali ed alla seco-larizzazione di tutte le istituzioni e le strutture della società.

L’episodio di due secoli fa conferma come in

(*) Vice Presidente UCID Nazionale e Presidente Gruppo Regionale UCID del Lazio

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situazioni di profonda transizione politica sor-gano spontanei nell’animo di ciascun uomo, sia esso sensibile pensatore come Novalis sia esso umile cittadino, da un canto l’aspirazione ad una rinascita morale, dall’altro il richiamo alle tradizioni più profonde della nostra civiltà.

Analoga situazione stiamo vivendo in questi giorni.

Eppure nemmeno il mondo cattolico pare rendersene conto.

Perché questo “assordante” silenzio nei con-fronti del cristianesimo? Perché voler continua-re a negare una realtà così forte e vivificante del tessuto sociale europeo quale la religione cri-stiana?

Già Giovanni Paolo II al riguardo si era espresso con grande amarezza, rammentando l’ingiustificata “marginalizzazione” di una cul-tura e di una fede che, al di là di ogni confes-sionalismo, hanno contribuito a porre al centro della storia l’uomo.

In Europa, in realtà, è pressoché impossibile compiere una cesura tra cultura, politica, arte, economia, in una parola tra la vita personale di ciascuno di noi e le radici e le tradizioni cri-stiane. Indipendentemente dal proprio credo ideale, etico e politico, è veramente difficile, se non addirittura ipocrita, dimenticare che i va-lori fondanti dell’Occidente sono un’eredità del cristianesimo.

Il valore della dignità della persona, ad esempio, che la sottrae ad ogni pretesa sta-talistica e totalitaria e ad ogni ideologia utopi-stica; il valore del lavoro, considerato non come una merce e non come strumento di alienazione

o sopraffazione, ma come mezzo di elevazio-ne materiale e spirituale; il valore della libertà, come possibilità di realizzazione personale e come ricerca perenne di un ordine virtuoso ed organico.

Il sogno egualitario di una Repubblica uni-versale, in cui diluire le identità ideali e naturali dell’uomo e dei popoli, unitamente all’oscura-mento della nostra tradizione, hanno già fatto registrare fallimenti disastrosi negli ultimi due secoli della nostra storia. Per questo, pur rico-noscendo la necessità di salvaguardare la laicità degli Stati membri dell’Unione, non si può pre-scindere per motivi di obiettiva logica politica, dall’apporto che la fede cristiana ha fornito alla crescita umana e civile della società europea.

E’ fuori discussione, infatti, che le impegna-tive sfide che attendono l’Europa esigono una perfetta consapevolezza della propria identità storica, culturale, sociale e spirituale che se non è cristiana non è nemmeno concepibile.

Il coraggio e la fede mostrata da Novalis duecento anni orsono nelle tempeste della furia atea giacobina, testimoniano il valore sempre attuale di una testimonianza cristiana anche in chiave politica, a difesa dell’uomo offeso dalla violenza di chi vorrebbe impedirgli di sollevare il capo verso il cielo.

L’Europa unita è oggi una realtà della qua-le il mondo intero non può fare a meno e dalla quale è praticamente impossibile che gli stessi Stati membri possano prescindere.

La comune matrice della cultura europea costituisce dunque l’effettivo nucleo identitario delle comunità e delle nazioni aderenti all’U-nione.

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L’Europa perciò deve riprendere il cammino intrapreso andando oltre l’integrazione econo-mica e finanziaria per puntare con decisione alla creazione un soggetto politico omogeneo e coe-so, che coinvolga popoli e comunità.

Ed allora risulta improcrastinabile aprire una nuova stagione di riforme istituzionali per rilan-

ciare il dibattito sulla stessa idea di unità europea, consapevoli che bisognerà salvaguardare l’identi-tà, esaltandone le radici, dei singoli popoli e di tutte le nazioni.

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Il futuro dell’Europa e il dilem-ma di Thomas MannDott. Giovanni Scanagatta (*)

Il Terzo Rapporto UCID 2013/2014 “La co-scienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune” (Libreria Editrice Vaticana, 2014) afferma che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di una Europa diversa. È più che mai valido il vecchio dilemma di Thomas Mann: si riuscirà ad abbandonare l’idea di «un’Europa tedesca» per sviluppare invece una «Germania europea», più aperta alle esigenze degli altri popoli?

I destini dell’Italia e della Germania sono incro-ciati e i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Ma un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro più vicino a 1,50 che a 1,00, risponde certamente molto di più agli interessi della Germania che a quelli dell’Italia.

Nonostante queste condizioni ed altre forte-mente penalizzanti come il fisco e la burocrazia asfissiante, le nostre imprese riescono ad espor-tare circa il 30% del prodotto interno lordo, una percentuale simile a quella della Cina. Dal 2000, la nostra competitività rispetto alla Ger-mania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è molto penalizzata, in relazione ad una dinamica della produttività molto bassa.

Migliora invece in modo notevole la nostra competitività rispetto alla Germania, se mi-surata rispetto ai prezzi alla produzione, me-diante la contrazione dei margini di profitto che però non è sostenibile nel medio-lungo periodo perché viene intaccato il risparmio di impresa e le possibilità di accumulazione e sviluppo. Un ruolo cruciale, ai fini della com-

petitività, gioca la qualità delle esportazioni italiane decisamente superiore a quella delle esportazioni tedesche. In questi ultimi anni, il contributo delle nostre esportazioni nette alla crescita del prodotto interno lordo è stato largamente positivo, a fronte di un contributo negativo della domanda interna per consumi e investimenti. Senza il contributo delle espor-tazioni, la crescita della nostra economia sa-rebbe precipitata su valori negativi pericolosi. Di fronte a questo quadro e a quello altrettanto difficile dei paesi del Sud dell’Unione europea, la Germania deve essere più europea e meno ri-gida sulla moneta e sui parametri di Maastricht, soprattutto quelli fiscali (deficit e debito pub-blico rispetto al Pil), per favorire la crescita e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione giova-nile ha superato il 40 per cento e nel Sud il 60 per cento.

Un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro vicino alla parità, darebbe una forte spinta alle nostre esportazioni e alla crescita, senza temere per i prezzi perché ora siamo in deflazione. Per il futuro dell’Europa abbiamo bisogno di lea-der, come è avvenuto all’indomani della Secon-da Guerra Mondiale, con la nascita della Ceca e poi del Mercato Comune, ad opera di statisti illuminati dal cristianesimo come Adenauer, De Gasperi e Schuman. Altrimenti, come stiamo vedendo, prevalgono i burocrati della Commis-sione europea che ingessano e soffocano tutto con un eccesso di regole e direttive.

Dicevamo prima che i destini dell’Italia e della Germania sono incrociati, anche se gli italiani non amano i tedeschi ma ammirano la Germa-nia, mentre i tedeschi non ammirano gli italiani ma amano l’Italia, come è avvenuto per Goethe e oggi per Angela Merkel che sceglie Ischia per

(*) Segretario Generale UCID Nazionale (articolo pubblicato su “Il Sole 24Ore” 30 luglio 2014)

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le proprie vacanze. La Germania ha veramente una grandissima responsabilità verso l’Europa. Molti sono coloro che non la ritengono all’al-tezza del compito: a cominciare dal filosofo tedesco Habermas. Volenti o nolenti, dobbia-mo riporre le nostre speranze nella Germania.

Se poi la Germania non volesse o non potesse realizzarle, sarebbe un disastro per tutti, a co-minciare dai tedeschi destinati a soccombere, ancora una volta, ai sogni di grandezza.

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Aggiustare o ripartire dagli Sta-ti Uniti d’Europa?Dott. Giovanni Scanagatta (*)

Possiamo paragonare l’Unione Europea ad una macchina che ha subito un grave incidente. Due sono pertanto le alternative che abbiamo di fronte: tentare di riparare la macchina inci-dentata o costruirne una completamente nuova. Non va esclusa questa seconda soluzione, pen-sando ad una diversa architettura dei 27 Paesi che formano l’Unione Europea. Questa diversa architettura si basa sul fatto che occorre tenere conto delle notevoli differenze che esistono tra i 27 Paesi, a partire dal reddito pro capite. Si va infatti da un massimo di 44.300 euro a parità dei poteri d’acquisto della Svezia ad un minimo di 5.800 euro della Bulgaria. L’idea è di creare gli Stati Uniti d’Europa a cerchi concentrici, con un primo cerchio formato dai Paesi che hanno fondato a Roma nel 1957 il Mercato Comune Europeo: Germania, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo. Il reddito pro capite di questi 6 Paesi va dal massimo dell’Olanda con 38.900 euro al minimo dell’Italia con 26.600 euro. Un secondo cerchio formato dai restanti 12 Paesi dell’eurozona. All’ultimo cerchio si aggiungono infine i 9 Paesi dell’Unione Euro-pea che non fanno parte dell’eurozona. Con-sideriamo qualche altro dato sulla base dei tre cerchi concentrici ipotizzati. Il Prodotto interno lordo (Pil) dei sei Paesi fondatori rappresenta il 56% del Pil degli Stati Uniti d’America, men-tre la popolazione complessiva è pari al 71% di quella americana. La differenza tra le due per-centuali riflette naturalmente i divari in termini di Pil pro capite rispetto agli Stati Uniti d’A-merica. Un altro dato interessante da analizzare riguarda la variabilità del Pil pro capite dei 27 Paesi dell’Unione Europea rispetto ai sei Paesi

fondatori del Mercato Comune Europeo. Il co-efficiente di variazione (rapporto tra scarto qua-dratico medio e media) del reddito pro capite dei 27 Paesi dell’Unione Europea è uguale al 52%. Esso si restringe moltissimo con riferimento ai sei Paesi fondatori, con un valore pari al 12%. Il primo cerchio è pertanto formato da un’area molto più omogenea sul piano reale. I sei Pae-si fondatori dovrebbero eliminare i vincoli del Trattato di Maastricht riguardanti il rapporto tra deficit e Pil e quello tra debito pubblico e Pil. Il debito pubblico dovrebbe essere completamen-te unificato con una gestione comune. La poli-tica monetaria e la politica fiscale dei sei Paesi che formano il primo cerchio dovrebbero essere gestite dal centro, secondo una visione organica di strumenti e obiettivi di politica economica. Tutti gli altri Paesi che stanno nel secondo e nel terzo cerchio dovrebbero continuare ad osser-vare le regole attuali. I Paesi del primo cerchio avrebbero pertanto una politica comune della tassazione e della spesa pubblica. Il deficit di bilancio sarebbe coperto o con emissioni di tito-li o direttamente dalla Banca Centrale Europea (BCE) con creazione di base monetaria. Na-turalmente ci sarebbe anche un altro canale di creazione di base monetaria da parte della BCE: acquisto diretto all’emissione dei titoli del de-bito pubblico dei sei Paesi fondatori o acquisto sul mercato. Questo consente naturalmente alla BCE di controllare la liquidità e la struttura dei tassi di interesse. Avremmo in definitiva una batteria completa di canali di creazione e di di-struzione di base monetaria da parte della BCE: canale estero, canale delle banche e canale di tesoreria. La politica fiscale e la politica mo-netaria possono in questo modo essere meglio orientate allo sviluppo, con un effetto di traino su tutti gli altri Paesi che formano l’eurozona e l’Unione Europea. Facciamo l’esempio de-gli investimenti materiali e immateriali di tipo

(*) Segretario Generale UCID Nazionale

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infrastrutturale che possono essere fatti dal nu-cleo centrale dei sei Paesi per imprimere una traiettoria di sviluppo a tutta l’Unione Europea, nel quadro della competizione globale. E’ op-portuno che questi investimenti vengano coper-ti non attraverso la tassazione ma in deficit, at-traverso l’emissione di titoli del debito pubblico dei sei Paesi fondatori. Tali titoli potranno esse-re acquistati o dai risparmiatori o dalla stessa BCE con creazione di base monetaria. E’ questa una via che può essere percorsa per la creazio-ne degli Stati Uniti d’Europa, attraverso una specie di New Deal con forti investimenti che aumentino il tasso di crescita di lungo periodo di tutta l’Unione Europea, grazie all’azione di locomotiva svolta dai sei Paesi fondatori. Sono investimenti che devono aumentare il tasso di coesione delle popolazioni dell’Unione Eu-ropea, creando valore aggiunto condiviso che favorisce la costruzione del bene comune. Que-

sta azione di tipo strutturale andrebbe accom-pagnata da un valore della moneta comune che sia coerente con l’obiettivo di innalzamento del tasso di crescita dell’Unione nel lungo periodo. Solo con un disegno forte e coraggioso l’Eu-ropa potrà uscire dalle secche in cui si trova attualmente, rientrando da protagonista nel-le grandi traiettorie della storia. Gli ultimi tre Papi, Francesco, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, esortano continuamente l’Europa e recuperare la sua anima spirituale, rifuggendo dall’economicismo e dal relativismo etico per-ché nel lungo periodo sono le idee destinate a prevalere e non gli interessi costituiti. Ma se queste idee non sono ispirate al bene comune, principio fondamentale della Dottrina Sociale della Chiesa, l’Europa non potrà risorgere e di-ventare protagonista dello sviluppo dei popoli.

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Donald Trump e il dumping va-lutario dell’euroDott. Giovanni Scanagatta (*)

Recentemente il Presidente americato Do-nald Trump ha accusato l’Europa di dumping valutario per la debolezza dell’euro rispet-to al dollaro. Ci possiamo chiedere se questa accusa abbia o meno un fondamento. Per ri-spondere a questa domanda dobbiamo con-siderare, a parità di altre circostanze, l’effetto del cambio dell’euro rispetto al dollaro sulle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Ci riferiamo per questo all’esempio della Ger-mania e a quello dell’Italia, con i rispettivi mo-delli di specializzazione. L’evidenza empirica mostra che l’effetto del cambio dell’euro sulle esportazioni tedesche è scarso: la domanda è tendenzialmente rigida rispetto al prezzo. Ciò significa che le automobili tedesche continuano ad essere vendute all’estero anche se il cam-bio dell’euro è forte. Un discorso analogo vale quando l’euro è debole. La Germania venderà un po’ più di automobili all’estero, ma in misura non rilevante. E’ quello che è avvenuto se con-sideriamo che la Germania ha un avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pari a quasi il 9% del prodotto interno lordo. Il limi-te fissato dall’Unione europea è del 6%, ma non sono previste a questo riguardo procedure di in-frazione. Il discorso di Trump non ha pertanto alcun fondamento.

Dobbiamo osservare che questo eccesso tede-sco di risparmi rispetto agli investimenti, do-vrebbe portare ad un aumento della domanda interna e a un riequilibrio dei conti con l’estero, con un ruolo di locomitiva della Germania per il rilancio della crescita nell’Unione Europea. Ma la Germania non ne vuole sapere per l’atavica

paura dell’inflazione, continuando ad accumu-lare ampi avanzi dei conti con l’estero. Vedia-mo ora le cose dal lato italiano. Il modello di specializzazione dell’Italia è diverso da quello della Germania. Le esportazioni sono senz’al-tro più elastiche rispetto al tasso di cambio e un euro basso aiuta la crescita dell’economia ita-liana trascinata dalle esportazioni (export led). Gli avanzi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti possono crescere. In questo caso l’affermazione di Trump ha un significato più comprensibile, anche se non condivisibile in una logica di un’economia mondiale aperta agli scambi e contraria alle diverse forme di protezionismi e di barriere tariffarie e non tarif-farie. Ma un cambio dell’euro vicino alla pari-tà, come è ora, ha anche altre conseguenze che vengono qui accennate, soprattutto per quanto riguarda l’Italia. A parità di altre circostanze, si può osservare una correlazione postiva tra il deprezzamento del tasso di cambio dell’eu-ro e la variazione dello spread tra i rendimenti del bund tedesco e quelli dei Buoni del Tesoro Poliennali dell’Italia. Un cambio forte dell’eu-ro tende invece, a parità di altre circostanze, ad accompagnarsi con spread elevati dei Paesi più deboli come l’Italia o la Spagna. Viceversa, un cambio debole dell’euro favorisce spread più bassi riguardanti l’Italia o la Spagna. Ma spre-ad elevati dei tassi significano alti oneri per il pagamento per interessi, soprattutto per Pae-si come l’Italia che ha un elevato rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, anche per le improvvide conseguenze del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia che, diversamente, avrebbe consetito una graduale monetizzazione del debito. Siamo ora sul 133% del prodotto in-terno lordo e un aumento di un punto percentua-le dello spread significa per noi un aggravio per interessi di circa 24 miliardi di euro all’anno. In definitiva, un tasso di cambio dell’euro com-

(*) Segretario Generale UCID Nazionale

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petitivo è utile a Paesi come l’Italia o la Spa-gna per gli effetti positivi sulle partite correnti della bilancia dei pagamenti, sul contenimento dello spread e sull’equilibrio dei conti pubblici. Come risultato finale, la Banca Centrale Euro-pea (BCE) si vede meno costretta a comperare titoli del debito pubblico dei paesi più indebita-ti e più rischiosi per la tenuta complessiva del sistema. Questo naturalmente può non piacere alla Germania perchè un cambio forte dell’euro ha scarsi effetti sulle sue esportazioni e quin-di sul suo tasso di crescita e sui livelli di oc-cupazione. Ma è utile ai Paesi del Sud Europa che riescono a trarre vantaggio dalle proprie esportazioni, da spread limitati e dalla possibi-lità di controllare meglio le pubbliche finanze. Tutto questo ha in fondo una sua logica perchè solo spread limitati consentono di tenere sotto controllo la sostenibilità della moneta unica eu-ropea. Non dobbiamo dimenticare che una delle condizioni di un’area monetaria ottimale è un valore nullo dei differenziali di interesse tra i Paesi che condividono un’unica moneta. Altri-menti è come se avessimo in effetti più monete

da tenere insieme rispetto ad una moneta che solo formalmente è unica. Oltre certi limiti, cio’ porterebbe all’implosione dell’euro.

Sopra ogni cosa è indispensabile il rilancio del-la crescita nell’Unione Europea che consenti-rebbe ai Paesi più deboli di fronteggiare i propri squilibri di finanza pubblica e i problemi occu-pazionali. Nel contempo, la Germania potrebbe riequilibrare l’enorme avanzo dei conti con l’e-stero, a vantaggio della domanda interna e del tasso di crescita dell’economia. Occorre, per la coesione dei Paesi dell’Unione Europea, rinun-ciare un po’ all’equazione “euro forte uguale a marco forte”, non temendo, in modo ingiustifi-cato, per l’inflazione.

In definitiva, per uscire dal vicolo cieco in cui è finita l’Unione Europea e rilanciare il sogno dei nostri padri fondatori, abbiamo bisogno di un’Europa meno tedesca e di una Germania più europea per lo sviluppo e il bene comune dei cittadini europei.

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I problemi dell’EuroDott. Antonio Fazio (*)

Nel Trattato di Roma del 1957 l’obiettivo dell’Unione – si comincia con la Ceca, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio – è lo sviluppo economico. Un principio solennemente espresso nel Trattato che deve presiedere alla politica economica è la sussidiarietà. Ogni Paese deve attuare la politica che ritiene adatta al suo sistema economico e alle sue istituzioni e coordinarsi con gli altri per tendere all’obiettivo comune della crescita.

La Commissione deve aiutare gli Stati che non riescono ad inserirsi favorevolmente nel processo di crescita.

È cambiato qualcosa? Dov’è finito il principio di sussidiarietà?

Si dice a livello politico “l’Italia deve entrare in Europa”. Ero Governatore e obietto: “Ma non siamo già in Europa! Siamo stati fondatori, ma siamo pronti ad entrare nell’Euro?” A mia insaputa si decide di rientrare nel Sistema Monetario Europeo (Sme); ne eravamo usciti per l’incapacità di tenere il cambio a causa della insufficiente competitività nei costi di produzione interni. Il rientro nel Sistema Monetario prelude alla partecipazione alla moneta comune. Il Governatore ha l’alternativa di due linee di comportamento: può dire “non mi interessa, me ne vado” oppure “faccio ciò che mi si chiede” aiutando il mio Paese a realizzare gli obiettivi che si è dato a livello politico.

Ritenevo che fosse opportuno quanto meno

attendere per entrare nella moneta comune, ma la decisione politica era esplicitamente orientata per una adesione immediata al sistema. La politica monetaria aveva svolto i suoi compiti di stabilizzazione del cambio: riduzione del forte spread tra titoli pubblici italiani e titoli pubblici tedeschi che aveva raggiunto 900 punti. Aveva drasticamente frenato l’inflazione. Non aveva potuto certamente ridurre il rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Loro al di sotto del 60% richiesto dai trattati europei per partecipare alla moneta comune. Ritenevo pertanto che dovessimo attendere e in particolare fare delle politiche volte ad aumentare la produttività dell’industria e in generale a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto.

Come ho raccontato in altre occasioni, nella riunione drammatica della notte del 24 marzo 1997 a Francoforte, quando si discute di quali Paesi abbiano i requisiti per entrare nell’Euro. Il Belgio e l’Italia non hanno i requisiti, sono fuori per l’eccesso di debito pubblico. La Grecia è fuori, ma ha deciso di non entrare subito. Eravamo in quindici allora; l’Inghilterra decide di restare fuori indefinitamente e così anche la Danimarca e la Svezia. Perché l’Italia deve restare fuori? Deve restare fuori perché il rapporto fra debito e prodotto interno lordo è molto al disopra della soglia richiesta. Io dico: “Cari amici governatori, io non posso accettare questo e vi avverto che se domani si scrive nel Rapporto (cosiddetto) di convergenza che l’Italia non partecipa, salta il Sistema Monetario Europeo e viene meno l’avvio dell’Euro. Non è una minaccia è analisi economica”.

Nel rapporto si finirà per scrivere che (*) Già Governatore della Banca d’Italia

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l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito pubblico. Era mezzanotte, non potevo consultare alcuno a Roma; scrivo sul momento un piano pluriennale di rientro del debito pubblico, impegnandomi a proporlo al Governo per farlo diventare operativo.

Con un linguaggio criptico, l’Italia viene ammessa.

Ricordo che purtroppo di quelle promesse la politica italiana, dopo averle assunte formalmente, anche per l’evoluzione politica non ne ha fatto nulla. Il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo ha continuato ad aumentare paurosamente, fino al 2015.

Vado in Parlamento, vengo chiamato da una Commissione della Camera. Mi si chiede del perché del mio atteggiamento circa l’entrata, fin dall’inizio, nella moneta comune.

Riferisco.

“Tutta la politica monetaria che ho attuato nel corso degli anni novanta era volta a ridurre l’inflazione e lo spread. Lo spread nel 1995 era arrivato a 900 punti perché i titoli Tedeschi rendevano il 5,5% e i titoli italiani il 14,5%. Non ho fatto né consigliato alcun macello in termini di politica economica, ho condotto soltanto la politica monetaria adeguata ed ho dato dei messaggi consoni ad una aspettativa razionale di andamento delle variabili economiche, inclusa la possibilità di entrare nella moneta comune.” Lo spread si è ridotto a meno di 200 punti. Avevo condotto una politica monetaria per stabilizzare il cambio ed annullare l’inflazione. Il banchiere centrale

doveva in ogni caso condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o meno alla moneta comune.

Spiegai ancora: “Sentite, noi entriamo, ma il problema è come restare nell’Euro. Quando si perde la manovra del cambio, si dovrebbe riacquistare una flessibilità del costo del lavoro e della finanza pubblica che ci permetta di rimanere competitivi”. Abbiamo l’esperienza del Sistema Monetario Europeo. Qualcuno diceva: stando nel sistema spingeremo le imprese ad aumentare la produttività e a contenere i salari; ma ciò non era avvenuto: il sistema non aveva funzionato. Anche quando ero a capo del Servizio Studi, avevo sempre seguito con attenzione questi fenomeni: questo meccanismo non funziona.

Affermo in Parlamento: “non avremo più i terremoti monetari, ma avremo una sorta di bradisismo: sapete cos’è il bradisismo? È il terremoto che si abbassa sotto il livello del mare gradualmente, come avviene a Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in termini di crescita rispetto agli altri Paesi.”

Guardate i dati della competitività italiana. Il Clup, che è il costo del lavoro per unità di Prodotto, aumenta in Italia fra il 2000 e il 2003 del 9,9%; in Germania dell’1,7%, in Francia dell’1,5%. Sapete che Germania e Francia sono i nostri maggiori partner e competitori sul mercato internazionale dei prodotti industriali. In tre anni abbiamo perso 8 punti di competitività. Nel primo semestre del 2004 in Italia il CLUP aumenta del 5,5% in Germania si riduce perché aumenta fortemente la produttività (tab. 1).

(*) Già Governatore della Banca d’Italia

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La produzione industriale in Italia tra il 2000 e il 2004 scende del 2,8%, in Germania sale del 3%, in Francia del 2% (tab. 3); nell’Europa dei dodici (Italia esclusa) cresce del 3%. La produzione industriale ha lo stesso ciclo di quella europea, ma mentre quella europea sale, quella italiana scende. Mi piace molto farmi da solo i conti sulle principali variabili macroeconomiche; me li continuo a fare regolarmente da solo con i dati ufficialmente disponibili (tab. 2). Mi sono calcolato da dopo la crisi del 2006 ad oggi gli andamenti in Italia e in alcuni altri Paesi dei dati più rilevanti. Il Prodotto Interno Lordo in questi nove anni è diminuito in Italia del 5,5%, meno 0,6% all’anno; nel resto dell’Europa dell’Euro che comprende non solo la Germania e la Francia ma anche la Slovacchia, l’Estonia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia, cresce dello 0,8% all’anno. Osservate il bradisismo, uno sprofondamento dell’1,4% all’anno.

Quello che muove l’economia sono gli investimenti produttivi, che sono diminuiti in Italia tra il 2006 e il 2014 del 27%; nel resto dell’Europa sono aumentati.

Le esportazioni sono aumentate in Italia dal 2006 del 14,6%. Il problema è che le esportazioni crescono molto più rapidamente dell’economia e nel resto dell’Europa sono aumentate del 35%.

E come va il Clup? In Italia sempre dal 2006 in media è aumentato del 2,4%, nel resto dell’Europa che comprende anche la Grecia e il Portogallo dell’1,5%, ma in Germania e in Francia l’aumento è stato pressoché nullo.

Allora si debbono fare le riforme, ma non sarà la riforma del Senato a ridurre il costo del lavoro, punctum dolens dell’Italia per uscire da questo stallo. Avremmo, per esempio, da imparare dalla Germania circa la partecipazione dei sindacati nell’indirizzo e gestione delle imprese. Adam Smith, che è ritenuto il fondatore della moderna economia politica, diceva

(tab. 1). (tab. 2).

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che i sistemi economici si reggono sulla concorrenza e sul mercato, ma anche sulla sympathy, l’amicizia civile che è unità di intenti. Se non c’è unità di intenti nelle parti sociali, nel sistema, non si avanza. Non si può vivere di sola concorrenza e tanto meno di lotta di classe.

Mi avvio alla conclusione. Vediamo l’economia mondiale. Il Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti è di circa 18 trilioni, 18 mila miliardi di dollari l’anno. Il Pil della Cina è circa la metà, (tenete presente però che negli Stati Uniti vivono trecento milioni di persone, nella Cina sono un miliardo e trecento milioni, quindi il reddito pro capite è un ottavo). Il Giappone ha un PIL di circa 5 mila miliardi. La Germania, in base al cambio dell’Euro 1,10 per dollaro, ha 3 miliardi di dollari di reddito; la Francia 2,3; l’Italia 1,7. L’area dell’Euro: circa 11 mila, un po’ superiore alla Cina, notevolmente inferiore agli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno più del 20% del Pil mondiale, l’area dell’Euro circa un ottavo, l’Italia ne ha il 2% circa.

La bilancia dei pagamenti, che è la differenza tra quello che si esporta e quello che si importa, negli Stati Uniti è deficitaria per 400 miliardi di dollari, l’ultimo dato disponibile. Come fanno gli Stati Uniti? Creano dollari, che è la principale moneta internazionale, per coprire il disavanzo. La Cina, di cui tanto si parla, ha quasi 300 miliardi di dollari l’anno di surplus della bilancia dei pagamenti. Pagano pochissimo il lavoro, il costo del lavoro è forse un decimo di quello europeo e degli Stati Uniti; la qualità dei prodotti in molti casi non è però quella europea e americana. Ma il fatto più straordinario, è che la Germania, proprio per l’aumento di competitività che inizia nel 2000, ha un surplus come quello della Cina. La Germania è un terzo della Cina, ma ha un surplus della bilancia dovuto al fatto che ha un’industria particolarmente efficiente. Ma gode grazie all’euro di un cambio favorevole in quanto altri paesi, tra i quali l’Italia, la Spagna, la Grecia, anche la Francia, di fatto abbassano il valore del cambio. Un Paese che ha un surplus della bilancia dei pagamenti dovrebbe reinvestirlo in spesa reale o prestarlo ad altri paesi che hanno un deficit, altrimenti crea deflazione nel sistema di cui è parte.

Il piano che aveva ideato Juncker di investimenti per 300 miliardi l’anno era la soluzione giusta; l’Area dell’Euro ha un surplus, nei confronti del mondo esterno del 3% del suo Prodotto Interno Lordo. Cosa fa? Ha disoccupazione, ha deflazione, può e deve spingere gli investimenti. Il ministro greco Varoufakis, che è stato tanto criticato, aveva capito le cose molto meglio degli altri. Aveva

(tab. 3).

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argomentato: “Se invece di puntare tutto sul Quantitative Easing (Draghi si sta muovendo nella giusta direzione, al massimo di quanto gli concede lo statuto), comprando titoli pubblici, quindi coprendo una spesa già effettuata, i 300 miliardi all’anno fossero stati impegnati in progetti di investimento scelti dalla Banca Europea degli Investimenti e i relativi titoli acquistati dalla banche centrali nazionali, avremmo un immediato, notevole sollievo della situazione economica”.

La politica monetaria molto espansiva aiuta l’economia, in particolare in questo momento attraverso il cambio, che dopo i livelli che aveva raggiunto proibitivi per le economie più deboli è ora tornato su livelli più naturali. Comunque se il cambio è in linea con le economie più deboli è estremamente favorevole per quelle più forti.

Keynes ci ha insegnato: in un’economia dove c’è disoccupazione, il risparmio lo formano gli investimenti. Effettuando gli investimenti aumenta il reddito e si forma il nuovo necessario risparmio. Non bisogna ragionare, come si fa in Europa, come se i soldi fossero già in cassa, questo è un ragionare da contabili, non tenendo conto delle più elementari nozioni di macroeconomia.

L’area dell’Euro soffre problemi gravi di disoccupazione. La domanda globale è insufficiente. I riflessi sociali sono evidenti, seguiranno purtroppo riflessi anche politici. I surplus della bilancia dei pagamenti di alcuni Paesi dovrebbero essere impiegati in investimenti reali, non finanziari, in patria o in altri Paesi dell’area.

Una politica del genere aiuterebbe anche l’economia mondiale.

Un’ultima considerazione. Nel 2007 il Rapporto tra Debito pubblico e Prodotto Interno Loro (tab. 4) era nel nostro Paese pari a 103, è arrivato a 137 a seguito delle politiche di aumento dell’imposizione fiscale suggerite dalla Commissione Europea. O è sbagliata la diagnosi o è sbagliata la medicina, ma se è sbagliata la diagnosi, la cura è sicuramente controproducente.

Se in una economia già in difficoltà si accresce il livello di imposizione fiscale l’attività economica viene ulteriormente frenato con gli effetti negativi sull’occupazione e sulla società. L’unico modo di ridurre il rapporto tra Debito Pubblico e Prodotto Interno Lordo è stimolare la crescita dell’economia. Se la politica che si pratica in Europa e che

(tab. 4).

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viene consigliata per l’Italia non ha questo risultato non si esce dal circolo vizioso.

Il discorso è aperto, si deve qui entrare in una analisi economica più approfondita e

nelle connesse implicazioni politiche.

Ad una prossima occasione.

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Atti del Convegno sul nuovo ordine economico mondialee l’Europa

(a cura del Dott. Marcello Carli e del Dott. Giovanni Scanagatta, Trento, 5 novembre 2016)Alla ricerca di un nuovo ordine economico mondiale: spazi per un nuovo umanesimo

Convegno della Sezione Ucid di Trento

Alla ricerca di un nuovo ordine economico mondiale: spazi per un nuovo umanesimo

Intervento di Gino Lunelli (*)

Mi è stato gentilmente offerto di aprire questo convegno come Past-President e come fondato-re dell’UCID di Trento.

Un benvenuto cordiale a tutti Voi ma in primis al nostro Arcivescovo Mons. Lauro Tisi, ai no-stri relatori (e al nostro Pres. Naz. Dott. Gian-carlo Abete).

Nel programma sono stati riservati ben 10 mi-nuti al mio saluto e non mi pare fuori luogo ap-profittare di questo tempo per proporvi alcune mie riflessioni sul tema ispiratore di quest’ap-puntamento. Il tema da trattare è doppio: si parla di un nuovo ordine economico mondiale e di un nuovo umanesimo, l’uno invoca l’altro, diciamo che il primo potrà rendersi benemerito se avrà ricevuto benefici dal secondo.

Che stiamo vivendo in uno dei frangenti più

tumultuosi nella storia dell’umanità è sotto gli occhi di tutti. Non mi riferisco soltanto ai tanti focolai di guerra che continuano a dilaniare il mondo e che straziano la nostra coscienza di cristiani, ma, soprattutto, alla cosiddetta quar-ta rivoluzione industriale dai contorni ancora tutt’altro che definiti e che vuol dire sconvol-genti, cambiamenti che si susseguono alla ve-locità della luce; vuol dire: robotica, bioinge-gneria, economia delle reti e della condivisione, un mondo digitalizzato. E tutto questo nel pieno di colossali migrazioni che spingono più di un paese ad alzare muri, dimenticando le parole di Papa Benedetto XVI che dice: “Con la globaliz-zazione siamo tutti più vicini ma non per questo più fratelli”.

La terza rivoluzione industriale, che si può rac-contare come la rivoluzione informatica che ha portato da un lato a una flessibilità nella produ-zione e dall’altro alla globalizzazione dei mer-cati finanziari, non s’è ancora conclusa e già si comincia a parlare della quarta che è poi la rivoluzione digitale che si caratterizza per una crescente integrazione tra uomo e macchina e tra macchina e macchina, e che altro non è che una tendenza delle nuove tecnologie ad andare

(*) Presidente del Gruppo Regionale UCID Trentino Alto Adige

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sempre più forte, sempre più velocemente an-che in assenza di un presidio umano. Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che molti degli aspetti di questa rivoluzione mi sfuggono, non riesco a comprenderli, ne sono escluso anche in forza dell’età. Ma so bene che questa rivo-luzione ha sconvolto, sta sconvolgendo e conti-nuerà a sconvolgere l’intero mondo produttivo e con esso il mondo del lavoro. Niente è più come prima e niente, domani, sarà come oggi: è un autentico tsunami che si è abbattuto, che si abbatte e che si abbatterà su noi tutti. Penso che sarà uno tsunami continuo che investirà non soltanto gli operai, le cosiddette tute blu, ma an-che i dirigenti, i professionisti, gli intellettuali e che mi fa chiedere: quale sarà il futuro di ogni stadio del lavoro? E, ancora più grave, come sarà distribuita la ricchezza anche in forza della inarrestabile globalizzazione?

Questa nuova era di digitalizzazione e globa-lizzazione acuirà la differenziazione tra ricchi e poveri o sarà foriera di una nuova giustizia sociale? È uno sconvolgimento che reclama inevitabilmente un nuovo ordine economico mondiale, lo auspica per fare in modo che il divario tra paesi ricchi e paesi poveri non au-menti e per alleviare le condizioni di povertà, se non di miseria, che affliggono non meno di un miliardo di uomini, non dimenticando che rimane sempre aperto il problema irrisolto di

un ambiente ovunque aggredito. Come dire che allo tsunami dell’economia e della finanza che sinteticamente chiameremo digitalizzazio-ne dobbiamo riuscire ad affiancare, un compito che noi cristiani dobbiamo considerare impre-scindibile, un rinnovamento delle coscienze, un rinnovamento spirituale e una spinta al ri-sanamento autentico dell’ambiente. Un nuovo umanesimo, appunto.

Se cinque secoli fa umanesimo voleva dire ri-nascita culturale e spirituale, dopo il medioe-vo e lo slancio che portò poi al rinascimento, oggi umanesimo vuol dire soprattutto un nuovo modo di guardare al futuro, di concepire il fu-turo. Significa, come dice Benedetto XVI nella Caritas in veritate, un profondo rinnovamento culturale, la riscoperta di valori di fondo sui quali costruire un avvenire migliore, per fare in modo che la cosiddetta quarta rivoluzione in-dustriale punti, infine, oltre che a cambiare l’e-conomia a migliorare la condizione dell’uomo. È uno sforzo nel quale dovremmo tutti impe-gnarci, ampliando il principio di reciprocità e pensando al bene delle generazioni che verran-no. In poche parole vorrei riassumere qesto mio pensiero in un sintetico “Quo vadis Italia, quo vadis humanitas?”

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Intervento di Marcello Carli (*)

Cari amici, cari ospiti,

mi preme anzitutto ringraziare S.E. Mons. Tisi, nostro Arcivescovo, per l’attenzione con la qua-le ci accompagna e per la presenza a questo importante momento di confronto. Vorrei poi ringraziare per la loro presenza S.E. il Commis-sario del Governo, Prefetto Gioffrè, il Questo-re dr. D’Ambrosio, oltre naturalmente ai nostri ospiti il Presidente UCID Nazionale dr. Gian-carlo Abete, il Segretario Generale dr. Giovan-ni Scanagatta, ed i nostri relatori prof. Antonio Magliulo e prof. Giuseppe Folloni.

Vorrei introdurre questo breve contributo e sa-luto ricordando perché abbiamo promosso l’in-contro di oggi. Tutto nasce dal confronto tra Giovanni Scanagatta e me, confronto avvenuto a Roma all’indomani della mia nomina alla Presi-denza della sezione trentina di UCID, e durante il quale Giovanni ha messo in evidenza la cen-tralità del tema dei grandi accordi internazionali sul commercio, a partire dal T.T.I.P., ed io, par-tendo da lì, ho sottolineato il problema legato al nuovo significato che il denaro ha assunto alla luce dei profondi cambiamenti intervenuti sul suo ruolo. Ed abbiamo quindi deciso insieme di promuovere il confronto di oggi.

Che significato ha oggi il denaro? Rispetto ad un mondo economico al cui centro c’è stato il me-tallismo, ovvero il valore del denaro calcolato prima sulla quantità intrinseca di metallo prezio-so (oro – argento) e poi sul collaterale depositato presso le banche che emettevano le banconote o coniavano le monete prive di valore intrinseco, oggi il quadro è radicalmente diverso.

Fino al 1971, a seguito degli accordi di Bretton Woods presi nel 1944 – alla fine della seconda guerra mondiale – la valuta di riferimento per determinare il valore delle monete della parte occidentale del mondo era il dollaro, garantito da un valore aureo. Poi nel 1971 il Presidente Nixon ha raccontato la verità, ammettendo che si erano stampati molti più dollari di quello che sarebbe stato possibile a fronte delle riserve au-ree della Federal Reserve, e tutto per finanziare prima la guerra di Corea e poi quella del Vie-tnam. Ed ha sganciato il dollaro dalla parità au-rea, iniziando di fatto un nuovo mondo, del qua-le oggi vediamo gli enormi aspetti problematici.

Nel mondo di oggi si stima che i debiti aggre-gati, pubblici e privati, assommino a 250.000 miliardi di Dollari americani a fronte di P.I.L. mondiale di circa 74.000 miliardi di dollari, e che i derivati in circolazione ammontino ad 1.000.000 di miliardi di dollari americani. Di che stiamo parlando?

Ha senso strozzare la Grecia per chiedere un rientro dai suoi debiti in un contesto simile, mettendo alla fame i suoi abitanti? E l’Italia, tecnicamente fallita? Si dice che tanto il debito pubblico non deve essere rimborsato, ma solo gestito. Ma allora il tema dell’austerity, che sen-so ha?

Abbiamo elevato il denaro a fine di ogni com-portamento economico, mettendo al centro i fat-turati, gli utili, i dividendi, e mettendo l’uomo fuori da ogni categoria.

Ma quando vediamo che ci sono milioni di per-sone che si spostano nel mondo alla ricerca di condizioni di vita quanto meno dignitose e che interi sistemi Paese sono in una condizione di

(*) Presidente Sezione UCID di Trento

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collasso economico a causa dell’austerity appa-re evidente che qualcosa non funziona dentro a questo sistema.

E’ evidente che dobbiamo rimettere l’uomo al centro del nostro agire economico. Solamen-te un nuovo umanesimo che crei una corretta gerarchia delle priorità e dei valori mettendo l’uomo al centro potrà rappresentare il punto di partenza per una nuova fase dell’economia mondiale.

In questo senso la dottrina sociale della Chiesa rappresenta un punto diriferimento formidabile, al quale attingere per costruire un nuovo modo di approcciare l’agire economico.

E noi imprenditori cattolici possiamo diventare l’avanguardia di un modo diverso e più che mai attuale di fare impresa.

La Chiesa cattolica può davvero diventare, col suo pensiero e con la testimonianza delle opere degli imprenditori e delle persone che ad essa guardano, la nuova avanguardia di un modo diverso di fare economia, un’economia con al centro l’uomo.

L’uomo con i suoi bisogni, con i suoi diritti alla dignità ed alla libertà, l’uomo con il suo essere fine dell’agire economico, e non banale stru-mento di promozione di un consumo sganciato da ogni logica umana mente comunitaria.

Oggi, a Trento, abbiamo inteso piantare il seme di un pensiero nuovo, sperando che dal seme possa nascere una pianta i cui germogli possa-no diventare il riferimento di un nuovo modo di fare economia, un’economia ispirata ad un nuo-vo umanesimo.

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Intervento di Giovanni Scanagatta(*)

Ringrazio S.E. Mons. Tisi, Arcivescovo di Trento, che ci onora della Sua presenza. Un gra-zie all’amico Gino Lunelli, Presidente Onorario della Sezione UCID di Trento, con cui da lungo tempo intercorre un rapporto cordiale di scam-bio di vedute sui principali problemi economici e sociali alla luce dei grandi insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa, e a Marcello Car-li con cui ho condiviso la scelta di organizzare un Convegno su un tema così impegnativo, ma di largo respiro e valido per tutta la nostra as-sociazione. Ringrazio tutte le autorità presenti e tutti voi che siete intervenuti così numerosi.

Con Marcello ci siamo incontrati a luglio scor-so a Roma per scegliere il tema del Convegno e alla fine abbiamo raccolto la difficile sfida di trattare un tema molto difficile e di scenario come quello della ricerca di un nuovo ordine economico mondiale alla luce dei valori dell’u-manesimo e, vorrei dire, di un nuovo umane-simo cristiano. Penso allora che dobbiamo guardare ai grandi valori della Dottrina Sociale della Chiesa come guida per un nuovo ordine economico mondiale. Si tratta dello sviluppo, della solidarietà, della sussidiarietà, della desti-nazione universale dei beni, del bene comune.

Lo sviluppo è il primo grande principio e non deve essere inteso solo come crescita quantitati-va della ricchezza, ma come sviluppo integrale dell’uomo con i suo valori di libertà, responsa-bilità, dignità, creatività. Concetti che trovia-mo nella grande Enciclica sociale Populorum progressio del 1967 di Paolo VI, di cui ricorre l’anno prossimo il cinquantesimo. Questo con-cetto di sviluppo viene raccolto e ampliato da

Giovanni Paolo II nel 1987 con la Sollicitudo rei socialis, da Benedetto XVI nella Caritas in veritate e da Papa Francesco della Laudato si’. Papa Francesco parla di ecologia integrale riferendosi a tutte le attività dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, che deve rima-nere al centro di ogni processo di sviluppo per la costruzione di un vero umanesimo cristiano.

Il Compendio della Dottrina Sociale della Chie-sa del 2004, curato dal Pontificio Consiglio del-la Giustizia e della Pace, parla di tre grandi sfide a cui si trova di fronte l’umanità all’inizio del terzo millennio. La prima sfida riguarda l’uo-mo, chi deve essere, i suoi rapporti con Dio e quelli con la tecnica. L’uomo senza Dio non sa dove andare e non sa nemmeno chi egli sia, ci dice Benedetto XVI nella Caritas in veritate. Il riduzionismo economico e il relativismo etico che permeano il mondo ci hanno portato fuo-ri strada e sono alla base dell’attuale disordine economico e sociale mondiale. Papa Francesco parla di terza guerra mondiale a pezzi e indica la necessità di un nuovo modello di sviluppo eco-nomico globale, riprendendo e sviluppando la proposta di Benedetto XVI nella Caritas in ve-ritate. Come si legge nella Laudato si’, è neces-saria una autentica Autorità Politica Mondiale, dotata di precisi poteri sanzionatori. Occorre per questo superare la grande debolezza delle istituzioni internazionali come l’Organizzazio-ne delle Nazioni Unite (ONU), il Fondo Mone-tario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BIRS), l’Organizzazione Mondiale del Com-mercio (WTO) e così via. Si tratta di istituzioni monetarie e finanziarie internazionali nate con gli Accordi Bretton Woods di luglio del 1944, con la nascita del gold exchange standard basa-to sul dollaro come mezzo intermediario degli

(*) Segretario Generale UCID Nazionale

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scambi internazionali e come riserva di valore. Era il sistema dei cambi fissi basato sulla con-vertibilità del dollaro in oro, venuta meno il 15 agosto del 1971. Siamo poi passati ai cambi flessibili, in scenari economici e finanziari che sono profondamente cambiati con differenti rapporti tra le diverse aree economiche mondia-li. L’idea del gold exchange standard la trovia-mo nel Trattato sulla Riforma Monetaria di J.M. Keynes del 1923, con una base aurea fondata sulla sterlina o sul dollaro, in relazione alle di-verse aree economiche mondiali di influenza. Questa idea sarà applicata con il piano america-no proposto da White con gli accordi di Bretton Woods, rispetto al piano Keynes che prevedeva una moneta unica mondiale denominata bancor.

La seconda grande sfida riguarda la compren-sione e il governo (governance) delle differen-ze storiche, culturali, religiose e dei modelli di sviluppo economico e sociale che la globaliz-zazione ha fatto esplodere. La politica tradizio-nale nella concezione dei singoli Stati sì è mo-strata incapace di comprendere e di governare queste grandi differenze, anche perché domina-ta dai poteri della finanza internazionale e della grande tecnocrazia a livello globale. La finanza diventa il cervello dell’economia nello scenario dell’accelerazione del progresso scientifico e tecnico e della globalizzazione. La politica non riesce a fare il salto di qualità e di prospettiva di cui abbiamo bisogno, anche per mancanza di grandi leader capaci di vedere dove sta an-

dando il mondo e di governare i grandi processi a livello globale. Per questo Benedetto XVI e Papa Francesco nel loro insegnamento sociale parlano della necessità di un nuovo modello di sviluppo economico globale e di una autentica Autorità Politica Mondiale.

La terza grande sfida a cui si trova di fronte l’u-manità all’inizio del terzo millennio riguarda la globalizzazione che ha un significato più largo e più profondo di quello semplicemente econo-mico perché da essa dipende il futuro dell’uma-nità.

All’interno di queste tre grandi sfide globali si trova l’Europa e l’Unione Europea che non ha saputo trovare una sua identità come era avve-nuto ad opera dei padri fondatori dopo la se-conda guerra mondiale. L’Europa della moneta e delle banche ci ha portato in un vicolo cieco e senza una grande volontà di rinascita dell’Eu-ropa dei cittadini essa è destinata, come avverte Benedetto XVI, ad uscire dalle grandi traietto-rie della storia.

L’approfondimento di questi temi sarà curato dal Prof. Magliulo e dal Prof. Folloni che rin-grazio per i lori preziosi contributi a questo Convegno dell’Ucid che, come associazione di imprenditori e di dirigenti cristiani, ha ritenuto fondamentale interrogarsi su dove sta andando il mondo e la nostra Europa.

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Intervento di Mons. Lauro Tisi (*)

L’Arcivescovo di Trento, Mons. Lauro Tisi, dopo i saluti di apertura, ha sottolineato la necessità di tornare alla realtà, investendo sulle persone.

La virtualità ci ha allontanato dal reale. L’Europa vive immersa nella paura e non si rende conto di quali saranno le conseguenze dell’inverno demografico che sta attraversando.

Dobbiamo, secondo l’Arcivescovo di Trento, tornare alla semplicità, investire sulle persone. Perché senza uomini non ci sarà un vero sviluppo, ma solo moltiplicazione di ban-conote.

E’ necessario riaprire il tema della com-petizione, in rapporto a quello della cooperazio-ne per lo sviluppo e la giustizia. La competi-zione deve servire per crescere. Non dobbiamo dimenticare il rapporto Nord-Sud del mondo, come grande sfida che abbiamo davanti a noi.

Senza un grande investimento sulle risor-se umane, non avremo nessun sviluppo.

Stiamo attraversando uno dei momenti più tumultuosi della storia dell’umanità, con enormi complicazioni in ogni campo. Si trat-ta della nuova onda dell’innovazione e della globalizzazione che si intreccia che le grandi trasformazioni che avverranno sul mercato del lavoro, con conseguenze forti sulla famiglia e sulle giovani generazioni. Sulla dignità del la-voro, Giovanni Paolo II ha scritto un’impor-tante enciclica sociale nel 1981, la Laborem exercens. In questa enciclica si distingue tra la-voro oggettivo e lavoro soggettivo e si mette in

guardia dalle nefaste conseguenze del riduzio-nismo economico in cui tutto viene ridotto alla sfera dell’economia, senza alcun riferimento ai valori spirituali. Benedetto XVI ci ha insegnato che anche i valori spirituali hanno conseguen-ze economiche e che Stato e mercato non sono da soli sufficienti a costruire il bene comune. Ci vuole anche una componente di gratuità e di dono, come si legge nella grande Enciclica sociale Caritas in veritate. Fortunatamente nel nostro Paese abbiamo una grande realtà che è rappresentata dal volontariato, quello che co-munemente si chiama terzo settore e a cui si presta poca attenzione sul piano politico, so-prattutto su quello delle agevolazioni fiscali. La reazione della nostra gente al difficile fenome-no migratorio è stata molto positiva, raccoglien-do anche le esortazioni fatte da Papa Francesco nella direzione delle parrocchie e delle famiglie per aprirsi all’accoglienza e all’integrazione. E’ un modo diverso di fare accoglienza nello spiri-to della sussidiarietà, rispetto ad altri interventi che vedono le distorsioni che provocano il de-naro pubblico destinato a questo scopo.

Abbiamo bisogno in conclusione di un nuovo ordine economico mondiale fondato su un nuovo umanesimo, come dice il titolo di questo Convegno organizzato dall’UCID Na-zionale in collaborazione con la Sezione UCID di Trento. Questo nuovo ordine mondiale si deve basare su due grandi principi della Dottri-na Sociale della Chiesa: la solidarietà e la sussi-diarietà. La solidarietà senza sussidiarietà crea dipendenza e appiattimento mortificando lo spi-rito di iniziativa e di creatività per lo sviluppo e il bene comune. La sussidiarietà senza solida-rietà porta all’egoismo localistico senza alcuna attenzione verso il prossimo. Questi due grandi principi della Dottrina Sociale della Chiesa de-

(*) Arcivescovo di Trento

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vono essere coniugati insieme e in equilibrio per un mondo più giusto. Solo in questo modo si potrà raggiungere la pace, sconfiggendo quel-

la che Papa Francesco chiama guerra mondiale a pezzi a causa della globalizzazione dell’indif-ferenza.

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Relazione di Antonio Magliulo (*)Dopo Brexit: verso un nuovo umane-simo europeo

1. Introduzione

E’ come se l’Europa, dopo Brexit, si fosse fermata davanti ad un crocevia: stanca, perples-sa, indecisa sulla strada da imboccare. Davanti a sé tre vie, visibili nelle parole pronunciate da alcuni leader europei poche settimane dopo il referendum del 23 giugno 2016 che ha sanci-to la volontà del popolo britannico di uscire dall’Unione Europea.

Il 6 ottobre 2016 Angela Merkel dichia-ra: «Se non diciamo che il pieno accesso al mercato comune è condizionato dalla piena accettazione delle quattro libertà fondamentali europee, tra cui la libera circolazione dei cit-tadini allora ciascuno in Europa comincerà a fare quello che vuole». Il messaggio è chiaro ed è rivolto innanzitutto al nuovo premier in-glese, Theresa May, impegnata in una difficile negoziazione con Bruxelles: non si può stare nel Mercato Unico Europeo e impedire la libera circolazione degli uomini. O tutto o nulla. Ma il messaggio è implicitamente rivolto anche agli altri partner europei e suona più o meno così: esiste una sola Europa, una sola destinazione, quella della piena integrazione economica che, al massimo, potrà essere raggiunta procedendo a due diverse velocità.

L’11 settembre Romano Prodi aveva pre-figurato un’altra Europa: «Un’Europa unita e forte con attorno a sé una cerchia di Paesi, un “anello di amici”, con cui condividere una re-lazione speciale». All’immagine di un’Europa a due velocità, subentra quella dei cerchi concen-trici, con un nocciolo duro costituito dai paesi

che condividono la prospettiva di un’unione po-litica ed economica e una cerchia di paesi-ami-ci, tra cui l’Inghilterra, che partecipano soltanto ad alcune forme di cooperazione economica.

Il 9 ottobre l’ex premier polacco Jaroslaw Kaczynski, in una lunga intervista al quotidia-no “La Repubblica”, dichiara: «Tutti in Europa dobbiamo tornare al concetto di Stato nazionale, la sola istituzione capace di garantire democra-zia e libertà». Il leader neoconservatore auspica un gigantesco passo indietro verso un’Europa di Stati nazionali che, soli, possono assicurare ai cittadini europei libertà e democrazia.

Quale Europa vogliamo? Qual’è l’Euro-pa migliore? E abbiamo davvero bisogno di un nuovo umanesimo?

In questa breve riflessione, nel tentativo di abbozzare una risposta a quesiti che richie-derebbero una lunga e approfondita analisi, toc-cherò due correlati argomenti. Il primo: come siamo giunti al punto in cui siamo. Il secondo: quali sono i vantaggi e gli svantaggi delle “tre Europe” che abbiamo davanti e perché abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo.

2. Un po’ di storia: come siamo giunti al punto in cui siamo

L’antica idea di un’Europa unita rinasce nel pieno della seconda guerra mondiale. Nel 1941, nel confino di Ventotene, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli scrivono il Manifesto che por-ta il nome dell’isola in cui sono reclusi. Negli stessi anni di guerra, combattuta in terra d’Eu-ropa, altri autori si cimentano sullo stesso tema. Per tutti è chiaro perché occorre unire il Vec-chio Continente: innanzitutto per prevenire il ripetersi di una nuova grande guerra. L’Europa

(*) Professore all’Università degli Studi Internazionali di Roma

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rinasce, almeno nelle illuminate menti di alcu-ni influenti intellettuali, per garantire la pace. Molto più controverso è stabilire come unire l’Europa. Nel dopoguerra il dibattito si sviluppa intorno a questa seconda controversa questione.

La disputa si svolge inizialmente tra fede-ralisti e internazionalisti. I federalisti sono una famiglia allargata che annovera tra le proprie fila personaggi del calibro di Spinelli, Rossi, Einaudi, Robbins, Hayek. Vi è un federalismo liberale, che vede nella federazione sovranazio-nale, europea o mondiale, uno strumento per li-mitare il potere degli Stati nazionali e dunque il potere della politica sull’economia. Vi è, al con-trario, un federalismo à la Ventotene che guarda alla federazione come ad uno strumento moder-no per governare economie sempre più sovra-nazionali e dunque per ristabilire, in un contesto nuovo, il primato della politica sull’economia. E vi è infine un federalismo di matrice cattolica che si ispira, anche nelle relazioni internaziona-li, ai principi di solidarietà e sussidiarietà. Ciò che accomuna e connota i diversi federalismi è l’idea che, prima di aprire ed integrare i mer-cati, europei o mondiali, occorra una qualche forma di unificazione politica. Prima la politica, poi l’economia. Quindi, prima la costituzione di un governo europeo, poi l’apertura e l’integra-zione dei mercati.

La tesi alternativa, sostenuta nel dopo-guerra da economisti e politici di varia estrazio-ne culturale, è che l’unificazione dell’Europa debba avvenire all’interno del più grande e li-bero mercato internazionale. L’Europa, anziché chiudersi in se stessa, avrebbe dovuto aprirsi e concorrere alla costruzione di un unico mer-cato mondiale basato, come durante la prima globalizzazione di fine Ottocento, su due soli-de istituzioni: un regime commerciale di libe-

ro scambio e un sistema monetario aureo. Gli internazionalisti proponevano dunque l’ade-sione agli Accordi monetari di Bretton Woods e al General Agreement on Tariffs and Trade (GATT). E’ significativo che, nel corso del di-battito costituente, fu respinto un emendamen-to presentato dal deputato Bastianetto il quale chiedeva che l’Italia, come prescritto nell’art. 11 della Costituzione, acconsentisse a limitare la propria sovranità nazionale non solo per ga-rantire la pace ma anche per costruire l’Europa unita. L’emendamento fu respinto perché, si disse, l’Italia doveva guardare oltre l’Europa.

Come spesso accade, tra i due litiganti – federalisti e internazionalisti – finì per prevalere una terza posizione: quella dei funzionalisti. Il funzionalismo è una dottrina elaborata dall’eco-nomista rumeno David Mitrany e applicata, sul piano politico, dal francese Jean Monnet. L’idea è antitetica a quella dei federalisti: per costruire l’Europa unita occorre iniziare dall’economia e non dalla politica, anche perché, nelle condi-zioni storiche del dopoguerra, era impensabile formare un governo europeo composto da rap-presentanti di paesi che fino a pochi mesi prima erano nemici di guerra. L’apertura dei mercati avrebbe invece innescato un processo di pro-gressiva integrazione economica che avrebbe sollevato una serie di nuovi problemi econo-mici che, alla fine, per essere superati, avrebbe richiesto una qualche forma di unificazione po-litica. Prima l’economia, poi, inevitabilmente, anche la politica. Profetizza Monnet: “L’Euro-pa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dal-la sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi”.

Il passo iniziale nel lungo cammino eu-ropeo è simbolicamente compiuto il 16 aprile 1948 quando, a Parigi, nasce l’Organisation

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Européenne de Coopération Economique (OECE), un organismo europeo a cui gli Stati Uniti avevano demandato il compito di gestire i fondi del Piano Marshall. L’Europa è “costret-ta” ad unirsi per poter beneficiare degli aiuti americani.

Da allora, e fino ad oggi, possiamo im-maginare il processo di integrazione europea come una lunga corsa ad ostacoli. In partico-lare, vi sono state tre grandi tappe e altrettanti ostacoli, l’ultimo dei quali, ancora da saltare, è quello che precede il traguardo finale dell’unità politica.

La prima tappa è la costruzione del mer-cato unico europeo, che avviene tra il 1952, anno di costituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti e il 1990, anno in cui l’Italia, ultimo tra i grandi paesi europei, approva una legge che liberalizza il movimento dei capitali. Col mercato unico viene garantita la libera circola-zione di merci, servizi, persone e capitali.

Ed ecco il primo, previsto, ostacolo: il Mercato Unico funziona solo con l’Unione Mo-netaria.

La ragione la spiegano gli economisti con la teoria del “quartetto inconciliabile”. Vi sono quattro obiettivi, tutti desiderabili: la libera cir-colazione dei beni, che permette di realizzare quella divisione internazionale del lavoro che è all’origine della ricchezza delle nazioni; la libe-ra circolazione dei capitali, che permette di de-stinare il risparmio disponibile al finanziamento degli investimenti più remunerativi; un regime di cambi fissi o stabili che favorisce gli scambi internazionali; l’autonomia nella conduzione della politica monetaria che assicura la sovrani-tà economica nazionale. Peccato che non siano

compatibili. In particolare, se le politiche mo-netarie nazionali diventano troppo divergenti non è più possibile mantenere la stabilità dei cambi e si innescano guerre commerciali. Nel 1992, per esempio, la lira italiana e la sterlina inglese furono costrette ad uscire dal Sistema Monetario Europeo a seguito della decisione della Bundesbank di alzare i tassi di interesse per attrarre i capitali esteri necessari finanziare la riunificazione del paese.

L’Europa salta il primo ostacolo rinun-ciando alle sovranità monetarie nazionali.

La seconda tappa è la costruzione dell’U-nione Economica e Monetaria che avviene tra il 1992, anno in cui viene firmato il Trattato di Maastricht, e il 2002, anno in cui entra in cir-colazione l’Euro, la moneta unica gestita dalla Banca Centrale Europea.

Ed ecco, dopo alcuni anni di apparen-te calma, il secondo atteso ostacolo: l’Unione Monetaria funziona solo con l’Unione Fiscale. La ragione sostanziale l’aveva spiegata, ante litteram, il Premio Nobel per l’Economia Ro-bert Mundell. Un’Unione Monetaria può fun-zionare senza Unione Fiscale solo nel caso (irrealistico) in cui non si verifichino shock asimmetrici. Se invece, come solitamente ac-cade, un paese (la Germania) è in espansione e un altro (la Grecia) è in recessione, e se non è possibile ricorrere né alla svalutazione del cambio né a consistenti trasferimenti di per-sone disoccupate, allora l’unica possibilità è attuare politiche fiscali espansive nell’area de-pressa (la Grecia). Ma come può l’Unione Eu-ropea attuare politiche fiscali espansive quando il bilancio comunitario ammonta a circa l’1% del Pil europeo!

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Ed ecco l’ultimo ostacolo davanti a cui è ferma l’Europa: sarà possibile costruire un’U-nione Fiscale, e quindi un adeguato bilancio co-munitario, soltanto se i popoli europei si rico-nosceranno parte di uno stesso démos: soltanto se ogni cittadino sentirà di avere, oltre ad una coscienza e ad un’identità locale e nazionale, anche una coscienza e un’identità europee. Al di là di ogni tecnicalità, i tedeschi non saran-no mai disponibili a rinegoziare il debito greco o a finanziare una politica di investimenti in quell’area se non sentiranno i greci come ap-partenenti ad una comune patria europea.

In breve, nel secondo dopoguerra l’Euro-pa ha scelto la via (funzionalista) della progres-siva integrazione economica nella consapevo-lezza che, un giorno, sarebbe stata necessaria una qualche forma (federalista) di unificazione politica per completare la costruzione europea.

Quel giorno è arrivato.

3. Il trivio europeo e il nuovo umane-simo

Il 23 giugno 2016 i cittadini britannici fermano il convoglio europeo e scendono rifiu-tando palesemente la prospettiva di una “ever closer union”. A loro basta restare nel Mercato Unico a patto di poter mantenere la libertà di regolare i flussi migratori e la circolazione degli altri cittadini europei.

Da quel momento l’Europa è ferma, da-vanti ad un trivio, in attesa di decidere quale direzione prendere.

La prima via è quella funzionalista di “una sola Europa a due velocità”. E’ un télos coerente col disegno originario dei padri fon-

datori, a condizione che si chiarisca finalmente quale Europa politica si vuole costruire dopo aver percorso tutto il tragitto dell’integrazione economica. Se un’Europa federale e democra-tica capace di governare un’economia comu-nitaria sempre più complessa e integrata o se un’Europa che mantiene, sostanzialmente, il metodo intergovernativo degli accordi tra Sta-ti nazionali. Nella logica funzionalista, quella scelta è stata posposta in attesa di percorrere tutto il tragitto dell’integrazione economica. Ma ora appare evidente che non sarà possibi-le saltare l’ultimo ostacolo, quello dell’Unione Fiscale, se non sarà chiaro quale Europa politi-ca ci attende. Un autorevole esponente politico inglese, Lord Alton, ha dichiarato che la Gran Bretagna ha rifiutato non l’Europa ma la pro-spettiva del Superstato europeo di Bruxelles. Ed ha aggiunto: «Continui così e non sarà soltanto il Regno Unito che chiede di uscire dall’Unio-ne Europea ma anche gli olandesi, i danesi, gli svedesi, i polacchi, i cechi, gli slovacchi e gli ungheresi.»

La seconda via è quella dell’“Europa a cerchi concentrici”, anch’essa coerente col di-segno dei padri fondatori, a condizione che pre-valga la consapevolezza che, senza uno “spirito comunitario” e un vigile governo politico, gli anelli più grandi e periferici della catena eu-ropea potrebbero spezzarsi: come hanno am-monito gli economisti, il mercato unico senza la libera circolazione degli uomini o l’unione monetaria senza l’unione fiscale difficilmente possono funzionare.

La terza e ultima via è quella di un’“Eu-ropa di Stati nazionali”. E’ quella più lontana dall’ideale originario anche se i padri fondato-ri non volevano cancellare gli Stati nazionali per creare un Superstato europeo ma soltanto

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sviluppare, secondo un implicito principio di sussidiarietà e solidarietà, quello che oggi si chiama un governo multilivello. La terza via è pericolosa perché rischia di riportare l’Europa alla triste e tragica stagione degli opposti na-zionalismi. Un pericolo che potrebbe essere scongiurato soltanto se prevalesse un principio di sussidiarietà solidale.

L’Europa è dunque ferma davanti ad un trivio. Tutte le strade sono aperte e tutte con-ducono ad una mèta europea. Ma la mèta potrà essere raggiunta, e sarà davvero una destinazio-ne europea, soltanto se gli uomini in cammino avranno la coscienza di appartenere ad uno stes-so popolo europeo. Questa coscienza è il nuovo umanesimo di cui hanno parlato Benedetto XVI e Papa Francesco.

Benedetto ha invitato a guardare i monaci benedettini, i primi fondatori dell’Europa dopo il crollo dell’Impero Romano: «Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passa-to. La loro motivazione era molto più elementa-re. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio».

E Papa Francesco ha aggiunto: «Possia-mo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti

del volto autentico dell’uomo».

Il nuovo umanesimo è la scoperta dell’al-tro come un bene per sé, e non come rivale o nemico. L’altro è un bene per sé in azienda, nel-la società civile, nelle relazioni internazionali. Questa scoperta cambia i rapporti tra gli uomini e tra gli Stati, ed è la sola forza che può con-sentire di percorrere fino in fondo una delle tre strade che conducono all’Europa unita.

4. Una breve conclusione

Qual è dunque l’Europa migliore?

Nel dopoguerra gli Stati europei, dilaniati da un’autodistruttiva guerra totale, hanno intra-preso la via funzionalistica della progressiva in-tegrazione economica. La costruzione dell’Eu-ropa comunitaria è stata una lunga corsa ad ostacoli. Ora siamo davanti all’ultimo ostacolo: l’Unione Fiscale. Per saltarlo occorre sapere cosa si nasconde dietro la siepe. Se c’è l’Euro-pa burocratica e centralistica molti preferiranno conservare, anche a costo di un minore benesse-re economico, la libertà e la democrazia garan-tite dagli Stati nazionali. Se c’è invece l’Europa democratica che recepisce i principi di solida-rietà e sussidiarietà molti non avranno timore a compiere l’ultimo salto e a costituire il nucleo più solido di una catena di cerchi concentrici.

Ma per compiere quel salto abbiamo bi-sogno di uno sguardo nuovo sull’altro, abbiamo bisogno dello slancio di un nuovo umanesimo.

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Relazione di Giuseppe Folloni (*)

“Ognuno al suo lavoro” (Th.S. Eliot): di fronte a un cambiamento epocale che “lavoro” è necessario?

In luoghi abbandonati Noi costruiremo con mattoni nuovi Vi sono mani e macchine E argilla per nuovi mattoni E calce per nuova calcina Dove i mattoni son caduti Costruiremo con pietra nuova Dove le travi son marcite Costruiremo con nuovo legname Dove parole non son pronunciate Costruiremo con nuovo linguaggio C’è un lavoro comune Una Chiesa per tutti E un impiego per ciascuno Ognuno al suo lavoro. (Th. S. Eliot, Cori da La Rocca)

Uno sguardo alla recente crescita nelle diverse regioni del mondo indica che l’at-tuale globalizzazione ha condotto sia a forti rallentamenti nella cre-scita in talune regioni, sia a una consistente crescita in altre (vedi figura 1).

Ciò ha generato una notevole re-distribuzione della produzione di reddito fra le diverse regioni del mondo, misurata in quote del

PIL mondiale (figura 2), ad un aumento della quota di esportazioni dei paesi emergenti (fra tutti la Cina), ad una crescita molto differenzia-ta dei redditi dei diversi gruppi di popolazione nel mondo: vi è stata, nel periodo considera-to, un’enorme crescita dei redditi della middle class cinese e dei ceti più ricchi in assoluto nella popolazione mondiale (i cui redditi sono raddoppiati); al contrario, la lower middle class americana ha visto i propri redditi ristagnare; così come sono ristagnati i redditi della parte più povera della popolazione mondiale. Di con-seguenza, anche se la diseguaglianza misurata fra medie di reddito dei diversi paesi (ognuno considerato come unità di conto) ha conosciuto un declino negli anni recenti, in particolare per l’effetto legato ai paesi emergenti, la disegua-glianza globale, misurata sulle differenze fra singoli individui a livello complessivo, è rima-sta elevatissima e non è affatto diminuita.

Figura 1 – tassi annui di crescita per gruppi di paesi ad alto e medio reddito e nel mondo, 1990-2014

Fonte: World Bank

(*) Professore all’Università degli Studi di Trento

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Figura 2 – Quote del PIL mondiale per gruppi di pa-esi 1990-2014

Fonte: World Bank

Il “grande cambiamento”: nei mercati del lavoro

La mappa economica del mondo sta cambiando rapidamente e radicalmente.

Città che fino a qualche decennio fa non erano che minuscoli punti a stento percepibili sulle carte geografiche, si sono trasformate in mega-lopoli con migliaia di nuove aziende e milioni di posti di lavoro. In nessun luogo al mondo tale fenomeno è più evidente che nella cinese Shenzhen. È uno dei centri urbani con il più rapido ritmo di crescita a livello mondiale. In trent’anni si è trasformata da piccolo villaggio di pescatori a metropoli di oltre 15 milioni di persone, diventando una delle capitali dell’in-dustria manifatturiera del pianeta. La sua ascesa è impressionante, perché è andata quasi perfet-tamente di pari passo con il declino di diversi centri manifatturieri americani1.

1 Vedi E. Moretti, La Nuova geografia del lavoro, Oscar Mondadori, Milano, 2014.

L’iPhone è stato concepito e progettato dagli in-gegneri della Apple a Cupertino, in California.

Ideazione e progettazione sono le uniche fasi del processo oggi realizzate negli Stati Uniti. Vi rientrano il design del prodotto, lo sviluppo di software e har-dware, la gestione commerciale, il marketing e altre funzioni ad alto valore aggiunto. In tali fasi, il costo del lavoro attualmen-te non rappresenta il problema principale. Gli elementi chiave sono piuttosto la creatività e l’inventiva degli ingegneri e dei

designer. Diverso è il discorso per la produzio-ne effettiva dei componenti dell’i-phone e per il loro assemblaggio. I componenti dell’iPhone – sofisticati, ma non innovativi quanto il design – sono fabbricati in gran parte a Singapore e Taiwan. L’ultima fase, l’assemblaggio, è quella a più elevata intensità di manodopera. Questo stadio, in cui il fattore essenziale è il costo del lavoro, si svolge nella periferia di Shenzhen.

Siamo di fronte a un prodotto-simbolo degli Stati Uniti che ha conquistato consumatori in tutto il mondo, un prodotto ad altissimo conte-nuto di nuova tecnologia, costituito da centinaia di componenti elettronici sofisticate. Eppure, i lavoratori americani entrano in gioco solo nella fase iniziale, quella dell’innovazione. Il resto del processo è stato completamente delocaliz-zato. È naturale, quindi, domandarsi che cosa resterà ai lavoratori americani (e per estensio-ne, europei) nei prossimi decenni. L’America e l’Europa stanno entrando in una fase di irrever-sibile declino?

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In effetti, il decadimento dell’industria manifat-turiera americana è impressionante.

Oggi l’impiego nell’industria rappresenta più l’eccezione che la regola: riguarda meno di un lavoratore americano su dieci, frazione in calo di anno in anno. Ai nostri giorni è molto più pro-babile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica. Dal 1985 ad oggi negli Stati Uniti l’industria manifatturiera ha perso in me-dia 370 mila posti di lavoro l’anno. Non è solo l’effetto di fenomeni a breve termine (una fase di recessione): l’industria manifatturiera ha per-so posti di lavoro anche durante le fasi di espan-sione. Una evoluzione simile – anche se forse meno pronunciata – è avvenuta in molti paesi europei e dell’OCSE, e anche in Italia.

Di conseguenza, quelli che erano i grandi centri manifatturieri d’America si trovano alle prese con una contrazione demografica e con prospet-tive economiche disastrose. Tra il censimento del 2000 e quello del 2010 Detroit ha perso il 25% della popolazione, Cleveland il 17%, Cin-cinnati il 10%, Pittsburgh l’8%. Raggiunta la massima espansione sul finire degli anni Cin-quanta, Detroit ha continuato a perdere abitanti per mezzo secolo e oggi la sua popolazione è allo stesso livello di cent’anni fa. Un terzo dei suoi residenti vive sotto la soglia della povertà. I livelli di criminalità sono tra i più alti d’A-merica. Le fabbriche, le ciminiere, sono scom-parse, così come i posti di lavoro nell’industria.

A colpire maggiormente le comunità coinvolte non è neppure l’esito immediato dell’emorragia occupazionale nell’industria, ma il fatto che con la chiusura delle fabbriche, spariscono altri posti di lavoro nel settore dei servizi. Per ogni

posto di lavoro perso nell’industria, all’interno della comunità, ne vengono persi 1,6 nei servi-zi: barbieri, camerieri, medici, addetti alle puli-zie, negozianti, o nell’edilizia (Moretti, 2014).

La globalizzazione e l’evoluzione tecnologica hanno dunque avuto effetti disomogenei sui mercati del lavoro dei paesi sviluppati. Le op-portunità occupazionali si sono polarizzate: da una parte favorendo impieghi più qualificati e meglio retribuiti (attività professionali, tecniche e gestionali), dall’altra aumentando la presenza di lavoratori generici a bassissimo salario (servi-zi di ristorazione, cure alla persona, sicurezza).

Le opportunità di lavoro per tute blu e colletti bianchi con qualifiche medie e stipendi medi hanno subito una drastica riduzione. Il mercato sta perdendo la classe media e si sta polarizzando.

In effetti, le operazioni routinarie vedono la sostituzione dei colletti blu con computer e ro-bot: per esempio, molte operazioni in banca, un tempo affidate al personale di sportello, sono oggi svolte dagli apparecchi tipo bancomat o da programmi via internet. Anche la produzione dei componenti dei computer e il loro assem-blaggio diventano operazioni ripetitive che ven-gono decentrate altrove: ciò che resta è la parte creativa, la ricerca e sviluppo, la produzione di software e la gestione delle reti internet, come nel citato esempio dell’iPhone.

Per i lavori che prevedono operazioni non rou-tinarie, siano esse intellettuali o manuali, le cose stanno assai diversamente; occupazioni “manuali” come il carpentiere, il camionista, la colf, la guardia giurata e molte altre legate ad attività non ripetitive non sono particolarmente toccate dall’avvento dei computer. D’altro can-

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to, i lavori che richiedono la capacità di risolvere problemi non ripetitivi e di effettuare operazioni di comunicazione complesse sono stati resi più produttivi dai computer. Grazie all’uso del com-puter e di internet, per esempio, un giornalista, un architetto e uno scienziato sono oggi molto più produttivi ed efficienti e sono aumentati.

La rivoluzione nella forza lavoro e la disso-luzione della classe media non sono tendenze passeggere, né sono circoscritte agli Stati Uniti; sono comuni a tutte le economie industrializza-te. In tutti i paesi (compresa l’Italia) il numero dei posti situati nella fascia media si è contratto, mentre quello dei posti a retribuzione bassa e alta è cresciuto.

I riflessi sulle strutture economiche locali

Dieci anni fa Thomas L. Friedman scrisse un libro dal titolo “The world is flat”2. La tesi era che le nuove tecnologie permettono di comuni-care fra le diverse attività produttive in un modo rivoluzionario. Molti dei lavori che prevedeva-no una collaborazione “nello stesso posto di lavoro” scompaiono; ed emergono lavori che possono essere svolti in qualunque luogo, per qualunque cliente: internet avrebbe fatto da con-nettore; ciascuno potrà lavorare a casa propria.

E’ vero che i processi produttivi si sono globa-lizzati, ma proprio questa globalizzazione, nei paesi sviluppati, si accompagna a una concen-trazione delle attività produttive: genera nuovi poli e fa declinare velocemente altri centri. La nuova economia americana è basata su pochi,

2Thomas Lauren Friedman, Il mondo è piatto - Bre-ve storia del ventunesimo secolo, Oscar Mondadori, 2007; (The World is Flat, Farrar, Straus and Giroux. 2005).

importanti e ricchi “hub” dell’innovazione (il più famoso è quello della Silicon Valley) e, come già si è detto, fa declinare famosi centri manifatturieri.

D’altra parte, viste le dinamiche demografiche nei paesi sviluppati ed emergenti e l’aumen-to considerevole dell’accesso all’istruzione in questi ultimi, negli anni futuri oltre il 90% dei nuovi lavoratori skilled verranno dai paesi emergenti (figura 3): sarà dunque un equilibrio stabile quello che divide il mondo fra paesi in-novativi o aree innovative e paesi o aree ma-nifatturiere? O i veloci cambiamenti descritti sono preludio ad ulteriori mutamenti e a riequi-libri globali dai profili ancora incerti?

Per stare a quanto già sta succedendo, ci saran-no intanto tre americhe: “brain hubs” (aree di veloce crescita), traditional industries areas (declino), e aree che dovranno decidere la via da intraprendere.

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Un mondo polarizzato, dunque. E da noi?

Figura 3 – Popolazione “high skilled” nei paesi OCSE e emergenti, 2010 e 2030

Fonte: GIDD Projections

Noi abbiamo alle spalle una storia di distretti industriali. E di poche aree metropolitane viva-ci. Riusciranno a fare la “rivoluzione” verso la creatività e l’innovazione, o il declino dell’in-dustria manifatturiera non troverà nulla che la sostituisca?

La capacità relazionale su cui erano fondati i distretti – il dialogo tra imprese, sistema sco-lastico e professionale, sistema bancario (cioè una comunità produttiva, un “ecosistema”) – si tradurrà in dialogo tra imprese creative, innova-tive; con subfornitori, capaci di tradurre in “in-novazione” le idee dell’innovatore e di dialoga-re con il rapido cambiamento a livello globale?

Ma la questione non si può fermare a queste

domande, perché non è puramente economica. Riguarda il nostro modo quotidiano di vivere di fronte all’incertezza del futuro. Mi ha colpi-to quello che ha detto recentemente Zygmunt Bauman:

“Le radici dell’insicurezza sono molto profon-de. Affondano nel nostro modo di vivere, sono

segnate dall’indebolimento dei le-gami interpersonali, dallo sgreto-lamento delle comunità, dalla so-stituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani dei singoli la risoluzione dei problemi di rilevanza più ampia, sociale. (…) La paura generata da questa situazione di insicurezza […] si diffonde in tutti gli aspet-ti delle nostre vite. (…) Quello di società dominate dalla paura non è

affatto un destino predeterminato, né inevitabile (…) sta a noi trovare risposte a queste domande, e a esprimerle nei fatti e a parole. Il più grande ostacolo per trovarle, quelle risposte, è la nostra lentezza nel cercarle”3.

Il problema quindi parte dal livello personale, educativo, dal tipo di sguardo alla realtà e a noi stessi che abbiamo.

In recenti articoli ho letto di ragazzi americani che si suicidano negli anni dell’università. Nel paese leader del mondo, nel paese degli hub tec-nologici, il senso della vita non c’è più. E da noi? Ragazzi che sopprimono la ragazza perché vuole lasciarli; e poi si suicidano. Il poliziotto che ammazza la famiglia e si suicida perché

3 Z. Bauman, Alle radici dell’insicurezza, in: “Cor-riere della Sera”, 26.07.2016.

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“la vita ha troppi problemi”. Un’inconsistenza totale dell’io: se le cose non vanno come dice la mia immaginazione, allora è il nulla. Ci si ammazza. Occorre “fare un uomo”4, occorre far rinascere l’umano.

Occorre che uno “sia al lavoro” con tutta la sua umanità, con il desiderio di starci umanamente e quindi creativamente a “quello che c’è”, per-ché così si cambia.

Di nuovo “al lavoro”

Siamo di fronte a un cambiamento d’epoca, come ha detto il Papa5.

Per vivere in esso occorre, se stiamo innanzitut-to agli aspetti economici, flessibilità, capacità di adattamento, capacità di innovazione e creativi-tà, capacità di dialogo, qualcosa che assomiglia ad una vera e propria rivoluzione culturale.

Ma per quello che abbiamo detto non basta! Non basta che le imprese diventino più “creati-ve” perché inizi un nuovo umanesimo. Avremo forse un qualche mini innovative hub qui, ma niente più. Non basta neppure che le imprese si assumano una maggiore responsabilità sociale. Perché?

Occorre fare esperienza che i rapporti di lavoro, le relazioni nell’impresa e fra le imprese, sono qualcosa che fa fiorire l’umanità di chi vi lavo-ra. Ma è un’esperienza che non si fa, e il perché cercheremo di dirlo dopo.

4 E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma, 1964.5 INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DEL V CONVEGNO NAZIONALE DELLA CHIESA ITALIANA, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze, 10 novembre 2015

Il lavoro rimane allora qualcosa che “ti defini-sce” (sei incapace, o sei di successo; sei uno che lavora per portare a casa il salario, o uno che vuole scalare al top la carriera). Stress e de-lusione. Oppure schizofrenia, come quella dei finanzieri che ci hanno portato alla crisi. Sicu-ramente sapevano dei rischi, ma non riuscirono a fermarsi.

Capite che questa rivoluzione richiede tempo. Non succede il giorno dopo. Implica la vita, le vite, forse generazioni, perché si avveri. E per-ché, nelle prove e nei disastri della vita, tenace-mente rimanga, ha bisogno di un’educazione a riconoscere il senso della vita proprio e altrui.

Che la vita abbia un senso non è una teoria o una dottrina, non basterebbe. E’ qualcosa che scopri perché te lo trovi addosso, decisivo, insi-stente, come giudizio di valore, per quanto vedi, per quanto ti è capitato e ha deciso della tua vita, del tuo cammino al destino. Si può vivere così? Si può essere al lavoro così?

Nella nostra storia l’esperienza del lavoro ha diverse accezioni

La prima è che il lavoro è fatica (labor; o peg-gio: tripalium è il termine latino per indicare uno strumento di tortura e molte lingue oggi usano la radice di tale parola per indicare il la-voro: trabajo, travail, trabalho). Accettiamo il lavoro se ha successo, se porta frutti secondo l’immagine che noi abbiamo di questa parola, ed è spesso un frutto che resta alla superficie della nostra umanità, non dialoga con essa, non la fa ri-accadere. Se poi non dà i risultati attesi, se non garantisce la remunerazione attesa, non si lavora, o si fa il meno possibile.

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Nella nostra storia tuttavia è emersa un’altra concezione del lavoro. Il lavoro è la continua-zione dell’opera di Dio, è dunque un sì della li-bertà umana all’atto creativo che continua nella storia, nel tempo. Ce lo ricorda la dottrina so-ciale della Chiesa, lo accennava con chiarezza la Laborem Exercens di Giovanni Paolo II. E’ dunque qualcosa che è “impastato” con il cam-mino al destino. San Paolo lavorava per stare nelle diverse città e compiere la sua missione.

Per i benedettini il lavoro era l’atto concreto con cui la preghiera si faceva gesto quotidiano (ora et labora). Per i guaranì, nelle reducciones lati-noamericane6, passare dal nomadismo al lavoro dei campi e all’artigianato, si identificava con la costruzione della comunità, con l’esperienza di una presenza del divino dentro la quotidianità dell’umano.

Noi abbiamo alle spalle tutta questa storia, ma la pensiamo impossibile oggi. E qui torniamo al perché di questo.

Solo chi ha già fatto, ha vissuto e vive, l’espe-rienza di qualcosa di così umanamente decisivo che lo ha reso e lo rende libero, può lavorare e nel lavoro “guadagnare” in esperienza di liber-tà, e può stare di fronte al gesto quotidiano della vita (il rapporto con il marito, l’educazione dei figli, il dialogo sociale e la costruzione della co-munità umana).

Questo genera il desiderio del bene comune e la simpatia perché questo bene comune avvenga, una capacità di dialogo tra popoli, la testimo-nianza, anche laddove non fosse possibile dirlo con immediata esplicitezza, di una vita coscien-

6 Vedi Aldo Trento, Il paradiso in Paraguay, Marietti 2006.

te della grandezza del proprio e altrui destino umano, del valore di ogni passo verso di esso (a volte faticoso o doloroso), che neppure si-tuazioni di difficoltà ci possono togliere, una testimonianza che colpisce perché “si vede”. Genera nuovo umanesimo, una nuova cultura.

Pensiamo a come vivono cristiani o minoranze in medio oriente, schiacciate da un conflitto che dura da anni e che tuttavia vivono tale situazio-ne testimoniando qualcosa di così umanamente decisivo che la convivenza, per chi non è ac-cecato dall’odio, ma guarda, diviene stupore, desiderio di amicizia, simpatia al comune cam-mino, diviene esperienza dell’umano.

Nel gesto quotidiano

Per arrivare a costruire un nuovo umanesimo si parte dunque dal quotidiano, si parte da fatti che possono sembrare piccoli o sproporzionati, ma spalancano l’altro ad una domanda di umanità prima impensabile; fatti piccoli che dicono di un modo rivoluzionario di stare all’opera, un modo di vivere che nasce dalla simpatia al de-stino proprio e di tutti. Lo dice questa semplice testimonianza di due nostre amiche infermiere:

“Una mattina la mia caposala mi chiama a col-loquio (…) e mi dice: «Aspetta, devo dirti una cosa importante (…) Io ti ho osservata molto in questi mesi di inizio di lavoro, e mi sono accor-ta di una cosa: quando tu sei al lavoro si genera un clima diverso, si lavora insieme. Chiunque, dalla signora che pulisce le stanze, alla collega infermiera, al chirurgo, ha desiderio di essere travolto dalla tua febbre di vita. E questo sen-za che tu faccia o dica qualcosa di particolare, anche perché sei l’ultima arrivata e hai ancora giustamente tutto da imparare. Ma quel che è

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PARTE SECONDA:APPROFONDIMENTI

sempre dolorosamente mancato in questo posto è un lavoro di equipe; tutti bravi e preparati, ma spesse volte incapaci di accogliere l’altro. Tu sei il regalo che tanto aspettavamo». Io ero senza parole”.

Che cosa l’ha resa così, tanto da essere visibil-mente diversa, da suscitare l’impeto a guardar-si in faccia e lavorare assieme nel cammino e nell’opera comune?

Oppure, l’esperienza di un’altra ragazza che sta facendo il tirocinio da infermiera:

“tutto il giorno ero stata protesa a guardare ciò che facevano gli infermieri, cercando di impa-rare, ma senza guardare in faccia le persone che avevo davanti.

Così il giorno dopo sono tornata con bene in mente questa cosa, ed è stato totalmente diver-so. Ero affiancata a un’infermiera e in reparto c’era la tipica paziente che tutti gli infermieri detestano, perché suona il campanello per ogni cosa: farsi dare da bere, spostare i cuscini, ec-cetera; e quindi andavo sempre io a rispondere al campanello. Ogni volta che tornavo dall’in-fermiera, le raccontavo tutto ciò che succede-va con la paziente. Banalmente, il fatto che mi aveva dato delle ricette di cucina, oppure che, facendole compagnia a colazione, aveva preso il bis di tutto, nonostante all’inizio avesse soste-nuto di non avere fame.

Giunta l’ora del pranzo, sono andata a dare da mangiare a quella paziente, ma entrata in stan-za ho visto che c’era già la mia infermiera che lo stava facendo, così sono uscita. Poco dopo l’infermiera mi ha raggiunto e mi ha detto: «Co-munque, ti volevo dire che prima di oggi avevo

dato da mangiare solo a mio figlio e a nessun altro». Mi sono venute le lacrime agli occhi: era bastato che io fossi lì presente con il cuore e guardassi quella paziente per il suo bisogno di affetto e compagnia, che si nascondeva dietro a quel suonare il campanello, perché anche l’in-fermiera cambiasse modo di guardarla”.

All’infermiera cui questa giovane era affianca-ta, l’esperienza della maternità, dapprima legata solo al rapporto col figlio, si era spalancata ad uno sguardo ampio, dentro il quale ci stavano tutti coloro che la vita ci mette di fianco, anche la paziente rompiscatole. È l’inizio di una rivo-luzione umana.

Occorre accettare la sfida che la vita pone, ogni giorno, anche attraverso un incontro, un pezzo di realtà, da cui prima non ci si aspettava niente, come è detto nella prima testimonianza, quando accenna al fatto che si va al lavoro per imparare il mestiere, ma senza guardare in faccia le per-sone che lì vivono la loro giornata.

Questo sguardo diverso, che accoglie nel lavo-ro, nel rapporto, nelle esperienze quotidiane, la totalità dell’altro, per la coscienza del comune destino, ha una radice: la consapevolezza di es-sere stati guardati noi in questo modo da Cristo: pensate al sì di Pietro. Dopo tutti gli errori che aveva fatto, era totalmente definito dall’attac-camento a quel rapporto. Pensate a come fu guardato Levi, l’esattore (lo documenta il qua-dro del Caravaggio), Zaccheo il pubblicano, Maddalena la prostituta, Giuseppe d’Arimatea, che usò i soldi per acquistare un sepolcro per quell’uomo; e tanti lungo la storia.

C’è tra noi oggi questa esperienza? Dico nella vita quotidiana nell’educazione propria e dei fi-

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PARTE SECONDA:APPROFONDIMENTI

gli? E poi, c’è nel modo con cui l’impresa e il lavoro vengono compiuti e cambiati?

Questa è la sfida nell’impresa, nel lavoro e nella vita, questo è per l’UCID, il cammino al nuovo umanesimo.

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