PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA … · 2016-06-14 · intorno alla personalità di...

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PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LXII n. 2 Aprile-Giugno 2016

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PERIODICO DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LXII n. 2 Aprile-Giugno 2016

IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, Il rispetto delle regole p. 3

A. V. Nazzaro, Ricordo di CarloIandolo p. 4

C. Iandolo, Parole con aggiunta asorpresa p. 7

F. Ferrajoli, Il restauro delle case negli Scavi di Ercolano p. 9

L. Pannuto, Il monogramma di Federico II di Svevia p. 12

E. Notarbartolo, La “Magna ChartaLibertatum” p. 14

E. Aloja, Il “cippo” di San Gennaro ad Antignano p. 16

S. Zazzera, Due interessanti dipintiin Alta Valle Telesina p. 18

G. Belmonte, Carlo “III” di Borbone p. 24

A. La Gala, Giacomo cerca casa p. 29

A. Arpaja, Avremmo potuto vincere a mani basse p. 31

E. Barletta, 1942-1943: memorie di una tragedia vissuta p. 36

Y. Carbonaro, Villa Guariglia a Vietrisul Mare p. 40

F. Lista, Peppe Macedonio p. 42

M. Piscopo, Franco Ricci p. 44

R. De Falco, “Vomero e dintorni” diMimmo Piscopo p. 46

A. Ferrajoli, Una dieta per l’estate p. 48

Libri & libri p. 49

Anno LXII n. 2 Aprile-Giugno 2016

UN PO’ DI STORIA

Alla metà del ventesimo secolo Napoli anno-verava due periodici dedicati a temi di storiamunicipale: l’Archivio storico per le provincenapoletane, fondato nel 1876 dalla Deputa-zione (poi divenuta Società) napoletana distoria patria, e la Napoli nobilissima, fondatanel 1892 dal gruppo di studiosi che gravitavaintorno alla personalità di Benedetto Croce eripresa, una prima volta, nel 1920 da Giu-seppe Ceci e Aldo De Rinaldis e, una secondavolta, nel 1961 da Roberto Pane e, poi, daRaffaele Mormone.In entrambi i casi si trattava di riviste redatteda “addetti ai lavori”, per cui Salvatore Lo-schiavo, bibliotecario della Società napole-tana di storia patria, avvertì l’esigenza diquanti esercitavano il “mestiere”, piuttostoche la professione, di storico, di poter disporredi uno strumento di comunicazione dei risul-tati dei loro studi e delle loro ricerche. Nacquecosì Il Rievocatore, il cui primo numero dataal gennaio 1950, che godé nel tempo dellacollaborazione di figure di primo piano delpanorama culturale napoletano, fra le qualimons. Giovan Battista Alfano, Raimondo An-necchino, p. Antonio Bellucci d.O., GinoDoria, Ferdinando Ferrajoli, Amedeo Maiuri,Carlo Nazzaro, Alfredo Parente.Alla scomparsa di Loschiavo, la pubblica-zione è proseguita dal 1985 con la direzionedi Antonio Ferrajoli, coadiuvato da AndreaArpaja, fino al 13 dicembre 2013, quando,con una cerimonia svoltasi al Circolo Arti-stico Politecnico, la testata è stata trasmessaa Sergio Zazzera.

Ricordiamo ai nostri lettori che inumeri della serie online di que-sto periodico, finora pubblicati,possono essere consultati e scari-cati liberamente dall’archivio delsito: www.ilrievocatore.it.

Editoriale

IL RISPETTO DELLE REGOLE

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Ce lo hanno insegnato (almeno, ai meno giovani, fra noi) fin dall’asilo, ilrispetto delle regole, e questo insegnamento ci ha accompagnato per tutto

il corso degli studi e, poi, della vita. Strada facendo, però, ci siamo resi contoche le regole non sono soltanto quelle della buona educazione (non gridare, nonparlare mentre mangi, ringrazia quando ti si dà qualcosa, e via dicendo), giac-ché ogni settore ha le proprie. Il primo che viene in mente è quello della mate-matica (si pensi alle “regole” del tre semplice e del tre composto), ma, poi, c’èanche quello della linguistica, con le sue “regole” di grammatica e di sintassi.Senonché, quando si parla di linguistica, si pensa, immediatamente e in ma-niera esclusiva, alla lingua italiana; tutt’al più, se ci si trova in terra straniera,ci si preoccupa di rispettare, per quanto possibile, quelle dell’idioma locale.Anche la lingua napoletana, però, ha le sue “regole”: sebbene, infatti, si tratti di un mezzo di comunicazioneche ha sempre privilegiato, per lo più, la forma parlata, rispetto a quella scritta, tuttavia, anch’essa presentaun minimum di “norme grafiche”, che esigono assoluto rispetto, ma che, purtroppo, risultano sempre piùviolate. Giusto per citare qualche esempio, il segno di aferesi ( ’), che dovrebbe precedere l’articolo determinativo,molto spesso viene collocato in coda ad esso, provocandone la perdita di senso; parimenti, tante volte, la e se-mimuta è soppressa nel corpo dei vocaboli, rendendoli impronunciabili. Evidentemente, pur essendo trascorsiparecchi decenni dall’epoca in cui, a parlare il napoletano, ci si sentiva rivolgere il rimprovero: «Parla bene»– quasi che si stesse parlando male –, tuttavia, gli effetti deleteri di quel biasimo stentano a sradicarsi dalcomune sentire. Il 1° aprile scorso è venuto a mancare Renato De Falco, autorità indiscussa nel settore della napoletanistica;lo ha seguito, a distanza di dieci giorni, Carlo Iandolo, anch’egli illustre glottologo, studioso della lingua na-poletana (li ricordiamo, rispettivamente, a p. 4 e a p. 46 di questo numero): ebbene, basterebbe dedicare, ditanto in tanto, un po’ di tempo alla lettura dei loro preziosi scritti, per porre rimedio ai tanti errori che, vi-ceversa, si continua a commettere. Ma, forse, al giorno d’oggi, tutto ciò è chiedere troppo.

Il Rievocatore

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RICORDO DI CARLO IANDOLORITROVATO DOPO PIÙ DI 50 ANNI E IN MENO DI QUATTRO MESI PERDUTO

di Antonio V. Nazzaro

L’11 aprile scorso ci ha lasciati, all’età di 76 anni, Carlo Iandolo,glottologo, formatosi allascuola di Giovanni Alessio, ed egli stesso docente di Lettere classiche negl’istituti superiori.Autore di manuali di grammatica napoletana e di due vocabolari – uno etimologico e uno se-mantico-etimologico –, ha partecipato anch’egli a numerosi convegni, ha tenuto corsi di dia-lettologia e ha collaborato a periodici, tra i quali anche Il Rievocatore. Qualche giorno primadella sua scomparsa, è uscito il suo ultimo volume, Il dialetto di Napoli, grammatica descrittiva(ed. Cuzzolin). Pubblichiamo qui il ricordo dello scomparso, inviatoci dal prof. Nazzaro.

*   *   *1. Ringrazio Sergio Zazzera che sul finire delloscorso anno mi mise in contatto con un carocollega universitario Carlo Iandolo, di cuiavevo perso memoria, e che ora cortesementeospita su Il Rievocatore questo ricordo.Altri meglio di me dirà delle speciali compe-tenze linguistiche e glottologiche di Carlo, altridirà dell’esperienza da Lui maturata nei Corsidi dialettologia per attori tenuti al Teatro Bel-lini (Napoli), altri dirà della lunga e appassio-nata battaglia condotta per mezzo secolo indifesa (e promozione) del napoletano (scritto eparlato), io per necessità di cose posso solo of-frire questo ricordo breve, ma non per questomeno sentito e partecipe, legato com’è ai fram-menti di un rapido scambio di messaggi elet-tronici e a una sola lunga e affettuosa telefonatafatta di rimembranze e di una reciproca gioiosariappropriazione di un comune segmento divita, vissuto in un tempo lontano e, per certi

versi, mitico.I frammenti di cui si è detto, densi per me diuna alta risonanza affettiva e perciò stessoesposti al rischio di sfaldarsi e non comunicarenulla al lettore, costituiscono la base e il corpodi questo testo.

2. Informato da Sergio che io volevo mettermiin contatto con lui, in data 28 dicembre Carlomi inviò la seguente mail:

Carissimo Tonino, sì sono io quel “famigerato” CarloIandolo, che sedeva fra i banchi universitari e aveva ilpiacere di godere anche della tua amicizia (se non sba-glio, tu provenivi dalla provincia di..., e qui la memoriami tradisce). Ma rammento bene la tua cordialità e la tuasimpatia, che diffondeva calore fra noi timidi giovincelli.Attualmente abito a Pompei con mia moglie e con unaparte dei miei cinque figli (come noti, sono stato ope-roso!); inoltre continuo testardamente a occuparmi dilinguistica, applicata all’italiano, alle nostre lingue clas-siche e al napoletano, ove ho pubblicato abbastanza daannoiare la platea partenopea... E tu? Dammi notizie,

In memoriam

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anche se ancora facendo appello alla (purtroppo semprepiù debole) memoria, mi pare di rammentare che, comeio rimasi a lungo agganciato al carro glottologico delgrande Giovanni D’Alessio, anche tu rimanesti aggio-gato alla vita universitaria in qualità d’assistente. Nelprovare un’immensa gioia d’aver ritrovato un caroAmico della giovinezza, auguro a te e famiglia ognibene, a cominciare dalla salute (ove personalmente sonoun po’ traballante) fino alla serenità familiare, che ci èindispensabile, da vivere e godere in uno splendido 2016fino al...Tremila, quando vi rinnoverò e prolungherò ilcontratto esistenziale. Se passerai per la mia cittadina,mi riservo fin da ora un abbraccio fraterno in diretta.Carlo Iandolo.

In pari data mi affrettai a rispondergli:

Carissimo collega ritrovato, hol'impressione che Tu sia solo diqualche anno più giovane di me.Provengo da San Giorgio del San-nio (BN), ma non ricordavo cheTu eri di Pompei dove oggi vivi.Eri amico di Maria Vittoria Ma-ione e dell'allora fidanzato, ilpoeta Ciro Vitiello? Non ricordomolto di Te, se non che eri allievodel prof. Alessio (che il Signore loabbia in gloria!), che non ha aiu-tato nessuno dei tanti pur bravi al-lievi e non ha creato una scuola.Oggi nessuno lo ricorda più. Nelcorso degli ultimi anni ho piùvolte incontrato il Tuo nome in re-lazione a ricerche di lingua (o dialetto) napoletano, manon l'ho mai associato all'antico collega universitario.Un mesetto fa recatomi da Giannini per le bozze degliAtti dell'Accademia Pontaniana mentre aspettavo diesser ricevuto ho visto esposto il Tuo Dizionario e alloraper non so quale associazione di idee ho pensato al gio-vane collega glottologo. Ho chiesto di acquistare il libro,ma la dott.ssa Giulia mi ha detto che non era in vendita.Ho provato in varie librerie della zona: non l’ho trovatoe ho pensato che sarei sopravvissuto con i Dizionari cheho (in primis quello di Zazzera). Perché quest’interesse?Ho chiuso la mia carriera accademica da prof. ord. diLetteratura cristiana antica (disciplina non esistente ainostri tempi!). Venti giorni prima del pensionamentosono stato colpito da infarto cardiaco, da cui mi son sal-vato per il prodigioso concorso di una serie di fattori po-sitivi.È stato allora, alla fine del 2009, che ho cominciatoa raccogliere termini, proverbi e modi di dire del miopaese e a leggere in maniera più sistematica la letteraturanapoletana dei secoli passati. Ora alterno ricerche scien-tifiche alla piacevole collaborazione con un Periodicodel mio paese, dove tengo la Rubrica Trucioli … pial-lando, piallando. Titolo che è tutto un programma! Perquanto io sia dilettante e tale voglio essere, il mio habi-

tus scientifico non mi dà tuttavia pace e mi spinge aconsultare testi specialistici. Dei Tuoi libri vorrei che misegnalassi l’edizione più completa del Dizionario e dellaGrammatica, tanto meglio se Dizionario con la Gram-matica, e mi suggerissi dove acquistarli. A fronte dei tuoicinque figli, mi vergogno di dire che io ne ho un solo.Dove e cosa hai insegnato? Con affetto. Credimi TuoTonino Nazzaro.

A questa mail seguì l’indomani una lunga te-lefonata, nel corso della quale mi promise chemi avrebbe omaggiato a primavera de Il dia-letto di Napoli, grammatica descrittiva (Edi-tore Cuzzolin). Via via che con entusiasmo miparlava della sua vita passata e con un ottimi-

smo, non so quanto sincerosnocciolava progetti futurila mia memoria mettevasempre più a fuoco l’imma-gine sorridente e talora iro-nica dell’antico compagnouniversitario, riservato neimodi e piuttosto timido.Il giorno dopo, il 30 dicem-bre, fui costretto a comuni-cargli una triste notizia: ilcomune amico Ciro Vitiello,di cui avevamo amabil-mente parlato il giornoprima, ci aveva lasciati. E

con Lui la nostra comune casa continuava aperdere pezzi... Non ci restava che volerci benee andare incontro laeto animo al nostro destino.Il 3 febbraio mi scriveva per ringraziarmi del

dono de Il Circolo cittadino, di cui aveva inparticolare gustato i miei «interventi precisi,sapienti e saggi». E soggiungeva: «Inoltre sonostato lieto nel vedere la Tua foto attuale, che unpo’ mi ha riportato a un’epoca lontana. Ti rin-grazio del gentile e memore pensiero, augu-randoTi salute, longevità e proficuitàprofessionale ancora per altri cent’anni. Fra-terni saluti fervidissimi». In pari data gli comunicai che nel tardo pome-riggio del giorno dopo alla Libreria Guida diVia Bisignano 11 sarebbe stato commemoratoil comune amico Ciro Vitiello.A questa comunicazione Carlo rispondeva conuna lettera, contenente, nella prima parte, «al-cune precisazioni ortografiche e fonetiche ge-

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nerali circa il lemma “attànito” (= tuo padre),peculiare di Lioni, non essendo del tutto d’ac-cordo con Nicola e con l’illustre Serianni[…]Speriamo di non aver inseguito farfalle sottol’Arco di Tito...; perdonami se ho fallato». Enella seconda parte giustificava la sua assenzaalla commemorazione di Ciro Vitiello, dovutaa due motivi: «il 24 /1 sono stato operato aRoma di nefrostomia (come mi capita ogni seimesi), con grosso pericolo, perché dopo l’in-tervento il mio debole cuore ha subito unoscompenso per oltre due ore (con dolore car-diaco, profonda astenia e rantolo), per cui sonoancora in fase di riabilitazione; per giunta disera la mia consorte e i miei figli non mi per-mettono di uscire se non ... scortato da chi èeventualmente disponibile ad accompa-gnarmi...Vuol dire che continuerò a pregare ea comunicarmi per l’Amico defunto. Un fer-vido e fraterno saluto. Carlo Iandolo ».Le notizie circa il preoccupante stato di salutee le preoccupate informazioni circa l’intensaattività lavorativa che continuava a svolgerecon giovanile generosità e senza risparmio dienergie (a Pompei usciva di rado!) mi consi-gliarono una breve sincera quanto imbarazzatarisposta:

Carissimo, le Tue osservazioni linguistiche mi giungonogradite. Per attanito, non so che dirTi; una Signora diLioni mi conferma che nel suo paese si dice propriocosì.Ti faccio i migliori auguri per la Tua salute e Ti chiedodi aver riguardo di Te.Con affetto. Tonino Nazzaro.

3. Fu questo l’ultimo contatto con Carlo. A Pa-squa non Gli ho fatto gli auguri, per pura di-

menticanza o per l’inconfessabile paura di con-frontarmi con una malattia, che sentivo non gliavrebbe dato scampo, non lo so. La fiduciosa attesa primaverile dell’omaggiopromesso è stata bruscamente interrotta dal-l’annuncio, all’alba dell’11 aprile, che il gene-roso e martoriato cuore di Carlo Iandolo avevacessato di battere. Si era così conclusa la suavita, che, pur segnata da continue sofferenzefisiche, era stata tuttavia coronata dall’una-nime riconoscimento dei suoi meriti profes-sionali e rallegrata dalla moglie e dai cinquefigli, di cui era oltremodo orgoglioso. A essivanno i sensi del mio vivo e cristiano cordo-glio.Per elaborare il lutto (come si dice oggi conun’espressione che poco mi piace!) per lamorte di Carlo Iandolo sto leggendo il suo Di-zionario Napoletano Semantico-Etimologico:sto leggendo … sì proprio così. Vocabolari eDizionari nell’operosa quiete del tramontonon mi limito a consultarli (frettolosamente etalora distrattamente, come in passato), ma lileggo lentamente, lemma dopo lemma, risco-prendo e assaporando gli usi e i costumi del no-stro passato in essi racchiusi e alla costantericerca delle tracce, corpose o labili, che anchei Vocabolaristi disseminano nei loro grossitomi. La scena di questo mondo passa e con essa seipassato anche Tu, caro Carlo, ma il Tuo ricordocontinuerà a fiorire nella mente e nel cuore diquanti ti hanno apprezzato e amato. E a questalunga fila mi accodo anch’io, o amico ritrovatoe perduto.

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Il 25 aprile scorso, dopo avere combattuto a lungo con la malattia che loaveva colpito, ci ha lasciati, all’età di 71 anni appena compiuti, FRANCOMANCUSI, “storico” giornalista de Il Mattino, che, da redat-tore capo, aveva dedicato la propria vita professionale allevicende dei Campi Flegrei.

Il successivo 11 maggio, poi, si è spento, all’età di 76 anni, il libraio edi-tore GEPPINO GUIDA, che aveva diretto, fino alla chiusura, la libreriavomerese “Guida Merliani”.Alle rispettive famiglie e alla comunità culturale napoletana Il Rievocatore formulale sue più vive condoglianze.

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PAROLE CON AGGIUNTA A SORPRESA

di Carlo Iandolo

Vi sono alcuni sostantivi italiani, stranieri edialettali che, rispetto alle forme degli ori-

ginari avvii latini, hanno definitivamente inse-rito una lettera, ora in maniera giustificabile eora no. Ecco il latino classico ombella = “parasole”,che nel tardo latino parlato divenne umbrellaper un logico avvicinamento di forma e signi-ficato a umbra = “ombra”prima di essere maschiliz-zato; analoga aggiunta ri-guarda il latino amandula= “mandorla”, che mostranon solo la perdita della“a-” iniziale scambiata perl’articolo “la”, ma haanch’essa subíto l’inseri-mento dissimilatorio di “-r-”, questa volta perescludere il valore diminu-tivo di quello che poteva falsamente apparirecome il suffisso “-ola”; cosí anche il latino ra-stellu-m = “rastrello”, sotto influsso dell’acco-stamento a rastrum = “rastro”, nome distrumento da ràdere.Piú ricco e diverso l’apporto aggiuntivo della“–r-” tratta dal frequente suffisso “-stra , -stro”nelle sei forme semplici del tardo latino anate-m (incrociato col lat. volgare *anitra),bal(l)ista = “balestra”, encaustum (attraversoil lat. volgare *enclaustum =) “inchiostro”, ge-nesta = “ginestra”, antico francese joste (poiarricchito col suffisso ital., onde “giostra”) e

infine regesta (ex-neutro plur., poi singolariz-zato e maschilizzato =) “registro”. Nel nostro appello non mancano poi “l’in-verno” dal lat. hibernum tempus = “tempo in-vernale” (cfr. “ibernare = passare l’inverno inletargo, svernare”), risultato non come l’atteso*iverno ma con una “-n-” adattata e adottatache l’accosta all’affine sostantivo imber =

“pioggia, temporale”, ca-ratteri climatici tipici diquella stagione iniziale del-l’anno; ecco egualmentesabbatum = “sabato” che,derivato dall’ebraico shab-bath = “giorno di riposo”,in francese assunse con “-m-” dapprima la forma disambedi (da *sambatidies, modellato come igiorni settimanali Lunae

dies, Martis dies...), poi quella definitiva di sa-medi; nel gruppo va inserito anche l’antico la-tino *nebus (identico al greco néphos) che,anch’esso per incrocio con imber, generò lanuova forma ampliata di “nembo = nubescura, densa di pioggia”. Altri tre sostantivi hanno invece inserito una “-b-” fra due consonanti che altrimenti sarebberorisultate impronunciabili: da numeru-m latino(= “numero”), con perdita della “-e-” l’inglesetrasse number; da hominem (= “uomo”) conperdita della “-i-” lo spagnolo derivò *homnee quindi hombre con dissimilazione che fece

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Shabbath

mutare “m...n” in “m...r”; dall’aggettivo similis= “simile”, con perdita della “i-” centrale e conforma verbale fu ricavato l’italiano *siml-are,divenuto *simblare e, con dissimilazione “mbl> mbr”, il definitivo “sembrare = esser simile,dar impressione di notevole somiglianza”. Del resto un fenomeno fonetico simile, con lostesso inserimento della “-b-”, si riscontraanche nella remota età del primitivo latino indue lemmi: ecco la radice *funes- nell’incontrocol suffisso -ris, onde *funesris che, per diffi-coltà di pronunzia, ricorse dapprima a *funes-b-ris, poi alla caduta della sibilante con l’esitodefinitivo di funebris = “funebre”; egualmenteper la radice *mulies- + suffisso -ris, per cui*muliesris divenne *mulies-b-ris e infine mu-liebris = “muliebre”. Né mancano gli apporti del nostro dialetto par-tenopeo: fe-r-ní = “finire”, rilo-r-gio = “orolo-gio”, vie-r-narí (forse analogico di “Martedí,

Mercoledí”) e cosí, dal latino tardo spelta =“farro, specie di frumento” (di probabile ori-gine germanica), ecco speutra, dove la “-u-” fudovuta alla normale vocalizzazione di “l”quand’essa è preceduta da vocale e seguíta daconsonante (cosí il longobardo milzi in napo-letano risulta meuza).Infine non può dimenticarsi l’inserimento dellaconsonante “-v-” quale suono di transizione odi raccordo per evitare lo stridente contatto im-provviso fra due vocali: (celsa-m = alta >)*celza > *ceuza > *ce-v-uza > ce-v-eza =“gelsa”; (calidu-m > *caldu-m >) *cauro >*ca-v-uro > ca-v-ero = “caldo”; (altu-m >)*auto > *a-v-uto > a-v-eto = “alto”..., come delresto nei lemmi latini Genua, Mantua, Padua,ruina, vidua che in italiano divennero e risul-tano “Geno-v-a, Manto-v-a, Pado-v-a, ro-v-ina, vedo-v-a”.

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TEMPO DI PREMI

A Napoli in maggio è tempo di premi. Il 27, nel ri-dotto dell’Auditorium Rai di via Marconi, il premiointernazionale di giornalismo sportivo “AntonioGhirelli” ha visto vincitori Luca Cardinalini, Ste-

fano Caredda, Pasquale Raicaldo e Fabrizio Sal-vio. Il 28, poi, al complesso turistico “La Lanterna”di Villaricca, si sono aggiudicati il premio lettera-rio “Il racconto nel cassetto” Luca Ragazzini, SilviaCeleghin e Fabio Cassano. Entrambi tali concorsi

sono stati organizzati dall’associazione ALI di Villa-ricca, presieduta dal dr. Pietro Valente. Il 30, infine,al Bagno Elena di via Posillipo il premio “Elsa Mo-rante ragazzi”, indetto dall’omonima associazione

culturale, è stato assegnato alla giovanissima scrittrice argentina Ve-ronica Cantero Burroni.

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IL RESTAURO DELLE CASE NEGLI SCAVI DI ERCOLANO

di Ferdinando Ferrajoli

Parlare degli scavi di Ercolano, della casaricca raggiante di pitture, col fastoso tricli-

nio esposto sul mare; parlare della casa dell’ar-tigiano, del pescatore e del ceto medio, dallasemplice decorazione e con pavimenti a mu-saici bianchi listati neri; parlare dell’officinadel bronzista rinvenuta sul de-cumano maggiore con gli stru-menti di lavoro sparsi per labottega; parlare delle Terme,degli edifici pubblici, dellestrade, delle fontane, dopoquanto ha scritto un famosoarcheologo, il prof. AmedeoMaiuri, specialmente nel suoultimo volume su Ercolano –ove ho avuto l’onore di colla-borare per la parte topograficae architettonica – ci vuole unbel coraggio. Però devo subitoprecisare che questa mia mo-desta esposizione non ha lapretesa d’invadere il campodegli archeologi, ma vuole soltanto mettere inluce la parte tecnica ricostruttiva della casa er-colanese e del suo difficile restauro, finora ri-masta ignorata, alla quale dedicai – comefunzionario tecnico della Soprintendenza alleAntichità di Napoli – ben 38 anni della miavita. Mi riferisco ai difficili lavori fatti dal 1929in poi, accanto agli sterratori, ai muratori e airestauratori, per rilevare gli edifici dissotterrati,fatti a pezzi, e ricomporli architettonicamentein scala quali: vestiboli, atri, triclini, portali, in-

tercolunni, affreschi staccati e tanti altri parti-colari schiantati dalla furia sterminatrice dellalava.La scoperta della città di Ercolano resterà le-gata eternamente al nome di Maiuri che – dopoil breve periodo dell’Alto Commissariato di

Napoli che sovvenzionaval’impresa – fu l’animatore e ilsostenitore, per trovare i fondinecessari e portare avanti ilgravoso e costoso lavoro discavo.Si deve a questo insigne ar-cheologo, che ne diffuse la co-noscenza con numerosi studi euna prosa inconfondibile, seErcolano è conosciuta da tuttii turisti e studiosi del mondo.Però dobbiamo tenere presenteche, se oggi vediamo di nuovoelevare la millenaria città aipiedi del suo carnefice: il Ve-suvio, il merito spetta pure agli

operai specializzati, che sotto la direzionedell’ingegnere Fortunato di Pompei e di chiscrive, furono lo strumento della rinascita diErcolano.La terribile eruzione del 79 sarebbe rimastaignorata, oppure poco nota, se, proprio quandoavvenne, non si fosse trovato Plinio il giovanee non avesse scritto da Miseno allo storico Ta-cito le due celebri lettere, in cui narrò le vi-cende della morte dello zio Plinio il vecchio,descrivendo il terribile fenomeno: «Intanto –

Casa a graticcio

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egli scrive – da più luoghi del Vesuvio riluce-vano altissime fiamme e divampavano incendi,il cui vivido splendore era accresciuto dalle te-nebre… Già ardevano, sebbene non moltodense, ceneri; mi volgo indietro, una densa ca-ligine c’era alle spalle e a mo’ di torrente dif-fondendosi sulla terra ci inseguiva. Preghiamoda qui, mentre ci si vede, che non veniamosbattuti a terra e calpestati per l’oscurità dallamoltitudine che vien dietro. C’eravamo appenafermati che si fece notte profonda, non comequando manca la luna o il cielo è rannuvolato,ma come quando uno si trova in un luogochiuso e privo di luce. Là tu avresti udito gliurli delle donne, i piantidei fanciulli, le gridadegli uomini; chi chia-mava i genitori, chi ifigli; chi gridando cer-cava la moglie e all’ac-cento la riconosceva.Altri commiserava la suadisgrazia; altri quella deisuoi cari; c’era chi per ti-more della morte invo-cava la morte. Moltilevavano le mani al cielosupplicando; altri, ed erano i più, negavanol’esistenza degli dei e, credendo quella notteeterna gridavano esser venuto il finimondo».Dunque, Plinio descrive questa tremenda eru-zione vista da Miseno, a 30 chilometri distante,immaginiamo il terrore e le scene di panico chedovettero accadere fra gli abitanti di Ercolano,che si trovavano alle falde del Vesuvio,quando, circondati dalle tenebre profonde, il-luminati soltanto dai sinistri bagliori del Vul-cano, cominciò a fluire la colata di fango incittà. Plinio nelle due lettere parla di Retina,Stabia e Miseno, ma non fa nessun accenno diPompei e di Ercolano, le cui rovine rappresen-tano, da due secoli ad oggi, la più memorandae la più interessante scoperta dell’eruzione ve-suviana. Specialmente Ercolano, che, sebbenepiù piccola di Pompei, ci ha dato grandi sor-prese, in quanto stava attraversando una fasedi evoluzione e di trasformazione dei suoi si-stemi costruttivi tradizionali. Chi ne ha seguito

lo scavo giorno per giorno, ha potuto consta-tare che i cittadini per far fronte alla carenzadelle abitazioni trasformavano le loro case esopraelevavano altri piani: un esempio l’ab-biamo nell’edificio del V cardine, accanto allaPalestra, ch’elevava perfino il terzo piano.L’inesorabile distruttore non eruttò quelmagma incandescente che raffreddandosi siimpietra, ma Ercolano fu coperta da una lavadi fango dai 15 ai 20 metri di altezza.L’esplosione vulcanica eruttò milioni e milionidi metri cubi di materiali detritici, dei quali unaparte portata dalla direzione del vento seppellìPompei e Stabia per oltre 10 metri di altezza,

l’altra invece si accu-mulò sulle pendici delVesuvio dal versante diErcolano. E siccome legrandi convulsioni vul-caniche sogliono origi-nare piogge a diluvio,queste acque unite aquelle eruttate dal Vesu-vio trascinarono a valle,in diverse ondate, quelmateriale accumulato,creando un immenso

torrente fangoso che, dopo invaso e colmatoogni luogo, cambiò totalmente l’aspetto dellaregione ercolanese.L’immane e spaventosa lava di fango non si li-mitò a sotterrare soltanto Ercolano, ma siestese per tutta la florida contrada da Portici aTorre del Greco, distruggendo e trasformandoquella costa ch’era rinomata per la bellezzadella sua romantica posizione e per gli allegrivillaggi e per le ville famose, che biancheggia-vano lungo il litorale fino a Neapolis.Secondo Strabone, la città doveva terminarecon una ripida scarpata verso il mare e le duevalli fiancheggianti alquanto infossate: ed èproprio così perché le case signorili scopertesui bastioni di fronte al mare si trovano a m.14,50 di altezza sul livello del mare e sul de-cumano maggiore m. 21,50, con una pendenzadel 50 o/oo.Anche lo storico Sisenna ha ragione quandoscrive che le acque fluviali fiancheggiavano

Casa del tramezzo carbonizzato

Ercolano; infatti, nel 1938 per l’apertura di unpozzo, nella parte bassa della città, s’incontròuna corrente d’acqua, che invase tutta la parteinferiore dello scavo.La topografia di Ercolano è uguale alle cittàimportate dall’Oriente nel 470 a. C. da Ippo-damo di Mileto, e con questo schema sorseroin Italia Tureo e Neapolis. Ercolano si presenta con un piano regolatoresimile alla città partenopea. La parte finorascoperta di Ercolano (oltre 3 ettari) comprendequattro insulae: III, IV, V e VI, con le insulaeOrientales I e II, scavate più della metà. Dalvecchio scavo, fatto dal 1828 al 1875, furonoposte in luce soltanto l’inizio delle insulae II eVII, restano da scavare le insulae I e VIII conl’Occidentalis, il teatro, la basilica e la famosavilla dei Pisoni, rinvenuta nel 1750 durante laperforazione di un pozzo; si trovarono 1801papiri e un vero tesoro d’arte, fra cui il gruppodelle danzatrici, il Fauno ebbro e Mercurio inriposo.La maggior parte delle case di Ercolano si pre-sentava orribilmente squarciata dalla violenzadella lava; a tale scempio si univa la rete deicunicoli fatti dai Borboni, che sfondavanomuri, tramezzi e ambienti dell’antica città perrecuperare le opere d’arte. Invece oggi, non ap-pena i muratori avevano consolidato la casa edelevate le parti mancanti con la guida dei rilievifatti, ritornavano al loro posto gli affreschi giàrestaurati e la casa riprendeva la sua originariabellezza.Il restauro più delicato e più difficile fu quellodella Casa a Graticcio, in opus graticium, com-posta tra il piano terreno e quello superiore.Questa casa è sostenuta da dieci pilastri di la-terizio di m. 0,40 per lato, ai quali si concate-vavano travate di legno di m. 0,40 per m. 0,15di spessore, a formare una vera e propria gab-bia che viene completata con tavole di cm. 3 dispessore, le quali sorreggono l’astrico battutodel pavimento del primo piano, con le intela-iatura di tramezzi di legno riempiti di muraturadello spessore di cm. 8.Sebbene la casa fu rinvenuta quasi integra, es-sendo riparata delle case dell’Erma di bronzo

e del Tramezzo carbonizzato, tuttavia subì undifficile restauro in quanto si dovettero sosti-tuire le travi dell’ingabbiatura e le tavole dilegno carbonizzato con nuovo legname senzafar crollare la muratura e gli astrici originali,lasciando in tutti gli ambienti gli elementi car-bonizzati per dimostrare la sua ricostruzione.Questa casa di tipo economico popolare co-struita con lo scheletro di legno sostenuto dapilastri in laterizio si può dire che è il prototipodelle moderne costruzioni di cemento.La casa Sannitica, dal portale con pilastri sor-montati da capitelli corinzi di tufo, sebbene hasubito modifiche e decurtazioni, resta il tipopiù ben conservato: si entra nell’atrio dalla“fauce” decorata di I stile, ove, al di sopra delcornicione, si sviluppa un grazioso loggiatocon colonnine joniche, chiuse da un pluteo atransenna di stucco, motivo questo, che verràusato largamente nelle ville del Rinascimentoitaliano. In realtà la casa Sannitica, come quelladell’Erma di bronzo, nei sistemi costruttivi èrimasta quale era in origine, anche quando inepoca romana furono accolte ad Ercolano,come a Pompei e altrove, quelle trasformazioniimposte dalla moda ellenistica. I muri di questacasa furono trovati all’impiedi a metà delle co-lonnine joniche.Nessuno potrà sottrarsi al fascino di questecase, che emanano un senso di viva umanità:si può vedere in ogni angolo come la vita si ar-restò in quel tragico momento del tremendo ca-taclisma, che fece fuggire gli abitantiterrorizzati inseguiti dall’ira del Vulcano: cosìla famiglia che abitava la casa dei Cervi do-vette abbandonare sui fornelli accesi della cu-cina tegami, padelle e casseruole ov’era ilpranzo pronto da servire a tavola; in un terra-neo del V cardine c’era un ragazzo di circa ottoanni di età – forse ammalato oppure abbando-nato al suo destino –, lo trovammo disteso sottoil letto avvolto di fango; nell’officina del decu-mano maggiore si può vedere la statuetta dibronzo allora restaurata dal bronzista, quandodovette abbandonare tutto per fuggire.

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La fotocopia del documento esibitomi con-sente di esprimere poche ed approssimate

indicazioni. Essa consiste in una fotocopia du-plicata da un particolare fotografico contenutonel volume Storia di Napoli. Orbene innanzi-tutto non è noto (e trattasi di un aspetto di nonpoca rilevanza) se detta fotocopia sia stata omeno sottoposta a riduzione o adingrandimento rispetto all’origi-nale da cui è tratta.Occorreva, e ciò non mi è statopossibile, ispezionare minuzio-samente presso l’Archivio oMuseo dove trovasi in giacenza,l’originale del documento inquestione.Nel contempo bisognava di-sporre di altri esemplari di firmedi Federico II, dalle quali attingere ulteriori in-formazioni, indispensabili per localizzare lecostanti e le variabili che caratterizzano l’ese-cuzione di un simile complesso prodotto.Tutto ciò è fondamentale per affidabili giudizitecnici di natura psicografica. In caso contrariosi è oltremodo limitati nell’espletamento di un

compito decisamente complesso, accentratoperaltro su un prodotto inconsueto che prendein considerazione modelli grafici risalenti amolti secoli addietro.Sulla base della fotocopia disponibile si pos-sono seguire due vie:1. Potrebbe trattarsi di un sigillo (di metallo o

di pietra dura) recante incisouno stemma, un simbolo o delleiniziali che, applicato con cera ocon ceralacca fusa, lascia unaimpronta in rilievo sul docu-mento o sul plico che si intendeautenticare o proteggere da ma-nomissioni.Per stabilire se si tratti o menodi un timbro bisogna disporre dipiù esemplari. Sovrapponendo

questi ultimi se si rileva perfetta corrispon-denza allora si ha la prova che non ci si trovaal cospetto di manoscrittura.In tal caso devo far rilevare che ben più idoneodel sottoscritto a fornire indicazioni di tipo tec-nico, storico ed artistico sul documento inesame sarebbe stato uno studioso di sigillogra-

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Documenti

di Luigi Pannuto

IL MONOGRAMMADI FEDERICO II DI SVEVIA

L’8 maggio 1995, nella Sala consiliare dell’Amministrazione provinciale di Napoli, fu celebratoil “processo a Federico II di Svevia”, nel corso del quale il prof. Luigi Pannuto presentò la re-lazione di perizia grafopsicologica che qui di seguito si pubblica.

* * *

fia (o sfragistica: così detta da “sigillo” e “gra-fia”).2. Seconda ipotesi – a mio avviso la più plau-sibile -: trattasi di un manoscritto redatto (comeè noto), previa autorizzazione dell’imperatore,da Pier delle Vigne e recante in calce un mo-nogramma (o firma che la si voglia definire) diFederico II.Le modalità con cui il monogramma in esame(ricordo che trattasi del prodotto risultantedalla congiunzione e/odalla parziale sovrapppo-sizione di una o più letteree parole, di solito usatocon valore di sigla) apparecongegnato e disposto sulsupporto di scrittura sug-geriscono quanto segue:a) Non è possibile fornirenotizie psicografiche affi-dabili giacché trattasi diun prodotto che segue unben definito cliché. Ed indetto cliché non possonoessere lasciate peucliaritàpsicologiche personali,che richiedono percorsi fluidi, non stereotipati.b) La firma in esame occupa centralmente ungrande spazio, sovrastando nettamente tutte lealtre scritturazioni e colpendo immediatamentel’attenzione dell’osservatore.Essa si sviluppa attorno ad un cerchio od ovalecentrale, mostrando grande senso delle propor-zioni e omogeneità delle linee.Appare evidente che chi ha apposto detta firmaintende stabilire un centro, un punto fisso in-

torno al quale ruoti tutto il resto, facendo da ca-talizzatore dell’attenzione.Ciò è confermato dall’ovale o cerchio centraleda cui si dipartono vari assi (tre verticali ed unotrasversale) alla cui estremità sono localizzabililettere o ben definibili o distinguibili per ap-prossimazione.Una simile costruzione suggerisce una perso-nalità egocentrica, che si pone come riferi-mento, avendo grande consapevolezza del

proprio valore e mo-strando un alto tasso dioriginalità e di contenutoestetico, di equilibrio e dieleganza di forme.Una simile strutturazionesuggerisce capacità di vi-sione politica partendo dauna centralità (ossia dallostesso imperatore), sugge-rita da un individuo che hanon solo precise tendenzeartistiche ma anche unapersonalità equilibrata edoriginale, mai sconfinantenella stravaganza.

Trattasi certamente di un soggetto che ha pienaconsapevolezza del proprio valore e capacità,sia di saper uscire da cliché (ad esempio di nonsoccombere alle istituzioni) sia di essere ca-pace di grandi e drastiche decisioni.Per ottenere un simile prodotto occorre in de-finitiva: fantasia, senso estetico, originalità,equilibrio, coerenza e grandi doti intellettualied artistiche.

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NOZZE D’ORO

Il 18 aprile scorso hanno festeggiato le nozze d’oroil Comandante ANGELO BRUNELLI e la gentile si-gnora TINA DI GENNARO. A loro vadano i più cordialiauguri del direttore e della redazione de Il Rievoca-tore.

800 ANNI FA:LA “MAGNA CHARTA LIBERTATUM”

MA NAPOLI…

di Elio Notarbartolo

C’è un’antica maledizione che condizionala classe dirigente del Sud: da quando que-

sta classe dirigente si proponeva o veniva rac-colta e con-trassegnatacon il nomedi Baroni eforse ancheda prima.P e n s a t e :c’erano ba-roni in Fran-cia e Inghil-terra e c’era-no baroni nelSud di Italia.Il nome eralo stesso ma

la mentalità era diversa, completamente di-versa. Quelli pensavano anche al loro popolo,questi solo a sé stessi.Di fronte all’arroganza del potere reale rappre-sentato, in Inghilterra, prima da Riccardo Cuordi Leone e, poi, da Giovanni Senza Terra, i ba-roni d’Inghilterra e del nord della Francia eb-bero la forza, a partire dal 1213, di ribellarsi edi costringere il re – allora regnava GiovanniSenza Terra – a sottoscrivere la prima veralegge che riconosce la libertà e i diritti dei cit-tadini: la Magna Charta Libertatum. Era l’8giugno 1215 (promulgata poi il 12 novembre1216).Vero è che quei baroni seppero cogliere il mo-

mento in cui la tracotanza, prima di RiccardoCuor di Leone, poi di Giovanni Senza Terra,era arrivata al punto da non riconoscere qualeArcivescovo diCanterbury, ilcardinale Ste-fano di Langton,nominato dalPapa I Inno-cenzo III. I reche volevanofare il braccio diferro con ilpapa!Il re GiovanniSenza Terraviene, con laforza, costretto asottoscrivere il manifesto dei baroni inglesi cheè qualcosa di molto vicino alla dichiarazionedei diritti valida per tutto il popolo.Esso è una solenne promessa di pace allaChiesa e al popolo con l’impegno di reprimerele violenze individuali in ogni classe sociale,assicurando giustizia a tutti.Che fanno, contemporaneamente, i baroni delSud di Italia?E’ l’anno 1222: Federico II fa appello ai suoibaroni di aiutarlo ad allestire un esercito controi Saraceni in Sicilia che gli si erano ribellati.Ruggiero dell’Aquila, che già aveva tradito ilpadre di Federico, tradisce di nuovo insieme adun bel gruppo di Baroni del Sud, tra cui il conte

Giovanni Senza TerraRiccardo Cuor di Leone

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Sanseverino e il conte di Tricarico. Ma conquale visione politica, quale obiettivo se nonquello di curare con miopia solo il proprio tor-naconto?Il tradimento dei baroni napoletani si ripetè nel1266 quando, avendo promesso appoggio a reManfredi, essi scesero in campo, nella battagliadi Benevento, a fianco del suo avversario CarloI d’Angiò, condannando Manfredi alla scon-fitta. E il tradimento fatto contro Giovanna Id’Angiò? E quello contro Ferrante d’Aragonadel 1485?I diritti del popolo del Sud sono rimasti sempre

infimi. Ora la classe dirigente si chiama diver-samente: parlamentari, assessori, consiglieri,fino ad arrivare a piccoli sceriffi che si qualifi-cano segretari “politici” di piccoli gruppi diclienti, al solo scopo di promuovere sé stessi.Nessuna visione sociale, nessuna idea econo-mica per contrastare il malessere e la dispera-zione di tanta parte dei nostri giovani.Contro questa pochezza occorre che i cittadinisi attrezzino per promuovere il meglio che è of-ferto sul mercato delle candidature a sindacodi Napoli. E c’è davvero poco.

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L’ACCADEMIA DI ALTA CULTURA “EUROPA 2000”A TORTORA

L’Accademia di alta cultura “Europa 2000”, presiedutadal prof. Salvatore Alfieri, si è riunita nella sala convegnidell’hotel “La Loggia” di Tortora (CS) per la cerimoniad’investitura dei neoaccademici e di consegna dei premi“Scugnizzo d’Oro” e “Franco Piccinelli”. Il direttivodell’istituzione ha cooptato i neoaccademici Luigi Beni-gno, Vincenzo Cuomo, Giuseppe Esposito, Virgilio Fra-

scino, Rosetta Gazzaneo, Antonio Imperio, Gerardo Melchionda, GiovanniMoscara, Giuseppe Peri, Giovanni Fausto Piscitelli, Fortuna Ranzo. Il premio “Scu-gnizzo d’Oro” è stato conferito a Carmine Cimmino (studi sto-rici), Demetrio Crucitti (attività radiotelevisiva), MarikaDrechsler (arti figurative), Pasquale Lamboglia (attività ammi-nistrativa), Gioacchino La Torre (archeologia), Egidio Lorito(letteratura), Ottavio Lucarelli (giornalismo, nella foto a destra),Aldo Masella (regia teatrale), Agnese Rosella Mollo (scienze me-diche), Fabrizio Mollo (beni culturali), Dolores Scippacercola(poesia italiana), Agostino Tortora (attività professionale). In-fine, il premio intitolato al giornalista Franco Piccinelli è statoassegnato ai giovani Gaetano Bruno, Antonella Laino e Marco Salatti. La cerimoniaè stata presieduta dall’illustre immunologo prof. Giulio Tarro.

IL “CIPPO” DI SAN GENNARO AD ANTIGNANO

di Ennio Aloja

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Nel 1707* l’edicola che ricordava il primomiracolo di san Gennaro ad Antignano è

trasformata in cappella e la cinquecentescaicona marmorea del Santo patrono è collocatasul suo frontespizio.Nel 1857 Ferdinando II di Borbone acquistadalla famiglia De Simone sia questa cappellache il terreno circostante. Il re, accanto allo sto-rico tempietto, vuole innalzareuna basilica dedicata al Santopatrono di Napoli e del regnodelle Due Sicilie. Il 4 maggio1859 il cardinale arcivescovoSisto Riario Sforza getta laprima pietra della basilica:l’opera, affidata a Giuliano Ta-glialatela, è disegnata dal Cap-pelli sul modello della basilicadi San Francesco di Paola.Purtroppo la basilica, enne-sima testimonianza della de-vozione dei Borbone di Napolia san Gennaro, non sarà maicompletata per le note vicendeche segnano la fine del regnoUtriusque Siciliae e la nascitadell’Unità d’Italia. Anche lasettecentesca cappella, detta poi Vacchiano dalcognome degli ultimi proprietari, nel 1897viene abbattuta senza nessuna registrazione co-munale, nonostante fosse stata dichiarata mo-numento nazionale da un decreto umbertino.La speculazione edilizia, al posto della basilicaferdinandea, innalza un palazzone e l’abbatti-mento della cappella viene motivato con l’al-largamento dell’antico tracciato viario cheproseguiva lungo Conte della Cerra e via Sal-

vator Rosa. Quest’immagine documenta l’esi-stenza della Cappella Vacchiano sulla cui fac-ciata spicca la testina marmorea di sanGennaro.

* * *Questa cinquecentesca testina, sopravvissutamiracolosamente all’impietosa iconoclastiadella speculazione edilizia, è stata ed è testi-

mone della secolare devo-zione del popolo di Antignanoal Santo martire. La comunitàcristiana del praedium Anti-nianum, là dove avvenne ilprimo miracolo, dedica a sanGennaro un’edicola e, inepoca normanna, a poca di-stanza, anche una chiesettache, in una carta notarile delXV secolo, viene citata con iltitulus di “San Gennariello”.Nel Cinquecento l’icona mar-morea del santo sovrasta l’al-tarino dell’antica edicola,meta della suggestiva proces-sione primaverile degli “In-ghirlandati”. Nel 1707,trasformata l’edicola in cap-

pella, la testina marmorea del santo ed una la-pide ricordano il suo primo miracolo. Nel1897, già distrutta la basilica ferdinandea,anche questa cappella, detta “Vacchiano”,viene demolita: l’altarino, la lapide e la statualignea trovano riparo in “San Gennariello alleGradelle”, mentre la testina di san Gennaroviene collocata sulla porta centrale della chiesache, nel secondo dopoguerra, sarà chiamata“Piccola Pompei”. Il popolo di Antignano, de-

IL CONGRESSO PROVINCIALE A.N.P.I.

Il 18 marzo scorso, nella Sala dei Baroni diCastelnuovo, si è svolto il 16° Congressodel Comitato provinciale A.N.P.I. di Napoli.I lavori, introdotti dal presidente uscente,Antonio Amoretti, e coordinati da AmedeoBorzillo, si sono articolati attraverso la re-lazione di Massimo Amodio e gl’interventidi numerose delle personalità presenti, frale quali il sindaco di Napoli, Luigi De Magi-stris, l’assessore alla cultura del Comune

di Napoli, Nino Daniele, il presidente della 5a Municipalità, Mario Cop-peto, e, inoltre, Luigi Marino, coordinatore regionale A.N.P.I. della Cam-pania, Guido D’Agostino, presidente dell’Istituto campano per la storiadella Resistenza, e Gennaro Morgese, presidente dell’associazione“Maddalena Cerasuolo”. Le conclusioni sono state tratte da CarloGhezzi, in rappresentanza del Comitato nazionale A.N.P.I. Al termine deilavori, l’assemblea ha riconfermato alla presidenza del Comitato provin-ciale di Napoli il partigiano Antonio Amoretti.

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ciso a ripristinare la memoria del Santo pa-trono, si stringe intorno a due valenti sacerdotiche, non a caso, si chiamano Gennaro Sperin-deo e Gennaro Errico. Tra l’inizio e la metà delNovecento, «laboriosa populari stipe undiquerecollecta», si edifica la splendida Basilicapontificia. Nel 1941, auspice lo Sperindeo, latestina di san Gennaro ritorna, con maggiorevisibilità, nel sito originario. Da settant’annil’epigrafe sottostante l’icona ci ricorda che qui,

nel cuore antico del Vomero, è avvenuto «ilprimo meraviglioso portento della liquefazionedel sangue di san Gennaro».________

* Testo del programma illustrativo della conferenza-vi-sita guidata tenuta dall’autore il 30 aprile 2016 nella ba-silica di San Gennaro ad Antignano.

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DUE INTERESSANTI DIPINTIIN ALTA VALLE TELESINA

di Sergio Zazzera

Particolarmente ricca di testimonianze sto-riche e artistiche1, la Valle Telesina, fiore

all’occhiello del Sannio beneventano, ospita,fra l’altro, in due chiese, site rispettivamente inCerreto Sannita e in San Lorenzello, due opered’arte che, per la loro singolarità, meritano diessere segnalate all’attenzione dei lettori diquesto periodico.

PAOLO DE FALCO, Madonna della Purità(1727), Cerreto Sannita, chiesa di San Mar-tino.Nella quarta cappelladella navata sinistradella chiesa di San Mar-tino, in pieno centrodella cittadina di CerretoSannita, è esposta unatela, firmata «Paolo DeFalco» e datata «1727»,raffigurante la Verginedella Purità fra i santiGiuseppe e Liborio2.Le notizie biografichedel De Falco, delle qualisi dispone3, sono moltolimitate. Di lui si sa: chenacque a Napoli nel1674 e morì intorno al1746; che fu ordinato sa-cerdote, dopo gli studi di logica compiuti nelCollegio napoletano dei Gesuiti; che, infine, inarte fu allievo di Francesco Solimena.L’artista operò molto in ambito sannita: già

nella medesima chiesa di San Martino sonopresenti altri suoi dipinti: la Gloria di San Mar-tino (1714, presbiterio) e la Madonna del Ro-sario fra i santi Antonio, Domenico, Caterinae Rosa (1716, quinta cappella della navata si-nistra)4. Inoltre, nella stessa cittadina di Cer-reto, sono esposte: nella Cattedrale della SS.Trinità, un San Domenico Soriano, commissio-natogli nel 1702, con un impegno di spesa di13 ducati, recuperati attraverso la vendita diuna vecchia lampada di argento5; nel convento

attiguo al santuario dellaMadonna delle Grazie,una Ultima Cena6; nellachiesa di Santa Mariadel Monte dei Morti(c.d. “Assunta”), unPurgatorio (1727, brac-cio sinistro del transetto)e una Madonna con sanRiccardo (1727, bracciodestro del transetto)7.Altre opere dell’artista,infine, presenti nellaParrocchiale di San Lo-renzo, nella vicina citta-dina di San Lorenzello,andarono distrutte nelsisma del 18058.La fama del De Falco,

però, doveva avere travalicato, ben presto, iconfini del Sannio: sappiamo, infatti, che nellachiesa di San Giacomo Maggiore, in Casal-nuovo di Napoli, era presente una sua tela, raf-

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figurante San Giacomo in gloria, realizzata colcontributo economico del cardinale GiacomoCantelmo, arcivescovo di Napoli, e andata per-duta in circostanze non accertate9. In un corri-doio della Casa Professa di Grottaglie, poi, sitrova una sua Assunzione di Maria, prove-niente dal santuario della Madonna della Sa-lute, che in passato fu retto dall’ordinegesuitico10. Ancora, è suo un San Benedetto,dipinto per la chiesa napoletana dei Santi Se-verino e Sossio, mentre altre sue opere sonopresenti a Torino, dove egli soggiornò a lungo,e a Montecassino11. Inoltre, egli realizzò un ri-tratto-statua di Carlo III su piedistallo, circon-dato dalle virtù che scacciano i vizi, che offrìal sovrano in occasione della sua incorona-zione12. A Napoli, infine, una sua Trinità è pos-seduta dal Conservatorio di Santa Rosadell’Arte della Lana, istituito nel 161613.Quanto meno, da questo medesimo anno, ilculto della Madonna della Purità risulta radi-cato in Cerreto Sannita, dove la chiesa di SantaMaria di Costantinopoli (o dell’Odigitria), datale epoca, è anche sede della Congregazionedella Purità14.Per tornare al dipinto della Madonna della Pu-rità, la composizione realizzata dal De Falcosi distacca, assolutamente, al pari di diversealtre15, dalla matrice iconografica di tale invo-cazione della Vergine, identificabile nell’im-magine dipinta dallo spagnolo Luis de Morales(1510-1586), donata nel 1641 dal sacerdoteDiego di Bernardo y Mendoza ai padri Teatinie posta nella quarta cappella della navata destradella basilica napoletana di San Paolo Mag-giore16. In quella qui in esame, infatti, due an-geli incoronano la Vergine, mentre in basso adestra una mattonella, scomposta rispetto al pa-vimento, contiene la firma dell’artista e la data(1727), precedente di tre anni a quella di ulti-mazione della cappella, fatta edificare dal ca-nonico cerretese Luca Carizza. Assolutamente originale, poi, è la presenza deidue santi – Giuseppe e Liborio – che affian-cano la Madonna; presenza che legittima inparte l’ipotesi della funzione votiva del dipinto.Se, infatti, la figura di Giuseppe, il quale reggeun fascio di gigli, può valere a rafforzare l’idea

della “purità” della sposa, viceversa, Liborioregge tra le mani alcuni sassolini, simbolo dellacalcolosi renale (“mal della pietra”), nei con-fronti della quale è ritenuto protettore: in pro-posito, gioverà menzionare il rito napoletanodi pietà popolare, tuttora, almeno in parte, pra-ticato nella chiesa di San Liborio alla Carità,della scupàt’â Pignasecca, teso a propiziare ilpatrocinio del santo nei confronti di tale infer-mità17. Si può ipotizzare, dunque, che l’ignotocommittente – magari, confratello della Con-gregazione della Purità, se non proprio il cano-nico Carizza, che aveva commissionato lacostruzione della cappella – si fosse affidatoalla Vergine e al santo, per essere liberato daun episodio di calcolosi; il che, poi, consenteanche di darsi una spiegazione della presenzadi un’opera siffatta in un luogo diverso dai con-venti e conservatorî femminili, che ne costitui-scono l’“ambiente naturale”18.Il De Falco, infine, è stato autorevolmente ri-tenuto «brillante diffusore ‘in provincia’ delleidee del Solimena», dal quale riprese alcunesoluzioni luministiche del primo decennio19,oltre alla nettezza delle forme e alla pacatezzanei gesti e nei volti. Egli rifiutò in manierapressoché costante i temi di carattere laico eprofano, avvicinandosi in qualche modo anchealle modalità pittoriche di Francesco DeMura20. La sua insistente presenza in CerretoSannita – quanto meno, fra il 1702 e il 1727 –è sintomo evidente dell’apprezzamento posi-tivo, del quale era riuscito a godere negli am-bienti ecclesiastici locali, mentre la diffusionedelle sue opere in ambito meridionale – e, al-meno in parte, anche nel resto d’Italia – potràessere stata favorita anche dall’estesa “rete dicomunicazione” esistente in seno all’ordine ge-suitico nell’intera Penisola.

CARLO SCOGNAMIGLIO, Annuncia-zione (s.d. ma metà sec. XIX), San Loren-zello, chiesa del Carmine.Nella chiesa parrocchiale di San Lorenzello,dedicata alla Vergine del Carmelo, ma più notacol titolo di San Lorenzo, che vi fu trasferito inseguito al crollo della chiesa dedicata al mar-tire, che sorgeva nella località Avantisanti, av-

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venuto in conseguenza del sisma del 26 luglio180521, una tela non datata, raffigurante l’An-nunciazione e recante la firma «Carlo Scogna-miglio», sovrasta il primo altare del latosinistro.Ancor più scarne di quelle concernenti il DeFalco sono le notizie biografiche relative alloScognamiglio. Egli, infatti: nel 1846 eraiscritto alla R. Accademia di Belle Arti di Na-poli, sua città natale22; fu attivo, quanto meno,fino al 1887; era sposato con Giulia Parente23,con la quale abitava al civico n. 10 della salitaStella24; costituì la “generazione di mezzo” diuna famiglia di artisti, collocandosi fra il padre,Gioacchino, restaura-tore, e il figlio, Roberto(Napoli 1883-1965), pit-tore bohémien25.Nella seconda metà delsecolo XIX era all’operanell’Abbazia di Monte-cassino, a proseguirel’attività di restauro in-trapresa dal genitorenella cappella della Ver-gine: la sua formazioneartistica, però, lo spinsepiuttosto a dipingere aolio, ex novo, per unodegli spicchi della volta,un angelo che si rimira nello specchio, a imi-tazione dei dipinti di Francesco De Mura primamaniera26. Nel 1884, poi, dipinse, a olio su tela, un’imma-gine di San Vincenzo Ferrer, per la chiesa diSan Giovanni Battista, eretta nel sec. XVII inSan Lucido (CS)27.Del 1886, ancora, è la Madonna del Soccorso,da lui realizzata per la chiesa di San MicheleArcangelo a Trecchina (PZ)28, tela nella qualeil “soccorso” è recato dalla Vergine, a energicicolpi di bastone, secondo una diffusa iconogra-fia popolare, che si ritrova, fra l’altro, nell’ana-loga pala presente nella prima cappella dellanavata destra del Duomo di Cerreto Sannita. Suo è anche il ritratto postumo del musicistaPietro Generali (Masserano [BI] 1760 circa -Novara 1826)29, firmato e datato (1887), custo-

dito dal Conservatorio napoletano di San Pietroa Majella, nel quale questi aveva compiutoparte dei suoi studi30.Due suoi dipinti (Il Vesuvio veduto da’ Camal-doli e La torre a Marepiano), infine, furonoesposti alla mostra allestita nel Real MuseoBorbonico di Napoli nel 184831.La tela laurentina fu commissionata allo Sco-gnamiglio dalla nobile famiglia locale dei Mas-sone, che esercitava il diritto di patronato sullacappella32 ed era proprietaria dell’omonimo pa-lazzo, che sorge nel centro storico della citta-dina, nel quale visse la scrittrice Maria Luisad’Aquino, loro discendente. Dunque, l’esecu-

zione dell’opera seguì iltrasferimento della par-rocchia nella sede at-tuale e pertanto (oltreche per ragioni anagrafi-che, relative al suo au-tore), benché priva didata, essa è riconducibilea un momento succes-sivo al 1805.Dal punto di vista icono-grafico, la rappresenta-zione della scenadell’Annuncio a Maria,realizzata dall’artista, sipone in perfetta linea

con l’impianto figurativo conferito alla stessa,quanto meno, dal Caravaggio in avanti. Primadi costui, infatti, l’Arcangelo Gabriele risultasempre poggiato, in qualche modo, sull’im-piantito dell’abitazione della Vergine. In pro-posito, si rimanda, fra i tanti esempi: alle dueformelle a bassorilievo (sec. X) di Sant’Apol-linare in Classe, a Ravenna33; ai tre dipinti delBeato Angelico esposti, rispettivamente, ilprimo (1430 circa) nel Museo diocesano diCortona, e gli altri (1440 circa e 1450 circa) nelMuseo di San Marco a Firenze34; al dipinto leo-nardesco del Louvre (1472-75)35 e a quello raf-faellesco della Pinacoteca Vaticana (1502-03)36; a quello di Lorenzo Lotto (1534 circa),esposto nella Pinacoteca civica di Recanati37;a quelli di Tiziano, presenti, rispettivamente,nel Duomo di Treviso (1522), nel Museo di

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Capodimonte, a Napoli (1557) e nella chiesaveneziana di San Salvador (1564)38. PerfinoGiotto, nel suo affresco, facente parte del ciclopadovano della Cappella degli Scrovegni39, av-verte la necessità di far poggiare il busto di Ga-briele sul davanzale della finestra.A partire dal Caravaggio, viceversa, l’Arcan-gelo aleggia sospeso nell’aria: così, infatti, l’ar-tista lo raffigurò nella celebre, quanto discussa,Annunciazione di Nancy40; e così l’iconografiasi è perpetuata, sostanzialmente, almeno fino aquello che può essere ritenuto, a buon diritto,il più intrigante dipinto dedicato a tale sog-getto, vale a dire, l’Ecce Ancilla Domini, rea-lizzato nel 1850 dal preraffaellita DanteGabriel Rossetti41 ed esposto a Londra, nellaTate Gallery, nel quale Gabriele sfiora appenail pavimento, senza poggiarvisi. Parallelo scul-toreo di tale opera può essere ritenuta l’Annun-ciazione del futurista napoletano GuglielmoRoehrssen (1934)42, nella quale l’Arcangelo ècolto nel momento in cui discende “in pic-chiata” verso la Vergine, alla quale tende lemani. Del resto, è agevolmente immaginabileche proprio così la scena si sia realmentesvolta, dal momento che un “Puro Spirito” nonavrebbe avuto bisogno di un piano d’appoggio,per reggersi; del che lo Scognamiglio ha tenutoconto, in maniera molto avveduta, nell’operain questione.

Emerge, a questo punto, il fil rouge sottile, maneanche troppo, che lega il dipinto cerretese equello laurentino per il profilo tematico, purnella loro distanza topica (benché minima) ecronologica (un tantino maggiore).La caratteristica del primo, infatti, è costituitadalla “Purità”, quale titolo della Madonna, laquale si autoproclama, ben due volte, «pura di-nanzi a Dio» nell’apocrifo Protovangelo diGiacomo43. Tale purezza/-ità, poi, non va con-fusa con la c.d. “Purificazione della Vergine”,che la Chiesa celebrava il 2 febbraio (quaran-tesimo giorno dalla nascita di Gesù, secondo ilrituale ebraico), la cui denominazione è statamolto opportunamente sostituita oggi daquella, più corretta, di “Presentazione di Gesùal Tempio”44.

La purezza medesima, inoltre, è rimasta taledal momento del concepimento fino al temposuccessivo al parto45. In particolare, quanto alprimo di tali momenti, è illuminante, in primoluogo, il Vangelo di Giovanni, secondo cui ifigli di Dio – a cominciare proprio dal Figlioper antonomasia – «non da sangue, né da vo-lere di carne, né da volere di uomo, ma da Diosono nati»46. Con il che viene in evidenza il se-condo dipinto, il cui tema è quello dell’Annun-ciazione, evento relativamente al quale, più chela nota narrazione evangelica47, presenta profiliinteressanti la tradizione affidata a inni ecanti48, dal mottetto medioevale:

Gaude Virgo Mater Christi quae per aurem concepistiGabriele nuntio

a quello inglese del XIII secolo, che lo traduce:

Glad us maiden, mother mildthrough thine ear thou were with childGabriel he said thee

e a quello, attribuito a Venanzio Fortunato(530-607):

Mirentur ergo saeculaquod angelus fert seminaquod aure Virgo concepitet corde credens parturit

che affermano il concepimento per aurem, me-diante l’ascolto dell’annuncio recato da Ga-briele (e il terzo anche il parto per cor, vale adire, mediante la fiducia in Dio). Del resto,anche i più recenti Catechismi della Chiesa cat-tolica proclamano il divino concepimentosenza intervento umano49. Il che vale a confer-mare quella “Purità”, che costituisce attributodella Vergine “Annunziata”, così istituendo ilcollegamento concettuale fra le due opere quiesaminate._______

1 Fra le tante, meritano segnalazione l’Abbazia di SanSalvatore Telesino e la Torre della Cattedrale di Telesia(su cui cfr. N. PACELLI, Telesia e la Valle Telesina, Na-poli 1980, p. 105 ss.; N. VIGLIOTTI, Telesia… Telese.Due millenni, Napoli-Roma 1985, p. 65 ss.) e il Castello

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ducale di Faicchio ( su cui cfr. Faicchio tra storia ed at-tualità, a c. della s.m.s. “Sen. G. Pascale”, PiedimonteMatese s.d., p. 27 s.).2 Ma F. ABBATE, Storia dell’arte nell’Italia meridio-nale, 5. Il Mezzogiorno austriaco e borbonico, Roma2009, p. 482, la indica, inopinatamente, come «Madonnadelle Grazie».3 Cfr. B. DE DOMINICI, Vite de’ pittori, scultori ed ar-chitetti napoletani, 3, Napoli 1743, p. 671; G.B.G.GROSSI, Le Belle arti, 2, Napoli 1820, p. 184, il quale,però, ne colloca la nascita «circa il 1685».4 Cfr. F. ABBATE, o. l. c.5 Cfr. l’indirizzo Internet: it.wikipedia.org/ wiki/Catte-drale_di_Cerreto_Sannita.6 Cfr. l’indirizzo Internet: www.buonivacanze. it/Re-source/ItaliaDeiTerritori_2.pdf.7 Cfr. l’indirizzo Internet: it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Maria_%28Cerreto_Sannita%29.8 Cfr. N. VIGLIOTTI, Il Venerabile Oratorio ossia Con-gregazione sotto il titolo di Santa Maria della Sanità inSan Lorenzello, s.l. 2008, p. 98.9 Cfr. P. PONTICELLI - N. DE LUTIO, La chiesa diSan Giacomo Maggiore a Casalnuovo di Napoli (all’in-dirizzo Internet: www.iststudiatell.org).10 Cfr. N. FASANO, Un’inedita veduta settecentesca diTaranto in un dipinto di Paolo De Falco (all’indirizzoInternet: www.fondazioneterradotranto.it). 11 Cfr. Le arti dipendenti dal disegno ne’ luoghi ch’oggiformano il Regno di Napoli, in Giornale enciclopedicodi Napoli, 1820, t. 2 (aprile-giugno), p. 24 s.12 Ibid.; cfr., pure, G.B.G. GROSSI, o. c., p. 184 s.13 Cfr. G.A. GALANTE, Guida sacra della città di Na-poli, Napoli 1872, p. 303.14 Cfr. V. MAZZACANE, Memorie storiche di CerretoSannita2, Napoli 1990, p. 160.15 Come, ad es., quelle delle chiese omonime di Pagani(riprodotta nella copertina di G. TIPALDI, Storia delmonastero e della chiesa di S. Maria della Purità di Pa-gani, Materdomini 2012) e di Gallipoli (cfr. A. FAITA,Luca Giordano: documento inedito del dipinto di MariaSS.ma della Purità di Gallipoli, in Il Bardo, 2005, f. 3),e quella oggi custodita dalla Congrega dei Turchini diProcida (cfr. S. ZAZZERA, La “Vergine delle Pericli-tanti” di Procida, in Il Rievocatore, gennaio-marzo2014, p. 20 ss.).16 Cfr. L. D(I) M(AURO), in Napoli sacra, f. 7, Napolir. 2010, p. 438; iconografia ripresa nel medaglione cen-trale della Madonna della Purità con vari santi, di NicolaMaria Rossi (1720), che è sull’altare maggiore dellachiesa vomerese di Santa Maria della Purità dei Notari(cfr. FR[ANCESCA] C[APANO], ibid., f. 13, Napoli r.2010, p. 787).17 Cfr. S. ZAZZERA, “Munnezza”, in Napoliontheroad,7 febbraio 2013 (all’indirizzo Internet: www.napolion-theroad.com/zazzera_ munnezza.htm).18 Cfr. gli esempi citt. supra, nt. 15.19 Così N. SPINOSA, La pittura napoletana del Sette-

cento, 2, Napoli 1988, p. 92.20 Cfr. G. SESTIERI, La pittura del Settecento, Torino1988, p. 90.21 Cfr. N. VIGLIOTTI, San Lorenzello e la Valle del Ti-terno3, San Lorenzello 1998, p. 98 ss. Già dopo il terre-moto del 5 giugno 1688, la parrocchia fu trasferitaprovvisoriamente nella chiesa della Congrega di SantaMaria della Sanità: cfr. N. VIGLIOTTI, Il VenerabileOratorio cit., p. 18.22 Cfr. il sito Internet: sanpietroamajella.it.23 Cfr. M. PICONE PETRUSA, In margine: artisti na-poletani fra tradizione e opposizione, 1909-1923, Mi-lano 1986, p. 108.24 Cfr. la lettera da lui indirizzata al Ministero della Pub-blica Istruzione (ASSAN, III.D.4, 53), nella quale eglisi autodefinisce «pittore».25 Sul quale cfr. M. PICONE PETRUSA, o.l.c.26 Cfr. A. CARAVITA, I codici e le arti a Monte Cas-sino, 3, Montecassino 1871, p. 597.27 Cfr. il sito Internet: www.calabria.org.uk.28 Cfr. S. SEBASTE, Trecchina, s.l. 2000, p. 4; F. NO-VIELLO, Storiografia dell’Arte Pittorica Popolare inLucania e nella Basilicata, Venosa 2014, p. 341.29 Sul quale cfr. F. REGLI, Dizionario biografico dei piùcelebri poeti…, Torino 1860, p. 320 s.30 Cfr. il già citato sito Internet: sanpietroamajella.it.31 Cfr. il Catalogo delle opere di Belle arti poste in mo-stra nel Real Museo Borbonico il dì 15 Agosto 1848,Napoli 1848, p. 57.32 Cfr. N. VIGLIOTTI, San Lorenzello cit., 98 ss.33 Cfr. A. DILLON BUSSI, Biblioteca classense. Ra-venna, Firenze 1996, p. 106.34 Cfr. G. CORNINI, Beato Angelico, Firenze 1999, pas-sim.35 Cfr. S. CREMANTE, Leonardo da Vinci, Firenze2005, p. 86 ss.36 Cfr. Effemeridi letterarie di Roma, t. 3, Roma 1821,p. 207.37 Cfr. M. LUCCO, Lorenzo Lotto a Recanati, Bologna1998, p. 57.38 Su tutte cfr. G.E.M.A. - Grande Enciclopedia Multi-mediale dell’Arte, schede nn. 112, 212, 284 (all’indi-rizzo Internet: books.google.it/).39 Cfr. G. PISANI, I volti segreti di Giotto, Milano 2008,cap. 6.40 Sulla quale cfr., ex plurimis, R. PAPA, Caravaggio.Gli ultimi anni (1606-1610), Firenze-Milano 2004, p. 29ss.; P. ROBB, M. L’enigma Caravaggio, tr. it., Milanor. 2009, p. 452 ss.; A. GRAHAM-DIXON, Caravaggio.Vita sacra e profana, tr. it., Milano r. 2014, p. 4. E sonoconvinto che la figura di Gabriele sia sicuramente dimano dell’artista, diversamente da gran parte del di-pinto, a cominciare proprio dalla Madonna.41 Cfr. A. BOIME, Art in an Age of Civil Struggle. 1848-1871, Chicago 2007, p. 253 s.42 Cfr. M. PICONE PETRUSA, Arte a Napoli dal 1920al 1945: gli anni difficili, Napoli 2000, p. 347.43 Protov. Giac. 10.1; 15.3; cfr. M. WARNER, Sola fra

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le donne, tr. it., Palermo r. 1999, p. 63 s., ma anche J.GUITTON, La Vergine Maria, tr. it., Milano r. 1995, p.51.44 Cfr. A. CATTABIANI, Calendario, Milano r. 1994,p. 136 ss.; J. GUITTON, o. c., p. 63.45 Si ricordi quanto narra il Protovangelo di Giacomo, aproposito della «gran luce che gli occhi non potevanosopportare» (19.2), al momento del parto, e a propositodella mano dell’ostetrica Salome (20.1), dopo taleevento.

46 Gv. 1.13.47 Cfr. Mt. 1.18; Lc. 1.26-38.48 Sui quali cfr. M. WARNER, o. c., p. 75 e nt. 15.49 Cfr. il Catechismo di Pio X, § 76 («nel seno purissimodi Maria Vergine, per opera dello Spirito Santo»), e ilCatechismo di Giovanni Paolo II, §§ 94, 98 («senza lacollaborazione di uomo»; «senza intervento del-l’uomo»).

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TEATRO SAN CARLO: PRESENTATA LA STAGIONE 2016-17

Nel corso della conferenza stampa svoltasi il 6maggio scorso, con l’intervento della Soprinten-dente Rosanna Purchia, del direttore artisticoPaolo Pinamonti e del sindaco di Napoli Luigi DeMagistris, è stata presentata la Stagione 2016-17del Teatro San Carlo. Per la sezione Lirica, tra leopere più attese, saranno rappresentate: Otello di

G. Rossini (dir. Gabriele Ferro, con John Osborn e Nino Machaidze, 30 novembre-6dicembre), La Bohème di G. Puccini (dir. Valerio Galli, con Irina Lungu e FrancescoDemuro, 16-21 dicembre), Rigoletto di G. Verdi (dir. Nello Santi, con George Peteane Rosa Feola, 18 gennaio-1° febbraio), Lucia di Lammermoor di G. Donizetti (dir. Do-nato Renzetti, con Maria Grazia Schiavo e Claudio Sgura, 22-30 marzo), Elektra di R.Strauss (dir. Jurai Valčuha, con Nadja Michael e Michael Laurenz, 9-15 aprile), La Tra-viata di G. Verdi (dir. Renato Palumbo, con Mariangela Sicilia e Giorgio Berrugi, 23aprile-5 maggio), Manon Lescaut di G. Puccini (dir. Daniel Oren, con Maria José Siri eRoberto Aronica, 15-21 giugno), La serva padrona di G.B. Pergolesi (dir. Maurizio Ago-stini, con Filippo Morace e Rossella Locatelli, 10 e 11 giugno), Il segreto di Susanna diE. Wolf Ferrari (dir. Giovanni Di Stefano, con Marcello Rosiello e Arianna Vendittelli,24 e 25 giugno), Simon Boccanegra di G. Verdi (dir. Stefano Ranzani, con AmbrogioMaestri e Myrtò Papatanasiu, 8-15 ottobre), Die Entführung aus dem Serail di W.A. Mo-zart (dir. Hansjörg Albrecht, con Desirée Rancatore e Yijie Shi, 29 ottobre-8 novem-bre). Inoltre, per il “San Carlo Opera/Festival”, saranno rappresentate Carmen di G.Bizet (dir. Jurai Valčuha, con Kate Aldrich e Stefano Secco, 7-16 luglio) e Il Trovatoredi G. Verdi (dir. Michal Znaniecki, con Hui He e Gustavo Porta, 8-15 luglio). A suavolta, per la Stagione di balletto, saranno allestiti, fra gli altri, Lo Schiaccianoci di P.I.Tchaikovsky (29 dicembre-4 gennaio) e Cenerentola di S. Prokofiev (5-12 marzo). Infine,la Stagione sinfonica vedrà impegnati, fra i tanti, i direttori Neville Marriner, DanielOren, Fabio Luisi e Michele Mariotti, e i solisti Daniel Barenboim (pf.), Fabrizio VonArx (vl.) e Pinchas Zukerman (vl.).

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CARLO “III” DI BORBONENEL CENTENARIO DELLA NASCITA

di Guido Belmonte

1. Il 20 gennaio 2016 si sono compiuti trecentoanni dalla nascita di Carlo di Borbone, che inapoletani indicano come “III”, seguendo unordine dinastico che nonera del regno napoletano,ma di quello spagnolo.Carlo era anche terzocome re di Sicilia e set-timo come re di Napoli;ma tali denominazioninon furono mai utilizzateda lui, in ragione pure diqualche incertezza sullacorretta progressionedella prima di quelle duenumerazioni. La piazzache Napoli ha dedicato aCarlo avanti al maestosoAlbergo dei poveri, da luifatto edificare, è l’unicotoponimo cittadino riser-vato a un esponente diquella dinastia borbonicache, durata dal 1734 al1861, la volgata risorgimentale ritenne di dovervotare, con l’esecrazione, all’oblio. Il ricordodel solo suo fondatore, peraltro, appariva d’ob-bligo, avendo la città contratto con lui un de-bito di riconoscenza, per esserne stataarricchita di splendidi edifici e, soprattutto,della collezione d’arte che il re aveva ricevutoda sua madre Elisabetta Farnese. Un tesoroche, con l’essere eredità della famiglia ma-

terna, egli avrebbe potuto portare a Madridquando, nel 1759, fu chiamato a succedere alfratellastro Ferdinando VI su quel trono, ma

volle invece lasciare allacittà. La gratitudine napo-letana fu tuttavia accom-pagnata da qualcheriserva per l’inspiegabiledecisione del Sovrano didistruggere, alla partenza,la fabbrica di porcellaneche aveva fatto sorgere aCapodimonte con l’aiutod’artigiani della Sassonia(la terra d’origine di suamoglie) ed era divenutafamosa sia per la bellezzadei prodotti che per laqualità della materia im-piegata, al cui migliora-mento aveva concorsol’uso del caolino estrattoda terre del Regno.2. Al di là delle monu-

mentali testimonianze che Napoli, Caserta,Portici e i vari “siti borbonici” tramandano del-l’opera di Carlo (e procurano pure, con lo svi-luppo del turismo, utili se pur modeste entrateall’economia della Campania), i meriti di quelsovrano vanno più attentamente ricercati negliesiti non sempre concordi della storiografia chelo riguarda. Quale dev’esser considerata diquel re la statura politica maggiormente credi-

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bile? La più recente di due pubblicazioni, aopera di Carlo Knight, aventi a oggetto le let-tere a Carlo III del figlio Ferdinando IV1, equelle di San Nicandro a Carlo nel periododella Reggenza, rievoca un dissenso che, conriguardo appunto al primo dei Borbone di Na-poli, si manifestò tra Michelangelo Schipa eBenedetto Croce. Schipa, in un’opera del 19042, aveva raccon-tato, a proposito della battaglia di Velletri(1744) combattuta contro gli austriaci, qualiperplessità re Carlo avesse manifestato nell’af-frontarla, e come fosse riuscito a superarle solodopo aver ricevuto il conforto d’un gesuita,Padre Pepe, che lo munì d’una borsetta di“Cartelle dell’Immacolata” da tener sempre in-dosso. E a Velletri Carlo, avendo in manoquella borsetta, si rifugiò nel convento dei Cap-puccini, ove fra Gennaro, un religioso napole-tano, gli porse il proprio mantello: che il rebaciò, ponendoselo in faccia e chiamando inaiuto Iddio, Maria Santissima e San Gennaro.Benedetto Croce, nel recensire l’opera diSchipa su La critica3, rimproverò garbatamenteall’Autore l’uso di «un’intonazione avversa alprotagonista del proprio libro e ai partigiani ecollaboratori di lui». Poteva cogliersi in talerimprovero una sorta d’ammonimento a riser-vare comunque del rispetto alla memoria diCarlo, fondatore di quella monarchia napole-tana «che aveva respinto l’invasore austriaco,alleata bensì della Spagna, ma con valido con-corso di forze proprie; perché (come attesta ilFilangieri) a Velletri “quelli che resistetterocon maggior coraggio all’inimico, primi ad es-sere esposti e sacrificati, furono i reggimentiprovinciali, formati d’agricoltori tratti dallazappa poche settimane prima dell’azione” e co-mandati dai nobili»4.Ma è da credere che Michelangelo Schipa – la-sciando da parte quella sua rappresentazionedel re a Velletri, che avrebbe potuto renderlomeno solenne di quanto appare dalla statuaequestre erettagli a Napoli da Canova nelLargo di Palazzo – avesse saputo valutare concorretto, motivato giudizio la giusta dimen-sione da riconoscere alla gloria di Carlo di Bor-bone. Nel 1931 (a più di venticinque anni dalla

manifestazione di quel pur garbato dissenso daparte di Benedetto Croce) MichelangeloSchipa, nell’Enciclopedia Italiana5, firmava lavoce Carlo III di Borbone, re di Spagna (finoal 1759 re delle Due Sicilie senza numero),nella quale può leggersi quest’espressione fi-nale: «Il suo più recente storico, dopo aver ac-curatamente esposto tutta la sua svariata azionecome re di Spagna, giunge a questa conclu-sione: che esiste una sproporzione impressio-nante tra l’opera di Carlo e la gloria da luiraccolta. La posterità ha potuto essere ingan-nata circa il suo valore effettivo, giudicandolonon in sé solo, ma al confronto del fratello edel figlio che lo ingrandiscono di tutta la loroinsufficienza. Similmente la sua gloria come redi Napoli rifulse maggiormente perché lo pre-cedette il lunghissimo periodo di dominazionestraniera e gli tenne dietro, salvo il periododelle riforme, una monarchia vituperata per lasua ferocia reazionaria, per il suo oscurantismoe per la sua natura plebea».3. Le parole di Michelangelo Schipa – se purconservano un’eco della volgata risorgimen-tale, ostile di proposito ai Borbone di Napoli –non appaiono prive di fondatezza circa lavalutazione del primo re di quella dinastia.È risaputo che l’acquisto del regno da parte diCarlo fu al centro d’un programma ambiziosoche sua madre, Elisabetta Farnese, giovandosidi favorevoli contingenze, riuscì con tenacia arealizzare. Che il figlio gliene fosse grato è lo-devole; diversa cosa è che la gratitudine po-tesse accompagnarsi a un’eccessivacondiscendenza nel secondare direttive politi-che dei genitori: che, col regnare in Spagna,avvertivano come preminente anche rispetto aNapoli la tutela degl’interessi di quell’altroStato. Non si dimentichi che Carlo, passato aregnare a Madrid, continuò pur sempre (comeappare dalle Instrucciones reservadas, testa-mento politico da lui redatto poco prima dellamorte) a considerar il regno napoletano, affi-dato alla sua partenza al figlio Ferdinando IV,«dotazione o appannaggio dei secondi ramidella famiglia regnante in Spagna»: una pre-messa che pare contraddire al riconoscimentodi una completa, assoluta autonomia al nuovo

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regno nato nel 1734. Certo è che l’avvio d’unaeffettiva indipendenza di quel regno dalla Spa-gna si rivelò sulle prime un processo appenapercettibile. L’organizzazione statale non parveinfatti, all’inizio, discostarsi molto dalla prece-dente prassi vicereale spagnola. Al poco dinuovo che venne realizzato nel governo dellacosa pubblica Carlo aggiunse una politica dimagnificenza che indubbiamente esaltò, con ilprovvidenziale concorso d’una fioritura d’artee di cultura, il prestigio della sua Corte, ma ca-gionò pure (soprattutto con lacostruzione degli splendidiedifici che ci sono stati la-sciati) un gravoso lievitare diregalie e imposte, la cui ri-scossione era appannaggiod’una Soprintendenza “allerendite” che, suggerita dallaSpagna, s’impersonò per untempo in Giovanni Brancac-cio, ricordato come solerteideatore d’un fiscalismo indi-scriminato.Non mancava certo qualcherilevante prospettiva di svi-luppo al nuovo regno6. Rite-neva l’abate Galiani che esso,posto al centro del Mediterraneo, con centinaiadi chilometri di coste, ricco di foreste atte a for-nir legname per le costruzioni navali, posse-desse le caratteristiche per diventare unapotenza marittima. E parve che il re Carlo vo-lesse subito secondare la realizzazione di unatale prospettiva con la prammatica de Nautis etPortibus del 1741, con la quale preannunciavala pubblicazione «di uno speciale codice» delleleggi «relative sia alla buona ed utile naviga-zione come al felice commercio». Ma il pro-posito della promulgazione di quel codice nonfu realizzato tuttavia da Carlo, tant’è che solotrentotto anni dopo fu suo figlio Ferdinando IVa dar incarico al giurista procidano Michele deIorio di redigere la raccolta di leggi che è co-nosciuta come Codice Ferdinando (o Codicemarittimo) e fu completata nel 1781. Questo ri-tardo potrebbe spiegarsi proprio con la pru-denza (non si può dire pigrizia) di Carlo di

Borbone nel discostarsi da una politica dettatagià dalla Spagna nel periodo del viceregno,consistente nel limitare la salvaguardia dalleincursioni della pirateria barbaresca sulle costedel Mezzogiorno d’Italia a una prevalente di-fesa “statica” (le torri di guardia) e riservare asé il compito quasi esclusivo di una difesa “di-namica”, da attuarsi con le navi. A rivelare que-sta limitatezza della politica di Carlobasterebbero due soli richiami del pensiero diAntonio Genovesi e di Bernardo Tanucci. Il

primo non esitava ad affer-mare che «i nemici più pernoi considerabili sono i Bar-bareschi …; dunque le mag-giori forze militaridovrebbero essere le marit-time … Le repubbliche bar-baresche ci fan la guerra;perché non farla loro? Si po-trebbero impiegare in questaguerra 10.000 marinai e 5 o6.000 soldati, e farla servirecome semenzaio di milizia.Ella servirebbe a proteggereil nostro commercio; e ilcommercio alimenterebbe ilpopolo …; e noi saremmo

non solo in Italia, ma in Europa altresì, una po-tenza da entrare nel bilancio universale con unaltro peso che non facciamo». Tanucci (di cuison note la devozione a Carlo e l’influenzaesercitata sul figlio Ferdinando IV anche dopoche questi ebbe raggiunto la maggiore età)aveva scelto invece – stando al governo dal1755 al 1776 – una marina militare di legni«minori» per la difesa delle Sicilie dai barba-reschi, ritenendo che un’armata di mare «com-posta di legni d’alto bordo, oltre a non essereadatta per la lotta contro i pirati, avrebbe potutosuscitare gelosie internazionali, essere incen-tivo per tentare imprese azzardate ed essere al-tresì scarsamente adoperabile a tutela delladifesa interna, anche per la mancanza nel regnodi porti idonei al suo ricovero».4. Questi limiti della politica di Carlo non sem-bra che possano venir messi in dubbio col rie-vocare un’iniziativa di segno contrario, da lui

Caricatura di Bernardo Tanucci(Manifattura ceramica Capodimonte)

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assunta nel 1738, riguardante l’istituzione d’unSupremo Magistrato del Commercio. Si trat-tava d’una riforma che avrebbe potuto assicu-rare lo sviluppo degli scambi anche attraversouna maggiore speditezza nella decisione dellecontroversie su rapporti commerciali. Quandosi pensi alla crescente importanza che avevaassunto nel Mezzogiorno d’Italia il commerciomarittimo già durante il viceregno austriaco,può intendersi facilmente come alla base deilodevoli propositi di riforma del giovane re do-vesse pur esservi un disegno di far acquistareal reame il ruolo di potenza marittima. Un pas-saggio fondamentale per la realizzazione ditale disegno s’era appunto individuato in unarifondazione del diritto pubblico del regno at-traverso l’imposizione della regola mercantilecontro un vigente pluralismo di procedure e disistemi giudiziari. Ma, come un insigne storicodel diritto7 ha spiegato, questo ardito disegnodi riforma venne bloccato proprio dalla censuraimposta da re Carlo e dagli uomini della Cortenapoletana (non ultimo tra questi il Tanucci,che solo tardivamente comprese e se ne pentì).Fu appunto Carlo ad appoggiare l’istanza dellePiazze napoletane che, nel gennaio 1746, incambio d’un donativo di 300 mila ducati, chie-devano di limitare le competenze del SupremoMagistrato del Commercio alle sole controver-sie con l’estero: ciò che finì col vanificare lariforma. 5. Se alla celebrazione delle ricorrenze (e tantopiù di quella tricentenaria della nascita di Carlodi Borbone) si volesse riconoscer un’utilità,questa resterebbe pur sempre quella d’appro-fondire, con l’occasione, lo studio della vita edell’opera del personaggio celebrato. Una ten-tazione, con riguardo a Carlo di Borbone, po-trebbe esser quella di misurare l’opera da luiprofusa per lo sviluppo e il consolidamento delregno sulla dimensione degli edifici superbiche quel re ci ha lasciato. Ma è bene che in taletentazione non ci si lasci indurre; così comecredo che nemmeno sia bene misurare la sta-tura politica di Carlo di Borbone limitandosi aconfrontarla con quella dei suoi successori, acarico dei quali s’è giudicato (temo con qual-che superficialità) che sarebbero stati indegni

della «grande tradizione carolina di metà set-tecento»8.Si ha un bel ripetere, per esempio, che Ferdi-nando IV – succeduto a Carlo quand’era an-cora minorenne –, fosse un re ineducato,plebeo, “lazzarone”; a studiarlo più a fondo cisi accorgerebbe come non soltanto – sia purrozzamente – egli avesse coscienza del dovered’identificarsi col sentire e le aspirazioni delpopolo che gli era stato affidato, ma fosseanche in grado d’avvedersi (addirittura in con-trasto con un “guardiano” della fermezza di Ta-nucci, postogli accanto dal padre) come ilregno trasmessogli avrebbe potuto acquistarpotere e prestigio maggiori proprio con la po-litica del mare che il padre aveva lasciato percosì dire “a metà”. Gli esiti di quella politicacominciarono appunto a realizzarsi durante ilregno di Ferdinando IV, a opera del ministroGiovanni Edoardo Acton.Non si vuol concludere, naturalmente, col dareper certa la definitività dei giudizi qui riportatia proposito di Carlo di Borbone. Un approfon-dimento ulteriore delle ricerche sull’opera sua,pur sempre auspicabile dopo tre secoli, po-trebbe rivelarne pregi maggiori di quelli che finqui vi si fossero potuti ragionevolmente attri-buire. Certamente, il fatto solo che Napoli (in-clusa all’arrivo di Carlo tra le primissime cittàd’Europa per numero d’abitanti) fosse stata re-stituita con lui al ruolo, rimastole per secoliconsueto, di capitale d’un regno sarebbe suffi-ciente a spiegarne l’orgoglio, destinato a river-berarsi sul suo sovrano, per l’indubbioprogresso che quella restituzione comunqueprocurava. Quando però, senza giurare sulverbo di Michelangelo Schipa, si considericome anche Benedetto Croce non escludesseaffatto la necessità di «un’attenta revisione»del periodo carolino, resa necessaria dalle «pa-recchie esagerazioni elogiative», il giudizio piùmisurato che s’è espresso su quel re potrebbeconfermarsi attendibile. Non senza aggiungereche anche la coincidenza temporale del regnodi Carlo di Borbone a Napoli (dal 1734 al1759) con una grande fioritura culturale dellacittà accrebbe certamente il grande prestigio diquesta. Che durante quel regno Napoli avesse

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potuto vantare, per ricordarne almeno alcuni,uomini come Celestino Galiani, conosciutocome l’arcivescovo di Taranto (1681-1753),Domenico Scarlatti (1685-1757), GiambattistaVico (1688-1744), Antonio Genovesi (1713-1769), Niccolò Jommelli (1714-1744), Ferdi-nando Galiani (1728-1787) fu certamente unvanto per la città; e l’aver Carlo apprezzato evalorizzato l’opera loro resta indubbiamente unmerito di quel re. Ma considerare addirittura ilregno di quel sovrano e i meriti di lui comeconcorrente causa promotrice essi stessi diquella fioritura culturale (tanto da poter iden-tificarla anche con la connotazione di ‘carolina’potrebbe rivelarsi un eccesso. Così che anchela già ricordata accusa rivolta ai successori diCarlo (e in particolare a Ferdinando II, che inqualche modo volle farsi nel secolo successivopromotore di cultura, tra l’altro con l’ospitarea Napoli, nel 1845, il settimo congresso degliscienziati) d’esser una dinastia «divenuta inde-gna della sua “grande tradizione carolina” dimetà settecento» finirebbe col rivelarsi – comes’è già detto – assai meno giustificata.

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1 C. KNIGHT, Il regno di Napoli dalla tutela all’eman-cipazione (1775-1789) - Lettere di Ferdinando IV aCarlo III ed altri documenti inediti, 2 voll., Napoli 2015.La pubblicazione meno recente [Carteggio San Nican-dro - Carlo III - Il periodo della Reggenza (1760-1767)]è del 2009. 2 M. SCHIPA, Il regno di Napoli al tempo di Carlo diBorbone, Napoli 1904.3 La critica, 1904, pp. 394-400.4 B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Roma-Bari r.1966, p. 186.5 vol. 9, 1931, p. 551.6 Sui limiti della politica marittima e delle riforme diCarlo di Borbone nel periodo napoletano si rinvia aun’opera abbastanza recente, edita dall’Istituto Italianoper gli Studi Filosofici: R. TUFANO, Verso la giustiziaproduttiva - Un’esperienza di riforme nelle Due Sicilie(1738-1746), Napoli 2015: fondamentali vi sono i ri-chiami alle approfondite ricerche di Raffaele Ajello allequali ci si è rifatti.7 R. AJELLO, La vita napoletana sotto Carlo di Bor-bone, in Storia di Napoli, a c. di E. Pontieri, 7, Napoli1972, richiamata da TUFANO, op. cit., p. 25 s.8 L’espressione è di F. TESSITORE, Prefazione a: Il set-timo congresso degli scienziati a Napoli - Solenne festadelle scienze severe, Napoli r. 1995.

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UNITÀ DI MISURA (ALLA NAPOLETANA)

Il 3 maggio scorso, nella pagina Facebook “Napoli Centro storico. Proverbi etradizioni”, è stato inserito un elenco di unità di misura napoletane, in formaanonima e, dunque, apparentemente riconducibile a chi gestisce tale pagina.L’elenco stesso, poi, è stato ripreso, il successivo 16 maggio, dal profilo Facebook“Tina Piemonte (Chegguardaffà)”. Orbene, Il Rievocatore intende puntualiz-zare in questa sede che tale lista fu pubblicata nel proprio fascicolo del 2002,su autorizzazione di Giulio Pacella, poeta e scrittore napoletano, che ne è au-tore, insieme col compianto giornalista Aurelio Pellegrino, il quale, a sua volta,la aveva pubblicata alcuni anni prima nel suo periodico Corriere Partenopeo.Inoltre, il mensile Vomero Magazine l’ha ripresa nel numero di maggio 2016,sempre su autorizzazione dell’autore, oltre che nostra. Tanto valga anche diprecisazione al sig. Sandro Silvestri, il quale, nella pagina Facebook, alla datadel 22 maggio, lamenta che l’elenco in questione sia stato “rubato dal suo pro-filo senza nemmeno citare la fonte”. Il che, poi, è esattamente ciò di cui, in-sieme con Pacella e nel rispettivo interesse, Il Rievocatore si duole verso tutti ipredetti.

GIACOMO CERCA CASA

di Antonio La Gala

Nel settembre 1830 Giacomo Leopardi in-contrò a Firenze Antonio Ranieri, un gio-

vane napoletano giramondo, in quel momentoesiliato dal regno borbonico, perché di idee li-berali e compromessosi nei moti del 1820.Da allora Ranieri offrì amicizia e protezione alpoeta e nel 1833 lo convinse a trasferirsi conlui a Napoli, dove i duegiunsero ad ottobre.Il soggiorno napoletanofu artisticamente fertileper il poeta, che vi scrissealcune delle sue miglioripoesie.Napoli ha voluto ricor-dare la permanenza incittà del poeta di Reca-nati, intitolandogli unaimportante strada di Fuo-rigrotta, una stazione,scuole, ecc. ed erigendo-gli una tomba, prima nel-l’atrio della demolitachiesa di S. Vitale a Fuo-rigrotta, e poi nel parco virgiliano nei pressi diMergellina, vicino a quella ritenuta di Virgilio.I resti di Leopardi, furono traslati da S. Vitaleal Parco Virgiliano di Piedigrotta, nel febbraio1939, con un lungo e solenne corteo attraversola galleria per Piedigrotta.Il rapporto del poeta con la città cominciòbene. Appena arrivato scrisse al padre Mo-naldo: «La dolcezza del clima, la bellezza dellacittà e l’indole amabile e benevola degli abi-tanti mi riescono assai piacevoli» (5 ottobre1833).

Ma dopo un primo momento di entusiasmo,l’idillio con la città si andò via via logorando,fino a diventare per il poeta un soggiorno im-prontato a grande sofferenza.Anche se è vero che Giacomo Leopardi non sitrovava mai a suo agio nei posti dove viveva,e ne disprezzava gli abitanti, a cominciare dalla

natia Recanati, tuttaviadel suo soggiorno a Na-poli ci ha lasciato unaserie di motivazioni cosìcircostanziate che paiononon rientrare nell’ambitodelle sue abituali insoffe-renze. Già il 5 aprile1834 scriveva al padre:«Io partirò da Napoli ilpiù presto che io possa». Fra le difficoltà che an-gustiarono Leopardi aNapoli ci fu quella abita-tiva. Quando il 2 ottobredel 1833 il poeta giunse aNapoli, prese alloggio,

assieme a Ranieri, in un appartamento ammo-biliato che un amico di Ranieri aveva affittato«a mese» prima del loro arrivo, «a pochissimipassi da Toledo, a pochi dal Palazzo Reale».Non è facile individuare con esattezza alcunidei quattro – a partire da questo – che Leopardiabitò, perché si trovavano in zone poi urbani-sticamente rimaneggiate e perché i numeri ci-vici che Ranieri ci riferisce sono cambiati.In ogni caso, per la prima abitazione Ranieri cifornisce l’indirizzo di via San Mattia 88, 2°piano, che gli studiosi identificano con uno dei

La casa di Leopardi in via S.Teresa

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due palazzi ad angolo con via Speranzella, neiQuartieri spagnoli. Il soggiorno in questo ap-partamento non andò proprio benissimo. Pareche la proprietaria, sospettando che Leopardifosse tubercolotico, per il secondo mese volleun fitto maggiorato, dopo comunque che un il-lustre medico, visitato il poeta, la rassicurasse.Leopardi ci rimase male. A dicembre, cioè dopo due mesi, Ranieri eLeopardi si trasferirono in un secondo appar-tamento situato nel palazzo Cammarota, in«strada nuova Santa MariaOgnibene», sotto il colle di S.Martino. Allora non c’era an-cora corso Vittorio Emanuele.Anche per questa casa nonriesce facile trovare con esat-tezza l’ubicazione, ma sap-piamo che aveva grandistanze, era ariosa, panora-mica, con un’ampia vedutadel Vesuvio «dal quale – diceLeopardi - contemplo ognigiorno il fumo e ogni notte lalava ardente». In questo ap-partamento Giacomo ed Anto-nio stettero fino al maggio1834 (fino a poco fa a Napoligli affitti scadevano tradizionalmente il 4 mag-gio), cambiandolo poi fino al maggio 1835 conun altro appartamento nella stessa verticale,scendendo al primo piano, dove scomparve laveduta del golfo e del «Vesevo».Nel maggio 1835 i due amici si trasferirono invico Pero n. 2, un palazzo ad angolo con via S.Teresa degli Scalzi. All’epoca le case di Ma-terdei, vico Pero e vico Noce, segnavano ilconfine della parte abitata della città, oltre laquale si stendevano orti e campagna. Il poeta, durante questo suo peregrinare abita-tivo, arrivò a delle conclusioni che riassu-miamo con queste parole che scrisse al padre:«qui quartini ammobiliati a mese non si tro-vano, come da per tutto, perché non sonod’uso, salvo a prezzi enormi e in famiglie per

lo più di ladri». Chi non riesce a trovar casa,«può star sicuro di accamparsi col suo letto eco’ suoi mobili in mezzo alla strada oppure an-dare alla locanda, dove la più fetida stanza,senza luce e senz’aria, costa al meno possibiledodici ducati al mese, senza il servizio, che èprestato dalla più infame canaglia al mondo» .Nel frattempo scoppiò uno dei tanti colera na-poletani del secolo, e Leopardi restò bloccatoin città. Fu nella casa di vico Pero che Leo-pardi, due anni dopo, il 14 giugno 1837, a Na-

poli lasciò la pelle. E le ossa.Che pare non siano state real-mente fatte deporre da Ranierinella vecchia chiesa di SanVitale di Fuorigrotta, prima diessere spostate nel 1939 nelmonumento di Mergellina. Infatti qualcuno non è propriosicuro che le ossa che hannogirovagato per la città sianoquelle del poeta. Leopardimorì il 14 giugno 1837 perfatti gastro-intestinali in vicodel Pero, 2, sulla Salita di S.Teresa al Museo, da dovequel giorno doveva tornare,assieme al conte Ranieri, alla

Villa delle Ginestre. Non so con quanta atten-dibilità alcuni sostengono che il Ranieri persbarazzarsi subito di un cadavere che non gra-diva tenere in casa, la sera avvolse il corpo delpoeta in un lenzuolo e furtivamente lo gettò inuna fossa comune dove venivano abbandonatialtri cadaveri del colera che allora infuriava incittà. Poi inscenò, con alcune complicità, la so-lenne tumulazione di una bara riempita distracci e pietre, nella chiesa di S. Vitale.Quando la famiglia chiese di aprire il sepolcro,non se ne fece niente perché un decreto regioaveva dichiarata la sepoltura monumento na-zionale e quindi non più oggetto di diritti dellafamiglia.

La tomba di Leopardi a Fuorigrotta

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AVREMMO POTUTO VINCERE A MANI BASSE. 5

di Andrea Arpaja

X.Operata, nel capitolo precedente, la indispen-sabile digressione aeronautica, possiamo orafinalmente concludere il quadro generale delleoperazioni etiopiche, occupandoci del fronteSudan. Ancor prima, avevamo già scritto cheuno dei Corpi di Armata di Cavalleria, quellocon le due Divisioni indigene più una nazio-nale, ultimate sul fronte Kenia le operazioni disua pertinenza, si sarebbe trasferito al fronteSudan, beninteso senza trascinarsi dietro alcungruppo di artiglieria diCorpo di Armata, stantela necessità della mag-giore rapidità possibile.Esso Corpo a cavalloavrebbe dovuto agirenella zona compresa frail Nilo Azzurro e ilfiume Atbara coprendocosì, a sinistra, l’azionedi un altro corpo, ben più massiccio e motoriz-zato, costituito da una Divisione di Bersaglierie dalle due Divisioni di Granatieri di Sardegnae Granatieri di Savoia, integrate da un raggrup-pamento artiglieria di Corpo d’Armata, com-prendente due gruppi ternari da 105/32 e di ungruppo ternario da 149/17, ovviamente moto-rizzati.Queste tre Divisioni avrebbero operato, inizial-mente, nella zona compresa fra il detto fiumeAtbara, affluente del Nilo, ed il Mar Rosso, perpoi proseguire fra il Nilo stesso, ed il mare. Intal modo, le Divisioni di Cavalleria si sareb-bero dirette su Kartoum ed Omdurman, mentreBersaglieri e Granatieri, superata Cassala, sisarebbero inoltrati nel Sudan, dirigendosi verso

il confine meridionale egiziano ed occupandoPorto Sudan. Le scarse forze britanniche, pre-senti in quel settore, impossibilitate a ricevererinforzi dalle altre unità, già severamente im-pegnate in Egitto a Nord e ad Aden e nel Keniaa Sud, non avrebbero potuto opporre una seriaresistenza ed in tal modo la situazione inglesein tutta l’Africa nord-orientale si sarebbe fattadrammatica fino a precipitare.Ma esaminiamo meglio, nei dettagli, la strut-tura di questa unità di Bersaglieri e Granatieri,

perché diversa daquella di analogheunità destinate, però, adoperare nel deserto li-bico. Posto che in Italiasi sarebbero potuti for-mare almeno una quin-dicina di ReggimentiBersaglieri, ciascunosu tre battaglioni, uno

dei quali motociclista, più un gruppo misto diaccompagnamento con due batterie da 47/32ed una da 20/65 antiaerea, tre di questi Reggi-menti sarebbero stati dislocati in Eritrea, uni-tamente ad un Reggimento di Artiglieriamotorizzata su tre gruppi: due da 75/18 ed unoda 100/22, più una batteria antiaerea da 37/54autocarrata.Ma a questa Divisione ternaria si sarebbe po-tuto aggiungere, alle dirette dipendenze del Co-mando, un battaglione di autoblindo AnsaldoA.B.39, approfittando di quella scarsa trentinadi esse già costruita, però sostituendone la tor-retta originaria, dotata di sole due mitraglia-trici, con quella definitiva armata con lamitragliera da 20/65 più una Breda da 8 mm.

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AB 40

in parallasse. Tale battaglione di autoblindo,appoggiato da contingenti di motociclisti, sa-rebbe stato utilissimo se usato in azioni diavanscoperta.Le due Divisioni di Granatieri, trasferite pertempo in Etiopia con la scusa di compiti di rap-presentanza e fingendone, poi, un avvicenda-mento, anch’esse ternarie ma senza battaglionimotociclisti, avrebbero differito sia nei gruppimisti di accompagnamento, con due batterie da65/17 ed una da 20/65 an-tiaerea, sia nel Reggimentodi Artiglieria, con un gruppoda 75/27 e due da 100/22,più la batteria da 37/54 an-tiaerea. Ma a tali due Divi-sioni sarebbe stato possibileed opportuno aggregare, aloro sostegno, un battaglioneper ciascuna di autoblindopesanti, ripartendo equamente, tra esse due, lecirca trenta F.I.A.T. 611 ancora esistenti, po-tenziate, però, grazie alla sostituzione delpezzo da 37/40 in torretta con altro da 47/32,cosa senz’altro possibile dato lo spazio a di-sposizione, ed aggiungendo una mitragliatricedi scafo per il posto affianco al guidatore.Anche il motore originario del “Dovunque”mod. 33, lo si sarebbe sostituito con quello benpiù valido del successivo mod. 35.Tali autoblindo a tre assi, data la loro mole, nonandavano tanto usate per l’esplorazione,quanto, semmai, per sopraffare rapidamentedei centri di resistenza, grazie all’armamentoartiglieresco. Come già detto, a questo Corpo d’Armata mec-canizzato, formato da truppe scelte, si sarebbeaggiunto un raggruppamento di artiglieria dimedi calibri, dove, in caso di indisponibilità delmateriale da 105/32 e da 149/17 previsto, essosarebbe stato sostituito con due gruppi da105/28 ed uno da 149/13 motorizzati. Tor-nando un attimo al discorso sulle autoblindo,nel 1940 esistevano ancora in servizio, parte inItalia, parte in Libia e parte in Etiopia, pochedecine delle vecchie Lancia Ansaldo I.Z., re-duci dalla prima Guerra mondiale, dei tipi aduna o due torrette sovrapposte; mezzi ormai

patetici e di nessuna validità bellica. Sarebbeperò valsa la pena di concentrarle tutte in Etio-pia, dove avevano ben operato nel 1935-36,uniformandole nel modello ad una torretta, edassegnarle alla P.A.I. (Polizia per l’Africa Ita-liana) che le avrebbe adibite a servizi di sicu-rezza nelle retrovie, dove sarebbe statacertamente da temere una recrudescenza dellaguerriglia, fomentata dagli Inglesi.Da quanto esposto, appare evidente che l’Im-

pero avrebbe potuto assol-vere ad una sua capitalefunzione geopolitica e strate-gica, prima fra tutte la conti-nuazione della sua stessaesistenza, solo se fosse statoopportunamente rafforzatonelle sue attribuzioni mili-tari, difensive ed offensive,come del resto ebbe profeti-

camente a scrivere, con una sua memorabilelettera, il generale Baistrocchi a Mussolini. Èovvio che tutto ciò avrebbe richiesto unosforzo organizzativo e logistico non indiffe-rente, trattandosi di approntare per tempo luo-ghi di acquartieramento, magazzini, depositi,officine, aeroporti e quant’altro potesse preve-dibilmente occorrere. Ma sarebbe certamentestato possibile farlo, lavorando di buona lena,nei circa quattordici mesi di tempo guadagnati,a partire dal settembre del 1939. Si può obbiet-tare che un tale afflusso di truppe e materialiin Etiopia (praticamente contemporaneo adanalogo afflusso in Libia) avrebbe potuto al-larmare in anticipo gli Inglesi, ma ripetiamoche un’accorta azione diplomatica, tesa a gua-dagnare tempo, avrebbe avuto ottime probabi-lità di riuscita. Anche perché per le truppe acavallo, per esempio, ci si poteva giustificarecon le necessità antiguerriglia, magari esage-randole; gli Alpini avrebbero fatto “esercita-zioni” sulle Ambe etiopiche; i Granatieri sisarebbero “avvicendati” in compiti di “rappre-sentanza”, data la presenza di due AltezzeReali (e forse più). Quanto alla flotta, sarebbe occorso simulare unpaio di crociere in formazione con le nostremaggiori navi, verso il Sud America ed il Giap-

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Dovunque 35

pone, con compiti dichiarati di visite di corte-sia, addestramento e rappresentanza, salvo poi,sulle rotte di ritorno, concentrare il naviglio neiporti e nelle rade disponibili di Somalia ed Eri-trea, avendo predisposto, per quanto possibile,un meticoloso coordinamento cronologicodelle tappe cruciali. Ma tutto ciò avrebbe ri-chiesto una dose di inventiva e di fantasia cheben difficilmente i mummificati cervelli deinostri Stati Maggiori avrebberosaputo esprimere, anche am-mettendo a priori la loro buonafede. Purtroppo, la genialitàdella classe dirigente italiana,così spesso riscontrabile nellescienze, nelle arti, nell’indu-stria, nella moda, nello sport edin tante altre attività della vitacivile contemporanea, subisceun improvviso oscuramentoogni qualvolta dovesse esserenecessario trattare di questionipolitico-strategiche e militari.Ciò è vero oggi, è stato vero du-rante il Fascismo e fu vero nel-l’Italia umbertina. Ben diversaè la considerazione che di tali questioni si èsempre avuta negli altri popoli europei, spe-cialmente inglesi e tedeschi. Ma da noi i sorri-setti scettici e l’aria di sufficienza, che hannosempre caratterizzato gli ambienti di quei ver-tici militari arroccati nei ministeri, avrebberoinesorabilmente bocciato ogni suggerimentoteso a realizzare, almeno in parte, una mag-giore e più moderna funzionalità della mac-china bellica di una Italia ormai imperiale. Èconferma di ciò l’accantonamento del già ci-tato generale Baistrocchi, che aveva osato can-tare un po’ fuori dal coro. Però è anchemoralmente doveroso precisare che tali critichenon vanno assolutamente estese all’interaclasse degli Ufficiali generali.Fra tutti gli eserciti belligeranti nel secondoconflitto mondiale, quello italiano ha avuto lapiù alta percentuale di Generali caduti in com-battimento, al fianco dei propri ufficiali e sol-dati. Ma erano in massima parte comandanti diunità che avevano fatto la loro carriera a diretto

contatto con i reparti, ben pochi di essi avendofrequentato i corsi della Scuola di Guerra, or-ticello riservato, in genere, ad una élite di pre-destinati. Tuttavia era proprio in tale Scuola diGuerra, purtroppo riservata al solo Esercito enon Interarma, che si era rimasti fossilizzati inuna visione geopolitica e strategica esclusiva-mente europea ed addirittura da frontiera al-pina per l’Italia, salvo qualche interesse

balcanico, relegando i problemiafricani e d’oltremare in generea “questioni coloniali”, e quindidi serie B.

XI.Delineato abbastanza esaurien-temente ciò che si sarebbe po-tuto e dovuto fare nei territoridell’Impero, nel quadro diun’azione globale ed articolata,vediamo ora cosa si sarebbeanche dovuto fare più alle portedi casa nostra; ricordiamo, fral’altro, agli immemori che laLibia era giuridicamente terri-torio metropolitano e non Colo-

nia, costituente le Province della QuartaSponda. In essa Libia, suddivisa amministrati-vamente in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan,erano già stanziate due Divisioni libiche e noveDivisioni nazionali, più tre Divisioni deiCC.NN. Vi erano poi molti piccoli e medi pre-sidî sparsi nelle oasi dell’interno e nelle ridottedi confine, oltre che nelle piazzeforti di Bardia,Tobruch, Derna e Bengasi. Prima cosa da fare,con urgenza, era quella di adeguare alla strut-tura ternaria parte delle suddette Divisioni,comprese quelle libiche, aumentandone la do-tazione di veicoli a motore, in modo da trasfor-marle in autotrasportabili. A tal fine eraopportuno sciogliere, per esempio, la DivisioneBologna, per rendere ternarie le due “Sabratha”e “Sirte”, e la Catanzaro, per fare ternarie leMarmarica e Cirene. Inoltre, attingendo ai re-parti delle Divisioni Brescia e Pavia, bisognavaprovvedere a rafforzare tutti i nostri posti diconfine, tipo ridotta Capuzzo, ridotta Madda-lena, Sidi Omar ed altri, con un aumento di ar-

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Generale Federico Baistrocchi

tiglierie anche di medio calibro, di pezzi anti-carro ed antiaerei, di armi automatiche; con lamessa in opera di reticolati e di campi minati,un congruo aumento delle riserve di viveri e diacqua, lo spostamento delle truppe libiche pre-sidiarie verso più tranquilli settori, confinanticon i territori francesi (Tunisia, Algeria eCiad), onde preservarle dagli attacchi di for-mazioni motocorazzate inglesi, troppo forti perloro.Occorreva poi provvedere tempestivamente al-l’invio delle due Divisioni corazzate Ariete eCentauro (quest’ultima da richiamare dall’Al-bania, sostituendola eventualmente con la Sa-vona, già in Libia) e delle due motorizzateTrento e Trieste, cosa molto più agevole a farsiprima, pace durante, che non dopo, ad ostilitàiniziate e con il rischio di fare affondare parec-chi trasporti con il loro prezioso carico, comepurtroppo poi avvenne. Inoltre, con la dozzinadi Reggimenti di Bersaglieri rimasta (altri tregià li avevamo considerati in A.O.I.) si sareb-bero formate quattro Divisioni celeri, moltoidonee ad agire con operazioni a largo raggio,partendo da piazzeforti più interne come Gia-rabub e Cufra. Altre due Divisioni meccaniz-zate leggere sarebbero state la “23 Marzo” e la“28 Ottobre” di CC.NN. (mentre la “3 Gen-naio” si è previsto trasferirla nell’Impero).Ma prima ancora di esaminare come avrebberodovuto operare queste Unità, vediamo conquali materiali si sarebbe dovuto equipaggiarle.Le quattro Divisioni nazionali ordinarie già ci-tate non avrebbero avuto certamente quadru-pedi in dotazione come quelle metropolitane,e quindi anche i reggimenti di artiglieria sareb-bero stati completamente autocarrati. Essiavrebbero compreso due gruppi da 75/27 ed ungruppo da 100/22, più una batteria da 37/54 an-tiaerea, essendo da ritenersi chiaramente inutilii pezzi da 75/13 o 75/15 da montagna (ma i75/15 erano da assegnare alle Divisioni alpinein Kenya, data la loro gittata da 9.200 metri).Stessa situazione anche per le due Divisioni li-biche, nelle quali però il Reggimento di arti-glieria, su tre gruppi di batterie, disposto deisoli pezzi da 77/28 ex-austriaci. Le due Divi-sioni di CC.NN. “23 Marzo” e “28 Ottobre” sa-

rebbero differite dalle due dell’Impero solo peri tre gruppi autocarrati del Reggimento di arti-glieria, tutti dotati dei pezzi da 76/30 ex-RegiaMarina, conservando quindi le due Legionimotorizzate e quella corazzata leggera, con icarri L.3 con Solothurn. Invece le due Divi-sioni motorizzate Trento e Trieste avrebberociascuna sostituito il Reggimento Bersaglieri,destinato con altri due a formare una Divisionecelere, con un Reggimento corazzato leggero,con i carri L.3 con Solothurn, mentre il Reggi-mento di artiglieria divisionale avrebbe dovutocontare su un gruppo da 75/32, uno da 100/22ed uno da 105/28, più la batteria da 37/54 an-tiaerea. Le quattro Divisioni celeri di Bersa-glieri realizzabili, analoghe a quella giàconsiderata per l’A.O.I., avrebbero però sosti-tuito, nell’organico dei loro battaglioni, allacompagnia mista di armi pesanti di accompa-gnamento una compagnia di una decina di au-toblindo A.B.40, molto più indicate in un tipodi unità avente un ruolo molto mobile.Restano da esaminare i mezzi e gli organicidelle due Divisioni corazzate Ariete e Cen-tauro. Per queste, essendo subentrato nella pro-duzione dei carri il modello M.13/40 alprecedente M.11/39 (i cui 100 esemplari pro-dotti abbiamo visto inviati in Etiopia), saràpossibile formare per tempo un totale di quat-tro Reggimenti di carri medi M.13/40, cioè dueper ogni Divisione, più due Reggimenti di carrileggeri del nuovo modello L.6/40, cioè uno perDivisione, questo con compiti di esplorazioneed avanguardia. Il nuovo carro leggero L.6/40,però, sarebbe stato più opportuno armarlo conil pezzo da 37/40, così come previsto su unodei prototipi, e non con la mitragliera da 20/65,da lasciare alle autoblindo. La Divisione coraz-zata sarebbe poi stata completata da un Reggi-mento di artiglieria semovente su tre gruppi:due da 75/18 (come furono in effetti realizzati,anche se in ritardo) ed uno da 75/32, più po-tente anche coma anticarro. Ricapitolando il to-tale delle Divisioni di cui disporre per leesigenze libiche, si sarebbe dovuto contare su:due Divisioni corazzate; due Divisioni moto-rizzate; quattro Divisioni celeri di Bersaglieri;quattro Divisioni di fanteria autotrasportabili;

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due Divisioni di Camicie Nere; due Divisionilibiche.Sarebbe poi stato opportuno disporre, oltre chedi alcune ben armate unità di presidio nelleoasi e negli avamposti di confine, potenziati eriorganizzati nelle loro capacità difensive,anche di un raggruppamento Squadroni Meha-risti e del Reggimento corazzato leggero “Ca-valleggeri Guide”, anch’esso su tre GruppiSquadroni con carri L.6/40, più un Gruppo se-moventi da 47/32 su scafo dello stesso carro,quale fu poi effettivamente realizzato; tale con-tingente di Cavalleggeri corazzati e di Meha-risti sarebbe stato da dislocare nella zonaestrema dei pozzi di Archenù ed Auenat, conannesso importantissimo campo di aviazione,in aggiunta al già previsto presidio esistente.

XII.E vediamo ora quale dislocazione si sarebbedovuta attuare, delle Divisioni ora elencate, ri-spetto ai due fronti di pertinenza libica, cioè iltunisino e l’egiziano. Il primo, dopo il crollodella Francia, si sarebbe presentato come il piùfacile dei problemi da risolvere, ma anchequello da trattare con priorità assoluta, datal’importanza di impadronirsi subito di Bisertae di Capo Bon, per chiudere il canale di Siciliaalla flotta inglese. Sarebbero comunque ba-state, per l’operazione Tunisia, le due Divisionidi Camicie Nere, “23 Marzo” e “28 Ottobre”,le due Divisioni nazionali “Sirte” e “Sabratha”,e le due Divisioni libiche. Queste sei Divisioni,opportunamente ripartite in due Corpi d’Ar-mata, dotati dei relativi Raggruppamenti di Ar-tiglierie di medio calibro, appoggiate daadeguata copertura aerea, al massimo nel girodi una settimana avrebbero dovuto completarel’occupazione della Tunisia fino al confine al-gerino.Alle guarnigioni francesi, specialmente nelcaso probabile che non avessero offerto alcunaresistenza, sarebbe stato consentito di trasfe-rirsi, armi e bagagli, in territorio algerino. Main contemporanea alle primissime fasi di que-sta operazione, doveva anche scattare l’opera-

zione Malta.Quest’isola, all’inizio estremamente sguarnitadi truppe e di armi pesanti, quasi priva di avia-zione, presentava tuttavia coste scoscese, conpochissimi approdi e di difficile accesso.Quindi un tentativo di sbarco tradizionale po-teva presentare qualche difficoltà. Ma gli al-leati tedeschi avevano dimostrato al mondo,con il loro intervento in Norvegia, Belgio edOlanda, quale nuova formidabile arma fosseroi paracadutisti e le truppe aviotrasportate conalianti.Mettendo da parte ogni stupida gelosia ed ognifalso orgoglio, era indispensabile chiedere adHitler il concorso di una unità di tali truppe diélite, capace di impadronirsi subito di uno al-meno degli aeroporti dell’isola, su cui far af-fluire altre truppe per via aerea, e diconquistare quindi da terra un approdo, magariMarsa Scirocco1, su cui far convergere senzacontrasti delle unità da sbarco ordinarie. Èchiaro che, durante tutto il corso dell’opera-zione, la nostra aeronautica ed una eventualealiquota di quella tedesca si sarebbero preoc-cupate di assicurare il più totale ed assoluto do-minio del cielo sopra l’isola e la sicurezza delleacque circostanti, nonché la neutralizzazione,per quanto possibile, delle batterie antiaeree.Non però il bombardamento degli impiantiportuali di La Valletta, che era nostro interessecatturare intatti.È da ricordare che, all’inizio delle ostilità, Hi-tler aveva offerto l’aiuto di un paio di “PanzerDivisionen” per la Libia, che il nostro StatoMaggiore rifiutò. Sarebbe bastato dire al Fü-hrer che non tanto quelle due Divisioni coraz-zate, quanto una di paracadutisti ci necessitavaper Malta, per averne il consenso e quindil’aiuto. Con la base di Malta in nostra mano eil possesso della Tunisia, tutta la situazione me-diterranea si sarebbe volta completamente anostro favore. (5. Continua) _______

1 Marsaxlokk (n.d.r.)

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1942-1943: MEMORIE DI UNA TRAGEDIA VISSUTAIl calice amaro della disfatta

di Elio Barletta

Il giorno dopo quel tremendo 4 dicembre –indimenticabile per chi lo visse di persona

ed è ancora in vita – era domenica. Dalle primeluci dell’alba l’atmosfera non era quella pigrae sonnacchiosa del dì di festa. Le sirene delleautoambulanze erano meno frequenti perchétra gli estratti dalle macerie calava tristementela percentuale dei vivi da trasportare d’ur-genza. Allo scorrere delle ore la situazione sifaceva drammaticaper la saturazione deiposti negli ospedalicittadini, obbligando isoccorritori a spin-gersi in ospedali sem-pre più lontani, macon un minimo di di-sponibilità. Per i po-veri morti, invece,non c’era fretta; veni-vano pietosamente composti sulla nuda terra ericoperti da lenzuola in attesa che – senza piùvite da salvare e con autoambulanze disponibili– potessero essere trasportati negli obitori. Lesirene delle forze dell’ordine e di pronto soc-corso tacevano da tempo perché gli addettierano già al lavoro dalla sera precedente. Vigilidel fuoco, genieri e volontari, prevalentementestudenti – pur stremati dalla fatica – non siconcedevano soste nel rimuovere massi di fab-brica con gli attrezzi o con le nude mani. Aleg-giava la consapevolezza che il peggio dovesseancora venire. Il 7 dicembre vennero chiuse le scuole di ogniordine e grado della città, provvedimento grave

ed inevitabile, avvertito principalmente dai ra-gazzi, disorientati dalla perdita di ogni contattocon i propri compagni di classe. Il 15 del mesesi ebbe il secondo bombardamento a tappetodegli americani e si corse ancora al ricoveroprima che suonassero le sirene d’allarme per-ché gli aerei erano piombati sulla città da altaquota, difficilmente intercettabili dai servizi diavvistamento di allora. Furono distrutti l’ospe-

dale Loreto Mare, ilGasometro, i bacinidella Navalmecca-nica, l’incrociatoreArborea. Per il solodicembre le perditeper le incursioni aereecontate dalla Prefet-tura furono di 1886morti e 3332 feriti,838 deceduti in gen-

naio. Parlando ai Fasci di Bologna, Mussolini in per-sona – deposta la tracotanza tipica del balconedi palazzo Venezia e con l’aria di chi la guerral’avesse subita – sottolineò la minaccia diChurchill di massicci bombardamenti su tuttal’Italia e perciò esortò a sfollare le città, soprat-tutto da donne e bambini. S’insinuò quindi frala gente la parola “sfollamento” che, per chiaveva la possibilità di una seconda casa ex-traurbana – propria, dei nonni o di chiunque laoffrisse o la fittasse – significò il trasferimentonei piccoli centri di intere famiglie. Si crearono file di carretti con cavalli, camion,auto, motocarrozzette carichi di persone, pac-

Napoli bombardata

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chi, bagagli, masserizie che uscivano dalla cittàprevio esibizione del certificato di “libero tran-sito”. I costretti a restare a Napoli da obblighidi lavoro – allora quasi tutti uomini – si sob-barcarono al faticoso andirivieni – quotidianoo di tanto in tanto a seconda della distanza in-tercorrente – con i comuni dove s’erano rifu-giati i propri cari. Poco diffusa l’auto propria,erano affollati i treni di Cumana, Circumvesu-viana, Alifana; per spostamenti oltre regione cisi serviva degli “accelerati”, i treni locali delleFF.SS. che – in contrasto con il nome – anda-vano lenti, alimentati a carbone, fermando atutte le stazioni, talvolta anche per dare prece-denza alle tradotte militari dirette al sud carichedi uomini ed armi inprevisione di sbarchidel nemico. Tra i miei parentisfollarono per primadue sorelle di miamadre: zia Egle contutta la famiglia delmarito e zia Biancacon la nonna Giusep-pina, con cui convi-veva. Andarono aSant’Anastasia, aipiedi del monte Somma, in zona ritenuta erro-neamente sicura perché sulla rotta di emer-genza che le fortezze volanti statunitensiseguivano per venire a bombardare Napoli evi-tando la batterie contraeree tedesche installatesulle colline della città. Come per parecchi altrianziani, la paura delle incursioni dovette in-fluire sulla fibra pur sana e attiva di mia nonnaottantunenne; mamma le fece visita a iniziogennaio, trovandola intenta a stirare. Ma ilgiorno successivo un colpo di telefono ci in-formò ch’era morta nella notte. Nell’appartamento accanto al nostro – 4°piano, scala A – alloggiavano gli Avio: lui,Gennaro, colonnello della Marina militare ul-trasessantenne, prossimo alla riserva, che, inservizio a Messina, faceva sporadiche scappatea casa di poche ore; lei, Maria, quarantacin-quenne, istriana di Pola, fiera di sentirsi ita-liana, che, conosciuto l’ufficialetto partenopeo

durante il 1° conflitto mondiale, lo aveva spo-sato e seguito a Napoli; il loro figlio, Carlo, ra-gazzone di poche parole, diligente studente dimedicina che, privo di distrazioni giovanili, sidivagava quotidianamente al pianoforte conChopin e Schubert.Appreso che cercavamo un alloggio sicuro, ilcolonnello pregò i miei di trovarlo anche per isuoi. Spuntò un’occasione nel comune di Fri-gnano Minore o Piccolo, l’antico feudo di ori-gini longobarde che – come tutti i comuniaversani (Terra di Lavoro) – apparteneva allaprovincia di Napoli da cui dista 23 km e che,nel dopoguerra (1950), rinominato Villa diBriano è passato alla provincia di Caserta da

cui dista 20 km: dueampi locali adiacentisulla strada provin-ciale, ciascuno for-nito di brande, tavolocon sedie, armadietto,cassettiera/cristal-liera, cucina a car-bone, al piano terra diun esteso casolareagricolo a due piani.Vi ci trasferimmo –in uno noi, nell’altro i

nostri vicini – ma ci rendemmo subito contodella cattiva scelta. Ai servizi igienici – tazzedi pietra grezza su scaglie di laterizi a mo’ discalini – ed alle fontane – rubinetti arrugginitisu vasche per il bucato – si accedeva traver-sando un vasto cortile aperto alle intemperie.L’inverno rigido e piovoso aveva provocato sulselciato uno spesso strato di mota da poter af-frontare solo con scarponi e stivali; con scarpenormali vi si affondava, si restava scalzi, ci siimbrattava gli abiti. Mamma tutti i giorni, papàquando non era di guardia in Capitaneria – mu-niti di calosce ed infagottati si destreggiavanoper andare faticosamente a prendere il trenoalle sei della mattina alla stazione di Frignano–San Marcellino per gli impegni di lavoro efarvi ritorno alle otto di sera. Ad accudire allameglio me undicenne e mio fratello Lucio didue anni restava mia nonna paterna Carolina,più malandata che anziana. Un giorno, all’alba,

Il relitto della Caterina Costa

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i contadini padroni di casa ci svegliarono perfarmi “godere” uno spettacolo a dir loro “inte-ressante”, che mi sconvolse: un povero maiale,legato su un tavolaccio di un seminterrato de-stinato alla macellazione, impazzito per le col-tellate ricevute senza essere ucciso da treomaccioni inesperti, era poi definitivamente fi-nito e squartato in una bolgia di imprecazioni,urla, sghignazzate, battimani, trucioli di legnoe schizzi di sangue vivo. Qualche giorno dopoapprendemmo che topi morti erano stati trovatinel pozzo e che una ragazza di famiglia eramorta di tifo, allora incurabile. Non indu-giammo più! Dopo 18 giorni di disagi, salu-tando gli Avio, ce ne tornammo al Vomero,preferendo il rischio delle bombe. Trovammonovità inattese: arrivo di primi profughi daLibia, Rodi e Dalmazia; batterie contraeree te-desche installate su terreni non ancora edificatidi piazza Medaglie d’Oro e via Castellino; ri-fugi antiaerei in molti fabbricati; parecchi mi-litari per le strade; diffuso ascolto dei bollettinidi guerra via radio; gente impegnata a chiederese si fosse in stato di preallarme; diatribe tramassaie e negozianti sui vari alimenti da poterottenere con le tessere annonarie, pane semprepiù nero, spettacoli cinematografici incredibil-mente funzionanti come La maestrina al-l’Alambra, Addio Kira al Diana, Malombra alModernissimo, Romanticismo al Bellini. Oltre 500 ricoveri sfruttavano cavità naturalinon vicine al mare, ampliate dalla secolareestrazione di materiale tufaceo per costruire: legrotte di Posillipo e Fuorigrotta, le pendici deiCamaldoli, le spelonche delle Fontanelle, aPiazza San Gaetano, al Cavone, a piazzetta Au-gusteo, ai Quartieri Spagnoli, lungo Spaccana-poli, alle catacombe di San Gennaro e SanGaudioso. La gente stessa li aveva resi vivibiliapportandovi scale di accesso, pavimenti spia-nati, svuotamenti di cisterne, servizi igienici,impianti di illuminazione ed idrici, per una per-manenza di anziani, disabili e sbandati anchedi settimane. Più spaziosi e raggiungibili, matollerati erano i ricoveri abusivi nelle gallerie– circa 140 – stradali, come quella dell'Impero(Quattro Giornate) attraversante Posillipo equella della Vittoria tra via Acton e via Chia-

tamone, o ferroviarie, come la storica sotterra-nea (oggi linea 2 del Metrò) e quelle delle sta-zioni di Mergellina, Amedeo, Montesanto,Cavour e delle funicolari di Chiaia e Monte-santo. Poco sicuri erano invece i ricoveri degliedifici civili, malgrado le norme della prote-zione antiaerea (UNPA) propagandate dal par-tito e disattese dalla popolazione. Traverse epuntelli di legno robusto non vanificavano duegravi ordini di problemi: accesso unico, spessoimpervio, facilmente ostruibile per crolli deipiani superiori, per i locali sotterranei; perico-losità delle pareti esterne, esposte ad eventualiesplosioni circostanti, per i locali a livello stra-dale. In via Salvator Rosa le bombe fecerocrollare due edifici adiacenti, uno dei qualiaveva un ricovero ritenuto più sicuro nel qualeconfluivano gli abitanti di entrambi i palazzi.Rimasero tutti sotto e non fu possibile salvarli.Un velo di calce ed una bandiera issata testi-moniarono della presenza di morti sotto le ma-cerie, estratti a fine guerra. Fu il primo dei“cimiteri provvisori” che si ebbero in seguito.Dopo 73 anni – in un’Italia traboccante di la-pidi, sacelli, corone d’alloro, commemorazioni– nessuna stele è stata eretta a ricordo di queimartiri, colpevoli soltanto di essere mortiprima che il conflitto si tramutasse da “guerradi aggressione” a “guerra di liberazione”.Le incursioni di gennaio e febbraio arrecaronoaltri lutti e rovine: dal corso Garibaldi ai Gra-nili, da via Depretis a piazza Amedeo, dalparco Margherita alla Pignasecca. Immobilisimboli di momenti significativi della città fu-rono spazzati via; tre esempi valgono per tutti:i pontili Elena d’Aosta e Vittorio Emanuele,l’albergo Isotta & Genève in via Medina, le“Case basse ai Mannesi” in quella che fu defi-nita la ”strage di via Duomo”. Il 28 marzo 1943, altra domenica – ormeggiatadi fronte al rione Sant’Erasmo – una delle mi-gliori motonavi da carico italiane, la CaterinaCosta dell’armatore genovese Giacomo Costa,8060 tonnellate di stazza lorda, completata nel1942 e requisita dalla Regia Marina per rifor-nire le truppe dell’Asse in Nord Africa, erapronta a salpare – suo quinto viaggio – in con-voglio per Biserta in Tunisia con un carico di

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carburante, munizioni, carri armati, alcune cen-tinaia di militari italiani e tedeschi. Lingue difuoco si svilupparono a bordo inaspettatamente– quasi certamente un sabotaggio – e benzinaardente si sparse fino a colare in mare; il fattoresorpresa e la disorganizzazione portuale diso-rientarono sul da farsi. Non si riuscì a spegnereo isolare i focolai d’incendio, né si pensò, se-condo le norme delle marine di tutto il mondo,di rimorchiare la nave in mare aperto. Coman-dante e buona parte dell’equipaggio si salva-rono sulla banchina; gli altri, compresi i soldatiche alloggiavano sotto coperta, sbarrate dalfuoco le vie di fuga, restarono in attesa apoppa. Tutta la mattinata trascorse fra scoppi efumi crescenti, con i vigili del fuoco, avvisatiin ritardo, costretti ad agire su zattere galleg-gianti attorno allo scafo, essendo pericoloso sa-lire a bordo per le 1700 tonnellate di munizionipresenti nella stiva n° 2. Vano fu il tentativo diaffondare la nave che già toccava il fondo. Alle17.39 – ora fatale di una giornata drammatica– la nave esplose. Eravamo in casa, informati degli eventi da miopadre che – ulteriore segno di sorte benevola –era tornato alle 15 dalla Capitaneria per fineservizio. L’intero palazzo sussultò paurosa-mente. le pareti sottili degli appartamenti dellascala B che avevano la vista sul porto crolla-rono tutte senza danni alle persone, ma creandomolte macerie che nei giorni successivi furonoscaricate in strada, sul tratto di marciapiede frail nostro edificio (n°29) ed il cancello seguente(n°27) per rimanervi fino al termine dellaguerra. Salimmo in tanti sul terrazzo da cui sivedeva tutta Napoli e dintorni (perciò palazzo“Panorama”). Una colonna di fumo nero mistoa venature policrome si ergeva tortuosamentein cielo per centinaia di metri. Nella calmadella sera solo relitti ardenti dello scafo galleg-giavano su un mare costellato di falò: autenticospettacolo horror.Gli effetti furono più gravi di parecchi bombar-damenti messi insieme: oltre 600 morti (com-presi i soldati a poppa) e tremila feriti;banchina sprofondata; rimorchiatori Cavour eOriente investiti e affondati; Magazzini Gene-rali in fiamme; un pezzo di nave su due fabbri-

cati al Ponte della Maddalena abbattuti; metàcarro armato sul tetto di un palazzo in Via Atri;distrutti o gravemente danneggiati un gran nu-mero di civili abitazioni e palazzi pubblicicome l’Officina del Gas, i Granili, la CasermaBianchini, la Navalmeccanica, l’Agip Petroli;esche incendiarie alla stazione Centrale su va-goni in sosta; frammenti mortali di lamiere inpiazza Carlo III, al Lavinaio, al Borgo Loretoe perfino al Vomero; un’impronta ancora visi-bile sulla facciata est del Maschio Angioino;dovunque vetri rotti, porte e finestre sfondate,cornicioni sbriciolati. Per spegnere l’incendiosul relitto i vigili lavorarono fino all’indomani.Tra le vittime l'ammiraglio Lorenzo Gasparri,comandante del Gruppo Cacciatorpedinieredella Squadra Navale, ucciso mentre con i suoiuomini allontanava bettoline cariche di muni-zioni dalla nave in fiamme, per non amplificareil disastro; alla sua memoria, ovviamente, tantodi Medaglia d'oro al Valor Militare. Quella giornata incise fortemente sulle co-scienze delle persone. Nel silenzio di chi pre-feriva ascoltare e non pronunziarsi, nella caricadi chi si accaniva a raccontare per sentirsi me-glio, passavano stati d’animo diversi e contra-stanti. Ma il perché della guerra, di una guerradi quella portata, di una guerra per la quale era-vamo tanto impreparati, di una guerra con un“alleato” e contro dei “nemici” che nel ’15–’18avevano ricoperto i ruoli inversi di “nemico”ed “alleati”, di una guerra non impedita da al-cuno, erano questi i quesiti che tormentavanotutti. Saltava così un sordo livore per l’uomoche pochi anni prima era stato osannato “Ducesupremo” del popolo italiano. Ancora più si-gnificativo – in una città monarchica per eccel-lenza – era il risentimento crescente per “SuaMaestà”, tanto distaccato ed assente da quelpopolo di cui era stato incoronato imperatore.Intanto barzellette antifasciste di tutti i generi– dall’arguto al volgare – si sussurravano fraintimi, nelle strade, al bar, negli uffici, mentre,di tanto in tanto, manipoli di soldati tedeschi,comandati da un semplice caporale, sfilavanocantando ariette naziste “per tenere su il mo-rale del popolo” dopo un cessato allarme.

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VILLA GUARIGLIA A VIETRI SUL MARE

di Yvonne Carbonaro

Il barone Raffaele Guariglia, ambasciatorenel periodo fascista e successivamente Mi-

nistro degli Esteri del Governo Badoglio, es-sendo rimasto fedele al re dopo la caduta diMussolini, era proprietario di una splendidavilla estiva e di un ampio parco terrazzato aRaito di Vietri sul Mare dove era solito rifu-giarsi quando si allontanava da Roma e dai varie onerosi incarichi poli-tici e di rappresentanzadiplomatica. La dimoraera stata da lui ampliataed abbellita partendo daun manufatto di epocaseicentesca. La pro-prietà, comprende ancheun’antica chiesetta e aduna certa distanza unapiccola torre: la TorrettaBelvedere. Gode, dal-l’altura su cui è ubicata, di uno splendido pa-norama sul golfo e sulla costiera sia dallestanze che dalle ampie terrazze con colonne. Siaccede al parco della villa da un arco monu-mentale in basalto che si erge sulla via che salea Raito, oggi via Raffaele Guariglia. La facciata principale è adornata dalle statuedelle quattro stagioni. Presenta due piani piùampie soffitte e un pianterreno per un totale di36 vani. È arredata con mobili e quadri di pre-gio tra cui un Mattia Preti che rappresenta ilMartirio di S. Bartolomeo, decorata con pavi-menti in cotto ad ampi disegni maiolicati cheripetono gli stilemi dei pavimenti settecente-schi delle chiese napoletane, dotata di ampie

stanze da letto e salotti oltre che di una mera-vigliosa cucina mattonellata con antiche rig-giole vietresi.Vi giungevano di frequente ospiti illustri ita-liani e stranieri, vi si tenevano cene e ricevi-menti. Dopo lo sbarco anglo-americano fu sededella Commissione Alleata di Controllo e nellametà del 1944, precisamente dal 7 agosto 1944

al 26 aprile 1945, ospitòVittorio Emanuele III ela regina Elena. «Fu unsoggiorno triste – ram-menta Guariglia –, resoancora più amaro dallevillanie degli alleati,dagli insulti che conti-nuamente venivano ri-volti al Re su moltigiornali italiani e stra-nieri e da una notizia che

letteralmente sconvolse la Regina: la morte aBuchenwald della principessa Mafalda…».Dopo un anno trascorso a Napoli, il 9 maggio1946, la coppia reale partì per l’esilio.Nella villa è custodita una ricchissima biblio-teca raccolta dal barone nel corso di vari anniche contiene 4000 volumi, numerosi docu-menti e manoscritti del periodo tra le dueguerre mondiali. Buona parte, data la forma-zione e l’attività del proprietario, è di caratterestorico-diplomatico oppure riguarda temi dieconomia e scienze politiche. Il barone rivol-geva particolare attenzione al mondo antico,soprattutto alla Magna Grecia. Classici greci elatini sono spesso in edizioni pregevoli, anche

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del Cinquecento. Di grande interesse le rivistee i periodici, come l’Archivio Storico per leProvince Napoletane (dal 1876 al 1966), Na-poli Nobilissima (vol. I-XV e vol. I-III nuovaserie), Poliorama Pittoresco (dal 1836 al1859), Il Mattino Illustrato (dal 1924 al 1933),La Domenica del Corriere (dal 1911 al 1933).Guariglia si sposò due volte, entrambe le mogliamarono molto risiedere (anche se per breviperiodi) in quel luogo tanto ameno e acco-gliente, soprattutto la seconda, la nobildonnaspagnola Paz Mazzorra y Romero che vi ap-portò molte migliorie e diede alla torrettaun’impronta aragonese-catalana nelle merla-ture e nella finestra. Danessuna delle due ebbefigli. Nel 1970, prima dimorire, con un legato te-stamentario Guarigliadonò il complesso allaProvincia di Salerno perla costituzione di un“Centro Studi Salerni-tani” a lui intestato, voltoalla conoscenza e alla va-lorizzazione della storia e della cultura dellaCampania attraverso la consultazione della suaricca biblioteca e attraverso tutte le iniziativeadeguate allo scopo come concerti, mostre,conferenze, dibattiti, convegni su ogni tipo diargomento storico, scientifico, artistico, in par-ticolare la ceramica vietrese che egli amava ecollezionava. Nel 1981 fu dunque inaugurato il Museo Pro-vinciale della Ceramica, il cui primo nucleo fuubicato nella Torretta. Vi confluirono raccoltegià presenti al Museo di Salerno comprendentipezzi provenienti da varie località campane,oltre naturalmente a quelli della collezioneGuariglia, e varie donazioni per le quali fu ne-cessario utilizzare tutti i piani della Torretta esuccessivamente il piano terra della Villa in cuisono state collocate le creazioni realizzate aVietri da artisti stranieri negli anni venti-trenta,come Richard Dolker che ebbero il merito didare un forte impulso di rinnovamento agli stilitradizionali, inquadrate appunto in quello cheviene chiamato il “periodo tedesco”. In sintesi

il percorso espositivo si sviluppa su tre settori:oggetti in ceramica di carattere religioso; va-sellame di uso quotidiano; produzione di cera-mica del “periodo tedesco” nel salernitano.Sempre a piano terra, che una volta ospitava lacantina e la scuderia, è stato creato un auditorioe uno spazio per esposizioni temporanee di ce-ramica e dipinti, mentre i concerti si svolgonoin estate nel bellissimo spazio colonnato agget-tante verso il mare. La direttrice, dottoressa Barbara Cussino nelperiodo in cui ha coperto il ruolo di DirigenteMusei e Biblioteche provinciali (e che, sispera, verrà a breve riconfermata), si è adope-

rata con competenza epassione per attirare nellabella struttura sia studiosiche turisti. Non sono peròmoltissimi i visitatori diquesta interessante realtàstorico-artistica la cui co-noscenza non è diffusa alivello nazionale comesarebbe auspicabile. Mol-tissimi in verità, senza sa-

perlo, hanno avuto modo di vedere lo spazioantistante, la facciata, l’ingresso, la famosa cu-cina maiolicata e alcuni ambienti del piano su-periore (che è però aperto solo agli studiosi),nelle puntate della fiction televisiva Capri incui appariva come la “Villa di Donna Isabella”a Capri. La curiosità e la perplessità di coloroche erano convinti che nell’isola la suddettavilla non esistesse ha fatto sì che infine si fo-calizzasse l’attenzione sulla splendida dimoravietrese adoperata come location delle vicendee degli amori dei personaggi.Oggi il sito è ancora sotto la tutela della Pro-vincia di Salerno ma in futuro a chi passerà, cichiediamo, la giurisdizione del complesso? Chiprovvederà a far conoscere e a valorizzare unluogo così importante per la nostra storia e lanostra cultura evitando che finisca nell’oblio enell’abbandono come tanti siti meridionali dirilevante interesse trascurati e caduti in una si-tuazione di grave degrado?

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PEPPE MACEDONIO TRA MATERIA CERAMICA E ITERAZIONI ORFICHE E IMMAGINATIVE

di Franco Lista

Se* in fase di studi critici (oggi, tempo deL’inverno della cultura, per citare il pre-

zioso volumetto di Jean Clair), ci si esercita asollecitare la massima attenzione del pubblicosu i “numeri”, spesso di foggia psico-circense,dell’arte contemporanea, allora possiamo bendire che i plastici grumi di preziosa e sma-gliante materia di Peppe Macedo-nio (Napoli, 1906-1986) sonoancora segni avvincenti di una poe-tica narrazione. Segni, direi, diun’attività estetica davvero appas-sionante sulla quale la critica e lastoriografia artistica dovrebberosoffermarsi più a lungo e in profon-dità, valutando non solo la prioritàontologica del linguaggio suo ceramico, maanche le interessanti correlazioni valoriali dicarattere estetico-sociale, nonché le attraentiimplicazioni spaziali e architettoniche. Cosequeste che, a mio parere, costituiscono lachiave di accesso alla substantia del fare diPeppe Macedonio.Per il nostro artista, infatti, una placca, una for-mella, un pannello, un piccolo portale di unaabitazione o un grande svolgimento ceramicoerano sempre considerati «un porre in opera in-corporante di luoghi…per un possibile abitaredi uomini», come ebbe a scrivere Heideggerper la scultura. Peppe Macedonio perseguivadavvero queste finalità; era un artista, un pen-satore, al quale non veniva mai meno il collin-gwoodiano «svanire della ragione» che spesso

contrassegna l’artisticità istintiva o unicamenteintuitiva. Chi lo ha conosciuto sa bene che eglifaceva filosofia, sociologia, antropologia conla sua vita e con la sua arte, intimamente in-trecciate. La sua filosofia, per chi lo ha fre-quentato e non certo per gli sprovveduti aiquali sfuggiva pure la rara singolarità del per-

sonaggio, era aspirazione e sconfi-namento in stile di vita dove larelazione estetica, non disgiunta daquella umana e il pensiero visivoavevano un ruolo centrale nella suaarte, tale da dar voce a tutto ciò cheè muto.Insomma, era quel che si definiscecon una locuzione consolidata da

un largo uso, un maestro di vita che con la suaarte dava voce a tutto ciò che è muto.L’aulico e il popolare, le tradizioni forti, radi-cate e identitarie e l’apertura al nuovo per Ma-cedonio era un tutt’uno da fondere nellacristallina materialità della grande arte cera-mica. Da questa consolidata, interiorizzata in-tenzionalità deriva la qualità, la densità, laprofondità, la ricchezza che Macedonio venivaplasmando e cuocendo, quasi come solidifica-zione del primigenio gesto creatore. Ecco lenuove/antiche superfici che lasciano intrave-dere dense sovrapposizioni di smalti delle suefigure femminili o maschili, degli elementi ve-getali, degli animali; insomma di tutto l’ine-sauribile repertorio arcaico/futuribile della suavitale fantasia.

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Basterà riferirsi a poche opere per capire lostraordinario risultato che Macedonio conse-gue in un arco di tempo che va dai leggeri e de-licati portalini in ceramica degli edificiabitativi del dopoguerra fino ai complessi svol-gimenti di proporzioni ambientali. Peraltro,questa produzione decorativa fatta di cornici eportali d’ingresso e di pannelli posti negli atridi edifici costruiti nel dopoguerra nei quartiericollinari, oggi, a ben guardare, costituisce unadiffusa punteggiatura cromatica realizzata insvariati stilemi; una sorta di arredo urbano chevivifica l’anonima edilizia pseudo razionalistadella città in espansione.Macedonio si rivela artista in grado di affron-tare e risolvere opere di grande impegno anchesotto il profilo dimensionale come accade perl’esedra della fontana della Mostra D’Oltre-mare, progettata da duegrandi architetti, Carlo Coc-chia e Luigi Piccinato. Duearchitetti che potremmo defi-nire, per questa bella opera,amici del verde e dell’acqua.E’ noto, peraltro, che Bernini,autore di tante straordinariefontane, considerava l’acqua al pari di un ele-mento architettonico, definendosi per questo«amico dell’acqua».Nel contesto del verde della Mostra, la fontanacol suo maestoso ed elegante andamento digra-dante, affidato alle lievi pendenze laterali ha lasuggestiva conclusione proprio nel grandesvolgimento ceramico dell’esedra che si stagliasullo sfondo arboreo della retrostante collinadi Monte Sant’Angelo.È la splendida ripresa della grande storia, delfelice connubio tra architettura e maiolica.Penso all’ampiezza visiva degli invasi di Van-vitelli nella Reggia di Caserta e soprattutto alsettecentesco Chiostro delle Clarisse di Dome-nico Antonio Vaccaro e dei ceramisti Giuseppee Donato Massa, per il quale Roberto Pane sot-tolineava la gioiosa invenzione resa dall’unita-rietà tra arte decorativa, architettura e il verdedella pergola e del giardino rustico.Peppe Macedonio ha statura artistica tale da farfronte alla grande superficie di mille metri qua-

dri dell’esedra. Il vasto svolgimento ceramicoè il vero focus della fontana, laddove i lati lun-ghi della vasca convergono nella loro fuga, in-dirizzando la percezione visiva del riguardanteverso l’accensione cromatica dell’esedra.Al di là del contenuto ufficiale e celebrativodell’opera, Macedonio mette in scena i miste-riosi, ieratici ritmi dell’homo faber e della na-tura mediterranea; con grande sensibilitàmaterica procede ad una solare narrazione ovecolloca una sorta d’immaginativo, orficoadombramento dell’essenza mediterranea:un’arcadia del reale, della vita e del lavoro nelluminoso, sereno grembo mediterraneo, cosìcome lo è l’intero complesso della Mostrad’Oltremare pur se oggetto di alcune pesanticompromissioni.

Credo che valutare criticamente l’opera diMacedonio, cercare di capirlapossa realizzarsi solo collo-candosi al suo interno; cioè al-l’interno di quella ineffabilemediterraneità fatta di luce, dieffetti di fusione e di scambiocromatico tra ceramica, archi-tettura e ambiente sempre in

netto contrasto con gli azzurri del cielo. Bisogna necessariamente collocarsi all’internodi quella «incarnazione di senso» (A. Danto)che va oltre il puro dato cromatico della cera-mica e ci costringe, ci stimola a un esercizio dinostalgica immaginazione alla ricerca di unaarcaica classicità ormai perduta per poter rin-venire un orizzonte di senso che appartiene allanostra vera natura.Nel confuso incrociarsi delle babeliche ten-denze dell’arte contemporanea l’opera diPeppe Macedonio, per tutto questo, merita unaseria, storica collocazione nel panorama del-l’arte italiana. Sull’artista Macedonio il di-scorso critico va necessariamenteapprofondito, analizzato e circostanziato ed ènostro dovere, culturale e civile, proseguire intale direzione.______________

* Il presente scritto è destinato alla pubblicazione nellamonografia celebrativa di Peppe Macedonio, in corso dielaborazione. © Riproduzione riservata

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FRANCO RICCI

di Mimmo Piscopo

Nativo del rione Sanità, a buon dirittoFranco Ricci è da annoverarsi tra i più si-

gnificativi personaggi vomeresi d.o.c., comeartista, ma prevalentemente per la sua discretasignorilità. Salvatore Sebastiano, in arte Franco Ricci (Na-poli, 9 febbraio 1916), sin da ragazzo manife-stò spiccata propensione perl’arte canora, grazie ad unaparticolare voce dalla robu-sta impostazione, che però ilgenitore non voleva che lodistraesse da ben altro avve-nire che riteneva più profi-cuo e tranquillo, quandoinvece la mamma, con pre-vidente intuito, incoraggian-dolo, lo iscrisse alConservatorio di San Pietroa Maiella. Ma qui, contra-riato dal parere negativo delmaestro Martucci, ma incitato dal maestro Sal-vatore Colonnese, dopo il brillante esordio del1939 al San Carlo, nel ruolo di tenore nel Re-quiem di Berlioz, poi nel Barbiere di Siviglia,dal consenso di critica e di pubblico, fu invitatoa Pizzofalcone, alla RAI, per concerti di can-zoni napoletane. Ebbe così occasione di affer-marsi nella decisiva svolta della sua carrieradiventando interprete di classici, come Tornaa Surriento, ‘O paese d’’o sole, Addio miabella Napoli, ’A porta, Cennere, Pusilleco,Giuramento, Anema e core, oltre a tantissimialtri dello sterminato repertorio anche italiano.Andavano letteralmente a ruba i suoi dischi a

78 giri incisi da “Phonotype Record”, “Colum-bia” e “La Voce del Padrone”, specie all’estero.Le tournées, particolarmente nelle Americhe,lo consacrarono signore della melodia napole-tana per il mondo.Tornato in Italia partecipò alle varie Piedi-grotte. Al Festival di Napoli, poi, nel 1952 me-

ritò il primo premio,insieme a Nilla Pizzi conDesiderio ‘e sole di Manlio-Gigante, e ancora, nel 1954il secondo premio con Trerundinelle di Nisa-Bixio,nel 1956 il terzo premio conDincello tu di GaetanoAmendola, e infine, nel1959 il secondo premio conPadrone d’’o mare di Man-lio-D’Esposito. Al Festivaldi Sanremo del 1954 ot-tenne il terzo premio con E

la barca tornò sola, come primo interprete na-poletano a Sanremo. Incise pure in anteprimaMalafemmena con il plauso di Totò.Nonostante tali impegni, egli figurò anche infilm di successo con Vittorio Gassman, Totò,Ugo Tognazzi ed in repertori teatrali, comme-die e riviste.Sebbene le incombenze canore lo assorbissero,Franco Ricci non tradì la sua latente passioneper la pittura, quando, appena allentati questiimpegni, si dedicò con puro entusiasmo a que-sta promessa “dormiente”. Ebbe quindi a fre-quentare assiduamente mostre, esposizioni,personali, spostandosi con il suo pacato ince-

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dere di amante di passeggiate vomeresi. Poteva apparire serioso per signorile ritrosia,ma il suo distacco era istintiva timidezza, spe-cie con il particolare approccio dell’ambientepittorico. Le sue assidue frequentazioni diven-nero piacevoli consuetudini, come per chiscrive, con il quale si intratteneva con accortedisquisizioni, insieme a passeggiate per le viedel Vomero, accomiatandoci presso la sua abi-tazione in via Tino di Camaino.Sua sosta preferita era il Centro Artistico «LaVetta» del prof. Merolla, e sempre con discre-

zione e riservatezza, chiedeva consigli tecnicio compositivi sulla pittura, che con altrettantotatto e giustificato orgoglio, davo con piacere,tanto che i soddisfacenti risultati non tardaronoquando ci fu l’occasione di ammirare dipintidella sua prima Personale presso la GalleriaScarlatti (ex-cinema Ideal, oggi Zara).Grazie all’ampio, positivo consenso, espose inun’altra importante Personale, dipinti aventiper soggetto celebri canzoni dell’immortale re-pertorio napoletano, presso il Circolo dellaStampa nella Villa Comunale di Napoli il 3 di-cembre 1984, con interventi dei colleghi Ro-berto Murolo, Mario Maglione, Nino Fiore,Mario Merola, Mirna Doris e Mario Da Vinci.Dal commovente simposio la sua fama digrande interprete musicale uscì eguagliata daquella della pittura, il raffinato tenore mostròanche il talento del pittore.La purezza dei dipinti, sincere composizionisuggerite dai titoli musicali, procurò all’autoreil giudizio unanime dei critici che scrissero dilui e della sua pura interpretazione espressacon perizia, anche in fedeli riproduzioni di ce-lebri dipinti di Van Gogh, Monet, Cezanne, Re-noir, esposti con successo a Milano. Ciò gliprocurò numerose committenze, che egli, conlegittimo orgoglio e con contenuta enfasi, rife-riva agli amici di Napoli, fino a quando, per ilmeritato riposo, decise di dipingere e cantaresulla tela del cielo il 18 marzo del 1997.

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LA COMUNITÀ EBRAICA NAPOLETANA PER LE SCUOLE

La Sinagoga napoletana di via Cappella Vecchia ha ospitato, il 2 maggioscorso, la cerimonia di firma del protocollo d’intesa tra l’Ufficio scola-stico regionale, la Fondazione Valenzi e la Comunità ebraica di Napoli,rappresentati, rispettivamente, dalla direttrice generale Luisa Franzesee dalle presidenti Lucia Valenzi e Lydia Schapirer. Con l’accordo, aventedurata pluriennale, i tre enti hanno assunto l’impegno di promuovere

azioni congiunte nella divulgazione, sensibilizzazione e formazione dei docenti di ogni ordine egrado e degli studenti campani sui temi della Shoah e del rispetto dell’interculturalità. Le istituzionifirmatarie si sono impegnate, tra l’altro, anche a raccogliere e divulgare le migliori pratiche sco-lastiche in materia di didattica e produzione, riguardanti l’analisi e la riflessione sulla storia attualee del ‘900, nonché a organizzare iniziative e premi rivolti agli studenti.

Franco Ricci, ‘A Galleria nova

“VOMERO E DINTORNI” DI MIMMO PISCOPO

Èrisaputo che i ricordi dell’ieri sono la com-pagnia del presente: e che fanno tanto mi-

glior compagnia quanto più sono radicati in unanimo sensibil-mente capace di re-c e p i r l i ,trattenendoli ed ali-mentandoli nellepiù riposte due pie-ghe. Resterebberoperò sempre“fronde sparse” efatalmente segretese il loro posses-sore, mosso da sti-molante pulsioneinteriore, non av-vertisse la necessitàdi accorparli e portarli all’esterno rendendonepartecipi gli altri: quegli altri, probabili porta-tori degli stessi ricordi, che così li riscopronoe li confrontano pur nella diversità delle ottichee dei vissuti.A tanto risponde la seconda – ma prevedibile,ma attesa, ma irrinunciabile – fatica di MimmoPiscopo che, a soli due anni dal felice esordio

de Il mio Vomero, ne ripropone nuove prospet-tive estese ai suoi anche non limitrofi dintorni,articolate in una sessantina di gradevoli soste

nella memoria chedanno corpo e co-lore ad un palpi-tante diario. Undiario che diligen-temente annota esuggestivamentecomunica circo-stanze ed eventi,immagini e sensa-zioni, ambiti e per-sone, riflessioni estati d’animo, espe-rienze ed insegna-m e n t i

avvilentemente dipanantisi in un convinto e vi-brante rosario di amore dalle godibili postegaudiose.Perché è proprio l’amore a muovere ed a strut-turare i pensieri ed i palpiti serbati nel “video-registratore mentale” dell’Autore: amore per leproprie radici, amore per i propri cari, amoreper le cose che scompaiono, amori per quanti

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di Renato De Falco

Napoli, 29 maggio 2010: Renato De Falco ritira dalle manidel nostro direttore il premio “Scugnizzo d’oro”

Il 1° aprile scorso, si è spento, all’età di 87 anni, Renato De Falco, tra i massimi studiosi dellalingua napoletana – e, in maniera particolare, dei suoi profili etimologici –. Alla professione diavvocato, intrapresa nello studio Leone-Abbamonte, aveva ben presto affiancato l’interesse perla napoletanistica, estrinsecatosi attraverso la partecipazione a convegni, la collaborazione atestate giornalistiche e a trasmissioni televisive e la pubblicazione di pregevoli volumi, fra iquali i tre dell’Alfabeto napoletano, poi ristampati in un volume unico, e la traduzione del Van-gelo di San Marco. Tra i numerosi riconoscimenti, ricordiamo lo “Scugnizzo d’oro”, tributatoglinel maggio del 2010 dall’Accademia di alta cultura “Europa 2000”.

* * *

risultano desiderosi di affetto e solidarietà: indefinitiva un totalizzante e strenuo amore perquella Napoli non sempre amata come pre-tende perché non sempre conosciuta quantomerita…E Mimmo Piscopo mostra e dimostra di amaree conoscere Napoli, che legge e racconta allastregua di policromo caleidoscopio dalle sem-pre nuove e cangianti figurazioni. Scontato chea tale lettura non è affatto estranea la pregnantevalenza dell’arte figurativa di cui si confermamagistrale padroneggiatore, ed in cui virtù lafluida ed affabulante sua prosa è spesso piace-volmente intercalata da toccanti immagini deiluoghi descritti.Quanto è vero, al proposito, che chi sa dipin-gere può alternativamente ritrarre con la pennae scrivere con il pennello, insieme intrisi inun’unica, ideale tavolozza, comune supportodi entrambe le capacità! Autentici acquerelli siconnotano infatti tanti paesaggi del libro: sipensi ai “colori dell’estate” come a quelli“dell’agrifoglio”, “dei gerani”, e dell’“agliocondannato a dorarsi”, alle “luminose giornatedi Maggio”, ai verdi “spazi erbosi”, e – reci-procamente – alla consistenza da affresco del“variopinto universo dei Cacciottoli”, del “Mi-racolo di Maggio” e delle sfumature dei “Ma-trimoni” e di “Via San Biagio dei Librai”… Perle figure vere e proprie basterà considerare ledecise linee tracciate su “Don Rafele”, da“Suor Valeria”, su “Zio Tino”, come su nume-rosi altri schizzi a stampa.

Resta comunque il Vomero il privilegiato de-stinatario delle più struggenti memorie: quelVomero definito da Raffaele D’Ambra «deli-ziosa collina ad occidente della Città»; quelVomero menzionato nel Pentamerone del Ba-sile, sulle cui iniziali propaggini fu caro dimo-rare a G. B. della Porta, a Gioviano Pontano, aPietro Giannone ed a Salvator Rosa; quel Vo-mero ricordato da Ferdinando Russo (che lochiamava «Rione Nuovo») per le sue serate«cu’’a luna», visto da Rocco Galdieri quale«suonno d’’e nnammurate» e cantata da E.A.Mario come luogo «addó se fece core» un pre-sunto Core forastiero…Un Vomero, ovviamente non più solitario edagreste, di cui l’Autore ricorda anche queglistrateghi della sopravvivenza incarnati da ope-ratori di mestieri ormai obsoleti, ma soprattuttoscorci e spaccati fedelmente e minuziosamenteriportati.Lodevole e meritorio, dunque, il lavoro diMimmo Piscopo, che si inserisce nella enco-miabile scia dei civici descrittori qualificandosiil più esaustivo e documentato esegeta del suoVomero con un’opera che, oltre ad attuare unrecupero sentimentale, aderisce alla sacrale esi-genza di conservazione di quel patrimonio dimemorie che è il fondamento stesso della tra-dizione: un patrimonio da tutelare e trasmettereperché si attesta prezioso e duraturo custode diideali, di civiltà e di cultura.

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Il 19 marzo scorso, nella parrocchia di SanGennaro al Vomero, don Giuseppe DenteGattola ha celebrato il matrimonio di ALES-SIO BERSANETTI e SABINA DEMARCO. Altermine del rito, gli sposi hanno salutato pa-renti e amici nei locali della Tenuta Torelli,

a Capodimonte. A Sabina e Alessio il direttore e la redazione di que-sto periodico formulano i più fervidi auguri di felice avvenire.

L’approssimarsi della stagione estiva suggerisce che si pratichi una dieta alimentare: propo-niamo qui quella elaborata dal nostro past-director.

* * *

Dieta per donne di altezza media di m. 1,65, da smettere al raggiungimento dei 66 kg.Colazione: caffè o the senza zucchero o con dolcificante, con latte parzialmente scremato (200cc.), oppure uno yogurt magro; tre fette biscottate integrali.Spuntino (ore 11): due frutti freschi o uno yogurt magro.Pranzo: in alternativa, piselli lessati, verdura, minestrone, fagioli, ceci o lenticchie (200 g.);due frutti freschi (uguali): mele, pere, arance “vai-niglia”, mandarini, clementine, limi, prugne, al-bicocche, pesche, nespole, banane, percoche;oppure fragoloni o fragoline (senza zucchero emolte), cantalupo (uno intero), melone bianco(mezzo), cocomero (un grande spicchio), ciliegie(diverse).Merenda (ore 17): un frutto fresco o uno yogurt.Cena: in alternativa, carne magra (200 g.), pro-sciutto, speck, bresaola, carne in scatola (tuttosempre magro).Non adoperare più di due cucchiaini di olio ex-travergine al giorno; per rendere le pietanze più gradevoli usare succo di limone, aceto, pelati,cipolle, capperi (ben lavati), sottaceti, aromi e spezie.Bere oltre due litri di acqua naturale (non gasata) al giorno. Durante la giornata si può prendere,con moderazione, caffè o the con saccarina o aspartame.Per le prime sette settimane evitare pasta e riso. Crackers, grissini, fette biscottate (non dolci) opane integrale: g. 60 al giorno. Pesce (o tonno): non più di 200 g. A volontà: carote gialle orosse, cicoria, fagiolini, pomidori, finocchi. Sono escluse patate, latticini, insaccati, formaggi, burro, strutto, margarina e panna. Sono esclusepure caramelle e frutta secca o sciroppata. Sono consentiti pochi dolci, qualche gelato, il cioc-colato fondente (non quello al latte).Rinfrescare le fauci spesso con frullato freddo di sedano bianco, finocchio e mela.È consigliata un’ora di ginnastica o di cammino (anche in casa) al giorno.

UNA DIETA PER L’ESTATEAnno LXII n. 2 Aprile-Giugno 2016

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di Antonio Ferrajoli

LIBRI & LIBRIAnno LXII n. 2 Aprile-Giugno 2016

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VITTORIO DEL TUFO, Trentaremi. Storie di Napoli magica (Napoli, Rogiosi,2015), pp. 124, €. 16,00.Il tema della “Napoli magica”, sempre affascinante, pur nella sua sostanziale “anti-storicità”, trova in questo volume un nuovo narratore e, soprattutto, una nuova formanarrativa, di taglio squisitamente giornalistico. Si sussegue, così, nelle pagine, il rac-conto di personaggi (fra i tanti, Virgilio, Maria la Rossa, Colapesce, Emma LyonaNelson), di fatti (ancora, fra i tanti, lo “tsunami” del 1343, il duplice omicidio perpe-trato da Carlo Gesualdo, l’avvelenamento del cardinale Prospero Colonna) e di luoghi(pure fra i tanti, la Crypta neapolitana, i sotterranei di Castelnuovo, la Taverna del

Cerriglio, villa Heigelin, fino a Trentaremi, che dà il titolo al volume stesso). Di particolare pregio èl’apparato iconografico che illustra i singoli capitoli. (S.Z.)

FRANCA ASSANTE, La regina delle galere (Napoli, Giannini, 2015), pp. 186, €.15,00.Era dai tempi di Attilio Monaco (1932), che il tema della storia del carcere di Procida –la “regina delle galere”, per l’appunto, secondo la definizione che ne diede SigismondoCastromediano – non era affrontato. Vi ha provveduto, ora, la Assante, che alla sua com-petenza di storica associa una non comune abilità narrativa, che le consente di rappre-sentare, in maniera egregiamente icastica, accanto all’articolazione delle vicendedell’istituzione, le modalità di svolgimento della vita quotidiana e, particolarmente, di

trattamento dei detenuti. Il racconto – e l’esame – della storia della struttura carceraria, soppressa nel1988, si arresta, giustamente, al cinquantennio precedente, poiché il resto è da considerare, piuttosto,cronaca. (S.Z.)

ANTONIO LA GALA, Napoli (Napoli, Guida, 2015), pp. 344, €. 20,00.Storia politica/civile e storia sociale – la nouvelle histoire – trovano un punto d’incontronell’operazione, pressoché capillare, condotta da La Gala nel volume, che raccoglie scritti– in parte inediti, in parte rielaborati da articoli precedenti –, che ricostruiscono l’imma-gine, ancor più che la storia, della città nel tempo. Sfilano, infatti, accanto alle vicendedelle dominazioni (ché tale fu anche quella, greca, delle origini) succedutesi nel tempo,i segni – espressi anche dalle eloquenti immagini che affiancano il testo –, che ciascunadi quelle dominazioni ha impresso nel modo di essere del popolo napoletano, al quale

l’autore rivolge uno sguardo, per lo più, benevolmente ironico e sdrammatizzante. (S.Z.)

MARIACARLA RUBINACCI, Napoli 3.0. Sguardi sulla città (Castelfranco Veneto,L.C.E., 2015), pp. 64, €. 10,00.Più che di un romanzo, potrebbe sembrare trattarsi di tre racconti distinti, ruotanti rispet-tivamente intorno a tre figure femminili: una napoletana “verace”, una turista irlandese euna immigrata originaria dello Sri Lanka. Viceversa, a una lettura attenta, ci si avvede diessere in presenza di un vero e proprio romanzo, la cui protagonista femminile è Napoli,mentre quello maschile è l’occhio – quello, cioè, di ciascuna delle tre suddette donne –,

attraverso il quale la città assume connotazioni, di volta in volta, differenti. (S.Z.)

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La Comunità Ebraica di Napoli, 1864/2014 centocinquant’anni di storia, a c. diGIANCARLO LACERENZA (Napoli, Giannini, 2015), pp. 246, s.i.p.Il “150° compleanno” della Comunità Ebraica napoletana fu celebrato nel 2014 conuna mostra documentaria, la cui memoria oggi è affidata a qualcosa di più di un ca-talogo. Il volume, infatti, curato da uno dei maggiori esperti del settore, raccoglie, ac-canto alla riproduzione fotografica di un gran numero di documenti e altri oggetti, asuo tempo esposti, una serie di saggi, che privilegiano l’età moderna e quella contem-poranea (dal ‘700 ai giorni nostri) e dedicano attenzione, oltre che alla storia in sensostretto, anche all’arte, alla cultura e all’economia. Autori di tali contributi sono studiosi

e altre personalità, di provata competenza nei rispettivi settori – Vincenzo Giura, Marco Soria, GabriellaGribaudi, Nico Pirozzi, Miriam Rebhun, Francesco Lucrezi, Lucia Valenzi, Fabio Mangone, Annie Sa-cerdoti, Dora Liscia Bemporad, Sandro Temin, Valentina Kahn Della Corte, Alberta Levi Temin, Pie-rangela Di Lucchio –, dai cui scritti emerge la puntuale ricostruzione della consistenza, sia quantitativa,che qualitativa, e delle vicende della rinata Comunità napoletana. (S.Z.)

MARGHERITA SAVASTANO, ‘E cunti ‘e Capajanca (Napoli, Marotta & Cafiero,2014) pp. 80, €. 10,00.Il tempo del mito (Urzeit) a Napoli si perde o, quanto meno, si confonde: ecco, dunque,rivisitati alcuni fra i principali miti napoletani (fra gli altri, quelli di predestinazione, disalvamento, di ritorno), il cui racconto è affidato a Capajanca, napoletano “verace” senzafissa dimora, il quale li trasmette a un gruppo di giovani studenti, quasi perché la loroatemporalità possa perpetuarsi. Peraltro, la tecnica narrativa – la cui costante è data dal-

l’irruzione dell’irreale nel reale – consente di ascrivere la silloge al settore della letteratura del “fanta-stico”. (S.Z.)

CARMINE CIMMINO - MARIO CIMMINO, Ottaviano. Guida alle opere e ai luoghidell’arte e del bello (Ottaviano, Erasmus, s.d.), pp. 64, €. 5,00.Pur nelle sue limitate dimensioni, il volume costituisce un valido ausilio per il primo approc-cio con la realtà storico-artistica di Ottaviano, cittadina vesuviana che, a onta delle travagliatevicende che l’hanno afflitta negli ultimi decenni, può vantare un passato di tutto riguardo,dalla predilezione che le manifestò Augusto, il cui cognomen ne ha originato il toponimo,

alla signoria dei Medici, tuttora testimoniata dal maestoso castello. (S.Z.)

ROSARIO BIANCO - Danilo IERVOLINO, Un giorno all’improvviso (Napoli, Ro-giosi, 2016), pp. 160, €. 10,00.Che un fenomeno musicale diventi un fenomeno da stadio è molto frequente. Che que-sto, però, porti alla scrittura di un libro che ne esamini la genesi e il rapporto con il ter-ritorio, lo è molto meno. Un giorno all’improvviso è un viaggio nel tifo della città diNapoli, che parte dall’analisi del coro omonimo (che, com’è ben spiegato, poco ha ache fare con la città, in realtà) e prosegue con gli interventi di ventotto autori che, da

diverse prospettive, analizzano il rapporto tra calcio e città: a partire dal cardinale Crescenzio Sepe, pro-seguendo con autorità, magistrati, giornalisti e altri illustri tifosi e non. L’ottima elaborazione graficapermette, inoltre, di poter gustare al meglio le foto di Sergio Siano, vero gioiello del volume. (G.D.)

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Per i complimenti e per i ringraziamenti che ci hanno rivolto, siamo grati ai lettori LuigiAlviggi, Renato Cammarota, Giancarlo Cosenza, Tina d’Apice, Antonino Demarco, Vin-cenzo Esposito, Renata Gelmi, Antonio Lubrano, Pasquale Lubrano Lavadera, GiulioMendozza, Emilio Pellegrino, Raffaele Pisani, Flavio Scaloni e Francesco Verio. Un gra-zie anche al periodico Edizioni 2000, per l’attenzione che ci ha dedicato nel numero digiugno 2016.

CRITERI PER LA

COLLABORAZIONELa collaborazione a Il Rievocatore s’intende a titoloassolutamente gratuito; all’uopo, all’atto dell’inviodel contributo da pubblicare ciascun collaboratore ri-lascerà apposita liberatoria, sul modulo da scaricaredal sito e da consegnare o far pervenire all’ammini-strazione della testata in originale cartaceo comple-tamente compilato.Il contenuto dei contributi impegna in maniera pri-maria e diretta la responsabilità dei rispettiviautori.Gli scritti, eventualmente corredati da illustrazioni,dovranno pervenire esclusivamente in formato di-gitale (mediante invio per e-mail o consegna su CD)alla redazione, la quale se ne riserva la valutazioneinsindacabile d’inserimento nella rivista e, in caso diaccettazione, la scelta del numero nel quale inserirli.Saranno restituiti all’autore soltanto i materiali deiquali sia stata rifiutata la pubblicazione, purché per-venuti mediante il servizio di posta elettronica.L’autore di un testo pubblicato dalla testata potrà farriprodurre lo stesso in altri volumi o riviste, anche secon modifiche, entro i tre anni successivi alla suapubblicazione, soltanto previa autorizzazionedella redazione; l’eventuale pubblicazione dovrà ri-portare gli estremi della fonte.La rivista non pubblica testi di narrativa, com-ponimenti poetici e scritti di critica d’arte riflet-tenti la produzione di un singolo artista vivente. Gliannunci di eventi saranno inseriti, sempre previa va-lutazione insindacabile da parte della redazione, sol-tanto se pervenuti con un anticipo di almeno settegiorni rispetto alla data dell’evento stesso. I volumi,cd e dvd da recensire dovranno pervenire alla reda-zione in duplice esemplare.È particolarmente gradito l’inserimento di note a pie’di pagina, all’interno delle quali le citazioni di biblio-grafia dovranno essere necessariamente strutturatenella maniera precisata nell’apposita sezione del sitoInternet (www.ilrievocatore.it/collabora.php).

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(gouache - sec. XIX)

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Nella foto a sinistra:Salvatore Loschiavo, fondatore eprimo direttore di questo periodico,con due collaboratrici.

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