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M. Mortarino, M. Reali, G. Turazza, Meta viarum © Loescher Editore – Torino Una premessa P aul Veyne, uno dei massimi studiosi del mondo classico del Novecento, ha for- mulato alcune interessanti considerazioni sulla natura della religione gre- co-romana. Egli scrive infatti: Il paganesimo greco-romano è una religione senza né aldilà né salvezza, ma non necessa- riamente una religione fredda o indifferente alla condotta morale degli uomini: a questo proposito ha potuto risultare ingannevole il fatto che questa religione è senza teologia e senza Chiesa e, se possiamo osare l’espressione, è una religione «alla carta» piuttosto che una religione legata ad un «menu» 1 ; ognuno venera in particolare gli dèi che vuole, e se ne fa l’idea che può. […] Ognuno fondava il tempio e predicava il dio che voleva, come si aprirebbe un albergo o si lancerebbe un nuovo prodotto, e ognuno si faceva cliente del dio che preferiva e che non era di necessità quello che, dal canto suo, aveva preferito la città: la scelta era libera. Era così perché fra ciò che intendeva il paganesimo col termine «dio» e ciò che, con lo stesso termine, intendevano gli ebrei, i cristiani e i musulmani, di comune c’era solo la parola. Il dio di queste tre religioni del Libro 2 è un essere gigantesco, infinitamente supe- riore al mondo, che d’altra parte ha creato; esiste solo come attore di un dramma cosmico in cui l’umanità recita la scena della sua salvezza. Gli dèi del paganesimo, loro, vivono la loro vita, e la loro esistenza non si riduce a un ruolo metafisico 3 ; dopo tutto fanno parte del mondo […]. Ne consegue che gli dèi di tutti i popoli sono veri. Le possibilità sono due: o i popoli stranieri conoscono gli dèi di cui i Greco-Romani ignoravano ancora l’esistenza; oppure adorano dèi già noti, ma traducono nella loro lingua il nome di questi dèi: Giove è dappertutto Giove, ma in greco si chiama Zeus, in gallico Taranis, in ebraico Jahvé: i nomi degli dèi si traducono da una lingua all’altra, come i nomi comuni ed i nomi dei pianeti. Ci si rifiutava di credere agli dèi stranieri solo se erano il frutto di una ridicola superstizione […]: si rideva degli dèi col corpo di animali adorati in Egitto. I credenti dell’Antichità hanno vissuto nello stesso spirito di tolleranza che regna tra le sette induiste: interessarsi parti- colarmente a un dio non significa rinnegare gli altri dèi. P. Veyne, La vita privata nell’Impero romano, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 202-203 Tale lettura è senza dubbio un buon mezzo per avvicinarci a una riflessione sulla reli- gione romana. Certamente Paul Veyne in questo passo intende la religione come fatto privato, individuale, e non considera troppo gli aspetti politici e istituzionali che essa ha senza dubbio avuto; però ci fa capire come il rapporto dei Romani con le loro divinità sia stato un fenomeno complesso, dinamico, in costante trasformazione. L’apertura dei Romani ad altri ambiti geografici e culturali ha infatti significato l’a- pertura anche verso nuovi dèi e verso nuovi culti. E la stessa Roma originaria, che me- scolò il ceppo latino-sabino con l’elemento etrusco e che si lasciò influenzare dai vici- ni Greci delle colonie e da altre popolazioni italiche, ci propone forme assai composite 1. menu: al ristorante chi mangia «alla carta» sceglie liberamente i cibi, ed evita il «menu» fisso: al- lo stesso modo avveniva – secon- do l’autore – per la libertà di scelta dei propri dèi da parte dei Greci e dei Romani. 2. tre religioni del Libro: sia gli ebrei, sia i cristiani, sia musulma- ni, pongono alla base della loro re- ligione un libro sacro. 3. metafisico: spirituale. La religione a Roma, p. 14 PERCORSO TEMATICO I Romani e la religione 1 PERCORSO TEMATICO I Romani e la religione

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M. Mortarino, M. Reali, G. Turazza, Meta viarum © Loescher Editore – Torino

Una premessa

Paul Veyne, uno dei massimi studiosi del mondo classico del Novecento, ha for-mulato alcune interessanti considerazioni sulla natura della religione gre-

co-romana. Egli scrive infatti:

Il paganesimo greco-romano è una religione senza né aldilà né salvezza, ma non necessa-riamente una religione fredda o indifferente alla condotta morale degli uomini: a questo proposito ha potuto risultare ingannevole il fatto che questa religione è senza teologia e senza Chiesa e, se possiamo osare l’espressione, è una religione «alla carta» piuttosto che una religione legata ad un «menu»1; ognuno venera in particolare gli dèi che vuole, e se ne fa l’idea che può. […] Ognuno fondava il tempio e predicava il dio che voleva, come si aprirebbe un albergo o si lancerebbe un nuovo prodotto, e ognuno si faceva cliente del dio che preferiva e che non era di necessità quello che, dal canto suo, aveva preferito la città: la scelta era libera.Era così perché fra ciò che intendeva il paganesimo col termine «dio» e ciò che, con lo stesso termine, intendevano gli ebrei, i cristiani e i musulmani, di comune c’era solo la parola. Il dio di queste tre religioni del Libro2 è un essere gigantesco, infinitamente supe-riore al mondo, che d’altra parte ha creato; esiste solo come attore di un dramma cosmico in cui l’umanità recita la scena della sua salvezza. Gli dèi del paganesimo, loro, vivono la loro vita, e la loro esistenza non si riduce a un ruolo metafisico3; dopo tutto fanno parte del mondo […]. Ne consegue che gli dèi di tutti i popoli sono veri. Le possibilità sono due: o i popoli stranieri conoscono gli dèi di cui i Greco-Romani ignoravano ancora l’esistenza; oppure adorano dèi già noti, ma traducono nella loro lingua il nome di questi dèi: Giove è dappertutto Giove, ma in greco si chiama Zeus, in gallico Taranis, in ebraico Jahvé: i nomi degli dèi si traducono da una lingua all’altra, come i nomi comuni ed i nomi dei pianeti. Ci si rifiutava di credere agli dèi stranieri solo se erano il frutto di una ridicola superstizione […]: si rideva degli dèi col corpo di animali adorati in Egitto. I credenti dell’Antichità hanno vissuto nello stesso spirito di tolleranza che regna tra le sette induiste: interessarsi parti-colarmente a un dio non significa rinnegare gli altri dèi.

P. Veyne, La vita privata nell’Impero romano, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 202-203

Tale lettura è senza dubbio un buon mezzo per avvicinarci a una riflessione sulla reli-gione romana. Certamente Paul Veyne in questo passo intende la religione come fatto privato, individuale, e non considera troppo gli aspetti politici e istituzionali che essa ha senza dubbio avuto; però ci fa capire come il rapporto dei Romani con le loro divinità sia stato un fenomeno complesso, dinamico, in costante trasformazione. L’apertura dei Romani ad altri ambiti geografici e culturali ha infatti significato l’a-pertura anche verso nuovi dèi e verso nuovi culti. E la stessa Roma originaria, che me-scolò il ceppo latino-sabino con l’elemento etrusco e che si lasciò influenzare dai vici-ni Greci delle colonie e da altre popolazioni italiche, ci propone forme assai composite

1. menu: al ristorante chi mangia «alla carta» sceglie liberamente i cibi, ed evita il «menu» fisso: al-lo stesso modo avveniva – secon-

do l’autore – per la libertà di scelta dei propri dèi da parte dei Greci e dei Romani.2. tre religioni del Libro: sia gli

ebrei, sia i cristiani, sia musulma-ni, pongono alla base della loro re-ligione un libro sacro.3. metafisico: spirituale.

La religione a Roma, p. 14

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di religiosità: lo dimostra il fatto che il re etrusco Tarquinio il Superbo abbia portato a Roma le profezie della Sibilla Cumana, esponente della cultura greca, facendone in qualche modo il testo più «sacro» della Roma primitiva, i libri sybillini. Tali libri ven-nero quindi gelosamente conservati nel tempio sul colle Capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva, la «triade» di dèi garanti dell’esistenza e della perennità di Roma.

Le origini: il «primato di Marte»

Nel mondo romano la sfera religiosa è, dall’età più antica, connessa con quella culturale e politica, e non è un caso che alcune delle più antiche testimonianze

letterarie siano proprio testi sacri. Tra questi spiccano il carmen Fratrum Arvalium, una preghiera nella quale i membri di un collegio sacerdotale invocano i Lari, i Semo-ni e, soprattutto, il dio Marte perché favoriscano la semina, o il carmen lustrale (tra-mandato nel De agri cultura di Catone, dove si invita Marte ad accettare di buon grado il sacrificio di un maiale, di un agnello e di un vitello (suovitaurilia) per stornare ogni pericolo o devastazione dai campi agricoli.

Dunque in entrambi i testi arcaici citati si menziona l’agricoltura, attività fon-damentale del civis romanus delle origini, e il dio Marte, il cui antichissimo culto è attestato anche dal cosiddetto Lapis Sa-tricanus. Marte, infatti, assume nella tra-dizione religiosa romana un valore che va bene al di là della sua consueta im-magine di «dio della guerra»: egli è infat-ti, il padre di Romolo, il fondatore di Roma. Lo storico Tito Livio, in età augu-stea, perfezionerà il mito e parlerà della principessa latina Rea Silvia come ma-dre di Romolo; Ennio, invece, nei suoi Annales, allude al fatto che Marte abbia scelto Ilia, figlia di Enea e di Lavinia, per concepire il capostipite dei Romani.

Religione e politica

Un altro aspetto di grande interesse della religione romana è la sua mescolanza con la sfera politica; lo dimostra il fatto che il clero romano fosse costituito

dalla classe politica, e che molte cariche sacerdotali fossero, in sostanza, tappe della carriera pubblica delle élites romane. Non va, tra l’altro, dimenticato come il pontefice massimo – la più alta funzione sacerdotale romana – avesse il compito di redigere annualmente il resoconto dei principali eventi politico-militari della città (anna-les), e farli conoscere pubblicamente tramite la trascrizione su una tavola imbiancata (tabula dealbata). Nell’età di Roma imperiale le commistione tra potere religioso e po-tere politico divenne pressoché totale, poiché da Augusto in poi tutti gli imperatori assunsero la funzione di pontifex maximus.

Testo 5, p. 21

Testo 2.3, p. 199

Il sacrificio del suovitaurilia nell’arte

romana, p. 201

Testo 3, p. 20

Testo 3.2, p. 51 ↑Marte e Rea Silvia, particolare da un mosaico di una villa romana di Can Pau Birol, iii secolo d.C. (Girona, Museo della Storia della città).

↑Augusto pontifex maximus, statua in marmo del i secolo d.C. (Roma, Museo Nazionale Romano).

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Gli dèi e la poesia: tra ispirazione e parodia (iii-ii sec. a.C.)

Anche la poesia epica latina, come quella omerica, si apriva con un’invocazione agli dèi: se si trattasse di un cliché letterario o se ciò fosse una forma di genuina

religiosità è difficile dirlo. Fatto sta che Livio Andronico nel primo verso della sua traduzione dell’Odissea omerica invoca la ninfa italica Camena, mentre Nevio ed En-nio fanno esplicito riferimento alle Muse, divinità di derivazione greca.

Si tratta senza dubbio del segnale che le conquiste politiche di Roma nel Mediter-raneo e la sua apertura verso il mondo greco e orientale avevano prodotto interessanti forme di sincretismo (cioè «mescolanza») religioso: gli dèi del pantheon greco infat-ti, andarono man mano a sovrapporsi e confondersi con quelli della tradizio-ne romana (Giove / Zeus; Giunone / Hera; Minerva / Atena; Marte / Ares; Mercurio / Hermes; Venere / Afrodite ecc.). Non c’è più bisogno, pertanto, di camuffare le Muse – ormai entrate a far parte del patrimonio religioso latino – con la «nostrana» Camena.

Dal mondo greco, inoltre, Roma aveva imparato anche la difficile arte di «ride-re» dei propri dèi. Lo dimostra Plauto, che nella sua commedia Amphitruo scherza sugli amori adulterini di Giove, vero e proprio Don Giovanni, e sul ruolo di Mercurio che deve fargli di «spalla» durate le sue scappatelle. Questo non significa certo che fos-se comunemente possibile assumere atteggiamenti irriguardosi verso gli dèi, poiché lo «spazio» del palcoscenico comico ci offre situazioni lontane da quelle del mondo reale; è però vero che – almeno in questa «zona franca» – l’uomo romano poteva ab-bandonare quel profondo senso reverenziale nei confronti del sacro che doveva con-trassegnarne la mentalità.

In realtà anche nelle satire di Lucilio non mancava una qualche dose di ironia (e talora sarcasmo) verso gli dèi. Parodiando i «concili degli dèi» propri dell’epica ome-rica ed enniana, egli immagina, in un componimento del primo libro, che questi si riuniscano per cercare di trovare un rimedio alle sciagure di una Roma moralmente corrotta.

Dopo numerose riflessioni, Giove stesso sembra trovare una soluzione: poiché molti mali derivano a Roma dall’immorale comportamento di Cornelio Lentulo Lupo (console nel 156 a.C., quindi espulso dal senato e poi «riabilitato»; acerrimo nemico degli Scipioni), decide di invitarlo a cena e farlo morire di indigestione.

Insomma, non è difficile credere che ai lettori delle satire luciliane l’immagine degli dèi che discutono in modo «impacciato» dei mali di Roma e che quale soluzione di questi escogitano un banchetto esagerato dovesse suscitare una risata, ancorché amara.

Un culto sentito come socialmente pericoloso: il Senatus consultum de Bacchanalibus

In mezzo a tante manifestazioni di apertura vale la pena di menzionare un atto di vera e propria repressione di una pratica religiosa. Si tratta del Senatus consultum

de Bacchanalibus, provvedimento emanato dal senato nel 186 a.C. per arginare la propa-gazione dei culti bacchici (il testo epigrafico è edito in CIL I,581). In realtà, non si trattò di un divieto assoluto a praticare tali riti, ma dell’ordine di non farlo senza l’autorizza-zione del pretore urbano («nessuno pratichi i baccanali, né cittadino romano né latino né alleato … senza essersi rivolto al pretore»), che li avrebbe autorizzati di volta in volta e al massimo a gruppi di cinque persone. Cercando di comprendere le cause di questo

la parola al testo, p. 26

Testi 2.1, 3.1, pp. 49 e 50

Testo 3.2, p. 116

Testo 2.2, p. 270

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senatoconsulto, non va dimenticato come il culto di Bacco (il Dioniso dei Greci, dio dell’ebbrezza) era stato in Grecia praticato per lo più da donne, che – per raggiunge-re l’estasi mistica – erano solite bere vino e stordirsi con musica e danze. Tale compor-tamento era ritenuto a Roma molto lontano dai precetti del mos maiorum e si temeva potesse dare adito a problemi di «ordine pubblico»: non si trattò dunque dall’avversione nei confronti di una divinità, ma del timore delle conseguenze sociali del suo culto.

Gli dèi degli altri: sincretismo e interpretatio (i sec. a.C.)

Nel i secolo a.C. la conquista cesariana del mondo gal-lico portò nuovamente i Romani al contatto con un

mondo religioso diverso dal proprio e a nuove forme di sincretismo. E pur percependo la distanza, rispetto alla cultura romana, degli dèi e, soprattutto, delle pratiche religiose dei popoli «barbarici» conquistati (come quel-la dei sacrifici umani), Cesare sembra non porsi troppi problemi terminologici e, in uno dei più famosi passi del De bello Gallico chiama gli dèi celtici con nomi lati-ni: questi diventano pertanto Mercurio, Marte, Giove e Minerva, secondo una prassi detta abitualmente inter-pretatio). Tale operazione culturale è di grande interes-se, poiché se da un lato il futuro dictator si esprime così per farsi meglio comprendere dai suoi lettori, dall’altro vuole anche dare al pubblico latino l’idea di come la superiore civiltà romana possa facilmente inglobare anche le manifestazioni della religiosità dei propri nemici. Così, nel mondo romano (e in particolar modo in area celtica e germanica) non sono rare situazioni come quella documentata da un altare trovato nell’attuale città di Colonia, in Germania (CIL XIII,12057). Il testo latino iscritto sull’ara è il seguente:

Deae / Vagdavercusti / Titus Flavius / Constans praef(ectus) / praet(orio) em(inentissimus) v(ir)

(Dedicò) alla dea Vagdavercusti Tito Flavio Clemente, sovrintendente al pretorio, uomo emi-nentissimo

E ciò che stride un po’ ai nostri occhi, il fatto che un alto funzionario di Roma dedichi un altare ad una dea germanica sconosciuta e dal nome pressoché impronunciabile, dove-va sembrare assai meno strano ai Romani di allora. Noi non sappiamo se egli fosse un germano romanizzato che si rivolgeva ai propri dèi tradizionali, o un latino apertosi alla religione locale; ma forse ciò non è neppure importante. L’importante è vedere come un ufficiale romano, con la lingua di Roma – il latino – sciolga un voto a una dea, Vagdaver-custi, che con la tradizione romana non ha proprio nulla a che vedere.

Lucrezio e l’epicureismo: la critica della religio (i sec. a.C.)

L’epicureismo – la filosofia divulgata da Lucrezio nel De rerum natura – aveva costruito l’immagine degli dèi come di esseri fatti di atomi (anche se incorrut-

tibili), che vivono beatamente negli intermundia e che non possono né terrorizzare né aiutare gli uomini: la vera guida dell’umanità è infatti il pater Epicuro, che ha liberato

Testo 1.5, p. 500

Le divinità galliche fra interpretatio e

sincretismo, p. 502

Testi 1.1, 1.2, 2.1, pp. 339, 345 e 354

L’altare dedicato alla dea Vagdavercusti, a Colonia.

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i mortali da ogni paura. D’altronde Lucrezio non poteva dimenticare i disastrosi esiti della superstizione religiosa (religio), che aveva prodotto perfino il disumano sacrificio di Ifigenia per mano del padre Agamennone. È però vero che iniziare un poema senza l’invocazione agli dèi era pressoché impossibile. Lucrezio cerca allora – nel suo proe-mio – di conciliare la propria mentalità «laica» con la consuetudine poetica: tra-sforma infatti la Venere cui si rivolge nel principio filosofico della voluptas (il piacere catastematico degli epicurei) e in quello scientifico della forza riproduttiva e genera-trice insita nell’universo. Nemmeno il più «laico» degli intellettuali romani, però, può evitare qualche concessione alla mitologia tradizionale e, verso la fine del proemio, il poeta rappresenta con una raffinatezza quasi neoterica gli amori di Marte e Venere.

La riflessione di Cicerone: divinità dell’anima umana (i sec. a.C.)

Senza dubbio la filosofia epicurea venne sentita come eversiva rispetto ai valori della religione romana e il tradizionalista Cicerone la avversò in ogni modo. Un

mondo senza timore religioso era infatti per lui un mondo alternativo a quello che il mos maiorum aveva nei secoli contribuito a costruire: troviamo tali idee esplicitate soprattutto in due opere ciceroniane, il De natura deorum (45 a.C.) e il De divinatione (44 a.C.), che sono il momento più interessante – dal punto di vista tecnico-filosofico – della riflessione teologica dell’Arpinate.

È però vero che il testo più suggestivo in questa ricerca del rapporto tra Cicerone e la sfera trascendente è il Somnium Scipionis. Riprendendo alcune suggestioni pita-goriche e, soprattutto, le teorie platoniche e stoiche della divinità dell’anima, egli rea-lizza la più alta sintesi tra umano e divino di tutto il pensiero romano. Infatti la condi-zione umana (humanitas), nobilitata dalla divinità dell’anima, partecipa anch’essa – in qualche modo – del divino, se è vero che Scipione l’Africano dice al nipote «E questo sappi, che sei un dio». E il modo migliore per valorizzare tale condizione è praticare la virtù e servire la patria: è solo così che quel dio supremo (ille princeps deus) che governa il mondo ci riterrà meritevoli di una ricompensa ultraterrena.

Conclusioni

Partendo dall’idea di un dio lontano e terribile, da venerare con preghiere perché favorisca l’agricoltura, abbiamo costruito un percorso complesso: dall’apertura

di Roma verso altre religioni siamo infatti passati al laicismo razionalistico degli epi-curei, per giungere alfine all’idea ciceroniana di un uomo – in qualche misura – «di-vinizzato». D’altronde il civis romanus, da umile agricola o strenuo miles che era, nel i secolo a.C. era ormai padrone del Mediterraneo: non ci stupisce, pertanto, che abbia progressivamente ridotto la distanza tra sé e gli dèi.

Bibliografia▶ J. SCHEID, La religione a Roma, Bari, Laterza, 1983. ▶ D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica. Dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano, Il Saggia-

tore, 1988. ▶ R. DEL PONTE, La religione dei Romani, Milano, Rusconi, 1992. ▶ J. H. W. G. LIEBWSCHÜZ, La religione romana, in AA.VV., Storia di Roma, Torino, Einaudi, 1992, 2, 3,

pp. 237-81. ▶ J. SCHEID, Il sacerdote, in A. GIARDINA (a cura di), L’uomo romano, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 47-79.

lettura d’opera, pp. 763 e sgg.

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