Ebrei veneti restaurazione -...

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Marino Berengo Gli ebrei veneti nelle inchieste austriache della restaurazione Michael - The Diaspora Research Institute - Tel Aviv University - Vol. I - 1972 Nell’aprile del 1814 capitolavano le ultime piazzaforti venete ancora difese dalle truppe francesi ed italiche. L’Austria ristabiliva così dopo solo otto anni il suo dominio su quelle province che la pace di Campoformio le aveva consegnato per la prima volta sulla fine del 1797, e cui aveva dovuto rinunciare dopo la rotta di Austerlitz ed il naufragio della Terza coalizione. L’esperienza napoleonica nel Veneto fu dunque breve, ma rimase memorabile. Prima di allora il paese era stato infatti raggiunto solo debolmente, e quasi di riflesso, dalla politica riformatrice, cui la repubblica di Venezia poco o nulla aveva concesso; né tra il 1798 e il 1805 il governo austriaco distratto dalla guerra e desideroso di assicurarsi il consenso dei ceti privilegiati si era azzardato a promuovere innovazioni. Il regime italico aveva invece esteso febbrilmente al Veneto le riforme già introdotte nei dipartimenti lombardi ed emiliani. Allorché ritornarono nelle città venete, i funzionari austriaci si accorsero che l’acqua era corsa via di fretta sotto i vecchi ponti. E attraverso una sistematica serie di informazioni e di inchieste vennero prendendo atto di quella nuova situazione e chiedendosi in quale misura essa potesse essere accettata o la si dovesse invece correggere. Il vasto materiale che venne così raccolto fornì alla Organisierung Zentralkommission, operante a Vienna, la base conoscitiva per emanare quel corpo di istruzioni e di norme che determinarono poi la fisionomia del nuovo Regno lombardo-veneto 1 . Chi rilegga oggi quei dibattiti e quelle relazioni, non manca di avvertire come la rapida ascesa economica e sociale degli ebrei veneti verificatasi nel periodo napoleonico, costituisca uno dei più forti motivi di sorpresa per gli osservatori austriaci. Problema di secondo piano, senza dubbio, a petto di quelli tanto più generali che gravavano sulle province riconquistate; ma poche, forse, delle «novità” verificatesi in quei brevi otto anni avevan tradito con altrettanta chiarezza il vigore che certe forze sociali potevano spiegare quando non fossero compresse da espedienti legislativi. E i funzionari asburgici erano 1 Un quadro esauriente dei primi anni della Restaurazione nel Lombardo-Veneto è tracciato da R. J. RATH, The Proisional Austrian Regime in Lombardy-Venetia: 1814-1815 (= Austrian Regime), Austin-London 1969.

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Marino Berengo

Gli ebrei veneti nelle inchieste austriache della restaurazione

Michael - The Diaspora Research Institute - Tel Aviv University - Vol. I - 1972

Nell’aprile del 1814 capitolavano le ultime piazzaforti venete ancora difese dalle truppe francesi ed italiche. L’Austria ristabiliva così dopo solo otto anni il suo dominio su quelle province che la pace di Campoformio le aveva consegnato per la prima volta sulla fine del 1797, e cui aveva dovuto rinunciare dopo la rotta di Austerlitz ed il naufragio della Terza coalizione.

L’esperienza napoleonica nel Veneto fu dunque breve, ma rimase memorabile. Prima di allora il paese era stato infatti raggiunto solo debolmente, e quasi di riflesso, dalla politica riformatrice, cui la repubblica di Venezia poco o nulla aveva concesso; né tra il 1798 e il 1805 il governo austriaco − distratto dalla guerra e desideroso di assicurarsi il consenso dei ceti privilegiati − si era azzardato a promuovere innovazioni. Il regime italico aveva invece esteso febbrilmente al Veneto le riforme già introdotte nei dipartimenti lombardi ed emiliani.

Allorché ritornarono nelle città venete, i funzionari austriaci si accorsero che l’acqua era corsa via di fretta sotto i vecchi ponti. E attraverso una sistematica serie di informazioni e di inchieste vennero prendendo atto di quella nuova situazione e chiedendosi in quale misura essa potesse essere accettata o la si dovesse invece correggere. Il vasto materiale che venne così raccolto fornì alla Organisierung Zentralkommission, operante a Vienna, la base conoscitiva per emanare quel corpo di istruzioni e di norme che determinarono poi la fisionomia del nuovo Regno lombardo-veneto1.

Chi rilegga oggi quei dibattiti e quelle relazioni, non manca di avvertire come la rapida ascesa economica e sociale degli ebrei veneti verificatasi nel periodo napoleonico, costituisca uno dei più forti motivi di sorpresa per gli osservatori austriaci. Problema di secondo piano, senza dubbio, a petto di quelli tanto più generali che gravavano sulle province riconquistate; ma poche, forse, delle «novità” verificatesi in quei brevi otto anni avevan tradito con altrettanta chiarezza il vigore che certe forze sociali potevano spiegare quando non fossero compresse da espedienti legislativi. E i funzionari asburgici erano

1 Un quadro esauriente dei primi anni della Restaurazione nel Lombardo-Veneto è tracciato da R. J. RATH, The Proisional Austrian Regime in Lombardy-Venetia: 1814-1815 (= Austrian Regime), Austin-London 1969.

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abbastanza esperti delle cose di amministrazione e di governo per averne immediata percezione.

La ricchezza ebraica era un tema vecchio e risaputo nel Veneto degli ultimi anni aristocratici e della prima dominazione austriaca, così per l’opinione pubblica come per i governanti. All’indomani della caduta della repubblica, era cominciata la corsa agli investimenti terrieri, che da un lato rappresentava lo schiudersi di un naturale sbocco a capitali in precedenza accumulati; e d’altro canto si verificava in una congiuntura assai più favorevole che per il passato, con la crisi delle famiglie patrizie e con la svendita di molti loro beni. Anche al di fuori del mercato fondiario, gli ebrei detenevano ormai a Venezia, a Verona, a Padova, e in minor misura nelle altre città venete, le più importanti case di credito e di commercio.2 E se questo processo aveva preso grande sviluppo negli ultimi anni, non poteva però essere imputato alle leggi napoleoniche perché riconosceva la sua origine assai più indietro, nel cuore almeno del XVIII secolo. Quello che indubbiamente era nuovo, era la completa equiparazione dei diritti civili tra ebrei e cristiani; ed andava misurato ed inteso in termini non economici ma politici. In termini pratici, si trattava dell’uscita dai ghetti, dei titoli di nobiltà in qualche caso concessi (famoso era il barone Isacco Treves de’ Bonfil) e soprattutto dell’accesso alle cariche pubbliche e ai gradi dell’esercito. Diritti che sulla carta erano stati largiti ma che si trattava di accertare se e dove, e in che misura, fossero già stati effettivamente conseguiti. Si doveva ancora stabilire se la popolazione cristiana accoglieva con animo sereno questa inaudita «novità” o se ne nascevano scandali; e se costituiva un atto di buon governo accettare questa situazione e ammettere che si estendesse.

Nel triennio repubblicano era corsa per tutta Italia la voce di un massiccio apporto ebraico alla causa rivoluzionaria, e molti ghetti di Romagna, di Toscana e delle Marche avevano subito il saccheggio delle bande sanfediste.3 Ma in realtà, chi studi oggi le carte processuali e quelle di polizia, o ripercorra i dibattiti svoltisi nelle repubbliche democratiche, di ebrei ne incontra pochi, o almeno in numero non proporzionale al livello di sviluppo economico che alla fine del ‘700 essi avevano raggiunto in alcuni Stati italiani. Abbattute le porte dei ghetti, essi erano rimasti quasi ovunque ad abitare nelle loro antiche case, e avevano atteso tempi più tranquilli per godere appieno della reale emancipazione. Il senso di stabilità che era mancato allora, era invece energicamente offerto dai governi

2 Qualche notizia sulla condizione economica e sociale degli Ebrei veneti allo schiudersi della Restaurazione nel mio libro L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità, Milano 1963, pp. 83-84, 167-170. 3 Un quadro generale della condizione ebraica alla fine del ‘700 in R. DE FELICE, «Per una storia del problema ebraico alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX», Movimento operaio, N.S., VII (1955), pp. 681-727.

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napoleonici: era vera e assoluta parità di diritti quella che scaturiva dal tambureggiante succedersi di leggi, la cui esecuzione era garantita da un’imponente copertura militare, mentre nessun pericolo di nuovi pogroms appariva logicamente prevedibile. E le inquietudini egalitarie e «anarchiste” che frequenti si erano espresse nei clubs giacobini del ‘96 e del ‘97 sembravano ora, di buono o di cattivo grado, disperse. Uno dei più celebri rabbini d’Italia, Jacob Emanuele Cracovia, tornando nel 1807 dal gran Sinedrio di Parigi alla sua sede di Venezia, lo aveva spiegato ai correligionari raccolti nella grande sinagoga ponentina con una chiarezza di termini che non aveva nulla della celebrazione occasionale.4 E certo, gli argomenti addotti allora e ribaditi due anni più tardi per festeggiare il trionfo di Wagram e la pace di Schönbrunn, sono assenti dal freddo e conciso Inno di laude che lo stesso Cracovia componeva in ebraico nel ‘14 in rendimento di grazie per le vittorie riportate dall’ottimo nostro sovrano, imperatore e re5: atto di ossequio formale che l’esponente di una minoranza mal vista e timorosa del suo futuro rivolgeva al nuovo Sovrano. La motivazione politica di un consenso non aveva perso qui la sua reale ragione.

Il 9 gennaio del 1815 il presidente della Organisierung Zentralkommission, conte Procopio Lazansky, riferiva al principe Heinrich Reuss-Plauen, governatore generale provvisorio per le province venete, la volontà dell’imperatore di essere informato über die künftige Behandlungsart der Juden nelle province riconquistate wo sie unter der vorigen französischen Regierung der Rechte der Staatsbürgerschaft genossen; e di fornire notizie über den gegenwärtigen Zustand der Juden und dessen Einwirkung sowohl auf die öffentliche Meinung als auf die übrigen Klassen von Staatsbürgen. L’inchiesta aveva dunque due scopi: appurare che posizioni economiche e sociali avevano raggiunto gli ebrei e quale era la loro disposizione verso Casa d’Austria, conoscere l’atteggiamento della popolazione cattolica verso questa minoranza che aveva bruscamente acquisito la pienezza dei diritti civili. In attesa di ricevere queste notizie, la Commissione impartiva però in tono tassativo una disposizione transitoria: Individuen dieser Religion zu keiner öffentlichen Amte, weder in Justiz noch in politischen Sachen noch auch bei Städten oder sonstigen Gemeinden und

4 Sermone dell’Eccellente rabbino Jacob Emmanuele Cracovia... da lui pronunziato dopo il suo ritorno a Venezia nella Sinagoga ponentina, Venezia s.d. (ma 1807). Notizie sul Cracovia in: טם׳ 42 ם״ש גיךןנךי ןח׳, ניפי ,תודךות גךודי ישךאד וגאוני איטדיאת ,טךיאסטי 18535 Discorso pronunziato nella Gran Sinagoga di Venezia... in occasione del Te Deum che fu celebrato per la gloriosissima pace imposta all’Austria dalle vittoriose armate di S.M. l’augustissimo nostro Sovrano Napoleone il Grande, Venezia 1809. Inno di laude da recitarsi nella Scuola ponentina della Nazione ebraica di Venezia in rendimento di grazie per le vittorie riportate dall’ottimo nostro Sovrano, Imperatore e Re (s.i.t., ma Venezia 1814).

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Körpern fernerhin mehr zugelassen werden6. Si dava così valore di massima al provvedimento individuale che pochi giorni prima, il 28 dicembre 1814, Lazansky aveva preso ordinando la destituzione dell’unico ebreo veneto che risultasse in quel momento insignito di una carica pubblica; e si trattava di un commerciante di Ceneda, Prospero Fontanella, che sedeva nella Commissione provinciale per le requisizioni militari7.

Se il tono della richiesta era volutamente neutro, la clausola finale che sbalzava d’un tratto gli ebrei da tutte le cariche che fossero venuti a detenere, spiegava da sola, e senza possibilità di equivoci, che tipo di risposta si desiderasse ricevere a Vienna. Fosse l’urgere dei problemi nel palazzo del governo a Venezia, o il trapasso dei poteri che appunto in quei mesi veniva verificandosi nelle mani del conte Peter Goëss8, o si facesse fors’anche avvertire una silenziosa mancanza d’entusiasmo nello svolgere questo incarico, sta di fatto che la richiesta del Lazansky rimase senza risposta per cinque mesi, e venne rinnovata. Siamo dunque all’indomani di Waterloo, ossia di fronte alla prospettiva di uno stabile e durevole assetto austriaco del paese, allorché cominciano a pervenire le risposte delle prefetture e della Direzione generale di polizia.

Der gegenwärtigen Regierung sind die Juden nicht geneigt, premette Anton Raab che tra gli alti funzionari della polizia austriaca in Italia rappresenterà costantemente una delle voci più aspre e meno moderne9. Se questa sua affermazione, motivata col timore degli Ebrei di perdere i vantaggi finalmente acquisiti, è certamente nel vero, gli argomenti addotti per ripristinare i ghetti e per rendere definitiva l’esclusione degli Ebrei da ogni sorta di cariche hanno carattere non politico ma religioso ed etnico; e ci richiamano alla memoria le più violente invettive antisemitiche della Controriforma. Due processi sociali, inversi e concomitanti, hanno avuto luogo: la decadenza del ceto patrizio e l’espansione degli Ebrei, sicchè: stieg die Israelitenseckte dadurch immer mehr, das sie den Nobili und Possidenti die schönste Güter und Paläste abdruckten. So geschah es das Juden, die vor 20 Jahren noch verächtliche Geschöpfe,waren, nun mit Titeln, Adeln und Ordenszeichen prangen. Per Raab gli Ebrei devono appunto tornare quello che sempre sono stati, delle

6 Questo documento, assieme agli altri dell’inchiesta, si trova in ARCHIVIO DI STATO. VENEZIA (= A.S.V.), Presidio di governo, 1815-1819, II 5/14. 7 Lazansky al Governo provvisorio, 28 dicembre 1814, A.S.V., Presidio di governo, 1815-1819, VIII 3/6. Dall’inchiesta cit. risulterà però che il Fontanella «ricco assai ed anche assai stimato per la sua onestà ed intelligenza» è anche consigliere del comune di Ceneda, come avverte il prefetto di Treviso, Porcia, il 25 giugno 1815. 8 RATH, Austrian Regime, pp. 136-137. 9 RAAB GOËSS, 3 luglio 1815. Sul Raab, direttore generale della polizia per il Veneto, e trasferito nell’agosto 1816 a Milano, un giudizio positivo esprime J.A. HELFERT, Kaiser Franz I von Oesterreich und die Stiftung des Lombardo-Venetianischen Königreichs, Innsbruck 1901, pp. 413-414.

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«spregevoli creature”. Non deve più durare lo scandalo, che più fa salire lo sdegno (am meisten empöret), che le nobili famiglie decadute siano costrette zur Kasse der reichen Juden ihre Zuflucht zu nehmen, e che questi infedeli vivano promiscuamente coi cristiani, imponendo la loro presenza agli stessi ministri del culto. Il Raab non propone che oltre ad essere ricondotti nei ghetti ed allontanati dalle cariche, gli Ebrei siano anche privati dei beni fondiari che hanno acquisito: ma lo svolgimento del suo discorso fa pensare che questa misura non lo contrarierebbe.

Il quesito sulla opportunità di ripristinare il ghetto si poneva solo per le quattro maggiori comunità di Venezia, Padova, Rovigo e Verona. Delle tre prefetture interessate una, quella di Venezia è negativa, mentre Padova (che ha giurisdizione anche su Rovigo) e Verona vorrebbero che si resuscitassero senza indugi le vecchie norme: già l’esito di questo primo e pur ristretto sondaggio basta a rivelare la marcata ostilità della classe dirigente asburgica verso gli Ebrei.

La prefettura di Venezia, nella sua solitaria e sommessa raccomandazione di non molestare con provvedimenti repressivi gli Ebrei10, spende un argomento di natura economica: essi «giunsero ad aver tra mani per così dire tre quarte parti dell’intiero residuo commercio di questa piazza, e ad esser poi quasi i soli capitalisti sui quali poter far conto”. Ogni misura ostile nei loro confronti, otterrebbe il risultato di farli emigrare verso «altri paesi non lontani nei quali sono tollerati e protetti”, sospingendo così il mercato di Venezia verso il tracollo definitivo. Nessuna motivazione di tipo politico o civile viene addotta a sostenere questi rilievi di convenienza economica, ma l’animo del relatore traspare abbastanza chiaro quando, nel riconoscere «l’antigenio della popolazione pegli Ebrei” lo spiega solo così: «deve attribuirsi alle antiche abitudini”.

Il commissario delegato (ossia il prefetto provvisorio) di Padova, il patrizio veneziano Pasqualigo, firma di suo pugno la richiesta «di ristringere il domicilio degli Ebrei entro i confini ad essi anteriormente prescritti”, e cioè di rispedire in ghetto i 450 Ebrei di Padova e i 360 di Rovigo, motivandola con «qualche mormorio da parte di ministri della religione” e con la «naturale contrarietà” delle popolazioni venete11.

10 Il rapporto 6 luglio 1815 della prefettura dell’Adriatico, ossia di Venezia, è firmato dal consigliere anziano Vendramin Calergi. 11 Pasqualigo a Goëss, Padova 19 luglio 1815. L’atteggiamento del Pasqualigo verso gli Ebrei fu costantemente duro. Nell’ottobre del 1815 faceva sfrattare sull’istante, a richiesta del parroco, la famiglia di David Terni che viveva fuor di Ghetto in via S. Francesco perché la moglie aveva dato scandalo; e così motivava il provvedimento: «non ho creduto di esitare nell’incaricare questa polizia medesima d’insinuare a codesti israeliti che se, in massima, con malavoglia di tutti veggonsi domiciliati fra i Cristiani, non vi possono essere tolerati quando offendono la pubblica costumatezza» (disp. da Padova 18 ottobre 1815). Il 20 ottobre il

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Se vogliamo intendere gli argomentì di cui l’ala più conservatrice dell’alta burocrazia austriaca si serviva nella sua battaglia contro gli Ebrei, occorre leggere l’ampia relazione del prefetto provvisorio di Verona, Antonio Maffei12. Le proposte operative sono le consuete (esclusione dalle cariche e rientro nei ghetti) ma formulate in modo molto concreto, e con aggiunta la richiesta di proibire ulteriori acquisti di beni fondiari. Significativa è la serie delle imputazioni che vengono addossate agli Ebrei: accumulo fraudolento delle ricchezze, compiuto con usure e profittando delle calamità sofferte dalla popolazione; ostilità al governo austriaco sempre, e senza pudore, professata; «gl’inconvenienti e gli scandali che nascono” per il loro disprezzo alla religione cattolica, e per l’incuria in cui lasciano le chiese sconsacrate che hanno acquisito nelle campagne con gli incanti dei beni demaniali. E lo stesso argomento addotto dalla prefettura veneziana a favore degli Ebrei è qui capovolto: proprio perché accumulano ricchezze essi dissanguano la nazione che non rendono in alcun modo partecipe delle loro operazioni.

Le prese di posizioni assunte sul problema degli Ebrei dalle prefetture venete nell’estate del 1815, riflettono la presenza di due diverse correnti che a lungo si fronteggeranno nell’amministrazione austriaca d’Italia: riformatrice l’una, attenta a non disperdere la grande lezione di Giuseppe II, e a non inasprire i popoli strappando loro quanto di moderno e di giusto la legislazione napoleonica ha dato; desiderosa l’altra di ricondurre il mondo alla pace antica, e di farlo restituendo rispetto a nobili e a preti, e usando risolutamente all’occorrenza eserciti, tribunali e polizia. Espressione della prima corrente è la relazione con cui un consigliere della prefettura di Udine sostiene la necessità di serbare intatti i diritti degli Ebrei13. Poche decine sono gli Ebrei friulani in questi anni, e la mancanza di vere comunità non vi rende attuale il discorso sul ghetto; ma interrogato «sulla convenienza o no di accordare agli ebrei l’acquisto di proprietà fondiarie”, questo funzionario svolge alcune importanti considerazioni. Dopo aver fornito indicazioni nettamente favorevoli sulla condotta di quelle poche persone, egli va diritto al centro del problema, se giovi o nuoccia alla nazione la presenza degli Ebrei e la loro attività economica. Con un’argomentazione

governatore conte Goëss s’approvava l’operato del Pasqualigo (A.S.V., Presidio di governo, 1815-1819, II, 2/22). 12 Maffei a Goëss, Verona, 13 agosto 1815. Il documento è edito in appendice. Antonio Maffei, di nobile famiglia veronese, veniva dalla carriera militare. Nel 1797 diresse l’insurrezione antifrancese nelle Valli bresciane e bergamasche, e passò poi al servizio austriaco divenendo delegato di Mantova e, appunto, prefetto provvisorio di Verona; v. G. BIADEGO, La dominazione austriaca e il sentimento pubblico a Verona dal 1814 al 1847, Roma 1899, pp. 26-27. 13 Il documento, 6 luglio 1815 è edito in appendice. Purtroppo la firma del consigliere di prefettura che lo ha redatto non riesce leggibile.

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che in qualche modo prelude a quella che tra vent’anni sarà svolta da Cattaneo14, ricorda come «un’odiosa linea” ha diviso in passato gli Ebrei dagli altri e li ha costretti a esercitare l’unico mestiere lecito, il prestito e la mercatura. Da esso han tratto profitti, ma sono rimasti forzatamente circoscritti «al solo interesse del numerario, e questa potente passione si accresce ed in ragione diretta dei mezzi che capacitano una maggiore latitudine di guadagno, ed in ragione contraria dell’occasione di dispendio”. Il tema è sentito nei suoi termini umanitari e civili assai più che in quelli economici, e non affiora la distinzione tra capitale mercantile e capitale agrario, e quindi tra profitto commerciale e rendita fondiaria che sarà appunto l’intuizione di Cattaneo. Ma è chiaramente colto il senso politico dell’emancipazione ebraica. Uomini che vivevano provvisori e divisi sul suolo della nazione «collegarono la sorte del loro patrimonio a quella dello Stato, sentirono per la prima volta di avere pur eglino un paese e si poterono esigere da loro dei sagrifizi”.

Basta, del resto, ripercorrere l’iter di una istanza avanzata dal rabbino Cracovia nel 181715 per avvertire come ogni aspirazione degli Ebrei a ottenere parità di diritti, continuasse a suscitare un senso di sorpresa non solo negli ambienti di governo, ma anche negli strati conservatori dell’aristocrazia veneziana. Il rabbino si è dunque rivolto alla Congregazione di carità chiedendo che i suoi correligionari indigenti siano assistiti come i cattolici, dato che le istruzioni sovrane in materia di carità non fanno distinzioni religiose, e dato anche che gli Ebrei veneziani han fatto generose offerte ad enti benefici. La Congregazione, che è controllata da patrizi veneziani e non da funzionari austriaci, non riesce a reprimere un autentico senso di sorpresa nel ricevere questa richiesta, e risponde che all’assistenza presiede il «capo della religione cattolica”, ed è quindi ovviamente destinata a bisognosi cattolici; che se alcuni Ebrei han fatto una «spontanea offerta”, questa evidentemente non ha avuto «altro oggetto che quello di togliersi d’attorno l’importunità degli accattoni nelle vie, nei caffè, e nei ridotti”; e che infine la Comunità provvede evidentemente da sé ai «propri indigenti, i quali a dir vero, mai si vedono nelle vie della città ad accattare”. Questa risposta, che riduceva la miseria a «inopportunità” di questuanti, e la carità a difesa della quiete dei ricchi, non piacque al rabbino che si rivolse al governo. Nel leggere la sua istanza, si avverte affiorare chiarissima una questione di principio: non sono tanto le scodelle di zuppa o i pochi centesimi di sovvenzione che interessano il Cracovia, e dietro di lui la Comunità a cui nome evidentemente parla, ma 14 Sul significato della posizione di Cattaneo nelle Emancipazioni israelitiche, v. L. CAFAGNA, «Agricoltura e accumulazione negli scritti economici di Carlo Cattaneo», Società, XII (1956), pp. 623-648. 15 La petizione del Cracovia 22 agosto 1817, qui edita in appendice, ha allegata la risposta ricevuta dalla Commissione Generale di Beneficenza, 4 agosto 1817. Questo documento, e gli altri riguardanti la questione, in A.S.V., Presidio di governo, 1815-1819, XIX 6/12.

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l’ingiustizia dell’esclusione. In termini giuridici, l’argomento della Congregazione è «inappoggiato” perché le notificazioni emanate dal governo non tracciano alcuna linea discriminatoria tra cattolici e «non conformisti” e menzionano invece tutti i poveri bisognosi della città; ma è su di un piano politico e sociale che il problema è importante. Gli Ebrei non sono infatti degli stranieri di passaggio, essi costituiscono una «comunità da immemorabili epoche qui piantata e…non conoscono altra patria che questa”. Il ricordo del fatto che nel 1812, ossia in periodo napoleonico, essi sono stati regolarmente assistiti, non costituisce solo un precedente utile, ma sottolinea l’effettiva uguaglianza di diritti civili che quel regime ha garantito agli Ebrei.

La richiesta del Cracovia finì archiviata, e il governatore conte Goëss ritenne di averla, a suo modo, esaudita ordinando alla polizia di impedire la questua in ghetto. Qualcosa però si era pur mosso e un suo segretario non aveva mancato di corredare la pratica con una relazione in cui era riconosciuta la assoluta fondatezza giuridica delle richieste avanzate dal rabbino. La ricchezza degli Ebrei «data l’industria a cui, quasi per istinto, si applicano quasi tutti” è servita a chiudere per ora la questione, ma il problema di principio è stato posto e ritornerà di continuo16.

Lo spauracchio degli alberi della libertà eretti nel 1796 e nel ‘97 al centro dei ghetti, e l’accusa agli Ebrei di nutrire «genio rivoluzionario” si venivano svuotando di significato col passare dei mesi e degli anni. Il problema ebraico dunque non presentava più una grossa preoccupazione di polizia politica. La vera difficoltà che il governo austriaco incontrava nel rendere esecutive le norme napoleoniche verso gli Ebrei era la resistenza del clero cattolico. E se si potevano lasciare senza risposta i «mormorii” dei parroci (e di cui qualche prefetto si era pur reso portavoce), che non volevano recarsi a somministrare i sacramenti in case ove abitassero anche Ebrei, occorreva invece dare chiara soluzione a quel problema dei catecumeni che da secoli costituiva uno dei punti dolenti nella convivenza tra le diverse confessioni.

La conversione degli adulti non dava, di solito, luogo a gravi contrasti e le eventuali vertenze patrimoniali tra il neofita e la sua famiglia d’origine trovavano soluzione davanti ai tribunali ordinari, senza che l’autorità politica o la polizia dovessero intervenire. D’altronde la Casa dei Catecumeni di Venezia − che raccoglieva anche i convertiti di Trieste e di tutte le province di terraferma − era retta da norme minuziose volte a impedire sia la pressione degli istruttori ecelesiastici sui catechizzandi, sia l’intervento dei parenti rimasti fedeli alla religione ebraica. E non sono numerosi gli «scandali” di questa origine che le carte della

16 La relazione favorevole all’istanza del Cracovia reca questo rescritto del Goëss: «passi frattanto agli atti, essendo... ora appagata la nazione israelitica colle misure prese per impedire la questua anche nel ghetto».

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polizia veneta ci hanno trasmesso17. Assai più controversa era − e per molti decenni doveva rimanere − la questione del battesimo dei fanciulli ebrei compiuto contro la volontà dei genitori; e problemi non molto diversi, né meno gravi, si sollevavano quando un padre o una madre passati al cristianesimo volevano trarre con sé, sottraendoli all’altro coniuge, i figli minori.

Il governo austriaco restaurato trovò la materia regolata da una legge 30 gennaio 1803 della repubblica italiana − estesasi poi naturalmente alle province venete − che tutelava sia la libera scelta del catecumeno, sia la facoltà per parenti e rabbini di visitarlo per discutere la sua scelta.

La forte difesa dell’autorità paterna, e quindi dell’istituto familiare, e la repugnanza per la coercizione in materia di fede, che animavano questo testo legislativo, non riuscivano sgraditi al governo austriaco, che già con Giuseppe II aveva introdotto analoghe misure nei paesi ereditari. Ma in questa, come in ogni altra evenienza, occorreva ora conoscere quale fosse lo stato d’animo maturatosi tra la popolazione veneta; ed accertare l’orientamento dei vescovi al riguardo.

Nell’autunno del 1814 gli ordinari delle diocesi venete furono invitati dal governo ad esprimere il loro parere sul battesimo degli Ebrei, fanciulli ed adulti, e sulle discipline che lo regolavano prima della legge italica 1803. Le risposte sono piuttosto uniformi, perché spiegano tutte come in precedenza «prima di ammettere al battesimo un Ebreo i vescovi si sono sempre regolati conforme ai decreti e alle sanzioni della Chiesa universale”, che vengono elencando18; e si astengono dal suggerire norme particolari. Ma il modo di interpretare la tradizione ecclesiastica in questa materia, e il linguaggio usato nei riguardi degli Ebrei, ci aprono un prezioso spiraglio sui sentimenti dell’episcopato veneto.

Un solo vescovo dà un contenuto politico-civile alla questione che tutti gli altri preferiscono affrontare solo in termini teologici e canonici. È Bernardino Marin, che da oltre un quarto di secolo regge la diocesi di Treviso e, pur avendo giurato fedeltà al governo

17 Si v. il caso dell’ebrea sedicenne veneziana Rachele Della Torre che nel 1816 fugge di casa e va ai Catecumeni, dove i genitori ottengono il permesso di recarsi a farle visita; ma date le discussioni e liti che ne nascono, la concessione è revocata (A.S.V., Presidio di governo, 1815-1819, V 23/2 e 23/3). 18 Giambattista Falier, vescovo di Ceneda, s.d. al Governo, in A.S.V., Governo, 1817, XXXI 48. Tutta l’inchiesta sul battesimo degli Ebrei qui studiata ha questa collocazione. Sul Falier che, come la maggior parte dei vescovi veneti aveva giurato fedeltà al governo napoleonico, v. G. CORNEGGIA MEDICI, «Una pagina di politica ecclesiastica del Regno italico», Archivio storico lombardo, s. VII, LXI (1934), p.178n. Copioso e importante materiale sulla legislazione della Repubblica di Venezia in merito al battesimo degli Ebrei, venne raccolto in un’inchiesta condotta tra il 1817 e il 1818 (A.S.V., Governo, 1818, XXXI 26).

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napoleonico, ha dato sicuri segni di predilezione a quello austriaco19. Il prelato risponde concisamente perché nella sua giurisdizione non risiedono Ebrei, ma non rinunzia ad esprimere il suo parere a favore della libertà di culto:

Quello che sempreppiù impegnerà la vigilanza vescovile − egli scrive − ad allontanar gravissimi inconvenienti...sarà il principio adottato in tutti i regni catholici, cioè che non siano battezzati i figliuoli bambini ebrei col dissenso dei loro parenti, considerato questo genere d’ingiustizia non solo un peccato di religione, ma inoltre un delitto civile, massime dove agli Ebrei è garantita costituzionalmente la loro libertà di culto. (Marin al Governo di Venezia, Treviso, 12 novembre 1814)

Che i bambini non vadano strappati ai loro genitori per essere condotti al battesimo, lo

ammettono tutti i vescovi. Ma mentre Francesco Scipione Dondi dall’Orologio, che deve la sede episcopale della sua città natale, Padova, all’atteggiamento filofrancese dimostrato in anni difficili e che non gode la fiducia del nuovo governo, dice che questo fatto «fu mai sempre riguardato come un attentato enorme contro la dottrina ed il costume universale della Chiesa”20, il benedettino Innocenzo Maria Liruti di Verona, che ha anche lui dei trascorsi napoleonici da farsi perdonare ma ci riuscirà presto e bene (nel 1816 sarà l’unico vescovo veneto insignito da Francesco I della corona di ferro), ricorda sì la condanna della Chiesa a questa violenza, ma la vuol vedere applicata con molta indulgenza «giacchè si può credere che chi battezza tali infanti, lo faccia per buon fine ed indotto dall’ignoranza piuttosto che da malizia”. E questo vescovo accentua, assieme a quelli tra i suoi colleghi che sono più inclini a ripristinare le vecchie leggi e le vecchie esclusioni, il consenso della Chiesa per il battesimo forzato dei fanciulli ebrei quando siano in pericolo di vita21.

La posizione politica assunta da questi vescovi di fronte al governo napoleonico e a quello austriaco, non riesce a spiegarci il divergere dei loro giudizi di fronte al problema ebraico. E se possiamo supporre che chi suggeriva provvedimenti repressivi, ritenesse di 19 Sul Marin, che oltre a prestare il giuramento napoleonico, ricevette con grandi festeggiamenti nel 1809 le truppe austriache e lo stesso arciduca Giovanni che avevano occupato temporaneamente Treviso, v. l’interessante fascicolo in ARCHIVIO DI STATO, MILANO, Culto. P.M., busta 3009. 20 Dondi dall’Orologio al Governo, di Venezia, Padova, 22 novembre 1817. Su di lui A. G. BROTTO, Francesco Scipione march. Dondi dall’Orologio, vicario capitolare e vescovo di Padova, 1796-1819, Padova 1909. 21 Liruti al Governo, 2 dicembre 1814. Il Liruti ritiene inoltre, come del resto il vescovo di Chioggia e il vicario capitolare di Feltre, che la conversione della madre comporti automaticamente quella dei figli minori. In proposito il governo austriaco si orientò però in senso negativo e nel 1819 respinse, dopo un lungo carteggio, la richiesta del governo di Modena di far fermare dalla polizia e «passare in Catecumeni» i cinque figli di Angelo Sacerdoti, ebreo modenese, la cui moglie si era convertita (A.S.V., Presidio di governo, 1815-1819, V 23/6).

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riuscire gradito a Vienna (aspettativa o previsione che, come subito vedremo, non andò poi esaudita), la tradizione austriaca degli ultimi trent’anni non era però certamente volta in quel senso. Vescovi che − come il Marin − avevan visto con sollievo uscire sconfitte d’Italia le truppe francesi, non pensavano che la pietà cattolica di Francesco I dovesse necessariamente esprimersi con l’intolleranza religiosa. E molti prelati italiani sapevano che la politica giuseppina, quando fosse bene intesa, percorreva una strada opposta. Dal canto loro, l’imperatore e i suoi ministri avevano appreso quali mali potesse generare l’intolleranza in materia di religione, ed erano fermamente risoluti a non ritornare a ritroso sui passi di Giuseppe II. Quando la premazia della Chiesa cattolica sugli altri culti fosse stata ben chiaramente stabilita, questo, agli effetti religiosi e politici, bastava. Nel 1817 la legge italica del 1803 sarà dichiarata valida22, e ripetute circolari partiranno da Vienna per Venezia, raccomandando che la polizia sorvegli la Casa dei catecumeni, ed impedisca che vi siano compiute conversioni coatte23.

L’esclusione dalle cariche non sarà mai formalmente revocata ma presto le Camere di Commercio venete vedranno i loro organi direttivi popolarsi di mercanti e di finanzieri ebrei; e un paio di decenni dopo il ritorno degli Austriaci cessa di venire specificata nelle carte pubbliche l’appartenenza dei sudditi alla razza ebraica.

Questo cammino non ebbe tappe legislative, e non provocò più un così largo confronto di opinioni come si era avuto nei primi anni della Restaurazione. Ma venne naturalmente percorso sotto la spinta dell’enorme sviluppo economico che le aziende ebraiche, una volta liberatesi dalle leggi proibitive dell’ancien régime, seppero compiere. E il governo austriaco era troppo attento al significato politico della ricchezza per insistere in una discriminazione di religione e di razza che aveva perso ai suoi occhi ogni opportunità. Ma prendere questo avvio non fu impresa facile né immediata; e, dopo aver letto le relazioni dei prefetti e i pareri dei vescovi, gioverà vedere come il potere civile e quello laico agissero di fronte ai concreti problemi del mondo ebraico. A questo scopo potrà riuscire di

22 La notificazione 3 marzo 1817 del Governo di Milano confermava il regolamento italico 30 gennaio 1803 «siccome derivato dalle disposizioni prescritte per la Lombardia negli anni 1783 e 1791 dagli augusti imperatori Giuseppe II e Leopoldo II» (Raccolta degli Atti del Governo e delle disposizioni generali, Milano 1817, I, pp. 59-60; e allegato il regolamento del 1803, pp. 63-66). 23 Le numerose circolari sono conservate nel fascicolo dell’inchiesta; v. in partic. il Presidio alla Direzione generale di polizia e al priore dei catecumeni, 19 novembre 1817. Il 2 settembre 1817 il Governo veneto aveva emanato la notificazione «che in tutti i casi ne’ quali i genitori ebrei, gli avi ed i tutori si credano in diritto di opporsi perché i loro figli, nipoti e pupilli si presentino da se stessi o sieno presentati da altri al battesimo Cristiani, se ne debba tosto rendere informato questo i.r. Governo, dal quale si dovrà attendere la prescrizione di ciò che dovrà farsi» (Collezione di leggi e regolamenti pubblicati dall’i.r. Governo delle provincie venete, Venezia 1817 II, p. 184).

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interesse soffermarci ancora un attimo su di un episodio che, avvenuto a Venezia nel 1817, mise alla prova dei fatti le posizioni di principio che abbiamo visto sin qui.

Il 25 settembre del 1817, «circondata ed assistita da ebrei”, in una casa del popoloso ghetto di Venezia moriva Venturina Angeli, moglie di Simeone Gallico, e all’indomani il suo cadavere, col consenso del rabbino capo Cracovia, era sepolto nel cimitero ebraico del Lido. Perchè tanta fretta? La mesta cerimonia era stata infatti celebrata nonostante la richiesta di sospensione fatta dal parroco di San Geremia. «La loquace popolazione del Sestiere di Canalregio” sapeva infatti benissimo che i coniugi Gallico, sebbene vivessero nella più stretta ortodossia ebraica, e Simeone ricoprisse cariche di comunità, erano entrambi battezzati; e sin dal 1797 avevano assunto il nome di Lecchi alla Casa dei catecumeni di Venezia. Ma presto avevano ripreso a vivere secondo il costume dei padri, e quasi certamente avevano ormai cancellato con un’abiura quel loro lontano e certo non sentito battesimo; loro figlia Fioretta, sin dal lontano 1799, è stata regolarmente iscritta col nome di Gallico nei registri della comunità ebraica di Mantova, dove la famiglia si era trasferita.

«Al primo rumore sparsosi nel circondario di Canalregio accagionato da questa avvenimento, Simeone Gallico abbandonò Venezia”. La Direzione generale di polizia lo riteneva infatti «prevenuto di propagata falsa dottrina, contraria alla cristiana religione verso la propria figlia”, e proponeva l’arresto preventivo con apertura di procedimento penale. Sulla colpevolezza di Simeone, e sull’opportunità di lasciar riposare la salma di Venturina al cimitero ebraico poiché, morta «senza curarsi neppure nell’ultimo periodo della sua vita di soddisfare ai doveri di cristiana, non meritarebbe certamente di essere tramutata nel luogo destinato per cattolici”, Governo e polizia si trovarono d’accordo24, ma il problema più delicato era quello di decidere la sorte di Fioretta, diciottenne e quindi in età di giudizio, figlia di cristiani ma iscritta ad una Comunità ebraica. Il caso era senza precedenti, e non appariva compreso nella notificazione 2 settembre 1817 che autorizzava genitori e tutori ebrei a intervenire sul battesimo di minori, perché i Gallico-Lecchi risultavano cristiani. «Videat il cons. Farina” scrisse di suo pugno il governatore conte Goëss sulla proposta fatta da un segretario di rinchiudere la fanciulla ai Catecumeni25: e la pratica passava così nelle mani dell’abate Modesto Farina, responsabile del dipartimento

24 La vicenda è narrata da due dispacci al Presidio del direttore generale di Polizia Anton von Vogl, 9 e 23 ottobre 1817; dalla risposta del Presidio 4 novembre 1817 è tratta la frase citata in testo. Questi, e i successivi documenti sul Caso Gallico, in A.S.V., Presidio di governo, 1815-1819, V 23/4. 25 Rapporto di Governo 19 novembre 1817.

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per il culto nel Consiglio di governo26. Questo uomo di chiesa che copre elevate mansioni amministrative e che nel novembre del 1820 salirà sulla cattedra vescovile di Padova conservandola, tra venti e bufere, sino al 1856, è un ticinese che si è formato nell’ambiente giansenista pavese di fine secolo, ed è poi passato a servire nel Ministerio del culto italico. Appartiene quindi al gruppo dei funzionari napoleonici che l’Austria ha mantenuto in servizio, e benché in una sua scrittura di questi mesi parli «del fanatismo e della perfidia ebraica”27 e si batta per garantire l’indiscussa preminenza della Chiesa cattolica, ha fermissima nel cuore una immagine giuseppina della tolleranza.

In questa intricata circostanza il Farina dunque richiese il parere del patriarca di Venezia, di fresco asceso alla carica, Francesco Maria Milesi. La risposta che ne ottenne non dovette piacergli: agli occhi del prelato la vicenda dei Gallico era solo l’ultimo episodio di una massiccia offensiva scatenata dagli Ebrei veneziani contro la fede cattolica, sotto il distratto e consenziente occhio del governo. Catecumeni circuiti dai parenti e ritornati alla prima perdizione, domestiche cristiane indotte a ‘giudaizzare’ dai loro padroni, scandali a non finire in tutte le contrade prossime al Ghetto. Per il Milesi, le misure da assumere erano chiare: Simeone in carcere; Fioretta ai Catecumeni; e Venturina dove già era, al cimitero ebraico28.

Ma per Farina le cose erano molto meno semplici che per il patriarca. Se gli Ebrei facevano propaganda, questo doveva essere accertato e, al caso, energicarnente impedito; ma intanto bisognava censurare uno dei più veri responsabili dell’incredibile episodio, il parroco di S. Geremia che non aveva badato alla salvezza dell’anima di Venturina, pur essendo a tutti noto che era battezzata. E quanto a Fioretta non la si poteva certo rinchiudere di forza ai Catecumeni, ma occorreva interpellarla sulle sue intenzioni. Convocata alla Direzione di polizia, la fanciulla vi comparve accompagnata dai familiari e dal rabbino, e dichiarò «spontaneamente di voler continuare a vivere da ebrea, come nacque e come vuole morire”29.

26 Notizie sul Farina in C. v. WÜRZBACH, Biographisches Lexikon, Wien 1858, IV, pp.145-146. Qualche elemento sulla sua attività in periodo italico in G. BONICELLI, Rivoluzione e Restaurazione a Bergamo, Bergamo 1961, pp. 196, 200-201. 27 L’espressione ricorre in un’istruzione inviata il 3 dicembre 1817 da Farina alla Direzione generale di polizia sul problema dei catecumeni (A.S.V., Governo, 1817, XXXI 48). 28 Milesi al Presidio, 14 novembre 1817; il documento è pubblicato in appendice. Il Milesi era stato nominato patriarca di Venezia l’8 dicembre 1815 su designazione governativa, e vincendo la resistenza papale: i documenti della controversia in F. MAASS, Der Josephinismus, Wien-München 1957, pp. 517, 522, 539, 543, 545. 29 Rescritto di Farina 26 novembre 1817; e Costituto di polizia 6 febbraio 1818. In questo documento compaiono le due forme Fioretta e Fiorina.

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Nel ricevere questo rapporto, Farina insiste ancora perché gli sembra «che non si possa aver motivo di rimanere tranquilli”. La «soave tolleranza politica” voluta dalle leggi austriache, è stata male intesa dalla polizia che deve convocare Fioretta davanti ad una commissione mista, di rabbini e di preti cattolici, ma «presieduta da un delegato politico”, così che le vengano illustrate e proposte le due diverse fedi religiose da entrambe le parti, «sempre in via d’insinuazione, esclusa ogni minaccia e violenza”30.

Invitato a designare i delegati cattolici, il patriarca rifiuta seccamente di farlo, essendo «troppo disdicente ed alla nostra religione ed al sacerdotale carattere il mettersi in colisione ed in confronto della scomunicata Sinagoga”. Farina replica su due piani. Su quello legale, l’esclusione degli ebrei dall’esperimento proposto «si opporrebbe in qualche modo alle massime di tolleranza fissate nella sovrana patente di Giuseppe II di gloriosa memoria”. Ma soprattutto, in una prospettiva di ben intesa dottrina cristiana

non si sa vedere, come dall’intervento degli ebrei possa venir compromessa la santità della religione cattolica, che non teme confronti, e come disdica al carattere sacerdotale il trovarsi per così eminente oggetto coi maestri dell’ebraismo, mentre il Salvatore medesimo non si astenne dal conversare coi Farisei e coi Samaritani, scomunicati egualmente che l’attuale Sinagoga, qualunque volta trattossi d’illuminarli ed istruirli.31

La rivendicazione dei diritti civili degli ebrei, intesa dal governo napoleonico come riforma politica e volta a rendere uguali di fronte alle leggi dello Stato tutti i suoi cittadini, era un concetto che il governo austriaco della Restaurazione non poteva accogliere in un’accezione così innovatrice. Prese di posizione come quella assunta ora dal Farina spiegano però molto bene sino a che punto si fosse disposti ad arrivare: la persecuzione religiosa era contraria non solo alle norme del buon governo, ma soprattutto allo spirito cristiano. Gli Ebrei sono pertinaci nell’errore e non possono quindi esercitare mansioni pubbliche perchè servirebbero male il Sovrano e diffonderebbero con troppa autorità i loro principi; ma sin che vivono nell’ambito delle leggi, devono venir tollerati e poter svolgere, senza molestia, i loro riti e la loro attività. Avvalendosi di queste ancora limitate, ma gia precise concessioni, gli ebrei diventeranno una delle forze animatrici della borghesia liberale veneta nel movimento unitario.

30 Farina, rapporto 22 febbraio 1818. 31 Milesi al Presidio, 2 marzo 1818, e Farina, controfirmato da Goëss, a Milesi 4 marzo 1818. Con questo documento si chiude il fascicolo riguardante il caso Gallico.

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DOCUMENTI

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Al Presidio dell’eccelso Governo Generale civile e militare di Venezia

Poche, e disperse in più comuni sono le famiglie ebree che vivono in questo Dipartimento, e sono queste:

- La famiglia Caprileis, che domicilia ad un mezzo miglio dalla città nel colmello detto Chiavris: è questa composta di due fratelli, uno dei quali ammogliato ed avente un figlio, della vecchia loro madre, e di alcuni domestici.

Ricca di capitali e proprietaria anche dei fondi, questa famiglia ha sempre fatto un ottimo uso delle sue agiatezze a tale che gl’individui della medesima non che rispettati e stimati universalmente ed amati pur anco in ispecie dai poveri, sono ammessi senza distinzione ed osservazione nelle principali famiglie.

- La famiglia Luzzato Samuele dimora a Tarcento nel cantone di Gemona. Sei femmine e quattro maschii, due dei quali maggiori degli anni 60, compongono la famiglia. La famiglia stessa esercita la mercatura, tiene una filanda di seta ed una bottega di panni, tele, commestibili, generi di privativa, e pochi legnami da fabbrica: ha pure una piccola possidenza in caseggiati per scudi 267.3/4 ed in fondi per scudi 166. Questa famiglia è in generale in buona opinione, giacché il contegno nelle speculazioni è conveniente e discreto, ed affida facilmente sovvenzioni a povere persone senza chiederne gravi usure.

- In S. Daniele vivono: la vedova Tamar Luzzato con una figlia, e vi fa professione di rigattiera; la famiglia di Simoni Gentile, ch’è composta dal Simon stesso, di sua moglie, tre figli ed una figlia, e che professa la mercatura, ma in piccola entità; David Luzzato individuo solo, povero, e senza professione. Tutte queste famiglie hanno presso la più sana parte della popolazione un’opinione favorevole.

Tali sono le notizie che si possono dalla Prefettura esibire sul numero degli Ebrei esistenti in Dipartimento, i quali essendo pochi, e contenendosi lodevolmente non sono per consequenza né invisi, né spregievoli ad alcuna classe di cittadini. Che se deve soggiugnere il proprio avviso sulla convenienza o no di accordare agli Ebrei l’acquisto di proprietà fondiarie propende per l’affermativa per le seguenti considerazioni.

Furono mai sempre accusati gli Ebrei di essere dediti alle usure ed a contratti di sovrabbondante guadagno, a speculazioni inoneste e rovinose. Non si nega essere ciò accaduto le molte volte, ma non si è avvertito per tante altre all’indiscretezza dei debitori, che valendosi dell’opinione sfavorevole delle popolazioni verso gli Ebrei, tentarono discreditare così quegli stessi individui, da cui ad ogni modo erano un tempo stati soccorsi. D’altro lato, fino a che un’odiosa linea separava lo stato sociale degli Ebrei dagli altri, ed

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escludeva i primi da quegli atti civili ch’erano permessi al rimanente, era ben facile che gli Ebrei tentassero di compensarsi nei loro guadagni dell’avvilimento in cui erano messi, giacché l’accumulazione delle ricchezze offriva loro mezzi di diminuire almeno questo stato d’avvilimento. Giova anco avvertire che il mercante, a cui manca la prospettiva di un miglioramento sociale, deve confinare le sue viste al solo interesse del numerario, e questa potente passione si accresce ed in ragione diretta dei mezzi che capacitano una maggiore latitudine di guadagno. ed in ragione contraria dell’occasione di dispendio. Separati un tempo gli Ebrei con leggi che loro prescrivevano e vestiti ed abitazioni, e li confinavano in dati spazi di un paese, esposti a tutto soffrire dagli altri, non potevano e non dovevano essere cittadini né buoni, né utili. Ma dacché da mezzo secolo si allentarono le massime di rigore onde erano tollerati, gli Ebrei divennero eglino stessi migliori, e fatti capaci a molti atti civili, fra quali non ultimo si è quello di possedere, collegarono la sorte del loro patrimonio a quella dello Stato, sentirono per la prima volta di avere pur eglino un paese e si poterono esigere da loro dei sagrifizi.

Che se pure da alcuni si continua nel dannato abuso della usura, persuade che se ne debbano, anziché altro, incolpare le circostanze, il vedere che sono in ciò incitati e forse con peggiori misure da moltissimi non Ebrei, dovendo credersi che dall’una la moltitudine delle ricerche di denaro e dall’altra la mancanza di questa merce, ne faccia come di tutte le altre accrescere il prezzo, che appunto nell’interesse consiste.

Nella considerazione pertanto che accordando agli Ebrei l’acquisto di beni immobili si diffonde in una circolazione più universale il denaro nelle loro mani accumulato, si giova col diminuire agli Ebrei i mezzi onde si accusano di abusare, si giova pure allo Stato nella moltiplicazione di questi nuovi proprietari e si migliora la condizione di una classe d’individui, opina il sottoscritto che debb’accordarsi agli Ebrei la facoltà di acquistare beni immobili senza restrizione.

Colla segretezza che mi è imposta e colla sincerità rispettosa che credo doversi rimpetto alle Autorità Superiori, riscontro così il dispaccio 18 giugno No. 2569 P.P., ritenendo a mia norma e contegno quanto sulla esclusione degli Ebrei dagli impieghi è col medesimo prescritto.

Udine, li 6 luglio 1815

Il consigliere di prefettura

f.f. di Prefetto

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L’imperial regia cesarea Prefettura provvisoria del dipartimento dell’Adige Verona, il 13 agosto 1815 Al Presidio dell’eccelso Governo generale di Venezia

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Rapporto sullo stato attuale degli Ebrei e sopra le mutazioni da farsi riguardo ai diritti che per le leggi del Governo italiano godono tuttora.

Gli Ebrei ebbero il permesso d’abitare per la prima volta Verona nel 1408. Lo Statuto

nostro1 al libro 1, capitolo 37, ordinava che per evitare gli scandali da essi provenienti dovessero portare un determinato segno nel vestito, il quale dagli altri li distinguesse, ed al capitolo 36 erano minacciate pene di multa o di bando agli usurai, tra quali vengono gli Ebrei distintamente nominati. Ma inutili fin da quel tempo riuscirono le provvidenze delle leggi, ed a tal punto portarono essi le loro immoderate usure che nel 1499 vennero cacciati e solo nel 1598, dopo un secolo, furono di nuovo ricevuti altri Ebrei d’altra origine. Erano questi privi d’ogni diritto di cittadinanza ed era loro determinato per domicilio il circondario del ghetto, nel quale la notte venivano rinchiusi. Ristretti tra questi confini e sorvegliati dalla pubblica autorità, piccoli erano i vantaggi che loro proveniva dal commercio limitato; e quindi poveri erano generalmente nel nostro paese ed il popolo mostrò per essi la più densa avversione.

Così continuò lo stato loro fino a che, stabilitosi il Governo francese ed il Regno italico, successivamente furono gli Ebrei elevati al grado di cittadini e venne reso libero del tutto il loro commercio. Si viddero allora sedere per la prima volta dai pubblici impieghi, e tutto ciò che condusse un moltiplice numero di famiglie le più distinte di Verona al decadimento, servì per questi di scalino per elevarsi ad un grado non prima da loro conosciuto di opulenza. Quindi le guerre aprirono loro l’adito alle forniture delle armate, i saccheggi alla compra degli effetti dal soldato derubati nelle campagne, i frequenti cambiamenti di sistemi monetari il lucro ed il monopolio delle monete, l’avvocazione dei beni demaniali rese molti Ebrei possidenti, i quali con poco, molto comprarono: l’incarimento dei generi di prima necessità fornì loro i mezzi del più frodolento incettamento, e la sensibile diminuzione del numerario facilitò ad essi le più immoderate usure ed i contratti i più inonesti.

È per queste tante vie loro aperte nello spazio di ben vent’anni del più astuto commercio, che il loro stato attuale è floridissimo e molta parte del denaro del paese si trova presentemente nelle loro mani.

Il loro numero è di circa novecento e sebbene loro sia concesso l’uscire ad abitare fuori di ghetto, pure a riserva di pochi, gli altri non hanno peranche2 di abbandonare le prime loro abitazioni, sia per interno timore di poter venir novellamente ricondotti in queste da

1 Statutorum Magnificae Civitatis Veronae libri V, Venezia 1747, pp. 14-15. 2 Manca nel testo una parola: «occasione», «modo», «possibilità» o altra simile.

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governative disposizioni, sia perché i nostri si risolvono dificilmente a contrattare con loro le proprie case. Per quanto mi fu possibile di rilevare, non avendo potuto ordinare un esatto spoglio dai libri censuari per mantenere la raccomandata segretezza dal venerato dispaccio N. 2669 / P.P., la possidenza degli Ebrei abitanti in Verona ascende in questa provincia a scudi censuari centomille circa, le loro case nel ghetto a scudi 3835 e fuor di ghetto a scudi 1445.

Furono gli Ebrei costantemente attaccati al passato governo: essi furono mai sempre i maggiori encomiatori delle operazioni di questo ed i primi a spargere le vittorie delle armate francesi. La loro allegrezza ed il loro triste aspetto erano por lo più i segnali dei prosperi e degli avversi successi di quelle. Nell’ultima fuga di Napoleone non lasciarono di far travvedere gl’interni loro sentimenti e desideri.

È questo lo stato morale e politico degli Ebrei di Verona: ad onta però della cangiata fortuna si mantiene non pertanto l’opinione contraria a loro d’ogni classe della popolazione. Il popolo di Verona, dedito alla Religione che dai suoi antenati gli fu tramandata, vede mal volontieri abitar gli Ebrei misti con lui, e giornalmente palesa il desiderio di vederli ristretti negli antichi loro limiti. Le nostre autorità ecclesiastiche reclamano contro gl’illimitati diritti concessi agli Ebrei, perché veggono con dolore gl’inconvenienti e gli scandali che nascono per cagione di questi e nella città e nella campagna singolarmente, ove bene spesso le chiese consacrate al culto cattolico passate in proprietà di essi unitamente ai beni comperati, rimangono spoglie dei dovuti onori, e colà non vengono seguiti neanche bene spesso quegli obblighi che da antichi testatori furono stabiliti per lo sussidio spirituale di quelle unioni di contadini, che con sommo danno del costume e della morale ne rimangono privi. Anche l’autorità municipale in molte occasioni va provando gl’inconvenienti, che gli Ebrei non siano più in un sol luogo riuniti, e non formino come per l’avanti un sol corpo, che veniva rappresentato da una così detta Università, alla quale in ogni occorrenza dirigevansi le autorità della città.

E certamente questi provvedimenti tanto generalmente desiderati, i quali pongano freno agli Ebrei, sono a mio parere necessari. Me ne persuade il consenso di tanti diversi Principi, che persuasi di ciò compressero sempre il potere di questa vagante nazione; quello di tanti popoli, da una in l’altra trasfusero il loro disprezzo per questa, e finalmente l’esperienza, che dev’essere d’ogni cosa la maestra: dessa ci dimostrò nei vent’anni trascorsi che gli Ebrei, invece d’impiegare le proprie ricchezze in quei rami d’industria che mantenendo in un perpetuo giro il numerario in tutta la società, producono poi il benessere e la forza delle nazioni, hanno per opposto cercato e cercano tuttora anche colle vie più indirette di andar concentrando questo numerario tra loro esclusivamente, ed impoverirne le altre classi della popolazione.

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A tre oggetti debbono perciò a mio avviso tendere questi provvedimenti: primieramente ad impedir loro la cariera degli onori onde ovviare ai danni che ne potrebbero arrivare accopiandoli questa gente astuta alle ricchezze e in secondo luogo a convertire il loro commercio in utilità di tutta la società: in terzo luogo ad invigilare attentamente acciocché sieno da tutti gl’individui di questa nazione osservate quelle mutazioni, che a comun bene si crederà dall’autorità superiore di richiamare in pratica.

Per ottener questi tre oggetti, tre mutazioni richieggonsi nello stato presente degli Ebrei: I) che sieno esclusi dagl’impieghi e civili e militari di qualunque specie, e che sia

loro vietato il possedere in avvenire beni immobili. II) che sia vietato loro il commercio dei grani ed il far pegni. III) che sieno ridotti nuovamente uniti nel ghetto, obbligandoli a riattivare la loro

Università che li rappresenti, e verso la quale si possan rivolgere le autorità ogni qualvolta le circostanze il dimandino.

La prima delle proposte mutazioni porta seco di necessaria conseguenza che sarebbe opportunissimo il sospendere loro nuove compre di beni stabili fino a nuove superiori determinazionì, giacché così quando al Governo piacesse di riattivare le proposte cose e in Verona e nelle altre venete provincie sarebbe vieppiù facile il porle con maggior prontezza in esecuzione.

Il prefetto provvisorio

Antonio Maffei

3 Alle’eccelso cesareo regio Presidio di Governo il rabbino degl’israeliti

Le reiterate rimostranze de’ poveri professanti il mio culto, ed alla mia cura

racomandati, sempre esclusi da tutte le beneficenze di cui godono li altri poveri della città, quantunque li benestanti del culto stesso siano sempre cogl’altri simultaneamente concorsi

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con le offerte che servirono di fondo alle tassazioni stesse; ciò che è accaduto anche nel recente provedimento per il bando delle mendecità: non potei dispensarmi di farmi organo delle giuste lagnanze di questi miseri con divotto ricorso da me prodotto alla cesarea regia Comissione di beneficenza e che mi credetti in dovere di parteciparlo a questa ossequiatissima eccelsa Autorità.

Quando attendevo che ricercato mi fosse l’ellenco de’ miei poveri per farli essi pure godere delle cesaree regie guberniali et urbane beneficenze, contro ogni mia aspettazione mi pervenne una risposta la quale in ultima analisi tende a ritener ferma per li poveri israeliti la divisata esclusione.

Nell’umiliare di questa risposta l’unita copia con tutta la maggior riverenza, mi permetto di opponere gli assunti su cui è dessa basata. Il primo di questi è che siccome la Comissione di Pubblica beneficenza, preceduta dal capo della religione cattolica, si è rigorosamente attenuta alle trace segnate dall’Autorità superiore, non incombeva perciò ad essa l’ingerenza sui poveri di altra comunità.

Basta arricordare alcuni passi della caritatevole paterna ed aurea nottificazione 22 giugno anno corrente decorata dalle firme rispettabilissime delle LL.EE. Sig. Conte Governatore e Sig. Conte Vice Pressidente per riconoscere quanto innappoggiato sia questo assunto. Il contesto della notificazione tutta parla sempre delli poveri di Venezia, in generale, ma segnatamente nell’articolo terzo così si esprime. «Tutti li poveri della città di Venezia che per qualunque causa non fosseno ricovrati ne’ pii stabilimenti saranno soccorsi a norma delli rispettivi bisogni dalla sudetta Comisione Generale di beneficenza ed a suoi cooperatori in modo che la loro sussistenza sia sicurata entro però i limiti del necessario”.

Se la diversità del culto è una causa per cui li poveri Israeliti non possono esser ricovrati ne’ pii stabilimenti, milita però a loro favore l’altra parte della providenza di dover esser soccorsi a norma delli rispettivi loro bisogni.

Si fa cenno delli altri poveri non conformisti che si annunziano ancor essi come esclusi. Io so d’altronde che li protestanti sono un ristretto numero di famiglie negozianti e che non esistono fra essi mendichi. Lo stesso è dei Greci, non paragonabili né l’uno né l’altro cogl’Israeliti la di cui comunità da immemorabili epoche qui piantata, e che non conoscono altra patria che questa.

Si asserisce finalmente che gl’Israeliti furono esclusi da questa beneficenza anche nell’anno 1812; a convincimento di questa introduzione si produce un documento potuto ritrovarsi da uno degl’in allora beneficati non rinvenuti gli altri perché mancati a’ vivi senza aver lasciato posterità.

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Da tutto il rassegnato conoscerà la saggezza, la carità e la giustizia dell’eccelso Presidio di Governo quanto sia questa esclusione in oposizione con li principi filantropici, caritatevoli ed umani che sono le gemme che fregiano la corona dell’augusto Monarca e vorrà quindi degnarsi chi con tanto merito ed onore funge le di lui vece di emmendare le scorse omissioni e paralisare anche li poveri israeliti agl’altri poveri felicissimi sudditi di Cesare, che è il votto dell’umilissimo petente il quale col più profondo ossequio si rassegna.

Venezia, 22 agosto 1817

dev.mo obblig.mo servitore Jacob Emanuel Cracovia Rabino

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Eccelso Imperiale Regio Presidio Se con tanto zelo ed impegno si è interessato cotesto Eccelso i.r. Presidio del disordine

seguito nella tumulazione nel cimitero ebraico del cadavere di Catterina Maria Lecchi, battezzata col di lei marito nell’anno 1797 in questo pio luogo de’ Catecumeni, rendendomi

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istrutto con ossequiato suo dispaccio n. 3984 p.p., 6 corrente dell’analoga assuntasi inquisizione di questa Direzione generale di polizia ed accompagnandomi gli allegati relativi (che mi dò l’onore di fargli la reversione) non sarà al certo meno animato a calcolare i riflessi che la pastorale doverosa mia sollecitudine m’impone di rassegnargli onde, risolvere quanto la di lui saviezza e giustizia sarà in proposito per suggerirgli, ed alla riparazione de’ futuri scandali ed a difesa dell’augustissima nostra cattolica religione.

Senza entrare nelle misure prese contro i delinquenti costituiti, di cui fa menzione il processo pontico, e nelle provvidenze emanate per l’apostasia del marito della defunta, le quali non posso che restarne convinto. Ognuno sa, e particolarmente coloro che presiedono all’eccelso Presidio, che la riprovevole maliziosa condotta degli Ebrei nel presente caso non poteva essere in altra guisa giusitificata che colla costante loro asserzione d’ignorare che la defunta fosse stata battezzata. Di siffatta affettata ignoranza però io non posso rispettare ed applaudire, mi fo coraggio di sottoporre al savio giudizio dei Catecumeni, quale sia l’astuzia usata dagli Ebrei allorché avviene che taluno della loro nazione ama di ricevere il santo battesimo. Successe talvolta di far comparire un altro spinto dallo stesso simulato desiderio di farsi cristiano, la di cui incombenza però non era che di sedurre il ben intenzionato, rimoverlo, come riuscì, dal santo pensiero. Ognuno sa quanti denari vanno spendendo in simili circostanze per ritirare i convertiti dal loro proposito. Niuno ignora quali scomuniche e maledizioni avventano nelle sinagoghe contro coloro che si mantengono perseveranti e ricevono le acque sacramentali. Sono abbastanza note le proteste, le ritrattazioni, le rinuncie, le imprecazioni contro il battesimo che esigono da coloro che da cattolici rientrano a far parte delle loro Pratiche di ebraismo. E dovrassi credere nel caso nostro che gli Ebrei ignorassero il battesimo ricevuto dai mentovati coniugi Lecchi? A parer mio, l’allegata ignoranza non è che un’aperta menzogna. Tanto è vero che non potevano gli Ebrei ignorare tale circostanza, essendo nota anche al vicino bettoliere cattolico che, successa la morte della predetta Catterina, ne diede avviso al nonzolo di San Geremia. Tanto è vero, che una donna cattolica, a servigio di uno de’gastaldi ebrei, disse al vicario Guernieri che la sua padrona esultava sapendo che la neofita Lecchi veniva sepolta al Lido al cimitero ebraico, accusando in pari tempo i cattolici della poca cura che avevano dei loro battezzati. Tanto è vero finalmente, che il nonzolo ebreo Moisé Della Torre, tutto che avvertito da quello di San Geremia che la defunta era cattolica, appena giorno si affrettò di portarla al Lido. E come mai poteva sfuggire dall’occhio vigilante degli Ebrei, che sì questa che il di lei marito fossero battezzati, essendo persone così note al Ghetto specialmente per la rimarchevole circostanza d’essere doviziose nell’epoca della loro conversione alla cattolica fede? Ma tiriamo un velo sull’infelice donna, della quale, quantunque non vi esista un argomento od

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atto autentico della di lei apostasia, supposto vero quanto asseriscono gli Ebrei, si può presumere che abbia abiurato il cattolicismo, ed abbracciata di nuovo l’ebraica superstizione, motivo per cui non si potrebbe seppellire nel cimitero cattolico senza renderlo polluto ed interdetto.

Ciò che più m’importa in questo emergente, e che mi eccita ad interessare come pastore l’Eccelso Presidio, si è di dare una sollecita provvidenza, onde sia tolta dalle mani degli Ebrei la figlia nata dai surriferiti coniugi cattolici, giacché scorge e rileva benissimo lo stesso Eccelso Presidio quanto disdica e sia ingiusto il lasciar tale figlia, che conta anni 19 di sua età, in ballia della sinagoga, supplicando parimenti la giustizia presidiale a pubblicare efficaci e severe discipline onde contenere e raffrenare l’ebraica condotta in fatto di religione, poiché se l’Augusto nostro Sovrano ha saviamente con provide leggi voluto stabilire discipline per gli Ebrei che intendono abbracciare la religione cattolica, son certo che come protettore della medesima vorrà che ve ne siano eguali per non essere i cattolici fra gi israeliti accolti con tanta libertà e impunemente; onde la religione cattolica, che è la sola vera e divina, non abbia ad essere di peggior condizione dell’ebraica, nella quale purtroppo vi si troverebbe quando che si permettesse agli Ebrei di accettare i cattolici a professar l’ebraismo, immuni d’ogni legge e d’ogni castigo.

Da questa impune libertà nacque appunto il gravissimo disordine e l’apostasia de’coniugi Lecchi, e la commovente deplorabile situazione della loro figlia che, nata da essi essendo cattolici, trovasi ora in seno della scomunicata sinagoga. Né questo è il solo caso che avviene. Parecchi altri ne avrei, se non mi credessi molesto a numerarli; mi restringo però ad uno segnatamente, della di cui fama ne è piena la città.

Certa Elena Nasocchio Poni cattolica, sedotta dall’ebreo Vita Levi ammogliato, fu condotta in ghetto, dove dimorò pel corso di 15 anni, mantenendo riprovevole commercio col seduttore, da cui nacque una figlia che ora trovasi altrove. Tutto che ella al presente siasi ravveduta, abbandonando la nefanda amicizia, pure viene spesso tentata e dall’ebreo indicato e da tanti altri, che usano tutti i mezzi di seduzione per farnela ricadere. Di tale nefandità ne sono istrutto ed in voce ed in iscritto dal pievano di San Felice, e non ignoro che, se non si fosse prestato con caritatevole zelo l’ottimo ed impareggiabile sacerdote Marino da Cadore, già cappuccino, che la tolse dal ghetto, sarebbe la sventurata tuttavia nelle fauci dell’Averno. Così pure avviene, con amarezza del mio cuore, di tante altre, che gli Ebrei, col pretesto di prenderle per donne di servizio, non fanno che fomentare la loro lussuria, e tentare di farle giudaizzare: disordini che ora spesso succedono con tanto più di facilità, a parer mio, in quanto che il viver sparsi fuori del ghetto somministra loro più opportuna e favorevole occasione.

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Scuserà l’Eccelso i.r. Presidio se, in qualità di pastore, il di cui dovere è di difendere con tutta la possibile energia la causa della religione e di procurare a tutta possa la salute dell’amato gregge affidatogli, espongo questi miei sentimenti con tanta schiettezza e libertà, dei quali parimenti animata la pietà e la giustizia dell’Eccelso Presidio, spero che accogliendo umanamente le mie fervide istanze, prenderà tutto l’interessamento, onde siano riparati disordini sì insopportabili ed esecrandi.

Venezia dalla provvisoria residenza patriarcale, li 14 novembre 1871

Francesco, patriarca di Venezia