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Percorsi 87

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ANTROPOLOGIA

Serie diretta da Francesco Remotti

VOLUMI PUBBLICATI

Stefano AllovioLa foresta di alleanze.Popoli e riti in Africa equatoriale

Pier Paolo ViazzoIntroduzione all’antropologia storica

Leonardo PiasereL’etnografo imperfetto.Esperienza e cognizione in antropologia

Adriano FavoleResti di umanità.Vita sociale del corpo dopo la morte

Alessandro GusmanAntropologia dell’olfatto

Leonardo PiasereI rom d’Europa.Una storia moderna

Chiara PussettiPoetica delle emozioni.I Bijagó della Guinea Bissau

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Editori Laterza

Chiara Pussetti

Poetica delle emozioniI Bijagó della Guinea Bissau

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Proprietà letteraria riservataGius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nell’ottobre 2005Poligrafico Dehoniano -Stabilimento di Bariper conto dellaGius. Laterza & Figli SpaCL 20-7804-1ISBN 88-420-7804-7

© 2005, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2005

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Prefazione

Manca

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Ringraziamenti

Questo libro nasce dalla mia tesi di dottorato in «Antropologia Cul-turale ed Etnologia. Teoria e Pratica della Ricerca» presso il Dipar-timento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Terri-toriali dell’Università degli Studi di Torino. È impossibile ringrazia-re tutti coloro che hanno contribuito, direttamente e indirettamen-te, alla realizzazione di questo libro. Il maggiore debito è sicura-mente nei confronti delle persone della comunità di Bubaque, chehanno avuto la pazienza di sopportare la mia presenza nel villaggiodi Bijante e nella loro vita: senza la loro disponibilità e generositàquesta ricerca non sarebbe stata possibile. In particolare la mia ri-conoscenza va a Pedro, Duminga e Tcharte Banca, Teté, Koká,Obennó, Babú, Nabon’a, per aver reso il mio lavoro un’esperienzaemotivamente e intellettualmente coinvolgente e significativa; aRaoul e Mam per il calore umano e l’ottima cucina; a Luigi Scan-tamburlo, per il sostegno e la consulenza linguistica.

Tengo inoltre a ringraziare le istituzioni che mi hanno messo nel-le condizioni di poter svolgere le mie ricerche nel migliore dei modi,in particolare l’Instituto Nacional de Estudos e Pesquisa di Bissau,la Facoltà di Antropologia Sociale e il Centro di Studi Africanidell’Instituto Superior de Ciências do Trabalho e da Empresa (ISC-TE) di Lisbona, il Dipartimento di Scienze Antropologiche, Ar-cheologiche e Storico-Territoriali dell’Università di Torino, la Mis-sione Etnologica in Bénin e Africa Occidentale, co-finanziata dal Mi-nistero Italiano degli Affari Esteri e dal Dipartimento di Studi Uma-nistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale.

Su un piano più personale la mia gratitudine va agli amici, ai col-leghi e ai docenti, con i quali ho avuto modo di discutere e confron-tarmi con grande profitto. Tra questi, tengo a ricordare il prof. Ro-bert Rowland per avermi accolta nel programma di dottorato

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dell’I.S.C.T.E. di Lisbona durante l’anno accademico 1999-2000; ilMaestro Sergio Pugnalin per la consulenza etnomusicologica; ladott.ssa Cecilia Pennacini, la dott.ssa Alice Bellagamba, la prof.ssaFlavia Cuturi, il prof. Roberto Beneduce e il dott. Francesco Vac-chiano per l’attenzione, la disponibilità al dibattito e i suggerimentibibliografici. Un ringraziamento particolare al prof. Ugo Fabietti, alprof. Leonardo Piasere e al prof. Pier Giorgio Solinas, che hanno let-to il mio lavoro con estrema attenzione, arricchendolo con osserva-zioni e suggerimenti preziosi. Ho inoltre un debito personale neiconfronti del prof. Pier Paolo Viazzo e soprattutto del mio relatoreprof. Francesco Remotti per avermi seguito con atteggiamento criti-co e partecipe fin dall’inizio delle mie ricerche. Un abbraccio e unarichiesta di perdono ai miei genitori per i momenti di angoscia cheho fatto passare loro durante il mio ultimo soggiorno sul campo. So-no infine particolarmente grata a mio marito Lorenzo Bordonaro,dottorando in antropologia sociale presso l’ISCTEdi Lisbona. A Lo-renzo la mia riconoscenza per gli incoraggiamenti, gli stimoli, i con-sigli e i commenti critici, che si sono rivelati preziosi sia nel corso del-la ricerca, sia nella stesura del libro. Senza il suo appoggio, la sua pa-zienza e il suo affetto questo libro non sarebbe stato lo stesso.

C.P.

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Poetica delle emozioni

I Bijagó della Guinea Bissau

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Capitolo primo

Percorsi

1. Arrivando alle isole

Ricordo ancora, con la stessa intensità di colori e impressioni, la pri-ma volta che navigai nelle acque dell’arcipelago dei Bijagó per rag-giungere Bubaque, l’isola principale, nella quale ho svolto le mie ri-cerche dal 1994 al 2001, per un totale di sedici mesi1. Non fu diffi-cile allora arrendersi al fascino di questo viaggio, dell’oceano, dellemangrovie e delle spiagge di sabbia fine e bianca. Ero già stata inGuinea Bissau l’anno precedente, nel 1993, infatuata di esotismo eantropologia, per una serie di circostanze singolari che mi avevanocondotta a lavorare nell’ospedale Simão Mendes di Bissau per alcu-ni mesi. Come si può immaginare, fu una permanenza impegnativae coinvolgente, che mi offrì la possibilità di imparare il kriol e di co-noscere diverse persone, specialmente i ragazzi del Centro ArtísticoJuvenil con i quali abitavo. Tra questi vi erano alcuni giovani sculto-ri bijagó che, con i loro racconti e la loro saudade, mi condussero perla prima volta in un viaggio tra le isole, stimolando la mia curiosità eimmaginazione. Sia a Bissau, presso l’Instituto Nacional de Estudose Pesquisa, sia una volta ritornata in Europa, cercai materiale bi-bliografico su questa popolazione ma, data la scarsità della docu-mentazione storica ed etnografica disponibile, non ottenni grandi ri-sultati. I resoconti legati alle grandi spedizioni di scoperta che i por-toghesi intrapresero nel XV secolo, come anche gli scritti occasionali

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1 La popolazione dell’arcipelago, stimata tra i 15.000 e i 20.000 individui, è co-stituita quasi interamente da Bijagó, se si escludono piccole comunità appartenen-ti a gruppi della costa guineense e senegalese dedite al commercio, sull’isola di Bu-baque. Quest’isola, un tempo sede dell’amministrazione regionale portoghese, si si-tua nella regione sudorientale dell’arcipelago e ospita al momento una popolazio-ne di circa duemila individui, distribuiti in dodici villaggi.

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di viaggiatori, missionari, commercianti e amministratori colonialidei secoli successivi, infatti, rivestono più valore documentario cheinteresse antropologico.

Se alla mia prima esperienza di campo, vedendo profilarsiall’orizzonte la bruna e aspra scogliera cui ormeggiano le canoe in ar-rivo a Bubaque, mi sembrava di essere finita nelle prime pagine diWe, the Tikopia di Raymond Firth, da allora le isole apparirono aimiei occhi ogni volta diverse, in relazione ai mutamenti del miosguardo. Già nell’estate del 1994 avevo assistito alle prime burraschepolitiche, quando, dopo quattordici anni di dittatura militare, in se-guito a pressioni interne e internazionali, furono indette elezioni de-mocratiche presidenziali e legislative. Contrariamente alle aspettati-ve, che davano come favorito Kumba Yalá, intellettuale del Partidoda Renovação Social, sostenuto dall’opposizione, venne rieletto pre-sidente João Bernardino Vieira, detto ‘Nino’, per quanto su di luigravassero sospetti di brogli elettorali. Mentre la capitale era teatrodi violente sommosse, la popolazione dell’arcipelago sembravaestranea a queste tensioni politiche. Nonostante la marginalità deiBijagó rispetto alle faccende dello Stato, spesso ascoltai conversa-zioni che rivelavano il disinteresse, la sfiducia, il disprezzo per unapresenza politica considerata inutile, imposta e propria di una logi-ca coloniale.

Quando nel 1997 ritornai nell’arcipelago con Lorenzo Bordona-ro per un ulteriore soggiorno di sei mesi, avevo quindi già preso co-scienza dei processi di trasformazione che interessavano questa po-polazione e l’intero paese. La sensazione che provai allora appro-dando al porto di Bubaque non era più quella del viaggiatore ro-mantico che si trova di fronte a un’isola incastonata nelle acquedell’Atlantico e nell’immobilità di una storia che si narra al presen-te. Sulla banchina del porto si accalcavano i giovani della praça2: i lo-ro occhi scrutavano le onde, le canoe e le facce di chi, come me, giun-geva da terre lontane. I pochi turisti e missionari, le figure insolite dieuropei marginali – etnografi, cooperanti, viaggiatori solitari con lozaino sulle spalle –, i commercianti senegalesi e mauritani, che tra-sportano merci dalla capitale, sono infatti un miraggio di progresso,ricchezza e fortuna. Guardando quei ragazzi e alle loro spalle le ro-

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2 All’estremità settentrionale dell’isola si trova un centro abitato, chiamatopraça, che conta all’incirca mille abitanti, cresciuto intorno alla zona portuale ecommerciale.

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vine arrugginite dei macchinari della fabbrica di olio di palma, co-struita negli anni Venti, mi chiesi come avevo potuto ignorare – ac-canto all’intreccio delle mangrovie – gli ingranaggi immobili, i ca-pannoni e le enormi caldaie, silenziose presenze di un passato pros-simo.

Come sempre, c’erano il sole e un caldo soffocante ad accogliereme e mio marito Lorenzo all’aeroporto di Bissau, in occasione delnostro ultimo soggiorno (novembre 2000-aprile 2001). Questa voltaperò c’erano anche i militari e i segni della guerra. Nel giugno 1998,sotto la guida del generale Ansumane Mané, braccio destro dell’al-lora presidente Nino Vieira, era infatti scoppiata una rivolta milita-re, destinata a trasformarsi in una devastante guerra civile. Dopo un-dici mesi Nino venne destituito e costretto all’esilio, mentre KumbaYalá fu eletto presidente. La situazione al nostro arrivo non si eraperò ancora stabilizzata: nel novembre 2000 infatti, mentre eravamoancora a Bissau, il generale Ansumane Mané, ex capo della giuntamilitare, si proclamò ‘Capo Supremo delle Forze Armate’. L’inquie-tudine crebbe quando Ansumane Mané rifiutò di riportare la sua po-sizione nella legalità democratica, tentando un colpo di Stato. La ca-pitale fu di nuovo flagellata dai bombardamenti e si temette una nuo-va guerra civile. Fortunatamente la crisi si risolse nel giro di pochesettimane con la cruenta eliminazione del leader militare, e noi, spa-ventati e confusi, riuscimmo a raggiungere Bubaque a bordo di unacanoa.

La grave situazione del paese dopo il conflitto ha lasciato una ci-catrice profonda anche nell’arcipelago dei Bijagó: negli ultimi anniBubaque ha ospitato moltissimi profughi ed è rimasta assolutamen-te isolata a livello di comunicazioni, priva di elettricità, di un centrosanitario e del rifornimento di cibo e medicinali provenienti dal con-tinente. La maggior parte dei miei amici e informatori è malata, mol-ti sono morti prima del mio arrivo, altri hanno i figli arruolatinell’esercito e li piangono prima ancora di aver ricevuto loro notizie.Le lacrime sono per il loro destino: un figlio a Bissau, dicono le don-ne, è un morto che cammina.

2. L’arcipelago dei Bijagó tra passato e presente

I risultati delle analisi dei documenti storici e delle tradizioni oralicompiute di recente attribuiscono ai Bijagó un’origine continentalee collegano il popolamento dell’arcipelago alle grandi migrazioni

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che seguirono all’espansione dell’impero del Mali nel XIII secolo(Pussetti 1998). La storia delle popolazioni della costa guineense èlegata alla nascita e all’espansione del regno mandinga di Gabu, chesi estendeva a est del fiume Geba. Gran parte delle popolazioni cheabitavano le pianure della regione – Felupe, Beafada, Manjaco – fu-rono spinte verso le regioni costiere che occupano attualmente, co-stringendo una parte degli abitanti della costa a rifugiarsi sulle isole.

L’idea dei Bijagó come un popolo coeso è probabilmente un’in-venzione della tassonomia coloniale che, come nel caso di molti rag-gruppamenti etnici e politici in Africa, ha unificato sotto un’unicadenominazione comunità in drammatica competizione tra loro. Ri-mangono tuttora nella memoria storica della popolazione dell’arci-pelago i ricordi di conflitti violenti tra gli abitanti di isole diverse, eaddirittura tra diversi villaggi della stessa isola, che spesso sfociava-no in scontri sanguinosi. In tempi precedenti alle guerre coloniali,inoltre, le singole isole trattavano con gli europei separatamente, co-me unità autonome. Anche nei sistemi politici esistevano profondedifferenze: alla fine del XIX secolo, l’isola di Orango era organizza-ta come una monarchia assoluta e dispotica, mentre nello stesso pe-riodo l’isola di Bubaque possedeva diversi re, uno per villaggio, conpoteri molto limitati. Questo spiega d’altronde le numerose diffe-renze linguistiche e socioculturali tra le varie isole, riconducibili inparte alle origini differenti dei suoi abitanti, in parte all’isolamentoe ai conflitti che hanno caratterizzato la storia dell’arcipelago. Al ri-guardo, nonostante che sia i precedenti studiosi sia i locali utilizzinogeneralmente l’etnonimo ‘Bijagó’, è importante sottolineare che lamia ricerca è stata svolta esclusivamente nell’isola di Bubaque, ossiatra gli Iagbaaga, ‘gli abitanti di Bubaque’.

La posizione geografica e la volontà di indipendenza hanno permolto tempo preservato l’arcipelago dall’influenza islamica di Man-dinga e Fula, che ha invece notevolmente interessato il continente, eda quella degli europei, cui gli insulari riservarono sempre un’acco-glienza poco amichevole: i Bijagó furono infatti un popolo abile nel-la navigazione, dedito al saccheggio dei villaggi della costa, al traffi-co di schiavi e ad azioni di pirateria nei confronti delle imbarcazio-ni europee che transitavano per l’arcipelago. Fino al XIX secolo lacosta e l’arcipelago furono teatro di un’intensa attività marittima ecommerciale e costituirono uno dei punti fondamentali della trattadegli schiavi. Nel corso dell’Ottocento gli interessi coloniali si mol-tiplicarono e i rapporti con i Bijagó si fecero sempre più tesi: tutta-

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via solo dopo il Trattato di Berlino del 1885 e il Trattato Luso-Fran-cese dell’anno seguente, i portoghesi si impegnarono in successivespedizioni per l’occupazione dei territori della Guinea. L’arcipelagodei Bijagó non fu ovviamente la loro prima preoccupazione e le prin-cipali campagne furono rivolte alla conquista del continente.

Alla fine degli anni Venti del Novecento la Guinea era una colo-nia conquistata e relativamente prospera, fatta eccezione per le iso-le dei Bijagó che, nonostante i ripetuti e severi interventi atti a pie-gare la loro resistenza, non riconoscevano ancora la dominazioneportoghese. Nel 1935 la situazione era tale che i Bijagó venivano con-siderati un’onta per l’amministrazione coloniale, e il disonore per la«loro resistenza perpetua e irriducibile» fu tale che venne messa indubbio la «capacità colonizzatrice dei Portoghesi» (Moreira 1946:113-114). Furono le sanguinose ‘guerre di pacificazione’ intrapresedal governo portoghese a porre fine alle tradizionali attività bellichedegli insulari, trasformandoli in pacifici agricoltori. Nel 1937 i capibijagó accettarono di deporre le armi: l’ultimo bastione della resi-stenza era stato sottomesso, anche se i portoghesi continuavano aconsiderare i Bijagó un popolo «riluttante ai rapporti coi colonizza-tori, refrattario alla civilizzazione e ribelle alla integrazione nella vi-ta della colonia; [...] il popolo più primitivo della terra» (Moreira1946: 69, 81).

Negli anni successivi il Portogallo si disinteressò dell’arcipelago,che non offriva risorse naturali, e dove i funzionari amministrativinon volevano trasferirsi, a causa della pessima reputazione degli in-sulari. Anche il contatto con la Chiesa cattolica fu tardivo: i primimissionari cattolici, appartenenti al PIME (Pontificio Istituto Mis-sioni Estere), giunsero a Bubaque solo nel 1952 e incontrarono di-versi problemi di relazione con la popolazione locale. Nel periodocoloniale il governo centrale aveva nella capitale, Bissau, un delega-to di fiducia – il governatore generale – assistito da un Consiglio digoverno, privo di un’effettiva importanza e nel quale non era pre-sente nessun guineense, e da un amministratore per ciascuna delleundici circoscrizioni nelle quali era stato frazionato il territorio, chesi dividevano a loro volta in posti amministrativi. La circoscrizionedell’arcipelago dei Bijagó, con sede a Bubaque, fu suddivisa in cin-que posti amministrativi, ciascuno affidato a un funzionario porto-ghese (chefe de posto), direttamente subordinato all’amministratoredella rispettiva circoscrizione. A livello di villaggio aveva invece unruolo di relativo potere il regedor, un agente del governo, che si oc-

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cupava dell’esazione delle imposte e del reclutamento di lavoratori.Questi funzionari statali non avevano però una reale autorità e la lo-ro presenza non era accettata né rispettata dai locali, che li conside-ravano «solo mere figure decorative, senza alcun prestigio e peso,semplici fantocci responsabili appena del pagamento delle imposteo delle relazioni con l’autorità amministrativa locale, ordinariamen-te scelti tra i cittadini più ridicoli e inoffensivi, per i quali nessunopuò provare rispetto né considerazione» (Moreira 1946: 107). Mai iregedores si sostituirono al ‘tradizionale’ capo del villaggio (oronhó),che i portoghesi chiamavano regulo (re), la cui presenza viene per laprima volta indicata nei resoconti di viaggio del XVI secolo (Alma-da [1594] 1964). I contatti dei Bijagó con il governo coloniale si li-mitarono dunque alla relazione con gli chefes de posto portoghesi re-sidenti nelle isole – i quali finirono per ritrovarsi isolati, privi di uncontatto regolare con i loro superiori e senza prospettive di carriera– e con i sipaios, «negri crudeli, stranieri e armati» (Bernatzik 1967:34-40), alle dipendenze degli chefes de posto.

Nel 1956 nasceva nella clandestinità il PAIGC (Partito per l’In-dipendenza della Guinea Bissau e Capo Verde), movimento indi-pendentista fondato da Amilcar Cabral: negli anni successivi moltigiovani Bijagó scapparono dall’arcipelago per arruolarsi e combat-tere per la libertà del paese, che fu proclamata a Medina de Boè il 24settembre 1973, dopo quattordici anni di guerriglia. Dopo l’indi-pendenza, l’amministratore fu sostituito dallo chefe do comité da cir-cunscrição e le circoscrizioni vennero divise in settori e questi in se-zioni, con a capo rispettivamente lo chefe de sector e lo chefe desecção; la figura del regedor all’interno del villaggio venne sostituitadal comité de tabanka (comitato di villaggio). Questi funzionari, scel-ti tra le file del PAIGC, sono stati sostituiti dopo l’elezione di Kum-ba Yalá da elementi del Partido da Renovação Social, ma di fatto,dopo la guerra del 1998, la presenza dello Stato nell’arcipelago èmolto debole.

Accanto a questa struttura statale postcoloniale, complessa mainefficiente, come anche in opposizione alla rigida organizzazioneamministrativa dell’epoca coloniale, sopravvive un sistema di gover-no ‘tradizionale’ che viene fatto risalire dagli stessi Bijagó all’epocaprecoloniale, proclamandone l’autenticità, asserendone i valori e ri-producendone gli elementi simbolici. Strumento di rivendicazionepolitica e di resistenza all’ingerenza dello Stato, questa riappropria-

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zione del potere nei termini della ‘tradizione’ rappresenta anche unalegittimazione dell’autorità degli anziani sui giovani.

In questo sistema l’autorità a livello di villaggio, unità minimadell’organizzazione territoriale, è suddivisa tra un informale consi-glio degli anziani, un re (oronhó), una sacerdotessa responsabile del-le cerimonie femminili (okinka) e la figura dell’oum, il suonatore ditamburo sacro. Caratterizzata da una regola di discendenza di tipomatrilineare e da una residenza postmatrimoniale virilocale, la co-munità bijagó si suddivide in quattro clan matrilineari3, i cui mem-bri sostengono di discendere dalle antenate mitiche (Oraga, Oraku-ma, Ominka e Ogubane)4. La comunità bijagó si basa inoltre su un

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3 I Bijagó di Bubaque sono esogamici a livello di clan ed endogamici a livello divillaggio.

4 La lingua bijagó è stata classificata come un ramo primario indipendente del-la sub-famiglia Atlantico-Occidentale, che si estende dal confine tra il Senegal e laMauritania a nord-ovest fino al confine tra la Sierra Leone e la Liberia a sud-est (Sa-pir 1971; Ruhlen 1987; Segerer 2000). La validità di questo raggruppamento è sta-ta posta in dubbio da Dalby (1965) e Sapir (1971), che hanno sottolineato la debo-le parentela lessicale esistente tra i tre sottogruppi della famiglia Atlantico-Occi-dentale (Nord, Bijagó, Sud). Il bijagó è una lingua a classi nominali, avvicinabileper le sue caratteristiche morfologiche alle lingue bantu: i marcatori di classe sonoprefissati, l’accordo è rigoroso e si estende a tutti gli elementi del discorso in rela-zione di dipendenza con il nome. Accanto al bijagó, nelle sue molteplici variantidialettali, anche il kriol, la lingua veicolare della Guinea Bissau, è diffuso nell’arci-pelago: esso consente la comunicazione con coloro che provengono dal continen-te e con i rappresentanti dell’autorità statale nell’arcipelago, che appartengonospesso ad altri gruppi etnici della Guinea Bissau, e permette la comprensione deiprogrammi radiofonici nazionali. La mia ricerca è stata quindi condotta in parteconversando in kriol, lingua che ho imparato piuttosto bene nel corso dei miei pre-cedenti soggiorni. Siccome però mi interessava discutere con gli anziani, l’esigenzadi intendere il bijagó divenne prioritaria. L’apprendimento del kagbaaga, il bijagódi Bubaque, per quanto con maggiori incertezze e minore padronanza rispetto alkriol, mi ha permesso di adeguarmi alla lingua che i miei interlocutori di volta involta sceglievano, a seconda dell’argomento e del contesto. Quando opportuno, misono affidata alla registrazione, in modo da poter riascoltare e verificare in un se-condo momento il significato di ogni frase avvalendomi dell’aiuto degli stessi par-lanti. I termini, le radici semantiche, i testi e le traduzioni raccolti sul campo sonostati successivamente verificati e confrontati con i risultati degli studi di Luigi Scan-tamburlo (2000) e di Guillaume Segerer (2000), che hanno proposto una gramma-tica e un dizionario rispettivamente del bijagó di Canhabaque e di Bubaque. Il si-stema fonologico è caratterizzato dai seguenti tratti: per quanto riguarda le conso-nanti è stata rilevata la presenza di labio-velari kp e gb, di occlusiva apicale retro-flessa #!!! e di nasale velare #!!!; per le vocali il sistema è generalmente a sette vo-cali (i, e, #!!!, a, #!!!, o, u) (Segerer 2000: 15). Ho deciso tuttavia di adottare un si-stema di trascrizione semplificato seguendo quello proposto da Scantamburlo

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complesso ciclo rituale, chiamato n’obítr kusina, che distribuisce lapopolazione maschile in classi e gradi d’età5, organizzando una cir-colazione di beni dai giovani verso gli anziani, sotto forma di doni eprestazioni di lavoro. Offrire agli anziani è, infatti, il dovere princi-pale dei giovani: in questo modo divengono partecipi di nuove co-noscenze e al contempo, mettendosi in luce con la loro generosità,vengono apprezzati da coloro che dirigono il villaggio. Onorare glianziani per diventare anziani, per crescere: come dicono gli anziani,«n’obítr kusina è la legge della società». Il n’obítr kusina, che inclu-de anche il manras, l’iniziazione, viene descritto dai giovani come unpercorso difficoltoso, un lavoro pesante, per quanto indispensabileper raggiungere la condizione di uomo adulto, completo, con dirit-to al possesso della terra, al matrimonio, alla paternità legale e al se-reno raggiungimento dell’aldilà al momento della morte.

I giovani di Bubaque tuttavia non possono sfuggire al confrontocon i modelli proposti dall’Occidente, miraggi di progresso, danaroe successo; questi stimoli esterni portano talvolta i ragazzi della praçaa individuare negli aspetti più caratteristici e ‘tradizionali’ della cul-tura bijagó le ragioni del ritardo, del mancato sviluppo dell’arcipe-lago, con conseguente condanna, insofferenza, disprezzo. Formarsinelle scuole occidentali, avere un lavoro, accumulare ricchezze, di-menticare tutto ciò che è bijagó: l’esigenza comune è quella di affer-mare la propria individualità, sfuggendo alle maglie della gerarchiatradizionale, secondo la quale i giovani non possono avere terra, da-naro, mogli e figli socialmente riconosciuti, e sono tenuti a offriretutto ciò che possiedono agli anziani. Spesso sono le donne che spin-gono i ragazzi a ribellarsi a questa pesante legge, in modo da potermigliorare il loro tenore di vita, magari trasferendosi a Bissau, in cer-

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(2000), escludendo i caratteri fonetici al fine di rendere la lettura più agevole: #!!!verrà quindi trascritto con n’, #!!! con tr, #!!! con nh, mentre le altre consonanti ri-spettano le convenzioni dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA). Le vocali sonoriportate al sistema a cinque vocali (a, e, i, o, u), mentre i fonemi doppi sono statitrascritti con il raddoppiamento del carattere. L’accento principale è stato indica-to con un accento acuto sulla vocale della sillaba accentuata: dove non specificato,l’accento è inteso sulla penultima sillaba della parola. Per quanto riguarda i nomidi località, si è rispettata la grafia comunemente utilizzata in Guinea Bissau. Per itermini in kriol, la trascrizione si basa sulle convenzioni fonetiche proposte da Lui-gi Scantamburlo (1999).

5 I gradi d’età maschili che precedono l’iniziazione sono in ordine progressivo:nea, ongbá, kadene, kanhokam, karo. Quelli che seguono il ritiro iniziatico in fore-sta sono invece kabido, kassuká, okotó (Bordonaro 1998).

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ca di un lavoro salariato, fuggendo per non affrontare il manras, l’ini-ziazione in foresta, considerato una perdita di tempo. Queste ten-denze sovversive sono motivo di preoccupazione per gli anziani, iquali sostengono che la tradizione non viene più rispettata e che igiovani della praça hanno dimenticato le basi della loro cultura. Que-sti processi di trasformazione economica e sociale, spesso troppo ra-pidi e disorientanti, caratterizzati da profonde modificazioni dei rap-porti interpersonali, dei valori e delle aspirazioni, producono tutta-via nelle comunità di villaggio maggiormente esposte un rafforza-mento degli aspetti più ‘tradizionali’ per riaffermare la propria iden-tità. Il villaggio di Bijante, nel quale ho svolto la maggior parte dellemie ricerche e che dista solo pochi chilometri dalla praça, rappre-senta un caso emblematico di questa forma di resistenza.

3. Bijante: resistenza e identità

Bijante, che ospita più di cinquecento abitanti e nel quale risiedonoalcuni dei personaggi di maggiore autorità rituale dell’isola, vieneconsiderato dalle persone di Bubaque come il villaggio che ha pre-servato maggiormente i tratti dell’organizzazione sociale ‘originale’,il più conservatore e refrattario ai cambiamenti. L’iniziazione diBijante è infatti ritenuta la più lunga e severa dell’isola e l’oum, il suo-natore di tamburo sacro, che accompagna in foresta gli iniziandi, ilpiù importante di Bubaque. Il villaggio inoltre ospita eccezional-mente due templi degli spiriti dei morti (kanjá iarebok), teatro dellapossessione femminile: la kanjá di Etuato, nella parte alta di Bijante,e la kanjá di Ancorete, in quella bassa. Kungaran e Sidammà, i due‘Spiriti Grandi’ (Orebok Okotó), sede degli antenati di Bijante, in-sieme a Baba, l’Orebok Okotó di Ankamona, sono i più potenti e ri-spettati dell’isola.

Come gli altri villaggi dell’isola, Bijante presenta una struttura ur-banistica ‘tradizionale’: un raggruppamento serrato di case attornoa una piazza centrale, ombreggiata da un grande albero. Per fonda-re un villaggio, secondo le parole degli anziani, bisogna infatti sce-gliere un albero imponente, generalmente un mango (Mangifera In-dica), che verrà simbolicamente associato alla sacerdotessa okinka,come punto centrale intorno al quale organizzare lo spazio. Accan-to all’albero si dovrebbe trovare una piccola pianta silvestre (CassiaPodocarpa), doppio simbolico dell’oronhó, destinata invece a rima-nere nella piazza del villaggio solo per la durata della vita del re, per

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essere alla fine bruciata in foresta. All’epoca del mio ultimo soggior-no (novembre 2000 – maggio 2001) nella piazza di Bijante, accantoal grande mango, mancava la pianta regale: Augusto, il re, un uomogiovane e legato agli interessi della praça, era morto nel 1999, avve-lenato forse per aver infranto qualche norma o per aver offeso la sa-cerdotessa.

Per quanto si sia mantenuta un’organizzazione dello spazio ‘tra-dizionale’, negli ultimi vent’anni a Bijante le case rotonde sono statesostituite da case a pianta quadrangolare. Molti rimpiangono però lecase rotonde, considerate più belle, per quanto difficili da costruire:i muri dovrebbero infatti essere edificati plasmando e aggiungendofango su fango, mentre per la casa rettangolare si utilizzano blocchidi terra essiccati al sole, simili a grandi mattoni. I giovani di Buba-que, affermano i miei interlocutori, non saprebbero più come si co-struisce una casa rotonda, mentre gli anziani che ne possiedonol’abilità e le conoscenze, sono ormai troppo deboli per questi lavoripesanti.

Le case a pianta quadrangolare mantengono però l’antica orga-nizzazione degli spazi. Circondate da una veranda, con due portediametralmente opposte, si dividono all’interno in stanze comuni-canti: la più grande, nella quale dormono le donne, viene chiamataannani, ossia ‘il ventre della casa’. Le attività domestiche e artigianalivengono svolte generalmente nella veranda: è in questa parte di con-fine e contatto con l’esterno che ho imparato ad accogliere e a far ac-comodare gli ospiti su piccoli seggiolini di legno, attenta a servire lepersone nel giusto ordine in base alla gerarchia sociale. La verandaquasi sempre è teatro di incontri, faccende domestiche e visite di cor-tesia. In questo spazio ho appreso dalle donne, nei gesti della puli-zia quotidiana, i concetti locali di ordine, purezza e integrità, spaz-zando ogni giorno con una corta scopa di saggina l’entrata della ca-sa, per proteggerne il ventre e i segreti che esso racchiude da qual-siasi intrusione e contaminazione.

4. Pensieri sulle emozioni

Nella mia prima esperienza di ricerca sul campo, con tutti i limitipratici e teorici che questo comporta, avevo subìto la seduzionedell’aspetto più esotico e spettacolare della cultura bijagó: il manrasiarebok, l’iniziazione degli spiriti, un culto di possessione femminile,considerato da tutti gli etnografi che avevano fatto ricerca nell’arci-

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pelago come l’elemento più notevole e rimarcabile6. Poiché questofenomeno si inquadra all’interno di un tempo e uno spazio definitirispetto al normale svolgimento della vita d’ogni giorno, risultava fa-cilmente circoscrivibile e riconoscibile come oggetto di analisi etno-grafica.

Riconsiderando successivamente questo lavoro, mi resi conto diavere trascurato proprio ciò in cui le persone con le quali trascorre-vo le mie giornate investivano la maggior parte del loro tempo e chespesso mi indicavano come veramente importante nella loro vita: laresponsabilità nei confronti degli altri, il rispetto per gli anziani, legelosie e le invidie tra parenti, le lacrime delle donne, le passioni con-fuse dei giovani, la necessità di dominarsi. Questioni che hanno a chevedere con il modellamento e il controllo di corpo ed emozioni se-condo criteri estetici e morali. Considerare la dimensione soggettivadell’essere-nel-mondo significa inoltre affrontare la complessa rela-zione tra corpo, persona, emozione e società. Il lavoro che ho con-dotto si è pertanto avvalso, come verrà maggiormente esplicitato, de-gli strumenti e delle prospettive teoriche di quel filone dell’antropo-logia culturale convenzionalmente definito ‘antropologia delle emo-zioni’, che vede tra i suoi maggiori esponenti Michelle Rosaldo([1984] 1997), Lila Abu-Lughod (1986) e Catherine Lutz (1988).

Una concezione dell’emozione come intimamente connessa almodo in cui le persone interpretano o valutano ciò che accade, se-condo codici morali e riferimenti semantici locali, è stata propostada diversi autori. Le emozioni in quest’ottica sono considerate comein parte costituite dai significati locali loro attribuiti. Non avendo al-cun accesso privilegiato a un’ipotetica realtà emozionale psicofisicainnata e preculturale, Catherine Lutz propone di considerare leemozioni come forme di discorso, piuttosto che «come essenze chedevono essere raggiunte sotto la pelle o dentro la testa» (1988: 7). Ilcompito interpretativo non è quindi quello di cogliere cosa le altrepersone ‘sentono dentro’, ma piuttosto tradurre da una lingua (con-

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6 Questo culto costituisce un singolare caso di possessione prescritta, collettivae non patologica, in cui tutte le donne, investite dagli spiriti degli uomini morti pri-ma dell’iniziazione, compiono un percorso iniziatico parallelo a quello maschile,consentendo a queste anime, potenzialmente pericolose, di completare il camminoche non hanno potuto percorrere da vivi e quindi di raggiungere serenamente ilmondo dei morti, come antenati protettori del villaggio (Oliveira de Sousa 1993;Henry 1994; Pussetti 1999, 2001).

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testo, cultura) a un’altra il significato dei termini usati nelle conver-sazioni quotidiane per parlare delle emozioni. Il processo di tradu-zione in questo senso non significa tanto trovare una corrisponden-za tra le parole di una lingua e quelle di un’altra, quanto riuscire acogliere e a partecipare di quei momenti complessi in cui azioni, re-lazioni sociali, norme, giudizi e concezioni morali vengono strategi-camente messi in gioco. La graduale comprensione e traduzione diquesto complesso di significati derivano da un lento processo di ap-prendimento della lingua, da un’attenzione puntuale ai contenutidell’interazione verbale e da una costante condivisione della quoti-dianità.

La mia ricerca si è quindi rivolta ai modi in cui i miei interlocu-tori concettualizzavano, orientavano e discutevano i comportamen-ti propri e altrui, partecipando della loro quotidianità e ascoltandoconfidenze, consigli, lamenti, rimproveri, pettegolezzi e critiche re-ciproche. Il confronto con una differente concezione della vita emo-tiva mi ha in primo luogo imposto di riflettere su quelli che erano imiei pensieri sulle emozioni, culturali e locali quanto i loro, perprenderne consapevolezza ed evitare così di proiettarli inconsape-volmente sugli altri. Ho dunque cercato in primo luogo di delinea-re alcuni degli itinerari teorici che ho percorso, valicando diversiconfini disciplinari, per affrontare la problematicità del concetto diemozione, fino a ricondurlo al campo d’interesse dell’antropologiaculturale.

Nel fiume di pratiche e parole della vita dei miei interlocutori hotentato inoltre di cogliere le teorie locali sulla natura della persona edelle emozioni, i principi morali che orientano il loro comporta-mento e i criteri estetici che ne modellano la forma. Osservando co-me le persone interpretavano e valutavano le azioni proprie e altrui,ho compreso come alcune emozioni, manipolate a fini strategici, sia-no costituenti attivi della struttura sociale, strategie per promuoverearmonia sociale o per rafforzare differenze di status e caratterizza-zioni di genere, luoghi di resistenza e mezzi di ribellione. Prestandoattenzione ai discorsi pedagogici degli anziani ho quindi messo in lu-ce quali sentimenti siano considerati socialmente appropriati e qua-li invece ritenuti pericolosi. Analizzando alcune figure emblemati-che marginali, ho in seguito mostrato come emozioni considerate ne-gativamente vengano utilizzate per mantenere questi settori della co-munità in una posizione periferica.

Obiettivo di questi capitoli non è stato quindi indagare intime

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emozioni e stati mentali, quanto cogliere riflessioni e concezioni le-gate a questi stati, in relazione al contesto culturale e come forma didiscorso sociale. Questa strada mi ha portata a concentrarmi sullepratiche culturali atte a patteggiare con emozioni ritenute trasgres-sive o pericolose, per salvaguardare il benessere del gruppo e dei sin-goli individui. In conclusione, mi sono occupata di alcune specificheconfigurazioni emozionali, che secondo l’estetica locale costituisco-no la tonalità emotiva e la forma retorica privilegiata per la narra-zione del sé. Al riguardo, partendo dalle storie di vita, mi sono con-centrata su come gli individui tentino di dominare, comunicare,orientare e modificare emozioni potenzialmente pericolose attraver-so veicoli performativi.

5. «Tu qui sei come un bambino»: metodologia della ricercasul campo

Ci sono poche cose importanti in un processo di comprensione cul-turale quanto le relazioni interpersonali che si stabiliscono tra l’an-tropologo e i suoi ospiti. Secondo i miei interlocutori locali, quandoqualcuno di un’altra isola si trasferisce in un villaggio nel quale nonha amici o parenti deve essere accolto in una famiglia per trovare so-stegno e conforto. Perciò, come nelle nostre precedenti permanen-ze, Lorenzo e io siamo stati inseriti in una relazione di parentela ‘fit-tizia’ all’interno della famiglia Banca. Nei passati soggiorni avevamogià instaurato un rapporto privilegiato con Pedro Banca, uno dei fi-gli di Tcharte, del quale ho parlato in differenti occasioni (Pussetti1998; Bordonaro e Pussetti 1999). L’amicizia con Pedro e la prossi-mità delle nostre abitazioni mi hanno permesso di entrare con di-screzione a far parte della vita quotidiana della sua famiglia, che si ègiorno dopo giorno abituata alla mia presenza, alla mia inesperien-za e alle mie domande, considerandomi «ospite e figlia» (Abu-Lu-ghod 1986: 1).

I Banca sono una delle famiglie più potenti e rispettate di Buba-que: Tcharte è infatti considerato un anziano di grande saggezza, do-tato di poteri straordinari, grazie ai quali comunica con il mondo deimorti e con gli spiriti e che fanno di lui una delle maggiori persona-lità dell’isola. Tra le sue mogli ho instaurato una relazione d’amici-zia con Augusta, la più anziana e autorevole, e con Koká, la madredi Pedro, originaria del villaggio di Ankamona, che vive nella praçain seguito alla separazione dal marito. Dato che il principio di resi-

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denza postmatrimoniale è virilocale, infatti, la condizione di ‘stra-niero’ è comune alla maggior parte delle donne, che ben compren-devano la mia nostalgia della famiglia.

La maggior parte della mia giornata al villaggio era impiegata aintessere relazioni sociali, a chiacchierare con qualche anziano o conaltre ragazze, o nello svolgimento dei lavori comuni. Il fatto che cifossero attività che preferivo svolgere all’interno della casa o mo-menti nei quali sentivo il bisogno di solitudine, è stato sempre moti-vo di un certo stupore, rivelato dagli sguardi curiosi dei ragazzini edalle battute di spirito degli anziani, i quali motteggiavano che se iBijagó sono iaran’ajóko, ossia ‘abitanti del mondo’, i bianchi sono ia-rakajóko, ‘abitanti della casa’. Un altro aspetto del mio comporta-mento che spesso suscitava l’ilarità dei miei vicini era la mia relativainadeguatezza ad affrontare le incombenze femminili quotidiane:raccogliere la legna, portare i secchi d’acqua dalla fonte, accendereil fuoco, ammazzare le galline. Per questi motivi, nonostante fossi ri-tenuta fortunata per il mio presunto benessere economico, venivoconsiderata una persona sprovveduta e quindi bisognosa di atten-zioni speciali.

Il mio essere una donna giovane, senza figli, lontana dalla casamaterna e piuttosto inadeguata nello svolgimento di taluni compitifemminili, ha fatto sì che fossi considerata non come una okanto(donna), ma come una omgbá (bambina), bisognosa di assistenza.Nel corso del mio lavoro parlerò di come questa posizione si sia tra-dotta in un rapporto privilegiato con alcuni anziani, che si sono oc-cupati della mia educazione. Il modo più appropriato infatti, secon-do i miei interlocutori locali, di apprendere le regole sociali e le com-petenze culturali fondamentali, è entrare in una stretta relazione conuna o più persone anziane, che si impegnino a guidare le tue azioniin una direzione esteticamente ed eticamente approvata. Al di là diquanto viene trasmesso implicitamente (attraverso per esempio itrattamenti di pulizia del corpo, i tempi dello svezzamento, l’utiliz-zo dello spazio, la preparazione e distribuzione del cibo o le postu-re corporee), l’educazione dei bambini viene generalmente affidataa un anziano della famiglia. Sebbene nei primi anni di vita il bambi-no venga considerato incapace di comprendere, di provare emozio-ni e di esercitare un controllo morale sul suo comportamento, giàverso i sei-sette anni gli anziani usano rivolgere ai bambini discorsipedagogici (i ‘consigli’), generalmente in occasioni di tipo informa-

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le, per quanto esistano anche ambiti formali e ritualizzati legati a par-ticolari momenti di passaggio7.

La mia esperienza di terreno è stata quindi profondamente de-terminata da ciò che queste persone si aspettavano da me, per quan-to ci fossero dei limiti tacitamente stabiliti riguardo a ciò che dove-vo e non dovevo fare. Se pretendevano da parte mia una grande at-tenzione alle norme relative ai valori dell’obbedienza e del rispetto,che si traducevano per esempio in doni (stoffe o beni di sussistenza,come riso, olio e vino di palma), secondo la logica del n’obítr kusina(il ciclo dei beni dai giovani verso gli anziani), al contempo mai mi èstato imposto di svolgere il lavoro di una donna del villaggio, la-sciando alla mia iniziativa se, quando e in quale misura parteciparvi.In qualche modo era chiaro a tutti che ero lì per realizzare un altrotipo di lavoro. Inoltre, dalle mie spiegazioni sull’organizzazione ge-rarchica dell’università, immaginavano il mio relatore come un an-ziano, che mi aveva reso partecipe delle sue conoscenze e che ora siaspettava di ricevere in cambio il mio lavoro.

Gran parte di quanto ho compreso delle norme etiche ed esteti-che che informavano il comportamento emozionale dei miei ospiti,deriva dunque da un lento processo di ‘risocializzazione’, che è sta-to indispensabile per abituarmi a valutare e ad agire appropriata-mente nelle varie situazioni nelle quali mi venivo ogni giorno a tro-vare: una socializzazione evidentemente più critica e problematica diquella primaria in quanto, a differenza di un neonato, possedevo giàdisposizioni e paradigmi comportamentali di riferimento. L’etno-grafo non è un bambino che osserva il mondo privo di preconcetti:sul campo si porta anzi un bagaglio di assunti, consci e inconsci, checondizionano la direzione del suo sguardo come la stessa capacità diguardare. Comunque sul campo si impara e si cambia, anche quan-do non si presta una particolare attenzione, in virtù di una semplicepartecipazione alle attività quotidiane: si acquisiscono infatti dispo-sizioni non solo attraverso una conoscenza verbale o concettuale, maanche in modo sensuale, corporeo e mimetico, mediante il contattocontinuo e intimo con i locali. Per quanto parlare la loro lingua miabbia consentito di accedere ai modi con cui le persone riflettono ediscutono sulle emozioni proprie e altrui, spesso si è rivelato più si-

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7 Flavia Cuturi, che si è occupata dei processi di socializzazione huave a SanMateo del Mar, nella costa pacifica dell’Istmo di Tehuantepec (Oaxaca, Mexico),riporta un evento discorsivo per molti aspetti simile (Cuturi 1997).

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gnificativo partecipare a eventi emotivamente coinvolgenti, ade-guando il mio comportamento e i miei atteggiamenti corporei a quel-li degli altri.

In questo senso, seguendo il suggerimento di James Clifford, ilcampo può essere pensato come un habitus piuttosto che come unluogo, intendendo per habitus un gruppo di disposizioni d’animo epratiche fatte proprie, incarnate (Clifford [1997] trad. it. 1999: 93).La comprensione viene quindi a coincidere con un processo, imper-fetto e mai definitivamente concluso, di knowing-how sociale, ossiacon l’abilità a orientarsi in un determinato contesto e a parlare un al-tro linguaggio. Che la maggior parte della conoscenza e compren-sione culturale non sia solo formulata in forme linguistiche quantopiuttosto agita nelle pratiche del quotidiano è stato affermato damolti filosofi e antropologi. Tra questi vorrei però riportare un pas-so di Leonardo Piasere, per la sua chiarezza e ironia:

L’etnografo, quasi come una spugna, si impregna di esperienze altrui,di schemi altrui, di analogie altrui, di emozioni altrui, di posture altrui. InVeneto c’è un termine molto adatto a questa metafora: imbombegà. Ognioggetto che si impregna di una sostanza non cambia di per sé natura (aprescindere dal fatto che, come la spugna, possa essere o meno spremu-to), resta ‘segnato’ perché imbombegà. [...] L’impregnazione-imbombe-gamento-sedimentazione-incorporazione-internalization è un feeling-pensiero incorporato, un fenomeno psicosomatico che facilmente pos-siamo riferire all’acquisizione, parziale ma felice, di habitus altrui, allaBourdieu (Piasere 2002: 160-161).

6. L’empatia e il contagio delle emozioni

Alcuni anni fa, in The Rise of Anthropological Theory. A History ofTheories of Culture, Marvin Harris esprimeva sorpresa e disgustoprofessionale per la ‘terrificante fiducia’ mostrata dalla sua collegaMargaret Mead nell’identificare le emozioni dei soggetti samoani([1969] trad. it. 1971: 550-551). Una decina di anni dopo, il filosofoRobert Solomon, riprendendo l’ironica affermazione di Harrissull’ingenua fiducia della Mead, rivolge alla comunità antropologi-ca, poco sensibile a queste problematiche epistemologiche, un im-barazzante quesito: «ma se l’antropologo mette da parte l’empatia inquanto strumento conoscitivo, che cosa resta [...]?» (1997: 283).

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Questo breve accenno alle pratiche, ai metodi e alle sfide dellamia ricerca sul campo sulle emozioni invita allo spinoso confrontocon uno strumento di lavoro etnografico spesso delegittimato, ridi-colizzato o considerato con un certo fastidio dagli antropologi: l’em-patia. Sulla recente storia del termine ‘empatia’ e sulle sue diverse ac-cezioni hanno pubblicato un interessante volume tre psicologhe ita-liane, Bonino, Lo Coco e Tani (1998), le quali propongono un di-scorso articolato sui diversi tipi di condivisione empatica che si svi-luppano nel corso dell’età in base al grado di mediazione cognitiva.Sul ruolo dell’empatia nella costruzione del sapere etnografico hascritto pagine illuminanti Leonardo Piasere (2002: 142-166), intro-ducendo il concetto di ‘perduzione’8, che rimanda a «una cono-scenza acquisita per interazione, per iterazione, per approssimazio-ne [...] per risonanza impregnante quando si attua intenzionalmen-te e coscientemente una curvatura dell’esperienza» (2002: 164). Se-condo il metodo perduttivo di cui ci parla Piasere, collegato a quel-lo che Jean-Pierre Olivier de Sardan chiama imprégnation (1995), siimpara essenzialmente attraverso processi di ripetizione, empatia,attenzione fluttuante, abduzione e mimesi, o meglio: «si impara ri-petendo, si impara osservando e riosservando scene simili tra loro, siimpara facendo allo stesso modo, o quasi. Si impara ottenendo ilconsenso, da parte di coloro che si imita, che quello che si fa va be-ne, o quasi» (Piasere 2002: 165).

Questi schemi cognitivo-esperienziali, acquisiti tramite un’inte-razione continuata con i propri ospiti, entrano in risonanza con glischemi o i saperi già incorporati dall’etnografo in quanto membrodella propria società. Non si tratta di ‘diventare come’ l’altro o di at-tribuire ad altri il proprio stato emotivo, ma di apprendere o com-prendere il non noto attraverso analogia o risonanza con il propriovissuto, in una continua tensione o rimando tra il sé e l’altro, trami-te il quale l’antropologo e il suo interlocutore svelano, illuminano etrasformano la propria identità personale, nel tentativo di creare ununiverso referenziale comune. In mancanza di accessi diretti o pri-vilegiati, diviene quindi necessario costruire ponti: in questo senso,«gli antropologi hanno fatto di una caratteristica degli oggetti che si

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8 Il termine ‘perduzione’, costruito per assonanza con termini come induzione,deduzione e abduzione, etimologicamente vuol rimandare a un ‘capire attraversola frequentazione’; la particella per- si rifà al concetto di ‘trasversalità lenta’ propo-sto da Remotti (1990: 168-174).

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proponevano di conoscere, le emozioni, un ingrediente attivo e re-golatore della loro pratica: la negoziazione di mondi comuni» (De-spret 2002: 169). Questo processo ci consente di cogliere un «nuo-vo punto di vista» che non subentra, tuttavia, «al posto di quello vec-chio perché li trattengo entrambi nello stesso tempo» (Stein 1992:134).

Un’interpretazione dell’empatia come condivisione esperienzia-le per analogia, processo associativo molto flessibile legato alla sto-ria del soggetto e alle sue vicende, è stata proposta da diversi autori,secondo i quali l’etnografo interpreta sempre le esperienze altrui inrisonanza (o tramite una associazione per fisionomia di esperienza, di-rebbe Piasere) con le proprie esperienze, ossia riconoscendole pervia analogica. Tra questi, non possiamo dimenticare Renato Rosal-do, le cui pagine sulla comprensione ‘intuitiva’ o ‘empatica’ dellarabbia causata dal dolore presso i cacciatori di teste ilongot delle Fi-lippine, avvenuta in seguito all’improvvisa e tragica scomparsa dellamoglie Michelle, sono diventate celebri. Pur consapevole della di-versità di tonalità, aspetto culturale e conseguenze sul piano umanotra la sua ‘rabbia’ e la ‘rabbia’ ilongot, la sua personale esperienza deldolore si rivela nelle intenzioni dell’autore lo strumento più efficaceper comprendere e rianalizzare la connessione ilongot tra dolore,rabbia e caccia alle teste, e per trasmetterne ai lettori la forza emoti-va. In questo senso, un’emozione dell’antropologo (il dolore per lamorte della moglie), autorizzando un tipo privilegiato di traduzione,diviene vettore di sapere.

Sulla stessa linea è l’argomentazione proposta dall’antropologanorvegese Unni Wikan, che dai suoi ospiti a Bali apprende l’impor-tanza di creare keneh, nozione che traduce con risonanza, con la gen-te e coi loro problemi, così come in un secondo momento con il te-sto che scriverà e i suoi lettori. Si tratta di un feeling-pensiero, un’ap-plicazione simultanea cioè di sentimento e pensiero, uno strumentodi comprensione non esclusivamente verbale, che consente di supe-rare il senso di alterità, favorendo una de-esotizzazione di coloro coni quali lavoriamo. Con le sue parole, la risonanza è «l’orientamentocruciale che ci permette di andare al di là delle parole per afferrarele forze motivazionali degli individui [...]; la risonanza assomiglia aattitudini che noi potremmo definire simpatia, empatia o Verstehen»(1992: 463, 455). Questo concetto viene suggerito alla Wikan da uninformatore, professore e poeta balinese, nel corso di una discussio-

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ne sulle possibilità di comprensione tra persone di culture differen-ti. «Senza risonanza – con le parole del poeta – non ci può essere al-cuna comprensione»; al contempo non si tratta di uno sforzo unila-terale, ma da parte di entrambi gli interlocutori è necessaria «la vo-lontà di instaurare un rapporto con un altro mondo, vita o idea;un’abilità a usare la propria esperienza [...] per cercare di afferrare,o comunicare, i significati che non risiedono né in parole, né in fat-ti, né in testi, ma che vengono evocati nell’incontro di un soggettoche sta facendo esperienza di un’altra persona o di un testo» (1992:463). L’autrice cerca quindi in primo luogo di creare risonanza coni suoi interlocutori balinesi lasciandosi coinvolgere intimamente nel-la loro vita, instaurando un rapporto di amicizia e scambio, parteci-pando alle attività quotidiane, in modo da divenire, giorno dopogiorno, sempre più familiare con il loro modo di esperire la vita, con«i concetti con i quali essi sentono, pensano e manipolano i fatti e letribolazioni delle loro esistenze individuali» (Wikan 1990a: XVI). Ilsecondo passaggio è quello tra l’antropologa come autrice, il testo eil lettore. Ancora un tentativo di creare risonanza, non intesa dun-que come identificazione o condivisione di un’identica esperienza,ma come tentativo di cercare nel fondo di noi stessi un ponte versogli altri, poiché «dove le culture separano, la risonanza getta ponti»(1992: 476).

Ha molti punti in contatto con il pensiero di Unni Wikan la ri-flessione proposta da John Leavitt il quale, in un saggio dedicatoall’analisi antropologica delle emozioni, ci parla di un processo dicomprensione antropologica per analogia che coinvolge pensiero esentimento, mente e corpo. La critica che questo autore rivolge aisuoi colleghi è che spesso nella quotidianità del lavoro sul campo sidipende da processi di comprensione empatica che non vengonoperò mai riconosciuti e dichiarati nelle etnografie. Se infatti è asso-lutamente ingenuo presumere l’universalità delle risposte affettive,sostiene Leavitt, è anche certamente vero che un etnografo immersonella vita dei suoi ospiti riuscirà, grazie alla lunga frequentazione enonostante le immancabili perdite di ogni processo di traduzione, acomprendere le loro emozioni. Ma questa comprensione, secondoLeavitt, è solo l’inizio della ricerca. Il problema dell’empatia non di-pende dal fatto che coinvolge il vissuto dell’antropologo, ma che –nascondendo del tutto il carattere problematico della traduzione –spesso porta a considerare come giusta la prima impressione, quan-do invece questa dovrebbe essere riesaminata e rielaborata alla luce

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di una maggiore conoscenza e familiarità con la cultura studiata9. Unricorso ingenuo all’empatia porta infatti al malinteso, in quanto nonconsidera né il punto di vista dei locali né il più ampio contesto po-litico, storico e sociale, e colloca acriticamente l’esperienza degli al-tri all’interno di concetti di persona ed emozione propri dell’antro-pologo, rischiando di dare luogo «a una forma di imperialismo oc-cidentale sulle emozioni degli altri» (Lynch 1990b: 17).

Se un’empatia aproblematica ed etnocentrica, o ancora ingenuaed egocentrica, porta al ‘fraintendimento empatico’ o alla ‘trappolaempatica’ (Bonino, Lo Coco e Tani 1998: 59), alla ‘misrisonanza im-plicita nella parzialità delle propriospettive’ (Piasere 2002: 155), a unfalso keneh causato da una «troppo facile attribuzione agli altri di ciòche uno sente-pensa» (Wikan 1992: 479), l’empatia ‘analogica e ri-flessiva’ o simpatia – attraverso la costante riformulazione del pro-prio vissuto e delle proprie categorie, il coinvolgimento attivo, lacontinua apertura e la paziente disponibilità – consente di attenua-re i rischi di incomprensione. La simpatia di Leavitt si avvicina mol-to all’empatia ‘etnografica’ di cui ci parla Michael Jackson, che si ba-sa su un’intensa e durevole relazione con gli altri, sulla coesistenza,sulla permeabilità (1998: 97). Nella prospettiva fenomenologica diJackson la possibilità dell’empatia etnografica è strettamente con-nessa con la capacità di apprendimento. La strategia metodologicache propone consiste nell’acquisizione di pratiche corporee e abilitàsociali, secondo un apprendimento che nelle società preletterate èspesso materia di osservazione e imitazione diretta: «si tratta di de-sistere dal prendere appunti per guardare, ascoltare, annusare, toc-care, danzare, imparare a cucinare, tessere tappeti, accendere unfuoco, coltivare la terra» (1989: 9), «prendendo parte alla vita quo-tidiana senza altre motivazioni: consiste nell’abitare il loro mondo»(1983: 340).

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9 Secondo Vinciane Despret, un utilizzo semplicistico dell’empatia, nel qualel’antropologo mette il proprio corpo e la propria storia a disposizione di un nego-ziato di cui egli è l’unico sito, si ricollega all’autenticità della passione e dei suoi ac-cessi: la mia passione mi dà un accesso autentico a quella dell’altro. Con le paroledell’autrice: «l’idea di un io autentico o di un nucleo di irrazionalità ‘nascosto’ oprotetto è una versione dell’emozione che coltiviamo da tempo nella nostra tradi-zione. Si noterà che questa singolare articolazione tra l’interiorità, la passività e l’au-tenticità dell’emozione presuppone una certa definizione dell’autenticità: l’emo-zione è vera, naturalmente vera, ma soprattutto spontaneamente vera. Questa de-finizione dell’autenticità esprime la separazione tra natura e cultura» (2002: 83).

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Ritorniamo alla imprégnation di Olivier de Sardan (1995), al ‘vi-vere con’ di Jackson (1989), al ‘saper fare’ di Stoller (1989), al‘knowing how’ di Ryle (1949), all’‘imbombegamento’ di Piasere(2002), al lasciarsi condurre dalla vita degli altri di Devereux (1967).Una condizione di reciproca permeabilità e recettività cui i miei in-terlocutori sul terreno si riferivano parlando di ‘contagio di emozio-ni’. Come verrà esplicitato più avanti, secondo la psicologia implici-ta bijagó le emozioni, al pari delle malattie, possono passare da unapersona all’altra, specialmente qualora queste condividano una rela-zione di prossimità, penetrando facilmente i permeabili confini cor-porei. Questa trasmissione avviene in modo involontario e quotidia-no, senza necessità di prendere appunti o accendere il registratore,semplicemente partecipando delle stesse situazioni, in particolarmodo quando queste siano di particolare intensità emotiva, come nelcaso di conflitti o crisi. La mia posizione particolare, in quanto adul-ta e straniera, non poteva non sollevare dubbi e perplessità sulle ef-fettive possibilità di questo contagio. Stava innanzitutto a me, se-condo i miei anziani precettori, adottando un’attitudine umile, at-tenta e ricettiva, rendere il mio corpo accessibile, e al loro impegnoe pazienza trovare il modo di ‘aprire i miei occhi e le mie orecchie’,ciechi e sorde alle loro parole.

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Capitolo secondo

Tu chiamale se vuoi... emozioni

Quando a Bubaque si sparse la voce che ero tornata e che inseguivocon gli anziani ricordi di imprese coraggiose, ascoltavo racconti dipaura, storie lontane di guerrieri impavidi e canzoni d’amore, tutti,a loro modo e a seconda di ciò che immaginavano potesse interes-sarmi, cominciarono a farmi parte di intrecci, trame, discorsi e can-ti, che spesso non capivo e che mi venivano ripetuti più volte, comesi fa con i bambini. Tcharte, che sa vedere gli spiriti erande, gli stre-goni iabané e le anime dei morti, mi conduceva con le sue parole neltempo rarefatto delle visioni, dove io ottusamente cercavo di rin-tracciare i sentieri della logica, non sapendo seguire quella sua in-credibile corrente di immagini. Nabon’a mi invitava ad ascoltare ilsuo roco canto di dolore, il lamento che è ormai la sua voce, dopoche tanta sofferenza le ha stretto la gola fino a soffocarla. Tcharte,volando la notte nella foresta degli spiriti perduti, cercava l’anima diNabon’a, che impazzita per il dolore cammina ora come un uccello.

Sommersa da questi racconti di visioni, sogni e voli notturni, tal-volta mi sembrava che il comportamento delle persone con le qualiconversavo, lavoravo, mangiavo quotidianamente, fosse davveroesotico e poco comprensibile. Alcune volte mi perdevo nelle nebbiedell’incomprensione. Parlavamo del dolore di fronte a una morte ei miei interlocutori mi raccontavano di fantasmi, incubi, malattie eforze vitali che continuamente attraversano i confini del corpo, dicomportamenti dolci, salati o che restano in gola, dell’esistenza di unmodo, un tempo e un luogo specifici per piangere e lamentarsi. Dispiriti erranti, di donne che camminano come uccelli, di bambini cheancora non sanno piangere, del terrore di essere annodati. Di per-sone che si suicidano per la vergogna di non aver saputo dominare ipropri sentimenti. Ancora più fuorvianti si rivelarono talvolta le si-tuazioni in cui tutto mi sembrava avere un senso, una logica. Questo

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incontro tra individui, prima ancora che tra culture, nel tentativo dif-ficoltoso di raggiungere una mutua comprensione, comportava spes-so malintesi, fraintendimenti e interpretazioni distorte dai miei e lo-ro preconcetti e aspettative. La mia identità e le mie esperienze nonpotevano non condizionare gli obiettivi e il metodo della ricerca. Ilconfronto con il campo ha imposto dunque una riflessione criticasulle teorie che costituivano il mio bagaglio di viaggio, sospendendoquando possibile l’assunto della loro universale validità, per evitaredi proiettarle inconsapevolmente su ciò che stavo osservando, impo-nendo un modello e un ordine al flusso della vita degli altri secondola mia visione del mondo1. Il mio proposito iniziale, valicando diver-si confini disciplinari, è stato dunque quello di fare emergere e af-frontare nel modo più esplicito possibile la ‘mia’ o ‘nostra’2 nozionedi ‘emozione’, così da evitare di utilizzare acriticamente questa cate-goria per tradurre e interpretare le loro esperienze. In secondo luo-go, ho delineato l’itinerario teorico che ha ricondotto le emozioni,considerate per anni come essenze universali, innate e quindi pre-culturali, nel campo di interesse dell’antropologia culturale.

1. Che cos’è un’emozione? Considerazioni su una questioneirrisolta

What is an emotion? Che cos’è un’emozione? La domanda che Wil-liam James si poneva più di cent’anni fa nella rivista filosofica«Mind» (1884), sembra non aver ancora trovato una risposta soddi-sfacente. Nonostante si sia avuta, in differenti campi del sapere, unagrande fioritura di risposte circa la natura, gli elementi costitutivi ela classificazione delle emozioni, non è ancora stato raggiunto un ac-cordo sulla loro definizione. Sembra infatti che, come affermano iro-

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1 Allan Young, in un recente articolo (1997), invita gli antropologi che inten-dono studiare questioni quali morte, malattia, sofferenza, emozioni in altri sistemidi conoscenza a interrogarsi non solo sulla struttura di questi pensieri ma, autori-flessivamente e preliminarmente, anche sulla genealogia, sui campi semantici e su-gli usi linguistici delle categorie da loro stessi adottate.

2 Per quanto diversi autori facciano riferimento a un supposto ‘pensiero occi-dentale’, scientifico e di senso comune (Overing 1985: 9; Lynch 1990: 12; Pandol-fi 1991: 43; Reddy 1997: 329; Corigliano 2001: 19, 66, 84, 95), ritengo necessarioadottare uno sguardo critico sui concetti di ‘Occidente’ e di ‘cultura’, frutto di pro-cessi di reificazione (Carrier 1992, 1995; Wagner 1975).

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nicamente Fehr e Russell (1984: 464), tutti sappiano che cosa siaun’emozione, finché non viene loro chiesto di definirla.

Nel tentativo di comprendere le implicazioni teoriche di un con-cetto tanto importante a livello esperienziale quanto ambiguo e dif-ficile da circoscrivere, ho percorso un ampio e tortuoso itinerarioteorico interdisciplinare. Questo vagabondare tra differenti prospet-tive ha messo in luce la mancanza di una distinzione analitica daglialtri costrutti semantici che si riferiscono a differenti fenomeni psi-chici di ordine intellettuale o motivazionale3. Uno degli elementi di-stintivi delle emozioni infatti è il loro essere un aggregato di stati psi-cofisici con caratteristiche diverse, difficili quindi da individuare edefinire concettualmente. La stessa idea di emozione potrebbe rive-larsi inutile come categoria scientifica, in quanto non è in grado dicostituire quello che i filosofi della scienza chiamano una classe na-turale, ‘a natural kind’ (Rorty 1980: 104-105; de Sousa 1986: 19, 185),ossia un insieme omogeneo di elementi tramite il quale si possanocompiere generalizzazioni esplicative e predittive. In tempi recenti siè cercato di definire l’emozione in una forma più ampia e articolata,descrivendola cioè come un’esperienza pluricomponenziale caratte-rizzata da aspetti cognitivi, fisiologici, espressivi e comportamentali.Ma la genericità di questa definizione non ha consentito di indivi-duare le caratteristiche necessarie e sufficienti a definire l’emozionecome categoria concettuale (Galati 1993: 165). Affrontando la lette-ratura disponibile sulle emozioni, risulta evidente che questo termi-ne viene impiegato per individuare una così ampia costellazione difenomeni che l’impresa di stabilire una definizione univoca si rivelaardua: al concetto di classe naturale sembra dunque preferibile quel-lo wittgensteiniano di somiglianze di famiglia. L’imprecisione, lamancanza di rigidità, l’apertura e quindi anche l’ambiguità del con-cetto di emozione sorgono forse dal fatto che non è tanto un concet-to scientifico, quanto una nozione d’uso quotidiano, la quale prendeil suo significato dalle concezioni locali che i soggetti impiegano perdare un senso alla loro esistenza. Spesso infatti il linguaggio comune,che riguarda complesse situazioni vissute, sembra risultare più adat-to a riflettere le sfumature del concetto di emozione di quanto non

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3 Le definizioni che sono state proposte per circoscrivere il termine ‘emozione’sono piuttosto numerose, forse superiori al centinaio (Kleinginna e Kleinginna1981). La moltitudine e varietà delle definizioni è un dato che fa riflettere, in quan-to sintomo di un’incertezza teorica, che ha evidenti risvolti sulla ricerca empirica.

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lo siano discorsi scientifici apparentemente più sofisticati, il cui in-tento definitorio dà luogo a rigide distinzioni concettuali inappro-priate a cogliere il flusso della vita quotidiana. In mancanza di unquid sostanziale definito, direbbe Wittgenstein, siamo noi che trac-ciamo i confini (Wittgenstein [1953] trad. it. 1980: 48).

Nonostante molti psicologi diano per scontata l’esistenza di uncorrispettivo di ‘emozione’ in tutte le lingue, considerandola un’e-sperienza universale, in alcune culture questo concetto non viene di-stinto in quanto categoria autonoma, quanto piuttosto assimilato adaltre forme di esperienza e connesso ad altri aspetti della realtà4. Di-verse definizioni del concetto di persona rivelano inoltre come le di-stinzioni ‘occidentali’ tra corpo e mente, pensiero e sentimento, pri-vato e pubblico, spesso si rivelano inappropriate5. Allo stesso modoaltre culture possono unire quelle che noi consideriamo emozioni di-stinte, creando nuove categorie6, oppure individuare emozioni par-ticolari e originali che non trovano facilmente una corrispondenzanella nostra classificazione emozionale7. Anche il legame tra corpo

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4 La parola ‘emozione’ non trova per esempio un equivalente nelle lingue deiPapua della Nuova Guinea (Hallpike 1979; Poole 1985), degli Aborigeni austra-liani (Hiatt 1978), degli Ifaluk della Micronesia (Lutz 1986), dei Chewong dellaMalesia (Howell 1981) e, come vedremo, anche nel caso della lingua dei Bijagódell’isola di Bubaque.

5 È il caso per esempio dei Giriama (Parkin 1985: 143-146) e dei Maori (Salo-mond 1985: 246-247).

6 Alcune lingue africane per esempio assimilano in un unico termine ‘tristezza’e ‘rabbia’ (Leff 1973: 301); in cinese viene impiegata la stessa parola per indicare‘preoccupazione’, ‘tensione’ e ‘ansietà’ (Leff 1977: 322); ‘rabbia’, ‘collera’ e ‘furia’sono raccolti nel singolo termine marah nella lingua malese (Boucher 1979: 171);l’espressione ilongot liget significa contemporaneamente ‘rabbia’ e ‘invidia’ (M.Rosaldo 1980: 44-47).

7 Questo è per esempio il caso del termine giapponese amae, che non ha unequivalente diretto nella nostra lingua e che può essere spiegato come una dipen-denza piacevole, un abbandono passivo alle attenzioni di un’altra persona, per laquale si prova contemporaneamente ammirazione (Doi 1973; Morsbach e Tyler1992: 431-453; Le Breton 1998: 127); del termine giavanese sungkan, «che si rife-risce a un sentimento di gentilezza rispettosa di fronte a una persona di rango su-periore, un atteggiamento di controllo, di repressione dei propri impulsi e deside-ri, in modo da non perturbare l’equilibrio emozionale di colui che può essere spi-ritualmente più elevato di te» (Geertz H. 1959: 283); della verguenza ajena spagnolala cui caratteristica è il ribollimento interiore che si sente alla vista di un individuoche si comporta in modo inadeguato (Crespo 1992: 295-306); o infine del lek bali-nese, la ‘paura’ che, per mancanza di autocontrollo, «l’attore emerga dalla parte»(Geertz 1988: 82).

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ed emozione, che può sembrare evidente a livello esperienziale, nonè un universale, come si potrebbe pensare: molte culture infatti col-locano il locus delle emozioni lontano dall’esperienza soggettiva, dis-sociandolo dagli individui e localizzandolo in agenti esterni8.

Il confronto con differenti sistemi di conoscenza e modi di con-cepire la relazione tra emozione, pensiero, corpo e società, mette inprimo luogo in risalto che ogni concetto di emozione è una costru-zione fondamentalmente ideologica, specifica e non universalizzabi-le, legata a teorie locali e a un’epistemologia propria di uno specifi-co panorama storico-culturale. In secondo luogo, da tale confrontoemerge la necessità di accettare la natura ambigua, polisemica e po-co nitida della nozione di emozione, anche perché spesso, per dirlacon le parole di Wittgenstein, è proprio un’immagine sfocata ciò dicui abbiamo bisogno ([1953] trad. it. 1980: 49).

2. Teorie innatiste sull’emozione

Troviamo le radici etimologiche del termine ‘emozione’ nel latino e-movere, che originariamente significa far uscire, spostarsi, ma anchein senso figurato sconvolgere (mens emota, mente sconvolta). L’usodi questa parola, con il significato che noi le attribuiamo, risale peròa poco più di trecento anni fa: secondo la sociologa Emma Coriglia-no, i primi riferimenti al termine emozione si ritrovano nella primametà del Cinquecento (il francese émotion, da émouvoir, ‘mettere inmoto, eccitare’) e vengono utilizzati per indicare turbolenze atmo-sferiche. Nel secolo successivo questo vocabolo è invece usato perdesignare stati di ‘agitazione popolare’. È solo intorno alla metàdell’Ottocento che, con un uso metaforico, viene impiegato per de-scrivere uno stato di perturbazione psicologica, assumendo quindil’attuale significato (Corigliano 2001: 61). Il termine che prima delXVIII secolo veniva utilizzato per riferirsi ai moti dell’animo erapiuttosto quello di passione, dal greco pathos (da pascho subire, tol-lerare, soffrire, essere sotto l’influenza di) da cui il latino patior (sop-portare, patire, essere passivo) e l’italiano patire. Alla base di questo

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8 Secondo Hallpike, «gli stati mentali e i sentimenti sono spesso considerati inaltre culture come esterni alla persona e come entità la cui esistenza è indipenden-te dal loro essere sentiti o pensati» (1979: 402). Esempi dell’esternalizzazione del-le emozioni sono riportati nelle ricerche condotte da Simon e Weiner sulla Greciaomerica (1966: 307) e da Lienhardt sui Dinka (1961: 149).

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concetto c’è, dunque, un’idea delle passioni come forze dalle qualigli esseri umani vengono sopraffatti, posseduti in modo relativa-mente indipendente dalla loro volontà: qualcosa dunque che ci ac-cade, che esplode dentro di noi, paralizzandoci o minacciando di far-ci perdere il controllo. Spesso rappresentate, secondo quella che So-lomon definisce «metafora idraulica» (1984: 273), come entità flui-de, dotate di una loro temperatura e pressione, che pompano all’in-terno di noi o ancora come un’energia in prossimità di esplodere, leemozioni ci riempiono e poi traboccano, ci invadono e ci soggioga-no. La loro presenza può inoltre essere metaforicamente descrittacome malattia, secondo una fisiologia simbolica che riflette il rap-porto emotivo tra l’individuo e il suo mondo (Sontag 1989; Pandol-fi 1991). Da qui la lunga tradizione di pensiero che colloca le emo-zioni all’interno dei corpi, nella sfera privata e inconoscibile dellepersone, in contrapposizione al regno pubblico della ragione e delpensiero. Dagli Stoici alla scolastica fino a Descartes9, in molti han-no messo l’accento infatti sullo stretto rapporto tra bisogni del cor-po, istinti ed emozioni, considerate pertanto una minaccia alla li-bertà e alla serenità delle attività razionali più propriamente umane.

Anche Catherine Lutz, figura centrale dell’antropologia delleemozioni (1986, 1988, 1990), ha mostrato come le teorie occidenta-li accademiche sulle emozioni si basino su una serie di dicotomie,all’interno di un sistema di valori che vede la razionalità come supe-riore (perché obiettiva, ordinata, mentale, culturale) e le emozionicome inferiori (poiché soggettive, caotiche, corporee, naturali). L’e-mozione è concepita infatti in contrasto alla ragione, così come ilcuore alla testa, l’irrazionale al razionale, l’impulso all’intenzione, lavulnerabilità al controllo, il caos all’ordine, il naturale al culturale, ilprivato al pubblico, il moralmente ambiguo all’eticamente respon-sabile, il bambino all’adulto, il femminile al maschile e così via10.Queste dicotomie banalizzano la natura complessa delle emozioni e,contrapponendo conoscenza oggettiva e sfera privata soggettiva,hanno originato una serie di problemi metodologici che hannoescluso le emozioni dal campo delle problematiche delle scienze so-

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9 Per una sintetica rassegna si vedano per esempio Abbagnano 1956 e Magri1999.

10 Questa è una delle motivazioni per cui in ‘Occidente’ le emozioni possonocostituire un’importante attenuante. Per esempio, crimini commessi in momenti diforte emozionalità, durante la sindrome premestruale e nel periodo postparto, so-no considerati meno severamente (Gusfield 1981).

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ciali. Questa marginalizzazione delle emozioni può ricondursi anchea una concezione filosofica che le ha considerate sopravvivenzedell’animale nell’umano (Darwin 1872), o comunque fenomeni na-turali e biologici di carattere non cognitivo, universali, innati e quin-di non interessanti né accessibili ai metodi dell’analisi culturale.

Solo durante il XIX secolo le emozioni sembrano spostarsidall’ambito delle speculazioni filosofiche sull’animo umano al cam-po della biologia, diventando un argomento degno di essere studia-to scientificamente. Questi studi condividevano tuttavia una conce-zione dell’emozione come fenomeno non cognitivo e involontario,che «sebbene suscettibile di influenza da parte dell’intelligenza, dellinguaggio e della cultura, non era in se stesso dipendente da questifattori complessi e storicamente condizionati» (Harré [1986] trad.it. 1992: 4). Tra i pensatori che sicuramente hanno inaugurato la con-cezione scientifica delle emozioni Charles Darwin, William James,Walter Cannon e Sigmund Freud possono essere considerati padrifondatori della moderna ricerca sulle emozioni11.

I lavori di Charles Darwin (1871, 1872) intendevano illustrare lafondamentale continuità delle espressioni emozionali tra i mammi-feri superiori e gli esseri umani, sostenendo che le emozioni sonofondate sull’attivazione fisiologica di energie istintive e innate, comeil principio di autoconservazione. La vita mentale ed emozionale sisarebbe evoluta, tramite il processo di selezione naturale, per megliofavorire l’adattamento degli organismi al loro ambiente e per garan-tire il soddisfacimento dei loro bisogni. In questa visione, stringere ipugni, digrignare i denti, tendere i muscoli, costituiscono dunqueparte di repertori comportamentali trasmessi geneticamente. Dodi-ci anni dopo la pubblicazione del libro sulle emozioni di Darwin, lopsicologo e filosofo statunitense William James scrisse un articolo incui presentava un nuovo modo di considerare le emozioni, fondan-do un’altra importante tradizione di pensiero (James 1884). Egli ipo-tizzava che le modificazioni fisiologiche seguissero direttamente lapercezione di un evento eccitante e che l’emozione altro non fosseche la sensazione di queste modificazioni, ossia l’esperienza di unevento fisiologico. Con le parole dell’autore:

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11 Per una sintesi delle teorie biologiche e psicologiche moderne e contempo-ranee sulle emozioni si vedano Plutchik 1980, 1994; Plutchik e Kellerman 1980,1983, 1986; Ekman e Scherer 1984; Jenkins e Oatley 1996; Strongman 1996; Gala-ti 2002.

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la mia teoria sostiene che i mutamenti corporei seguono immediatamen-te la percezione del fatto eccitante e che il sentimento che abbiamo diquesti mutamenti, mentre essi si producono, è la causa dell’emozione;[...] in altre parole siamo afflitti perché piangiamo, irritati perché lottia-mo, spaventati perché tremiamo, e non già piangiamo, lottiamo e tremia-mo perché siamo afflitti, irritati e spaventati (1890: 449-450)12.

Qualche anno dopo la morte di James, un fisiologo della HarvardUniversity, Walter Cannon, cominciò a pubblicare una serie di stu-di intesi a verificare e modificare la teoria di James. Nel 1929 pre-sentò infatti una critica serrata a questa teoria, sostenendo in primoluogo che le modificazioni fisiologiche si producono in molti stati or-ganici, quali la febbre o lo sforzo fisico, senza avere alcun significa-to emozionale; in secondo luogo che la separazione dei visceri dalcervello non causa l’estinzione del comportamento emozionale.L’esperienza fisiologica dell’emozione dipenderebbe anzi dall’atti-vità di alcune strutture del sistema nervoso centrale. Secondo la teo-ria di Cannon infatti, struttura chiave e nucleo centrale delle emo-zioni era il talamo: gli stimoli di natura emozionale provenienti dairecettori raggiungono infatti in primo luogo questa regione encefa-lica, che stimola contemporaneamente sia la corteccia, dando luogoall’esperienza emozionale soggettiva, sia i visceri e i muscoli, cau-sando modificazioni fisiologiche.

Nel 1895 Freud pubblicò gli Studi sull’isteria, nei quali si inter-rogava sull’origine e le cause di questa malattia, gettando al contem-po le basi per una teoria delle emozioni, in collegamento con le sueipotesi sulle pulsioni sessuali e sull’Io. Per quanto la teoria freudia-na delle pulsioni non fosse effettivamente uno studio sulle emozio-ni, forniva una base per le interpretazioni psicoanalitiche di due sen-timenti importanti, l’angoscia e la depressione. Nell’angoscia, adesempio, Freud vedeva in primo luogo una preparazione ad affron-tare il pericolo, manifestata dall’esaltazione dell’attenzione sensoria-le e della tensione motrice: uno stato d’attesa o di preparazione bio-logicamente utile a proteggere l’individuo e destinato a tradursi inazione in modo rapido e razionale. Quando, invece, lo sviluppo del-

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12 Negli stessi anni il fisiologo danese Carl Lange (1885) giunse alle stesse con-clusioni di James, attraverso un percorso intellettuale indipendente, fornendo unaspiegazione dell’emozione come percezione delle modificazioni viscerali innescatedirettamente dalla registrazione di uno stimolo.

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lo stato d’angoscia va al di là di certi limiti, diventa contrario allo sco-po biologico e dà luogo a forme patologiche. L’angoscia poteva es-sere anche originata in questo caso da desideri bloccati o da qualcheevento traumatico, ma inconscio, della vita individuale e l’emozionestessa era semplicemente una valvola di sfogo per scaricare la loroenergia.

Ciò che in ultima analisi accomuna la posizione di questi teoriciè una visione delle emozioni come qualcosa di interno all’individuoe connesso a una base genetica ereditaria e universale, legata più al-la memoria filogenetica che non all’apprendimento individuale.L’essere umano è dunque considerato come composto da livelli so-vrapposti, alla cui base troviamo un solido e uniforme substrato fi-siologico e psicologico universale, sopra il quale si adagiano il muta-mento, la variabilità, la molteplicità dei costumi. Alcuni teorici con-temporanei, facendo propria questa visione, continuano a difenderela tesi dell’esistenza di un insieme di emozioni fondamentali, innatee tramandate geneticamente, definite da espressioni facciali univer-sali. Queste emozioni, definite di base o primarie, sarebbero il risul-tato di un processo evolutivo, che ha selezionato sistemi comporta-mentali adattivi allo scopo di mobilitare in modo veloce ed efficacele risorse dell’organismo alle richieste dell’ambiente. Caratteristicheprincipali delle emozioni primarie sarebbero la rapidità dell’insor-genza, la durata relativamente breve di ciascun episodio, la conti-nuità – in linea filogenetica – tra comportamento espressivo umanoe quello animale, e l’associazione a espressioni facciali innate e uni-versali, per quanto passibili di essere culturalmente regolate, attuti-te o mascherate, attraverso ‘regole di esibizione locali’. Paradossal-mente gli studiosi che sostengono l’esistenza di emozioni primarieimmediatamente individuabili a livello fisiologico, non sono riuscitiad accordarsi né su quante e quali siano le emozioni di base, né suicriteri utilizzabili per definirle. Questa prospettiva non esclude tut-tavia l’esistenza di emozioni mediate dall’esperienza culturale, comela gelosia e l’imbarazzo: le così dette emozioni-thinking. Se le emo-zioni di base vengono connesse al sistema limbico o comunque astrutture subcorticali, le emozioni-thinking coinvolgerebbero anchele strutture corticali.

Queste teorie, generalmente definite universaliste o innatiste, ca-ratterizzate da approcci di tipo etologico e neurobiologico, hannodominato per molti anni il campo delle ricerche psicologiche e sonoemblematicamente rappresentate dai classici studi neuroculturali di

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Ekman sui movimenti facciali (Ekman 1980a, 1980b, 1984). In que-sti lavori Ekman ha cercato di identificare la correlazione tra ungruppo limitato di espressioni facciali universali e un insieme defi-nito di ‘emozioni di base’. Gli antropologi culturali hanno dura-mente criticato la metodologia utilizzata da Ekman e dagli studiosiche ne hanno condiviso l’orientamento teorico, rimproverando lorodi avere selezionato artificialmente delle emozioni ‘purificate’, se-condo criteri aprioristici13; di avere sottoposto disegni stilizzati o fo-tografie di volti astratti da un contesto a un campionario ristretto dipersone, senza tenere conto di eventuali differenze di genere, età eposizione sociale; di essersi basati su un’identificazione meccanici-stica tra movimento muscolare ed emozione propriamente detta, tra-scurando il punto di vista dei locali, il contesto e le circostanzedell’esperienza emotiva; e infine di aver fornito una traduzione apro-blematica di termini emozionali inglesi in altre lingue.

Pur quanto non si sia ancora in grado di formulare una teoriaesaustiva sui fondamentali processi coinvolti nella generazione delleemozioni, le neuroscienze negli ultimi decenni hanno tuttavia con-tribuito a una migliore comprensione dei meccanismi di base e deicircuiti neuronali che controllano le risposte emozionali. Recenti stu-di di neurobiologia hanno confermato che il cervello umano non èun organo definitivamente formato alla nascita, bensì un’entità dina-mica, modellata dall’ambiente e dall’esperienza individuale e capacedi creare continuamente nuove connessioni tra le sue cellule. Questacaratteristica viene generalmente denominata ‘plasticità’, nozioneche occupa oggi un posto centrale nell’ambito delle neuroscienze.

3. Le possibilità e la scelta: aspetti biosociali di cervello edemozioni

Già negli anni Settanta Geertz proponeva l’opinione di antropologifisici e paleo-antropologi, secondo i quali la cultura non era tanto unornamento dell’esistenza umana, ma piuttosto una condizione es-senziale, al punto che il cervello e in generale il sistema nervosodell’organismo umano richiedono un ambiente sociale e culturale

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13 Per espressione emozionale ‘pura’ i ricercatori intendevano espressioni chemanifestassero in modo inequivocabile una sola emozione di base, e non una me-scolanza di diverse emozioni, in accordo con le espressioni facciali definite dai ri-cercatori come proprie di ciascuna emozione di base.

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per poter funzionare (Geertz 1987: 89, 113). Questa prospettiva, se-condo la quale non siamo che «mostri inservibili [...], animali in-completi o non finiti che si completano e si ridefiniscono attraversola cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso for-me di cultura estremamente particolari» (Geertz 1987: 92), si colle-ga inoltre alla teoria dell’uomo come essere ‘incompiuto’, che ne-cessita, nel corso della sua vita, di apprendere capacità e conoscen-ze che non sono fornite dal suo apparato istintuale14. Contraria-mente agli altri animali, che sono geneticamente provvisti degli istin-ti necessari alla loro sopravvivenza e al loro adattamento, l’essereumano nei primi mesi o anni di vita è un organismo prematuro, aper-to, disponibile, malleabile, incompleto fisicamente e psicologica-mente, indifeso. Per la sua sopravvivenza ha bisogno delle cure edell’affetto degli altri. Proprio in virtù di questa sua indefinitezza, al-la nascita l’orizzonte del bambino è immenso, aperto a qualunquesollecitazione e tutte le condizioni umane sono virtualmente di fron-te a lui. Sarà l’educazione, supplendo alla mancanza di precise orien-tazioni genetiche, a sfoltire questo immenso campo di possibilità afavore di un rapporto col mondo particolare del quale egli si appro-prierà in modo personale (Le Breton 1998: 11).

Il cervello umano infatti si sviluppa anche dopo la nascita e la cre-scita neuronale continuerà per i primi due anni di vita; soltanto do-po comincerà a mostrare i primi segni di decrescita. Il naturale iso-lamento della corteccia e le connessioni di mielina che crescono tragli assoni, permettendo un’efficiente conduzione di impulsi elettri-ci, non si formano completamente prima dei sei anni di vita. Solo al-la pubertà si potrà dire che la maturazione fisica del cervello umanosi è completata, anche se lo sviluppo neuronale continuerà per tuttala vita. Questa combinazione di nascita prematura e sviluppo ritar-dato significa che almeno tre quarti del cervello umano si sviluppe-ranno al di fuori dell’utero, in diretta relazione con l’ambiente ester-no. Si può parlare allora di un ‘cervello ecologico o culturale’, di-pendente per tutta la sua vita dalla relazione con l’ambiente (Shore1996: 3, 5). Il nostro cervello e i nostri sensi risentono fortementedell’interazione con l’ambiente e la società, alle cui possibilità e li-miti devono adattarsi. Come i muscoli delle gambe e il senso dell’e-

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14 La tesi dell’incompletezza ontologica dell’uomo trova tra i suoi precursori,in progressione cronologica, pensatori come Montaigne, Herder, Nietzsche, Geh-len.

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quilibrio di un bambino che impara a muovere i primi passi devonoapprendere a bilanciarsi e a sostenere nel modo giusto il corpo su unterreno complesso e mutevole, così i sensi umani devono imparare a‘leggere’ l’ambiente fisico e culturale nel processo di interazione conesso.

Quest’interazione opera anche nel senso di una selezione dellepossibilità originarie e di una riduzione della plasticità, per l’acqui-sizione e la stabilizzazione di determinate connessioni a discapito dialtre: in questo processo l’ambiente, la cultura e le esperienze indi-viduali svolgono un ruolo determinante. Nella crescita, imparando agestire il mondo intorno a sé e a intrattenere relazioni sociali, alcuneconnessioni verranno mantenute e altre eliminate: per le neuro-scienze apprendere significa eliminare. Una delle caratteristiche delsistema nervoso che colpisce maggiormente, è l’enorme numero dicellule e di connessioni nervose esistenti sia nella corteccia cerebra-le sia nel cervelletto, due aree che sono coinvolte nell’apprendimen-to e nella memoria. Una tale moltitudine è esattamente ciò che oc-corre a un sistema selettivo, destinato a ridurre le possibilità attra-verso l’apprendimento. L’apprendimento consiste quindi in un’ope-ra sistematica di sfrondamento, di potatura, di riduzione delle pos-sibilità (Favole e Allovio 1999: 201)15.

Un esempio dell’azione incisiva e selettiva della cultura nella for-mazione delle sinapsi e delle reti neuronali ci viene dallo studiodell’apprendimento del linguaggio. Come noto, il bambino producee riconosce una sovrabbondanza di suoni, dei quali soltanto alcunisi troveranno nell’adulto. Patricia Kuhl (1998, 1999), riprendendouna teoria proposta già da Lévi-Strauss diversi anni prima ([1949]1967: 109-110), afferma che i neonati sono universalmente in gradodi riconoscere con precisione suoni che gli adulti non distinguono,ma cominciano a perdere questa capacità acquisendo un linguaggioparticolare. Quando il bambino supera quel momento di porositàmolto speciale, cui spesso ci si riferisce definendolo ‘periodo critico’e che va all’incirca dai diciotto mesi ai tre anni di vita, il cervello di-verrà a mano a mano sempre meno plastico e non gli sarà più possi-

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15 Questo modellamento si manifesta soprattutto nelle regioni cerebrali più‘umane’, le due grandi espansioni del lobo frontale e della parte anteriore del lobotemporale, le quali sono probabilmente le strutture neurologiche più plastiche esi-stenti in natura, e sono in grado di assumere forme diverse (Damasio et al.1997:111).

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bile apprendere un linguaggio con la stessa facilità. I centri cerebra-li legati al linguaggio sembrano non poter raggiungere piena matu-rità senza una stimolazione adeguata nel periodo adatto, come ve-dremo emblematicamente nel prossimo paragrafo parlando deibambini selvaggi. Se un bambino non viene inserito durante questoperiodo in un ambiente nel quale è utilizzata una data lingua, in se-guito non riuscirà ad acquisire e utilizzare con competenza un lin-guaggio, nemmeno se sollecitato da insegnamenti intensivi.

Si può ipotizzare un processo di apprendimento simile anche perquanto riguarda lo sviluppo ontogenetico di una specifica configu-razione affettiva. Diversi studi hanno dimostrato che, per quanto esi-stano potenzialità emozionali in tutti gli esseri umani fin dalla nasci-ta, esse rimangono tali fino a che non vengano organizzate dall’espe-rienza in comportamenti emotivi in atto. Il comportamento emozio-nale – in altre parole – pare non essere determinato da elementi in-nati più di quanto lo sia quel comportamento che chiamiamo lin-guaggio (Montagu [1978] 1999: 11). Già Hildred Geertz, antici-pando di qualche decennio queste riflessioni, sosteneva che nel cor-so della socializzazione si assiste a un processo di specializzazioneemozionale attraverso il quale il bambino apprende «certi stati af-fettivi che costituiscono una selezione dall’intera gamma di poten-ziali esperienze interpersonali ed emozionali» (1959: 225). Allo stes-so modo Clayton Robarchek (1979) ha supposto l’esistenza alla na-scita negli esseri umani di una «generalized arousal reaction», ossiauno stato generico e indifferenziato di attivazione fisiologica (arou-sal), che costituirebbe il materiale grezzo o il fondo biologico uni-versale sul quale operano le esperienze di socializzazione emoziona-le. Altri ricercatori (Fridlund 1994; Fogel 1993, 2001) hanno sotto-lineato che anche per quanto riguarda le espressioni emozionali,l’aspetto innato consiste solamente in disposizioni o facilitazioni adapprendere segnali espressivi la cui strutturazione vera e propria av-viene attraverso l’apprendimento. La struttura muscolare della fac-cia di un neonato gli offre la possibilità di un numero altissimo dicombinazioni motorie, tra le quali però vengono selezionati in baseall’apprendimento gruppi di combinazioni che acquisiscono un si-gnificato comunicativo.

Secondo studi recenti di neurobiologi e psichiatri, anche le emo-zioni che, come i sensi, sembrano essere ‘naturali’, ‘innate’, hannoquindi bisogno di un ambiente umano per potersi sviluppare cor-rettamente (Lazarus, Coyne e Folkman 1984: 230). A livello organi-

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co, come abbiamo già sottolineato, le aree del cervello importantiper l’esperienza e l’espressione delle emozioni sono precisamentequelle associate al comportamento sociale (Emde 1984; Pribram1984; Jenkins e Oatley 1996: 135). Il legame della corteccia prefron-tale con la gestione delle relazioni sociali e con lo sviluppo dei com-portamenti emozionali risulta anche da considerazioni di tipo filo-genetico. Robin Dunbar (1992, 1993), responsabile del gruppo di ri-cerca sull’evoluzione biologica dello University College di Londra,ha dimostrato che la sorprendente crescita del cervello umano, inparticolare della corteccia, durante gli ultimi cinque milioni di anni,e soprattutto l’aumento dei lobi frontali (che hanno importanti con-nessioni con il comportamento emozionale) in proporzione al restodel cervello, derivano non tanto dallo sviluppo di abilità tecniche co-me la costruzione di attrezzi, ma dall’aver intessuto numerose e com-plesse relazioni sociali, dall’aver stretto alleanze, provato simpatie eantipatie. Le relazioni di cui Dunbar parla sono chiaramente di tipoemozionale, come sottolineano anche Jenkins e Oatley (1996: 92,144). In termini evolutivi infatti la nostra capacità di esperienza edespressione emozionale è associata allo sviluppo di forme semprepiù complesse di relazione sociale: il nostro sistema affettivo nonpuò essere considerato quindi un residuo primitivo del nostro pas-sato ‘animale’, poi soppiantato dalla ‘ragione’ nel corso dell’evolu-zione umana. Seguendo questa prospettiva, si comprende perchél’evoluzione umana non abbia salito la «scala a pioli della ragione»(Reynolds 1981: 38), lasciando cadere in disuso la componente af-fettiva ed emozionale. Piuttosto, modalità affettive e razional-cogni-tive si sono evolute simultaneamente in una connessione funzionaledi ordine non gerarchico: «questa concezione della relazione tra ra-gione e emozione, come di integrazione piuttosto che di subordina-zione, costituisce una delle scoperte più liberatorie della scienza eto-logica, una teoria che si situa in marcata opposizione proprio allamaggiore dicotomia del pensiero occidentale» (Reynolds 1981: 82).

Anche le ricerche di Myers (1976) testimoniano la stretta rela-zione tra emozioni e vita sociale. Myers ha dimostrato infatti che ilcomportamento sociale ed emozionale è controllato dalle stesse areedella parte anteriore del cervello (prefrontale, anterotemporale ecorteccia orbitofrontale), che abbiamo visto essere dotate di grandeplasticità, al punto che qualora queste regioni siano chirurgicamen-te asportate, il comportamento, l’espressione facciale e la vocalizza-zione utilizzate ordinariamente nel comportamento emozionale e

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nella comunicazione sociale risulterebbero impossibili. Particolar-mente interessante risulta essere sotto questo aspetto la cortecciaprefrontale, che è coinvolta nella gestione del comportamento so-ciale e affettivo e delle ‘funzioni cognitive elevate’ e presiede quindialla relazione tra emozioni, motivazioni e comportamento intenzio-nale. Lo sviluppo dell’area prefrontale della corteccia continua perdiversi anni dopo la nascita e non si completa fino all’adolescenza(Laughlin 1989, 1991).

Secondo questa teoria, le emozioni dei neonati sarebbero incon-trollate e non definite poiché la loro corteccia si deve ancora svilup-pare a contatto con l’ambiente. In particolare Tucker e Frederick(1989) hanno scoperto che il lato destro della corteccia ha stretteconnessioni con l’amigdala, definita «il computer centrale emozio-nale del cervello», o «la porta d’ingresso sensoriale alle emozioni»(Jenkins e Oatley 1996: 151; Plutchik [1994] trad. it. 1995: 265), chesi sviluppa nel corso dell’infanzia, quando il bambino ha già avutomodo di interagire con l’ambiente circostante, e si attiva nelle situa-zioni di interrelazione. La cultura penetra dunque profondamenteanche nelle risposte e nei comportamenti emozionali, non solo perquanto riguarda gli aspetti cognitivo-linguistici, che fanno parte diun insieme di conoscenze culturalmente definito, ma anche rispettoagli elementi fisiologici e neurochimici, che necessitano di essere or-ganizzati e accordati per raggiungere un buon grado di adattamen-to al contesto ambientale e culturale (Kitayama e Markus 1994: 6).

Per funzionare il cervello ha dunque bisogno dell’interazione conl’ambiente e quindi dell’intervento della cultura. Il cervello è pro-grammato per accogliere la cultura: è ‘fatto’ appositamente per inte-ragire con essa. Come sosteneva Clifford Geertz trent’anni fa, si po-trebbe dire che, essendo il nostro cervello cresciuto in gran parte ininterazione con la cultura, specialmente per quanto riguarda la cor-teccia, è incapace di dirigere il nostro comportamento senza la gui-da fornita dai sistemi di simboli significanti (1987: 93). Allo stessomodo l’emozione dipende ed è condizione del nostro processo di in-terazione con il mondo, con gli altri e con il contesto sociale. Ma sele nostre idee, i nostri valori, i nostri atti, perfino le nostre emozionie il nostro sistema nervoso, sono dipendenti dall’influenza della cul-tura e dell’ambiente sociale, al punto che solo grazie a stimolazionimirate, solo ‘potando’ le sinapsi fino a raggiungere i livelli staziona-ri dell’età adulta, possono raggiungere la piena maturità (Robertson1999: 183), cosa accadrebbe a uomini ‘senza cultura’? Sarebbero

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forse inguaribili mostruosità con pochissimi istinti inutili, ancor me-no con sentimenti riconoscibili e nessun intelletto? (Geertz 1987:93). Gli uomini senza cultura sarebbero allora anche uomini senzaemozioni?

4. Uomini senza cultura, uomini senza emozioni

Come abbiamo visto, alla nascita il bambino si trova di fronte a unampio ventaglio di possibilità che potrebbero essere realizzate. L’in-culturazione compie un’opera sistematica di sfrondamento: il bam-bino acquisisce linguaggio, gestualità, sentimenti e percezioni sen-soriali propri della specifica cultura corporale e affettiva del suogruppo. Ma cosa accade ai bambini che hanno trascorso i primi ecruciali anni della loro vita al di fuori dei confini della società uma-na, senza intrattenere rapporti con gli altri, abbandonati a loro stes-si? I casi documentati più eclatanti riguardano bambini che furonoallevati da animali o che furono abbandonati, costretti alla reclusio-ne o all’isolamento, a causa dell’indifferenza e della negligenza deigenitori e che quindi furono privati nei primi anni di vita di un con-tatto umano sufficientemente prolungato da assicurare loro una so-cializzazione di base16. Testimonianze di bambini allevati da anima-li sono piuttosto rare, ma Lucien Malson (1972) e Douglas Candland(1993) ne hanno raccolte quasi una cinquantina. L’esperienza emo-zionale e corporale di questi bambini si trova ai confini di quello checomunemente consideriamo ‘comportamento umano’, conferman-do come anche le nostre sensazioni ed emozioni più intime, i limitidelle nostre percezioni e lo sviluppo dei nostri sensi, la nostra piùelementare gestualità e addirittura la forma stessa dei nostri corpi, ri-velano l’ambiente sociale e culturale particolare nel quale siamo cre-sciuti, l’impronta che la cultura ha lasciato in noi.

La storia di Amala e Kamala è forse il caso più documentato, gra-zie alla pubblicazione del diario del reverendo J.A.L. Singh, l’uomoche le trovò e che se ne prese cura insieme alla moglie fino alla loromorte. Nel 1920, durante un viaggio nella regione di Midnapore inIndia, il reverendo fu avvertito da alcuni locali della presenza di ‘uo-mini fantastici’ nella foresta. Recatosi in quel luogo vide uscire da un

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16 Un’interessante riflessione sugli effetti dell’isolamento prolungato sul com-portamento emozionale viene proposta da Le Breton 1998.

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riparo tre lupi adulti, seguiti da alcuni cuccioli e dalle due bambine,l’aspetto delle quali era difficilmente definibile come umano. Stan-do a quanto riportato nel diario del pastore protestante Singh, lebambine presentavano sembianze inquietanti: mascelle forti e pro-minenti; denti aguzzi con bordi taglienti e canini appuntiti; occhistranamente brillanti nell’oscurità; braccia e mani sproporzionata-mente lunghe; articolazioni delle ginocchia e delle anche che non sipotevano né aprire né chiudere, adatte però a camminare veloce-mente a quattro zampe; spesse callosità sui palmi delle mani, dei pie-di e sulle ginocchia. Le due bambine riproducevano perfettamentel’ululato e l’abbaiare dei lupi, ansimavano accaldate lasciando pen-dere la lingua tra le labbra, potevano vedere di notte senza difficoltàe avevano sviluppato un olfatto finissimo, che permetteva loro di ri-trovare oggetti nascosti solo fiutando l’aria. Di giorno si rifugiavanoall’ombra o restavano immobili a fissare un muro, lanciando talvol-ta dei latrati acuti; dormivano solo qualche ora per notte, avvinghia-te l’una all’altra, sussultando al minimo rumore, poiché anche il lo-ro udito era straordinariamente sensibile. Leccavano i liquidi e si nu-trivano preferibilmente di carne cruda, accucciate, il viso abbassato.Buona parte della giornata la spendevano catturando polli e uccellie sotterrando i resti di ciò che era stato servito ai pasti. Ringhiavanoe mostravano i denti quando qualcuno le avvicinava17.

Questo breve resoconto delle caratteristiche corporali e compor-tamentali delle due bambine sottolinea la malleabilità del corpoumano. Mantenute al di fuori di legami sociali umani, lasciate allecure di animali nei più formativi anni della loro vita, Amala e Kamalarealizzarono possibilità fisiche che generalmente non vengono svi-luppate all’interno di un contesto sociale umano. Queste modalitàcorporali, che hanno permesso alle due bambine di sopravvivere inuna situazione estrema, illustrano emblematicamente il grande po-tere d’adattamento di cui dispone l’uomo, riassunto nel concetto di‘plasticità’. Come il loro corpo e i loro sensi, così anche le loro emo-zioni, non sviluppate e modellate da un ambiente umano, risultaro-no compromesse: secondo il diario del reverendo Singh, le bambinenon risero, sorrisero o piansero mai e neppure manifestarono segnidi collera o impazienza. «Non le ho mai viste ridere o sorridere du-rante i primi tre anni al di fuori di lievi segni esteriori di soddisfa-

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17 Singh e Zingg 1980: 37-50; Classen 1991: 45-60; Candland 1993: 61-64; LeBreton 1998: 14-15.

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zione che si esprimevano nel loro aspetto e nei loro atteggiamenti almomento di mangiare, specialmente quando avevano molta fame etrovavano della carne cruda» (Singh e Zingg 1980: 57). Alla mortedi Amala, Kamala manifesterà per la prima volta un’emozione che ilpastore Singh riconosce come ‘dolore’, agitandosi e annusando peralcuni giorni il luogo dove solitamente dormiva la sorella e gli oggettiche aveva toccato (Candland 1993: 66; Le Breton 1998: 17). Ciono-nostante, gli sforzi del pastore e di sua moglie rimarranno vani: Ka-mala non apprenderà mai a parlare o a vivere in modo socialmenteaccettabile dal punto di vista umano.

Simile è il caso di bambini vissuti per lungo tempo isolati, comeVictor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, trovato nei boschi di Cau-ne e affidato al professor Itard. È possibile ricostruire la storia di Vic-tor grazie a numerosi documenti18. Nel gennaio del 1800, dopo es-sere stato visto una prima volta nel 1797, Victor, un bambino di cir-ca dodici anni, venne catturato da alcuni contadini. Philippe Pinel,membro della commissione designata dalla Società degli Osservato-ri dell’Uomo e medico dell’Asilo dei Malati Mentali di Parigi, dopoaverlo osservato per un breve periodo scrisse un rapporto molto cri-tico sulle possibilità di progresso del bambino, classificandolo comedemente. Pinel notò l’incapacità di Victor di fissare l’attenzione suun oggetto; la debolezza della vista; il mutismo, al di fuori di picco-li versi gutturali e uniformi; l’insensibilità olfattiva e uditiva; l’inetti-tudine a comunicare, imitare e memorizzare; l’incompetenza emoti-va; l’assenza di qualsiasi sentimento morale (Itard [1801, 1807]1995: 16). Il ragazzo venne poi affidato a Jean Itard, dottore e peda-gogo dell’Istituto dei Sordomuti di Parigi, convinto sostenitore del-la teoria della natura sociale dell’uomo. Là dove Pinel pretese di ve-dere in questo bambino «un’identità assoluta e perfetta con gli idio-ti» (Itard [1801, 1807] 1995: 17), Itard individuò solo le conseguen-ze dell’isolamento negli anni formativi dell’infanzia: un handicap sì,ma di educazione e di contatto con gli altri, cui egli pensò di poterrimediare dedicandogli una particolare attenzione pedagogica.

Victor era resistente al freddo, al punto che veniva spesso sor-preso a rotolarsi nudo nella neve; allo stesso modo si mostrava in-sensibile alle alte temperature: raccoglieva senza dolore carboni ar-denti caduti al suolo per riporli nel camino e in cucina prendeva le

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18 Itard [1801, 1807] 1995; Candland 1993; Shattuck 1994. Si veda anche il filmdi François Truffaut, L’enfant sauvage (1970).

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patate dall’acqua bollente in cui stavano cuocendo per mangiarle(Candland 1993: 25). Itard sottopose allora Victor a una serie di pro-ve destinate a modellare socialmente la sua percezione termica: neldiario si racconta con quale rigore gli vennero inflitti lunghi bagniquotidiani prima bollenti e poi ghiacciati. In seguito a questo lentolavoro di erosione, Victor cominciò a conformarsi all’ambiente in-torno a lui e contemporaneamente divenne di salute cagionevole.Itard notò l’indifferenza del bambino alle iniezioni, la sua ripugnan-za a dormire in un letto, la sua insensibilità all’odore del tabacco, ildisgusto per l’alcool, il vino e lo zucchero; inoltre osservò che Vic-tor appariva completamente indifferente alle donne, nonostante fos-se in piena pubertà, e incapace di ridere o di piangere (Itard [1801,1807] 1995: 133). Questo tenderebbe a dimostrare che anche l’ap-petito sessuale, carattere apparentemente innato, naturale, è in qual-che modo dipendente dalla cultura e dall’essere stati socializzati acontatto con gli altri (Candland 1993: 12). Pinel aveva notato unamancanza di udito in Victor, ma le osservazioni di Itard ne sottoli-nearono piuttosto il carattere selettivo: il rumore di una noce rottaaccanto a lui, lo squittio di un topo, il movimento della chiave nellatoppa della sua stanza, erano suoni che suscitavano la sua attenzio-ne. Vivendo nella foresta aveva imparato a orientare i suoi sensi al fi-ne di catturare suoni rilevanti per i suoi bisogni, differenti da quellidi una persona vissuta in un ambiente sociale. Restava invece del tut-to indifferente ad altri stimoli sonori che non erano per lui degni diconsiderazione, fossero anche lo scoppio di un colpo di pistola ac-canto all’orecchio. Dopo alcuni anni Victor apprenderà a comuni-care attraverso il linguaggio gestuale, ma non imparerà mai a parla-re, né svilupperà mai un comportamento morale, emozionale e unapersonalità pienamente socializzata.

Senza voler qui dirimere la questione su quanto di biologico equanto di culturale vi sia nelle emozioni, il caso dei bambini selvag-gi ci mostra che è l’apprendimento che genera la ricchezza e la com-plessità della vita emozionale umana. L’uomo in quanto tale non esi-ste al di fuori di una cultura pienamente umana: senza lo specchiodelle parole e del comportamento altrui, sul quale modellare il rap-porto col mondo, col suo corpo e con le emozioni più intime, «ilcomportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, unpuro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua espe-rienza sarebbe praticamente informe» (Geertz 1987: 89).

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5. L’emozione tra corpo e cultura

In che misura possiamo allora dire che l’inculturazione influisce sulraggiungimento di una piena maturità emozionale negli esseri uma-ni? A questa domanda una delle risposte più significative è stata for-nita dalla psicologia cognitivista. Secondo questa prospettiva, lo svi-luppo emotivo risulta dall’acquisizione di ‘schemi interpretativi’,culturalmente specifici, del significato delle situazioni: sono pro-prio questi processi di valutazione (appraisal) che, attribuendo auno stimolo un valore, lo rendono significativo per l’individuo equindi emotigeno e che allo stesso tempo rendono l’individuo ‘emo-tivo’. L’emozione è dunque concepita come una forma di rispostanon innata, ma dipendente da processi di attribuzione del signifi-cato che sono influenzati dall’apprendimento e dalle esperienze in-dividuali.

Se nella prospettiva evolutivo-funzionalistica era riconosciutauna maggior efficacia causale agli antecedenti situazionali, intesi co-me categorie universali di eventi in grado di attivare il processo emo-zionale, nella prospettiva cognitivista il ruolo causale è attribuito aiprocessi cognitivi. Il significato e la rilevanza degli stimoli attivatorinon sono considerati come dati e quindi come caratteristiche intrin-seche degli stimoli stessi, ma come attribuiti a essi da processi co-gnitivi di valutazione, profondamente influenzati dalla cultura e me-diati dall’attività di strutture neocorticali. Per quanto non venganocompletamente negati gli aspetti biologici delle emozioni, lo svilup-po emozionale è però considerato un effetto dell’apprendimento in-dividuale e dell’assunzione di modelli di comportamento social-mente condivisi. Una visione che consideri le emozioni come essen-zialmente costituite da processi cognitivi di attribuzione di signifi-cato e valutazione dello stimolo, porta quindi a un maggiore inte-resse per gli aspetti dell’esperienza individuale e per i processi di ap-prendimento che possono influenzarli, riconducendo le emozioni alcampo di interesse dell’antropologia culturale.

Uno dei maggiori teorici dell’appraisal è lo psicologo Richard La-zarus (1982, 1984, 1991) il quale, a partire dagli anni Settanta, ha so-stenuto che lo studio delle emozioni deve sempre comprendere co-gnizione, motivazione, adattamento e attività fisiologica: la sua teo-ria è stata infatti definita «sistema esplicativo cognitivo-motivazio-nale-relazionale». L’idea centrale del suo pensiero è infatti chel’emozione dipende da una valutazione dello stimolo, ossia da un

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processo valutativo che stima i danni e i benefici personali esistentiin ogni interazione persona-ambiente. Le valutazioni sono però ri-ducibili ad alcune limitate categorie di attribuzione di significato cheLazarus definisce core relational themes, e cioè temi o strutture di si-gnificato nucleari, delle quali ciascuna è causa di una specifica emo-zione primaria. Le emozioni, secondo Lazarus, non sono semplici ri-sposte alle sollecitazioni dell’ambiente programmate geneticamentee dunque innate, ma implicano piuttosto un’elaborazione comples-sa, mediata da attività cognitive controllate dai centri corticali supe-riori. Le emozioni vanno quindi spiegate secondo un principio psi-cobiologico, in base al quale è biologicamente determinato il rap-porto tra il risultato di una valutazione e la sua conseguenza emo-zionale, ma non lo è il tipo di valutazione di una certa situazione, ilquale dipende infatti dalla personalità individuale, dall’apprendi-mento e dalla cultura.

La teoria di Lazarus viene in parte modificata dalle ricerche diOrtony, Clore e Collins (1988), condotte a partire dalla fine degli an-ni Ottanta: secondo questi autori, non esiste una serie numerabile dischemi valutativi di base diversificati e specifici per ciascuna emo-zione primaria (i core relational themes di Lazarus), ma ogni emo-zione deriva dalla combinazione di un grande numero di modalitàvalutative. Queste ultime sono limitate, ma le loro combinazioni pos-sibili sono numerosissime, quindi anche le emozioni che possonocausare. L’universalità delle emozioni, in questa prospettiva, è quin-di un’ipotesi insostenibile: differenti gruppi umani di diverse cultu-re possono infatti reagire alle situazioni e alle sollecitazioni dell’am-biente in modo diverso e possono perciò esperire diverse tipologiedi emozioni. Il rifiuto di accettare la nozione di emozioni primarie,accolta invece da Lazarus, non comporta quindi necessariamentel’abbandono dell’idea che potrebbero esserci elementi di base daiquali sono costituite le differenti emozioni. Non c’è però alcuna ra-gione per credere che tali elementi siano essi stessi emozioni: è mol-to più probabile che siano elementi di cognizione, sensazioni e con-figurazioni di valutazioni emotivamente significanti. Questa pro-spettiva, che mi sembra epistemologicamente sostenibile, è stata ri-presa ed esposta con particolare chiarezza da Ortony e Turner(1990), in un articolo il cui principale obiettivo era quello di scardi-nare l’idea dell’esistenza di emozioni primarie o di base. Con le pa-role degli autori:

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Forse la migliore analogia che può essere istituita è quella tra emo-zioni e linguaggi. Ci sono centinaia di lingue umane e molte altre sareb-bero possibili. Tuttavia, i linguisti non cercano di spiegarle ipotizzandoun piccolo gruppo di linguaggi di base da cui deriverebbero tutti gli al-tri. Allo stesso tempo i linguisti riconoscono però che ci sono delle limi-tazioni alle lingue possibili e che esistono alcuni elementi di base delle lin-gue, così che ciascuna lingua comprende specifici sottogruppi di un nu-mero limitato, per quanto grande, di elementi costituitivi di base (peresempio proprietà sintattiche e fonologiche). Inoltre, alcuni dei limitihanno la loro radice nella natura biologica degli individui. In sintesi ciòche è basico sono i costituenti dei linguaggi, che non sono evidentemen-te linguaggi essi stessi. Allo stesso modo dobbiamo pensare riguardo alleemozioni (Ortony e Turner 1990: 329).

A livello organico, come abbiamo visto, oltre all’ipotalamo e al si-stema limbico si rivelano particolarmente importanti per la valuta-zione cognitiva degli stimoli e per l’esperienza e l’espressione delleemozioni, la corteccia prefrontale e i lobi frontali, ossia precisamen-te le aree associate con il comportamento sociale19. Occorre quindi,secondo i cognitivisti, guardare all’emozione essenzialmente come aun ‘processo relazionale’, attraverso il quale abbiamo attivamenteesperienza del mondo e comunichiamo con gli altri e che necessitadi un ambiente umano per potersi sviluppare correttamente. Sel’emozione sentita traduce quindi il significato particolare datodall’individuo alle circostanze che gli accadono, allora le emozionipossono essere considerate veicolo privilegiato per comprendere leteorie locali sulla morale e per cogliere le norme e i valori fonda-mentali sui quali si basa una determinata società.

Nelle conclusioni raggiunte dai teorici dell’appraisal trova soste-gno teorico la prospettiva del costruzionismo sociale delle emozio-ni, che si richiama direttamente a Berger e Luckman (1966). Le tesiprincipali di questa teoria sono enunciate in un testo curato da RomHarré, significativamente intitolato The Social Construction of Emo-tions (1986 ). Come per i cognitivisti, anche per i costruzionisti so-ciali l’emozione deriva dall’interpretazione e valutazione di uno sti-

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19 Damasio (1994) ha mostrato che pazienti con danni alla corteccia prefronta-le ventromediale, coinvolta nell’integrare la conoscenza sociale con l’affetto, sonoincapaci di governare il loro comportamento in accordo a regole sociali o anche dicomportarsi in modo che massimizzi i loro interessi personali, perché non possonoconnettere le loro conoscenze cognitive con esperienze affettive.

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molo, ossia da un processo di attribuzione di senso e valore. L’emo-zione però, in questa tesi, viene considerata e spiegata come un fe-nomeno sociale consistente in una serie di risposte apprese che ser-vono a regolare l’interazione sociale tra gli individui, piuttosto che asalvaguardarne la sopravvivenza biologica. Le emozioni sono quin-di considerate come modelli di esperienza acquisiti, costituiti da pre-scrizioni e apprendimenti socioculturali, storicamente situati e strut-turati sulla base del sistema di credenze, dell’ordine morale, dellenorme sociali e del linguaggio, propri di una particolare comunità.È quindi possibile spiegare le emozioni come fenomeni sociali sen-za alcun bisogno di riferirsi ad aspetti biologici di ordine genetico:una sorta di codice di comportamento sociale acquisito attraversol’educazione, a partire dall’infanzia, che prescrive a ciascuno comedeve comportarsi in determinate circostanze tipiche. Sono gli adul-ti che insegnano ai bambini a interpretare in determinati modi le si-tuazioni in cui si trovano. In questo senso le emozioni sono conside-rate costruzioni sociali, variabili come qualsiasi altro fenomeno cul-turale: per un verso quindi non ha senso parlare di emozioni innatee universali, identiche attraverso le culture e attraverso il tempo20;per l’altro non è possibile comprendere le emozioni rivolgendo losguardo esclusivamente all’organismo fisico o al singolo individuodecontestualizzato.

Secondo questa prospettiva, le nostre categorie di pensiero comele nostre emozioni sono quindi costituite dai processi di socializza-zione e dalle relazioni ed esperienze che abbiamo avuto all’internodi un particolare contesto socioculturale. Le emozioni, come risul-tato di una valutazione cognitiva di situazioni vissute, sono quindiformate anche dalle strutture interpretative e direttive di azione (mo-delli culturali o guidelines incorporate) proprie di ogni cultura. Que-sti modelli o schemi culturali, che si condividono con «persone chehanno avuto alcune esperienze come le tue, ma non con tutti»(Strauss e Quinn 1997: 49), si acquisiscono non attraverso genera-lizzazioni esplicite, ma attraverso esperienze e partecipazioni ripetu-te. Dal momento che le esperienze di vita possono essere simili, mamai identiche, e l’ambiente ideologico e culturale non è interna-mente coerente, ma presenta messaggi in conflitto, ambiguità e cam-

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20 I costruzionisti sociali hanno cercato conferma della loro teoria attraverso ri-cerche etnografiche e storiche, cercando cioè di testimoniare la diversità delle emo-zioni in differenti culture e le mutazioni storiche del repertorio emozionale all’in-terno della stessa cultura. Per alcuni esempi si veda Harré 1986 .

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biamenti, il processo di ‘interiorizzazione’ è molto complesso(Strauss 1992: 8, 11). L’ordine sociale infatti non è un master pro-grammer, come la cultura non è ‘loaded in’, installata in noi, come sesi trattasse di un computer. L’acquisizione di questi modelli dunquenon è mai una pura replica che si svolge come la trasmissione di unfax (Strauss 1992: 1-2). Il concetto di ‘interiorizzazione’ di Strauss,che richiama nozioni analoghe quali ‘embodiment’ o ‘incorporazio-ne’, vuole dimostrare, da un lato, l’importanza del corpo, dall’altro,quella della cultura, fondamentale per costruire gli schemi cognitivie formata a sua volta da questi schemi (Piasere 2002: 72).

Secondo le neuroscienze, questi modelli o schemi sarebberocompatibili con la struttura neuronale, ossia con l’organizzazione aconnessioni reticolari delle cellule nervose: «gran parte della strut-tura dei nostri sistemi concettuali dipende in pari misura tanto dainostri corpi e dai nostri cervelli, quanto dal mondo che si trovaall’esterno dei nostri corpi» (Lakoff 1998: 118). La teoria delle emo-zioni di Damasio si inserisce all’interno di questo dibattito propo-nendosi esplicitamente come anticartesiana, ossia non fondata suldualismo di mente e corpo. L’errore di Cartesio, titolo del suo testopiù conosciuto (1994), consiste infatti nell’aver separato il corpo dal-la mente, o meglio nell’aver ‘smaterializzato’ la mente e ‘dementaliz-zato’ il corpo. Secondo Damasio, l’emozione non può essere ridottainfatti all’attività mentale del cervello: egli propone dunque un mo-dello integrato dell’attività sinergica del corpo e del cervello, consi-derando le emozioni come una combinazione di atti valutativi – ba-sati sulla competenza sociale, che egli definisce con una terminolo-gia tradizionale ‘ragion pratica’ – e conseguenze somatiche. L’ipote-si di Damasio è quella di una ‘mente incorporata’ e di una profondacontinuità tra processi fisiologici, emozionali e cognitivi: l’obiettivoè quello di fornire una spiegazione unitaria dell’organismo attraver-so una ‘mentalizzazione del corpo’ e una ‘somatizzazione della men-te’ (Damasio 1994).

La teoria delle emozioni di Damasio fornisce un sostegno neuro-biologico al concetto di mindful body, proposto dalle antropologheLock e Scheper-Hughes (1987). Questa nozione, unitamente a quel-la di embodiment elaborata pochi anni dopo da Csordas (1990,1994), è stata introdotta nelle scienze sociali per superare la spinosaquestione della relazione tra corpo e mente. Il termine embodimentindica infatti lo stato o il processo che risulta dall’interazione conti-nua di corpo e mente o piuttosto dalla concettualizzazione di questi

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elementi come costituenti una più larga unità, definita body/mindmanifold (Samuel 1990). In altre parole embodiment designa l’inter-sezione del biologico e del culturale nell’ambito dell’esperienza vis-suta, come anche l’iscrizione e la codificazione della memoria in for-ma somatica o somatizzata, in sintonia con quanto proposto daBourdieu (1972) e Connerton (1989) tra gli altri.

Una prospettiva che rifiuta di assimilare l’emozione alla pura sen-sazione o alla pura cognizione culturale, è stata curiosamente espres-sa più di trent’anni fa dal filosofo Moreland Perkins (1966), inizial-mente in risposta alla teoria costruzionista di Errol Bedford (1957),che considerava le emozioni solo come valutazioni. Secondo la vi-sione di Perkins, le emozioni sono interpretazioni che si alimentanodi norme collettive implicite, intima conseguenza di un apprendi-mento sociale, espresse poi a livello corporeo, in base al modo di fa-re e alla storia personale di ciascun individuo. Questo apprendi-mento differisce dall’educazione formale, costituendosi piuttostocome una vera e propria educazione dei sensi, la quale avviene at-traverso l’interazione quotidiana con il mondo fisico e sociale. Leemozioni, nel palesare la loro natura di costrutti culturali, non per-dono quindi la loro dimensione corporea, rivelando un’essenza con-temporaneamente biologica e sociale.

Attraverso questo ampio percorso teorico siamo quindi giunti auna visione delle emozioni come modi di essere nel mondo, ossiamodi di dare un senso e agire nel mondo. Un contributo importan-te a questa prospettiva che stiamo cercando di chiarire giunge da Mi-chelle Rosaldo, la quale ben sintetizza il senso della complessità eambivalenza costitutiva delle emozioni, coniando la felice definizio-ne di ‘pensieri incorporati’. Con le sue parole, che inaugurarono ilfilone teorico che Lutz e White (1986) definirono antropologia delleemozioni, occorre considerare questo importante ambito dell’espe-rienza umana «non come qualcosa che si contrappone al pensiero,ma come cognizioni che interessano un Io corporeo, come pensieriincorporati (embodied)» (M. Rosaldo [1984] 1997: 162), situandoloin quella zona di confine in cui individuo, corpo e società si incon-trano e si fondono.

6. Antropologia delle emozioni

Per lungo tempo le emozioni sono state considerate anche dagli an-tropologi come eventi privati, psicologici, ineffabili e innati; se non

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senza valore, comunque indipendenti dalla cultura e quindi al di fuo-ri delle possibilità di comprensione dello scienziato sociale. EmileDurkheim (1895), ad esempio, nel definire interessi e metodi dellasociologia quale disciplina capace di differenziarsi dalle scienze na-turali e da altre discipline già affermate, come la psicologia, tracciòuna netta divisione tra il sociale, oggettivo e determinato da causeesterne, e lo psichico, appartenente alla soggettività, al corpo, lega-to al vissuto individuale e quindi imprevedibile (Corigliano 2001:71). Il mondo delle emozioni appartiene, in quest’ottica, da un latoalla sfera della biologia, che si occupa della struttura geneticadell’uomo, e dall’altro alle discipline psicologiche: a esse è stato de-legato il compito di studiare «il lato oscuro dell’uomo» (Lévi-Strauss1962: 99).

Se anche nel funzionalismo britannico erano escluse dall’ambitodella ricerca sociale, nell’antropologia culturale americana le emo-zioni, interpretate nell’ottica freudiana, diventarono oggetto possi-bile di indagine. Franz Boas aveva affermato già nel 1888 che «le rea-zioni emotive che noi percepiamo come naturali sono in realtà de-terminate culturalmente e che i dati etnologici confermano che nonsolo la nostra conoscenza, ma anche le nostre emozioni sono il risul-tato della forma della nostra vita sociale e della storia del gruppo cuiapparteniamo» ([1888] 1940: 635, 636) e che dunque «è impossibi-le determinare a priori quali parti della nostra vita mentale sono co-muni all’intera umanità e quali invece sono dovute alla cultura nellaquale viviamo» ([1888] 1940: 636). La sua scuola accettava tuttavial’assunto dell’unità psichica di base, pur temperato dalla consape-volezza della possibilità di variazioni dipendenti dalle differentiesperienze socioculturali21. Il principio dell’unità psichica, nono-

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21 Questa prospettiva di analisi, nota come ‘cultura e personalità’, si basa sull’as-sunto che la personalità degli individui è plasmata dalla cultura di appartenenza, alpunto che ogni gruppo presenta una specifica costellazione di caratteristiche psi-cologiche, definita variamente ‘personalità di base’, ‘personalità modale’, ‘caratte-re sociale’. Secondo questa prospettiva, a sistemi socioculturali differenti corri-spondono particolari ‘toni’ affettivi, ‘modelli’ e ‘stili’ di emozionalità, ‘caratteri na-zionali’, ‘configurazioni’ o ‘ethos’, concetti che si rivelarono molto utili come modidi organizzare i dati, piuttosto che come spiegazioni della realtà sociale e indivi-duale (Benedict 1934; Bateson 1936; Bateson e Mead 1942; Mead 1953). Le criti-che che più comunemente vennero rivolte a questi studi sono le seguenti: in primoluogo, assumevano acriticamente che ogni aspetto della cultura fosse coerente contutto il resto e che a ogni società studiata corrispondesse una particolare persona-lità, senza riflettere sulle complesse relazioni tra persona e cultura; in secondo luo-

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stante non fosse più in voga la concezione dell’evoluzione unilinea-re, aveva tuttavia un’importante implicazione politica. Ruth Bene-dict e Margaret Mead, per esempio, mantennero nei loro lavori unaversione ‘morbida’ del concetto di unità psichica, che permise lorodi combattere il razzismo, confutando coloro che negavano i dirittiumani fondamentali ai popoli non occidentali: nella pratica peròquesto si trasformò in un difficile tentativo di bilanciamento, poichél’obiettivo del loro lavoro etnografico era invece quello di sottoli-neare la diversità della vita mentale di altri popoli. La soluzione cheadottarono fu di sostenere che l’intervento della cultura, per quantofondamentale per lo sviluppo emozionale dell’individuo, si limitas-se a illuminare od oscurare particolari aree di questa struttura psi-cobiologica innata e universale.

Il concetto di unità psichica del genere umano e la conseguenteconcezione delle emozioni come naturali e universali giustificaronoa livello teorico una supposta possibilità di comprensione immedia-ta tra persone di culture diverse: l’antropologo avrebbe quindi po-tuto comprendere empaticamente le emozioni altrui in quanto iden-tiche alle proprie, in virtù della comune umanità, e utilizzare senzaproblemi le proprie categorie per descrivere un altro mondo affetti-vo. In un universo di costumi bizzarri e logiche differenti, era confor-tante assumere che gli altri non erano poi così diversi da noi quandopiangevano, ridevano, amavano e si arrabbiavano. Varie critiche so-no state a ragione mosse agli approcci che si sono avvalsi in modoaproblematico dell’empatia come «sensibilità straordinaria, quasiuna capacità preternaturale di sentire, pensare e percepire come i na-tivi» (Geertz 1988: 72) – qualità che forse possiedono gli angeli te-lepatici che popolano il cielo di Berlino22, non gli antropologi – inquanti spostavano la possibilità di comprensione transculturale inun’improbabile dimensione extraculturale nella quale sarebbe pos-sibile «un accesso emozionale diretto alle persone di altre culture»(Reddy 1999: 262).

La prospettiva cognitivista, che abbiamo delineato nel paragrafoprecedente, sposta invece l’attenzione del ricercatore verso i signifi-cati e le valutazioni locali, culturalmente specifici, che costituiscono

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go, le loro osservazioni di campo venivano interpretate secondo teorie psicologichee categorie concettuali occidentali, che distorcevano la valutazione dei dati, trascu-rando il punto di vista degli interlocutori locali.

22 Win Wenders, Der Himmel über Berlin [Il cielo sopra Berlino]1987.

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parti integranti delle emozioni. Anche se il lavoro sul lessico delleemozioni a Giava di Hildred Geertz (1959) e quello di CliffordGeertz sulla persona a Bali ([1966] 1973) avevano già adottato unapproccio teorico analogo intorno agli anni Sessanta, la lettura del-le emozioni come costruzione sociale si sviluppa in antropologia es-senzialmente a partire dagli anni Settanta, dal lavoro di Jean Briggs(1970) sull’espressione delle emozioni tra gli Eschimesi Utku,all’analisi di Robert Levy (1973) dell’etnopsicologia tahitiana, finoallo studio di Michelle Rosaldo (1980) sulle passioni degli Ilongotdelle Filippine.

Negli anni Ottanta numerosi lavori etnografici sono stati dedica-ti all’analisi dei discorsi locali sulle emozioni, intesi non solo comeveicoli espressivi, ma piuttosto come atti pragmatici. In queste ri-cerche le emozioni sono state considerate come un linguaggio pri-mario per definire, negoziare, riflettere e strutturare relazioni socia-li e per costruire una ‘condotta sociale’ (Abu-Lughod 1986; Bailey1983; Lutz 1988; Myers 1979, 1986; M. Rosaldo 1980), analizzandoattività istituzionalizzate come la caccia alle teste (M. Rosaldo 1980)o osservando rituali come modelli esemplari ‘cristallizzati’ di stiliemozionali (Schieffelin 1976), cercando di cogliere le teorie indige-ne sulla persona (Fajans 1983, 1997; Riesman 1977, 1992; White eKirkpatrick 1985) e le ideologie che sorreggono le differenze di sta-tus e le caratterizzazioni di genere (Bailey 1983; Appadurai 1985;Abu-Lughod 1986; Lutz 1990; Obeyesekere 1990; Pandolfi 1991).Parlare di emozioni significa dunque discutere questioni che hannoa che fare con il potere, la politica, la parentela, i cambiamenti stori-ci, le differenze di genere, i concetti di normalità e devianza. Signifi-ca anche descrivere «modelli locali di persona, pensiero e sentimen-to» (White e Kirkpatrick 1985: 5), studiare «il modo in cui le perso-ne concettualizzano, orientano e discutono i processi mentali e icomportamenti propri e altrui» (Lutz 1985: 36), analizzare «i giudi-zi o le idee sul modo in cui le persone dovrebbero agire o su cosa do-vrebbero provare» (Heelas 1981: 3). Mentre molti ricercatori si so-no dedicati a interpretare le emozioni in relazione al contesto cultu-rale come forma di discorso sociale, altri hanno posto l’attenzionesugli aspetti estetici della cultura e sulla relazione tra arte e senti-menti, trattando racconti, performance, poesie e suoni non solo co-me testi per un’analisi culturale, ma come pratiche sociali con effet-ti reali. Tra questi sono un utile riferimento Lila Abu-Lughod (1986)che ha analizzato le emozioni nella poesia dei Beduini Awlad ‘Ali,

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Steven Feld (1982) e Edward Schieffelin (1976) che hanno lavoratosui sentimenti espressi nelle canzoni e nella musica dei Kaluli dellaNuova Guinea, e più recentemente Joanna Overing e Alan Passes(2000), che hanno curato un volume dedicato all’estetica della con-vivialità tra i nativi dell’Amazzonia. L’accento sui discorsi locali ècruciale per comprendere come le emozioni sono costituite, e ci por-ta a considerarle come pratiche o modalità di azione che partecipa-no di uno specifico sistema di senso e valore, del quale al contempoconfermano la legittimità, diventando una componente attiva del si-stema che contribuiscono a foggiare. In questo senso rappresenta unimportante avanzamento teorico l’adozione, da parte della riflessio-ne antropologica sulle emozioni, della nozione di ‘discorso’ nell’ac-cezione proposta da Michel Foucault (Abu-Lughod 1986; Lutz1988; Abu-Lughod e Lutz 1990).

Il concetto di ‘discorso’ in senso foucaultiano non si riferiscesemplicemente a una forma linguistica, ma viene impiegato per in-dicare tutte le modalità attraverso le quali viene costituita una cono-scenza, includendo in questa definizione le pratiche sociali, le formespecifiche di soggettività e le relazioni di potere che ineriscono a ta-li conoscenze, tanto quanto le loro reciproche connessioni. I signifi-cati pertanto sorgono non dal linguaggio quanto da pratiche istitu-zionalizzate, in ultima analisi da relazioni di potere: potere, cono-scenza, istituzioni, pratiche e discorsi sono tutti elementi interrelati.La dimensione del discorso non è perciò né una struttura, né un si-stema, ma una pratica nella quale vengono a formarsi sia gli ‘oggetti’di cui esso parla, sia i ‘soggetti’ che in esso parlano. Il discorso inol-tre detta le condizioni di quel che si può dire, scrivere, percepire, co-me pure dei modi nei quali lo si può fare. Per descrivere un discor-so, occorre quindi non esservi del tutto immersi, collocandosi a unacerta distanza. Le pratiche discorsive infatti rendono difficile per gliindividui pensare al di fuori di esse e perciò sono anche strumenti dipotere e di controllo: questo non significa però che il discorso, inte-so come campo di enunciati, non possa ammettere contraddizioni(Foucault [1976] trad. it. 2001; [1984] trad. it. 2002).

I discorsi sulle emozioni in questo senso sono molto più che mo-dalità di pensiero e di produzione del significato: essi costruisconola ‘natura’ del corpo, i pensieri consci e inconsci e la vita emotiva de-gli individui. Il ‘discorso’ sulle emozioni in senso foucaultiano nonpropone quindi delle norme cui gli individui dovrebbero attenersi eche vengono incorporate nel corso di un processo di socializzazio-

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ne; piuttosto il ‘discorso’ locale crea gli individui come esseri emo-zionali di un certo tipo. Allo stesso modo Foucault, nella sua inve-stigazione critica sulla produzione di ‘sessualità’ nell’età moderna,sostiene che il discorso occidentale sulla sessualità non limita unapulsione biologica innata, un’energia ribelle che deve essere soffo-cata, quanto piuttosto crea il desiderio, ovvero gli individui comesoggetti desideranti (Foucault [1976] trad. it. 2001: 72-73, [1984]trad. it. 2002: 11).

È però necessario sottolineare – forse distaccandosi dalla visionefoucaultiana del potere come onnipresente e onnipervasivo, attra-verso le sue ‘tecniche polimorfe’ – che il discorso non è statico, sem-pre identico a se stesso, senza ambiguità e assolutamente coerente.È ragionevole supporre che i membri di una società siano inseriti inuna molteplicità di discorsi, che talvolta si trovano in aperto contra-sto e la cui pervasività non esclude la possibilità di infiltrazioni oaperture verso universi di significato e mondi morali differenti23.Ogni persona diventa in questa prospettiva punto di congiunzioneper un ampio numero di messaggi, immagini e discorsi polivalenti epotenzialmente in contrasto.

I discorsi non possono quindi essere considerati come rigidi sche-mi condizionanti, secondo una prospettiva deterministica che ridur-rebbe le persone ad automi: i soggetti si appropriano infatti di que-sti discorsi adattandoli, trasformandoli, contestandoli, in ultima ana-lisi rinegoziando continuamente il loro significato in relazione allapropria storia personale. Seguendo questo orientamento teorico, misono proposta di rivolgere per quanto possibile l’attenzione a comedeterminati eventi siano vissuti ed esperiti in una prospettiva indivi-duale, cercando di evidenziare l’importanza o la ‘forza direttiva’(D’Andrade [1984] 1997) di modelli di riferimento e sistemi di si-gnificato culturali per persone particolari. Ho quindi deciso di par-tire dalle riflessioni dei miei interlocutori sulle esperienze di vita perloro significative, osservando i modi in cui questi modelli venivanoutilizzati per rappresentare e dare un senso ai loro vissuti individua-li e privilegiando sempre il loro punto di vista sulle loro storie. Con-centrandomi su racconti personali, ho tentato di illuminare aspetti

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23 Contro una definizione statica e internamente coerente del concetto di cul-tura, che non concede spazi di critica e resistenza, Abu-Lughod e Lutz (1990) pre-feriscono parlare di discorsi multipli, contrastanti e mutevoli nel corso del tempo.

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condivisi di esperienza, offrendo al contempo un senso dell’indivi-dualità di ciascuno degli interlocutori locali. In questo modo ho cer-cato di mettere in evidenza come il comportamento delle singolepersone, che fa riferimento a discorsi spesso ambigui, in conflitto ea volte inconciliabili, non sempre corrisponda alle aspettative cultu-rali.

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Capitolo terzo

L’arte del vivere sociale e i sentimenti morali

1. Il pensiero-sentimento

Renato Rosaldo (1984, 1989) ha in diverse occasioni rimarcato la ne-cessità di rifarsi all’esperienza di soggetti particolari, posizionatiall’interno di uno specifico contesto sociale, e di tenere conto delleriflessioni elaborate dagli attori sociali riguardo al loro vissuto: tuttigli angoli di visione sono infatti particolari e così il senso che le per-sone danno alla loro vita e le azioni che intraprendono procedonoda prospettive e collocazioni singolari, piuttosto che da rappresen-tazioni generali e astratte. Riportare alcuni momenti del dialogo,specificando le posizioni strutturali occupate dagli attori sociali, misembra dunque una tecnica valida per rappresentare le aspettative ele interpretazioni dei miei interlocutori, che si confrontano con qua-dri di riferimento e norme di comportamento diversi, per esempio,a seconda del genere o del grado d’età. Allo stesso modo, cercheròdi rendere conto della mia presenza nel contesto dell’interazione, ri-conoscendo l’impatto fondamentale di quelle determinate esperien-ze sulla mia comprensione: l’intimità particolare con alcune personedel villaggio mi ha infatti portato spesso a considerare il mondo dalloro punto di vista, rendendomi sensibile alle questioni che mi indi-cavano come importanti. È il caso, per esempio, di Obennó, Koká,Augusta e Duminga, quattro donne del villaggio di Bijante che ri-troveremo più volte nel procedere della narrazione.

Obennó è una donna anziana originaria del villaggio di Bruce,che si è trasferita a Bijante a causa di alcuni contrasti con la famiglia,

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1 La regola prescriverebbe infatti il matrimonio endogamico a livello di villag-gio e, nel caso di villaggi molto grandi, a livello di quartiere. L’iniziativa di sposar-si fuori del gruppo, addirittura con persone di un’altra isola, è relativamente recentee ancora argomento di lunghe discussioni e recriminazioni.

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da lei sospettata di essere responsabile della morte dei suoi figli.Koká e Augusta sono mogli di Tcharte Banca, del quale abbiamoparlato nel primo capitolo: entrambe godono di un grande prestigio,in quanto sono tra le più importanti officianti rituali del culto di pos-sessione femminile rispettivamente del villaggio di Ankamona e diBijante. Duminga è una delle figlie che Augusta ha avuto da Tchar-te, una donna di circa trent’anni che, dopo uno sfortunato matri-monio che l’ha portata a vivere nell’isola di Galinha contro il pareredi tutti1, è da poco ritornata a vivere a Bijante, nella casa di sua ma-dre.

Il primo episodio che ho deciso di riportare riguarda un pome-riggio in cui, durante il mio ultimo soggiorno sul campo, sedevo conloro all’ombra della veranda della casa di Tcharte, chiacchierando epulendo ipo (i frutti rossi della palma da olio).

È uno di quei pomeriggi caldi e immobili che sembrano non finiremai. Un cane abbaia rumorosamente dimenandosi tra le nostre gambe.Augusta afferra la piccola ramazza di rami secchi con la quale poco pri-ma aveva spazzato la veranda e scaccia il cane, che fugge via guaendo. Po-co più in là un paio di bambini piccoli piangono ininterrottamente da al-cuni minuti. Augusta infastidita sbatte con forza la scopa per terra, vici-no alle loro gambe, sollevando una nuvola di polvere: ‘i bambini distur-bano, fanno rumore, non si riesce a parlare’. Ingenuamente intervengo:«magari hanno un motivo per piangere». Obennó ride: «che motivo vuoiche abbiano? I bambini (nhea) non hanno niente nella testa, non hannopensieri-sentimenti (n’atribá) nella testa!». Io cocciuta insisto: «ma stan-no piangendo, magari un motivo ce l’hanno!». «Ma quello non è piange-re come fanno gli adulti – mi risponde Augusta. È un verso, come quellodelle mucche o dei cani, è un richiamo, non significa niente, urlano sol-tanto, come possono piangere se non comprendono l’importanza dellecose?». «Non capisco, che differenza c’è?», chiedo rivolgendomi aObennó, che mi sembra più disponibile al dialogo. «Ma non senti la dif-ferenza? C’è che urlano soltanto, non piangono, perché non compren-dono l’importanza delle cose. Non hanno ancora pensieri-sentimenti(n’atribá) nella testa e nel petto. Quando è morta Kadina, ti ricordi, suofiglio piccolo non piangeva, perché non capiva. Quando M’Bene è parti-to per Bissau, per fare la guerra, hanno pianto i bambini piccoli? No, per-ché non hanno capito nulla. Guardali, sono i suoi figli e piangono ades-so che non c’è motivo. Perché quel cane ci abbaiava? Senza motivo, è lastessa cosa.»

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Consideriamo inoltre la seguente discussione sulle possibili cau-se della morte improvvisa della giovane Kadina. Generalmente que-ste considerazioni vengono fatte per sviare i sospetti, dichiarandopubblicamente la stima che si aveva del defunto. Di particolare in-teresse per il nostro discorso è, alla fine del frammento sotto ripor-tato, l’equivoco che nasce dal mio erroneo utilizzo del termine nhea,che indica i neonati, per riferirmi in generale ai bambini. Le donnemi fanno notare che tra un neonato (nea), un bambino molto picco-lo (ningbaya) e un bambino all’incirca tra i quattro e i sette anni(omgbá) ci sono delle differenze.

«È davvero strano che Kadina sia morta così, da un giorno all’altro,non sapevo nemmeno che fosse malata», dico rivolgendomi a Duminga,la quale mi risponde che effettivamente Kadina aveva dei forti dolori dipancia dopo la nascita dell’ultimo figlio. Augusta interviene: «Povera ra-gazza! Chi può averle fatto un koratrakó2, dato che tutti avevano una buo-na opinione di lei?» Le altre concordano ricordando quanto la defuntafosse rispettosa, obbediente e gentile con tutti. Duminga abbassa il tonodella voce per affermare: «qualcuno aveva invidia di lei (otó oniné ti og,letteralmente ‘qualcuno aveva gli occhi perforanti verso lei’)». Io chiedochi potrebbe essere secondo loro, ma ovviamente nessuna avanza ipote-si dirette, che suonerebbero come maldicenze o accuse. Augusta però midice: «È chi ti conosce bene che ha potere di farti del male: la famiglia, ivicini sono pericolosi più di uno straniero». «Chi, tra i parenti, è in ge-nere particolarmente malevolo?», insisto rivolgendomi ad Augusta. «Di-pende. Le sorelle e la madre di tuo marito, per esempio. O la famiglia dituo padre3». «Una madre può avere invidia (n’oniné, letteralmente ‘ave-re gli occhi appuntiti’) di suo figlio?». Le donne ridono: «Questo è diffi-cile, è raro». Io chiedo ancora: «E un figlio della madre?». «Anche que-sto è raro. Con il padre sì ci possono essere problemi, ma con la madre...non sono cose che capitano.» «Tra i bambini (nhea) spesso c’è gelosia(korammó), anche tra fratelli, almeno da noi», affermo io. «Quello può

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2 Il termine koratrakó significa letteralmente ‘segreto, sacro, proibito’, ma piùgeneralmente viene utilizzato per indicare un maleficio molto potente compostodall’unione di un intreccio di foglie di palma con un determinato spirito della fo-resta. Ogni combinazione ha un significato specifico, al punto da essere paragona-to a un linguaggio vegetale, che bisogna imparare a decodificare. Un altro modoper indicare il koratrakó è il termine manras, che in senso più generale significa ‘al-leanza, patto, assemblea, iniziazione’. Questo perché il koratrakó è un accordo trauomini e ‘spiriti’ per agire in modo mistico sugli altri e questa unione avviene nel-la foresta, come il manras iniziatico.

3 Osservazione interessante, se si pensa che la discendenza è matrilineare.

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capitare, che i bambini (iamgbá) si battano tra loro, ma non i neonati(nhea) o i bambini piccoli (ningbaya)! Quelli non hanno ancora pensieri-sentimenti (n’atribá)!».

Nel terzo frammento è riportata una discussione avvenuta traAugusta e Duminga riguardo al comportamento del figlio di que-st’ultima, un bambino di undici mesi, che aveva appena fatto i suoibisogni sulle mie ginocchia, creando agitazione tra le donne.

Non appena Duminga si accorge di ciò che è successo, prende in brac-cio suo figlio e cerca di pulirmi con un panno arrotolato, poi chiama agran voce una ragazzina perché porti dell’acqua e rivolgendosi al bambi-no: «ma cos’hai fatto? Questo non si deve fare, cos’hai fatto?». Augustainterviene: «Lascia! Pulisci e smetti di sgridare il bambino, sprechi le tueparole, il bambino non capisce». Io mi inserisco nella conversazione:«perché pensi non comprenda le parole di sua madre?». «Perché il suoorecchio è ancora chiuso, non ascolta-comprende (n’oguén). Per questonon ha ancora pensieri-sentimenti (n’atribá), perché non ascolta-com-prende le parole. È presto. Quando cresce, il bambino ascolta-compren-de i pensieri-sentimenti», mi risponde Augusta.

L’episodio che segue riguarda invece una discussione che stavofacendo con Koká e Obennó, sulla natura, l’origine e l’importanzadell’orebok, lo ‘spirito’ o ‘energia vitale’ che anima il corpo umano.Data la segretezza e il riserbo con cui vengono trattati questi argo-menti, specialmente in quanto parte di un ambito di conoscenza pre-cluso ai non iniziati, ci eravamo sedute in disparte, parlando a bassavoce per non essere sentite, quando un bambino di un paio d’anni siavvicina aggrappandosi alla gonna di Koká. Come d’abitudine, inpresenza di orecchie indiscrete cambio immediatamente argomento.

Koká ride: «non c’è bisogno di parlare d’altro, tanto è un bambino,non ascolta-comprende niente, non ha n’atribá nella testa» e un’altra an-ziana interviene: «il suo orecchio è chiuso, la sua testa è vuota. Hai maivisto un bambino con la testa pesante o confusa per i n’atribá? Hai maivisto un bambino preoccupato?». Io rispondo: «Beh, effettivamente noncosì piccolo. Però ho visto Omi (un bambino di circa sei anni) piangereper la malattia di sua madre» e Koká mi spiega: «come il bambino cresceanche i n’atribá crescono. Omi ora ascolta-comprende (n’oguén) le paro-le e quindi ha n’atribá. Dopo un po’ di tempo che si è aperto l’orecchioalle parole dei grandi, allora si abitua (n’omég) e inizia a pensare-provaresentimenti (n’otribak n’atribá). Ascoltando i consigli cresce. Solo allora i

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n’atribá entrano dentro al corpo (n’atribá n’anhúkam ankugbí); solo allo-ra il bambino prova ‘dolore’ (n’onam konó, letteralmente ‘essere cuore’)e ‘rispetto’ (n’onam bú, letteralmente ‘essere testa’)».

I frammenti che ho deciso di riportare, estratti da conversazioniregistrate, mi sono sembrati un punto eloquente dal quale partireper esplorare le modalità di costruzione della persona e in partico-lare di quelle che noi definiamo – allontanandoci come vedremo nonpoco dalla concettualizzazione locale – emozioni.

Nel corso delle mie precedenti ricerche, seguendo le varie tappedel ciclo di vita, avevo preso in esame le modalità secondo le quali iBijagó elaborano processi di formazione e di costruzione della per-sona umana, tracciando linee di demarcazione basate sulla differen-za di genere (Bordonaro e Pussetti 1999). Avevo cercato di illustra-re questi processi soffermandomi sui fondamentali momenti ‘antro-po-poietici’, analizzando cioè i rituali di passaggio come contesti em-blematici e privilegiati di transizione e di trasformazione. In questericerche veniva messo in luce come, secondo l’antropologia implici-ta bijagó, la persona è prima di tutto una creatura sociale: il bambi-no infatti verrà considerato appartenente alla categoria ‘persona’ so-lo quando acquisirà – grazie al contatto con gli altri e attraverso unlungo cammino di formazione e costruzione – caratteristiche, com-petenze e comportamenti sociali. Ciò che avevo lasciato inesploratonelle mie precedenti indagini erano le implicazioni che questa con-cezione della persona poteva avere sulle modalità locali di definire eorganizzare le emozioni. I risultati conseguiti durante la mia ultimapermanenza sul campo mi hanno permesso di comprendere aspettidell’etnopsicologia bijagó, che non avevo saputo precedentementeapprezzare nella loro complessità. Il fatto che questi ambiti di espe-rienza siano stati finora trascurati dagli antropologi che hanno svol-to ricerca nell’arcipelago, potrebbe forse dipendere proprio dall’ef-fettiva difficoltà nell’affrontare e cogliere problematiche sulle qualisi riflette a livello locale utilizzando categorie molto diverse dalle no-stre. Come vedremo infatti, l’etnopsicologia bijagó unisce in modocomplesso categorie e aspetti della persona che noi abitualmenteconsideriamo domini separati, come mente e corpo, ragione ed emo-zione, esterno e interno, privato e pubblico. L’essere umano non vie-ne pensato come costituito da caratteristiche che potremmo consi-derare esclusivamente ‘biologiche e corporee’, separate da aspetti‘psicologici e mentali’. In termini emici dunque, la definizione di ‘et-

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nopsicologia’ o ‘psicologia indigena’ si rivela inadeguata, in quantosi riferisce a un ambito (la psicologia) che non appartiene alla rifles-sione indigena e che è imbevuto di idee occidentali sulla natura e ilfunzionamento della mente. In questo lavoro tuttavia utilizzerò taledefinizione, per quanto in un’accezione più ampia, per riferirmi almodo in cui le persone concettualizzano, orientano, valutano e di-scutono il loro comportamento.

Un altro problema che ho dovuto affrontare occupandomi di an-tropologia indigena è stato quello di trovare traduzioni adeguate, inmodo da non sovrapporre categorie proprie della nostra cultura a di-stinzioni locali, operazione che si rivelerebbe fuorviante in un pro-cesso di traduzione transculturale. La nozione di kutribá (plur.n’atribá), per esempio, indispensabile per ricostruire la concezionelocale della persona, unisce nella sua definizione ambiti che noi con-sidereremmo propri della sfera emozionale (come provare tristezza,gelosia, odio e così via) ad ambiti che hanno a che vedere con la ra-gione, la consapevolezza, la riflessione, l’intelligenza. Sebbene la lin-gua bijagó possieda diversi termini che indicano gli stati psichici chenoi raggruppiamo sotto la categoria di emozione (per esempio ‘do-lore’ o ‘invidia’), questi fenomeni non vengono classificati separata-mente rispetto ad altri che, nel pensiero occidentale, verrebbero de-finiti mentali o cognitivi. La traduzione più immediata che si può da-re del termine kutribá è quindi quella di pensiero-sentimento, inquanto si riferisce in generale a tutti quelli che noi definiremmo co-me stati mentali, andando da ciò che consideriamo ‘pensiero’ a ciòche chiamiamo ‘emozione’4. La presenza di n’atribá si può avvertirefisicamente, a seconda delle circostanze, nella pancia, nel cuore, nelfegato, nella testa, nella gola, nelle gambe, negli occhi. Per esempio,il rispetto è associato alla testa, la tristezza e la pazienza al petto e al-la pancia, l’invidia agli occhi, la rabbia alla gola; certi n’atribá pos-sono cuocere gli occhi, bruciare il torace o bloccare le gambe; un’al-terazione dell’equilibrio dei n’atribá può causare malattia e addirit-tura morte; l’odio può materializzarsi sotto forma di una sostanza ne-ra nel ventre; la pancia può arrabbiarsi, infastidirsi o addiritturaaprirsi per fare uscire n’atribá pericolosi. Questi sono certamente or-gani fisici, ma anche, in un modo che è difficile per noi apprezzare

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4 Diversi antropologi hanno notato in altre società una stretta connessione trapensieri ed emozioni. Si vedano per esempio M. Rosaldo 1980; Lutz 1988; Wikan1990; Hollan e Wellenkamp 1994; Hardman 2000.

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pienamente, fonte di azione e consapevolezza. La concezione indi-gena collega dunque la psicologia e la fisiologia umana, includendocome aspetti dello stesso processo quanto noi distinguiamo comepensieri, sentimenti, desideri, volontà e i loro intimi effetti sul cor-po. Al fine di comprendere la concezione locale della persona è inol-tre indispensabile chiarire i concetti chiave di orebok e di kugbí in re-lazione alla nozione di kutribá.

2. La nozione di persona: la relazione tra «orebok», «kugbí» e«kutribá»

Secondo i miei interlocutori, un essere umano si compone in primoluogo di kugbí e orebok. Potremmo avvicinare il kugbí alla nozionedi corpo, ricordando tuttavia che la concezione indigena non repli-ca la diffusa rappresentazione occidentale, che vede il corpo comeseparato dalla mente. Come sarà maggiormente esplicitato più avan-ti, i processi psicologici (il pensiero, l’emozione, il sogno, la memo-ria) vengono attribuiti al corpo alla pari di altre funzioni che noi con-sidereremmo più bassamente fisiologiche, quali il mangiare, il cam-minare o il digerire. Il kugbí si forma nel ventre della madredall’unione del sangue mestruale e dello sperma, ma perché questocorpo abbia vita è necessario che un orebok ritorni al mondo (n’odá,ritornare, reincarnarsi, rinascere) per volontà dell’Orebok Okotó, ilGrande Spirito, entrando nel ventre di una donna durante un rap-porto sessuale5.

La traduzione della nozione di orebok presenta maggiori proble-mi. Nessuno degli autori che se ne sono occupati ne dà una defini-zione chiara, forse perché si tratta di un concetto difficilmente af-ferrabile e poco gradito dai locali come argomento di conversazio-ne, limitandosi a riportare i termini con cui viene tradotto in kriol:alma o spiritu (anima, spirito), dufuntu (morto, defunto) e iran (tut-

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5 Quando una persona muore si pensa che il suo orebok raggiunga l’anarebok,un luogo di beatitudine, nel quale gli spiriti dei defunti si uniscono alla divinità su-prema, costituendo una riserva di energia vitale per le future nascite. Durante que-sta permanenza gli iarebok delle persone morte perdono completamente la loro in-dividualità, dimenticando tutto ciò che li legava alla loro vita passata. Al momentodella rinascita, l’orebok sarà pertanto una tabula rasa senza memoria di nulla, cheacquisterà una specifica personalità solo a contatto con gli altri. Questa concezione,per quanto ciclica, consente di salvare la specificità di ogni singolo individuo e diogni nuova generazione, impedendo la sua identificazione con quelle precedenti.

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te le ‘entità spirituali’ come anche gli oggetti materiali che le presen-tificano nella quotidianità, come sculture e amuleti), o anche sem-plicemente vida, vita6. Tradurre orebok come anima o spirito rendesolo parzialmente conto della plurivocità semantica di tale termineed è importante sottolineare il rischio di fraintendimenti derivantidall’applicazione di un lessico spiritualista a istanze che possono es-sere collocate in specifiche parti del corpo e avere una propria fisi-cità. Risulta invece più coerente con l’interpretazione indigena equi-parare il concetto di orebok a quello di energia o forza vitale. L’ore-bok, più che il principio immateriale attivo che si manifesta come co-scienza individuale, supporto delle più elevate facoltà umane, è in-fatti un’energia, inizialmente priva di caratteristiche personali, im-maginata come un’ombra bianca evanescente aggrappata al dorsodel kugbí. Per quanto non sia comune incontrare immagini che rap-presentino la relazione tra kugbí e orebok, può essere utile analizza-re il significato del koratrakó (sortilegio vegetale, costituito di fogliedi palma annodate) che rappresenta una persona ammalata.

La foglia grande è la stuoia sulla quale è coricata la persona, raf-figurata dall’unione di due foglie di palma intrecciate, delle qualiquella verde rappresenta il kugbí e quella bianca l’orebok. La malat-tia è il bastoncino secco, che è collegato alla persona nella sua inte-rezza. Qualora la persona morisse, la foglia bianca, ossia l’orebok,verrebbe staccata da quella verde. Possiamo quindi pensare l’orebokcome la fonte di energia che dà vita al corpo, ma che non costituiscel’elemento determinante o il principio generante della sua indivi-dualità, del suo carattere e delle sue qualità.

Le relazioni che legano l’orebok al corpo sono molto complesse.Durante la vita di un individuo orebok e kugbí sono reciprocamentedipendenti: se da un lato l’orebok fornisce l’energia vitale che ali-menta il kugbí, consentendogli di svolgere tutte le sue attività, d’al-

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6 Si potrebbe dire che l’orebok allo stesso tempo ha vita ed è vita. Ha vita inquanto può svolgere diverse attività indipendentemente dal corpo, può essere ag-gredito, perduto, catturato, ucciso e mangiato da uno stregone desideroso di assi-milarne l’energia. È vita nel senso che la sua esistenza e quella del corpo sono, senon coincidenti, comunque intimamente dipendenti. Per esempio, se l’orebok vie-ne catturato, il kugbí in breve tempo si ammala, fino a morire; se l’orebok vienemangiato o ucciso, il kugbí inizia una lenta trasformazione che lo porterà a decom-porsi prima dell’effettivo decesso. Poiché l’orebok è destinato a dare energia e vi-talità alla persona, infatti, il corpo non può sopravvivere alla sua perdita: ciò nono-stante il decesso non è immediatamente consecutivo alla scomparsa dell’orebok.

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tro lato è proprio grazie alla sua unione col kugbí, porta sensorialesul mondo, che l’orebok acquisisce gradualmente i n’atribá, le qua-lità e i caratteri individuali che lo porteranno alla ‘completezza’7. Aquesto riguardo, il modo in cui i bambini differiscono dagli adulti ri-vela importanti dimensioni teoriche. Alla nascita e nei primi mesidella sua vita l’individuo è un essere del tutto dipendente dai geni-tori, anche per le più basilari necessità fisiologiche, che non riesce agestire e controllare. Il suo comportamento viene ignorato o tollera-to, perché egli è ancora incosciente e quindi non responsabile dellesue azioni: non conosce e capisce niente di ciò che accade intorno alui, non ha consapevolezza degli altri, non comprende le parole chegli vengono rivolte e l’importanza degli eventi che accadono ed è to-talmente incapace di pensieri e sentimenti. Secondo quanto diconoi miei collaboratori locali, tutto ciò che può provare un bambino pic-colo sono le sensazioni che provano gli animali: il neonato avvertesolo fame, sete, dolore fisico e sonno8.

Il passaggio da una posizione ‘poco umana’ a quella di personasocialmente riconosciuta può essere pensato come un’acquisizionegraduale di n’atribá. I n’atribá non sono elementi innati, ma si for-meranno progressivamente in relazione alla crescita e all’educazionedel bambino: prima di nascere il bambino non può avere pensieri-sentimenti, perché non riceve stimoli, non fa esperienze, non intes-se relazioni9. Si pensa che il kugbí, e attraverso questo passivamente

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7 Solo alla morte del corpo, l’orebok – liberatosi della sua funzione di sorgenteenergetica – acquisirà tutte le caratteristiche in precedenza ascritte al kugbí, dellequali partecipava solo marginalmente: avrà volontà, pensieri e sentimenti, e perquesto potrà influire sui parenti in vita, avanzando richieste e accuse, proteggen-doli benevolmente o vendicandosi dei torti subiti.

8 Come vedremo meglio più avanti, nell’antropologia implicita bijagó le fonda-mentali caratteristiche che costituiscono la ‘persona ideale’ sono il dominio di sé,la sobrietà nell’espressione delle proprie emozioni, il controllo dei propri bisognifisiologici. Il comportamento individualista, privo di pudore e ritegno, assoluta-mente dipendente dalle necessità fisiologiche dei bambini viene associato in sensodenigratorio a quello degli animali.

9 Questo è uno dei motivi per cui la morte di un neonato non viene pianta. Ineonati infatti non sono ancora considerati persone proprio perché, non parteci-pando delle relazioni sociali, non hanno sviluppato i n’atribá che costituiranno laloro personalità. Dato che il loro orebok non ha ancora immagazzinato pensieri-sen-timenti, esperienze e ricordi, la loro scomparsa sottenderà automaticamente il loroimmediato ritorno da dove sono venuti. In società come quella bijagó con altissimitassi di mortalità infantile, come suggerisce anche Nancy Scheper-Hughes nel suolavoro sulle madri brasiliane di Alto do Cruzeiro (1992), è abbastanza comune che

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anche l’orebok, si intrida di n’atribá mentre il bambino cresce, sem-plicemente partecipando a un mondo di relazioni sociali suscitate econdizionate da n’atribá10. Il kugbí di un essere umano infatti non èpensato come un muro impenetrabile: non solo i pensieri-sentimen-ti individuali sono creati dall’interazione con gli altri, ma possonoanche facilmente introdursi nei corpi di altre persone, condizionan-do le loro azioni. Possiamo, per utilizzare una metafora locale, pen-sare al kugbí come a una casa le cui finestre sono costantementeaperte e il cui orebok risiede non all’interno, ma nella veranda, spa-zio privilegiato di interazione sociale.

L’acquisizione di n’atribá, che trasformerà un essere umano in-consapevole in una persona sociale perfezionandone l’orebok, èquindi possibile grazie alla permeabilità del kugbí: per questa ragio-ne il corpo dei neonati è particolarmente molle (kubod), bianco (ku-rorok) e vulnerabile (kuden). Ma la penetrabilità del loro kugbí ren-de i piccoli estremamente fragili, esposti alle malattie, al vento mal-vagio11 e alla possessione da parte di esseri extraumani12. I bambinihanno inoltre bisogno di essere protetti dai n’atribá violenti o mal-vagi, che possono assorbire in primo luogo nel latte materno e chepossono farli ammalare o addirittura morire. Le donne li ungonocontinuamente con un infuso di radici secche di yayi (Uvaria Cha-mae) e olio di palma, per renderli neri (n’onitikokon), duri (n’onik-petí) e secchi (n’odan) il più in fretta possibile. Per lo stesso motivoi bambini non vengono mai lasciati soli; anzi in questo periodo di

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il processo di socializzazione che trasforma un bambino in una persona sociale siamolto lento. Attribuire gradualmente ai bambini caratteristiche umane quali consa-pevolezza, volontà, intenzionalità, capacità di provare sentimenti e memoria, è in-fatti, secondo Scheper-Hughes, una strategia che concede alle madri un periodopiuttosto lungo di attesa prima di investire materialmente ed emotivamente nei bam-bini, consentendo loro quindi di proteggersi dal dolore della eventuale perdita.

10 Per quanto noi ci concentreremo con maggiore attenzione sulla comunica-zione linguistica di n’atribá, non dobbiamo dimenticare che l’individuo è parte diuna cultura che si trasmette anche attraverso una conoscenza di tipo non linguisti-co, ossia attraverso l’agire, il partecipare, l’esperire e l’essere immerso in un mon-do specifico.

11 Questo ‘vento’ tanto temuto dalle madri, non si riferisce a un fenomeno me-teorologico, ma al ‘malocchio’ che i nemici della famiglia potrebbero voler ‘soffia-re’ sulla giovane mamma e sul suo bambino.

12 La concezione del bambino come un essere molle e bianco e l’idea del pro-cesso di crescita come passaggio dal molle verso il duro, fino alla sua integrazionenella vita sociale, è piuttosto comune in Africa (Zahan 1975: 115-135; Belmont1988: 13-28; Zahan 1995: 33-37; Allovio e Favole 1996: 27-32).

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maggiore labilità dei confini corporei sono tenuti sempre a strettocontatto con il corpo della madre.

3. «N’oguén»: ascoltare e comprendere

Sebbene i n’atribá si formino anche attraverso l’osservazione e l’imi-tazione dei comportamenti altrui, nonché tramite l’apprendimentodi adeguate posture corporee o l’ingestione di particolari alimenti,l’accento a livello locale è posto sulla capacità di ascoltare e com-prendere le parole (n’oguén)13. In molte conversazioni i miei inter-locutori hanno sottolineato la relazione tra la capacità di intendere el’udito, che potrebbe essere definito come il senso sociale per eccel-lenza. L’orecchio (konno) in questo senso è la parte del corpo piùstrettamente legata alla comprensione e quindi alla formazione din’atribá. L’espressione ‘n’obeney konno’, che letteralmente significa‘danneggiare le orecchie’, viene utilizzata comunemente per indica-re la pazzia, ossia il venir meno della capacità di comprendere luci-damente. Chi ha le orecchie chiuse infatti non può intendere il mon-do alla pari degli altri: il termine omeguén, sordo, è utilizzato ancheper definire le persone idiote, che non sono considerate responsabi-li delle loro azioni. Una delle maggiori cause di suicidio tra gli an-ziani è infatti la sordità, che impedisce loro di ascoltare e compren-dere le parole degli altri e degli antenati, escludendoli di fatto daqualunque tipo di relazione sociale. Tcharte al riguardo mi ha rac-contato che tutti i re più celebri di Bijante sono morti in modo di-gnitoso e dimostrando ‘coraggio’ (n’openón), in particolare il penul-timo re, che si è ucciso:

«[...] perché aveva la più brutta malattia: aveva perso l’udito (n’ougí).Se non senti sei già morto, perché non ascolti i problemi, le discussionidel villaggio e quindi non fai parte del consiglio degli anziani. Non sentila voce del kumbonki14 e quindi non sai cosa avviene al villaggio e nell’iso-

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13 Il verbo n’oguén, che ritorna frequentemente nel dialogo riportato, significaletteralmente ‘ascoltare, sentire, comprendere, sapere, conoscere’.

14 Il kumbonki è un tamburo a fessura costituito da un tronco d’albero svuota-to attraverso una fessura longitudinale, in modo da formare una cassa di risonan-za. Musicologicamente si tratta di un idiofono a percussione (Nketia 1986: 77). Ladiffusione del tamburo a fessura nella regione della Guinea Bissau è molto ampia:oltre ai Bijagó, esso è utilizzato dai Manjaco, dai Papeis, dai Mancanha e dai Ba-

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la e non ascolti le parole degli antenati. Un re deve essere uno che ha unbuon udito-che comprende (oguén).»

In un’altra occasione Missirok (letteralmente ‘colui che non hapiù nessun amico’), un anziano guaritore del villaggio di Bijante, te-muto a causa della sua posizione ambigua, mi stava insegnando a co-struire un koratrakó:

Dopo aver intrecciato diverse foglie di palma, formando complessecomposizioni accompagnate da lunghe spiegazioni, decide di mettermialla prova. Crea un’intricata figura e mi chiede di interpretarla. Io restointerdetta, confusa dalla moltitudine di composizioni che mi ha appenamostrato. Poi abbozzo una possibile lettura del koratrakó, che si rivelaclamorosamente sbagliata. Manuel allora mi chiede: «mitankeguén (seisorda-non comprendi)?». Io ammetto di non aver capito un paio di pas-saggi. Allora rapidamente intreccia un piccolo koratrakó che inserisce acavallo del mio orecchio e mi dice: «Se tu vuoi imparare bisogna subitoporre rimedio: con questo io ora ti apro l’orecchio (nhiankpá konnoekén)».

L’accento è posto sull’importanza dell’ascoltare-comprenderecome primo passaggio per inserirsi nella rete delle relazioni sociali,fondamentali per la costituzione dei n’atribá. Lo sviluppo della fa-coltà di pensare-sentire nei bambini è intimamente associato alla ca-pacità di ascoltare-comprendere le parole degli anziani come qual-siasi altro discorso: entrambe queste competenze si sviluppano in re-lazione alla vita sociale. Infatti l’ascoltare (n’oguén), ossia decifraresimboli linguistici, non può essere considerato equivalente al merosentire suoni (n’onni), capacità propria già dei bambini piccoli. Que-sto ascoltare attento e recettivo costituisce la precondizione essen-ziale della maturazione sociale. Si diventa una persona quando si co-mincia a condividere gli accordi e le convenzioni della vita sociale,accettandone le regole: questo passaggio implica in primo luogo l’ac-cettazione del più importante sistema condiviso di simboli culturali,il linguaggio. La capacità di ascoltare-comprendere segna il discri-mine tra il neonato, non ancora del tutto appartenente alla categoria‘persona’, e il bambino, in grado di capire e di adeguare il suo com-portamento alle esigenze degli altri. È attraverso la comprensione

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lanta (Wilson 1963: 201). Sui significati simbolici del kumbonki si veda Bordonaro1998.

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della parola che si entra effettivamente a far parte della società e chequesta può agire sugli individui.

Ma le parole non sono solo rappresentazioni di qualcosa, non vei-colano solo conoscenze o informazioni: sono soprattutto potere,energia, azione. Il suono stesso delle parole è pensato avere poterimolto speciali. Per i Bijagó della comunità di Bijante, la crescita èstrettamente legata al potere della parola di agire sul corpo, pene-trandone i confini e creando n’atribá contemporaneamente a legamie relazioni. Il potere delle parole è quello di causare trasformazioni,incidendo nel corpo nuovi significati per tutta la durata della vita,specialmente nell’infanzia e nel momento dell’iniziazione. L’ap-prendimento di linguaggi scandisce i passaggi della crescita. Con iltempo, con l’abitudine (n’omég), le orecchie si apriranno e il bam-bino comincerà a comprendere i discorsi (kabonake) in cui è im-merso. Quando gli adulti noteranno questo cambiamento, verso icinque o sei anni, l’istruzione formale aumenterà in modo significa-tivo. Non solo ascoltando le indicazioni che vengono loro fornite at-traverso regole esplicite, ma anche apprendendo da un vasto arco diesperienze concrete, i bambini inizieranno a reagire e comportarsi inmodo significativo di fronte alle situazioni quotidiane. I n’atribá sicreeranno gradualmente partecipando a relazioni sociali: anche gliinsulti, i litigi, le rivalità, le ostilità li faranno crescere. Le effettivedifferenze individuali sorgeranno proprio in questo periodo, perchéi n’atribá saranno diversi in base alle azioni che ciascun bambino haavuto modo di vedere o imitare, ma soprattutto in base alle paroleche ha sentito. Caratteristica di questa graduale formazione din’atribá, propria della socializzazione primaria, è infatti l’incorpora-zione di elementi spesso ambivalenti, eterogenei, a volte addiritturadiscordanti e inconciliabili. In questa fase non viene infatti appresoun sistema ordinato e coerente di norme e valori culturali, ma piut-tosto si acquisiscono informazioni costruite in modo pragmatico, at-traverso azioni quotidiane dal carattere incompleto e frammentario.Ci sarà il bambino che ha sentito molte volte le mogli di suo padrelitigare, quello che ha ascoltato parole arroganti, ma anche raccontidi imprese del passato e le conversazioni importanti degli anziani. Cisarà il bambino della praça affascinato dalle storie di persone di altripaesi, come quello che ascolta le canzoni alla radio o che va in chie-sa a sentire la predica domenicale.

Gli insegnamenti che i bambini assorbono attraverso le regoleesplicite dell’educazione formale, entrano spesso in conflitto con le

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indicazioni che derivano implicitamente dalla pratica. Anche perquesto, come mi ha ripetuto più volte Koká, educare un figlio non èsemplice: ci sono sempre cose che i bambini forse non dovrebberosentire e conversazioni cui non potrebbero partecipare, «ma hannole orecchie aperte, vanno e ascoltano». Proprio perché sono espostia una grande molteplicità di messaggi contrastanti, i bambini hannola testa confusa (iaríbiribík15 ta bú) e vanno senza una direzione di-sorientandosi (iamgbá iadó tandó iakoróbo), non hanno ordine neiloro n’atribá (iakasenei ann’atribá) e finiscono per dire cose sciocchee inadeguate. Occorre quindi educarli a non essere insolenti, facen-do loro accettare il fatto che esiste una gerarchia basata sull’eccel-lenza dell’età e che quindi loro non sono alla pari degli altri. Per que-sto motivo a partire dall’infanzia e per tutta la vita gli anziani si oc-cuperanno di guidare i n’atribá dei giovani nella giusta direzione,modellandoli alla luce delle aspettative sociali e dei valori che, se-condo la concezione locale, devono appartenere a ogni Bijagó.L’ascolto delle loro parole, il così detto consiglio (n’okinad), costi-tuisce uno dei momenti fondamentali di questo processo, caratteriz-zando e determinando ogni passaggio di grado d’età16. A differenzadel flusso di messaggi ambigui della prima socializzazione, nell’am-bito dei consigli vengono trasmesse regole di comportamento, prin-cipi e valori coerenti e funzionali al mantenimento di un dato ordi-ne morale e sociale. I consigli in questo senso possono essere letti co-me pratiche attuate dagli anziani per contribuire alla costruzione diun certo tipo di adulti. Nei discorsi degli anziani pertanto troviamol’insieme delle forme localmente scelte per la definizione pubblica eideale della ‘persona’. I consigli hanno quindi uno spiccato caratte-re antropo-poietico, in quanto, anche attraverso la creazione di nuo-vi n’atribá, si occupano di incanalare, ordinare e disciplinare i pen-sieri-sentimenti confusi dei bambini, che senza il supporto dell’edu-

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15 È interessante considerare che il verbo n’oríbiribík, formato da una doppiaripetizione del verbo n’orib ‘parlare’, viene sentito dai miei informatori come unverbo in un certo senso onomatopeico, un mezzo vivido e mimetico per evocare ilsenso di confusione nella testa.

16 I consigli sono momenti emblematici di formazione e gestione di emozioni:secondo l’interpretazione locale infatti, non solo descrivono e interpretano l’espe-rienza, ma soprattutto la creano e in seguito la orientano. Inoltre, poiché rappre-sentano e verbalizzano ambiti di esperienza non verbale incorporata attraverso pra-tiche, offrono dati più accessibili e aperti all’analisi.

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cazione e delle norme morali potrebbero rivelarsi pericolosi per l’in-dividuo come per il gruppo.

Ancora una volta n’oguén è un momento di apprendimento, dicrescita, ma anche di riconoscimento dell’autorità degli anziani suigiovani. I consigli possono infatti essere considerati pratiche che di-pendono dal potere e che al contempo lo generano. Appartengonoa un discorso egemonico, in senso foucaultiano e gramsciano, il qua-le consente il mantenimento e la riproduzione delle relazioni di po-tere di tipo gerontocratico che rappresentano lo scheletro dellastruttura sociale bijagó. I consigli in questo senso non sono solo sem-plici strumenti educativi e di trasmissione di conoscenza, ma anchee soprattutto strumenti di potere e di controllo, nella misura in cuitendono a imporre e riprodurre il particolare assetto sociale, di cuisono peraltro espressione. Attraverso i consigli infatti gli anziani im-plicitamente fissano non solo i limiti di ciò che può essere detto, pen-sato e sentito, ma le stesse regole che definiscono ciò di cui si può onon può parlare, cos’è considerato normale e cosa insensato, cos’èritenuto follia, malattia e insubordinazione, e cos’è visto come giu-sto, sano e socialmente accettabile.

Se i consigli si configurano come gli ambiti verbali privilegiati diproduzione del discorso sulle emozioni, non dobbiamo però di-menticare che queste pratiche coinvolgono l’intera persona, inclusoil corpo. Imparare come, quando, dove, in che modo e misura espri-mere i propri pensieri-sentimenti significa acquisire un insieme ditecniche corporee che includono movenze, espressioni facciali e ge-stualità. Come vedremo, uno dei modi fondamentali attraverso ilquale si acquisisce il kutribá del ‘rispetto’ è la riproduzione di po-sture e atteggiamenti corporei che sottolineano la propria posizionenella gerarchia sociale: anche questi aspetti sono dunque stretta-mente legati alle relazioni locali di potere. Come approfondiremonel prossimo paragrafo inoltre, questi rapporti di autorità sono im-pliciti anche nelle regole di intervento nella conversazione: i bambi-ni non possono mai intervenire interrompendo il flusso della comu-nicazione, fosse anche per chiedere spiegazioni. Sia l’ascoltare che ilparlare sono quindi soggetti a una rigida regolamentazione: il dirit-to alla parola è un privilegio dell’età e dell’esperienza.

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4. I consigli

Solo chi è grande (n’ogbón) ha diritto a parlare (n’obonaki) e solo chiha già imparato (n’orajé) ha il diritto di insegnare agli altri(n’orajóke): questa è una delle regole fondamentali della societàbijagó. Se osserviamo una qualsiasi interazione linguistica locale, unadelle prime caratteristiche che si possono notare è la rigida regola-mentazione degli interventi, che definisce ruoli specifici per il par-lante e l’ascoltatore, in base al grado d’età. Uno dei contesti più em-blematici a questo riguardo è quello delle ‘riunioni’ degli anziani(etronnáne, riunione, assemblea), che vengono istituite ogni qualvolta si presenti un problema che interessa tutto il villaggio e chequindi deve essere risolto pubblicamente. In queste assemblee glianziani prendono la parola con ordine, uno per volta, a cominciaredall’oronhó e dall’oum, il suonatore di tamburo sacro, senza mai in-terrompersi a vicenda. Il pubblico si dispone di fronte allo schiera-mento delle autorità, a formare un semicerchio, nel quale donne euomini occupano sezioni antistanti. Lungo il perimetro si sistemanoin modo piuttosto casuale i giovani, che assisteranno in silenzio al di-battito.

I consigli che gli anziani danno ai giovani su come comportarsi insocietà secondo il genere e l’età, hanno diverse affinità con questeoccasioni pubbliche di carattere non pedagogico. Anche in questi di-scorsi infatti, che possono essere sia esortazioni quotidiane e infor-mali dirette a un singolo, sia lunghi e occasionali sermoni pubblicirivolti al villaggio (come in caso di litigi o problemi tra famiglie), siadissertazioni molto formali legate ai fondamentali momenti di pas-saggio nel ciclo iniziatico, le relazioni d’autorità si riflettono sul rap-porto dialettico tra parlare e ascoltare. Mentre gli adulti, raccontan-do in lunghi monologhi di tipo esortativo ed educativo situazioniprototipiche, richiamano l’attenzione dei più giovani sulle responsa-bilità e i comportamenti che da loro ci si attende, i minori d’età ascol-tano in silenzio, a capo chino, senza mai interrompere. In realtà, inquasi tutte le situazioni del parlare quotidiano – siano chiacchiere,scherzi, ordini o rimproveri – un giovane non può intervenire in undialogo tra adulti e, qualora interpellato, dovrà ‘rispondere a bassavoce’ (n’ometáke) e a monosillabi, con lo sguardo abbassato. È mol-to difficile riuscire a parlare con i bambini del villaggio, abituati a es-sere confinati in una dimensione non verbale fatta di rispettosoascolto. Gli anziani invece possono parlare perché conoscono ormai

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tutto: hanno ascoltato i consigli dei loro padri, sono stati iniziati ehanno partecipato alle iniziazioni altrui e sono quindi in grado diascoltare-comprendere le parole degli antenati, che si esprimono at-traverso il kumbonki17.

Il consiglio è così fondamentale che tutta la società si basa su uncomplesso ciclo rituale, chiamato n’obítr kusina, che organizza unacircolazione dei beni dai giovani verso gli anziani, sotto forma di do-ni e prestazioni di lavoro, per pagare questa educazione. Il n’obítrkusina potrebbe essere definito come la logica generale, il principiofondante dell’organizzazione sociale bijagó: il termine indica infattitutte le cerimonie relative alla promozione dei gruppi d’età e inclu-de pertanto nella sua logica anche il manras, l’iniziazione. L’espres-sione n’obítr kusina riassume il complesso significato di questa isti-tuzione: n’obítr infatti vuol dire ‘chiedere’ o ‘offrire’, ma offrire conl’idea che se ne otterrà qualcosa in cambio, ossia la conoscenza, men-tre il termine kusina designa sia la dignità dell’essere anziano, sia l’in-sieme dei regali che si offrono agli anziani. Gli informatori lo tradu-cono in kriol con l’espressione paga grandesa, ossia pagare per di-ventare anziani (Bordonaro e Pussetti 1999). Noi abbiamo pagato,dicono i giovani, per diventare grandi e lo siamo diventati perché glianziani ‘ci hanno consigliato’ (ianankinadak).

La maggior parte delle riflessioni locali che ho raccolto su ciò chenoi definiamo ‘emozioni’ o ‘sentimenti’ deriva dal mio inserimentonel sistema n’obítr kusina, che ha formalizzato e consolidato i rap-porti instaurati nei precedenti soggiorni con alcuni anziani, ufficial-mente impegnati nella mia educazione. Questo rapporto, che percerti aspetti si conforma al sistema locale, mi ha consentito di avereaccesso ad ambiti di conoscenza che altrimenti non sarebbe stato fa-

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17 La capacità di interpretare come parole e frasi i suoni del kumbonki rendeevidente lo iato tra coloro che capiscono e coloro che ancora non sanno, tra colo-ro che hanno già affrontato l’iniziazione in foresta e quindi possono parlare e colo-ro che invece la devono ancora affrontare. Il periodo di reclusione iniziatica è in-fatti principalmente dedicato all’apprendimento delle parole degli antenati, che siesprimono attraverso il linguaggio segreto del kumbonki. Come nella socializzazio-ne quotidiana le parole dei genitori o più in generale degli adulti penetrano i con-fini permeabili del corpo del bambino andando a formare i n’atribá, così l’inizia-zione può essere pensata come una socializzazione rituale attraverso l’ascolto-com-prensione delle parole della tradizione. Come il consiglio degli anziani, anche le pa-role degli antenati penetrano il corpo degli iniziandi, incidendo profondamente iloro pensieri-sentimenti, al punto da renderli uomini diversi.

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cile affrontare, per una certa riluttanza dei miei interlocutori a par-lare di questioni legate ai n’atribá, quindi intime e potenzialmentepericolose, al di fuori di queste occasioni formali. Ripensando aquanto abbiamo detto sul potere delle parole, non possiamo noncomprendere un certo timore nel fare confidenze, pettegolezzi omaldicenze. Le parole non sono solo etichette che stanno per qual-cosa, ma strumenti di azione e potere. Anche per questo i miei ospi-ti hanno accolto con entusiasmo il mio interesse per l’apprendimen-to del bijagó, sebbene con molti di loro avrei potuto agevolmenteconversare in kriol: la possibilità di comprendere le parole dei con-sigli mi avrebbe permesso, secondo i miei precettori, di accedere adiscorsi che, seppur con qualche dubbio data la mia inconsueta po-sizione, avrebbero poi fatto parte di me costituendo i miei n’atribá18.In questo senso ogni relazione instaurata nella vita quotidiana del vil-laggio dà come risultato un tassello in più o forse una forma diversaai propri n’atribá. Uno dei primi consigli che mi diedero fu di nonrifiutare mai un invito, un saluto, un incontro, un’offerta di cibo, ta-bacco o vino di palma. L’importante è accettare sempre e comun-que, anche senza bere, mangiare o fumare molto: solo un assaggio èsufficiente per formare un legame che contribuisce alla creazione din’atribá. All’interno di queste conversazioni pedagogiche, un postoprivilegiato acquistano i consigli su come avere un buon comporta-mento (kunsaro) in società, che possiamo leggere come discorsi lo-cali sui sentimenti appropriati per vivere in armonia con gli altri.

Prima di affrontare queste riflessioni è però importante soffer-marci un istante sui problemi di traduzione in cui mi sono imbattu-ta nel tentativo di esplorare il significato dei concetti di emozioneche emergevano da questi discorsi. Recenti studi di antropologia lin-guistica hanno cercato di affrontare il problema della traduzione,sottolineando come spesso negli studi transculturali siano stati am-piamente usati, per descrivere le emozioni, termini di fatto unica-mente occidentali o specificatamente inglesi, costituenti una tasso-nomia non oggettiva o culturalmente libera. Il processo di avvicina-

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18 In questo senso, il rifiuto di alcuni giovani di partecipare del n’obítr kusina,per sfuggire alle maglie della gerarchia tradizionale, secondo la quale i giovani so-no tenuti a offrire tutto ciò che possiedono agli anziani in cambio dei consigli, ac-quista un valore molto più ampio e importante. Non ascoltando le parole degli an-ziani e non apprendendo il linguaggio del kumbonki, che permetterebbe loro dicomprendere le parole degli antenati del villaggio, non incorporeranno i pensieri-sentimenti necessari al perfezionamento del loro orebok.

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mento alla comprensione della vita emozionale di popoli di diffe-renti culture – osserva al riguardo Catherine Lutz (1988: 8) – può es-sere visto in primo luogo come un problema di traduzione, in quan-to questo processo comporta molto di più di un legame con corri-spondenza uno a uno dalle parole di un linguaggio a quelle di un al-tro: implica che si comprenda piuttosto il contesto di uso delle pa-role in ciascuna delle due lingue tra le quali si vuole tentare una tra-duzione.

Ho quindi cercato di derivare il significato dei concetti dai modinei quali questi venivano utilizzati, tenendo in considerazione i va-lori attribuiti alle emozioni, le loro cause, conseguenze e relazioni re-ciproche. Si tenga presente inoltre che le mie traduzioni sono il ri-sultato di un’approssimazione, di una valutazione e negoziazione av-venuta nel dialogo con i miei interlocutori locali, delle quali non po-trò rendere conto in modo esauriente ogni qual volta introdurrò nel-la narrazione un termine indigeno. In questo processo di traduzioneho cercato inoltre di non dimenticare che nella prospettiva dei mieiattori sociali, le parole non solo esprimono agli altri i propri pensie-ri-sentimenti, ma possono anche penetrare le effimere barriere delcorpo e interferire nei n’atribá altrui. Gli anziani esprimono la loroautorità e la loro superiorità parlando lentamente e in modo moltocontrollato, specialmente perché, come vedremo nel prossimo para-grafo, proprio il controllo, la calma, la pacatezza sono le disposizio-ni che devono trasmettere ai giovani. La scelta di questo registro lin-guistico, infatti, non solo riflette le teorie e le ideologie locali sulcomportamento emozionale, ma rappresenta uno degli strumentiprincipali per la loro formazione.

5. Camminare lentamente con gli anziani

Uno dei requisiti fondamentali della persona sul quale i consigli siconcentrano particolarmente è il rispetto nei confronti degli anzia-ni: un principio che regola quotidianamente il comportamento so-ciale e i rapporti interpersonali. Un atteggiamento rilassato, amiche-vole e scherzoso nei confronti degli anziani è tollerato e permesso so-lo da parte dei bambini. Non appena un ragazzo entra a far parte delsistema del n’obítr kusina, dovrà osservare con i superiori d’età uncomportamento rigidamente formalizzato. Rispettare e onorare glianziani per diventare anziani, per crescere, è il fondamento dell’eti-ca bijagó e questo rispetto deve essere espresso in primo luogo con

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lo sguardo, il tono della voce, la postura e gli atteggiamenti del cor-po. Prestando attenzione alle interazioni quotidiane tra giovani e an-ziani ho cercato di cogliere le forme tacite e i valori incorporati chemodellano le maniere con cui i primi si comportano con i secondi.Si tratta di un’estetica che traccia norme culturali di condotta e cosìdefinisce le caratteristiche ideali rispetto alle quali gli attori localicompiono e valutano le loro azioni, i loro comportamenti e quelli de-gli altri nel contesto dell’interazione sociale quotidiana. Facendo ri-ferimento alla mia esperienza sul campo, una delle questioni sullequali venivo maggiormente ripresa era proprio il mio atteggiamentocorporeo nei confronti degli anziani, che spesso veniva consideratoarrogante (n’onegbám, comportarsi come un bambino) per quantogiustificato dalla mia inconsapevolezza. Avere un comportamentosociale significa infatti non solo conoscere il proprio ruolo e i propridoveri, ma anche avere un contegno corretto e adeguato alle diver-se situazioni: in questo senso avere un atteggiamento arrogante equi-vale a non accettare i legami con gli altri e a non rispettare le posi-zioni gerarchiche. La condotta che si deve assumere in presenza de-gli anziani è infatti molto differente dal comportamento che si puòavere in altre occasioni. Il ripetere e l’esibire fin da piccoli certi at-teggiamenti corporei riveste in quest’ottica un ruolo pedagogico diincorporazione di conoscenza, in quanto proprio nell’apprendimen-to fisico e quotidiano di un habitus19 la convenzione sociale acquistala sua naturalità e la sua immediatezza. Come vedremo, anche a li-vello locale si insiste sull’importanza del consolidare la pratica e sta-bilizzare le disposizioni dei n’atribá attraverso l’abitudine (n’omég).Infatti, poiché, come abbiamo visto, la dicotomia mente-corpo nonappartiene alle categorie cognitive bijagó, si può sostenere che nelcampo unitario corpo-mente-habitus, da ognuno di questi punti èpossibile intervenire ed effettuare cambiamenti che coinvolgerannol’intera persona. Aiutata dalle loro indicazioni ho imparato a nonguardare mai un anziano negli occhi, a salutarlo inchinandomi leg-germente e prendendogli la mano in modo da fargli capire la mia po-

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19 Le forme di utilizzo del corpo, le nostre abitudini, sono condizionate dallenostre relazioni con gli altri e rinforzate dall’educazione. A questo proposito Bour-dieu (1980) parla di habitus, storicamente costruito, interiorizzato come una se-conda natura, che costituisce la continuazione attiva del passato di cui è il prodot-to, e che fornisce alle pratiche la loro autonomia rispetto alle condizioni esterne delpresente contingente.

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sizione nel percorso iniziatico, a non sovrastarlo fisicamente, cer-cando di scegliere sempre posizioni composte e inferiori in altezza.Ho compreso l’importanza del mantenere un atteggiamento corpo-reo compito e pacato, del controllare l’irrequietezza e gli sguardi, deldominare la parola, non conversando mai oltremisura, a voce trop-po alta, impulsivamente o interrompendo un anziano. Ho appreso aservire da bere nel giusto ordine e modo, ad attendere il mio turnoper mangiare o parlare, ad anticipare i desideri per non infliggerel’umiliazione di chiedere, ad accettare sempre le offerte o le richie-ste, sapendo di poterle in ogni caso passare a qualcuno a me inferio-re d’età, costretto dalla stessa regola a non rifiutare. Tutti questi at-teggiamenti ai quali si viene educati fin da ragazzini costituiscono uncodice morale tacito che viene incorporato visceralmente e che met-te in relazione i concetti di rispetto, pazienza, ordine, compostezzae controllo.

Quando nei consigli si invita i giovani ad avere rispetto o quan-do si parla di qualcuno che si comporta bene, generalmente si fa ri-ferimento a diverse qualità, che noi potremmo tradurre20 come ‘pu-dore’, ‘senso della vergogna’, ‘responsabilità’, ‘dignità’, ‘intelligen-za’, che secondo i miei interlocutori costituiscono i n’atribá dai qua-li dipendono il benessere e la continuità del gruppo. La persona cheha pienamente interiorizzato le regole sociali è quella che omég n’og-be bú, letteralmente ‘costuma avere testa’ e che oseney tanbdo naiakotó, ossia ‘è lento nel camminare con gli anziani’. Affinché questedisposizioni si formino in modo stabile è infatti necessario praticar-le abitualmente per un lungo periodo di tempo: senza omég, l’abitu-dine, il rispetto sarà solo un’apparenza, un’ostentazione, che nonreggerà a lungo di fronte alle situazioni più difficili, come per esem-pio durante il ritiro iniziatico in foresta, in cui i giovani dovranno sot-tostare umilmente alle angherie degli anziani21. Il legame tra il ri-spetto per gli anziani e un atteggiamento calmo e misurato è indica-to a livello semantico e concettuale. Le espressioni di rispetto più fre-

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20 Come precedentemente accennato, la traduzione di questi termini, derivatada un’attenta considerazione del loro impiego nei discorsi quotidiani e da diversediscussioni con i miei interlocutori, è un’approssimazione e in quanto tale deve ac-cettare una parziale perdita del senso originale.

21 Insistendo sull’importanza del rispetto, gli anziani affermano il loro potere ela loro autorità, legandoli all’epoca precoloniale e all’antico ordine culturale: neirapporti dei funzionari portoghesi infatti il sistema politico bijagó precedente allapacificazione dell’arcipelago veniva definito una ‘gerontocrazia’.

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quenti nei consigli e nei commenti che ho registrato sono: n’ogbe bú,avere testa, ma anche dare un senso, un significato alle cose; n’onambú, essere testa, ma anche essere consapevole e riflessivo; n’oseney,essere ordinato, fare pulizia, essere buono agire lentamente; n’ojiron,essere calmo, freddo, intelligente; n’onyón, essere tranquillo e silen-zioso; n’otribak, comportarsi bene.

Al fine di procedere all’analisi di queste idee e delle loro connes-sioni è bene partire da un frammento di interazione verbale quoti-diana, che li vede impiegati in uno specifico contesto.

Oggi da Tcharte si è presentata una situazione interessante: Tchartestava spiegando ad alcuni ragazzini che è loro compito forare le palme elavorare il campo di riso per offrire vino e cibo agli anziani, non teneredenaro per sé, ma usarlo per comperare dei panni, il tabacco e la kana peronorare i superiori d’età. Al posto del contegno compunto e concentra-to che si deve tenere quando si ricevono i consigli, un ragazzino dall’ariainquieta e disattenta, interrompe il discorso di Tcharte, dicendo qualchebattuta ad alta voce per far ridere gli amici. Poco più in là Pundja, la ma-dre del bambino, osserva la scena e nota la grave mancanza di rispetto delcomportamento del figlio. Si avvicina rapidamente e interviene: «chiudila bocca, smetti di alzare la voce (móona tanrú nabá), smetti di agitarti (ta-nokón), non hai educazione (mitankobdó), né rispetto (amigbe bú)».Tcharte interviene pacatamente a tranquillizzare la madre: «stai calma(mijiron), smetti di abusare della voce (móona tansomam) col bambino».Pundja, per giustificare il suo scatto, gli risponde: «tu sei buono-giusto-ordinato (meseney) a conversare con lui, ma il bambino non ascolta(aguén)». Tcharte conclude ammonendo la donna: «il bambino mi ha in-sultato, ma io lo sopporto. Stai tranquilla donna (minyón okanto), non ca-stigare tuo figlio, ma cammina lentamente con gli anziani (miseney tanb-do na iakotó)».

Questa breve conversazione tra Tcharte e Pundja si rivela estre-mamente significativa e ricca di indicazioni che ci permettono di co-gliere gli elementi eterogenei che costituiscono il campo concettua-le che ho deciso di tradurre come ‘avere rispetto’. Ripercorriamo ve-locemente il loro scambio di battute. Pundja sgrida suo figlio perchédimostra di non avere educazione (n’otankobdo) né rispetto (n’ogbebú). Il termine n’otankobdo, che traduco come ‘non avere educazio-ne’, è il negativo del verbo n’obdo, che significa ‘andare, uscire, cam-minare’. Questo verbo viene spesso utilizzato anche per comunica-re stati emozionali, come è il caso dell’espressione n’obdo tanbdo,

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‘andare senza destino, confusamente’, che indica momenti di gran-de stress emotivo, oppure n’obdo n’apáda, letteralmente ‘andare fuo-ri dal villaggio o andare a defecare’, espressione che significa anche‘essere in collera’. Abbiamo già accennato al significato di n’ogbe bú,che viene usato anche per esprimere la dignità, l’autorità e la capa-cità di riflettere degli anziani.

Ma qual è il comportamento che irrita così tanto Pundja? Rileg-gendo il dialogo riportato possiamo notare che ciò che infastidiscela madre è che il bambino parla disturbando il discorso dell’anzia-no; non solo, ma parla ad alta voce (n’orú nabá, alzare la voce), si agi-ta (n’onokón) e quindi non ascolta-comprende (aguén, negazione din’oguén). L’evidente impazienza, distrazione e incapacità di tacereindicano che il bambino ancora non ha acquisito in modo stabile in’atribá che gli consentiranno di dominare e gestire gli altri pensie-ri-sentimenti, si lascia sopraffare e distrarre da momentanei interes-si che invece dovrebbe controllare e così facendo manca di rispettonei confronti di Tcharte, la cui parola è buona-giusta-ordinata(n’oseney). Tcharte però non riprende il bambino per la sua distra-zione, in quanto, come mi ha spiegato in un secondo momento, nonsi può pretendere che un bambino sia otribak22, calmo ed equilibra-to: il percorso che una persona deve compiere per acquisire un com-portamento adeguato e per perfezionare i propri n’atribá, e conse-guentemente il proprio orebok, dura infatti molti anni. Piuttosto sirivolge a Pundja biasimandola perché grida o meglio, come indica ilverbo n’osomam, perché abusa, esagera, eccede. Le intima quindi dismetterla (n’óona), di stare tranquilla (n’onyón), di stare calma (n’oji-ron) e di camminare lentamente con gli anziani (n’oseney tanbdo naiakotó). I primi tre verbi hanno significati molto simili, specialmen-te n’óona, che letteralmente vuol dire ‘smettere, essere sufficiente,essere abbastanza’, e n’onyón, che significa ‘essere quieto, smettere,stare in silenzio o in disparte’. Anche il verbo n’ojiron significa ‘es-sere calmo’, ma questo concetto si carica di un valore semantico piùampio se consideriamo il campo d’applicazione del radicale –jir, chetraccia una connessione tra l’idea di calma, il senso del rispetto e ilcontrollo emozionale. Questo radicale si trova infatti in termini che

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22 È interessante notare che anche il termine otribak deriva dal radicale –rib cuiabbiamo già accennato analizzando il termine kutribá. La famiglia lessicale –rib, cheabbiamo presentato in forma ridotta e semplificata, si rivela ancora una volta assaicomplessa e interessante per quanto riguarda la ‘psicologia implicita’ bijagó.

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significano sia essere intelligente, sveglio, furbo, sia essere calmo, ti-mido, freddo, sia, a livello sensoriale, avere un sapore dolce, senzasale. Il verbo n’oseney, che Tcharte utilizza consigliando a Pundja di‘camminare lentamente con gli anziani’ e che troviamo molto spessonei discorsi esortativi, appartiene alla famiglia lessicale –sen, che ag-giunge nuove sfumature di significato alla nostra analisi del com-portamento rispettoso. Come abbiamo già accennato, il significatodi n’oseney cambia in base al contesto e può voler dire sia stare be-ne, essere buono o bello, essere contento, sia ordinare, riparare, agi-re lentamente.

Confrontando questi elementi semantici e concettuali notiamopertanto diversi punti di convergenza. Pazienza, calma, ordine, fred-dezza, riflessività, sobrietà e controllo sono i valori che dovrebbepossedere una persona che rispetta gli anziani, la tradizione e l’ordi-ne costituito. Dire di una persona che è calma o timida è considera-to un complimento: la ‘persona sociale’ infatti ha rispetto (n’ogbe bú,avere testa) e pazienza (n’ogbe konó, avere petto, cuore o fegato). In-fatti, in primo luogo, significa dire che non è una persona ‘arrogan-te’ (n’onegbám), ‘nervosa, irritabile’ (n’omarok), ‘disobbediente,egoista’ (n’onhátr), ‘che cammina da sola senza destino e non siedecon gli altri’ (oto ogan obdo tanbdo deeki aoka nutrubú). Questi at-teggiamenti sarebbero infatti una grave mancanza di rispetto versogli anziani e potrebbero causare gelosia, invidia e rancori. In secon-do luogo, vuol dire che sa dirigere i propri n’atribá, li controlla equindi non corre il pericolo di esserne travolto o di urtare gli altri fa-cendoli per esempio ammalare. Queste caratteristiche definisconodunque il comportamento corretto, intelligente (n’ojir ta kunsaro),che potrebbe essere anche inteso come una specifica n’ojirí, ‘intelli-genza sociale, esperienza’, caratterizzata da una buona gestione deipropri n’atribá in conformità alle norme della comunità.

Poiché l’assimilazione di n’atribá è un compito lento e graduale,la capacità di dominarsi si acquisirà solo con il tempo: i giovani do-vranno compiere un lungo processo antropo-poietico destinato a co-stituire e strutturare quella sfera della personalità umana che noi de-finiremmo psiche. A causa della loro posizione nel percorso iniziati-co, qualora i ‘giovani’ esibiscano un contegno irruente o inadeguatosaranno rimproverati, ma al contempo giustificati: ancora non han-no appreso a gestire i propri pensieri-sentimenti in vista del benes-sere comune.

I giovani vivono infatti un forte conflitto tra il desiderio di affer-

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mazione personale e l’effettiva dipendenza dagli anziani, special-mente nel contesto attuale, caratterizzato da cambiamenti rapidi eprofondi. Non dimentichiamo in primo luogo che i giovani sono te-nuti a offrire tutto ciò che possiedono agli anziani e in secondo luo-go che il n’obítr kusina è essenzialmente un percorso non un pas-saggio, per cui quelli che definiamo ‘giovani’ sono persone anagrafi-camente adulte: l’attesa sulla soglia della maturità si protrae in realtàper buona parte della vita. L’anzianità non è una questione d’età madi completezza, che solo al termine di un lungo viaggio antropo-poietico si tradurrà in dignità, prestigio e potere. È infatti negato unostato autonomo non solo ai giovani appartenenti ai gradi d’età prei-niziatici (kadene, kanhokam, karo), ma anche ai n’abido, i ragazzi cherientrano dall’iniziazione in foresta. Questo è anzi il periodo più pe-noso della vita di un Bijagó, in cui non possiede nulla e non ha alcundiritto, nonostante debba lavorare duramente: sarà proprioquest’esistenza severa e spartana, dicono i miei informatori, a rinfor-zare e strutturare i suoi n’atribá. Solo quando entrerà nel grado d’etàkassuká, dopo l’iniziazione della classe d’età seguente, sarà conside-rato un adulto responsabile e godrà dei privilegi che prima gli eranonegati. Diventerà un okotó, detentore di quell’autorità che gli per-metterà di avere grande potere decisionale, di elargire i consigli e diessere rispettato e onorato da tutti, solo dopo aver partecipato perdue volte all’iniziazione delle nuove classi d’età, come istruttore econsigliere dei più giovani.

Abbiamo accennato al fatto che nella psicologia indigena i ‘gio-vani’ vengono spesso associati a caratteri quali l’arroganza, l’inquie-tudine e l’irresponsabilità, attributi che vengono in qualche modogiustificati e tollerati. Date queste premesse è comprensibile comesoprattutto i giovani di oggi, circondati dai messaggi contraddittoripropri di un contesto in forte trasformazione, dimostrino una certaimpazienza e difficoltà ad adattarsi ai ritmi e alle privazioni del n’obí-tr kusina. La tendenza generale è infatti quella di individuare negliaspetti più ‘caratteristici’ e ‘tradizionali’ della cultura bijagó le ra-gioni del ritardo e del mancato sviluppo dell’arcipelago. Queste con-siderazioni portano anche a riflettere sull’attuale ruolo attribuito aglianziani del villaggio: tradizionalmente detentori del sapere, si trova-no adesso in competizione con le generazioni più giovani, che ma-gari sanno scrivere, ascoltano la radio, conoscono le cose più ‘mo-derne’ e più ‘potenti’, guadagnano danaro e possono comperare co-se che danno prestigio. Il legame di dipendenza dei giovani nei con-

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fronti degli anziani, basato sul rispetto, rischia di indebolirsi o di es-sere violentemente contestato.

Può essere interessante riportare un episodio emblematico, nelquale un ragazzo viene ripreso pubblicamente da un anziano per lasua mancanza di rispetto. Questo caso si è rivelato particolarmentesignificativo proprio perché, costituendo un momento di crisi, unaforte provocazione, ha imposto ai soggetti coinvolti una riflessioneesplicita sul buon comportamento con gli altri, sul rapporto con glianziani e, in ultima analisi, sulle convenzioni e i principi sui quali sibasa la società.

Siedo fuori casa, all’ombra del grande mango, accanto a un gruppo diragazzi di Bijante, appena tornati dalla praça. Sto annotando sul mio dia-rio di campo alcune frasi che mi ha detto poco prima Teté riguardo alrapporto tra antenati e tamburo sacro. Neto, un ragazzo di circa vent’an-ni, che ha terminato da poco il sesto anno della scuola secondaria, mi siavvicina per vedere cosa sto scrivendo con tanta concentrazione.

«Che cosa scrivi lì?», mi chiede utilizzando rigorosamente il kriol, co-me la maggior parte dei giovani che frequentano la scuola e la praça.

«Cose sulle parole degli anziani e sulle regole del villaggio», rispondoio mostrandogli il quaderno.

«Non c’è niente lì», afferma Neto senza nemmeno chinare lo sguardosui miei fogli.

«Ma come? Le cose che gli anziani raccontano cosa sono, non sononiente? Le cose che vi hanno insegnato non sono niente?», gli chiedo stu-pita.

«Sì, quelle cose non sono niente», mi risponde con grande serietà Ne-to.

A quel punto si inserisce nella conversazione Biku, un altro dei gio-vani di Bijante, che stava seduto un po’ in disparte cercando di aggiusta-re una radio. Scherzando con gli altri inizia a spiegarmi come sia loro de-siderio andare via, ‘uscire fuori’ dall’isola, anche se gli anziani, a comin-ciare dai loro genitori, non sono d’accordo e non li appoggiano. «Vo-gliono che diventiamo come loro, che non sono mai usciti da Bubaque –mi spiega Biku – da giovani a testa china e da vecchi con il cappello da-vanti agli occhi: non vedono, non hanno nemmeno idea, non sanno leg-gere, non parlano il kriol! Pensa, certi vecchi non hanno mai visto un’au-tomobile! Noi siamo i primi che cercano di ‘svilupparsi’ (disenvolvi), per-ché frequentiamo la scuola, andiamo a Bissau, sentiamo la radio. Non sia-mo come i ragazzi che stanno sempre al villaggio a testa bassa a cammi-nare dietro agli anziani, quelli hanno un ritardo nel cervello, dice pun-tandosi l’indice alla tempia. Pensa: non sanno nemmeno giocare a calcio!

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Non conoscono le regole e non sanno nemmeno di quante persone sicompone una squadra: si mettono tutti insieme a rincorrere la palla e fan-no krekkekrekkekrekke (rumore della confusione)!».

Ridiamo tutti a quest’immagine. Ma Biku ormai si è lanciato e insistedenigrando gli anziani: «cosa ci andiamo a fare in foresta? Cosa dobbia-mo imparare dai vecchi? A perdere tempo, impariamo, ecco perché sia-mo così in ritardo: perché stiamo sempre dietro ai vecchi e non osiamocamminare per conto nostro. Hai mai camminato con un vecchio? Valentissimo e si ferma sempre a salutare le persone che incontra: mezz’oracon questo, mezz’ora con quell’altro, finisce che nessuno va mai dove do-veva andare».

Totalmente coinvolti dall’arringa di Biku in favore del cambiamento,nessuno si accorge che Teté è uscito sulla veranda e sta ascoltando in si-lenzio. Quando Teté si avvicina al gruppo, i ragazzi spostano la discus-sione sui problemi del governo, ma Teté li interrompe per rivolgersi aBiku in tono calmo e pacato: «smetti di parlare, non sei ancora adulto. Tuparli forte senza aver prima ascoltato-compreso. Attenzione: la gente haantipatia (iarongbok) per colui che parla molto e a sproposito. Ti vantiper ciò che sei? Biku si vanta di essere esperto! Avete sentito? Faresti me-glio a parlare a voce bassa. Sei solo un arrogante e una persona vanaglo-riosa non è bella. Tu non sei lento a camminare con gli anziani (amikase-ney tanbdo na iakotó). Guardate con attenzione: Biku siede da solo, Bikucammina senza destino da solo (Biku moka deeki, Biku obdo tanbdodeeki). Colui che si vanta offende gli anziani: Biku, tu corri, tu camminitroppo rapidamente (Biku, mikin, minhénkenhenkénk). Abbassa losguardo, ancora non resisti sotto le cose: smetti di esagerare (mitonni nhé,okakán mimatrák eti moo: móona n’osomam)».

L’episodio riportato illustra i conflitti che sorgono da valori con-traddittori quali l’autonomia individuale e la dipendenza dagli an-ziani. Neto e Biku infatti in ultima analisi rifiutano questo legame dirispetto affermando che la conoscenza della ‘tradizione’ che gli an-ziani rappresentano, non ha più nessun valore, ‘non è niente’. La lo-ro critica è feroce ed esplicita, è un affronto fatto ‘a voce alta’ daqualcuno che, per età e posizione sociale, non avrebbe nemmeno ildiritto di parlare: la loro arroganza è una grave mancanza di rispet-to nei confronti degli anziani. La loro presunzione e insolenza sonostigmatizzate nel discorso di Teté da metafore che alludono alla so-litudine, alla separazione, al rifiuto della cooperazione: Biku infattisiede e cammina da solo, senza una direzione né una guida. Biku par-la, dice ‘molte parole’ e a voce alta, ma prima non ha ascoltato-com-preso: i suoi sono i discorsi confusi e superficiali di chi si crede esper-

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to, ma non è ancora adulto e quindi farebbe meglio a tacere. Questocomportamento arrogante e vanaglorioso, di chi non abbassa losguardo e la voce, in primo luogo offende gli anziani e in secondoluogo si rivela pericoloso. Attenzione! Dice infatti Teté, perché lagente ha antipatia per colui che parla troppo e a sproposito. Il ter-mine che utilizza (iarongbok) si riferisce a un sentimento molto pe-ricoloso che si colloca tra il detestare qualcuno, il provare fastidio el’invidia. In questo caso l’arroganza non è solo offensiva, ma perico-losa per chi la manifesta, in quanto espone ai rischi della ‘stregone-ria’ o della punizione da parte degli antenati: le storie che circolanosu questo tema sono numerosissime. Un comportamento arroganteinoltre non è oseney (bello, buono, ordinato). Biku infatti camminada solo e troppo rapidamente: corre, quando invece dovrebbe cam-minare lentamente. Molte volte nei discorsi degli anziani il compor-tamento dei giovani viene associato a espressioni quali: n’openni (es-sere vigoroso, agire velocemente, con forza), n’oranni (fare in fretta,essere rapido), n’osom (essere troppo, essere pieno), n’osomam (fa-re troppo, eccedere, abusare). Il discorso di Teté, espresso in uno sti-le molto formale, con un ampio uso di metafore ed espressioni con-venzionali e con tono pacato, rappresenta pienamente le disposizio-ni di una persona matura e ‘sociale’, ossia la tranquillità, la pazienza,il dominio di sé, evidenziando ancor più il comportamento arrogan-te di Biku. La sua autorità è rinforzata dalla manifestazione di uncomportamento sobrio e controllato. In quanto anziano, sa ormaidominarsi (n’obójetin’o) in ogni occasione23.

Queste interessanti associazioni ancora una volta mettono in lu-ce come chi non ascolta i consigli degli anziani non impara a con-trollare, a gestire i suoi n’atribá in modo adeguato, e quindi non di-venta effettivamente un adulto. La vera indipendenza, l’autonomia,non sono quindi il prodotto di una volontà privata, di un atteggia-mento individualistico, ma il risultato della relazione con gli anziani:non diventa adulto-completo (n’ogbón) chi è solo (deeki), ma chi sie-de insieme agli altri (n’oka kadideeki). La dipendenza sociale che iragazzi criticano è infatti il fondamento stesso del loro essere-nel-

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23 Il verbo n’obójetin’o, che vuole dire ‘riuscire a salvarsi, a fuggire’, viene ge-neralmente utilizzato per indicare lo sforzo di autocontrollo necessario ad agiresempre in conformità alle aspettative della società. È un verbo, la cui radice –obójsignifica letteralmente ‘spegnere o dominare il fuoco’, che nella conversazione quo-tidiana mi è capitato spesso di sentire, generalmente in momenti di tensione.

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mondo e della loro personalità: essi devono infatti agli altri la loro vi-ta, il loro nutrimento, la loro educazione e la crescita dei loron’atribá, che li renderà un giorno persone complete. Poiché, comeabbiamo visto, i n’atribá vengono assimilati gradualmente e vengo-no lentamente modellati e indirizzati in una specifica direzione, il le-game di dipendenza non è mai definitivamente concluso.

6. La legge, il patto, la responsabilità

Tutto il percorso iniziatico, che praticamente occupa il tempo diuna vita, è dedicato a trasmettere ai ragazzi il senso della ‘responsa-bilità sociale’ (ekéntro)24, che la società esige per la sua stessa esi-stenza. In questo senso il rispetto, così come l’offerta di doni, costi-tuiscono il pagamento del debito che i giovani hanno contratto incambio della guida morale degli anziani che conoscono la ‘legge’(ekéntro). Sono gli anziani infatti che hanno creato la legge (iakotóiadakat ekéntro) e che hanno il potere di istituirla nel villaggio. Glianziani vanno rispettati non solo per il loro prestigio e potere, ma inquanto rappresentano la legge: la loro dignità non deriva esclusiva-mente dal fatto che sanno dirigere i loro n’atribá in base a un prin-cipio morale che impone il dominio di sé per il bene della società,ma dipende soprattutto dal fatto che sono gli autori di questo prin-cipio morale. Senza gli anziani che la creano, proclamano, simbo-leggiano fisicamente, la legge sarebbe un’astrazione inesistente, pri-va di vigore e di efficacia. Alla base della società e delle sue normeetiche e politiche, si trova dunque un’invenzione umana, un patto se-greto, un accordo, un ‘giuramento’, come la terminologia indigenasuggerisce: l’iniziazione viene infatti definita anche manras, ossia ‘ilpatto originario’, ‘ il giuramento’.

Senza il manras, mi spiega Pedro Banca, non saremmo capaci di

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24 Come vedremo il termine ekéntro, che ho deciso di tradurre, basandomi sul-le spiegazioni dei miei collaboratori locali e analizzandone l’impiego in diversi con-testi, con l’espressione ‘responsabilità sociale’, ha molteplici significati, tra i quali èpossibile individuare connessioni interessanti. Un sinonimo di questo termine, perquanto meno frequentemente utilizzato, è kobáro, per quanto l’accento sia postosulla responsabilità nei confronti della propria famiglia piuttosto che verso l’interogruppo sociale. È interessante considerare che il termine kobáro indica anche la pel-le o il cuoio di cui si vestono gli uomini iniziati e che la radice –báro significa chi-narsi, piegarsi.

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orientare i nostri n’atribá in una direzione socialmente accettabile esensata:

«i giovani infatti ascoltano tante cose diverse, al punto che hanno la testaconfusa. Per questo ci devono essere cose che non si mettono in discus-sione: se critichiamo e togliamo l’autorità agli anziani non ci sarà più iln’obítr kusina. Certo, noi giovani non dovremmo più lavorare per paga-re gli anziani, ma che ne sarebbe dei loro consigli, come avremmo noi uncomportamento ordinato-giusto? Senza la legge (ekéntro), senza il patto(manras) c’è disordine e confusione: se i giovani non sapessero tacere perascoltare-comprendere ci sarebbe molto rumore. Senza una regola i ra-gazzi non smettono di parlare confusamente (iakpanke n’oríbiribík), gri-dano (iaetrák) e si agitano (iatum). Nel disordine però si cade-sbaglia(n’odimá), non sapere cos’è giusto-buono è una minaccia (n’omiankan):non si può vivere, ci si può uccidere per qualsiasi cosa. Per questo un tem-po gli anziani fecero il patto (manras) e decisero la legge (ekéntro). Guar-da, questa che ho scritta sul petto. Per questo è importante fare il man-ras, l’iniziazione, per avere ekéntro (responsabilità, legge, regola, scarifi-cazioni): bisogna mantenere queste tradizioni, se vogliamo restare Iag-baaga (Bijagó di Bubaque)».

È il manras, il patto, l’accordo sociale che si occupa di solidifica-re e garantire una forma, un argine al flusso dei n’atribá dei giovani.Lo fa incidendo in loro il kutribá più importante e gravoso: l’ekén-tro, il senso della responsabilità. Questo pensiero-sentimento nonpuò svilupparsi al di fuori della legge: gli uomini del tempo mitico,che non avevano ancora questo kutribá, facevano ciò che volevanoincuranti degli altri e si battevano per soddisfare i loro desideri. Rac-conta infatti la leggenda che25:

«La gente un tempo viveva come gli animali, tutti volevano coman-dare. Se eri in grado di picchiare (n’odík) qualcuno, lo picchiavi. Se vo-levi una cosa (midík n’oo) di qualcun altro e lui rifiutava di dartela, lo pic-chiavi e rubavi (n’unúk) la cosa che era sua: la gente si picchiava gli unicon gli altri (n’odikán). Ci si comportava come banditi e ciò non avevanessuna conseguenza. Quello che aveva forza fisica comandava ‘sulla te-

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25 Questa leggenda ci è stata narrata per la prima volta da Pedro Banca, in oc-casione di una riunione con gli anziani nell’aprile 1997 (Bordonaro e Pussetti 1999).In questo ultimo campo ho chiesto ad altri anziani di raccontare la leggenda pre-stando una particolare attenzione e chiedendo chiarificazioni e approfondimentiper quanto riguarda gli aspetti legati al comportamento emotivo.

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sta di tutti’: tutti facevano ciò che volevano, senza mai curarsi degli altri.Un giorno un figlio del clan padrone della terra, Orakuma, pensò nellasua testa che ciò non poteva essere, che questo comportamento era peri-coloso (n’onhakpanhi ta kunsaro) e minaccioso (n’omiankan ta kunsaro).Chiamò suo padre e parlò con lui. Il padre chiamò tutti i più anziani, uo-mini e donne: parlò con loro dell’idea del figlio. Tutti gli diedero ragio-ne e decisero di discutere per sedere il villaggio nella legge (iakotó iaokaanekéntro embá), affinché se qualcuno avesse fatto qualcosa lo si casti-gasse (n’ovén). Inventarono anche il n’obítr kusina, per trasmettere la leg-ge (ekéntro) e aiutare gli anziani che non possono più lavorare. Tutto ciòè l’origine del manras.»

L’istituzione della legge rappresenta quindi il termine di questacondizione primeva, caratterizzata da un’illimitata libertà individua-le e da un mondo di pensieri-emozioni totalmente egoistici, in favo-re di esigenze sociali più ampie. La creazione della società coincidecon l’assunzione individuale della responsabilità, che viene rappre-sentata simbolicamente dalle scarificazioni incise sul petto degli uo-mini iniziati. Mentre finora non si è riscontrata una fondamentale di-stinzione di genere nella costruzione dei n’atribá, per quanto sianostate messe in luce alcune differenze, la responsabilità sociale e l’eti-ca iniziatica del controllo appartengono invece decisamente a unprocesso che potremmo definire di androgenesi, destinato cioè a sta-bilire ciò che l’uomo ha da essere in quanto individuo maschile26. Gliuomini infatti hanno bisogno di maggiore controllo perché i loron’atribá sono più pericolosi e violenti: sono stati educati a provareemozioni adatte a un guerriero destinato a difendere il villaggio. Ladisposizione tipica dei ragazzi, in particolare dei n’aro, è espressa dalverbo n’odík27, che comprende molteplici significati, tra i quali i piùimportanti sono: volere, pretendere, desiderare, guadagnare, vince-re, essere forti, essere irrequieti, battere il ferro, competere, lottarefisicamente. Avere questo kutribá significa possedere l’energia ne-

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26 Abbiamo affrontato ampiamente in altri lavori i discorsi locali sul genere,mettendo in luce come, nel pensiero locale, le donne siano ritenute più completedegli uomini, in virtù del principio di fecondità che incarnano. Ciò nonostante an-che le donne necessitano della guida degli anziani e sono inserite nel ciclo n’obítrkusina (Pussetti 1999, 2001).

27 Questa disposizione può essere accostata, pur tenendo presente che si trattadi contesti etnografici differenti, al lirima dei Gisu, di cui ci parla Suzette Heald(1982) e al liget degli Ilongot, studiati da Michelle Rosaldo (1980).

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cessaria per condurre con successo tutte le attività che richiedono vi-gore, come danzare, conquistare le donne, generare figli, combatte-re i nemici, proteggere il villaggio: un giovane privo di questo pen-siero-sentimento non sarà affatto apprezzato. Questa disposizioneviene spesso associata a termini che esprimono un’idea di potenza,energia e intensità: tra questi i più comuni sono n’openón, ‘essere sa-lato, coraggioso, alcolico’; n’opepedáke, ‘essere ardente, pizzicare ingola’; n’osabán, ‘essere duro’; n’orovón, ‘essere rapido’; n’odubán,‘essere bollente’. La sede di questo kutribá è localizzata general-mente nel ventre, per quanto si possa avvertire anche nella testa, aseconda delle circostanze. Le più frequenti manifestazioni fisicheche caratterizzano questo kutribá sono infatti vampate di calore, tre-mori, denti digrignati, ‘occhi bolliti’, ventre che brucia o si scioglie,irrigidimento delle membra, pressione o pizzicore in gola.

Questo kutribá è quindi fondamentalmente ambiguo, in quantoconnette sentimenti positivi come la determinazione, la fierezza,l’energia, il coraggio, la temerarietà, alla capacità di esercitare vio-lenza, di provare collera o rancore e a disposizioni considerate ne-gativamente, quali la cupidigia, la concupiscenza, l’avarizia. Que-st’energia infatti, se non orientata al raggiungimento di uno scoposocialmente utile, ma diretta alla soddisfazione di interessi indivi-duali, può diventare una forza distruttiva. Anche per questo è con-siderato molto pericoloso essere individualisti e disobbedienti(n’onhétr): chi non sviluppa edík (sostantivo dal verbo n’odík) con-temporaneamente all’umiltà e al rispetto che gli permetteranno diseguire la direzione indicata dagli anziani, ne resterà sopraffatto alpunto da perdere il suo equilibrio. Come l’ubriachezza, anche un ec-cesso di edík non controllato può travolgere una persona, lascian-dola in balia della furia della tempesta e dell’impeto delle onde, di-sorientata, confusa, incapace di riconoscere e seguire la direzione, ilsenso e lo scopo indicati dagli anziani. Quest’ambivalenza può dun-que rivelarsi una minaccia per la società: per questo gli uomini do-vranno esercitarsi a tenere i propri n’atribá sotto stretto controllo, aessere ‘lenti’ a seguirne l’impeto. Questo sarà possibile solo quandoavranno pienamente assimilato il senso della responsabilità sociale.L’ekéntro quindi ha lo scopo di incidere letteralmente il kugbídell’iniziando e al contempo gli altri suoi n’atribá.

La scarificazione, che gli uomini sostengono essere una praticanecessaria, per quanto dolorosa – come dimostra il fatto che vienedescritta come un’esperienza n’ogónt (ardente, bruciante) e

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n’okpént (che divide a metà il corpo) – è in effetti un simbolo ap-propriato per rappresentare il sacrificio di autonomia come precon-dizione dell’esistenza della vita sociale. Si tratta infatti di un inter-vento che ferisce e taglia il kugbí, incidendo contemporaneamentel’orebok e strutturando la sfera dei pensieri-sentimenti: l’impegno ri-chiesto durante l’operazione sarà quindi l’esibizione di una grandepadronanza e fermezza del corpo e degli intenti. Mi spiegano infattialcuni anziani che le scarificazioni possono essere lette come libri: es-si mostrano pubblicamente (n’okentráke) se, quando e come una de-terminata persona ha assimilato il senso della responsabilità, cheorienterà il suo comportamento28. Queste connessioni sono indicatedal radicale –kéntr, ‘tracciare, scrivere, disegnare’, dal quale deriva-no termini quali: n’okentrékate, ‘matita’; n’okentráke, ‘indicare, spie-gare, significare’; n’okéntre, ‘dare un nome’; n’okéntr n’árta, ‘studia-re’; e soprattutto ekéntro, ‘responsabilità sociale, legge, incarico, se-gnale, lettera, linea, scarificazione, peso, sacrificio’. È la ‘legge’ (ekén-tro), ripetono spesso gli anziani, che incisa dolorosamente sul pettocon le ‘scarificazioni’ (ekéntro) crea negli uomini la ‘responsabilità’(ekéntro). In questo senso, le persone adulte non seguono la legge peril sentimento di responsabilità sociale, piuttosto sentono responsabi-lità perché sono soggette alla legge; sono mosse ad agire dalla legge,poiché la legge crea in loro il sentimento morale.

Questa responsabilità è un pensiero-sentimento pesante, è un im-pegno verso gli altri, dicono i miei informatori, e in quanto tale con-dizionerà tutti gli altri n’atribá: l’ekéntro indica che non si può fareciò che si vuole, ma che occorre controllare i propri desideri in fa-vore del benessere comune. Chi manca di ekéntro infatti è un omgbá,un bambino dai n’atribá confusi, qualunque sia la sua età anagrafi-ca. L’iniziazione in foresta è il momento fondamentale dell’incorpo-razione della responsabilità sociale: le differenti prove iniziatiche,

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28 Pedro e Tcharte hanno paragonato il linguaggio dell’ekéntro, che si nascon-de dietro la forma apparente di una decorazione geometrica, al linguaggio del ko-ratrakó, la cui trama di nodi e intrecci può essere letta come si legge una lettera. An-che il tamburo sacro, il kumbonki, parla una lingua ritmica, segreta e oscura per chinon ha ancora affrontato l’iniziazione. L’acquisizione di questi linguaggi, che ge-neralmente avviene durante il ritiro iniziatico, è considerata una nuova forma di so-cializzazione (dopo quella implicita nell’acquisizione della lingua bijagó da partedel bambino): in effetti il carattere dell’iniziazione, in questo come in altri contesti,è spesso descritto come una nuova nascita, come l’entrata in una nuova comunità,come l’acquisizione di una nuova consapevolezza.

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cui i ragazzi sono sottoposti, ancora una volta sostengono l’etica delcontrollo, della disciplina e del dominio di sé in favore del benesse-re comune, che costituisce uno dei temi dominanti della riflessionelocale sul comportamento emozionale. Anche in questo caso vorreipartire dal racconto di un episodio che mi sembra illustrare in mo-do particolarmente significativo le questioni che andremo a trattare.

Bijante, 12 marzo 2001. Oggi abbiamo portato a Bijante le copie del-le fotografie di epoca coloniale dell’archivio del Museo Etnografico Na-zionale di Lisbona. Gli anziani hanno identificato persone del villaggioormai morte da tempo o si sono riconosciuti in immagini che li ritraeva-no da giovani. Tcharte riconosce in alcune immagini sfocate suo padre allavoro con altri scultori e decide di appenderle in casa. Le fotografie pas-sano di mano in mano, rispettando l’ordine gerarchico dell’età: ogni vol-ta che qualche bambino si intrufola curioso nel cerchio degli anziani perguardare i ritratti, viene allontanato con una scopa di rami secchi o in-viato a svolgere qualche compito utile. A un certo punto Kariá, un karodi circa quarant’anni, ci raggiunge, si inserisce nel cerchio spintonandoper farsi spazio e, senza prima salutare gli anziani, si rivolge a noi dimo-strando a gran voce e in modo piuttosto teatrale la contentezza per que-sta nostra iniziativa. Sappiamo dai racconti di Pedro che Kariá ha moltiproblemi con gli anziani, che lo accusano di essere troppo individualista,di non donare con generosità e di alterarsi troppo facilmente. Forse pro-prio per metterlo alla prova Tcharte e Dumingo, un altro uomo anziano,lo riprendono duramente per questa grave mancanza di rispetto (si è in-serito in modo irruente, ha parlato con un tono di voce eccessivo, ha tra-scurato di salutare gli anziani, si è dimostrato molto eccitabile), deriden-dolo di fronte a tutti. «Ha l’età di un uomo e si comporta come un bam-bino!», dice infatti Tcharte scacciandolo con il fascio di sterpi; «vai a fo-rare le palme, omgbá, ché il tuo scopo è portarci da bere», continua Du-mingo frustandolo nelle gambe come per incoraggiarlo ad andare. Kariávedendosi trattato alla stregua di un ragazzino, sotto lo sguardo divertitodelle donne, inaspettatamente reagisce scagliandosi con i pugni contrat-ti verso Dumingo, con l’intento di colpirlo. L’atmosfera cambia improv-visamente, si fa il silenzio; alcuni uomini trattengono Kariá per le braccia,allontanandolo dagli anziani. Kariá sembra fuori di sé: mani e braccia tre-mano convulsamente, non si regge in piedi, suda e contemporaneamen-te è scosso da brividi, arrovescia gli occhi. Con sgomento mi rivolgo a Pe-dro e gli chiedo sottovoce che cosa gli sta accadendo. «I tene nerbu (ha inervi)», mi risponde Pedro in kriol. Gli anziani parlano tra di loro e de-cidono che Kariá dovrà comparire domani di fronte all’assemblea nellapiazza centrale del villaggio.

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Questo caso offre diversi spunti di riflessione. Di particolare in-teresse per la questione che stiamo affrontando si rivela la reazionedi Kariá alle provocazioni e al dileggio degli anziani. Si tenga pre-sente che Kariá non è nato a Bubaque, bensì a Canhabaque e quin-di viene considerato uno straniero: nelle sue canzoni insiste sempresul trattamento di sfavore che riceve in quanto ‘giovane’ e ospitesull’isola29. Pedro mi dà una spiegazione molto concisa: Kariá è unoche cede ai nervi. Quando la situazione si calma, chiedo in kriol aTcharte e Teté che cosa significa ‘avere i nervi’. Loro mi rispondonoin bijagó: Kariá è alterato; non si sa controllare e trema per i nervi(tendini, muscoli, vasi sanguigni). Mi spiegano in seguito che è ab-bastanza normale che i giovani vengano presi dai nervi, in specialmodo qualora vengano pubblicamente rimproverati o derisi30. Perspiegare questo tipo di reazione viene spesso utilizzato il sostantivoikosó o il verbo n’okosó. Pensiamo per esempio a queste affermazio-ni di Tcharte, che commentano la condotta di Kariá: ‘le cose di iko-só lo hanno fatto esplodere lui’; oppure ‘sbagliare (cadere) nel com-portamento uccide di ikosó’; ‘ikosó preme dentro; Kariá ci ha insul-tato e adesso prova ikosó ed esplode’. Questo ikosó, mi spiegano imiei interlocutori, è un kutribá che si prova generalmente quando siperde il controllo di fronte agli anziani, mentre non lo si sente in pre-senza di donne o bambini. Un esempio tipico è l’ubriachezza, che èmotivo di ikosó solo se sotto lo sguardo di superiori di grado d’età.La causa, ossia l’elemento che suscita questo kutribá è quindi indi-viduato nella percezione di aver infranto una norma sociale, maall’interno di una relazione interpersonale asimmetrica, ossia di fron-te a persone superiori per età o che sono comunque in una situazio-

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29 «Ho fatto qualcosa di male nei confronti degli iarebok, vorrei che Nindo (ildio creatore) mi uccidesse per non stare più in questo tira-e-molla tra due isole. Sen-tite cosa sto chiedendo a Nindo, di portarmi via, di andarmene con tutti i miei pro-blemi. Io sono ospite sull’isola, ecco perché ogni cosa brutta è Kariá che l’ha fatta,tutto ciò che non va bene, è solo e sempre colpa mia», registrazione Bijante, aprile1997.

30 L’interpretazione locale può essere forse messa in connessione al così detto‘fenomeno dei nervi’ (nervios, ataque de nervios, nevra e nervos) molto documenta-to dalla letteratura di antropologia medica in diverse culture (Good e Kleinman1985; Lock 1989; Jenkins 1991; Scheper-Hughes 1992; Low 1994). In questi lavo-ri l’esperienza dell’attacco di nervi è spesso considerata come una reazione me-taforica in contrasto a un ethos dominante del controllo; come risposta a fratturedi legami familiari o sociali, alla perdita di persone amate o come tattica di resi-stenza in contesti caratterizzati da forti disuguaglianze e rigide gerarchie.

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ne di potere e quindi rappresentano in un certo senso le norme chesono state infrante. In questo caso forse la traduzione più adeguataè ‘vergogna’, pur tenendo conto delle effettive differenze.

Kariá, continua Tcharte, non ha ancora imparato a essere con-trollato e a dare un ordine ai molteplici e contrastanti n’atribá. Que-sto attacco è come un cortocircuito, mi spiega ridendo Pepé che fal’elettricista per la Pescarte, una ONG che si occupa della conserva-zione e dell’esportazione del pesce e che possiede gli unici genera-tori dell’isola. Chi non sa sopportare non sa risolvere le questioniparlando, con responsabilità, come fanno gli anziani. Possiamo con-siderare quindi la reazione di Kariá come un linguaggio strategicoper comunicare, in modo culturalmente previsto e decifrabile, ilcontrasto e lo scontro, vissuti in primo luogo a livello personale ecorporeo, tra l’etica del dominio di sé per il benessere comune e i va-lori di autonomia e individualismo dei giovani, che privilegiano gliinteressi personali e non sanno controllarsi.

Il conflitto tra questi valori contraddittori influenza inoltre il pen-siero locale sulla malattia, che spesso riflette relazioni sociali proble-matiche. I ragazzi della praça, che si dimostrano assolutamente scet-tici e ironici verso molti aspetti legati agli ambiti rituali tradizionali,in realtà temono per la loro salute fisica e mentale e addirittura perla loro vita. Il loro corpo è infatti il luogo privilegiato dove questocontrasto generazionale può assumere la forma concreta della ma-lattia, della pazzia, della morte, in primo luogo a causa delle ‘legatu-re’ (i koratrakó) degli anziani, in secondo luogo della rabbia degli an-tenati. La malattia viene spesso interpretata come punizione da par-te degli antenati della propria linea di discendenza, per aver infran-to la regola del rispetto nei confronti degli anziani, nonostante chespesso colpisca la persona più vulnerabile, in genere un bambino ouna partoriente, al posto dell’effettivo oggetto del biasimo. In que-sto caso la cura è finalizzata al ristabilimento dell’ordine e dell’ar-monia attraverso la pubblica ammenda, necessaria per la guarigionedel malato.

La storia di Abas, un ragazzo di Canhabaque, trasferitosi a Bu-baque da bambino per frequentare la scuola cattolica, è al riguardomolto significativa. Giunto verso i diciassette anni, a metà dell’annoscolastico viene richiamato dagli anziani del suo villaggio per entra-re in foresta e affrontare il manras. Abas rifiuta ripetutamente l’invi-to, adducendo come pretesto l’importanza della scuola e il desideriodi proseguire i suoi studi a Bissau. Gli anziani rispondono che per la

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sua formazione è più necessaria la ‘skola di matu’, la scuola della fo-resta, e rinnovano l’appello. Abas continua a rifiutare, ma suo padre,umiliato pubblicamente per un verso dalla vigliaccheria di suo figlio,per l’altro dalla sua volontà di indipendenza, interviene ritirandolodalla scuola e riportandolo a vivere al villaggio. Come conseguenzaAbas comincia a manifestare segni di squilibrio mentale: non cam-mina più, ha lo sguardo fisso e inebetito, e soprattutto sembra esse-re diventato sordo, ma solo alle parole. Mi dice infatti suo cuginoTotò che Abas reagisce ai rumori, ma non sembra capire ciò che gliviene detto. La famiglia di Abas si rivolge dunque a un odiáki, unguaritore-divinatore affinché individui il motivo e il senso di questamalattia. Il responso è che l’improvvisa sordità e ottusità di Abas so-no una punizione degli antenati per il suo rifiuto di ascoltare i con-sigli degli anziani e le loro parole, imparando il linguaggio del kum-bonki. Non potendo ascoltare-comprendere decidono infine chenon è il caso di mandarlo ad affrontare il manras. La famiglia è peròsegnata a dito da tutta l’isola: Abas ha svergognato il villaggio, atti-rando la disapprovazione e l’ira degli antenati. Due giorni dopomuore di parto una cugina di Abas, della stessa linea di discenden-za. L’interrogazione del morto31 sembra indicare che il comporta-mento riprovevole di Abas dovrà essere scontato da tutto il suo ku-duba (la linea matrilineare), a meno che egli non rinsavisca e affron-ti l’iniziazione. Abas fugge dal villaggio, forse con l’idea di raggiun-gere Bissau, spinto da un kutribá che mi viene definito n’otankasá-mak. Questo verbo è la forma negativa di n’osamák, che significa ‘fa-re le cerimonie, rispettare le regole, pregare, chiedere agli antenati’,ma anche ‘guadagnare, avere ragione, stare bene, essere soddisfatto’.Per esempio, si consideri quest’affermazione: Abas obdo tanbdo. Iatóianam otankasámak onabdo woratraké, madék okpánke, ‘Abas vasenza destino. La gente dice che non ha fatto le cerimonie (non stabene...), egli è passato in un luogo sacro, ma non si è fermato’. Man’otankasámak viene anche utilizzato per indicare il colpevole diqualche azione, come nel caso seguente: nhokor kanhóma, matanka-sámak, ‘mi è scomparso un panno, tu sei colpevole’; o ancora iató ia-tankasámak tanam moo mowan’o, ‘la gente è colpevole di fare coseche hanno cattivo odore’. Nel caso di Abas la connessione semanti-

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31 L’interrogazione del morto è un rituale destinato a individuare le cause deldecesso, diffuso in tutta la Guinea Bissau, del quale parleremo diffusamente nelquarto capitolo.

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ca tra ‘essere colpevole’, ‘non fare le cerimonie’, ‘non stare bene’ èestremamente significativa, al punto che dopo essere fuggito in fo-resta (per il senso di colpa? Per non fare le cerimonie? Per la malat-tia che lo affliggeva?), verrà trovato morto dopo tre giorni. Come nelcaso della sua malattia, anche l’interpretazione della morte di Abassarà utilizzata come strumento di controllo nelle mani degli anzianiper il mantenimento dell’ordine morale e sociale. In questo senso ilresponso della cerimonia dell’interrogazione del morto deve esserecompreso come forma di azione sociale strettamente legata alle rela-zioni locali di potere.

Un’alterazione dell’ordine e dell’equilibrio nelle relazioni socialisi può dunque tradurre in un problema fisico, così come un dise-quilibrio comportamentale o emozionale si rifletterà sui rapporti congli altri. Per questo motivo i principi etici che guidano il comporta-mento sottolineano la necessità di inibire la manifestazione din’atribá negativi quali ‘collera’ o ‘gelosia’: è meglio essere d’accordopiuttosto che in disaccordo quando si parla con qualcuno, anche seil consenso raggiunto è solo superficiale. Nella psicologia indigenabijagó dunque non è pericoloso per la salute e le relazioni sociali re-primere le proprie emozioni (a differenza di quanto generalmentesuggerisce il senso comune occidentale), quanto piuttosto esprimer-le apertamente: «se si provano n’atribá pericolosi è sempre meglionon manifestarli, mi suggerisce Tcharte, per non apparire ridicoli enon avere problemi di salute e con la gente del villaggio». In parti-colare la ‘collera’ va sempre controllata: non è bene farsi vedere ar-rabbiati con qualcuno al villaggio, si diventa infatti il capro espiato-rio per qualsiasi cosa capiti a lui o alla sua famiglia. La strategia piùsolitamente adottata è agire in modo indiretto, attraverso sortilegi,incantesimi o pozioni mortali. L’arte dei veleni è infatti molto diffu-sa in tutto l’arcipelago: tutti gli iniziati conoscono le piante tossichee sanno estrarre il veleno dai serpenti e gli stratagemmi per sommi-nistrarlo alla vittima predestinata sono ingegnosi. Per questo unadelle prime regole di sopravvivenza nelle isole è non bere mai senzache prima abbia bevuto il tuo ospite e comunque prestare sempre at-tenzione ai suoi movimenti nel passaggio del bicchiere32. Come è il

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32 Uno dei metodi più usuali per avvelenare qualcuno è infatti far cadere dellegocce del siero del mamba verde in una bevanda. L’omicida generalmente avrà in-serito sotto l’unghia del dito medio dell’erba intinta nel veleno. Per primo berrà

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caso delle accuse di ‘stregoneria’, che vengono spesso utilizzate permantenere ai margini certi settori della collettività, anche lo spettrodell’avvelenamento è un linguaggio velato del potere, che per un ver-so ha una grande efficacia normativa e di controllo, per l’altro rive-la i contrasti politici tra villaggi o gruppi di individui.

D’altra parte sia l’edík di cui abbiamo appena parlato, sia l’oma-rok, termine che potremmo tradurre con ‘collera’ o ‘aggressività’, seben diretti e padroneggiati, sono n’atribá che hanno anche un valo-re positivo, per esempio qualora si debba difendere il villaggio. Ciòche è pericoloso è non saperli gestire, come quando si accende unfuoco per cuocere la carne e, non sapendolo dominare, si finisce perdar fuoco alla casa o al villaggio. Quest’espressione proverbiale mol-to diffusa a Bubaque ci riporta al racconto lasciato in sospeso di Ka-riá di fronte all’assemblea degli anziani, di cui riporterò la parte con-clusiva nella quale Teté dà ai giovani un consiglio molto significati-vo per la nostra argomentazione.

«Kariá non ha fatto il manras, non conosce la legge. La responsabilità-legge non è scritta sul suo ventre, né nei suoi n’atribá. Non ha dimostra-to controllo, né rispetto e ha offeso gli anziani. In foresta dovrà scontaretutto questo con dolore. Attenzione a chi non si comporta bene con glianziani: il castigo (kavénne) dipenderà dagli errori (mókor) commessi. Inforesta si impara a controllarsi e ad avere coraggio. Questo è ciò che ci siaspetta da un uomo bijagó, che sappia riconoscere il cammino (úbeudodón, il cammino esatto) indicato dagli antenati e ascoltare-compren-dere il consiglio degli anziani. I n’atribá possono muovere un uomo co-me fa il vento (netí) con gli alberi, o la tempesta (kakpikpidí) con le piro-ghe: possono travolgere chi non è forte o non sa governare le onde. Sonocome il fuoco, che è indispensabile per vivere, ma può trasformarsi in in-cendio (ogoutí). Chi non sa resistere alla forza dei n’atribá può ammalar-si e far ammalare il villaggio. La disciplina e il controllo (n’oboj, tenere abada il fuoco) dei n’atribá si imparano dagli anziani ogni giorno e dagliantenati in foresta. Apri le orecchie, Kariá e tutti ascoltate! Chi non ascol-ta-comprende adesso, dovrà ascoltare-comprendere con tutto il corpo inforesta.»

Il manras, l’iniziazione, tappa fondamentale nel processo di co-struzione degli uomini bijagó, prevede un soggiorno in foresta della

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dell’innocuo vino di palma; poi, nel passaggio del bicchiere, fingerà di togliere coldito un insetto o una qualsiasi impurità dal vino, avvelenandolo.

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durata di circa un anno, durante il quale i giovani iniziandi vivonosenza intrattenere alcun tipo di rapporto con la quotidianità della vi-ta del villaggio, affrontando numerose prove cui vengono sottopostidagli anziani. Si tratta di un’esperienza generalmente molto temutae considerata pericolosa: per quanto non si parli pubblicamente deisegreti del manras di fronte alle donne o ai ragazzi non iniziati, glianziani sottolineano spesso in molte occasioni che gli iniziandi ri-schiano la vita e che uno di loro «deve necessariamente morire nelperiodo della reclusione, perché è il prezzo che dobbiamo pagare alGrande Spirito che vuole sangue umano» (Gallois Duquette 1983:113-128; Henry 1994: 123)33. Al di là del clima di terrore che vienea crearsi, effettivamente qualsiasi passaggio di grado d’età è contras-segnato dal dolore fisico e a maggior ragione il periodo del manras.Nell’umidità della foresta i ragazzi siedono in file composte comple-tamente nudi, mentre gli anziani vestiti bevono vino di palma. Il pro-posito, secondo molti informatori, è forgiare il loro carattere, mo-dellare i loro n’atribá in modo da renderli in grado di sopportarequalsiasi cosa, insensibili al dolore, testare la loro resistenza allostress fisico e psicologico, per diventare uomini e guerrieri. I ragaz-zi vengono trascinati con una corda legata al collo, violentementepicchiati, frustati, umiliati e insultati: l’intensità della punizione di-penderà dal loro passato comportamento nei confronti degli anzia-ni. La loro sottomissione è apparentemente totale: mentre siedonosulla nuda terra, in silenzio, gli anziani li percuotono con dei basto-ni ripetutamente e le parole fanno da contrappunto ai colpi: «ri-spettate gli anziani, date loro ciò che vi chiedono. Sopportate con di-gnità, resistete sotto questi colpi». Le cicatrici che gli iniziati reche-ranno sulla schiena saranno in seguito mostrate pubblicamente conorgoglio: saranno il segno che non si sono sottratti ai colpi fuggendoe serviranno a sedurre le donne. Allo stesso modo dovranno sop-portare il dolore delle scarificazioni senza mostrare il benché mini-

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33 L’iniziazione dei Bijagó è citata in tutta la Guinea Bissau come esempio dibrutalità e violenza, tant’è che nel 1989 il presidente della Repubblica, informatodel fatto che stava per cominciare l’iniziazione a Canhabaque, fece trasmettere aglianziani il messaggio di non brutalizzare eccessivamente gli iniziandi. Lungi dall’es-sere inquieti per questo intervento nei loro affari da parte dello Stato, che nel pas-sato arrivò addirittura all’irruzione della polizia nel bosco sacro dell’iniziazione, glianziani di Canhabaque se ne mostrano piuttosto soddisfatti. Questa manifestazio-ne ufficiale conferma il fatto che l’iniziazione è, come loro sostengono, ‘fatale’ intutti i sensi del termine (Henry 1994: 124).

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mo segno di paura o di sofferenza, con il volto fermo e lo sguardofiero. In foresta si impara a essere guerrieri, mi spiega Teté, il suo-natore di tamburo sacro: a combattere, a resistere al dolore, a domi-nare i bisogni fisiologici, a decidere la propria morte34. Per com-prendere appieno il significato di questa educazione non si può pre-scindere dal considerare la dimensione storica, che abbiamo breve-mente tratteggiato nel primo capitolo. Qui ci limiteremo a ricordareche fino al XIX secolo, prima che gli interventi di pacificazione co-loniali li riducessero a pacifici coltivatori, i Bijagó furono feroci pi-rati, impegnati in primo luogo in violenti conflitti tra le isole e addi-rittura tra i diversi villaggi della stessa isola, in secondo luogo in raz-zie e saccheggi dei villaggi della costa e delle imbarcazioni europee.Questo fiero passato precoloniale è continuamente ripresentificatosia dai racconti e dalle leggende tramandate attraverso le generazio-ni, sia dalla danza marziale delle donne possedute che, nella piazzacentrale del villaggio, con il linguaggio del corpo raccontano storie

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34 Una delle caratteristiche che più venivano riportate nella letteratura porto-ghese di viaggio e nelle relazioni coloniali era la grande facilità con la quale i guer-rieri bijagó si toglievano la vita per non esser presi prigionieri. I riferimenti a que-sta estrema capacità di controllo sono frequentissimi. Per esempio André Álvaresde Almada scriveva che «i vecchi, principalmente gli uomini, quando vogliono mo-rire muoiono e di questo non si ha alcun dubbio, essi non fanno altro che trattene-re il respiro e muoiono» ([1594] 1964: 318). Padre Labat ci parla del disprezzo perla vita dei guerrieri con queste parole: «il più piccolo problema li porta a alzare leloro armi e il loro furore contro se stessi: essi s’impiccano senza problemi, si lan-ciano nel vuoto, s’annegano; i più coraggiosi si pugnalano» (Labat 1728: 169 inHenry 1994: 45). Marcelino de Barros un secolo dopo, conferma che: «la morte perun Bijagó non è niente più che un breve sonno, e a causa di questa certezza di es-sere istantaneamente reincarnati nel loro paese, un Bijagó si mette la corda al colloe si impicca con la stessa facilità con cui noi ci mettiamo la cravatta. Il caso più re-cente è quello che accadde a Bissau. Una piroga di Bijagó lasciò il porto, dimenti-cando a terra uno dei loro compagni. L’abbandonato, venuta la bassa marea, mal-grado i suoi tentativi e le sue grida non riuscì a farsi sentire dalla piroga, che si eragià di molto allontanata. Fece allora questo ragionamento: ‘Loro mi hanno abban-donato, ma io arriverò per primo nel mio paese’ e allo stesso istante, afferrataun’ascia, si tagliò la gola» (Barros 1882: 716). Sempre Barros descrive poi il suici-dio di un Bijagó fatto prigioniero, avvenuto senza che nessuno se ne avvedesse, pe-netrandosi il ventre con tizzoni ardenti, senza mai mutare espressione del volto oemettere un gemito. Archibal Lyall scrive che: «I Bissago commettono sempre sui-cidio alla prima opportunità [...], sono completamente indifferenti alla morte e siuccidono alla più piccola provocazione» (1938: 265). Altri confermano che «IBijagós si impiccano per tutto e per niente» (Valoura 1972: 262), «si sucidano perquestioni veramente futili» (Carreira 1971: 199).

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ed esprimono i valori fondamentali di questo passato glorioso35. Èinnegabile che queste memorie di un tempo remoto e i ricordi delvalore mostrato dai guerrieri bijagó nell’opposizione agli interventidi conquista portoghese costituiscano ancora oggi un potente fatto-re di identità per le comunità delle isole36.

«La mia presenza – continua Teté – è fondamentale per la crea-zione di questi n’atribá negli iniziandi: senza l’accompagnamento delkumbonki non ci può essere manras. È il kumbonki che annuncia lapartenza e il ritorno degli iniziandi, trasmette gli ordini durante lareclusione anche a grande distanza e comunica con le anime degliantenati.» Esiste infatti una connessione profonda tra il suonatoredel tamburo sacro e il manras, l’iniziazione maschile. Solo attraver-so il kumbonki avverrà l’incontro dei novizi con gli antenati e, attra-verso di essi, con la tradizione, indispensabile per la formazionedell’ekéntro. La costruzione di questo kutribá dipende infatti non so-lo dall’impegno e dalla determinazione dell’iniziando nel seguire iconsigli degli anziani, ma anche dall’attuarsi in lui di forze ancestra-li. Il fulcro dell’iniziazione maschile, il momento effettivo del pas-saggio da karo a kabido attraverso la formazione della responsabilitàsociale, consiste infatti nell’attribuzione di un nuovo nome agli ini-ziandi: si tratta del nome degli antenati mitici che parteciparono alpatto originario, trasmesso attraverso le generazioni. L’imposizionedel nome iniziatico causa nel novizio una profonda trasformazione,che coinvolge la sua stessa identità, giacché il suo corpo viene posse-duto dal suo antenato più prossimo, cui fu assegnato lo stesso nome.Lo spirito del novizio non abbandona però il proprio corpo ceden-dolo all’antenato, ma i due iarebok si accompagnano nel lungo viag-gio del manras, di modo che il giovane possa acquisire la saggezza el’esperienza dell’avo. Il sapere di tutti i tempi passati, che il ragazzoposseduto incarna, gli sarà d’aiuto per superare le difficili prove chel’attendono e costituirà un passo fondamentale per la sua maturazio-ne personale. Questo passaggio generazionale di esperienza e sag-

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35 Si veda Pussetti 2001.36 Moltissimi episodi, in special modo relativi al conflitto con gli abitanti

dell’isola di Canhabaque, vengono tuttora narrati di frequente, sottolineandol’astuzia e il coraggio degli abitanti delle isole e, immancabilmente, l’ingenuità, l’in-competenza e l’inferiorità delle truppe di occupazione.

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gezza costituisce un legame tra tutti gli uomini bijagó, passati e pre-senti, al di là del mutamento insito nel passare del tempo37.

Il momento in cui maggiormente si manifestano l’avvenuto ap-prendimento del linguaggio segreto del kumbonki e l’incorporazio-ne del passato guerriero è il grandioso spettacolo che i nuovi n’abi-do danno al termine della reclusione iniziatica. Alla vigilia della festadi uscita, il kumbonki è portato di notte nella radura e viene allog-giato sotto una grande pergola il cui tetto è costituito da foglie di pal-ma. All’alba lo strumento suona: «oggi è l’uscita dal manras», avver-tendo così gli abitanti del villaggio. Gli uomini e le donne del villag-gio si sono già radunati intorno allo spazio e il kumbonki trasmetteagli iniziati che sono nascosti in foresta l’ordine di uscita. All’uniso-no i n’abido si muovono tracciando ampi cerchi fino a disporsi in fi-le parallele. Mimano gesti marziali, impugnano le lance e le sciabo-le, imitano l’atto di remare, sempre seguendo il ritmo eseguito dalkumbonki che guida i loro movimenti. Ogni loro gesto e i mutamentinella coreografia generale infatti, secondo i miei interlocutori, sonorigidamente regolati dal kumbonki, il quale con variazioni di ritmocomunica i suoi ordini ai nuovi iniziati, che comprendono ora il suolinguaggio. I danzatori si muovono insieme ascoltando i segnali delkumbonki: il controllo e la sincronia dei loro gesti è praticamenteperfetta, al punto che i movimenti dei giovani iniziati sembrano au-tomatici, rigidi.

Un elemento sul quale spesso gli anziani insistono è che questaesibizione deve apparire molto ben organizzata, controllata ed equi-librata. L’atteggiamento bellico che informa i movimenti dei danza-tori, come anche le azioni mimate che si riferiscono alla navigazionesu piroghe, danno adito alla supposizione che questo sistema di lin-guaggio strumentale potesse essere utilizzato in altri tempi per diri-gere azioni di guerra (Bernatzik [1944] 1967: 176). Spesso infatti neiracconti degli anziani sulla fiera resistenza ai portoghesi l’accento èposto proprio sull’importanza del kumbonki, che organizzava anchea grande distanza le azioni dei guerrieri bijagó, lasciando i porto-

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37 Il senso ultimo della ripetizione periodica del manras consiste non tanto, ocomunque non solo, nella necessità di riformulare, rafforzandolo, il legame etico-politico tra i membri vivi della società bijagó, quanto piuttosto nel creare uno stret-to rapporto tra la comunità dei vivi e quella degli antenati, conferendo alle normecomportamentali, già note a tutti ben prima dei riti iniziatici, un fondamento ‘sto-rico’. Si veda Bordonaro (1998).

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ghesi, che non ne comprendevano il linguaggio, sorpresi e disorien-tati. In questo senso il kumbonki non solo ha valore come strumentodi identità e di relazione con il mondo degli antenati, ma anche comemezzo di comunicazione, organizzazione e coordinazione delle ope-razioni militari e come forma e simbolo di resistenza alla dominazio-ne coloniale. Il kumbonki, l’intera struttura in gradi d’età e il manraspossono essere meglio apprezzati quindi considerandoli in relazioneall’antica organizzazione sociale guerriera. In questo senso si com-prende bene anche la figura del kabido. Al termine della loro danzamarziale i nuovi n’abido si raccolgono in modo ordinato intorno allapergola che ospita lo strumento sacro, si prostrano di fronte a esso einfine mostrano al villaggio l’ekéntro inciso sul loro ventre.

Questo momento segna l’inizio del periodo più faticoso e pesan-te della vita di un uomo. Se infatti prima del manras, quando eranoancora appartenenti al grado d’età karo, potevano avere delle aman-ti, ora non possono avere alcun rapporto con le donne del loro vil-laggio; se come n’aro vivevano nella ‘casa degli uomini’, divenutin’abido devono vivere in foresta; se prima potevano occuparsi dei lo-ro figli, ora non se ne devono più curare; se potevano bere vino dipalma, ora devono rimanere sempre assolutamente sobri; se primapotevano mangiare al villaggio, ora per soddisfare le basilari neces-sità fisiologiche devono rubare. Tutte queste privazioni, unite allepiù svariate prove di resistenza e di coraggio, all’apprendimento dellinguaggio del kumbonki e di coreografie marziali, alla consapevo-lezza di avere raggiunto la completezza dell’orebok che permetteràloro di giungere senza alcun problema all’anarebok, possono esserepienamente comprese nell’ottica di un’antropologia implicita chevuole fare di ogni uomo un perfetto guerriero. Un tempo i giovaniiniziati, i n’abido, erano costretti per dieci anni a vivere lontano dalvillaggio, non potevano avere relazioni con le donne locali, né colti-vare i campi o possedere una casa: questo probabilmente era uno sti-molo molto forte al saccheggio e alle azioni di guerra condotte su al-tre isole o sul continente. Costretti al furto, solitari, senza vincoli af-fettivi, continuamente alla macchia, questi uomini costituivano glieserciti indomabili coordinati dai colpi rapidi del kumbonki, che gliabitanti della costa vedevano giungere di notte sulle loro canoe conla prua a testa di vacca e che più tardi diedero filo da torcere all’eser-cito di occupazione portoghese.

Oggi, specialmente a Bubaque, i n’abido non hanno un ruoloconcreto e distinto. Nonostante siano considerati modello di so-

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brietà e continenza, i loro furti nei villaggi limitrofi sono guardati conuna certa ironia; la regola dell’abbandono dei figli e delle amanti èsempre meno osservata; l’astinenza dall’alcool è osservata solo inpresenza di superiori per grado d’età; l’obbligo di permanenza in fo-resta sempre meno rispettato. Gli anziani, scuotendo la testa, li in-dicano come uno degli esempi più significativi della trasformazionedella loro società.

7. Il «kanhokam» e il furore guerresco

Abbiamo dunque visto come l’incisione e incorporazionedell’ekéntro si traducano in un grande autocontrollo e spirito di ri-nuncia, in favore della protezione e del benessere del villaggio. Il ka-bido – nella sua definizione ideale – ha completamente rinunciato al-la soddisfazione dei propri desideri, vive per portare ricchezze al vil-laggio e tiene per sé solo il cibo necessario per sopravvivere; non be-ve alcolici e non si lascia distrarre dalle donne; vive in modo sparta-no e morigerato; ha imparato a sopportare qualsiasi privazione e sof-ferenza senza il minimo cedimento. In foresta, mi dice Tcharte, hasopportato in silenzio ogni violenza e angheria come necessarie, di-mostrando di rispettare totalmente l’autorità degli anziani.

Ma cosa succede qualora i ragazzi non riescano a dominarsi e rea-giscano aggressivamente nei confronti degli anziani, che stanno met-tendo duramente alla prova la loro sopportazione? Secondo i mieiinterlocutori, questa è un’eventualità molto improbabile: per quan-to la prova della foresta sia la più severa e penosa, la pazienza el’umiltà dei ragazzi che affrontano il manras sono già state testatemolte altre volte, in occasione dei diversi passaggi di grado d’età.Non tutti dimostrano la stessa fermezza, mi spiega Teté: l’ekéntro sulventre degli iniziati testimonierà per sempre del loro comportamen-to. L’ekéntro, aggiunge suo nipote Agostinho in tono scherzoso, è lanostra pagella e il nostro passaporto. Quando i n’abido tornerannoal villaggio mostreranno le loro scarificazioni e tutti sapranno comesi sono comportati. La madre che, cercando con lo sguardo suo fi-glio, non lo vedrà insieme agli altri, continua Teté, saprà che non hasuperato la prova e che mai più tornerà al villaggio. In quel caso nonlo piangerà, perché il suo cuore sarà pieno di vergogna.

Già da subito però gli anziani capiscono quali ragazzi nonostan-te i consigli non sapranno controllare la loro aggressività: quando unbambino, omgbá, verso i sette anni diventa un kadene entrando a far

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parte del ciclo rituale n’obítr kusina, non solo inizia a essere osser-vato attentamente dai suoi superiori, ma per lui cominciano anche le‘sevizie’. Gli anziani riuniscono infatti spesso i n’adene nella forestaper fustigarli con i rami e per insegnare loro l’obbedienza e il rispet-to. Coloro tra i n’adene che da subito manifesteranno atteggiamentiaggressivi verranno scelti per diventare kanhokam. Si tratta di ungrado d’età singolare, in quanto non costituisce una tappa obbliga-toria per tutti i giovani. La maggior parte dei n’adene infatti diven-terà direttamente n’aro, dopo aver affrontato una cerimonia che sichiama n’uki kampende, ‘vestire il kampende38’. L’elemento distinti-vo del grado d’età kanhokam è il suo carattere ristretto e in qualchemodo ‘selettivo’. Data l’effettiva scarsità di n’anhokam e la loro vitatotalmente separata dal villaggio, mi è capitato molto raramente diavere a che fare con giovani di questo grado d’età e le informazioniraccolte derivano tutte da conversazioni con uomini iniziati.

Tutti gli informatori insistono sul legame del kanhokam con la fo-resta: la stessa cerimonia di ingresso a questo grado d’età, chiamatan’obítr kanhokam (chiedere il kanhokam), che si svolge nel folto del-la foresta, è dedicata all’apprendimento di conoscenze relative allafarmacopea tradizionale, che permetteranno loro di riconoscere lepiante che li renderanno invulnerabili alle ferite provocate da armi,aumentando la loro audacia, resistenza e combattività.

Mi spiega Joaquim Umboka39, uno dei più anziani ed esperti ia-diáki di Bijante, che il kanhokam mastica continuamente foglie di ek-peketremá con bucce di emudú e radici di yayi, mischiati alle fogliedi norogó. Secondo le analisi condotte da Marina Thereza do Cam-pos, botanica dell’Istituto di Bioscienza dell’Università di São Paoloe la consultazione dell’erbario del Centro di Botanica dell’Institutode Investigação Científica Tropical di Lisbona, l’ekpeketremá è unapianta che non è ancora stata classificata, le cui foglie hanno fortiproprietà analgesiche, vasocostrittive, antiemorragiche e psicotrope;secondo Umboka infatti viene somministrata anche alle partorientio a chi debba affrontare operazioni. L’emudú invece appartiene alla

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38 Il kampende è un ornamento che si porta allacciato in vita, costituito da duearchi di legno variamente decorati e costituisce l’elemento distintivo del grado d’etàkaro.

39 Il nome Umboka significa ‘colui che stava per sedersi e poi se ne deve anda-re’. Deriva dal fatto che era previsto che fosse oronhó, ma siccome le cose non so-no andate come dovevano ha dovuto andarsene.

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famiglia delle Leguminosae Mimosoideae ed è stato identificato co-me Dichrostachys Cinerea: le sue radici e la buccia hanno un potereanestetico, cicatrizzante e antiemorragico; Umboka sostiene sia otti-mo per guarire rapidamente dalle ferite. L’infuso di radici di yayi(Uvaria Chamae) ha proprietà eccitanti e psicotrope. Nella farmaco-pea tradizionale viene utilizzato per rendere i confini del corpo im-penetrabili e invulnerabili alle armi, agli spiriti, ai morsi di cobra odi stregoni, ai n’atribá altrui. Il norogó, infine, è stato accertato comeCnestis Corniculata della famiglia delle Connaraceae: sia le radici chele foglie sono analgesiche e costituiscono un ottimo rimedio controil veleno dei serpenti. Questo cocktail di sostanze è come una droga,mi spiega Umboka, ti fa sentire incredibilmente forte e invincibile: in’atribá della aggressività, dell’audacia e del coraggio sono così ac-centuati che anche il kugbí diventa invulnerabile, non prova dolore,non sanguina.

Oltre che ai segreti della farmacopea, i n’anhokam in foresta ven-gono istruiti anche sulla realizzazione di koratrakó, il sortilegio di fo-glie di palma annodate cui abbiamo precedentemente accennato. Unaltro elemento sul quale tutti concordano è quello che potremmo de-finire il furore guerriero dei n’anhokam, che viene incentivato da unaparticolare educazione marziale in foresta e dall’uso di sostanze psi-cotrope. «I n’anhokam sono feroci guerrieri, ma sono solo ragazzi equindi sono destinati a rimanere sull’isola a proteggere i villaggi: in’abido invece, che sono adulti, sono in grado di andare a combat-tere lontano, in mare.» Il kanhokam indossa foglie e rami di piantesilvestri, insieme ad armi e ornamenti marziali. Questo carattere bel-licoso emerge in modo spettacolare dalle loro danze: imbracciandolo scudo e la lancia tradizionali o imitazioni in legno di armi da fuo-co occidentali e masticando continuamente il composto di piante,combattono tra di loro fino a cadere esausti. Per questo entusiasmoguerresco, mi spiegano alcuni anziani, «n’anhokam di villaggi diver-si spesso arrivano a ferirsi gravemente tra di loro o ad attaccare sen-za un motivo le persone del villaggio; più frequentemente cadono interra con la schiuma alla bocca, scossi da tremori e con gli occhiiniettati di sangue. Per questo, quando un kanhokam esce dalla fo-resta per entrare al villaggio, conviene fuggire rapidamente».

Al contempo però i n’anhokam sono disprezzati da tutti per losquilibrio dei loro n’atribá, che si traducono in un comportamentoeffettivamente pericoloso: irrompono come furie nello spazio socia-le e si scagliano indiscriminatamente contro chi incontrano. Mi dice

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infatti Tcharte che «i n’anhokam sono una minaccia, bollono negliocchi per l’aggressività» e Pedro conferma che «i n’anhokam sonoaggressivi senza motivo anche tra di loro»40. Sono denigrati al pun-to che i n’aro non accettano le loro offerte, così che i n’anhokam so-no gli unici a non partecipare correttamente al ciclo n’obítr kusina,ma a pagare gli anziani del proprio grado d’età. Per quanto sia pos-sibile il passaggio di grado d’età, in realtà si dice che chi è kanhokamlo resterà per sempre. Non solo infatti questi ragazzi partivano conun netto sbilanciamento dei n’atribá tale da rendere loro quasi im-possibile seguire la strada degli anziani, ma questo loro furore guer-riero viene accresciuto da una particolare educazione marziale edall’uso di sostanze psicotrope. Se il kabido è il guerriero che portain sé il senso della responsabilità e del rispetto e agisce seguendo lavoce degli antenati, il kanhokam viene scelto per un difetto di con-trollo, sulla cui causa le opinioni sono discordi: c’è chi dice derivi dainfluenze ricevute da bambino, dalle parole, dai pensieri-emozioni oda una delle altre qualsiasi entità che possono penetrare i confini delcorpo. Un tempo i n’anhokam vivevano in foresta, così il loro furo-re guerriero non risultava pericoloso e si rivelava anzi utile per di-fendere il villaggio dagli attacchi e dalle scorrerie dei pirati delle al-tre isole. Dopo la pacificazione dell’arcipelago la loro presenza nontrova più uno scopo né la loro aggressività uno sfogo.

Ormai, secondo i miei informatori, non resta ai n’anhokam checombattersi a vicenda, azzuffandosi senza motivo, attaccando comefolli la gente del villaggio, o ancora dibattendosi al suolo senza con-trollo, come in preda a tremori e febbri. Kanhokam ogbe kutina tankonó (‘il kanhokam ha la guerra nel petto’): ecco il kutribá propriodi questi individui, n’odík tanotin’áni, il desiderio di guerreggiare, dicombattere. Ancora più del kabido, si può dire che il kanhokam èmotivato principalmente da un kutribá che appartiene a un passatoprecoloniale e che oggi non ha più un effettivo significato e impie-

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40 Pur nella consapevolezza delle differenze storiche e culturali, che pongonoevidenti problemi di commensurabilità, questa furia guerresca dei n’anhokam nonpuò non richiamare alla mente l’amok malese-indonesiano e il berserk germanico,due esempi celebri di furore bellico. In particolare l’amok, la ‘rabbia omicida’ (Ar-boleda-Florez 1985) è un comportamento prodotto da un momento di transizionee interazione con i colonizzatori. La prima testimonianza di amok (amouco in por-toghese) infatti, risalente al XVI secolo, riporta le gesta dei guerrieri dell’OceanoIndiano, che si lanciavano come folli a morire contro le armi dei portoghesi (Ar-boleda-Florez 1985: 257).

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go. Il contrasto tra l’antico ethos guerriero e un presente che li vedepacifici agricoltori è molto sentito, quanto la contraddizione tra il va-lore della responsabilità e della priorità del benessere sociale e il pro-gressivo affermarsi di una dimensione molto individualistica, legatain primo luogo alle recenti trasformazioni economiche. Questi con-trasti sono percepiti piuttosto chiaramente dai miei interlocutori, iquali si preoccupano molto per gli scompensi che si possono crearenei giovani, che finiscono per avere n’atribá poco conciliabili e quin-di maggiormente difficili da gestire e ordinare. Abbiamo visto cheavere n’atribá confusi e disordinati, può rivelarsi molto pericolosoper la propria salute e per l’equilibrio e il benessere della società.Non dominati, i n’atribá sono, riprendendo le parole del consiglio diTeté, come «vento, tempesta e incendio: possono far morire un uo-mo e devastare un villaggio».

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Capitolo quarto

I pericoli della perdita del controllo

1. Sentimenti pericolosi e linguaggi notturni

Fuori dalla casa di Tcharte alcune persone attendono di essere ascol-tate, visitate, aiutate a trovare un senso alla loro sofferenza. I sinto-mi che queste persone lamentano sono i più svariati: dolori al ven-tre, alla testa o alle gambe, paralisi degli arti, bruciori, svenimenti,amnesie, ronzii o rumori fastidiosi nelle orecchie. Tcharte ha il po-tere di ‘vedere con la testa’ (n’ojón ta bú) e può quindi diagnostica-re i problemi individuandone cause e rimedi adeguati. Per quantoogni singola testimonianza riporti esperienze specifiche e originali,Tcharte sostiene che il più delle volte i suoi pazienti presentano di-sturbi imputabili a persecuzioni da parte di persone dallo ‘sguardopenetrante’, a gelosie coniugali, tensioni familiari o relazioni socialiconflittuali, a esperienze emotive traumatiche o ad attacchi di spiri-ti e ‘stregoni’.

Le interpretazioni che Tcharte offre di queste sintomatologie nonderivano da una concezione della malattia come racchiusa nei con-fini del corpo individuale, ma piuttosto prendono in considerazionela situazione biologica, psicologica e sociale del paziente e di tutto ilsuo gruppo familiare, inserendo quel singolo episodio di sofferenzain una più vasta rete di connessioni con altri domini di esperienza.La salute di una persona, quindi, riflette la qualità delle sue relazio-ni con gli altri. Secondo Tcharte, qualsiasi malattia ha a che vederecon disequilibri dei n’atribá individuali, con relazioni sociali conflit-tuali o con influssi di n’atribá altrui, diretti consapevolmente controuna vittima designata. Abbiamo già sottolineato come i pensieri-sen-timenti possano passare da una persona all’altra, influenzandone ilcomportamento o alterando l’equilibrio tra kugbí e orebok. Una del-le cause più tipiche di malattia e morte è proprio la frattura di que-

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sto legame, generalmente provocata dall’allontanamento, dalla per-dita o dal furto dell’orebok.

Per quanto ci siano situazioni e contesti appropriati nei qualil’orebok può allontanarsi temporaneamente dal kugbí, come è il ca-so per esempio dei sogni o dei rituali di possessione, una separazio-ne al di fuori di questi ambiti sarà sempre causa di malattia o morte.La convinzione che la forza vitale possa essere perduta in situazionidi sconvolgimento emotivo o catturata da stregoni che ne voglionoassorbire l’energia, è comune a molti contesti etnografici. SecondoTcharte e altri iadiáki (divinatori-guaritori), tutti i n’atribá possonocausare questa frattura fatale, qualora non controllati e orientati nel-la direzione indicata dagli anziani. Ciò nonostante, alcuni n’atribá sidistinguono come particolarmente pericolosi, travolgenti come ‘ven-to, tempesta e incendio’: kakpaná, la ‘paura’ alla quale si collega an-che kobané, l’‘angoscia’ di chi è vittima di ‘stregoneria’; edík, il ‘de-siderio’; ikojóke, il ‘dolore’.

Per tentare di rendere conto della complessità delle sofferenzeche i pazienti di Tcharte e degli altri guaritori presentavano, e di mo-strare come tali disagi non rinviassero tanto a un mondo interno eindividuale, quanto a molteplici coordinate situazionali, relazionalie morali, proporremo in questo capitolo alcuni casi particolari. Fre-quentando la casa di Tcharte, ho avuto infatti diverse occasioni di in-trattenere conversazioni con persone ammalate o più spesso di ascol-tare storie di episodi drammatici di crisi, che condensavano diversisignificati. Racconti di dolorose esperienze di perdita, di desideri ca-paci di annullare ogni altro pensiero, di spaventi traumatici, dell’an-goscia costante di chi è vittima dello sguardo penetrante di personeinvidiose. Storie che parlano di n’atribá difficili da controllare e dilunghi anni di sofferenza, incisi profondamente nei corpi; di accuse,di misteriosi banchetti notturni, di comportamenti contaminanti chemettono drammaticamente in crisi la ‘buona vita’ di cui abbiamoparlato nel precedente capitolo.

La presenza di quello che abbiamo definito un discorso morale‘egemonico’ non significa infatti che queste direttive generali sianoal riparo da interpretazioni individuali e situazionali, che non ven-gano cioè discusse, trasformate, adattate, addirittura stravolte. Glistessi orientamenti morali, come abbiamo visto, non costituisconoun sistema perfettamente coerente, privo di brecce, ma si trovanospesso in contraddizione, prestandosi a interpretazioni discordanti.Il singolo attore sociale si trova sempre nella possibilità di fornire va-

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rie giustificazioni e valutazioni delle sue azioni, in quanto la sua po-sizione nei confronti della morale dipende sia dal suo status sia dal-la capacità dialettica di giustificare le sue azioni: il giudizio etico nonè il risultato dell’applicazione di norme precise a dati oggettivi, madell’interpretazione pubblica dell’esperienza narrata, un ambito di-scorsivo nel quale morale, potere e linguaggio si sovrappongono. Lapresenza di precetti morali condivisi inoltre non esclude la possibi-lità di trascenderli, di agire all’esterno dei limiti di quella che vienecomunemente considerata una ‘buona vita’. Sarebbe ingenuo pen-sare alla comunità bijagó come a un meccanismo perfetto, in cui lenorme regolano in modo capillare la vita di tutti e in cui la trasgres-sione non trova posto. La morale non esaurisce la vita, l’esperienzae le azioni possibili. L’‘egemonia totale’ per quanto possa costituireuna possibilità logica, non è mai una realtà empirica: esistono sem-pre ‘morali notturne’, forme espressive alternative, discorsi parallelinei quali può emergere ‘ciò che non può emergere’, ciò che potreb-be distruggere.

L’espressione di questi contenuti emozionali, ai margini del di-scorso dominante rappresentato dagli anziani, prevede tuttavia for-me che la articolano rigidamente e contesti di espressione limitati ecircoscritti. Come vedremo, si tratta di forme espressive convenzio-nali, nelle quali il dolore negato si fa canto, l’invidia nascosta incan-tesimo, l’esuberanza movimento coreutico. Potremmo sintetizzare lariflessione locale come l’idea che ciò che è escluso per dare una de-terminata forma, uno specifico ordine al sistema, può trovare co-munque espressione in un qualche discorso parallelo. Si tratta peròsempre di linguaggi convenzionali e rigidamente definiti, che trova-no posto in contesti sociali ben delimitati e che continuano quindiad appartenere all’etica del controllo e del dominio dei proprin’atribá. Non sono considerati pertanto linguaggi spontanei o ‘acul-turali’: la loro presenza, che acquista significato proprio in opposi-zione ai sentimenti della quotidianità, contribuisce anzi a mantene-re il sistema politico e sociale. La devianza, se fa scuotere e tremareper un istante la struttura normativa, finisce dunque per rientrarenello stesso circuito che la origina, dimostrandosi addirittura fun-zionale a questa struttura nel suo complesso. Il linguaggio della ‘stre-goneria’, per esempio, sul quale ci soffermeremo in questo capitolo,può in quest’ottica essere interpretato come uno specchio che riflet-te in una forma distorta o addirittura invertita le norme e i precettimorali che definiscono la ‘buona vita’. In questo senso dunque, co-

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me l’ombra rende più luminosa la luce, così il discorso della ‘strego-neria’, definendo e circoscrivendo comportamenti socialmente stig-matizzati, riconferma i principi etici dominanti.

2. «Kakpaná kabakam orebok»: la paura strappa vial’«orebok»

Tra le ‘visite’ di Tcharte cui ho avuto modo di assistere durante il pe-riodo della mia permanenza a Bijante, particolarmente interessanteè stato il caso di una donna che era venuta a chiedere aiuto per suofiglio Zed, un ragazzo di circa sedici anni, che presentava una sinto-matologia piuttosto complessa. Stando alle sue parole, il figlio nonparlava, non mangiava e non dormiva più: trascorreva le giornatesdraiato, immobile, con gli occhi aperti senza guardare nulla, comeun cieco. Tcharte lo aveva visitato e, trovandolo effettivamente abu-lico e assente, mi aveva confidato i suoi sospetti: probabilmente il ra-gazzo era vittima di qualche ‘legatura’ di koratrakó. Il giorno se-guente però un amico del malato venne a raccontare a Tcharte unastoria singolare:

Io e Zed avevamo pensato di partire insieme per fare fortuna a Bissau:siamo stanchi di vivere qui, vogliamo uscire dall’isola. Ma abbiamo pochisoldi e le nostre famiglie non ci volevano aiutare. Allora siamo andati al-la spiaggia dove c’è quell’uomo anziano che conosce Serafinte1 e gli ab-

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1 Serafinte, ma anche Serpente, è un termine kriol entrato comunemente in usoal punto che spesso si sovrappone al termine bijagó erande. L’erande è un’entità so-vrannaturale che appartiene al pantheon bijagó e si distingue sia dagli antenati siada Nindo, dio supremo e creatore. Generalmente viene rappresentata come un pi-tone e legata a specifici luoghi del territorio o a elementi singolari e insoliti del pae-saggio. Secondo alcuni autori, si tratta di una potenza originariamente legata a unpitone che vive nel mare (Henry 1994: 89; Carreira 1961: 508): culti legati al pito-ne sono d’altronde diffusi in tutti i gruppi della Guinea Bissau e più in generaledell’Africa Occidentale. Secondo altri (Scantamburlo [1978] 1991: 66; Gallois Du-quette 1976: 95), è uno spirito in forma di serpente legato alle forze della natura,principalmente dell’acqua e degli alberi, ma il termine indica anche oggetti magicidi uso personale, raccolti in santuari privati (kanjá erande). Ogni erande è dotato dicaratteri individuali (nome, genere, particolari desideri, qualità e idiosincrasie) e dispecifici poteri sul mondo degli uomini. Ogni clan possiede un proprio erande(erande enri kuduba), ma è anche possibile che singoli individui stipulino contratticon altri erande per ottenere dei vantaggi materiali. Si pensa che il termine krioliran, che designa in generale qualsiasi potenza o oggetto rituale, derivi proprio dal

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biamo portato due galline e del vino di palma, perché ce la facesse in-contrare. Il vecchio ha accettato i doni e poi ci ha detto che se fossimoriusciti a guardare senza avere paura, rimanendo fermi con sguardo sicu-ro, Serafinte non ci avrebbe fatto del male: solo in quel caso ci avrebbeascoltato. Se ci fossimo spaventati, invece, correndo via con gli occhichiusi, si sarebbe vendicata e ci avrebbe fatto morire. Chi ha paura, ci hadetto il vecchio, non c’è niente che lo possa salvare: Serafinte non sop-porta i vigliacchi e li uccide. Il vecchio ci aveva avvertito, perché non vo-leva prendersi la responsabilità. Entrambi abbiamo dovuto dichiarare adalta voce che non avremmo dimostrato nessuna paura. Ci siamo sedutisulla spiaggia dopo che il vecchio ci aveva purificato e preparato e io so-no rimasto a guardare, coraggioso come una pantera. Serafinte è uscitadal mare sollevando grandi onde e spruzzi d’acqua. Sembrava un pitoneenorme e brillante, si contorceva gonfiando il mare e si spingeva vicino,fino a bagnarci. Potevo sentirla sulla pelle. Ma sono rimasto e non ho maiabbassato lo sguardo. Allora Serafinte ha preso la forma di una donnabianca e bellissima, con i capelli biondi e lisci, lunghi come un mantello.Aveva la pelle brillante e gli occhi di acqua e io ho continuato a guarda-re. Allora mi ha parlato in kriol, chiedendo cosa volevamo. Io le ho ri-sposto in bijagó e lei ha capito, perché conosce tutte le lingue. Le ho det-to che volevamo partire per Bissau, guadagnare danaro, avere successocome gli artisti famosi. Ha detto che mi avrebbe aiutato, ma che non avreidovuto piangere se fossero morte persone del mio villaggio e che avreidovuto portarle dei regali da Bissau: profumi, whisky, coca-cola. Poi è ri-scivolata nell’acqua e ho visto la sua coda di pesce. Mi sono voltato maZed non c’era più. L’ho chiamato a lungo, ma non ho avuto risposta. Poi,tornando al villaggio, l’ho visto vagare così, inebetito, come è adesso: for-se non ha potuto sopportare la vista di Serafinte.

Questo racconto, secondo l’interpretazione di Tcharte, spiegamolte cose: Zed non era vittima di un attacco di ‘stregoneria’, comesi sarebbe potuto supporre in un primo momento, ma della sua stes-sa paura. Una delle cause più comuni della perdita dell’orebok, se-condo diversi iadiáki, è proprio la paura: «kakpaná kabakam ore-bok» (la paura strappa via l’orebok), mi dice infatti Tcharte. Per que-sto, fin da piccoli si è educati a controllare le proprie paure e a col-tivare il kutribá del coraggio (n’openón), alla cui formazione concor-rono quelle pratiche che noi potremmo definire ‘processi andro-poietici’. Espressioni quali mipenón ak egomor, ‘sei coraggioso come

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bijagó erande. È significativo che il pitone in kriol venga chiamato proprio iran-se-gu, iran-cieco.

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un ippopotamo’, mipenón ak ensam, ‘sei coraggioso come una pan-tera’, ak ekpára, ‘come un toro selvaggio’ o ak nhusitáko, ‘come unosqualo’, sono complimenti molto graditi dai ragazzi. Vittime tipichedella paura sono infatti le donne e i bambini, che ancora non hannoconsolidato e reso stabile con l’abitudine il kutribá del coraggio. Zedinfatti ha ceduto alla paura e il suo orebok è saltato lontano (orebokorinkinám mbá), è fuggito via (orebok obéj mbá), come il suo atteg-giamento apatico mette in evidenza. Stando ai diversi casi che mivengono riportati da Tcharte e dagli altri guaritori, ‘chi si è perdutol’orebok per paura’ (otó opetóke orebok eti kakpaná) presenta unasintomatologia tipica: inappetenza, insonnia, dolori somatici diffusi,espressione assente e indifferenza per quanto lo circonda. Il malatogeneralmente passa le sue giornate seduto o sdraiato, senza intratte-nere alcuna relazione con il mondo intorno a lui: questa totale abu-lia lo porterà lentamente alla morte.

La paura è stata spesso considerata come la più semplice e natu-rale delle emozioni ed è stata posta quindi a un estremo di un conti-nuum del quale l’altro polo era costituito da ‘colpa’ e ‘vergogna’, ledue emozioni culturali per eccellenza (Levy e Rosaldo 1983). Que-sta prospettiva riflette l’idea che percezione e valutazione del peri-colo, dalle quali deriva l’emozione della paura, siano esclusivamen-te determinate dall’istinto di sopravvivenza. È stato in seguito soste-nuto che la cultura non ha meno rilevanza per la paura di quanto nonl’abbia per la colpa: quest’affermazione è supportata da diverse ri-cerche sul campo, che hanno messo in luce come le società possanovariare nella percezione e definizione di rischio e pericolo. Anche inquesto caso diviene imperativo dare priorità alle categorie indigene.Sia la narrazione dei vissuti individuali sia il momento diagnosticocostituiscono in questo senso ambiti privilegiati nei quali le personetrovano un senso al loro disagio. Si rivelano dunque particolarmen-te importanti per tentare di comprendere, nella specificità di ognisingolo caso, i significati, le rappresentazioni, le interpretazioni deinostri interlocutori. L’intervento diagnostico e terapeutico del gua-ritore, in questo caso di Tcharte, viene letto come un intervento fon-damentalmente interpretativo, che connette le relazioni sociali, i sen-timenti e le azioni nelle quali il paziente è coinvolto, creando una ca-tena causale della quale l’ultimo anello è lo stato di malattia e crisi.

Una causa tipica per cui orebok odanám eti kakpaná, ‘l’orebok sene va per paura’, è l’apparizione di quella che potremmo definireuna ‘entità sovrannaturale’. Raccontare storie di incontri con entità

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terrificanti è un tipico modo per spaventare i ragazzini e tutti cono-scono un’infinità di aneddoti, che narrano volentieri. La possibilitàdi assistere all’apparizione dello spirito di un morto o di qualchecreatura della foresta o del mare rientra nei limiti della ‘normalità’ edella ‘quotidianità’, in quanto le dimensioni del visibile e dell’invisi-bile coesistono e si sovrappongono. Ciò nonostante saranno gli spi-riti a decidere se, come e quando manifestarsi allo sguardo umano.Poche sono infatti le persone che hanno la facoltà di vedere l’invisi-bile, indipendentemente dalla volontà degli spiriti. A parte i ‘divina-tori’, ossia coloro che vedono con la testa (n’ojón ta bú), solo i bam-bini molto piccoli hanno questa capacità. La loro condizione infattinon è pienamente umana, in quanto la socializzazione non ha anco-ra tagliato i legami con il mondo dell’aldilà, del quale in qualche mo-do ancora partecipano. A differenza degli adulti, inoltre, non aven-do ancora alcuna consapevolezza, non sapranno distinguere chiara-mente tra la dimensione umana e quella degli ‘spiriti’ e non prove-ranno dunque alcun timore. Non appena cresceranno, perderannola possibilità di vedere l’invisibile; al contempo, ascoltando i raccontie osservando le immagini dipinte sulle pareti del tempio del villag-gio (kanjá iarebok, letteralmente ‘tempio degli spiriti dei morti’), ger-moglierà in loro gradualmente il kutribá della paura.

Una delle figure più rappresentate sulle pareti del tempio, ac-canto alle pallide sagome degli spiriti dei morti, è l’immagine poten-te e drammatica di Serafinte, secondo Tcharte «una delle cose piùattraenti e spaventose che si possano immaginare». Serafinte è unerande, uno spirito marino, che generalmente si manifesta sotto le af-fascinanti sembianze di una bellissima donna dalla pelle chiara. Mol-te persone sostengono di aver visto almeno una volta nella vita Sera-finte sorgere dalle acque o camminare nuda sulla spiaggia. Parlanodel suo volto perfetto, dai lineamenti fini e delicati, dei suoi capellilisci e dei suoi occhi azzurri come il mare o il cielo. Ma questa sedu-cente apparenza di donna dalle sembianze straniere nasconde unanatura ambigua, polimorfa e mutevole: metà donna e metà pesce, sitrasforma anche in uomo, in pitone o in altre forme animali. Il suocorpo può addirittura realizzare contemporaneamente tutte questepossibilità, dando vita a una sinuosa figura ambivalente, in cui fem-minile e maschile, umanità e animalità si intrecciano. Al contempoSerafinte è un essere evanescente e immateriale, come il suo aspettosottolinea: il suo corpo infatti non solo è bianco (n’ororok) e chiaro(n’ojón), ma addirittura è trasparente (n’eden) come l’acqua, bril-

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lante (n’otreine) come il riverbero del sole, abbagliante (n’orijirij) co-me la luce. Le numerose rappresentazioni di questo erande, general-mente pitture parietali o sculture, sembrano condensare le moltepli-ci ‘forme di umanità’ (Remotti 1999, 2000) e di alterità, partoritedall’immaginazione locale.

Per quanto nella letteratura etnografica sui Bijagó non si facciacenno a questo spirito, siamo probabilmente di fronte a un’icono-grafia che rappresenta Mami Wata, la donna sirena o serpente, il cuiculto si estende dalle regioni che si affacciano sul Golfo di Guineafino alla Repubblica Democratica del Congo, dove assume il nomedi Mamba Muntu2. Tra i pazienti degli iadiáki che hanno accettatodi rendermi partecipe delle loro esperienze di cura, diversi sono i ca-si di persone che hanno perduto l’orebok o lamentano altri malesse-ri in seguito a rapporti con Serafinte. La relazione più tipica che sipuò instaurare con questo spirito è la stipulazione di un contratto:Serafinte infatti promette bellezza, ricchezza, successo a chi saprà af-frontarla con coraggio. Al contempo però anch’essa è sedotta e ten-tata dagli stessi lussi che garantisce di ottenere: ciò che concede og-gi lo rivorrà raddoppiato domani. Il legame che si instaura è estre-mamente ambiguo, in quanto crea innumerevoli aspettative, obbli-ghi, doveri e richieste, difficili da mantenere e da esaudire3. Un uo-mo senza paura potrà ottenere da lei qualsiasi cosa e addirittura aver-la come amante; ma, qualora la trascuri o non esaudisca i suoidesideri, la bellissima donna bianca si trasformerà nella più mo-struosa delle creature, creando terrore, malattia e morte.

Un altro caso di perdita dell’orebok che ben illustra questo pun-to, è quello di un giovane uomo che si affidò alle cure di Tcharte peralcuni mesi. Dopo aver stipulato un contratto con Serafinte e avereffettivamente ottenuto la somma di danaro che aveva richiesto eun’occasione di lavoro a Bissau, aveva trascurato però di restituireallo spirito quanto pattuito, cercando di ingannarlo. Cominciaronoad arrivargli quindi diversi avvertimenti: problemi familiari, malat-tie o morti improvvise di parenti prossimi. Tuttavia egli pareva igno-

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2 Per un approfondimento etnografico si vedano i lavori di Szombati-Fabian eFabian 1976; Salmons 1983; Drewal 1988; Bastian 1997; Gore e Nevadomsky 1997;Jell-Bahlsen 1997; Beneduce e Taliani 2001.

3 Secondo molti autori che hanno svolto ricerche sul culto di Mami Wata, que-sto tipo di figura rappresenta «i seducenti pericoli della materialità» (Gore1997:110), espressione dei contrasti e dei repentini cambiamenti economici e so-ciali del contesto africano coloniale e postcoloniale.

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rarli, finché una notte Serafinte gli apparve come in sogno. Secondola storia che egli racconta, mentre era nel suo letto tra il sonno e laveglia, avvertì come un soffio di vento e intravide l’ombra di una per-sona nella sua stanza. Domandò allora all’ombra di rivelare la suaidentità: di fronte ai suoi occhi questa si trasformò in un enorme pi-tone le cui spire si intrecciavano e si snodavano dando vita a creatu-re contemporaneamente umane e animali. Ricordando quell’espe-rienza racconta:

«Ero terrorizzato, il mio petto bruciava per la paura, stavo sdraiatosotto il terrore, tremavo per il vento freddo». Accanto a lui la madre con-ferma: «Cominciò a tremare, levò un grido, corse nella foresta. Da quelmomento cominciò a sentire male in tutto il corpo e a sentirsi mancare leforze». La motivazione era evidente: «L’orebok ha abbandonato il corpoper la paura». Il suo kugbí infatti cominciò a diventare sempre più debo-le: «Era in pericolo di morte – continua la madre – gli iadiáki non sape-vano curare la debolezza del corpo, perché l’orebok non era più là».

Un ultimo caso illustra in modo emblematico il potere del kutribádella paura di tagliare il legame tra kugbí e orebok. Si tratta di unframmento della storia di vita di Koká, nel quale viene offerta un’in-terpretazione della morte della madre:

[...] Quando ero bambina, mia madre mi ha portato a vivere nel vil-laggio di Bruce: si era sposata con un uomo di lì e allora abbiamo cam-biato casa. Una sera, al crepuscolo, quando mia sorella era piccola e lamamma l’allattava ancora, siamo andate al pozzo e tornando con l’acquasiamo passate vicino all’albero kokpén4 che c’è alle spalle del villaggio. Iocamminavo davanti e mi ricordo che era quasi tramontato il sole; all’im-provviso comparve di fronte a mia mamma un’ombra, scivolata giù dalgrande albero come un pitone. Ricordo un volto trasparente, dai tratti de-licati, ma allora non capii, perché non sapevo nulla. L’ombra le girava in-torno, alzando un gran vento e impedendole il cammino. Mia mamma miprese la mano e mi mise dietro di lei per proteggermi con il suo corpo. Ionon capivo bene cosa stava succedendo, ma sapevo che lei era spaventa-ta. Quella cosa continua a volare solo intorno a mia mamma, due, tre,quattro volte; sembrava non vedere nemmeno me e mia sorella. Mia ma-

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4 Il kokpén (poilon in kriol; Ceiba Pentandra) è un albero nel quale si ritiene di-morino gli spiriti erande, talvolta anche Serafinte, in alternativa al mare. È un luo-go privilegiato per svolgere attività cerimoniali o per presentare le offerte destina-te agli erande.

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dre all’inizio era come paralizzata, ma poi si fece forza e riuscì a portarciin salvo al villaggio, dove l’ombra non poteva entrare. Da quel momentoperò mia madre divenne sempre più debole e malata: non riusciva più acamminare, non poteva uscire, stava solamente sdraiata, fino al giorno incui è morta. È morta e io non ho capito cosa le era successo, nemmenome ne sono accorta. Dormivo contro la sua schiena e pensavo dormisse.La mia sorellina le succhiava il seno, succhiava e non si accorgeva che eramorta. Mi sono svegliata e le ho parlato, lei non rispondeva, credevo dor-misse e sono rimasta in silenzio. Dopo alcuni minuti è entrata una zia dimia madre, che veniva a salutare e a vedere come stava. Ricordo ancorale sue grida e i lamenti delle donne: «orebok oisir, orebok okan kugbí.Koká, koká omgbá! Nhinam konó eti amo, omisonámo okpé», l’orebok siè staccato, l’orebok ha abbandonato il corpo. Povera, povera bambina!Provo pena per te (sono cuore per te), tua madre è morta. Io ascoltavo,ma non capivo l’importanza. Poche settimane dopo è morta pure mia so-rella: succhiando il latte di nostra madre aveva bevuto anche la sua pau-ra e anche lei si era ammalata. Aveva diarrea, febbre, non dormiva e nonmangiava più. Anche il suo orebok è sbarcato (n’onáka)5 dal suo corpo.Koká, ‘poverina’, quello è rimasto il mio nome ed è anche il mio castigo.Da allora tutto ciò che mi è capitato è legato al mio nome e la gente mivede per strada e dice «Koká!», chiamando il mio nome. Stai attenta a co-me chiamerai tuo figlio, perché scegliendone il nome deciderai il suo de-stino.

L’episodio che Koká ci racconta è esemplare. L’apparizione del-lo spirito avviene in uno spazio e un tempo di confine: le donne sitrovano infatti in foresta, terra d’apparizioni, di spiriti dimenticati eanimali selvatici, proprio al momento del crepuscolo. Al contempoanche l’entità presenta un aspetto che si situa al margine tra l’animalee l’umano: ha un volto ‘dai tratti delicati’, ma striscia giù dall’alberocome un serpente. La madre di Koká resta momentaneamente im-mobilizzata per il terrore ma, per trarre in salvo le sue figlie, riesceinfine a raggiungere il villaggio. Quell’incontro però ha lasciato unsegno: la donna si indebolisce a poco a poco, fino a morire. Condi-vide lo stesso destino, pochi giorni dopo, la figlia neonata, afflittadallo stesso kutribá, assunto con il latte.

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5 Una metafora tipica paragona il kugbí a una piroga nella quale siede l’orebok.In caso di perdita dell’orebok o di morte si può utilizzare il verbo n’onáka, sbarca-re, scendere. Significativa al riguardo è l’espressione con la quale si definiscono ledonne possedute: uruté iarebok, ‘piroghe di iarebok’. Si veda Pussetti 1999.

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Poiché l’orebok è destinato a dare energia e vitalità alla persona,la sua perdita determina uno stato di letargia, nel quale l’ammalatonon mangia, non dorme, non si muove, è incapace di intendere e divolere, e si indebolisce gradualmente fino alla morte. Questo distur-bo può essere accostato al ‘susto’ (spavento improvviso che causa‘perdita dell’anima’), una categoria diagnostica utilizzata general-mente dalle popolazioni ispanofone di Stati Uniti, Messico e Sud-America6, ma presente anche nell’Italia centromeridionale e nelleisole, dove viene chiamato assustu o scantu7. Nel caso bijagó però‘paura’ e ‘spavento’ sono confusi sul piano semantico: kakpaná indi-ca infatti la sensazione di sgomento che si prova trovandosi di fron-te a qualcosa di orribile e inatteso, come anche il diffuso e duraturostato d’animo che ne consegue, fonte di indebolimento e malattia delcorpo8. Il verbo n’okpaná, ‘avere paura’, a seconda dei contesti diimpiego può infatti significare sia ‘spaventarsi di fronte a una cosaorribile’, sia ‘essere vigliacco, pigro o avere un comportamento bia-simevole’, sia ‘sentirsi debole, ansioso, a disagio’. Spesso questa con-dizione viene definita anche dal verbo n’okor, che significa ‘non es-serci, non esistere, sparire’ o dal verbo n’opetekam, ‘essere pauroso,debole, stanco’, che rimanda a interessanti connessioni semantiche.Se consideriamo il campo d’applicazione del radicale –pet troviamoinfatti alcuni verbi molto significativi: n’opetek, che significa ‘perde-re, lasciarsi sfuggire’; n’opetok, ‘perdersi, smarrirsi, abbandonarsi’;n’opetak, ‘dare forza, attizzare, ravvivare, seminare’. Se il primo si-gnificato fa emergere chiaramente l’idea della perdita (dell’orebok,delle forze, della salute, di se stessi), che si inserisce nella lista dei sin-tomi tipici, il secondo richiama il tema dell’orebok come fondamen-tale riserva di energia. Perdere l’orebok significa dunque non averepiù energia, forze, salute; assimilare l’orebok di qualcun altro, comevedremo, vuol dire assimilarne il soffio vitale, la potenza; recupera-

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6 Crandon 1983; De Pury Toumi 1990.7 Nel caso italiano non si ha – né si potrebbe avere in un contesto culturale di

antico cristianesimo, dove l’anima è una e non separabile dal corpo, se non al mo-mento della morte – un’effettiva ‘perdita dell’anima’. Il sottofondo ideologico inrealtà appare il medesimo se all’‘anima’ si sostituisce l’‘animo’, concepito quale se-de d’espressione del principio vitale, da qui diffuso in ogni parte del corpo trami-te il flusso del sangue (Signorini 1989: 43-50).

8 Per indicare uno spavento improvviso, misto a sorpresa e sgomento, si utiliz-zerebbe però il termine etetí.

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re il proprio orebok smarrito equivale di conseguenza a tornare allavita, sottraendosi a morte certa.

Il kakpaná dunque, che noi abbiamo tradotto come ‘paura’, puògravemente perturbare l’equilibrio naturale tra gli elementi essen-ziali alla costituzione della persona: l’orebok perduto continua a va-gare senza una direzione, mentre il kugbí lentamente si indebolisce.Proprio per questo, secondo molti guaritori, questo kutribá è spes-so intenzionalmente causato per paralizzare la vittima e prenderepossesso della sua preziosa fonte di energia vitale: l’orebok rubatosarà momentaneamente trasferito in una nuova sede materiale (ge-neralmente una pianta, una pietra o un luogo che presentino unaconformazione particolare). Le interpretazioni che gli iadiáki offro-no delle malattie dei loro pazienti, rinviano nella maggior parte deicasi all’intenzionalità di un agente: il vento malvagio e gli influssi del-lo sguardo penetrante delle persone invidiose sono infatti conside-rati causa della maggior parte dei malesseri che affliggono gli uomi-ni. In questo caso però la paura assume una nuova sfumatura, cheesprime lo stato di inquietudine e angoscia costante di chi sente sul-la pelle l’occhio tagliente dell’invidioso e di chi è tormentato da con-tinui attacchi ‘stregoneschi’.

3. «Kobané»: l’angoscia di chi è vittima di ‘stregoneria’

Il termine kobané, che deriva da obané (termine che potremmo perora tradurre come ‘stregone’), si riferisce a una condizione di ansiapersistente, in cui si è come ossessionati dal pensiero ricorrente diessere vittime di ‘stregoneria’, al punto che si diventa incapaci dipensare ad altro. I tipici sintomi sono senso di oppressione, soffoca-mento, inquietudine, pesantezza al torace, affanno. Quest’angosciaderiva anche dalla consapevolezza della stretta e quotidiana vicinan-za delle persone che vogliono fare del male. Il termine kobané puòinoltre essere utilizzato per indicare l’astuzia, le malizie e in genera-le le disposizioni malevole dell’obané. Kobané designa infine anchela paura del contagio: data la vulnerabilità e permeabilità del corpoumano ai n’atribá degli altri, si teme infatti che questo male, questipensieri-sentimenti corrotti, possano penetrare all’interno della vit-tima attraverso gli organi di percezione, deviando la rettitudine delsuo comportamento.

Abbiamo dunque incontrato un termine molto particolare chepotremmo tradurre, banalizzando, come ‘paura degli attacchi di

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stregoneria’. In realtà la recente riflessione antropologica sulla poli-tica delle rappresentazioni etnografiche ci invita a considerare e uti-lizzare con senso critico la categoria di ‘stregoneria’. Questo termi-ne si riferisce infatti a un insieme di pratiche e significati eterogenei,che gli antropologi hanno delimitato adattandoli ai confini di una ca-tegoria culturale occidentale. Nella consapevolezza delle implicazio-ni ideologiche di questa categoria e della natura insoddisfacente diuna definizione ‘etica’ (in quanto contrapposta a ‘emica’), nella qua-le s’avverte troppo l’importanza della storia culturale europea, e cheriassume, uniformandole in un termine singolo, pratiche spesso irri-ducibili le une alle altre, ho preferito per quanto possibile privile-giare le categorie e i termini indigeni. Secondo Crick (1976, 1982),infatti, il concetto di stregoneria è diventato un topos separato dellaricerca antropologica, assumendovi impropriamente uno statutoquasi ontologico. Categorie quali ‘stregoneria’ e ‘fattucchieria’ (wit-chcraft e sorcery), proposte da Evans-Pritchard nel suo celebre lavo-ro sugli Azande (1937), si sono rivelate comode cornici teoriche nel-le quali etnografi hanno potuto adattare i materiali raccolti sul ter-reno anziché rivolgere maggior attenzione alla particolarità delle cul-ture che è capitato loro di studiare (Crick 1982). Seguendo i sugge-rimenti dell’approccio semantico di Crick, la scelta di utilizzare con-cetti indigeni, pur richiedendo uno sforzo maggiore al lettore,dovrebbe permettere di avvicinarsi a questo ambito senza perdere lesfumature e l’originalità dei significati e delle categorie locali. Nelbijagó di Bubaque esistono per lo meno due termini che ho sentitopiù volte utilizzare in diversi contesti e sulla cui definizione sembraci sia un accordo generale, per indicare quella tipologia di personeche viene indicata in kriol come i futuseru9: obané e omadók.

Si può essere obané per nascita o diventarlo in seguito alla pos-sessione da parte di uno spirito kassisa10. Generalmente, infatti, di-venta obané chi nasce da una madre a sua volta obané: nel latte e at-traverso il contatto corporeo assorbirà sia i suoi n’atribá malvagi,rendendoli per sempre parte di sé, sia poteri sovrannaturali. Altri-

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9 Questo termine deriva chiaramente dal portoghese feiticeiro, termine che si-gnifica letteralmente ‘fattucchiere, mago’ e che deriva da feitiço, ‘falso, artificiale,fittizio’, ma anche ‘maleficio, sortilegio’. Per indicare la ‘stregoneria’ in portoghesesi utilizza piuttosto il termine bruxaria.

10 Secondo i miei informatori, si può identificare il kassisa con lo spirito peri-coloso e inquieto di un obané morto, che vaga in foresta.

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menti può capitare che una persona del villaggio che conduceva unavita normale, venga colta improvvisamente da forti febbri e dolori.Questa malattia è l’inizio della sua possessione da parte di un kassi-sa, con le parole di Tcharte «un diavolo11 che incontri nella forestadi notte, un’anima malvagia con tanti capelli, che emana un odorefetido di decomposizione e vaga senza una direzione per sempre,cercando di che cibarsi»12. In entrambi i casi dunque si diventaobané indipendentemente dalla propria volontà: i perversi n’atribá ele straordinarie capacità in un caso vengono ‘ereditati’ per via ma-terna, nell’altro ‘incorporati’ attraverso la possessione. Per questa ra-gione l’obané inizialmente ignora il male che porta in lui e che pro-voca al suo passaggio delle catastrofi. Solo con il tempo ne avrà con-sapevolezza e completerà queste disposizioni ricevute in un modo onell’altro con una specifica educazione. Ciò nonostante agirà sempreper se stesso, non avendo interesse a portare a termine malefici o‘stregonerie’ per conto d’altri. La figura dell’obané condensa le ca-ratteristiche di inversione dei valori sociali più volte riscontrate in ca-si e contesti analoghi13: voli notturni, cannibalismo, trasformazionein animali, nudità, furto dell’energia vitale, appartenenza a una co-munità della foresta, offerte in sacrificio di parenti. Queste pratiche,che costituiscono agli occhi dei locali un totale sovvertimento dellamoralità, suscitano reazioni di disgusto, al punto che vengono asso-ciate all’odore repellente della putrefazione. Di queste azioni immo-rali infatti si dice spesso che abbiano l’odore cattivo che spesso sisente in foresta, dove si riuniscono gli stregoni: fetore di decompo-sizione, di fermentazione. Ma questo odore disgustoso e minacciosonon è solo della foresta: appartiene anche al villaggio, in quanto pro-prio dei cadaveri, della trasformazione e della distruzione operatadalla morte. Il luogo del lutto (ankataba) è un luogo pericoloso e

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11 Il termine diavolo è la traduzione del termine kriol diabo, di chiara influen-za cattolica.

12 Nell’articolo di Fernando Rogado Quintino ‘Entre gente temente ao deus-irã’,viene riportata una descrizione simile del kassisa: «È un essere peloso, con odoredi caprone, che lancia fiamme dalla bocca e si nutre di anime umane» (Quintino1968: 109). Teresa Montenegro lo descrive come «un morto in procinto di decom-posizione, senza pelle, con gli occhi senza palpebre, la carne corrotta che emana untremendo odore di putrefazione [...] implora alimenti e sacrifici [...] ha una vocemonocorde e nasale e parla articolando male le parole» (Montenegro 1992: 68).

13 Si vedano per esempio i classici contributi di Evans-Pritchard (1937); Mair(1969); Douglas (1970).

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contaminante: come vedremo nel prossimo capitolo, per salvaguar-dare i singoli individui e l’intera collettività dai rischi della disgrega-zione e dalle minacce insite nel cadavere, estrinsecate dal cattivoodore che emana, verranno messe in atto diverse pratiche. Quest’as-sociazione è sottolineata anche dal fatto che l’ankataba, e in genera-le le diverse cerimonie funebri, sono indicati come contesti privile-giati dell’azione degli iabané. La comunità inoltre è messa alla provanon solo dalla perdita di uno dei suoi membri, ma anche dal fattoche ogni morte causa l’insorgere di sospetti, ansietà e timori, che sitradurranno in reciproche accuse: l’unità stessa del villaggio vienemessa in questione. Si potrebbe al proposito pensare a un’analogiatra la morte, che è forse la situazione prototipica in cui le relazionisociali vengono distrutte e i legami fratturati, e l’azione della ‘stre-goneria’ obané. Entrambe costituiscono infatti una seria minaccia didisgregazione della società, scuotono e ristrutturano la comunità, al-terano e indeboliscono i legami. Come la decomposizione ‘deco-struisce’ i corpi così – potremmo azzardare – l’azione contaminantedell’obané distrugge i legami familiari e minaccia l’armonia del vil-laggio, rovesciando l’ordine sociale e morale. La presenza dell’obanéè un focolaio di impurità e ambiguità sempre in agguato all’internodel gruppo: per questo rappresenta il pericolo più temuto.

Il termine obané viene spesso connesso alla famiglia semantica–bén, alla quale appartengono verbi come:

– n’obén, che significa sia essere o fare qualcosa di spregevole, siatessere, legare;

– n’obénh che indica sia gli escrementi sia l’atto di defecare, masignifica anche contaminare, infettare, pervertire, danneggiare;

– n’obénen, ingannare, deteriorarsi, ma anche corrompere, logo-rare;

– n’obeney, che vuol dire distruggere, divorare, tradire, mentire.L’obané minaccia dunque gravemente la comunità dei vivi: per

questo motivo alla sua morte verrà seppellito nella foresta, spazionon-umano nel quale questi spiriti rimarranno intrappolati in uncontinuo vagare, fino a cadere nell’oblio. Seppellire un obané infat-ti nell’annani (dentro al ventre), la stanza centrale della casa, comesi fa abitualmente per tutte le altre persone, creerebbe in primo luo-go un grande disturbo per i vivi, un tormento. In secondo luogo, sel’obané venisse sepolto nell’annani, spazio femminile simbolicamen-te associato al grembo materno, potrebbe ritornare in vita posse-dendo un bambino in occasione della sua nascita. Questa camera è

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infatti il luogo in cui le donne della casa partoriscono e in cui vieneseppellita la placenta e sepolti i morti: è lo spazio privilegiato di con-giunzione tra il mondo dei morti e quello dei vivi, tramite la media-zione delle donne. Si comprende allora come un obané non possa es-sere sepolto in una stanza il cui suolo non solo è un memoriale del-le nascite e delle morti della famiglia, ma soprattutto rappresenta illuogo della partenza e del ritorno degli orebok dall’aldilà. La sepol-tura nella foresta, preferibilmente in una zona molto fitta e poco fre-quentata, eviterà il ritorno dell’obané, mettendolo fuori dal circuitodegli iarebok. Il termine ankobané14 indica infatti sia il luogo in cuigli obané si riuniscono in segreto, sia quello in cui verranno sepolti,sia in generale la foresta densa, fitta, non disboscata.

Il secondo termine, omadók, indica invece colui che produceconsapevolmente ‘sortilegi’, anche per conto d’altri, avendo acquisi-to le tecniche e le conoscenze necessarie: può essere utilizzato infat-ti come sinonimo di odiáki, guaritore-divinatore, sebbene con unatonalità più ambigua. Come l’odiáki, l’omadók conosce il linguaggiodel koratrakó, sa ‘legare le medicine’, sa comporre intrecci nefastiper attaccare la vittima. L’omadók annoda infatti la voce o il suonodel nome della vittima predestinata, per catturarne l’orebok: non sitratta di una legatura qualsiasi, ma di un nodo fatto con una precisaintenzionalità malvagia. Un nodo che agisce sui e simboleggia i lega-mi familiari e sociali, che può essere allacciato o sciolto al fine di uni-re ciò che dovrebbe essere separato e viceversa. Il termine koratrakóinfatti appartiene alla famiglia lessicale –ratr, da cui il verbo n’oratr,‘appendere, legare, sospendere’, ma anche ‘essere proibito, sacro,vietato’.

Il verbo n’omadók, da cui deriva il sostantivo, significa ‘avere oacquisire potere, influenza, conoscenze’: questo termine privilegiadunque la dimensione dell’intenzionalità in vista del perseguimentodi ricchezza e fama, includendo nella sua definizione caratteristicheche potrebbero normalmente non essere etichettate come ‘stregone-ria’. L’utilizzo di pratiche occulte, la capacità di fabbricare amuletiprotettivi, la conoscenza dei rimedi e delle proprietà delle piante del-la foresta, il possesso di saperi segreti sono sempre stati consideratiprerogativa e caratteristica delle persone che detengono il potere nel

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14 Recentemente, per influenza dei missionari, questo luogo viene anche chia-mato anutukó, termine che viene generalmente tradotto con ‘inferno’, ma che let-teralmente significa il ‘luogo del fuoco’.

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villaggio. In generale, tutti gli anziani e soprattutto il re, il suonato-re di tamburo sacro e i guaritori più potenti e rispettati, condivido-no conoscenze e detengono tecniche che permettono di difendersidagli attacchi di coloro che vogliono minare la loro posizione. Si po-trebbe addirittura sostenere che tutte le posizioni di potere e auto-rità sono collegate in qualche modo a queste pratiche. Come dispo-sitivo di potere, in questo caso la conoscenza delle tecniche ‘magi-che’, gioca in favore delle categorie dominanti: nelle loro mani que-ste pratiche sono approvate e legittimate in quanto strumenti peri-colosi ma controllati e limitati alla sanzione di comportamenti cheminaccino l’ordine sociale. Le loro conoscenze sono quindi stru-mento di accumulazione, difesa e conservazione del potere. Questorapporto stretto, ma contraddittorio, tra potere degli anziani e que-sti saperi e pratiche ambigui è essenziale alla comprensione del ruo-lo politico della ‘stregoneria’. Secondo la maggior parte dei mieiinformatori, gli anziani del villaggio possono curare gli affari del vil-laggio e mantenere la loro autorità, anche in virtù delle conoscenze‘occulte’, che permettono loro di proteggersi e di mantenere l’ordi-ne15. Il possesso di conoscenza è d’altro canto sempre ritenuto mo-ralmente ambiguo; nessuno che abbia appreso i segreti della farma-copea, delle ‘medicine’ della foresta, è totalmente innocente: chi puòcurare infatti può anche uccidere ed essere creduto capace di en-trambe le cose permette a una persona di occupare una posizione digrande autorità. Per quanto non si abbia mai certezza di quali iadiákisiano anche iamadók, in ogni caso queste figure sono molto rispet-tate e temute, poiché capaci di esercitare deliberatamente una vo-lontà e un controllo sulla vita degli altri.

Nonostante che diverse critiche abbiano indicato i limiti dell’im-posizione di rigide etichette quali witchcraft, il potere psichico in-terno di nuocere, e sorcery, la capacità di fare sortilegi mediante sim-boli esterni (parole, incantesimi o pozioni), queste categorie sem-brano rispecchiare in parte la distinzione locale tra obané eomadók16. In realtà, considerando l’impiego quotidiano di questi

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15 In molti studi su società matrilineari del Congo, la stregoneria figura spessocome un sostegno dell’autorità degli anziani (Dupré 1982).

16 Seguendo la distinzione proposta da Evans-Pritchard, witchcraft rappresen-ta il potere non necessariamente provocato dalle intenzioni dell’agente, che pos-siamo paragonare a quello dell’obané, che «dove passa semina involontariamentecatastrofi» (Gallois Duquette 1983: 137); sorcery, invece, il potere controllato cheassociamo alla figura dell’omadók, che agisce coscientemente mediante simboli

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concetti e volendo rendere conto delle diverse definizioni che sonostate proposte dai miei differenti interlocutori, gli elementi di diffe-renziazione tra queste due figure diventano sempre più imprecisi eambigui, fino a sfuggire a qualsiasi rigorosa categorizzazione.

Se infatti si diventa obané non per scelta ma inconsapevolmente,assorbendo i n’atribá materni o incorporando quelli di un kassisa,durante la crescita queste disposizioni verranno coltivate con unaspecifica educazione, che in parte si sovrappone a quella propria de-gli iamadók e degli iadiáki. Ma mentre un omadók che agisce perconto di altri può colpire con i suoi sortilegi persone praticamentesconosciute o molto lontane, l’obané ha un territorio di influenza cir-coscritto a una sfera geografica e sociale piuttosto limitata: la sua in-fluenza nefasta ha effetto solo in situazioni di prossimità con la vitti-ma e spesso è rivolta verso i suoi stessi parenti per linea materna. Imotivi della ‘stregoneria’ obané mettono quindi in relazione indivi-dui legati tra di loro a livello spaziale o di parentela. Si può inoltreriscontrare un’esplicita diversificazione di genere nella rappresenta-zione di queste due categorie: mentre i sospetti di essere obané si ri-volgono generalmente alle donne, gli iamadók sono quasi sempre uo-mini. La conoscenza segreta dei koratrakó e dei sortilegi che si ap-prende nel ventre oscuro della foresta più fitta, è infatti in linea dimassima riservata agli uomini. Le donne hanno la possibilità ecce-zionale di accedervi solo qualora istruite dalla loro madre obané, dal-la quale – come abbiamo visto – avranno già ereditato le inclinazio-ni. Inoltre, una madre obané privilegerà sempre le figlie femmine,che potranno tramandare nelle generazioni queste disposizioni stre-gonesche; i figli maschi in genere verranno offerti in pasto agli altriiabané, come prezzo di ammissione alla comunità, in occasione diuna riunione in foresta. Partecipare a questa congregazione permet-terà infatti al ‘novizio’ di apprendere e condividere le conoscenze de-gli altri iabané. Vedremo nei prossimi paragrafi che non solo la loroposizione nella società, ma anche i pensieri-sentimenti, le intenzionie le motivazioni che muovono iabané e iamadók sono di due ordinipiuttosto differenti.

Volendo individuare invece alcune caratteristiche comuni aomadók e obané, potremmo in primo luogo considerare che entram-bi appartengono a spazi e settori marginali della collettività, seppur

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esterni. All’obané vengono infatti attribuiti poteri incontrollati, inconsci, pericolo-si e vietati; all’omadók poteri controllati, consapevoli, esteriori.

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per diverse motivazioni. Omadók e obané, come verrà meglio evi-denziato più avanti, condividono una collocazione ai confini delgruppo, anche se occupano posizioni strutturali praticamente op-poste. L’uno è infatti spesso identificato nella figura maschile auto-ritaria, potente, ricca, che ha accumulato troppo, l’altro in quella del-la donna povera, sola, che ha perso tutto. Omadók e obané condivi-dono inoltre sia il fatto di rappresentare una minaccia (morale, poli-tica, economica) per il gruppo, sia una relazione di intimità profon-da con la foresta. Secondo i miei informatori, la foresta è infatti unospazio pieno di significati, territorio minaccioso di spiriti dimentica-ti e di animali selvatici, teatro di apparizioni straordinarie e perico-lose17, ma anche fonte di nutrimento, vita e rigenerazione. Comeconferma Henry, basandosi sui dati raccolti nella sua ricerca tra iBijagó dell’isola di Canhabaque, la foresta è «uno spazio senza il qua-le non vi è crescita, né vera fecondità, in quanto un uomo non di-viene veramente un uomo prima di aver vissuto in foresta (di esserestato kabido) e una donna diviene una vera donna soltanto dopo es-sere stata posseduta da un essere della foresta (l’anima di un mortonon iniziato)» (Henry 1994: 83). La foresta dunque simboleggia siail pericolo sia il potere, dei quali partecipano a livello esistenziale siagli iamadók che gli iabané. Altra caratteristica comune è che iamadóke iabané sono persone che ‘non si sanno dominare’, possedute dapensieri-sentimenti che non controllano, i quali secondo i casi pos-sono essere gelosia, invidia, rancori o ambizioni divoranti, appetitiincontrollabili, sete di potere, desiderio eccessivo di danaro, profit-to e successo. Sono le persone che hanno perso di vista la direzioneindicata dagli anziani, costituendo una minaccia per il benessere delgruppo o addirittura per la loro famiglia.

3.1. Il desiderio incontrollato degli «iamadók». N’omadók è dun-que l’azione volontaria e intenzionale di qualcuno che, facendo ri-

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17 Sono molto comuni le storie di incontri con spiriti della foresta, descritti ingenere come esseri invisibili, che si manifestano solo con odori sgradevoli e lamen-ti strazianti, o come entità il cui aspetto è spaventoso per la sua indeterminatezza.Questi spiriti infatti si trovano a errare tra il mondo dei vivi e quello degli antenatisenza appartenere a nessuno dei due: conservano dunque le loro caratteristiche cor-poree, ma orribilmente sospese tra la vita e la morte. Possiedono un corpo, ma indecomposizione; hanno ancora la voce, ma monocorde, priva delle tonalità e delritmo propri della vita; necessitano di nutrirsi, ma non sono in grado di procurarsiil cibo.

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corso a sostanze e pratiche nocive, causa malattia o più raramentemorte a una vittima, per motivi propri o per danaro, nel caso di in-terventi per committenza. Per comprendere la direzione delle accu-se, occorre in primo luogo considerare la dimensione di conflittua-lità esistente fra l’individuo e il gruppo, tenendo conto dei costi per-sonali che il primo paga perché non venga erosa la coesione del se-condo: il desiderio e il progetto del singolo finiscono spesso infatticon l’essere sacrificati a vantaggio della collettività. In secondo luo-go, è necessario prendere atto dei drammi che una rigida gerarchiz-zazione in gradi d’età talvolta comporta: spesso gli uomini adulti an-cora non iniziati lamentano infatti l’umiliazione quotidiana di dovervivere ancora come in un’adolescenza prolungata, nella quale non sihanno diritti ma solo obblighi.

Nel capitolo precedente abbiamo accennato alla tensione dialet-tica tra il discorso ‘etico’ e ‘psicologico’ dominante, che prevede unacostruzione dei propri n’atribá, mirata al benessere comune, e gli in-teressi egoistici di affermazione personale, specialmente in un mo-mento di rapide e profonde trasformazioni socioeconomiche. Se lapedagogia implicita ed esplicita, come abbiamo visto, si adopera nelforgiare comportamenti e disposizioni anti-individualistici, nell’in-tento di realizzare il principio della condivisione, della solidarietà,dell’aiuto reciproco, della rispettosa sottomissione a regole gerar-chiche che assegnano a ciascuno una posizione e un ruolo specificoall’interno del sistema del n’obítr kusina, l’omadók è l’individuo cherigetta e rifiuta queste norme, che si mette al di sopra delle regole perperseguire obiettivi particolari e soddisfare la sua sete di potere e ric-chezza.

Spesso infatti gli iamadók sono in qualche modo legati da con-tratti con Serafinte, che promette successo economico, ma al con-tempo ‘succhia il sangue’, ‘mangia gli uomini’, ‘vuole tutto’. Proprioquesta imbarazzante affermazione dell’individualità sulla società,questa infrazione dei codici di comportamento e degli obblighi so-ciali stabiliti dal discorso dominante, può essere definita come ‘stre-goneria’ omadók; ma in realtà essa altro non è che una deliberata in-versione dell’etica dell’ekéntro. Al di fuori dell’ordine della parente-la, della solidarietà del gruppo, della ridistribuzione di beni e risor-se dai giovani verso gli anziani, ci troviamo dunque nel regno degliiamadók: è qui che possiamo incontrare le persone che con un com-portamento antisociale inseguono iniziative e scopi personali, prati-cano il commercio, si arricchiscono, senza curarsi della moralità del-

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le loro azioni. Sono le persone nelle quali il kutribá della cupidigia,del desiderio, dell’avidità, dell’egoismo, ovvero l’edík (sostantivo delverbo n’odík) di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, hapreso il sopravvento. L’azione dell’omadók infatti non segue le nor-me sociali, ma impone le proprie regole, sovvertendo il discorsoideologico convenzionale. Molte interpretazioni sottolineano infattiil ruolo svolto da queste forze occulte nell’accumulazione di poteree ricchezza. Individuare un omadók quindi non è così difficile, sic-come saranno proprio i suoi atteggiamenti individualistici, indipen-denti, competitivi a identificarlo. È evidente a tutti che la rapidaascesa di determinate persone deve essere legata ad attività segretedi ‘stregoneria’. Queste nuove forme di potere e ricchezza costitui-scono infatti una minaccia per l’antica solidarietà familiare e un’in-frazione delle regole del n’obítr kusina. Per tale motivo, questa cate-goria di persone, per la posizione di potere e agiatezza economicache occupa, risulta molto vulnerabile a pensieri-sentimenti perico-losi quali l’invidia, la gelosia, la vendetta, che costituiscono una for-te forma di controllo e di limitazione dell’ascesa sociale degli indivi-dui. Questo è stato definito il ‘versante equalizzatore’ della strego-neria (Geschiere 1995: 25): gli iamadók finiscono infatti spesso peragire gli uni contro gli altri, sia per rappresaglie personali sia percommittenza, facendosi strumento di persone desiderose di rivalsa.Le stesse pratiche e conoscenze, che consentono all’omadók di emer-gere, costituiscono dunque un potente dispositivo per contenere lesue pulsioni individualiste o aggressive.

3.2. L’«obané» dallo sguardo tagliente. L’obané, come abbiamovisto, è l’antitesi della socialità per eccellenza, non solo in quantocondensa tutte le caratteristiche della disumanità (cannibalismo, nu-dità, trasformazione in animali selvaggi), ma anche perché pratical’atto antisociale più significativo: la distruzione o il furto del princi-pio vitale altrui. Vittime privilegiate saranno ovviamente le personepiù vulnerabili: le donne, specialmente nel periodo della gravidan-za, e i bambini. Per entrambi è infatti sconsigliato avventurarsi nel-la foresta o anche solo uscire un poco dai sentieri battuti, esporsiall’oscurità della notte o prendere parte a funerali, tutti luoghi e mo-menti legati in modi differenti alla presenza di iabané. Queste figu-re infatti agiscono preferibilmente di notte, in foresta o comunquein quelle zone di confine tra due tempi e due spazi, che evocano ilconcetto del limite, delle possibilità inattuate e della precarietà. Nei

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racconti dei miei interlocutori gli iabané appaiono o attaccano sem-pre all’alba o al crepuscolo, nei sogni, nei sentieri poco frequentatiintorno al villaggio, nei fondamentali momenti di transizione (gravi-danze, nascite, iniziazioni, funerali), o comunque ogni qual volta ilcontrollo di sé sia temporaneamente indebolito, come nel casodell’ubriachezza. Un caso esemplare può essere quello dei sogni(osotrokó) che, a causa dell’interferenza di un obané, si possono tra-sformare in incubi (opitikó), capaci di causare malattie e perditadell’orebok. Come mi ha raccontato Pedro Banca:

Una notte stavo sognando di camminare verso la praça quando è com-parsa una vacca che mi inseguiva e cercava di prendermi. Ero terrorizza-to, era una visione orribile, un incubo. Fortunatamente hanno sentito checercavo di urlare e mi hanno svegliato prima che riuscisse a strapparmil’orebok. Quando sogni animali che fanno molta paura e sono pericolosi,come la vacca o lo squalo, sai che è un obané che agisce nel tuo sogno eapprofitta del tuo terrore per rubarti l’orebok. Mi sono svegliato con lafebbre e il corpo dolorante e debole, ma l’obané non era riuscito a strap-parmi completamente l’orebok. Mio padre Tcharte mi ha dato allora unapolvere per difendersi dagli iabané, che ho messo intorno al letto e sulmio corpo. La notte dopo ho ripreso il sogno, ma sono riuscito a sve-gliarmi all’alba e a vedere il vero volto dell’obané: era una persona del clandi mia madre, invidiosa della nostra famiglia.

L’obané assume dunque nel sogno l’aspetto terrificante di unavacca per spaventare Pedro e rubargli il prezioso principio vitale.Quasi riesce nell’intento, come dimostra la malattia che lo colpisceil mattino seguente. Quando un obané ti ruba l’orebok, mi spiega Pe-dro, cominci a sentirti male, sei debole, stanco e intontito. La mortenon è immediatamente consecutiva al furto dell’orebok: l’obané puòconservare temporaneamente quest’energia nella foresta, nascon-dendola in qualche luogo sicuro. Durante questo periodo la vittimarimane in vita anche senza orebok, per quanto questa mancanza sitraduca in vari sintomi che manifestano la progressiva dissoluzionedel corpo, della volontà e dei pensieri-sentimenti. Se nessuno si ado-pererà per recuperare rapidamente l’orebok, l’obané lo trasformeràin capra o porco (per quanto sempre costituiti di una sostanza im-materiale) e lo cuocerà nel suo calderone. L’energia dell’orebok, di-cono gli anziani, è così forte che l’obané non dovrà mai sollevare ilcoperchio e mangerà senza guardare: la luminosità e il calore

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dell’orebok lo renderebbero cieco. Il giorno in cui l’obané consu-merà l’orebok rubato, sarà quello nel quale la vittima morirà.

Mentre è possibile individuare probabili iamadók, è decisamen-te più complicato identificare un obané18. In genere, i sospetti cado-no sugli individui socialmente più deboli, come le donne anziane, inparticolare quelle che la sorte ha duramente castigato con la mortedel marito e dei figli, o che l’età ha reso malate, afflitte, povere e so-le. Si sospetta infatti, in primo luogo, che possano essere la causa deinumerosi lutti nella loro famiglia e, in secondo luogo, che covino in-vidia e rancore nei confronti dei più fortunati. L’invidia (n’oniné,avere gli occhi appuntiti, taglienti, perforanti; più raramenten’okoní, che significa anche sputare, tossire, o n’oróngbok, il cui si-gnificato si colloca tra invidia, antipatia e odio), che rende lo ‘sguar-do penetrante’, è infatti, come la gelosia (korammó, termine con cuisignificativamente si indica anche l’altra moglie del proprio marito,la co-sposa19) un kutribá prevalentemente femminile. Mentrel’omadók può essere anche uno straniero, una persona di un altro vil-laggio, isola o gruppo etnico, la minaccia letale dell’obané nascedall’interno del proprio gruppo parentale.

Le donne che perdono i loro figli desiderano infatti quelli dellesorelle; quelle sterili o che non hanno latte volgono gli occhi male-voli al ventre delle parenti gravide. Il loro sguardo pieno di soffe-renza, invidia e rancore ‘penetra, taglia, lega, devasta’. Anche perquesto, come vedremo, il dolore per la morte dei figli va controlla-to: perché di fronte alla violenza della perdita non si trasformi in in-vidia. Siccome non si può ammirare e desiderare senza provare an-che invidia, è importante non rivolgere mai in pubblico complimen-ti ai bambini altrui, specialmente qualora non se ne abbia di propri.Obané può essere anche chi dimostra irrequietezza, inquietudine, in-certezza o incapacità di integrarsi nei ritmi dell’agire quotidiano, chiappare tormentato o sofferente a causa del disequilibrio dei suoi

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18 Questo è dovuto anche al fatto che, a differenza dell’omadók, l’obané rap-presenta il male e il pericolo per eccellenza. Le pene inflitte agli iabané sono inol-tre molto severe: la tradizione vuole che vengano uccisi, per quanto oggi il castigospesso si limiti all’espulsione dei sospettati dalla comunità del villaggio (Scantam-burlo [1978] 1991: 76). Ciò nonostante, durante la mia penultima permanenza sulterreno, alcuni uomini dell’isola di Soga sono stati incriminati presso il tribunale diBissau, per l’omicidio di una persona del loro villaggio, accusata di essere un obané.

19 La stessa connessione si trova nel kriol: kumbosa infatti indica la ‘co-sposa’,mentre kumbossadía ‘la gelosia’.

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pensieri-sentimenti. L’eccesso di ‘cattivi n’atribá’ dell’obané, che perun verso può far morire la vittima predestinata senza nemmeno bi-sogno di muovere un dito, per l’altro può affliggere lo stesso obané.

Come abbiamo precedentemente sottolineato, inoltre, le disposi-zioni dell’obané si trasmettono per discendenza unilineare di madrein figlio, per quanto possa accadere che si sviluppino solo nell’etàadulta. Se sono necessari un lungo apprendistato e anni di praticaper diventare esperti iamadók, abbiamo visto che le attitudini diobané si acquisiscono in primo luogo alla nascita per eredità mater-na o tramite possessione. Per quanto mi siano state raccontate anchestorie di iabané maschi, le donne sono ritenute comunque più peri-colose e potenti. Il corpo femminile, con i suoi misteriosi poteri ri-produttivi, le sostanze pericolose che produce e le trasformazioniche compie nell’arco della vita (si pensi al sangue mestruale, al con-cepimento, alla gravidanza, all’allattamento, alla menopausa) è pen-sato capace di contenere altri esseri e assumere nuove conformazio-ni più facilmente di quello maschile. Proprio per la forza generatri-ce che incarna si crede inoltre che una donna abbia il potere sia didare sia di togliere la vita, in quanto, come sostiene un proverbio lo-cale «ciò che crea, uccide anche» (Lamy 1985: 150; Scantamburlo[1978] 1991: 83)20.

Un obané potente infatti non solo può rubare l’orebok, ma ancheuccidere con lo sguardo o trasformandosi in un ‘vento malvagio’, chepuò entrare nella vittima attraverso i suoi orifizi corporei. Può inol-tre interferire nel comportamento degli altri: oltre all’ubriachezza,un’attenuante comunemente invocata per le condotte immorali, co-me picchiare moglie e figli o mancare gravemente di rispetto agli an-ziani, è quella di aver agito inconsapevolmente, per influenza di unobané. L’interpretazione dei comportamenti devianti, come accadeanche per la malattia, rinvia infatti nella maggior parte dei casi a unagente altro, estraneo sia alla responsabilità sia alla volontà dell’in-dividuo. L’azione magica dell’omadók, il vento malvagio e gli influs-si dovuti allo sguardo degli iabané, non solo dunque stanno alla ba-se della maggior parte dei malesseri da cui gli uomini possono esse-re afflitti, ma costituiscono anche il quadro interpretativo privilegia-to di condotte aberranti. All’interno di questo paradigma dunque lanozione di responsabilità può essere intesa in termini piuttosto flui-

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20 Nella mitologia bijagó, che ho analizzato nella tesi di laurea, è femminile sial’origine della vita sia quella della morte.

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di: ubriachezza, ‘pozioni’, ‘sortilegi’, ‘influenze stregonesche’, ‘pos-sessione’ sono solo alcune delle modalità attraverso le quali è possi-bile sottrarsi alla responsabilità delle proprie azioni. La possibilità diincorporare n’atribá altrui, come di essere condizionati dall’azionedi altri, ha importanti conseguenze sia sul modo in cui l’esperienzapersonale viene percepita, sia sul sistema di attribuzione della re-sponsabilità, delle punizioni e delle colpe, sia sulle modalità di pre-sentazione delle scuse e delle giustificazioni. Molti dei miei interlo-cutori parlavano spesso di pensieri-emozioni negativamente consi-derati, quindi stigmatizzati dal discorso morale dominante, comequalcosa che ‘accade’, che invade e soggioga, insinuandosi nel cor-po, di fronte alla cui forza si rimane passivi e inerti. In un contestoin cui si è ‘agiti’, termini come ‘dovere’, ‘colpa’, ‘rispetto’, ‘respon-sabilità sociale’, che sono ingredienti fondamentali della morale, per-dono di significato. Queste sono dunque alcune delle situazioni e de-gli ambiti, nei quali è possibile proporre critiche, contestare l’auto-rità, infrangere i codici di comportamento, esteriorizzare diretta-mente e apertamente qualsiasi pensiero-sentimento che non vadanella direzione indicata dagli anziani e che non si incanali perfetta-mente nelle aspettative della società, potendo attribuirne la respon-sabilità ad agenti esterni.

3.3. Il male che viene da dentro. Obennó e Babú sono due delledonne che più mi hanno aiutata nello svolgimento delle mie ricer-che. Come Obennó, della quale abbiamo già parlato brevemente nelprecedente capitolo, Babú è una donna di circa sessant’anni origi-naria del villaggio di Ankamona, vedova e senza figli, afflitta dai ri-cordi di una vita travagliata e piena di sventure. Entrambe sonoguardate con un certo sospetto dagli abitanti di Bijante, villaggio nelquale ora risiedono, a causa della loro singolare situazione: sole, am-malate, senza un sostentamento, giacché quasi tutti i loro parenti so-no morti, sono considerate un pericolo e un peso. Non solo infatti sisospetta possano essere responsabili di tutti i decessi che hanno col-pito la loro famiglia, ma si teme possano covare invidia per i più for-tunati. Inoltre sono giudicate delle n’amkponkpon, ‘bussatrici’, ossiapersone che importunano gli altri per chiedere aiuto e assistenza. Larealtà cambia ovviamente dal loro punto di vista. Entrambe mi rac-contano infatti delle loro disgrazie, dipingendosi come vittime dellamalevolenza degli altri. Babú mi narra la storia del suo sfortunatomatrimonio:

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Quando mi sono sposata con Mário, la mia famiglia non era d’accor-do, mia madre e mio fratello non volevano che io lasciassi Ankamona perandare a vivere a Bijante. È sempre così, la famiglia vuole che ti sposi conqualcuno del tuo stesso villaggio, perché non vogliono che le figlie vada-no lontano. Per un verso quando ti sposi devi vivere nel luogo di tuo ma-rito, per l’altro il posto in cui devi stare e devono vivere i tuoi figli è il tuovillaggio. Per questo è lì che tu devi sposarti. Che io andassi via non pia-ceva alla mia famiglia, per cui decisero di fare una legatura con un kora-trakó a Mário e lui si è ammalato. È la gente del mio villaggio che ha fat-to ammalare il mio uomo, per farci separare. Ma noi continuavamo a sta-re insieme. Sono rimasta incinta in quel periodo, ma il bambino è mortosubito, sempre per causa della mia scelta di matrimonio. Allora mi sonospaventata, ci siamo lasciati e sono tornata al mio villaggio, così hanno‘sciolto’ il nodo e Mário è subito guarito. Rimasi due anni senza uomo,poi Djon, un uomo di Ankamona, venne a cercarmi e, siccome mi piace-va, mi sono di nuovo sposata. Abitavamo a Ankamona e credevo che que-sto fosse un matrimonio che andava bene. Ma Djon voleva andare a vi-vere nella praça, perché si era stancato di come andavano le cose, volevalavorare con i bianchi e guadagnare per la nostra famiglia. Mi trattava be-ne, mi portava il riso e mi comperava dei vestiti per farmi piacere: ero dinuovo incinta e nacque una bambina. La sorella di mia madre diceva cheero fortunata, la mia bambina era bellissima. Ma è morta che ancora nonera cresciuta, aveva solo quattro anni. Non so cosa l’abbia uccisa: un gior-no stava dormendo e si è svegliata spaventata, io l’ho presa per tranquil-lizzarla ed era rigida per la paura. È morta così, ma non so il perché, qua-le sia la causa, chi ci volesse male. Forse è stata la gente del mio villaggio,perché Djon voleva andare a cercare la nostra fortuna. Forse l’invidia perla mia bambina. Ogni tanto mi siedo e penso a come è stato possibile chela bambina sia morta di spavento nel sonno: solo un obané può agire neisogni di qualcuno per strappargli l’orebok. Ho dei sospetti, ma non cer-tezze. Questo male lo devi cercare nel tuo villaggio, nella tua famiglia: perquesto è pericoloso, perché ti devi guardare proprio dalle persone vicine,che ti conoscono bene. Abbiamo deciso allora di vivere a Bijante, per al-lontanarci dallo sguardo di tutta la mia famiglia. Ora però sono tutti mor-ti e io non ho più nessuno che si occupi di me.

La storia di Obennó, originaria del villaggio di Bruce, ha diversipunti di contatto con quella di Babú: in entrambe le minacce sorgo-no in seno al gruppo parentale. Anche Obennó deciderà di allonta-narsi, andando a risiedere altrove:

Ogni volta che rimanevo incinta i miei bambini morivano presto per

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la febbre, la diarrea, la malaria. Non so con certezza da chi dipendesserotutte queste disgrazie. Credo si trattasse di qualche donna invidiosa del-la mia fortuna, perché avevo un marito e dei figli. Quest’obané mi dove-va conoscere bene, perché ha fatto in modo da prendersi ciò che di piùprezioso mi apparteneva, i miei bambini. Ma forse la mia disgrazia di-pende anche dal fatto che molte persone non erano d’accordo con il miomatrimonio, perché il mio uomo era dell’isola di Orango. La mia famiglianon accettava che sposassi un ospite al posto di un uomo del mio villag-gio e nemmeno voleva che io lo seguissi nella sua terra. Inoltre mio mari-to lavorava come sipaio21. Guadagnava bene: tutti i mesi, quando riceve-va lo stipendio, mi dava tutto quello di cui potevo avere bisogno. Allagente del villaggio non piaceva il suo lavoro, per cui qualcuno si rivolse aun omadók per vendetta e lui si ammalò gravemente. Inoltre le donne era-no invidiose perché io vivevo meglio di loro. Mio marito aveva paura dimorire e voleva lasciarmi, ma io l’ho convinto a andare a vivere nell’isoladi Formosa, dove eravamo stranieri. Lì sono rimasta incinta del mio ulti-mo figlio, Neco, l’unico che è cresciuto. Finché stavamo al mio villaggioabortivo o i miei bambini morivano subito. A Formosa invece ho parto-rito un figlio che è vissuto, perché lì nessuno poteva e voleva farci del ma-le. Mio marito chiese in seguito un trasferimento per tornare a Bubaque.Dopo due mesi dal nostro rientro a Bruce, Neco morì per un attacco dimalaria. Non so esattamente chi sia che ci fa del male, so solo che dev’es-sere qualcuno del villaggio, della famiglia. Adesso sono rimasta sola (sie-do sola), non ho più nessuno che mi stia vicino. Sola, senza un uomo edei figli, solo dolori-malattie, dolori-malattie (ikojóke).

Queste due testimonianze, che per diversi aspetti si sovrappon-gono, illustrano come la figura dell’obané agisca prevalentementeall’interno del villaggio. La distanza, la frattura dei legami, in molticasi costituisce l’unica soluzione per sfuggire all’azione malvagia deipropri vicini e parenti: entrambe le mie interlocutrici decidono in-fatti di allontanarsi e andare a vivere in un altro villaggio o isola. Ognimalattia, ogni morte va interpretata riflettendo sulle proprie relazio-ni con gli altri, considerando come la propria posizione, le propriedecisioni possano causare l’invidia e il disappunto degli altri. Ovvia-mente la dimensione empirica dei fenomeni non è ignorata: le mieinterlocutrici parlano di febbri, attacchi di malaria, diarrea. Tuttaviail bisogno di trovare un senso a queste disgrazie, una spiegazione al-

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21 Rappresentante delle forze dell’ordine che svolgeva le funzioni di poliziottoe reclutava la forza lavoro durante la presenza portoghese nelle isole.

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le malattie e alla morte, è difficilmente soddisfatto da una prospetti-va che si fermi al dato empirico: le persone colpite dalla sfortuna vo-gliono sapere perché sia capitato proprio a loro, perché la loro vitasia cambiata così rapidamente e drasticamente, che cosa possanoaver fatto per meritarsi una simile sventura22. Quando una crisi se-ria colpisce l’individuo o la famiglia è necessario quindi rivolgersi aun odiáki o a qualcuno che abbia il dono di vedere con la testa equindi sappia diagnosticare il problema o individuare il colpevoletra le persone del villaggio. L’accusa è l’arma che gli uomini hannoa disposizione per riportare quell’ordine che deve regnare all’inter-no della società e per chiarire e rafforzare le relazioni, eliminando chiè fonte di tensioni e ambiguità. La sola accusa però non è sufficien-te. Il colpevole deve essere smascherato: per questo fine si eseguonoin primo luogo una cerimonia, nella quale vengono interpretati i sus-sulti di una gallina cui è stata tagliata la testa, in secondo luogo il ri-tuale dell’interrogazione del morto (naua). Nel corso di questa pra-tica, diffusa in tutta la Guinea Bissau23, ma anche tra alcuni gruppidella Casamance24, si chiede allo spirito del morto di fare chiarezzasulle circostanze della sua morte, indicando i possibili colpevoli. Ildefunto è rappresentato da una lettiga composta da canne di bambùlegate con corde di foglie di palma, che assomiglia alla stuoia arro-tolata nella quale vengono abitualmente adagiati i cadaveri. Questalettiga, nella quale sono state riposte alcune foglie di una pianta spe-ciale, che si crede possa evocare l’anima della persona deceduta, in-sieme all’unikán uram koko25 del villaggio, è trasportata da alcuni

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22 Si veda il classico lavoro di Evans-Pritchard sugli Azande (1937).23 Si veda Gallois Duquette 1983: 138; Lamy 1985: 155; Scantamburlo [1978]

1991: 74.24 Si veda Journet e Julliard 1989; Palmeri 1989.25 L’unikán uram koko è una scultura sacra che si porta in mano, simbolo del

potere regale (Scantamburlo [1978] 1991: 68, 75). Il termine unikán ha una con-notazione terapeutica: i rimedi tradizionali, le medicine, sono chiamati unikán. Perestensione unikán significa oggetto sacro, spirito. La parola koko vuol dire ‘mano’,per cui l’unikán uram koko letteralmente potrebbe essere tradotto con ‘spirito dimano’. In kriol l’espressione viene tradotta con iran di mon, ‘spirito della mano’, al-ludendo alla sua forma (simile a una mano) e al fatto che viene portato in mano dalre e dalle persone che attraversano le tappe cruciali della vita, come l’iniziazione (èportato infatti dai n’abido e dalle donne possedute durante il loro percorso inizia-tico). Questa scultura, secondo Scantamburlo ([1978] 1991: 68) e Gallois Duquet-te (1983: 122), altro non è che l’Orebok Okotó, il Grande Spirito, in una forma ta-le da poter essere portato dalle persone nel loro cammino.

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membri della famiglia e del villaggio. Sarà il movimento della letti-ga, i suoi arretramenti e spostamenti in direzione di una persona odi una casa, a dare nome e visibilità ai sospetti. La cerimonia dellonaua è quindi una rappresentazione carica di tensione e drammati-cità, che fornisce un ambiente adatto all’espressione di accuse e allarisoluzione di problemi e conflitti.

In entrambe le storie riportate vi è in primo luogo una tensioneconflittuale di principi e valori antagonistici. Come è anche il casodegli Ndembu della Zambia, descritti nel celebre lavoro di VictorTurner (1967), la società bijagó vede contrapporsi due principi fon-damentali: la discendenza matrilineare e la residenza virilocale. Perrisolvere questo contrasto di interessi si preferisce che le donne spo-sino uomini del loro stesso villaggio o addirittura dello stesso quar-tiere: il matrimonio è quindi esogamico a livello del clan, ma prefe-ribilmente endogamico a livello di villaggio. Una donna che sposi unuomo di un altro villaggio verrà sempre considerata un’ospite e guar-data con sospetto; d’altro canto, dalla famiglia della sposa questomatrimonio verrà paragonato a un rapimento e considerato una di-sgrazia. Sia Obennó che Babú decidono invece di sposare personedi altri villaggi, addirittura di un’altra isola. L’intervento ‘stregone-sco’ da parte della loro famiglia viene interpretato dalle due donneessenzialmente come una punizione per aver infranto una regola ma-trimoniale implicita. I familiari, ostacolando e punendo la loro deci-sione, ottengono infine che le donne ritornino al villaggio.

Al contempo si inserisce un altro fattore: entrambe sospettano diessere oggetto di ‘invidia’. Vivono infatti un periodo di relativa tran-quillità economica, hanno figli, cibo e vestiti. Finiscono però in unmodo o nell’altro per perdere tutto, a causa dello sguardo taglientedi qualche presunto amico, probabilmente un parente. «Questo ma-le lo devi cercare nel tuo villaggio, nella tua famiglia», sostiene Babú,e Obennó nel suo racconto conferma che «dev’essere qualcuno delvillaggio, della famiglia»26. Se ci possono essere tensioni tra co-mo-gli, gelose per definizione (korammó korammó, ‘la co-moglie è gelo-

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26 Quest’idea della stregoneria come male che si trova all’interno della societàsi trova anche nel caso etnografico dei Lese della foresta dell’Ituri (Repubblica De-mocratica del Congo), di cui ci parla Remotti (2000). I Lese ritengono che il kun-da, la sostanza cui si deve la morte degli individui, si trovi normalmente nei paren-ti patrilineari più stretti (per esempio i fratelli) con cui si condivide la residenza nelvillaggio (Grinker 1994).

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sa’), i problemi più gravi nascono tra le persone dello stesso gruppodi parentela matrilineare. «I tuoi parenti ti conoscono bene e da mol-to tempo – mi dice Babú – conoscono la tua casa, sanno dove dor-mi, cosa mangi, possono facilmente raccogliere i tuoi capelli, tocca-re le tue cose.» Proprio per questo sono considerati pericolosi, alpunto che «ti devi guardare proprio dalle persone vicine, che ti co-noscono bene», come afferma ancora Babú. Tutti i discorsi localisulla ‘stregoneria’ obané, le congetture, le supposizioni, le ipotesiconvergono infatti su un punto: ogni male, sofferenza e sfortuna di-pendono dall’azione di una persona che ci è vicina. L’origine del ma-le è dunque sempre sociale; non solo, ma nasce spesso proprio all’in-terno dell’intimità familiare e per questo costituisce una minacciacontro i legami di solidarietà interni di un clan, contro la compat-tezza di un villaggio, cui è difficile sfuggire. Abbiamo visto come an-che l’omadók, per colpire la vittima designata, abbia bisogno dellacollaborazione di un alleato ‘all’interno’ della famiglia, ossia di unparente della vittima.

La ‘stregoneria’ obané in questa interpretazione è il ‘lato oscuro’della parentela, la consapevolezza del fatto che le gelosie, i rancori ele invidie più intense e violente nascano proprio all’interno della fa-miglia, dove non dovrebbero regnare che fiducia e solidarietà. Tut-te le relazioni umane, soprattutto quelle di grande prossimità socia-le e affettiva, implicano interdipendenze troppo strette per non es-sere intensamente caricate di sentimenti ambivalenti. Questo di-scorso è soprattutto vero per le società di piccole dimensioni, le co-munità dalle interazioni ‘faccia a faccia’, e a maggior ragione per ilpiù ristretto, intimo e coeso gruppo familiare.

Il momento culminante dei festini notturni degli iabané, ossia ilbanchetto antropofagico dove vengono mangiati i propri parenti,spesso addirittura i propri figli, pone simbolicamente in luce il lega-me tra la ‘stregoneria’ obané e il gruppo parentale. Questo male in-sidioso che ‘viene da dentro’, non solo agisce direttamente sulla per-sona che vuole colpire, ma interviene anche sui suoi rapporti socia-li: lo sguardo penetrante delle persone invidiose scioglie e recideproprio i legami affettivi più stretti. Paradossalmente, ciò di cui ledue donne, afflitte dall’invidia di parenti prossimi, si lamentano dipiù è la solitudine, la mancanza dell’appoggio familiare. Per quantoogni parente possa costituire una minaccia, niente è peggio di ritro-varsi soli, ripetono spesso le mie interlocutrici. La solitudine(n’ojentók), mi è stato detto molte volte, ha a che vedere con la mor-

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te. La loro vita era fondamentalmente sostenuta dai legami di pa-rentela e dalle relazioni con le altre persone del villaggio. La frattu-ra dei rapporti con la famiglia, la morte dei parenti più prossimi, han-no determinato anche la perdita di una parte di sé. Come diceObennó, la vita adesso è solo più dolore-malattia.

4. Il ‘desiderio’ che lacera il corpo

Un altro kutribá la cui forza può rivelarsi pericolosa per il gruppo eper l’individuo, fino a causare il distacco dell’orebok dal kugbí, è edík,il ‘desiderio’. Abbiamo già parlato a lungo di questo pensiero-senti-mento nel precedente capitolo e vi abbiamo fatto cenno anche ana-lizzando la figura dell’omadók, sicché mi limiterò in questo paragrafoad affrontare brevemente i rischi che corre chi non riesce a control-larlo. Un eccessivo desiderio di benessere, guadagni, prosperità esuccesso individuale prima che collettivo, qualora non controllato ocomunque espresso in modo troppo esplicito, come abbiamo vistoparlando di ‘stregoneria’, è carico di una tale forza di trasgressioneda essere considerato distruttivo e pericoloso per il gruppo come perl’individuo. I sospetti di ‘stregoneria’ omadók si rivolgono infatti spe-cialmente a quegli individui che sono impegnati in competizione perdanaro e posizioni di potere, che sono avidi e materialisti, e che, diconseguenza, violano i valori di condivisione, rispetto e responsabi-lità sociale, infrangendo la regola del n’obítr kusina.

Una persona che venga dominata da edík, inteso invece nell’ac-cezione di passione sessuale27, al punto da concentrare tutto se stes-so in quell’unico kutribá, finirà col consumarsi, fino a cadere amma-lato o perdere addirittura l’orebok. Un uomo che manifesti un ec-cessivo attaccamento verso la sua amante sarà infatti pubblicamente

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27 I miei interlocutori infatti come traduzione immediata in kriol propongonoil termine amor, ‘amore’. Edík è il desiderio che può nascere tra uomo e donna, maanche tra due donne, rapporto tra passione sessuale e amicizia, che si colora di to-nalità più ‘romantiche’. Mentre nell’ambito per così dire più ‘tradizionale’ del vil-laggio l’amore tra donne, specialmente nell’adolescenza, non è considerato ripro-vevole o moralmente degno di biasimo, i giovani che abitano nella praça, che chia-ramente subiscono le influenze occidentali, considerano invece queste relazioni condisapprovazione. Per gli anziani e le donne di Bijante un rapporto tra donne puòessere considerato negativamente solo qualora la loro passione (edík) cresca in mo-do eccessivo, impedendo il normale svolgimento degli eventi: l’unione con uominie la nascita di figli.

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deriso e si cercherà di aiutarlo a equilibrare il suo comportamento,di modo che non si ‘dissangui’ nell’atto amoroso e che rammentiquali sono le vere priorità. Non solo, secondo i miei interlocutori, ildesiderio sessuale molto intenso può generare sofferenza: in questocaso si può parlare di una passione che n’okojóke, fa male. Questokutribá si avverte generalmente nel ventre o nel petto e ‘fa ribollireil sangue’: la sofferenza che causa è così intensa che ‘lacera il corpo’,‘spezza a metà il petto’, ‘toglie il sangue’, ‘apre e brucia il ventre’.

Per desiderio quindi ci si può ammalare, consumare, ma ancheperdere l’orebok, qualora l’enorme peso di questo kutribá causi unosbilanciamento dell’equilibrio. Duminga, una donna di Bijante, miacoetanea, per illustrare questo caso, mi racconta la storia della suaco-sposa. Cinque anni fa infatti ha sposato un uomo di Galinha,Adjunto, incontrato in occasione di un funerale. Come prevede la re-gola di residenza virilocale, l’ha seguito a Galinha, ma purtroppo perlei sono cominciati i problemi. Nel villaggio del marito trova infattiad attenderla la prima moglie di lui, una donna più anziana e senzafigli, che da subito si è dimostrata ostile. A causa del grande deside-rio dell’uomo per Duminga, infatti, la prima sposa si sentiva proba-bilmente trascurata. Inoltre, ancora non gli aveva dato figli, mentreDuminga rimane immediatamente incinta. Il bambino però nascemorto e Duminga ovviamente sospetta della co-moglie. A causa del-la sua influenza su Adjunto ottiene quindi di trasferirsi nuovamentea Bijante, il suo villaggio natio. La co-moglie però si strugge per il de-siderio e la nostalgia (n’odi)28 del marito e finisce per ammalarsi, in-debolendosi gradualmente fino alla morte. «Korammó konrenh kodiAdjunto: edík orám orebok tan okanto» (la co-sposa mia sentiva no-stalgia di Adjunto: il desiderio ha tolto l’orebok dalla donna), mi di-ce Duminga.

Per edík ci si può anche uccidere: in questo caso il suicidio verràconsiderato come l’estrema perdita del controllo e sarà motivo digrande vergogna per tutta la famiglia. Nel capitolo precedente, par-lando della sordità, abbiamo visto che il suicidio può essere anche ri-tenuto una morte dignitosa e apprezzabile, esempio estremo del do-minio di sé: emblematico è in questo senso il caso dei guerrieri che,per non essere fatti prigionieri, sceglievano di darsi la morte, come

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28 N’odi, la nostalgia, letteralmente significa ‘voi andate’ ed è il tipico saluto diquando le persone si separano per un periodo considerevole. Potremmo equipa-rarlo al nostro ‘addio’.

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atto di massima libertà29. Se dunque il suicidio in certi casi viene va-lutato positivamente, in quanto scelta consapevole (e quindi propriadi un ‘uomo sociale e responsabile’) della propria morte, qualora di-penda da una mancanza di controllo, viene considerato inveceun’azione assolutamente ignominiosa. È al riguardo interessante lavicenda di Manuk, un uomo di Bijante che l’anno passato si tolse lavita, mi raccontano diverse persone del villaggio, proprio a causa delsuo eccessivo attaccamento alla moglie. Quella di Manuk è una sto-ria della quale si è molto parlato e che tuttora viene raccontata conun certo piacere. Mi descrivono infatti un uomo singolare, succubedi una moglie dalla forte personalità che tendeva a dominarlo. Per ilsuo attaccamento a questa donna, evidente agli occhi di tutti ogni-qualvolta egli correva ad aiutarla a portare l’acqua o svolgeva i lavo-ri quotidiani al suo posto per non farla affaticare, veniva derisodall’intero villaggio: si rendeva ridicolo e la moglie approfittava del-la sua debolezza. In particolare, alcuni ragazzi lo tormentavano conaccenni alle continue infedeltà della moglie, per farsi gioco della ge-losia che Manuk non riusciva a dominare. Un bel giorno, mi rac-contano ridendo Pedro e gli altri, in preda all’onda travolgente deipensieri-sentimenti che non riusciva a controllare, mentre lo beffeg-giavano con insinuazioni sulla moglie, impazzito di gelosia e con ‘laguerra nel petto’, tirò fuori il pugnale e si tagliò la gola. Ricordandoil suicidio di Manuk, i miei interlocutori riprendono a dileggiarlo,considerandolo un pazzo (n’orokóm) e un idiota (jáaprot). Non hasaputo controllarsi, ‘non ha resistito sotto le cose’, merita quindi diessere deriso: la sua fine è quella di un uomo debole (ojóno, debole,ma anche magro, piccolo, di poco conto, ridicolo), una vergogna pertutta la sua famiglia.

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29 La facilità al suicidio è fondata anche sulla sicurezza di poter al più presto ri-tornare nel mondo dei vivi attraverso il corpo di una donna, tramite la possessioneo in occasione di una nuova nascita. Questa convinzione è sorretta anche dall’ideache chi abbia dimostrato un grande coraggio in battaglia o comunque si sia distin-to per l’eccellenza dei suoi n’atribá, potrà eccezionalmente reincarnarsi senza can-cellare l’impronta della sua vita passata. In questi casi straordinari il bambino, rac-contano i miei informatori, verrà al mondo essendo già dotato di pensieri-senti-menti e con una personalità già formata: saprà già parlare e comprenderà le paro-le degli altri; ricorderà ogni dettaglio della sua vita passata e sarà in grado di farsiriconoscere.

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5. Morire di dolore

Il pensiero-sentimento in assoluto più pericoloso per l’individuo e ilgruppo è il dolore (ikojóke) in seguito alla morte di una persona ca-ra: generalmente, nelle storie di vita raccolte, dei figli. Un dolore ec-cessivo infatti non solo può far ammalare o morire chi lo prova ma,in virtù della proprietà dei n’atribá di passare da una persona all’al-tra, può riflettersi sull’intera famiglia e addirittura turbare la serenitàdello spirito del morto: nelle riflessioni dei miei interlocutori è con-siderato il kutribá in assoluto più devastante e contagioso. Per que-sto motivo, difficilmente le persone, anche qualora colpite da gravie continui lutti, parlano in pubblico della loro sofferenza. Di frontea perdite personali, gli individui in genere esprimono ostilità, rabbia,sospetto, piuttosto che dolore, oppure semplicemente non parlanodi ciò che provano, rispondendo alla morte come a un affronto o aun attacco personale piuttosto che come a una tragedia. Al contem-po, il dolore è considerato il pensiero-sentimento più rappresentati-vo, al punto che l’espressione che generalmente viene utilizzata perindicare quello che noi definiremmo ‘coinvolgimento emotivo’ èn’okojóke an konó, ‘soffrire nel cuore’, per quanto venga spesso uti-lizzata anche l’espressione n’onam konó, ‘essere cuore’, che significaanche ‘provare pena’. Il verbo n’okojóke, ‘sentire dolore’, significaanche ‘essere ammalato’, ma si intende sempre una malattia(ikojóke) dolorosa che dura da moltissimo tempo, un dolore croni-co che si è ‘incollato’ al corpo. Il termine comunemente impiegatoper indicare una malattia passeggera è infatti n’oduban, ‘essere cal-do, essere malato’, oppure vengono utilizzate espressioni che indi-cano, attraverso un vivido mezzo onomatopeico, le febbri malariche:n’orenrénk, n’okpekekpekek, n’orikirikik.

Ma del dolore non si deve parlare troppo, affermano le donnecon cui ho lavorato: il dolore è infatti un’esperienza profondamentesentita e spesso temuta ed evitata perché può attaccarsi (n’otronnán),incollarsi (n’otokán) al corpo. In questo caso tale kutribá prevarreb-be su tutti gli altri pensieri-sentimenti, dominerebbe il kugbí, ren-dendo la persona malata e facendole perdere il controllo (n’okan-daré, letteralmente ‘abbandonarsi, lasciarsi andare’) e l’orebok. Di-verse persone mi hanno spiegato i sintomi causati da un dolore mol-to intenso: «ci si sente come se si perdesse se stessi, non si hanno for-ze e non ci si può riposare, non si riesce a mangiare perché la gola èchiusa dalla sofferenza che sale e soffoca, le braccia si muovono sen-

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za controllo intorno alla testa come per scacciare gli insetti oppureciondolano inerti lungo il corpo, lo sguardo è perso e gli occhi sonoopachi».

Anche se non esclusivo delle donne, il dolore viene consideratoun sentimento con una forte connotazione di genere femminile: nel-le conversazioni informali spesso le donne affermano che le loro vi-te sono molto più difficili di quelle degli uomini. Questo, oltre a es-sere un frequente argomento di conversazione, è un immediato pun-to di contatto, di comprensione e quindi crea tra le donne un fortelegame. Non è raro che, nonostante il pericolo dell’espressione deldolore nell’ambito del quotidiano, le donne raccontino storie perso-nali di lutto e sofferenza. Tra tutte le storie di cui sono stata fatta par-tecipe, ho deciso di riportare quella di Koká, una figura già familia-re al lettore, che incontreremo ancora nel prossimo capitolo.

Il giorno in cui mio figlio ha capito il castigo raccolto nel mio nome,ha deciso di prendersi cura di me ed è andato a lavorare nel luogo del me-tallo dei bianchi (la fabbrica tedesca dell’olio di palma) nella praça di Bu-baque. Io avrei preferito che andasse a scuola, ma lui voleva aiutarmi la-vorando, perché sapeva che Koká è un nome che ti taglia a metà il corpo.Ma poi tutto è cambiato nel 1980, il giorno 4 di maggio. Il calderone diacqua bollente, usata per preparare l’olio di palma, si è rovesciato e tratutti gli operai ha preso proprio mio figlio, solo mio figlio, nel volto, nel-la pancia: lui è morto, non ha resistito. Koká! Koká! Sentivo gridare perstrada, le donne chiamavano il mio nome e così ancora segnavano il miodestino. Mi hanno raccontato quel che era successo e che dovevo corre-re alla praça. Io correvo, ma poi le gambe non si sono più mosse e non po-tevo camminare. Sono caduta e sono rimasta così, le mie gambe sono an-cora malate, guarda: sono gonfie e pesanti. Da allora ero sempre malata,il mio orebok si era perduto per il dolore. Mi hanno portata da diversiguaritori e poi nel continente, agli ospedali di Canchungo e a Bafatà, manon guarivo. Le cure di erbe e la medicina dei bianchi non mi potevanoaiutare. Non mangiavo, non bevevo, non dormivo, non avevo più pen-sieri-sentimenti, stavo solo sdraiata e basta. Avevo perso un figlio. La gen-te diceva che il mio orebok si era perduto in foresta: quella era la mia ma-lattia. Io non ricordo le loro parole, la testa faceva molto rumore, comequando senti il mare in un luogo silenzioso. Il mio corpo era sempre piùdebole e dicevano che sarei morta presto. Koká okpé kenken: Koká staper morire, dicevano tutti. Ma la realtà è che Koká non poteva smetteredi piangere (Koká omane tanona tandag), avevo perduto il controllo. Al-la fine mi hanno portato a casa di Tcharte e lui, che ha il potere, è anda-to a riprendere il mio orebok perduto in foresta. Solo allora ho comincia-

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to a migliorare. Adesso mi sono stancata di piangere per il mio dolore(nhide nagbok tandag ikojóke inrenh): il dolore stanca (ikojóke itin’an).Ma le sofferenze (ikojóke) sono restate qui: nello stomaco e nelle gambeè il loro ricordo.

La forza di questo kutribá potenzialmente pericoloso si rivelaparticolarmente intensa nel caso della morte di un proprio caro. Es-sendo la persona, nell’antropologia implicita bijagó, profondamen-te inserita nella rete delle relazioni sociali, la perdita di un legame co-stituisce una perdita dolorosa di sé. Una persona che non sia riusci-ta a controllare questi n’atribá necessita di cure, di una terapia ri-tuale: questa strada porta a dirigere l’attenzione sulle pratiche cul-turali messe in atto per rimediare ai danni causati dall’eccesso diemozione.

6. Alla ricerca dell’«orebok» perduto

Il racconto di Koká, che ci parla delle tragiche circostanze della mor-te del figlio e degli effetti devastanti del dolore sul suo corpo, offrespunti interessanti sui quali riflettere. Innanzitutto la mia interlocu-trice, come è piuttosto comune nei discorsi delle donne bijagó, si sof-ferma a descrivere minuziosamente le sofferenze e le sensazioni delsuo corpo, che il dolore ha invaso, alterandone l’equilibrio e ren-dendolo fragile. Nella sua narrazione il corpo sembra esprimere isentimenti laceranti della perdita: la paralisi momentanea delle gam-be, l’inappetenza, l’insonnia, la confusione dei pensieri-sentimenti.Il concetto di perdita è centrale nella narrazione della sua malattia:la perdita del figlio è anche perdita del controllo, della voglia di vi-vere, delle forze, dell’orebok e della coscienza. Koká sostiene di nonricordare le parole, perché «la testa faceva molto rumore»; nel cor-po però il dolore ha lasciato una traccia, un ricordo: «le sofferenze(ikojóke) sono restate qui: nello stomaco e nelle gambe è il loro ri-cordo (n’éta)», dice infatti Koká.

Anche il corpo di Obennó è in grado di ricordare: è il luogo dimemorie dolorose che fanno parte di un passato individuale e col-lettivo. È stata più volte in cura da Tcharte, «perché la medicina deibianchi non l’aiutava, mentre lui con la sua vista speciale era capacedi vedere chi le faceva del male». Il racconto delle sofferenze corpo-ree parla metaforicamente anche del suo vissuto emotivo: Tcharte neconosce il linguaggio e sa curare contemporaneamente l’unità costi-

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tuita dal suo corpo, i suoi sentimenti, le sue relazioni. Obennó mi de-scrive i sintomi che la affliggono, mi parla di un corpo aperto (ok-paiok), dai confini dissolti dalle sofferenze, un corpo ‘annodato’, in-vaso e violentato (n’okpás) dai pensieri, dai sentimenti e dalle azionidegli altri:

Ho avuto molte malattie, fin da quando ero bambina e c’erano i Tu-ga30 nell’isola. Sono nata nel tempo dei Tuga, tutta la mia giovinezza funel tempo dei Tuga. I Tuga mandavano nei villaggi dei neri stranieri e ar-mati che lavoravano per loro, dei Fula, Mandinga, Balanta. Questi pren-devano le persone per il lavoro forzato. Così noi neri ci facevamo del ma-le l’un l’altro: quelli violentavano (n’okpás) le ragazze, rubavano ciò chevolevano, prendevano a botte chi non pagava le imposte, facevano delmale anche alle donne che aspettavano un bambino. Portarono via miopadre e mia madre morì per la fatica: io rimasi orfana in seguito a questesventure (n’unummi konó n’ojón kugbí kunrenh eti iató ebenten, letteral-mente ‘la sventura ha visto il corpo mio di fronte alla gente orfano’). Pian-gevo tutto il giorno per le disgrazie e la povertà (nhidag enhenguená, ‘iopiango povertà’). Alla fine ero stanca di quella vita, specialmente dura peruna donna (nhide nagbok tankpán putiti, n’onam okanto onam kavénne,letteralmente ‘ho finito per essere stanca di navigare le isole, essere don-na è un castigo’). Non voglio ricordare quel tempo così brutto. Ma il miocorpo ricorda: mi vennero a prendere per lavorare e io non potevo cam-minare, quella gente mi attaccò una malattia, non so, ero sempre più de-bole e rimasi al villaggio. In tutto il corpo soffrivo: il corpo si era aperto(n’okpaiok) e tutto mi faceva del male. Mi caricarono sulla schiena e mitrasportarono fino a Bruce da mio zio Kokomoro, a fare una cerimonia.L’odiáki disse che mi ero ammalata, forse qualcuno mi aveva annodato.Tutto il corpo mi doleva, non riuscivo a dormire, né a parlare, non pote-vo camminare. Stavo per morire, non avevo più consapevolezza di nulla,stavo solo sdraiata e basta. Dopo qualche tempo mi portarono nel luogodove si fanno le cerimonie, mi curarono, mi massaggiarono con yayi perrendere la pelle dura e farmi sudare. Mi lavarono e quella notte riuscii giàa dormire. Quella cosa nel mio corpo aveva smesso. Poiché continuavo alavarmi con quella medicina che rendeva il mio corpo duro e forte, nonriuscirono a uccidermi. Ma continuo ad avere dolore alle gambe e al pet-to, sempre a causa di quella gente. Per questo vengo ancora da Tcharte,perché è capace di sciogliere i nodi e di vedere quello che gli altri non ve-dono.

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30 Tuga è il termine kriol per indicare i portoghesi.

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I sintomi di Obennó rivelano le violenze subite durante il perio-do coloniale, la paura e il dolore che hanno aperto (n’okpás) il suocorpo facendolo ammalare. Nel suo racconto la malattia e le soffe-renze costituiscono l’immagine per eccellenza del disordine e delconflitto, a livello sia del corpo biologico sia di quello sociale. La suamalattia può essere interpretata come «una spugna che assorbe i si-gnificati peculiari dei vissuti personali e delle situazioni interperso-nali» (Kleinman 1988: 31). Anche nel suo caso, come per Koká, ilprimo sintomo è l’incapacità di camminare: un atto di opposizionee impotenza di fronte a una realtà che non si è in grado di sopporta-re. Ma questa realtà invade, viola e apre il suo corpo. L’odiáki inter-viene per bloccare questo flusso, per rinforzare le fragili barriere delcorpo, utilizzando lo stesso rimedio (l’infuso di radici secche di yayi)che si usa con i neonati: il suo massaggio plasma e rinforza il corpo.

L’intervento dell’odiáki, che si adopera in questo caso utilizzan-do trattamenti somatici tonificanti e purificanti, è finalizzato a tro-vare una spiegazione e interpretazione alla sofferenza dei suoi pa-zienti: il suo potere è contemporaneamente pragmatico ed erme-neutico. In primo luogo, invoca gli spiriti per avere la facoltà di cu-rare, così come il paziente dovrà invocare la medicina affinché que-sta vada a lui. Se agli anziani si offre per avere in cambio consigli einsegnamenti, allo stesso modo la relazione con gli spiriti va coltiva-ta e rinnovata quotidianamente con continue offerte e preghiere, sesi vuole ottenere il loro appoggio. L’unikán è infatti ‘la medicina, lospirito, la fonte della salute’, grazie alla quale il guaritore può cura-re: ha dunque una connotazione terapeutica, ma per estensione si-gnifica qualcosa di sacro, spirituale. L’unikán è infatti materialmen-te un composto di erbe, che verrà reso attivo dalla congiunzione didue fattori: la volontà di uno spirito (che può essere l’Orebok Okotóprotettore del villaggio; un antenato; un erande) e il coraggio del pa-ziente, precondizione necessaria affinché lo spirito vada a lui. Congli spiriti ci si deve imporre con forza, mi spiega Tcharte, non si trat-ta di chiedere, ma di ordinare senza paura e con fiducia. Mentre lemalattie brevi si curano rapidamente, sono necessarie medicine po-tenti per guarire chi si ammala di una malattia lunga (ikojóke).

L’odiáki preparerà dunque degli unikán adatti a richiamare l’ore-bok scisso dal corpo. Le pratiche rivolte al recupero dell’anima per-duta, restano però al centro delle tecniche di guarigione specialisti-che. Come abbiamo visto, la perdita dell’orebok causa una progres-siva debolezza, che può eventualmente condurre la vittima alla mor-

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te. Un eccessivo squilibrio dei n’atribá può però causare problemimolto più gravi: in particolare si può creare un intoppo al flusso de-gli iarebok dal mondo dei vivi a quello dei morti. Chi ha infatti un’ec-cedenza di pensieri-sentimenti malvagi, individualisti, antisociali,come è il caso degli iamadók e più ancora degli iabané, non meriteràalla sua morte di poter raggiungere il regno degli antenati: il suo ore-bok dannato rimarrà a vagare nella foresta, costituendo una minac-cia per i vivi. Anche gli iarebok che sono stati perduti, in seguito agravi alterazioni dell’equilibrio dei n’atribá, o rubati da qualche stre-gone, qualora nessuno si adoperi per recuperarli, rimarranno bloc-cati in foresta o costituiranno il pasto di un obané. In entrambi i ca-si si creerà un’interruzione della circolazione degli iarebok, dallaquale dipende l’inarrestabile flusso della vita: una parte delle riservedi energia vitale necessaria alla nascita di nuovi esseri sarà infatti an-data irrimediabilmente perduta. Non solo questo costituirà una gra-ve perdita, ma tutte queste anime dannate e sospese senza una col-locazione definitiva non faranno che tormentare i vivi. È quindi ne-cessario l’intervento di qualcuno che abbia il potere di curare, inter-venendo sul corpo e nel campo delle relazioni sociali del malato, perriportare la salute e l’‘ordine’ (kododoka, dal radicale –dod, ‘forza,salute, rettitudine, sincerità, ordine’). L’intervento terapeutico met-te in relazione tre ordini di realtà: l’esistenza individuale, sociale ecosmica. Per curare i sintomi lamentati dal paziente, il guaritore in-fatti interverrà anche sui rapporti sociali in cui questo è inserito; re-cuperando il suo orebok perduto recupererà l’energia da cui dipen-de la continuità della vita del villaggio. I sintomi che i pazienti pre-sentano sono però mutevoli, vaghi, disomogenei, difficilmente ri-conducibili a una specifica patologia. Compito dell’odiáki è inter-pretarli, connettendoli con tutte le spiegazioni disponibili nel conte-sto: il malessere e la sofferenza del singolo infatti toccano,contagiano e invadono l’intera comunità e in quanto tali vanno col-lettivamente spiegati.

I sintomi di Koká e Obennó alludono a conflitti sociali, rappre-sentano sentimenti contrastanti, ricordi dolorosi di morte, solitudi-ne e violenza, desideri e valori in opposizione e pur tuttavia coesi-stenti. I dolori permangono e ritornano per mantenere vivo e stra-ziante il ricordo di ciò che non può essere dimenticato. Più questisintomi diventano intensi, gravi e minacciosi, consumando le loroenergie, più le due donne vengono spinte ai margini dell’umanità(non camminano, non parlano, non capiscono, non mangiano, non

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dormono). Se nessuno intervenisse a salvarle, il peso dei loro pen-sieri-sentimenti le trascinerebbe in un baratro.

Qualora le pratiche terapeutiche cui abbiamo accennato non ri-sultassero sufficienti o efficaci, dovrà intervenire chi, come Tcharte,ha per nascita il senso della visione con la testa. Grazie al potere divedere l’invisibile e di interagire direttamente con gli spiriti, Tchar-te è in grado di recuperare gli iarebok perduti o rubati. In primo luo-go, invoca la protezione dei suoi spiriti: Tcharte con il suo assisten-te e il paziente si siede accanto al suo altare privato, collocato in unangolo scarsamente illuminato della casa, per offrire la kana (acqua-vite di canna da zucchero) e ottenere il benestare dell’Orebok Okotó,lo spirito protettore del villaggio, rappresentato da una scultura an-tropomorfa. Nell’ombra risaltano solo i luminosi occhi metallici de-gli spiriti. Tcharte afferra la piccola zucca piena di chicchi di riso de-stinata a richiamare e contenere l’energia dei defunti di tutti i tempi,che si trova nel ventre dell’Orebok Okotó e la scuote, producendoun suono simile a quello di una maracas. Tutti gli antenati, rispon-dendo al richiamo, si raccolgono nel ventre del Grande Spirito. Ac-canto si trovano altri erande di forma più irregolare, che rappresen-tano i suoi spiriti familiari.

Tcharte mormora parole sommesse, scuotendo di tanto in tantola piccola zucca, o increspando l’aria con il suono cristallino di unacampanella di ferro, deposta ai piedi delle statue. L’odore della ka-na si diffonde tutt’intorno, mentre Tcharte rovescia il liquido pre-zioso nel ventre degli spiriti, prima di passarlo agli altri partecipantidella cerimonia. In seguito, siede in silenzio con gli occhi chiusi e in-comincia a tremare: l’orebok si sta staccando dal suo corpo per vo-lare alla ricerca degli iarebok perduti. Come nel caso dei voli scia-manici, il suo orebok percorrerà i sentieri della foresta per trovare glispiriti perduti o si batterà con gli iabané per recuperare dal loro cal-derone gli iarebok rubati.

La figura di chi n’ojón ta bú, vede con la testa, che per praticitàdefiniremo qui con il termine kriol pautero, svolge un ruolo chiavenel discorso della ‘stregoneria’ e ci aiuterà a chiarire ancor meglio ladistinzione omadók/obané. Essere un odiáki-pautero come Tcharte,significa infatti non solo possedere ampie conoscenze che vanno dal-la farmacopea a pratiche che noi abbiamo per praticità raccolto sot-to l’etichetta di ‘stregoneria’, e che comprendono pozioni, amuleti,sortilegi, contratti e rapporti con gli erande e più in generale con gli‘spiriti’, competenze condivise con gli iamadók; significa anche e so-

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prattutto possedere per nascita qualità e poteri simili a quellidell’obané. Un pautero infatti può vedere l’invisibile; prendere, toc-care o comunque interagire con gli iarebok; compiere voli notturni;separare volontariamente l’orebok dal kugbí per compiere viaggi‘sciamanici’; utilizzare le sue forze per guarire come per uccidere. Se-condo i miei interlocutori, a cominciare dal diretto interessatoTcharte, proprio queste caratteristiche, che possiede in comune conl’obané, gli consentono di combatterlo, proteggendo il villaggio. Ladifferenza più significativa, spesso sottolineata dai locali, è che men-tre l’obané sovverte e distrugge l’ordine e la tranquillità del villaggio,della famiglia, il pautero agisce in perfetta sintonia con la morale do-minante, che difende per il benessere del villaggio in estenuanti bat-taglie notturne. Teatro dei loro scontri non è qualche dimensione ‘al-tra’, ma il mondo del quotidiano, il villaggio o la foresta. Si trattaperò di combattimenti notturni, nei quali i contendenti si affronta-no in volo, sia per decidere della sorte di un orebok rubato, sia perriportare la serenità al villaggio. Possiamo dunque considerare il pau-tero come l’altra faccia dell’obané: stessi poteri ma schieramenti op-posti. Nonostante le indubbie differenze storiche e culturali, questiscontri non possono non richiamare alla mente i combattimenti tra‘stregoni’ e ‘benandanti’, resi celebri da Carlo Ginzburg (1966,1989).

Il pautero è dunque profondamente rispettato e occupa in gene-re una posizione di grande prestigio nella società. Nella vita quoti-diana un pautero ha generalmente un comportamento normale, perquanto le altre persone individuino e sottolineino la grande sicurez-za e compostezza dei suoi atteggiamenti e lo indichino come unesempio di autocontrollo. Sebbene sia piuttosto superficiale e ap-prossimativo tratteggiare con poche pennellate generali un quadroche illustri il comportamento quotidiano di Tcharte, mi sembra tut-tavia di poter affermare che in qualsiasi circostanza, persino le piùemotivamente coinvolgenti, non l’ho mai visto minimamente scosso,anche se a volte ho creduto di notare nei suoi gesti lo sforzo dell’au-tocontrollo. Pure nei casi che riguardavano la sua famiglia, mi pareche non abbia mai mostrato di interessarsi o di condividere più ditanto le preoccupazioni degli altri ‘comuni mortali’. Potremmo for-se azzardare l’ipotesi che proprio questo suo (apparente) distaccodalle questioni di ogni giorno, la sua (apparente) estraneità alle con-troversie familiari costituiscano ciò che lo differenzia dall’obané. Isuoi poteri, così grandi e così ambigui, non sono malvagi, perché so-

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no impiegati in un modo costruttivo e sono, ancora una volta, ‘con-trollati’. La forza che per nascita possiede, e che consiste in un po-tere che gli permetterebbe di fare quasi qualunque cosa, dal pauteroè controllata, addomesticata. Per questo è fonte e garanzia di benes-sere e tranquillità per tutto il villaggio. Se così non fosse, se assor-bisse n’atribá malvagi o se perdesse il controllo di sé, cedendo all’avi-dità, all’invidia, alla gelosia, come un buon odiáki potrebbe ripro-porsi esperto omadók, anche il pautero avrebbe le carte in regola peressere un potente e minaccioso obané.

7. I veli protettivi della forma

In questo capitolo abbiamo dunque parlato dei pericoli del non con-trollo, di n’atribá difficili da dominare, di iarebok perduti, malattie esofferenze, di cure, terapie e combattimenti notturni, attraverso iframmenti delle storie di vita di alcuni interlocutori. Di alcuni di lo-ro continueremo a parlare anche nei prossimi capitoli, riprendendoi fili dei loro racconti, che abbiamo lasciato volutamente in sospeso,nel tentativo di mantenere per quanto possibile nel testo i tempi e gliambiti in cui ho ascoltato le loro storie. Nel primo paragrafo di que-sto capitolo abbiamo fatto cenno all’esistenza di forme convenzio-nali, che permettono di esprimere in modo rigidamente controllatodei n’atribá potenzialmente ‘pericolosi’. Abbiamo infatti sostenuto,riprendendo alcune prospettive già adottate da Abu-Lughod (1986),che l’ideologia dominante del controllo non separa rigorosamenteciò che ‘si può sentire’ da ciò che ‘non si può sentire’. I n’atribá chenon rientrano nei limiti della morale o che potrebbero recare dannoal singolo e alla società trovano posto infatti in linguaggi paralleli, epur tuttavia convenzionali, definiti, pubblici e culturali.

Che non vengano considerati come sentimenti ‘naturali’, nono-stante siano messi a lato del discorso morale proposto dagli anziani,dagli antenati e dalla tradizione, si deduce dal fatto che a livello lo-cale non vengano pensati come sentimenti assolutamente idiosin-cratici, privati, incomunicabili: prevedono anzi forme convenziona-li che li articolano rigidamente. Abbiamo visto per esempio come isentimenti ‘notturni’ che appartengono alla foresta vengano espres-si attraverso il linguaggio della ‘stregoneria’, dei ‘nodi’, del kora-trakó. Allo stesso modo, n’atribá intensi come il dolore, il desiderio,la gelosia, trovano espressione attraverso forme definite che li orien-tano lungo canali appropriati, arginando i pericoli individuali e so-

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ciali del mancato controllo: il canto, la poesia, la danza e i fenomenidi performance in generale. Solo i bambini o i pazzi esprimono sem-pre i loro pensieri-sentimenti in un modo incontrollato: per questosono considerati esseri non ancora appartenenti o completamente aldi fuori della società. Come abbiamo visto, la totale assenza o perdi-ta di controllo comporta in primo luogo la perdita del proprio ore-bok, l’energia vitale, ma anche delle proprie caratteristiche più pret-tamente ‘umane’ (consapevolezza, responsabilità, relazioni con ilmondo esterno, legami sociali) e della propria posizione come mem-bri della società.

Questi sentimenti pericolosi vengono dunque espressi in modoconveniente attraverso il velo protettivo della forma poetica, dellaconvenzione, della consuetudine. Dare espressione alle proprieemozioni ed esperienze in termini condivisi e convenzionali, rispet-tando i criteri estetici locali di coerenza, controllo e bellezza, nonrappresenta un pericolo per l’individuo né per il gruppo, né costi-tuisce un’effettiva ribellione contro i valori della società. Questi lin-guaggi permettono dunque di esprimere affetti personali, intensi epericolosi, attraverso simboli e significati pubblicamente accettati:un processo che è stato definito da Obeyesekere (1985, 1990) ‘workof culture’.

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Capitolo quinto

Le donne, gli «iarebok», la morte, il dolore

‘Le cose della morte sono cose di donne’; ‘le donne parlano il lin-guaggio dei morti’; ‘le donne fanno il lavoro della morte’, ‘le donneconversano coi morti’, sono solo alcune delle espressioni che rivela-no lo stretto rapporto tra le donne e la morte. Qualora si chieda al-le anziane di Bijante, il villaggio principale di Bubaque, il motivo percui solo le donne conoscono la morte (iakanto iaguén n’okpé), gene-ralmente queste risponderanno parlando del mistero della maternitàoppure del culto di possessione femminile manras iarebok, l’inizia-zione dei ragazzi morti prima dell’iniziazione. In entrambi i casi in-fatti, il corpo femminile, grazie alla sua permeabilità e fecondità, rap-presenta il luogo dell’odá, il ritorno o la rinascita dei morti. Il lega-me tra maternità e possessione è spesso esplicitato chiaramente almomento del kanunake, la prima cerimonia del manras iarebok,quando le anziane parlano alle novizie della possibilità femminile dimediazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, legata all’idea dipoter portare in grembo e dare la vita a un altro essere, addiritturadi genere opposto. Questa relazione è espressa inoltre dalla loro as-soluta incompatibilità, dall’impossibilità cioè di accogliere nellostesso ventre due esseri (entrambi spiriti di persone morte) contem-poraneamente. Non potendo portare alla vita un bambino e un ra-gazzo morto nello stesso momento, la tradizione impone una regolanella successione degli eventi: si deve prima sperimentare la posses-sione per poter in seguito concepire un figlio1.

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1 Questa è probabilmente una delle ragioni che hanno fatto abbassare consi-derevolmente l’età dell’iniziazione. Nonostante che questa norma sia diventata ne-gli anni più elastica, tuttavia le ragazze rimaste incinte prima di questa cerimoniadovranno abortire o attendere che i segni della maternità scompaiano completa-mente dal loro corpo per parteciparvi.

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1. Il «manras iarebok», l’iniziazione degli spiriti dei morti

La possessione femminile (manras iarebok) rappresenta un caso dipossessione prescritta, collettiva e non patologica, in cui tutte le don-ne, investite dagli spiriti degli uomini morti prima dell’iniziazione,compiono un percorso iniziatico parallelo a quello maschile, con-sentendo a queste anime, potenzialmente pericolose, di completareil cammino che non hanno potuto percorrere da vivi e quindi di rag-giungere serenamente il mondo dei morti, come antenati protettoridel villaggio. Mentre le donne possiedono già alla nascita – in virtùdel principio di fecondità che incarnano – una completezza tale daconsentire loro in qualsiasi momento l’accesso all’anarebok, i maschivi potranno accedere solo quando, al termine del percorso iniziati-co, avranno raggiunto la maturità necessaria. Solo l’iniziazione per-mette infatti all’essere imperfetto che è il ragazzo adolescente di pas-sare da uno stato di incompletezza e precarietà alla condizione dicompiutezza propria degli adulti: la morte precoce impedisce lo svi-luppo armonioso dell’individuo, il cui spirito resta in un pericolosostato liminare, non appartenendo più alla società dei vivi e non an-cora al mondo dei morti. Oppressi dalla propria solitudine, questispiriti restano a vagare nella foresta minacciando la tranquillità di chivi si avventura, in attesa di poter usufruire dell’accogliente kugbí diuna donna per completare il cammino che non hanno potuto per-correre in vita. Compito delle donne è ristabilire l’equilibrio tra ilmondo dei vivi e il regno dei morti, prestando il loro corpo affinchéquesti esseri potenzialmente pericolosi possano affrontare le ceri-monie del manras e quindi raggiungere serenamente l’anarebok. Lapossessione femminile costituisce dunque allo stesso tempo un’ini-ziazione maschile post mortem e un percorso di maturazione per ledonne, essenziale all’affermazione e alla realizzazione della loro fe-condità. Questa cerimonia, celebrando il potere femminile di crea-re, mantenere e ristabilire l’armonia tra il mondo dei vivi e quello deimorti, dalla quale dipendono la salute, il benessere e la prosperitàdelle singole persone e dell’intera comunità, conferisce alle donneun’autorità che trascende largamente il dominio rituale.

Separazione, segregazione, segretezza e opposizione rispetto almondo maschile sono note distintive dei rituali di possessione: perquanto le donne possedute compiano un cammino parallelo al per-corso iniziatico maschile, gli uomini non devono sapere nel modopiù assoluto ciò che accade. ‘Chi parla muore’, dicono i Bijagó, per-

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ché nhoratoke koratakó, il segreto è sacro: coloro che ne dubitanovengono convinti dall’interpretazione di una morte improvvisa, at-tribuita spesso proprio all’infrazione di un segreto. Per questo mo-tivo, le donne iniziate si astengono dal parlare con le ragazze non ini-ziate e, soprattutto, con gli uomini, oppure utilizzano un linguaggiospeciale proprio degli spiriti, nel quale alle parole del quotidiano vie-ne attribuito il significato opposto. Poiché dunque tutta la cono-scenza riguardante le cerimonie femminili e, in generale, gli arebok,è preclusa agli uomini e alle donne non iniziate, partecipare dei se-greti della possessione, essere iniziata al culto, è l’unica strada possi-bile per aver accesso a questo dominio2.

Il rituale di possessione prevede tre momenti distinti: – il kanunake, che dura in genere tre giorni e si svolge principal-

mente nel santuario del villaggio, dove le iniziande apprendono ladanza degli spiriti, costituisce una vera e propria iniziazione alla pos-sessione;

– il nubir nabido prevede un periodo di reclusione in foresta dicirca due settimane, durante il quale i ragazzi defunti portati in cor-po dalle donne ricevono i loro nomi iniziatici, i nomi dei figli dellequattro antenate mitiche (Orakuma, Ominka, Ogubane e Oraga),trasmessi attraverso le generazioni. Nel momento di questa attribu-zione, lo spirito dell’antenato più prossimo cui fu assegnato lo stessonome iniziatico, entra in una forma di comunione o ispirazione conl’iniziando, accompagnandolo nel lungo percorso che dovrà affron-tare e comunicandogli saggezza ed esperienza. Il corpo della donna,se così si può dire, diviene il teatro di una doppia possessione;

– il kanhoke è l’ultimo momento e il più segreto e comporta unperiodo di reclusione in foresta di circa sei mesi, durante il quale ledonne non avranno alcun contatto se non con le maggiori autoritàdel villaggio (re, sacerdotessa e suonatore di tamburo sacro) e con al-cuni officianti rituali (chiamati orase, i prigionieri), che si occupe-ranno di aiutarle nei compiti più pesanti.

Al termine del kanunake, la prima tappa del percorso iniziatico,quando gli iarebok se ne saranno andati e le donne ritorneranno al-la quotidianità, la loro posizione sociale e soprattutto il loro sguardosul mondo sarà differente. Con le parole che la sacerdotessa okinkapronuncia all’uscita del tempio: mojón n’ajóko, ‘ora tu vedi il mon-

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2 Per una descrizione dettagliata del culto di possessione si veda Pussetti 1999.

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do’. La possessione sembra quindi costituire un’esperienza che, per-mettendo a un principio malefico (oshó) di rinascere come entità po-sitiva (orebok), prepara le donne a essere ciò che ci si aspetta diven-tino, madri complete, confermando e valorizzando la possibilità ditramutare la morte in vita, insita nella loro costituzione biologica.Una volta terminate le cerimonie di possessione e consapevoli del lo-ro potere, le donne saranno rispettate e considerate potenzialmentepericolose: la loro profonda relazione con il mistero della nascita edella morte le rende infatti, come dicono scherzosamente gli uomi-ni, «la cosa più pericolosa del mondo». Occorre non dimenticareche, se è femminile l’origine della vita, lo è anche l’origine della mor-te: secondo il mito infatti la morte nasce da un atto volontario diAkapakama, la prima donna. La prima morte umana è infatti quelladi Akapakama, che decide di affrontare questo ‘viaggio’ per ritorna-re in vita poco tempo dopo, giovane e bella. Le sue quattro figlie pre-pararono allora una grande festa, «battendo le mani e urlando ‘Aka-pakama è morta e ritornata!’. Ma la madre era scontenta, poiché ri-teneva che la si considerasse come l’incarnazione del malvagio spiri-to feiticeiro e non come una che ritorna da un viaggio, fresca e bella.Ella decise allora che sarebbe morta ancora e non sarebbe tornatapiù» (Gallois Duquette 1983: 34-35).

Questa prossimità delle donne alla morte, tale per cui «le cosedella morte sono cose di donne» e «le donne parlano il linguaggiodei morti», le rende inoltre intermediarie e interpreti delle parole deidefunti, facoltà che si traduce nella vita corrente in una posizione digrande autorità e prestigio. Alle donne è infatti affidato il compitodi mantenere vivo il ricordo dei morti e della loro vita passata: invirtù della relazione con gli iarebok, inoltre, le donne possedute ri-cordano al villaggio la sua stessa storia, riconfermandone l’identità.Istruite dalle anziane, che allestiscono lo spettacolo e assegnano leparti, le possedute mettono in scena nella piazza del villaggio un ve-ro e proprio ‘teatro’ (eraké iarebok)3. Indossando un coreograficocostume di scena, le novizie rappresentano le caratteristiche tipiche

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3 Le esibizioni pubbliche delle possedute, nella piazza centrale del villaggio,vengono definite eraké iarebok, ‘teatro degli iarebok’. Con il termine eraké i Bijagóindicano un evento performativo complesso in cui diversi elementi propri delladanza, del canto, della musica strumentale si intrecciano. Emblematicamente la tra-duzione che i Bijagó ne forniscono in kriol, la lingua veicolare della Guinea Bissau,è ‘teatro’ (Pussetti 2001).

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di un giovane guerriero, dipingendone le qualità più distintive: unmodo assolutamente maschile di salutare, una fierezza, un’arrogan-za che spesso raggiunge l’irriverenza, un atteggiamento del corpoche mai sono propri di una donna. L’orebok non chiede, ma ordina,con fare irrispettoso fronteggia gli uomini anziani rubando loro il vi-no, al cospetto del re non abbassa lo sguardo, all’improvviso si vol-ge con le armi in pugno contro un nemico invisibile, galante scher-za con le ragazze del villaggio, cantando i suoi passati amori. Il vol-to è fermo, quasi inespressivo; lo sguardo fiero e sfrontato: non è piùuna donna che sta recitando, ma un giovane guerriero che manifestala sua identità. La donna-orebok non ricorda più niente della sua vi-ta ordinaria, non riconosce i suoi familiari e i suoi amici, non si oc-cupa dei suoi figli, vive nel tempio e non più nella casa materna, in-terrompe tutte le sue attività quotidiane, si esprime in modo diffe-rente. L’intero rituale è volto ad alterare la personalità dell’inizian-da, rimodellando i suoi n’atribá. La possessione femminile può esse-re considerata in quest’ottica come un linguaggio privilegiato peresprimere sentimenti e attitudini totalmente al di fuori di ciò che unadonna ‘dovrebbe’ comunemente provare. La relazione abituale travita quotidiana e pratiche corporee viene consapevolmente alteratanel contesto della possessione degli arebok, offrendo alle iniziate lapossibilità di aprirsi a nuovi ambiti esperienziali e di adeguarsi a nuo-vi schemi di comportamento. Un approccio di questo tipo porta aconsiderare come questioni di estetica, sentimenti, sensi e persona-lità siano intimamente e visceralmente intrecciate, e come introdu-cendo nuovi stili di comportamento, modi di essere e di muoversi,utilizzando il corpo in modi differenti, sia possibile comunicare,creare, orientare e modificare emozioni, trasformando le persone ele loro relazioni.

Sul finire della danza le possedute rappresentano teatralmente ilmomento della morte dei defunti che incarnano: il guerriero uccisoin battaglia cade fiero sotto i colpi del nemico; il giovane marinaioannega in mare, boccheggiando e annaspando tra onde invisibili; unkaro, morso da un serpente velenoso mentre estrae il vino di palma,si contorce al suolo, scosso da brividi. Queste rappresentazioni emo-zionano i presenti, che riconoscono i figli, i fratelli, gli amici del vil-laggio, e ne rivivono la morte. Le donne più anziane creano inoltreun’elaborata rappresentazione storica: attraverso l’atteggiamentofiero e i gesti drammatici e bellicosi, impugnando spavalde le armi emimando gli antichi combattimenti, fanno rivivere nella danza la

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memoria del tempo guerriero. Gli elementi marziali del costume e lepratiche corporee delle possedute mettono in scena una concezionedel mondo, dei valori morali e dei modelli ideali di comportamentoappartenenti al passato glorioso4.

Le possedute, attraverso il linguaggio del corpo, raccontano sto-rie che per un verso riaffermano e rafforzano il ‘modello d’umanità’proposto dagli anziani, per l’altro offrono un pretesto per rifletteresui contrasti e le incertezze del presente. Accanto alle possedute an-ziane che danzano memorie remote, nuove storie iniziano ad affac-ciarsi sulla scena del teatro dei defunti. In contrasto con i simbolimarziali che appartengono a memorie precoloniali, gli spiriti incor-porati dalle giovani spesso raccontano storie di oggi: un giovane èannegato in un viaggio in canoa verso Bissau, un altro chiede per-dono per aver tradito la tradizione bijagó convertendosi all’Islam, oancora per un’infausta fuga verso il continente. Storie che parlano dicambiamenti, di modernità, di desiderio di fuga, di rifiuto delle rigi-de regole del n’obítr kusina, di mancato rispetto verso gli anziani.

2. Pratiche e rituali funebri

Durante i mesi trascorsi sul campo ho avuto inoltre modo di con-statare che, oltre a gestire le relazioni fra n’ajóko e anarebok, le don-ne svolgono anche tutte le attività e le pratiche che circondano lamorte: non solo sono responsabili del trattamento dei cadaveri, maanche della metabolizzazione sociale del lutto, attraverso il linguag-gio poetico dei canti funebri. Per comprendere il significato che que-ste pratiche rivestono per i singoli individui, cercheremo di rendereconto di come le persone colpite dal lutto esperiscano ed esprimanopubblicamente i loro stati emozionali, avvalendosi di sistemi di si-gnificato condivisi per trovare un senso alle loro tragedie personali.Prima di concentrarci sulle esperienze della perdita vissute e rac-contate da alcune mie informatrici e di affrontare il tema dell’espres-

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4 L’importanza di eventi performativi come la danza, la musica e il teatro, staanche nella possibilità che offrono alle persone di raggiungere una comprensionedi significati non in modo cognitivo e intellettuale, quanto piuttosto in una manie-ra vissuta, carnale e sensuale, attraverso un processo che non comporta necessaria-mente conoscenza verbale o concettuale. Le pratiche corporee permettono di co-gliere in modo immediato e sensibile pensieri generali, generando immagini men-tali e instillando qualità morali.

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sione poetica del cordoglio, ritengo necessario presentare una brevedescrizione delle pratiche locali e dei rituali legati alla morte. A cau-sa dell’alta mortalità che interessa la popolazione della Guinea Bis-sau e in particolare dell’arcipelago dei Bijagó, le persone si ritrova-no nel corso delle loro vita a dover affrontare ripetute perdite: i ri-tuali funebri costituiscono pertanto una delle occasioni di riunionepiù frequenti5. Nonostante le diverse problematiche che questo am-bito di ricerca presenta, in quanto spesso i lutti colpiscono personecon le quali l’antropologo ha instaurato rapporti di amicizia e colla-borazione, si rivela estremamente interessante dal punto di vistadell’antropologia delle emozioni.

Di fronte alla morte di una persona del villaggio, la prima preoc-cupazione è quella di contrastare i processi di trasformazione cheinevitabilmente occorrono, intervenendo a preparare il corpo. Sonole donne che si occupano del trattamento del cadavere e che deco-rano il corpo in vista della pubblica esposizione6, che precede l’inu-mazione. Costituisce un’eccezione il caso dei suicidi: si ritiene infat-ti che la ‘debolezza’ (n’ojóno; ma anche n’eden, ‘fragilità di caratte-re’) o i pensieri-sentimenti che hanno portato la persona a uccidersisiano in qualche modo ‘contagiosi’ per contatto, specialmente all’in-terno dello stesso gruppo familiare. Il trattamento del cadavere di unsuicida sarà lasciato alle donne che sono in quel momento in stato dipossessione, in quanto, mi spiega Tcharte: «non c’è alcun pericolose il contatto avviene tra iarebok».

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5 Secondo le ricerche epidemiologiche condotte a Bubaque nel 1995 da Alexan-dra Oliveira de Sousa, infatti, la speranza di vita alla nascita è inferiore ai 47 anni epiù di 201 bambini su mille muoiono nei primi anni di vita. I dati del Programa Na-cional de Desenvolvimento Sanitário della Guinea Bissau (1999) confermano che lasperanza di vita a Bubaque è di 45 anni e che 146 bambini su mille muoiono entroil primo anno di vita, mentre 246 entro i primi cinque. Gli ultimi dati riportati dalRelatório do Desenvolvimento Humano del Programma delle Nazioni Unite (2001)e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2001) sostengono che dopo il con-flitto (1998-1999) la situazione è ancora più allarmante: il 45% dei bambini muo-re entro i primi cinque anni d’età.

6 Jean Guiart, che ha curato una raccolta di saggi riguardanti i rituali funebri,ha osservato che in molte culture la donna ha l’incarico di preparare il corpo deldefunto, chiaramente simbolo di morte, proprio in quanto donatrice di vita, quin-di a partire dal momento in cui, avendo già avuto l’esperienza del parto, viene con-siderata socialmente adulta e simbolo di fertilità e generazione (Guiart 1979: 8). Se-condo alcuni informatori, anche gli uomini anziani, in virtù della loro prossimità al-la morte, possono aiutare le donne nel trattamento del cadavere.

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Il primo compito delle donne è portare il cadavere al mare per la-varlo: l’abluzione è una pratica comune ai rituali relativi al parto e al-la nascita, all’iniziazione maschile e al culto di possessione femmini-le. L’acqua, che distrugge tutte le forme, cancellando il passato, rap-presenta il primo momento di purificazione, trasformazione e rige-nerazione. Il corpo viene poi massaggiato con un infuso di pianteodorose e olio di palma, di modo da renderlo lucido e profumato.Come l’acqua, sostanza inodore e purificante, simbolo classico ditransizione, anche questi bagni aromatici si ritrovano in tutti i mo-menti della vita nei quali avviene un importante passaggio, comesimbolo di separazione dall’identità precedente. In seguito le donnerasano i capelli al defunto e ai suoi familiari in segno di lutto. Il cra-nio del defunto viene infine ricoperto con un impasto di carbone,ocra rossa e olio di palma: ancora una volta la rasatura e l’impasto siusano anche per i neonati, le puerpere, gli iniziandi e le possedute.Viene poi serrata con attenzione la mandibola del defunto per im-pedire alla bocca di aprirsi, legandola con un panno. Si immobilizzala testa controllando che gli occhi siano ben chiusi e infine tutti gliorifizi corporali vengono riempiti di stoffa: in questo momento cri-tico infatti il cadavere e la comunità sono ritenuti estremamente vul-nerabili alle intrusioni di agenti esterni e quindi particolarmenteesposti agli attacchi degli iabané, attirati dall’odore della decompo-sizione. Il materiale che il cadavere produce è inoltre una sostanzamarginale estremamente pericolosa e contaminante. È quindi moltoimportante che non fuoriescano escreti o sangue, perché altrimentil’influenza malefica insita nel cadavere ed estrinsecata dal cattivoodore che emana, potrebbe diffondersi recando danno ai vivi.

In vista dell’esposizione del cadavere, le donne si occupano an-che di adornarlo esteticamente, profumandolo e vestendolo con gliabiti più belli e rappresentativi della sua posizione sociale. L’obiet-tivo è dare l’apparenza di un corpo ancora in vita: il defunto verràesposto seduto sulla veranda, legato a una sedia, oppure sollevato emosso a ritmo di musica, come se danzasse. Il cadavere viene quin-di al più presto avvolto in una stuoia e le donne iniziano a bruciarefoglie odorose in grande quantità. Abbiamo visto nel precedente ca-pitolo che l’odore della morte, primo segnale del processo di de-composizione, rivela nell’interpretazione locale qualità morali: è as-sociato infatti alla figura dell’obané come anche a qualsiasi condottapericolosa o aberrante, che provoca disgusto. Un cadavere che ema-ni un odore molto intenso e ripugnante sarà facilmente sospettato di

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essere stato un obané e si procederà dunque a rituali di divinazione,tra i quali il più usuale è l’interpretazione del colore delle interioradi una gallina. Allo stesso modo anche gli spiriti dei morti sono ca-ratterizzati da un odore specifico, che riflette a livello olfattivo la lo-ro condotta in vita.

Le donne e gli uomini morti dopo aver terminato il percorso ini-ziatico saranno al più presto sepolti (n’annan, letteralmente ‘mette-re dentro al ventre’) dai loro parenti nell’annani, la stanza centraledella casa7. La situazione ideale prevede che ciascuno venga sepoltonella casa nella quale è nato: questo legame è rappresentato anchedalla pratica di seppellire il cordone ombelicale del bambino nel pa-vimento dell’annani, un atto che simbolizza la relazione permanen-te della persona con la sua casa natale. Uscito dal ventre della casamaterna, è quindi nel ventre della stessa casa che un Bijagó dovreb-be tornare per il suo ultimo viaggio, quello che lo condurrà nell’al-dilà. In alternativa, secondo una innovazione recente, si potrà esse-re seppelliti nella casa coniugale. Ma non tutto va conservato: a uncerto punto il ricordo dei morti come anche la traccia del loro pas-sato sono destinati a scomparire. Dopo un certo periodo di tempo lacasa sarà lasciata cadere in rovina8: come sparisce il ricordo, così an-che le case-tombe sono destinate a scomparire, a essere forse in-ghiottite dalla foresta, se si trovano ai margini del villaggio, o sosti-tuite da nuove case e nuove famiglie, in ogni caso dimenticate9.

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7 Per riferirsi invece al seppellimento di qualunque altra cosa si utilizza inveceil termine n’orun.

8 Le case, a causa della violenza delle piogge, avrebbero infatti bisogno di unacontinua manutenzione, tanto che i locali preferiscono costruirne di nuove, piut-tosto che continuare a vivere in quelle vecchie.

9 Da quanto ho potuto constatare sul terreno, i Bijagó di Bubaque non possie-dono un termine particolare per designare gli antenati, ma utilizzano il termine ia-rebok, accompagnandolo con aggettivi qualificativi come okotó (grande), obaju(vecchio) o obuo (anziano) o utilizzano espressioni quali ‘okotó okpé’ (un vecchiomorto). Nelle cerimonie gli antenati verranno invocati pronunciando i nomi inizia-tici, che si ripetono attraverso le generazioni. L’officiante si riferirà quindi diretta-mente all’antenato più prossimo del quale conserva memoria, comunicando indi-rettamente con tutti coloro che nelle generazioni portarono lo stesso nome. Ricor-diamo che, come abbiamo sottolineato nel terzo capitolo, l’imposizione del nomeiniziatico causa nel novizio una profonda trasformazione, che coinvolge la sua stes-sa identità: il suo corpo viene infatti posseduto dal suo antenato più prossimo, cuifu assegnato lo stesso nome. Questo passaggio generazionale di esperienza e sag-gezza avviene da tempo immemorabile e costituisce un legame tra tutti gli uomini,passati e presenti, al di là del mutamento insito nel passare del tempo.

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La morte di un anziano si colloca infatti in modo chiaro e ine-quivocabile all’interno delle aspettative del gruppo: per la loro pros-simità al mondo degli antenati, dei quali si propongono come inter-preti, la morte delle persone anziane non sarà considerata comequalcosa di innaturale, ma come un viaggio atteso e auspicato. Inqualche modo speculare alla morte dell’anziano è quella del neona-to o del bambino di pochi mesi il quale, non essendo ancora consi-derato una persona, ritornerà immediatamente da dove è venuto. Unneonato, fino allo svezzamento, è infatti ritenuto più vicino alla ca-tegoria ‘spirito’ che alla categoria ‘persona’: è incompleto, ancorasenza identità, «nessuno lo conosce, non ha mai parlato e non haniente nella testa», e quindi «non ha importanza». La sua morte dun-que non viene pianta e il cadavere è abbandonato senza alcuna ceri-monia alle onde del mare10 o interrato rapidamente in un posto qual-siasi: non avendo il neonato alcun significato sociale, non ne ha in-fatti nemmeno come defunto. In virtù del loro stato di appartenen-za all’aldilà, al regno degli iarebok, l’orebok di questi bambini può ri-tornare in vita11 poco tempo dopo, attraverso il ventre della stessamadre o di un’altra donna della famiglia. È anche per questa ragio-ne che ci si inquieta se una madre piange per la perdita del suo bam-bino, morto alla nascita, poiché «così affliggerà il suo orebok ed egliavrà paura di ritornare nel suo ventre». L’eccesso di lacrime farebbeper un verso ‘morire di dolore’ la madre, per l’altro impedirebbe albambino-spirito di compiere un’altra volta il percorso tra i due mon-di, rendendogli la strada difficile al punto che potrebbe perdere ladirezione. Ogni manifestazione di dolore verrà considerata inop-portuna e pericolosa e quindi biasimata. Si tratta, per utilizzare il ti-tolo del celebre libro di Nancy Scheper-Hughes (1992), di una vera‘death without weeping’12.

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10 Il regno dei morti, l’anarebok, viene chiamato anche kokpekentó, che signifi-ca ‘sotto il mare’.

11 «L’idea che il bambino possa a suo piacimento ripartire e, eventualmente, ri-tornare, è comune a numerose società dell’Africa Occidentale (Bambara, Wolof,Lebou, Sereer, Evhé, Yoruba)» (Bonnet 1994: 94).

12 La tesi di Scheper-Hughes riguarda gli effetti della povertà sulla condottamorale, in particolare sul rapporto tra amore materno e morte dei figli. A causadell’alta mortalità infantile, le abitudini di riproduzione e di cura del bambino sibasano su un insieme di assunti di intercambiabilità e possibilità di rimpiazzare ineonati. Nel suo tentativo di mostrare che l’emozione è modellata dal contesto po-litico ed economico così come dalla cultura, questa posizione di Scheper-Hughespuò essere intesa come una ‘economia politica’ delle emozioni. L’indifferenza (bel-

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Diverso è il caso di un giovane adulto che muoia inaspettata-mente nel pieno delle forze, prima di aver attraversato le tappe fon-damentali della vita: questa morte è considerata un evento incon-trollabile ed estraneo alle leggi della natura, e richiede pertanto unagiustificazione. L’interpretazione bijagó della malattia, della morte edegli incidenti è analoga ad altre concezioni diffuse nell’Africa Sub-sahariana, nelle quali questi eventi vengono spiegati imputandoli aglispiriti degli antenati, scontenti per essere stati trascurati, all’infra-zione di una proibizione rituale o a un atto di ‘stregoneria’. Quandouna crisi seria colpisce l’individuo o la famiglia è necessario quindirivolgersi a uno specialista rituale, che sappia diagnosticare il pro-blema e indicare cosa si deve fare per risolverlo o, in caso di ‘strego-neria’, che sappia identificare il colpevole, in modo che lo si possapunire, proteggendo così il resto della comunità. Nel caso della mor-te, in particolare, i responsabili devono essere smascherati: per que-sto fine in primo luogo si procede a una divinazione attraverso l’in-terpretazione dei sussulti di una gallina sgozzata; in secondo luogo,si esegue la cerimonia dello naua (interrogazione del morto), i cuimovimenti, come abbiamo spiegato nel precedente capitolo, daran-no nome e visibilità ai sospetti13. Solo una volta individuata la causadella morte, si potranno completare le cerimonie funebri, che con-sentiranno all’orebok del defunto di compiere il suo viaggio versol’anarebok.

Anche la dirittura morale del defunto ha la sua importanza, alpunto che può addirittura implicare l’eterna liminarità, il perennefluttuare senza pace, l’esclusione dal regno dei morti. I casi più em-blematici sono quelli di chi viene indicato come obané e quindi, co-me abbiamo già detto, sepolto in foresta senza alcuna cerimonia, edei maschi che muoiono prima di aver terminato il percorso inizia-tico. In quest’ultimo caso, la morte precoce giunge a contrariare losviluppo armonioso dell’individuo, il cui orebok resta perciò in unostato liminare, non appartenendo più alla società dei vivi e non po-tendo entrare a far parte del mondo dei morti. Mentre si può agireattraverso sacrifici o preghiere al Grande Spirito, Orebok Okotó, per

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le indifférence) con la quale le donne di Alto de Cruzeiro generalmente si confron-tano con la morte dei figli, secondo la prospettiva di questa autrice si rivela una ri-sposta culturalmente attesa.

13 Per una descrizione dettagliata di questi due rituali di ‘divinazione’, si vedaPussetti 1998.

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liberare lo spirito di un obané che erri nella foresta o che si sia mo-mentaneamente incarnato in una persona del villaggio, non si può li-berare quello di un ragazzo morto prima di completare il camminoiniziatico che, ostacolato nel suo viaggio verso l’anarebok, divieneuna minaccia per la comunità e in particolare per sua madre. Ab-biamo già spiegato come, per premunirsi contro questo pericolo, ledonne, possedute dagli spiriti degli uomini morti, faranno loro at-traversare le tappe iniziatiche che essi non hanno potuto percorrereda vivi.

La sepoltura, se è un obbligo da parte dei vivi, è soprattutto ne-cessaria affinché il defunto possa raggiungere serenamente l’aldilà:un morto senza sepoltura è un orebok senza posto, abbandonato, va-gabondo, che tormenterà i vivi per ottenere attenzioni e vendicarsi.La gestione del lutto nel momento drammatico della sepoltura èsempre in mano alle donne, che, dopo aver annunciato con acuti la-menti la morte all’intero villaggio, si riuniscono nella stanza centra-le della casa accompagnando con i canti funebri la preparazione del-la salma. Le donne manifestano un atteggiamento di intimità e af-fetto con il morto, circondando fisicamente la salma, rivolgendoglidomande, aggiustandone i panni, passandosi i suoi capelli tagliati dimano in mano, offrendogli il riso. In contrasto con l’intimità lingui-stica, emozionale e tattile delle donne, gli uomini mantengono unarelazione puramente visiva con la morte. Per meglio illustrare que-sto momento riporterò un frammento particolarmente evocativo delmio diario di campo:

Durante la notte mi svegliano i lamenti (kárina) di alcune donne, cheriempiono il silenzio con una melodia monotona fino al mattino. Alle pri-me luci dell’alba mi alzo e col volto teso mi affaccio alla veranda già sa-pendo che un altro lutto ha colpito il villaggio. Mentre alcune donne stan-no intonando un canto funebre, Koká si avvicina per comunicarmi chedurante la notte è morta Caminho, una ragazza con la quale andavo spes-so al mercato e che lamentava negli ultimi giorni dolori allo stomaco e alventre. Raggiungo allora la casa di Caminho, dove le donne continuanoa lamentarsi, dondolando tutte insieme con le braccia incrociate sul pet-to. Entro nella casa e il calore umido e denso dell’aria, gonfia del fumodegli arbusti aromatici, mi opprime. Nabon’a, un’altra donna del villag-gio, accanto alla madre di Caminho, canta di come anche sua figlia eragiovane e generosa con tutti e di come lavorava e offriva agli anziani sen-za tenere niente per sé. Siediti, unisciti al coro, mi invita Koká. Le donnecontinuano a dondolarsi e a lamentarsi e in qualche modo mi sento più

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tranquilla, cullata dalla cadenza della melodia e dall’atmosfera quieta, chepare non condividere i toni cupi del lutto, mentre le mani sono sempreoccupate, in un passare continuo di stoffe, riso, vino di palma, capelli.Mentre alcune donne si consultano per scegliere il colore dei panni perla gonna di Caminho, vengo invitata a occuparmi del drappeggio del fou-lard che le ricopre il petto. Fuori dalla casa gli uomini ascoltano in silen-zio, bevendo della kana (acquavite di canna da zucchero), sporgendositalvolta a osservare ciò che accade nell’annani. All’improvviso giungonoalle nostre orecchie le urla di alcuni uomini nella piazza: quasi a voler co-prire queste manifestazioni esasperate, la cantante solista aumenta il vo-lume della voce, e tutte rispondiamo intonando il coro: «Gli uccelli si so-no già stancati di piangere, ma io continuo a cantare, perché ho tanta no-stalgia di lei, nostalgia che ora è dentro di me».

Il cadavere viene quindi calato in una fossa circolare di un metrodi diametro, profonda circa un metro e mezzo, al fondo della qualesi apre una galleria sotterranea orizzontale, che permette di adagia-re il cadavere sul lato sinistro. Il corpo, avvolto in una stuoia, vienedisteso con la testa volta verso occidente e le gambe ripiegate, comese dormisse. Gli uomini (generalmente si tratta di n’aro, i ragazzi del-la classe d’età preiniziatica), che hanno scavato la fossa, ricoprono ilmorto di terra, mentre le donne lanciano alte urla. Prima di chiude-re la tomba, i parenti dello scomparso mettono nell’orifizio circola-re, che sormonta la galleria, zucche di riso, vasi d’acqua, tessuti, ar-mi o gioielli del defunto a seconda del sesso: tutto ciò gli servirà a pa-gare i traghettatori dell’aldilà, che verranno a cercarlo con la loro ca-noa. Le donne anziane rimarranno per cinque giorni a vegliare latomba, sulla quale verrà posto un unikán uram koko, mentre sul tet-to sarà collocato un telo bianco per indicare il recente lutto.

Le donne, a causa del loro rapporto privilegiato con la morte e idefunti, si occupano dunque di tutte le diverse fasi della gestione dellutto: dal trattamento del cadavere, alle lamentazioni e ai canti fune-bri, che manterranno in vita il ricordo del morto; dalla sepoltura (an-che se le parti più pesanti del lavoro, come scavare la fossa, sono svol-te dagli uomini) fino ai rituali del kataba. Il kataba, in kriol tcoro‘pianto’, che generalmente ha luogo da sei mesi a un anno dopo lasepoltura, riunisce i parenti al completo e, a dispetto del suo nome,si svolge in un’atmosfera festosa. Gli scopi della cerimonia sono, inprimo luogo, agevolare il distacco dell’orebok del morto dalla co-munità dei vivi e guidarlo nel suo viaggio verso l’anarebok; in secon-do luogo, ricordare lo scomparso. Si raccoglie vino, cibo e tabacco e

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si parla del defunto osservando alcuni oggetti che lo ricordano oscambiandosi i ritagli delle sue unghie e dei suoi capelli, che qual-cuno ha conservato. La grandiosità della festa, il numero di danza-tori invitati, il consumo di bevande e di cibo, sono proporzionaliall’importanza della persona deceduta.

Il kataba completa i funerali, cominciati con la sepoltura e segui-ti dall’interrogazione del morto, dando la possibilità all’orebok del-lo scomparso, che ritardava la sua partenza per l’anarebok, di realiz-zare il suo viaggio. La morte di un individuo non implica infatti il suoimmediato abbandono del villaggio: il suo orebok continua a orbita-re intorno al mondo dei vivi, apparendo talvolta in sogno ai suoi pa-renti più stretti. Il kataba è inoltre un momento di coesione per tut-to il villaggio, durante il quale, poiché la morte costituisce una seriaminaccia di disgregazione e alterazione delle relazioni sociali, i su-perstiti rinnovano i loro legami. Se la sepoltura, che circoscrive ilmomento effettivo del lutto e della perdita, è contraddistinta da gri-da, pianti, lamenti, il kataba è per il villaggio un momento di ricon-ciliazione, il termine di un periodo di pericolo e di instabilità, ungiorno di festa. Protagonisti di questa fase delle cerimonie funebrisono l’oum, il suonatore del tamburo sacro kumbonki, strumento dicomunicazione con gli antenati, e le possedute iarebok che accom-pagnano l’ultimo viaggio dello spirito del morto. Mentre fino a que-sto momento il defunto continuava a rimanere legato alla sua fami-glia e alla comunità del villaggio, dopo il kataba intraprenderà unlungo viaggio che lo porterà da un’isola all’altra dell’arcipelago, finoa raggiungere il ‘tempio della fine del mondo’, il santuario nel qualeattenderà di partire per l’anarebok. L’anarebok è considerato un luo-go di beatitudine, nel quale gli iarebok, gli spiriti dei defunti, si uni-scono a Nindo, costituendo una riserva di energia vitale per le futu-re nascite. Tuttavia gli iarebok degli antenati possono essere invoca-ti durante le cerimonie, trovando una momentanea collocazione nelventre della scultura antropomorfa di Orebok Okotó, il Grande Spi-rito presente in ogni villaggio.

3. Morti senza pianto

Nel precedente paragrafo abbiamo sostenuto che sia la morte di unobané sia quella di un neonato, seppure per motivazioni molto dif-ferenti, provocheranno reazioni socialmente deboli: verranno sepol-ti rapidamente, il primo in foresta, il secondo in un posto qualsiasi,

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senza alcuna cerimonia funebre e nessuno dovrà lamentare la loroscomparsa. Piangere un obané significherebbe infatti attirare versoil villaggio il suo spirito dannato, mettendo gravemente in pericolola tranquillità del gruppo. Le lacrime di una madre per il suo bam-bino affliggerebbero e spaventerebbero l’orebok, oscurando il suocammino e impedendogli di ritornare rapidamente in vita. Fortuna-tamente, secondo molte donne di Bijante, il dolore di una madre perun figlio neonato è destinato a passare in fretta: sono figli che «nonhanno avuto importanza» e la sofferenza per la loro morte verrà pre-sto dimenticata, grazie anche a una nuova gravidanza. Il dolore chelascia il segno, che «si incolla al corpo», è quello causato da perditeche spezzano legami sociali rilevanti: la relazione che si può instau-rare con un neonato non è tra questi.

Oltre a questi due casi, vi è un’altra morte che non dovrà essereassolutamente pianta e che andrà rapidamente dimenticata: quelladei ‘bambini-erande’. Questa categoria è piuttosto fluida: in essarientra tutto ciò che si discosta dall’idea locale di ‘umanità’, che in-troduce contaminazioni tra generi che devono essere tenuti separa-ti, che turba l’ordine delle cose, creando confusione, incoerenza,asimmetrie e ambiguità. In generale si tratta di bambini che presen-tano caratteristiche fisiche e comportamentali considerate anomaleo singolari, che li distinguono nettamente dagli altri bambini e chepotrebbero rivelarsi pericolose per il gruppo. Le situazioni deviantipiù comuni sono la nascita di gemelli (kantiá) e di bambini che pre-sentano malformazioni fisiche. «Solo gli animali hanno parti multi-pli, gli esseri umani hanno un figlio alla volta», mi spiega Duminga;«uno dei due bambini non è umano, è un erande che si è infilato nelventre di una donna!». L’anormalità della nascita di gemelli fa dun-que sospettare che uno dei due bambini non sia un essere umano,ma uno spirito, un erande. Spetterà alla madre capire quale bambi-no non è umano: si dice infatti che allattare un bambino-erande pro-curerà molto dolore alla donna, in quanto cercherà di succhiarle ilsangue, oltre che il latte; in questo caso la madre smetterà di allat-tarlo. Altrimenti i gemelli verranno portati da un odiáki o da qual-cuno dotato della ‘vista con la testa’, come Tcharte, che saprà capi-re da alcuni segni quale bambino dovrà essere ucciso14. L’infantici-

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14 Sia Gallois Duquette (1983: 88) sia Lamy (1985: 150), basandosi sulle lororicerche nell’arcipelago dei Bijagó, sostengono che la pratica dell’infanticidio diuno dei gemelli è piuttosto diffusa, ma sta lentamente scomparendo.

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dio, in questo caso accettato come necessario per la sicurezza delgruppo, avverrà in genere per soffocamento o annegamento, in ognicaso senza spargimento di sangue e senza il coinvolgimento della ma-dre.

Stessa sorte condividono i bambini malformati, che vengono con-siderati spiriti erande dall’aspetto animale. In diciotto mesi di per-manenza sul terreno mi è capitato una sola volta di vedere un bam-bino ritenuto erande, il quale presentava un’evidente macrocefalia,tanto che il suo aspetto era paragonato a quello di una pastinaca. Imiei interlocutori mi hanno fornito due spiegazioni per giustificarela nascita di un bambino-erande: una prevede l’intervento umano,l’altra l’azione diretta degli erande. Secondo la maggior parte degliuomini con i quali ho affrontato la questione, le donne stesse posso-no essere responsabili per queste nascite ‘devianti’: in primo luogole iabané (in questo caso definite iakanto iabén ta kunsaro, ‘donneche hanno un malvagio comportamento’ e iakanto ianiné, ‘donnedallo sguardo penetrante, invidiose’), in quanto dotate del potere diagire sugli altri; in secondo luogo le donne comuni, gelose o deside-rose di vendicarsi di qualche offesa, che agiscono attraverso la me-diazione di un omadók. Se colpita da queste maledizioni, una donnapotrà partorire più volte di seguito degli erande, che si riconosce-ranno, oltre che dall’aspetto animale, anche da determinati compor-tamenti disumani, come il desiderio di sangue, il pianto eccessivo,l’insonnia, l’inquietudine. Le mie informatrici concordano in partecon quest’interpretazione, ma sostengono che il più delle volte la na-scita di un bambino-erande è dovuta all’azione e alla volontà di unodi questi spiriti. Gli erande vivono infatti vicino ai corsi d’acqua, inluoghi freschi ai margini della foresta o addirittura nelle fonti d’ac-qua dolce, in attesa di poter entrare nel corpo di una donna che stafacendo il bagno. Una volta nel suo ventre, l’erande potrà sostituirsiall’orebok nel dare vita al bambino. Questo modo di vedere è suf-fragato dalle regole cui si attengono le donne gravide, le quali nonentrano volentieri nell’acqua per paura di poter concepire un eran-de. Se l’erande riesce a entrare nel ventre di una donna che si lava auna fonte, questa potrebbe iniziare a sentirsi male, manifestando lapresenza aliena nel suo corpo: in questo caso si potrà intervenire in-terrompendo la gravidanza attraverso piante abortive15. Nel caso in

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15 La conoscenza riguardante le piante abortive, delle quali si fa un discreto usonell’arcipelago, è generalmente segreta o poco divulgata: in ogni caso si tratta di

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cui non si riuscisse a intervenire prima della nascita, sarà bene con-segnare il neonato deforme all’acqua il più presto possibile, come siscarta un oggetto mal riuscito. I miei informatori mi hanno raccon-tato inoltre una pratica tuttora diffusa in tutta la Guinea Bissau, no-nostante che sia stata proibita durante il periodo coloniale, per veri-ficare la natura del bambino, in caso sussistano dei dubbi:

si lascia macerare in acqua della farina di riso per qualche ora, si aggiun-ge del siti – olio di palma – e si formano delle polpette che verranno ri-poste in una zucca. In alternativa, si potranno usare delle uova sode. Siporta poi il bambino sulla riva del mare durante la bassa marea e lo si la-scia lì a mangiare le polpette o le uova, mentre, nascosti, lo si osserva pervalutarne le reazioni. Se il bambino piange, allora è un essere umano; serimane fermo finché l’alta marea lo inghiotte, vuol dire che è un erande eche è ritornato nell’acqua, la sua vera dimora.

In tutti questi casi non verranno eseguiti i rituali funebri e la ma-dre non dovrà piangere, per evitare un possibile ritorno dell’erandenel suo ventre, nel caso di una nuova gravidanza. Per lo stesso moti-vo è bene che questi bambini muoiano prima che abbiano raggiun-to la capacità di distinguere la madre dalle altre persone, altrimentipotrebbero ricordarsi di lei e ritornare nel suo corpo.

4. Lacrime piene di pensieri

Piangere la morte di qualcuno, come abbiamo visto, può avere ef-fetti significativi sul destino del defunto e dei superstiti. Il pianto èconsiderato da tutte le persone con cui ho parlato sul terreno, unarisposta consueta e normale quando si prova dolore, nostalgia e intutti quei casi di grande coinvolgimento condensati nell’espressione‘essere cuore’ (n’onam konó). Una risposta ‘normale’, non significaperò, per i miei interlocutori, qualcosa di completamente naturale eistintivo. Per quanto la lingua bijagó possieda un unico terminen’odag, per indicare sia il piangere, sia il verso di alcuni animali (i piùrappresentativi sono gli uccelli, i bovini e i gatti), i Bijagó ci tengonoa specificare sempre se si tratta di n’odag kan nhea, ‘pianto dei neo-

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competenze esclusivamente femminili. Per quanto ho avuto modo di sapere nelcorso dei miei soggiorni, è molto utilizzato il decotto delle foglie di ekonto erado(Combretum micratum).

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nati’; n’odag kan iakotó, ‘pianto degli adulti’ o n’odag kan mokoma,‘verso/pianto degli animali’. Secondo Pedro, infatti, il verbo n’odagda solo non è sufficiente a spiegare di quale pianto si tratti e le dif-ferenze tra i diversi pianti sono molto importanti.

La prima questione che i miei interlocutori sottolineano è che «ilpianto dei neonati è come il verso degli animali». I neonati e i bam-bini piccoli, che ancora non sono socializzati e non hanno quindin’atribá, certamente piangono, ma si tratta di lacrime senza una re-lazione con gli eventi sociali, il pianto di chi «non comprende l’im-portanza delle cose». Per questo il pianto dei neonati è consideratoin qualche modo paragonabile a un verso animale: è un lamento deltutto dipendente da necessità fisiologiche, da fame, sete o disagio fi-sico. «È un pianto come quello di chi ha qualcosa in un occhio – mispiega Koká – non come quello di chi soffre per la morte di qualcu-no, e quindi non è veramente umano; solo il n’odag kan iakotó è ilpianto di chi ha pensieri-sentimenti.»16 Infatti, quando un bambinopiange urlando in modo incontrollato – mi dicono alcune donne par-lando dell’educazione dei loro figli – deve essere immediatamente ri-preso e pubblicamente biasimato, in modo che acquisisca in fretta alivello corporeo un habitus, inteso come disposizione a piangere nelmodo appropriato in qualsiasi circostanza17. Come abbiamo sottoli-neato, gran parte della socializzazione primaria è diretta a imprime-re una forma esteticamente apprezzabile al comportamento e alla ge-stualità: il pianto dei bambini deve presentare al più presto un suo-no tipicamente ‘umano’. Sono necessari anni al bambino prima cheil suo corpo si adatti completamente alle norme estetiche che mo-dellano l’ambito sensoriale ed emozionale della sofferenza, e in ognicaso si tratta di un apprendimento progressivo, modellato a secon-

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16 «Perché piangiamo? La mia risposta in breve è perché pensiamo. Le lacrimeemozionali sono mediate dal pensiero: ciò non vuol dire che siano il prodotto di uncalcolo o una deliberazione consapevole, ma che dipendono da come noi perce-piamo il mondo, da come noi valutiamo gli eventi» (Neu 1987: 35). Le lacrime so-no state classificate di tre tipi: c’è una lacrimazione continua che serve a lubrifica-re la cornea; ci sono lacrime causate da contrazioni spasmodiche dei muscoli orbi-tali, che espellono dagli occhi oggetti estranei o sostanze irritanti; e ci sono lacrimelegate ai sentimenti, definite anche ‘psicogene’, che si differenziano a livello chimi-co dalle altre per un maggior contenuto di proteine o ormoni rilasciati in rispostaalla sollecitazione psicologica (Frey e Langseth 1985).

17 Anche la felicità (n’osamaki ta bú, stare bene, avere ragione nella testa) e il ri-dere (n’odés) devono essere controllati, in quanto l’esuberanza e l’esaltazione(n’onaók, essere esagitato, entusiasta) sono considerate inappropriate.

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da dell’appartenenza di genere e dei differenti ruoli che l’attore do-vrà assumere nel corso della sua esistenza.

Intorno ai cinque anni, il pianto avviene già secondo un modelloben preciso e assolutamente culturale, modulato su due note di ba-se raggiunte attraverso un glissato di un tono e separate da un inter-vallo di V aumentata (in genere DO# e LA). È questo il pianto degliadulti (n’odag kan iakotó), una manifestazione di dolore appropria-ta, controllata, appresa, e quindi, in qualche modo, ‘performativa’.Ripensando alla mia esperienza sul terreno, forse uno degli aspettipiù sorprendenti era proprio il sentire piangere in questo modo me-lodico sia per esempio una ragazzina in lacrime dopo una severa pu-nizione, sia una donna che si era ferita al braccio, sia una madre perla morte di suo figlio. Un altro elemento importante di questa edu-cazione al pianto è tuttavia quello della differenza di genere: comein altri contesti, infatti, anche per la maggior parte dei miei infor-matori è considerato inappropriato che i maschi piangano, in quan-to segno di una debolezza tipicamente femminile, inadatta a un idea-le andropoietico che vede in ogni uomo un guerriero. Il kutribá deldolore, il piangere, il lamentarsi e le posture corporee associate allasofferenza, come tenere le mani incrociate sul petto o dondolare rit-micamente il corpo, sono infatti considerati appropriati piuttosto al-le donne. Ciò nonostante, si può affermare che queste convenzioni,che per un verso ci dicono molto sui valori estetici incorporati, perl’altro non esauriscono l’esperienza dei singoli: in molte occasioni hovisto uomini piangere di fronte a tragedie personali o comportarsi ingenerale in modi che non rientravano nelle regole dell’etichetta.

Il pianto culturalmente appreso può essere dunque interpretatocome un linguaggio e non solo come il semplice riflesso di un ma-lessere: ci troviamo infatti di fronte a una norma estetica, che dà unaforma precisa alle modalità secondo le quali le persone esprimono laloro sofferenza. Il pianto umano opportunamente modulato è inol-tre associato a un altro ‘pianto’ considerato armonioso ed estetica-mente appagante: quello degli uccelli. Il canto degli uccelli non è in-fatti considerato solo un piangere (n’odag), ma anche un cantare(n’orai), che, secondo i miei informatori, evoca in modo particolar-mente appropriato sentimenti che hanno a che vedere con la perdi-ta, l’abbandono, la partenza18.

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18 Si veda a questo proposito il caso per molti versi simile dei Kaluli della Nuo-va Guinea, illustrato da Steven Feld (1982).

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‘Diventare o essere come un uccello’ o ‘piangere come un uccel-lo’ sono espressioni tipiche per rappresentare colei che piange per laperdita di una persona cara: ‘la donna piange come un corvo’; ‘ladonna piange per dolore e diventa un uccello’; ‘ho perso il control-lo per dolore, e quindi io sono come un uccello’; ‘l’uccello si è stan-cato di piangere, io non mi stanco di piangere e continuo a cantare’.Mentre i rituali funebri hanno ricevuto un’ampia attenzione neglistudi antropologici, a partire dalle tesi ormai classiche di RobertHertz (1907) e Arnold Van Gennep (1909), l’espressione del doloreè un aspetto che è stato piuttosto trascurato. Richard Huntington ePeter Metcalf, autori del celebre libro Celebration of Death. TheAnthropology of Mortuary Ritual ([1979] trad. it. 1985), hanno so-stenuto che questo dipende dal fatto che gli antropologi sono malequipaggiati per occuparsi degli stati emotivi, in quanto si trovanodi fronte alla «sconcertante combinazione del familiare e dell’insoli-to, dell’universale e dello specifico culturale» (trad. it. 1985: 77, 99).Se sono state dedicate diverse monografie alle lamentazioni funebrifemminili, particolarmente in area mediterranea19, non vi è pratica-mente nessuna ricerca etnografica riguardo a modalità di pianto cul-turalmente definite secondo canoni estetici. Uno dei rari casi di‘pianto appreso’ presenti nella letteratura etnografica è quello deiGusii dell’Africa Occidentale, descritto da Robert LeVine:

un pianto lungo e forte con uno stile melodico ritmico distintivo [...].Non c’è nessuna distinzione tra un pianto di questo genere è quello chenoi possiamo considerare un pianto ‘spontaneo’. Una volta ero con unadonna quando questa apprese la notizia che suo figlio di quattro anni erastato ucciso da una macchina: immediatamente cominciò a piangere nel-lo stile standard dei Gusii e lo mantenne per tutta la durata del periododi più intenso dolore. Anche in altre occasioni ho osservato persone pian-gere in questo modo senza mai passare a uno stile che noi potremmo con-siderare più ‘naturale’. Non ci sono ragioni quindi per credere che que-sto pianto convenzionale non sia una manifestazione spontanea di dolo-re per i Gusii (1982: 51).

Un’altra espressione di dolore culturalmente appresa nella so-cietà bijagó, elemento sonoro ricorrente nei contesti del lutto, è ilparticolare urlo delle donne, caratterizzato da brevi grida ripetute in

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19 Tra tutti, si veda De Martino 1958.

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falsetto, connesso anche ad altre circostanze in qualche modo cari-che di emozioni, come i rituali di iniziazione e di possessione o co-munque a ogni tipo di situazione in cui le strutture della vita quoti-diana vengono riconfigurate pubblicamente. Per quanto il precisosignificato sociale di questa forma d’espressione dipenda chiara-mente dalle circostanze nelle quali viene prodotta, si tratta tuttaviasempre di un’azione che indica a ogni ascoltatore che un evento digrande rilievo psicologico è in corso, tanto che coloro che sentonoquest’urlo interrompono ciò che stanno facendo.

In conclusione di questo paragrafo, poiché sono stati utilizzatitermini quali ‘convenzionale’, ‘appreso’, ‘performativo’, è importan-te sottolineare che se anche le persone esprimono il proprio dolorein modalità culturalmente definite, ciò non significa che chi è colpi-to da un terribile lutto si limiti a comportarsi in modo conforme al-le convenzioni. L’immagine che potrebbe emergere in quest’ultimocaso è quella di persone che di fronte alla perdita di un familiare silimitano a dare vita a rituali appropriati, a seguire una convenzione,senza alcun coinvolgimento personale.

Renato Rosaldo, il quale ha duramente criticato gli approcci an-tropologici che riducono le reazioni di fronte alla morte presso ‘glialtri’ a un rituale convenzionale, o peggio ancora ‘obbligatorio’, eli-minando dal campo di interesse le affermazioni e le intense emozio-ni delle persone coinvolte, ci mette in guardia da

discorsi avventati sulle espressioni di dolore culturalmente prevedibili,(che) si trasformano con estrema facilità in un atteggiamento di scettici-smo riguardo alla realtà delle emozioni espresse: è sin troppo facile sop-primere la forza emotiva presente in forme di vita anche convenzionali af-fermando che si tratta solo di convenzioni, come se le emozioni intensefossero semplici recite ([1989] trad. it. 2001: 107).

Avendo assistito sul campo alla morte di diverse persone del vil-laggio e avendo condiviso spesso il dolore della famiglia, mi sembradi poter affermare che una distinzione tra ‘pianto naturale’, legato asentimenti sinceri, e ‘pianto convenzionale’, inteso come espressio-ne formalizzata di sentimenti appropriati alle circostanze, si riveli as-solutamente inadeguata. ‘Appreso’ e ‘culturale’ per i miei interlocu-tori non significano ‘falso’ e ‘simulato’: al contrario, si tratta di unpianto legato all’espressione immediata di pensieri-sentimenti in-

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tensi e reali, intima conseguenza di un apprendimento sociale incor-porato.

5. Il suono del pianto e le parole della morte

Se già il pianto delle persone adulte, il pianto veramente ‘umano’,rientra nei canoni di quella che abbiamo definito una ‘estetica in-corporata’, i ‘canti funebri’ (nraw ankataba, letteralmente ‘i canti nelluogo del cadavere’) si rivelano la modalità esteticamente privilegia-ta di espressione della sofferenza nel contesto del lutto. SecondoKoká, Obennó, Babú e Mina, le anziane cantanti che si sono rivela-te preziose informatrici e delle quali parleremo dettagliatamente piùavanti, è importante distinguere tra lamenti rituali (kárina) e canti fu-nebri (nraw ankataba). Entrambi vengono eseguiti sulla scena dellutto e sono considerati modalità di espressione emozionale attese esocialmente approvate.

Le lamentazioni femminili kárina, nelle quali tutte le donne espri-mono la loro partecipazione al dolore della famiglia del defunto mo-dulando continuamente e all’unisono le note che caratterizzano ilpianto, sono considerate dai miei interlocutori una manifestazionepubblica dell’affetto e dell’amicizia nei confronti del morto (oppor-tuna anche per eludere sospetti e accuse) e un modo per stringersiattorno ai familiari. Tutte le donne del villaggio, indipendentemen-te dai loro rapporti con la famiglia del defunto, partecipano a que-sta lamentazione, che avviene immediatamente dopo la morte e cheannuncia la triste notizia a tutta l’isola.

I canti funebri, invece, cantati dalle donne ritenute più abilinell’arte di esprimere e comunicare il dolore a tutta la comunità, ven-gono generalmente eseguiti all’interno dell’annani, in uno spazioperformativo distinto dalla presenza del cadavere e nel quale la di-stanza fisica dal corpo rispecchia la misura della distanza affettiva edi parentela. Le parenti più prossime siederanno accanto al defun-to, mentre le altre donne si disporranno in cerchio stringendosi in-torno alla famiglia; gli uomini e gli ospiti occasionali verranno invi-tati a rimanere nella veranda. Ciò che mi sembra interessante è chequesti canti siano estremamente apprezzati dal punto di vista esteti-co, al punto che tutti hanno un parere su quali sono le canzoni e lecantanti migliori, considerate delle vere ‘professioniste’. SecondoPedro, per esempio, le cantanti più apprezzate sono quelle «che rac-contano storie drammatiche così bene da portare il pubblico alle la-

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crime». Secondo Koká, una delle migliori soliste dell’isola, per di-ventare una cantante funebre eccellente è necessario «aver vissutouna vita difficile, perché l’esperienza personale di un intenso doloreè necessaria per trasmetterlo agli altri».

Nel precedente capitolo abbiamo sostenuto che, per quanto nonin termini assoluti, il dolore viene considerato un sentimento preva-lentemente femminile: nelle conversazioni informali spesso le donneaffermano che le loro vite sono molto più difficili di quelle degli uo-mini. La voce femminile, modulata in un canto che ricorda il pian-to, viene inoltre giudicata particolarmente appropriata al contestodel lutto: è una voce che «piange con le parole», che ha «il suono delpianto e le parole della morte», come dicono le soliste di Bubaque.Non dobbiamo dimenticare infine l’importanza che i Bijagó attri-buiscono alle parole, ai suoni e all’udito, il senso sociale per eccel-lenza. Il suono viene considerato infatti una modalità privilegiata dicomunicazione con il mondo dei morti e in tutti i rituali bijagó al suo-no delle parole vengono attribuiti poteri molto speciali. Le donnesanno comunicare con i morti anche in quanto conoscono il loro lin-guaggio: durante i periodi di possessione infatti adottano un lin-guaggio particolare, una ‘distorsione’ del bijagó, in cui vengono usa-ti termini comuni dotandoli di un significato differente, talvolta op-posto, molto difficile da comprendere per coloro che non sono sta-ti iniziati. Nei canti funebri le cantanti utilizzano spesso, rivolgen-dosi al cadavere, espressioni e metafore che appartengono al lin-guaggio degli iarebok20.

Aver avuto molte esperienze drammatiche è dunque un requisi-to fondamentale per cantare in modo veramente commovente, alpunto che tutte le cantanti dell’isola, come vedremo meglio nel pros-simo paragrafo, sono orfane, vedove e hanno perduto i figli in mo-do tragico. Si tratta generalmente di donne anziane, dai «cuori bru-ciati dal dolore», poiché hanno avuto molte esperienze di lutti e sof-ferenza nella loro vita: non avranno pertanto bisogno di sforzarsi pertrasmettere tristezza agli altri e orchestrare l’esperienza collettivadella morte. Esprimere tutta questa sofferenza nel canto, attraversomodalità appropriate, formali e ‘tradizionali’, permette inoltre alle

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20 C’è una certa preoccupazione diffusa riguardo alla possibilità che questaperformance al di fuori del contesto rituale prescritto (legato a una sepoltura ed ef-fettuato nella stanza centrale della casa) possa causare una nuova morte nel villag-gio o aprire comunque canali pericolosi di comunicazione tra i vivi e i morti.

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donne di arginare i pericoli del mancato controllo: quasi tutte le so-liste infatti, in un periodo della loro vita, hanno rischiato di perderel’orebok, di ammalarsi, di ‘morire di dolore’. Attraverso il velo pro-tettivo della forma poetica, sembrerebbe dunque che la pericolosaintensità del dolore, che può corrodere l’energia vitale fino a spe-gnerla, possa essere dominata. Non solo, ma l’esperienza collettivadi un dolore espresso attraverso i canali appropriati, sembrerebbeessere considerata esteticamente appagante, se è vero che, come di-cono molti dei miei interlocutori, «le canzoni o i racconti che parla-no di storie tristi e commoventi sono belli». Il canto costituisce an-che la modalità privilegiata attraverso la quale tutte le donne affron-tano collettivamente la perdita, unendosi al coro: ai canti viene in-fatti attribuito il potere di evocare sentimenti capaci sia di creare siadi alleviare la sofferenza personale, agevolando il passaggio dal do-lore al conforto. In questo senso i canti funebri possono essere in-terpretati come mezzi culturalmente definiti per controllare e alte-rare consapevolmente sentimenti che possono causare malattia, paz-zia, morte: non dimentichiamo che i locali stessi collegano la pre-sentazione e l’elaborazione dei sentimenti in modo altamente for-malizzato alla necessità di dominare la violenza di certi n’atribá.Questo tentativo di modellare e dominare i propri sentimenti e lapropria sensibilità, orientandoli in una direzione definita, rientranell’etica del controllo che sottende l’etnopsicologia bijagó. Comevedremo meglio nel prossimo capitolo, si può parlare di una vera epropria ‘estetica tragica’21, in quanto il dolore è probabilmente ilsentimento più narrato e ‘cantato’, e non solo dalle donne. Potrem-mo ipotizzare che questa predilezione per argomenti drammatici di-penda dal fatto che, più di altri sentimenti, il dolore necessita di unaparticolare elaborazione per permettere alle persone di esprimerlo emetabolizzarlo, sopportandone la forza distruttiva. Il linguaggiopoetico riservato al canto permette infatti di affrontare aspetti dellavita che generalmente non vengono espressi nella quotidianità: la ri-luttanza a rivelare n’atribá quali il dolore, il desiderio, la gelosia, de-riva da un lato dal timore di esporsi personalmente e di poter quin-di essere vittima di ‘stregonerie’, dall’altro dal rispetto della normaetica del controllo e dall’idea che certi sentimenti, come il dolore,possano ‘incollarsi’ al corpo e trasmettersi agli altri, rivelandosi pe-

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21 Grima 1992: 143.

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ricolosi per se stessi e per l’intera comunità. Le parole contenute nel-le canzoni, inoltre, evocano dolorose memorie individuali ed emo-zioni potenti associate alla morte che, presentate attraverso una for-ma estetica condivisa e appropriata, si trasformano in interpretazio-ni pubbliche di eventi ed esperienze comuni. Si tratta di quello cheTullia Magrini ha definito ‘lavoro del dolore’, ossia un’elaborazionedel dolore conforme a un codice estetico di comportamento, che haun significato profondo sia per i familiari del defunto sia per l’inte-ra comunità (Magrini 1998). Il canto funebre non è quindi un sem-plice riflesso delle esperienze e dei sentimenti della persona che stacantando, ma è soprattutto un’espressione in termini condivisi e inuna forma convenzionale, attraverso la quale gli individui proclama-no la loro similarità agli altri e asseriscono l’universalità delle loroesperienze. In questo senso, il lamento non è soltanto indice di unsentimento di perdita, ma suggerisce un desiderio di socialità, diunione, di supporto sociale all’individuo ferito.

L’elemento che le stesse cantanti maggiormente sottolineano èl’importanza della polifonia, del cantare insieme, della tensione dia-logica tra la voce della solista, che parla di questioni intime legate al-la sua biografia e memoria personale, e quelle del coro, risposta col-lettiva che crea condivisione di eventi e di identità. La sofferenza in-dividuale viene così a trovarsi canalizzata, controllata e successiva-mente attenuata, attraverso quel «lavoro della cultura» di cui parlaObeyesekere: esso trasforma «motivi dolorosi e affetti quali quelliche si presentano nella depressione... in costellazioni pubblicamen-te accettate di significati e di simboli» (1985: 147), permettendo aldramma individuale di venire dislocato in un racconto comune.L’esigenza di arginare l’irruenza di emozioni potenzialmente di-struttive si può ben comprendere nel caso della morte, evento chemette duramente alla prova i singoli individui, i quali devono sop-portare la perdita e reagire ai sentimenti di dolore e rabbia, e l’inte-ra comunità, scossa non solo dalla perdita di uno dei suoi membri,ma anche dalle tensioni e angosce che nascono tra le persone del vil-laggio. La rabbia che sorge nel dolore dei cacciatori di teste ilongotdel Luzon settentrionale (Filippine), di cui Renato Rosaldo ha mol-to parlato (1984, 1989), sarebbe pienamente compresa dai Bijagócon i quali ho affrontato il tema della perdita di una persona cara.Secondo gli anziani, «in quel tempo antico nel quale gli uomini nonavevano la legge, quando moriva qualcuno la rabbia, che nasceva daldolore non controllato, veniva sfogata in omicidi e atti di violenza tra

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famiglie, che davano origine a lunghissime faide. Oggi invece le co-se non stanno più così: con la legge non si può uccidere quando siha desiderio di farlo». Ciò nonostante, i giorni immediatamente suc-cessivi alla morte sono carichi di ostilità, inquietudini, risentimenti esospetti. Spesso, nonostante tutte le regole e il biasimo morale, mi ècapitato di assistere a cerimonie di divinazione e rituali di interroga-zione del morto, che si sono trasformati in violenti litigi.

Dopo aver affrontato la possibilità che la morte sia stata causatada qualche iabané o dall’azione di qualche parente o vicino geloso, ifamiliari del defunto si confrontano col timore che il fantasma delmorto possa cercare vendetta provocando problemi nel mondo deivivi, in particolare tra le persone più seriamente colpite dal lutto. Ab-biamo visto precedentemente, per esempio, che il piangere eccessi-vamente per la perdita di una persona cara può fare ammalare e alcontempo rendere più difficoltosa la dipartita del morto per l’aldilà,al punto che questo assumerà l’aspetto inquietante di un fantasma,la cui presenza disturberà tutto il villaggio. Al contrario, se la mortenon viene considerata affatto e non viene adeguatamente compian-ta, lo spirito non appagato potrebbe vendicarsi sui suoi discendenti.I canti del cordoglio, che danno voce e forma ai sentimenti relativialla perdita, nel momento particolare di separazione in cui il cada-vere viene posto nella fossa, costituiscono il nucleo della reazionedella comunità alla minaccia che la morte rappresenta per la vita co-mune e il benessere dei singoli. In questo senso, i canti possono es-sere considerati come la pratica più appropriata alla gestione delcommiato e all’accettazione della morte: i vivi hanno subíto una gra-ve perdita e il lamento è sia l’espressione di questa perdita sia un ten-tativo di superarla, facendo qualche cosa con le parole (Austin1962).

6. Le professioniste del dolore

I canti funebri sono dunque una pratica molto formalizzata, al pun-to che ci sono addirittura delle professioniste, chiamate a cantare neivari villaggi in occasione dei funerali, perché sanno eseguire motiviprofondamente tristi, che inducono in tutti sentimenti di malinconiae dolore, creando un senso positivo di coesione e comunione di espe-rienze. Le storie che questi canti raccontano sono legate ai trascorsipersonali delle singole interpreti: caratteristica delle migliori lamen-tatrici è quindi l’aver vissuto una vita particolarmente drammatica,

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di modo che riescano in qualsiasi occasione a ricreare un’atmosferatragica e coinvolgente. Le lamentatrici di Bubaque, invitate e retri-buite per cantare in tutti i funerali, sono sei donne anziane prove-nienti da diversi villaggi dell’isola.

Di tre di loro abbiamo già parlato nei precedenti capitoli, rac-contando alcuni episodi della loro vita: si tratta di Koká e Babú, ori-ginarie del villaggio di Ankamona, e di Obennó, che viene invece daBruce. Da molti anni abitano tra il villaggio di Bijante e la praça, do-ve risiede anche la quarta solista, Mina, un’anziana nata a Tcharo,l’interprete più apprezzata di tutta Bubaque. Le ultime due cantan-ti, Nabon’a e N’oré, invece, continuano a vivere nei loro villaggi na-tivi, rispettivamente Bijante e Ankamona. Sapendo che ero interes-sata ad ascoltare il loro repertorio, Koká, Babú, Obennó e Nabon’a,che conoscevo già da alcuni anni, mi presentarono alle altre due la-mentatrici, che invece avevo incontrato raramente e solo in occasio-ni molto formali. Poiché non mi sembrava opportuno registrare icanti in occasione dei funerali, ai quali preferivo partecipare comeamica e vicina, piuttosto che come antropologa, decidemmo di in-contrarci tutte in un contesto più neutro e Koká propose di ritro-varci a cantare all’interno della sua casa. La soluzione mi parve ade-guata, anche perché mi interessava farmi commentare sia i versi e lemetafore per me di difficile comprensione sia le stesse tecniche ese-cutive, collegando al repertorio di ciascuna interprete il racconto de-gli eventi più drammatici della sua vita22. Koká ci accolse nell’anna-ni e ci invitò a sedere in cerchio attorno alla stuoia, sulla quale ave-vo posizionato il registratore. Insieme cantarono, alternandosi traruolo di solista e coro, i loro canti funebri, rivolgendosi ora al ‘pub-blico’, per quanto ridotto, ora alla stuoia, immaginario cadavere, divolta in volta figlio, marito o genitore perduto.

Per quanto ogni solista, autrice del canto, abbia uno stile e un re-pertorio individuali, esistono diverse caratteristiche strutturali co-

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22 Riprendendo una distinzione formulata da Benedicte Grima (1992: 116), nonintendo proporre qui delle ‘life histories’ (lunghe narrazioni della vita di una per-sona, sollecitate dall’antropologo e registrate in diverse interviste), quanto piutto-sto delle ‘life stories’ (brevi racconti orali, nei quali la narrante sceglie gli eventi cheritiene più significativi in relazione al contesto). Sottolineare questa distinzione misembra rilevante poiché, mentre il primo è un documento ‘costruito’, in quanto ge-nere narrativo non proprio dei parlanti, il secondo è una forma di racconto che ap-partiene alle modalità discorsive locali, per quanto in questo caso prodotto in se-guito alla sollecitazione dell’antropologo.

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muni23. In primo luogo, le melodie dei canti sono basate sul penta-tonismo non temperato e hanno una struttura responsoriale, ossia ilcoro ripete le ultime parole o l’ultima frase della solista. La parte co-rale, evidentemente polifonica, è caratterizzata da ostinati melodicie da una specifica cadenza, che accomuna tutti i canti analizzati in-dividuandoli come genere e che è parente del pianto degli adulti dicui abbiamo parlato in precedenza. La struttura ritmica è evidenzia-ta dal battito delle mani, e talvolta, da un idiofono costituito da unapiccola zucca riempita con i semi di una pianta chiamata kamudú(appartenente alla famiglia delle Leguminosae), comunemente uti-lizzata per comunicare con gli spiriti dei morti. La struttura ritmicaè invece assente e comunque molto libera nella parte della solista,mentre si fa più precisa, con uno schema ritmico binario forte/de-bole, nella parte corale. Questa distinzione corrisponde a un’oppo-sizione più o meno marcata secondo la melodia tra tempo liscio delsolista e tempo striato del coro. La solista inoltre illustra il suo can-to con una gestualità corporea teatrale, convenzionalmente collega-ta al cordoglio, e con brevi monologhi che si rivolgono al cadavere,ai vivi, agli antenati. Battendosi sul petto le braccia incrociate e don-dolando continuamente il corpo, come per cullarsi, la solista rivolgeal cadavere domande retoriche, quali «Perché mi hai lasciato? Comefarò senza di te? Chi coglierà il riso per me? Che mi accadrà?». Op-pure chiederà al morto di ritornare, accusandolo di averla lasciata inun momento nel quale non si sentiva pronta o quando avrebbe do-vuto ancora prendersi cura di lei.

Le cantanti generalmente ripercorrono momenti della vita deldefunto, dipingendone le qualità o i difetti; lamentano sia la scom-parsa della persona amata, sottolineando la loro totale estraneità al-le circostanze della morte, sia la loro situazione attuale, accusando lealtre persone del villaggio di non dare loro il supporto necessario.Sono inoltre affermati o rinforzati legami tra i membri della comu-nità; sollevate domande sui rapporti tra vivi e morti e su questionimorali; avanzati sospetti nei confronti di parenti e vicini o accuse di-rette nei confronti di Nindo, il dio creatore. Spesso si producono di-scorsi complessi sul tema della morte e della rinascita, avanzandodubbi e chiedendo a Nindo o agli antenati la spiegazione, la giusti-

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23 Per l’analisi musicologica si ringraziano Lorenzo Bordonaro e il Maestro Ser-gio Pugnalin.

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ficazione, il senso di tanto dolore. Un dolore del quale cantano, nar-rando talvolta i percorsi e i sintomi di una sofferenza incisa nei lorocorpi malati, lacerati, senza equilibrio: un dolore tale per cui implo-rano Nindo di poter morire. Altrettanto spesso si criticano il com-portamento di amici e parenti e l’egoismo dei giovani, o si dichiara-no pubblicamente i problemi e le conflittualità nate in seno alla fa-miglia. L’aspetto convenzionale del canto funebre, nel quale le vocidella solista e del coro si fondono, offre alle donne l’opportunità diportare fuori dalla sfera privata non solo i dolori ma anche le ansie,i problemi, le critiche che vogliono rivolgere alle loro famiglie eall’intera comunità, esprimendoli ed elaborandoli pubblicamente inuna forma socialmente accettabile e con una voce collettiva. Il can-to funebre si rivela dunque non solo appropriato all’espressione diemozioni pericolose, ma capace di determinare effetti reali e impor-tanti, specialmente per la vita delle donne coinvolte. In questo sen-so, potremmo considerarlo un veicolo privilegiato di protesta, siaper la sua natura pubblica e collettiva, in quanto richiede la coope-razione di molte donne, sia per la frequenza delle occasioni, legataall’alto tasso di mortalità. Questo genere di critiche o accuse sareb-bero evidentemente considerate fratture della convenzione socialese avanzate al di fuori di quest’ambito rituale: il contesto del katabasembra dare quindi licenza alla dichiarazione pubblica di sospetti ebiasimi che normalmente non vengono espressi. Il dolore che le can-tanti provano, considerato indispensabile, viene utilizzato comestrumento di rivendicazione: la forza personale del dolore dramma-tizza vividamente i conflitti con l’ordine sociale e non c’è nessun mo-do per difendersi contro accuse avanzate da un gruppo di lamenta-trici. Così i canti fatti in occasione della morte diventano strumentiper dare voce alle questioni dei vivi, costituendo un dialogo tra la so-lista e il mondo che la circonda, in quanto, se anche le donne sonofisicamente raccolte nella stanza centrale della casa, le loro voci ven-gono facilmente udite da tutto il villaggio. Se sicuramente i canti so-no sia un’utile strategia retorica sia strumenti di coesione sociale,non dobbiamo però perdere di vista l’interpretazione locale: per lemie interlocutrici ciò che importa è la possibilità di dominare e co-municare attraverso il canto n’atribá potenzialmente distruttivi.

Il tempo verbale dei canti è generalmente il presente, ossia il mo-mento della morte e del dolore. Costanti espressive sono inoltre me-tafore che alludono al tema dell’abbandono, della perdita, della ma-lattia. Sebbene i testi includano alcune parole e frasi che apparten-

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gono al linguaggio quotidiano, la pragmatica e le possibilità inferen-ziali sono distinte: il linguaggio cantato si basa su immagini inter-pretabili in differenti modi, che sono contemporaneamente costrut-ti espliciti e nebulosi. In questo modo il pubblico viene invitato a di-ventare parte attiva del processo di costruzione e interpretazione deldiscorso.

Quando i canti vengono eseguiti ankataba ‘nel luogo del cadave-re’, le ragazze giovani siedono accanto alle donne più esperte e, ri-petendo con loro le frasi corali, per un verso imparano a esprimerepropriamente la sofferenza per la perdita, per l’altro sono costrettea confrontarsi col tema della morte. I canti considerati di particola-re successo per i loro meriti poetici, vengono inoltre spesso impara-ti a memoria, ricordati, conservati, cantati, discussi, alle volte co-scientemente usati per nuove composizioni. Le espressioni poetichee le immagini particolarmente suggestive vengono inoltre rielabora-te e riutilizzate più volte da tutte le soliste.

Tutti i canti delle sei interpreti ‘professioniste’ di Bubaque sonostati registrati, trascritti e tradotti in kriol nel marzo 2001, con l’aiu-to delle stesse interpreti e di Pedro Banca, figlio di Koká. Nel feb-braio 2002 cinque di loro (Mina era deceduta pochi mesi prima)hanno avuto modo di ascoltare e commentare le registrazioni dei lo-ro canti. Non potendo presentare in questo testo tutte le loro can-zoni, ho deciso di privilegiare quelle che le stesse professioniste, ri-tenendole più coinvolgenti e ‘contagiose’, mi hanno chiesto di ri-portare24. Il linguaggio poetico delle canzoni funebri è ritenuto in-fatti dalle mie informatrici in grado di ‘contagiare’ il pubblico, tra-smettendo visceralmente i pensieri-sentimenti del cordoglio. La-scerò all’azione coinvolgente delle loro canzoni il compito dirappresentare e comunicare al lettore la complessità e le sfumaturedella loro esperienza del dolore. E chissà che anche un lettore occi-dentale non ne rimanga contagiato.

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24 N’oré ha preferito che i suoi canti funebri non fossero registrati, per evitareeventuali problemi con il mondo dei morti (e quello dei vivi).

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APPENDICE25

1. Koká e la morte di suo figlio

Di Koká abbiamo diffusamente parlato nel precedente capitolo, ri-portando anche la sua narrazione della tragica morte del figlio, perla quale perdette il controllo e l’orebok. Riporterò quindi solamenteuna canzone, indicatami dalla stessa autrice, nella quale lamenta laperdita del figlio.

Gli abiti si lacerano su di metanto mi sforzo di andare alla fabbrica dei bianchi.

CORO

Si sforza di andare alla fabbrica dei bianchi,Koká si sforza di andare alla fabbrica dei bianchi.

STROFA

La gente implora la morte,ma la morte non cede e si porta via mio figlio.La morte è malvagia; non cede e si porta via mio figlio.Gli iarase26 aspettavano all’entrata dell’etute27,

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25 Per la versione bijagó dei canti si rimanda a Pussetti 2003.26 L’orase, letteralmente ‘il prigioniero’, è l’uomo scelto dalle donne possedute

per svolgere i lavori più pesanti durante la loro reclusione iniziatica. Poiché le don-ne possedute sono considerate iarebok, ossia spiriti di defunti, compito dell’orasesarà inoltre quello di permettere la comunicazione tra mondo dei morti (le posse-dute del tempio) e mondo dei vivi (la gente del villaggio).

27 L’etute è il luogo in cui i giovani offrono i beni per pagare i consigli degli an-ziani.

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le persone aspettavano all’entrata dell’etute,la gente implora la morte,ma la morte non cede e si porta via mio figlio.Lasciate riposare mio figlio nel luogo della morte,alzatevi, lasciate riposare l’orebok.La donna deve sopportare molte cose sul suo corpo,Oraga28 deve sopportare molte cose sul suo corpo.Nindo smetti di lottare con me,smetti di prenderti gioco di me.Il maschio è già partito per il cuore del mare29,lui parla, il sonno si mette a sedere e piange.

2. La morte del marito di Babú

Anche di Babú abbiamo raccontato alcuni episodi legati alla mortedel secondo marito e dei figli. Molte delle sue canzoni parlano deldecesso di suo marito Djon. Tra queste lei ha scelto un brano nelquale racconta la partenza per il mondo dei morti del marito, checonduceva la sua vita come un capitano, occupandosi di tutto. Lamorte del marito segna l’inizio della sua povertà: «l’unica cosa cheposso fare adesso per mangiare, è andare in foresta a cercare qual-cosa o chiedere a qualcuno di darmi del cibo e tagliarmi la legna, per-ché non ho più forze. Ma la gente di oggi non conosce il rispetto pergli anziani e vuole tenere tutto per sé. In questa canzone dico che setu hai perso la famiglia, anche in mezzo alla gente del villaggio sei so-la, non hai più nessuno. È una cosa molto triste, in mezzo a tanta gen-te non avere più nessuno. Perdendo mio marito non ho nessuno chesi occupi di me: per questo vado bussando di porta in porta a chie-dere la carità, tanto che la gente mi chiama Kamkponkpon, ‘colei chebussa alle porte’».

Il cielo ha già fatto giorno. Capitano,racconta al villaggio che cosa ti ha portato via:sento i passi delle donne, io non vado in viaggioo tu, che vieni da Ankamona,tutte le cose mi vanno male

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28 Nome del clan matrilineare, cui appartiene Koká.29 Il mondo dei morti è immaginato spesso come un luogo sotto il mare, tant’è

che nel linguaggio poetico viene talvolta definito kokpekentó, ‘il luogo sotto il ma-re profondo’.

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io piango povertà,io siedo sola al villaggio, io non ho un marito;io siedo sola al villaggio, io che non ho un figlio.Non ho nessuno al villaggio,gli isolani mi chiamano Kamkponkpon (bussatrice),perché io vado a bussare a tutta la gente.Anche il mio defunto se ne è andato, Kamkponkpon (bussatrice),io devo andare a bussare a tutta la gente.Con chi potrei parlare?Io continuo a soffrire dolore per mio marito,quando devo comprare delle cose e andare alla fonte,mio marito fa a pezzi la gonna mia30

e io, con chi potrei parlare?

3. Obennó e il pianto per i figli perduti

Nel capitolo precedente, parlando delle invidie che nascono all’in-terno della famiglia, abbiamo riportato la storia di Obennó, destina-ta a veder morire tutti i suoi figli e a essere tormentata da paure e so-spetti. Il canto che lei ha scelto riguarda però la sua difficile relazio-ne con l’altra moglie di suo marito, una donna che ha messo al mon-do molti figli e non ne ha perso nessuno. Così commenta la scelta diquesto canto: «non vorrei sembrasse che sono gelosa (nhirammó)della mia co-moglie (korammó), ma si sa come vanno le cose tra piùdonne nella stessa casa. Ma noi stavamo bene insieme, perché nostromarito era legato a entrambe e non c’erano problemi. Inoltre è brut-to parlare di queste cose, la gente può pensare male e possono na-scere molti problemi. Nella canzone racconto che quando io avevoperso tutti gli altri miei figli, lei mi indicava i suoi così belli e già gran-di. E mi scherniva cantando una canzone di Sidonio Pais, un artistadi qui, dicendomi che lei ha tanti figli e io nessuno. Ogni volta cheperdevo un figlio lei rideva e mi cantava quella canzone. E io allorale rispondevo: prima di prendermi in giro, sappi che è Nindo che de-cide, per la vita e per la morte. Io consultavo l’Orebok Okotó del vil-

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30 Strappare la gonna ha un doppio senso: in primo luogo si riferisce ai vestitiche si strappano dal corpo per la forza del dolore, in secondo luogo al fatto che ilmatrimonio significa togliersi la gonna di ragazza (che è considerata più bella) pervestire sobriamente come donna sposata.

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laggio, chiedevo dei figli e pregavo per la loro vita. Ma loro moriva-no e ogni volta che lei cantava lacerava il mio corpo. Non voglio par-lare di lei, preferisco non pronunciare il suo nome».

SOLISTA IN BIJAGO

O gente di Bruce, voi avete consultato l’orebok,l’orebok che mi ha fatto restare sola.O gente di Bruce, voi avete consultato l’orebok,l’orebok che non mi ha fatto avere un bambino: io non ho avuto un figlio, non ho avuto nessuno.Consultate ancora l’orebok,l’orebok che mi ha fatto restare sola.O gente di Bruce, se voi potete consultare l’orebok che mi ha fat-to restare solaiarebok, se voi potete consultare l’orebok,chiedete perché mi ha fatto restare sola.

CORO IN KRIOL

Ne ho, ne ho tanti di (bambini)ho i miei figli, ne ho molti, ho i miei figliho figlie femmine, ne ho molti,ho i miei figli.

SOLISTA IN BIJAGO

O gente di Bruce, voi che avete potuto consultare l’orebok, che miha fatto restare poverinavoi che avete potuto consultare l’orebok,l’orebok che mi ha fatto restare poverinal’orebok mi dice: se tu vuoi avere più figliè la morte che può restituirteli non ioè Nindo che può restituirteli non io.

4. Il lamento di Mina

Mina viene spesso indicata come l’interprete più commoventedell’isola. Non solo la sua vita è stata segnata da continue tragedie,ma la sua voce, lamentosa e soffocata «a causa del dolore che le strin-ge la gola», è considerata particolarmente coinvolgente. Siccome Mi-na non ha potuto sentire e commentare i canti registrati, mi limiteròa ricordare rapidamente gli eventi della sua vita, che mi sono stati ri-

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portati dalle altre donne. Dopo essere rimasta orfana ancora bambi-na, vedrà morire tutti i suoi mariti e figli. L’unico figlio che soprav-vive è mentalmente ritardato e alcolizzato. Tutte queste disgrazie ladistruggeranno, rendendola quasi incapace di condurre una vitanormale e di provvedere a se stessa. Quando io l’ho conosciuta, Mi-na era già una donna molto malata, che raramente rivolgeva paroleo attenzione a qualcuno, rimanendo per la maggior parte del temposdraiata su una stuoia.

Il toro31 è caduto,il maschio porta le mani alla faccia,il maschio non può più giocare con i figli,il toro è caduto e sporge le mani,non può più giocare con i figli.Il maschio è ferito gravemente,mio marito soffre.Suona tamburo sacro,fai avvicinare l’orebok dentro Nene32

suona tamburo sacro, fai avvicinare l’orebok dentro Nene,l’orebok di mia madre.Povero orebok di mia madre,quando piango l’orebok pericolosol’orebok rifiuta il legno (l’orebok rifiuta di incarnarsi)33

l’orebok di mia madre rifiuta il legno.

5. Le molte sofferenze di Nabon’a

«La prima cosa di cui voglio raccontare è del mio nome, Nabon’a,che significa che se un omadók prende il mio nome e lo porta nel luo-go in cui lega il koratrakó, quello per me non è un problema: se iomuoio andrò a trovare mio padre e mia madre nell’altro mondo e an-che tutti i miei figli. Se un omadók prende il mio nome non m’im-porta, morire non è un problema per me: questo è il significato delmio nome, Nabon’a. Sono già molto vecchia, ho settantaquattro an-

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31 La metafora è utilizzata per indicare in generale i suoi mariti.32 Nene è il nome della madre di Mina.33 Nel linguaggio metaforico delle possedute, il legno (n’unté), sta per il corpo

delle donne.

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ni. Inoltre la miseria (n’unummi konó) appartiene alla mia famiglia:io sono nata e tutti sono morti, prima che io crescessi, la mammaYmauk, mio padre, i nonni, e pure gli zii. Siamo rimaste io e mia cu-gina, sole al mondo. Cosa potevo fare? Allora mi sono sposata con ilfratello del famoso Banca, Banca il padre di Tcharte Banca, NhagbáBanca, e suo fratello che ho sposato si chiama Kumpandin’á Banca.Kumpandin’á è il mio primo uomo, siamo cresciuti insieme e io erosola, sai, non c’è nient’altro di peggio. Con lui ho fatto dei figli, masono morti tutti, a tre o quattro anni, bambini, sono morti tutti. Hopartorito cinque figli. Quattro sono morti a quella età, ma erano so-lo bambini. La quinta invece è morta donna, quando avrebbe potu-to aiutarmi: aveva già terminato il manras iarebok, e ora mi resta so-lo mio nipote, figlio di questa mia figlia. Mia figlia ha avuto due fi-gli, ma uno è morto subito e resta solo quest’altro, ma non fa nien-te, non aiuta. Se le cose andassero come nei tempi antichi, sarebbestato cresciuto per fare tutto, forare le palme, lavorare, coltivare il ri-so, fare tutto. Ha sedici anni, non è più un bambino! Ma adesso ètutto differente, i giovani si comportano come bambini, non hannorispetto, non ascoltano più. E lui non si preoccupa di sua nonna.Pensa, io non posso nemmeno cucinare, perché ho dei problemi conla schiena, non mi posso chinare, soffro anche questo dolore. Sonosempre stata malata (n’okojóke), con il dolore (ikojóke) che ho avu-to: dei medici mi hanno portata fino a Catiò per curarmi, ma non so-no riusciti, nessuno capisce di che cosa soffro. Sono andata da unodiáki: ho pensato che non poteva essere naturale questa sfortuna,che ci doveva essere un colpevole. Mi ha detto che viene dai paren-ti del padre dei miei figli, e io sono rimasta con il terrore (kobané)della famiglia di mio marito, specie di sua sorella, mia cognata.

Mia figlia invece, quella che è cresciuta, non mi ha mai fatto sof-frire, mai dato preoccupazioni; io già avevo dimenticato gli altriquattro morti da bambini, perché lei faceva tutto. Proprio tutto, ag-giustava le cose, cucinava, era rispettosa, non sbagliava in niente. Sichiamava Kanimisia. È di lei che canto e della malattia (n’okojóke)che mi ha causato Kanimisia, la figlia che ho perduto. Gli altri sonomorti così piccoli, non hanno avuto importanza, non facevano nien-te, non sapevano niente. Ma per le sofferenze causate da Kanimisiaho perso il controllo (nhimatrák eti moo, sono esplosa sotto le cose).Tutto il mio dolore-malattia è per Kanimisia. Se tu perdi un figliopiccolo, non ha importanza, ne partorirai un altro. Ma se perdi unfiglio grande perdi tutto, e perdi il controllo (n’okandaré, letteral-

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mente ‘lasciarsi andare’, ‘abbandonarsi’). Di questo canto nelle miecanzoni, di questo dolore. Per questo mio dolore quando le personefanno un funerale mi mandano a chiamare da qualsiasi villaggio e mioffrono tante cose come gratificazione, perché io ho conosciuto ildolore e lo porto attaccato a me. Sono molto conosciuta per questoa Bubaque. La mia prima canzone è per Kanimisia, mia figlia che èmorta adulta. Racconto di quando Kanimisia è morta: io non volevolasciarla andare, ho puntato i piedi per la morte di mia figlia, e cosìho perso il controllo e sono rimasta con questo dolore incollato alcorpo. Se indosso un abito, quando penso a mia figlia l’abito stringeil mio corpo e mi soffoca, tutto ciò che indosso si strappa, per la for-za del mio dolore che esce dal mio corpo. Ora mia figlia continua aguardarmi, osserva come mi comporto e vede che adesso camminocome un uccello, senza direzione, sbattendo qua e là spinta dalla for-za dei miei pensieri-sentimenti.»

Marito mio, la morte ha preso Kanimisia:abbiamo perso il controllo e per questo sono come un uccello.Marito mio, la morte ha preso Kanimisia,abbiamo perso il controllo e per questo sono come un uccello.Io non posso più camminare,perché sono come un uccello.Gli uccelli si sono già stancati di piangere, ma io continuo a cantare, perché ho tanta nostalgia di lei, nostalgia che ora è dentro di me.Tua madre ti chiama, ma tu non mi rispondie io resto disperata e sola tra gli altri; io piango nel mare di Bubaque, piena di dolore e sola con me stessa.La gente mi dice di smettere di piangere come un uccello, ma ormai ho perso il controllo per la morte di mia figlia. Dove posso andare se ormai cammino come un uccello?La gente mi dice di smettere di piangere e di cantare perché le donne conoscono la morte: le cose della morte sono cose di donne.

«Qui mi rivolgo a Hubassen, mia cognata, la sorella di mio mari-to. Hubassen mi dice di limitare le mie lacrime, di smettere di pian-gere, perché se non smetterò di piangere mia figlia mi ammalerò. Maio non voglio smettere di piangere, perché perdendo mia figlia sono

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rimasta senza niente. Se fosse stata una bambina piccola, allora nonl’avrei pianta perché sarebbe ritornata presto. Ma era una figlia gran-de, che cosa mi resta ora? Almeno le mie lacrime la terranno legataa me. Lo so, mi sono inimicata mia cognata e ho paura (kakpaná) del-la famiglia di mio marito: ho il terrore (kobané) perché quella fami-glia ha gente obané, che vuole farmi del male e hanno già pronun-ciato il mio nome.»

A chi parla Hubassen?Io non ho ancora smesso di piangere.Marito mio Sunkuton, Kanimisia,se voi vi sedete io taccio,ma cosa farò visto che gli iaraga raccontanomolte cose su di me?Povera me a causa degli iaragache raccontano molte cose su di me. A chi parla Hubassen?Di chi dovrei aver distrutto la casa (famiglia)? Povera me a causa degli iaragache raccontano molte cose false: io sono arrabbiata con voi.

«Qui parlo di un nome con cui la gente mi chiama, Kankininki.Il significato è una cosa triste, perché è ‘colei che chiede figli in pre-stito’ perché non ha figli suoi. Io chiedo figli in prestito per semina-re il riso, non ho più nessuno che semina per me, e la gente dice cheio non so fare altro nella vita che chiedere ai figli degli altri di lavo-rare per me.»

Io mi chiamo ‘colei che chiede in prestito’ gente per lavorare il mio campo di riso;io non faccio altro che chiedere in prestito un bambino che lavori il mio campo di riso;io non faccio altro che chiedere in prestito bambiniio che vado a chiedere in prestito qualcunoper lavorare il mio campo di riso.Non c’è isola in cui io non chieda in prestito un bambino per lavorare il mio campo di riso.Mi sono stancata di viaggiare per le isoleper chiedere in prestito un bambino per lavorare il mio campo di riso.

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«Questa canzone dice che la gente della praça quando mi vede di-ce ‘Coitade!’, ‘poveretta!’, e i Bijagó dicono ‘Koká!, poveretta!’,chiamandomi col nome della madre di Pedro. Allora io dico alla gen-te di non chiamarmi con quel nome: guardate la vera Koká che pas-sa sul sentiero, lei così sfortunata per il destino del suo nome, Koká.»

I cristiani mi chiamano Coitade (poveretta)i bijagó mi chiamano Koká (poveretta)l’okanden34 di Ankamona ha visto Kokáabbiamo visto l’okanden di Ankamonalei è Coitade, abbiamo visto l’okanden di Ankamona.

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34 L’okanden è una figura rituale legata alle cerimonie di possessione femmi-nili.

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Capitolo sesto

«Sveglierò gli uccelli della foresta grande al sorgere del sole».

Cantando d’amore e morte

Nel quarto capitolo abbiamo analizzato alcuni n’atribá pericolosi edifficili da dominare, a causa della loro intensità e impetuosità. Talisentimenti, come abbiamo accennato, possono tuttavia essereespressi in modo conveniente e sicuro attraverso i veli protettivi del-la forma poetica, rispettando cioè i criteri etici ed estetici locali dicontrollo (n’oboj), coerenza (n’ojir) e bellezza (n’oseney). Nel quin-to capitolo abbiamo parlato dei canti funebri come caso emblemati-co di ‘lavoro del dolore’, ipotizzando una locale predilezione esteti-ca per temi drammatici, che abbiamo definito, prendendo in presti-to un’espressione coniata da Benedict Grima (1992), ‘estetica tragi-ca’. Il dolore infatti per un verso necessita, più di altri sentimenti, diuna particolare elaborazione per essere metabolizzato; per l’altro,qualora convenientemente esternato, viene considerato coinvolgen-te ed esteticamente apprezzabile. Inscrivendo le proprie vicendepersonali in uno stile narrativo convenzionale e condiviso, il cantan-te rende narrabili e convenienti contenuti intimi potenzialmente di-struttivi, senza contravvenire alla norma del ‘controllo di sé’, sentitaa livello individuale come il valore fondante della propria ‘umanità’.

Il canto funebre delle donne non è tuttavia l’unico caso nel qua-le contenuti emozionali acquisiscono una forma poetica. In questocapitolo individuiamo infatti altri tre ambiti specifici nei quali lepersone, attraverso una forma altamente convenzionale e all’internodi uno spazio e un tempo rigidamente definiti, esprimono in modoappropriato n’atribá potenzialmente pericolosi: l’eraké ia n’aro, ilkundere e le esibizioni del suonatore di n’opaatra. Come nel caso deicanti funebri, le canzoni eseguite in questi contesti sono interpreta-te da solisti, accompagnati generalmente dal coro. I brani analizza-

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ti sono stati registrati nell’isola di Bubaque in differenti occasioni etrascritti successivamente con la collaborazione dei solisti, che han-no commentato ed esplicitato i passi più complessi e le metafore piùoscure.

1. L’«eraké ia n’aro»

L’eraké ia n’aro è un’esibizione pubblica associata al grado d’età ka-ro1, che riveste uno specifico significato all’interno della logica delpercorso iniziatico maschile (Bordonaro 1998). Questo grado d’età,cui appartengono i ragazzi indicativamente tra i quindici e i trent’an-ni e che precede l’iniziazione, viene considerato come il periodo piùpiacevole della vita di un uomo, nel quale si è giovani, esuberanti,forti e relativamente liberi dalle responsabilità della vita adulta. Que-ste caratteristiche sono ritenute dagli anziani segno dell’immaturitàe dell’inesperienza dei n’aro: per un verso quindi il loro comporta-mento talvolta infantile e irruente viene tollerato; per l’altro, non vie-ne loro concesso il diritto al possesso della terra, alla paternità so-ciale e a contrarre matrimoni definitivi (koneió). Potranno acquisirequesti diritti solo quando, al termine di un pesante periodo postini-ziatico di marginalità (il kabido), avranno appreso a comportarsi neimodi socialmente prescritti. «La maturità si paga e ce la si deve gua-dagnare»: è ‘pagando’ gli anziani in cambio dei loro insegnamenti,secondo la logica del n’obítr kusina, che si diverrà kassuká, uominiadulti, ragionevoli, sobri negli abiti come nel comportamento, re-sponsabili verso la famiglia e la comunità.

Il karo per il momento può istituire con le sue amanti solo rela-zioni temporanee (eshoní), che non prevedono la coabitazione deipartner. Durante il periodo dell’iniziazione verrà definitivamenteposto termine a questi legami e nessuna delle amanti precedenti po-trà diventare sua sposa in un futuro matrimonio koneió. Avere mol-ti rapporti eshoní costituisce motivo di vanto: spesso le braccia delkaro sono ornate con anelli di ferro, ottenuti dal martellamento dilattine di Coca Cola, che indicano il numero delle sue amanti. Il ka-

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1 Gli individui che raggiungono nello stesso momento il grado d’età karo co-stituiscono una classe d’età, i cui membri affronteranno insieme le cerimonie suc-cessive che segnano il passaggio da un grado d’età all’altro: ogni classe d’età riceveun nome che si estinguerà per sempre al venir meno di tutti i suoi appartenenti.

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ro riveste infatti tutti i caratteri della seduzione maschile: si supponesia forte, coraggioso, bello, abile nella danza e nel canto. Anche laprolificità è un elemento importante: la potenza generativa e sessua-le rientra in un sistema di valori che premia la valenza fisica. Perquanto anche i n’aro paghino per la loro ‘istruzione’ con pesanti pre-stazioni di lavoro, tuttavia l’autorità degli anziani viene da loro spes-so messa in discussione: abbiamo già accennato alle frequenti fugheverso la capitale in cerca di fortuna e alla loro difficoltà di control-larsi, seguendo la direzione indicata nei ‘consigli’.

Le caratteristiche fondamentali di questo grado d’età vengonoespresse in modo emblematico nell’eraké ia n’aro. Benché in questospettacolo siano coinvolti come musicisti e nel coro tutti i giovanin’aro, tuttavia solo uno di loro, scelto per le sue qualità artistiche,svolge il ruolo principale di danzatore e cantante solista. Il ballerinoindossa maschere realistiche e suggestive che rappresentano perico-losi animali marini (squalo, pesce martello, pesce sega) e terrestri (to-ro, vacca, ippopotamo, bufalo, zebù, antilope), in atteggiamenti ag-gressivi e di attacco: i suoi passi sono rapidi e tumultuosi mentreavanza tra i compagni in una nuvola di polvere, scalciando furiosa-mente e muovendo rapidamente il capo mascherato da una parteall’altra, minacciando il pubblico. Di tanto in tanto si arresta e, ri-volgendosi agli spettatori, intona con voce stentorea canzoni d’amo-re e di morte, di solitudine e lacrime per donne perdute, mentre glialtri n’aro rispondono in coro. I testi di queste canzoni sembrano po-co coerenti con lo stile della danza e con i simboli messi in gioco du-rante l’eraké: in contrasto con i caratteri di selvatichezza, forza e ani-malità, i canti dei n’aro esprimono poeticamente paura, sofferenza,solitudine. Se interpretiamo semplicisticamente l’eraké ia n’aro co-me una rappresentazione dello stato pre-sociale, della condizione dianimalità ed esteriorità rispetto al contesto civile propria dei non ini-ziati, come rendere conto allora della sensibilità e della ricercatezzadei testi delle loro canzoni? Gli atteggiamenti ferini del karo non so-no in aperta contraddizione con i sentimenti che egli esprime nellesue canzoni, come il dolore per la perdita o la paura dell’abbando-no?

Le risposte dei miei interlocutori locali a questo quesito hannomesso in luce che la ‘selvatichezza’ del karo non è affatto inconcilia-bile con la pubblica espressione delle sue sofferenze: tanto la vee-menza animale della danza quanto la definitiva resa all’impeto deipropri pensieri-sentimenti del canto, si situano ai margini della mo-

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rale del controllo. I due momenti della performance del karo rap-presentano infatti rispettivamente i pericoli dell’assenza e dell’ec-cesso di n’atribá. Il suo atteggiamento selvaggio esprime la mancan-za di pensieri-sentimenti ‘umani’: è il corpo lasciato privo di n’atribá,non socializzato e per questo accostato simbolicamente all’animaleferoce, dominato esclusivamente da istinti. La disperazione e il tor-mento che emergono dai testi delle canzoni sono invece il risultatodi un eccesso di n’atribá: essere preoccupati o confusi (n’oríbiribíkta bú, letteralmente ‘parlare in modo confuso nella testa’), è una con-dizione considerata propria di chi ancora non ‘cammina lentamentecon gli anziani’ verso il raggiungimento del giusto equilibrio. L’as-senza di n’atribá comporta mancanza di umanità, così come la cre-scita eccessiva e incontrollata di alcuni pensieri-sentimenti provocafollia, malattia, conflitto e morte.

Per quanto la pubblica espressione di n’atribá pericolosi sia incontraddizione con l’etica del controllo, l’eraké costituisce un ambi-to specifico e delimitato nel quale la manifestazione poetica e me-taforica di tali sentimenti viene invece consentita e approvata. Perquale ragione questa performance non solo viene permessa, ma nonrovina la reputazione di coloro che la eseguono, ricevendo anzi l’am-mirazione e il plauso dell’intera comunità? A questa domanda cer-cheremo di rispondere analizzando alcuni testi di M’Bene, del vil-laggio di Bijante dell’isola di Bubaque, e di Cavalero, del villaggio diAngumba dell’isola di Canhabaque. M’Bene e Cavalero sono infattii due autori più celebri dell’arcipelago e le loro canzoni fanno partedel repertorio di tutti i n’aro di Bubaque.

2. Il «kundere»

Il termine kundere indica il ritmo, la danza e il canto delle n’ampu-ni, le ragazze non sposate: si tratta di una performance pubblica nel-la quale le giovani, disposte in una lunga fila, danzano a piccoli pas-si formando un ampio cerchio. Alle caviglie delle danzatrici, risuo-natori di noccioli di mango ripieni di chicchi di riso segnano il tem-po di base, mentre altre ragazze eseguono il ritmo con i tamburi cor-ti (kangaram kodentrá). Nell’esecuzione dei canti la voce solista è af-fidata a una ragazza scelta per le sue doti canore e per il lirismo deisuoi testi, mentre le altre giovani rispondono in coro, secondo unastruttura di tipo responsoriale.

A differenza dell’eraké ia n’aro, il kundere è un momento di con-

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vivialità informale e indipendente dalle cerimonie che segnano i pas-saggi iniziatici, una performance poco strutturata, spesso eseguitadalle ragazze sulla spiaggia per loro esclusivo divertimento. Questoè il periodo nel quale le n’ampuni stabiliscono tra di loro relazionidefinite in kriol kamaradia, ‘amicizia’, e in bijagó n’odakán, letteral-mente ‘andare insieme’. Si tratta di un legame di tenerezza e intimitàtra amiche, caratterizzato anche da una componente sessuale, tal-volta così coinvolgente e intenso che alcune ragazze rifiutano di spo-sarsi e di avere rapporti con uomini. Per quanto n’odakán sia consi-derato un gioco normale tra ragazze giovani, tanto che la propriacompagna viene definita orokume (compagna di giochi, di diverti-mento), qualora la relazione diventi troppo esclusiva, al punto da ri-fiutare il matrimonio per non abbandonare l’amica (definita in que-sto caso spesso osoné, ‘mio marito’), verrà invece pubblicamente di-sapprovata e criticata. Fin da bambina una donna è infatti allevataed educata con la precisa idea di fare di lei una madre: la maternità,come abbiamo sottolineato nel precedente capitolo, è considerataun evento fondamentale e irrinunciabile della vita femminile.

Qualora eseguito pubblicamente, il kundere è destinato anche aoffrire alle danzatrici l’occasione di essere notate dai ragazzi del vil-laggio: per l’esibizione intrecciano i capelli adornandoli con pinzet-te di plastica e spille da balia, indossano bracciali, collane e gonne dipaglia colorate a tinte sgargianti. Spesso portano allacciati in vita unabambola o un osso del garretto della vacca vestito come un bambi-no: si tratta del kapenó komgbá, il ‘figlio di osso’, destinato a garan-tire la fecondità della giovane. Se da bambine giocavano ‘alla mam-ma’ con queste bambole, ora che sono n’ampuni le indossano pub-blicamente nelle feste per mostrare che ancora non hanno avuto unbambino e al contempo per assicurarsi la possibilità di concepirneuno. Come è stato osservato da diversi autori, queste bambole sonooggetti dotati del potere di causare cambiamenti, figli per gioco chefacilitano la venuta di bambini veri (Carreira 1971: 347; Gallois Du-quette 1983: 132; Cameron 1997: 22).

Possono partecipare al kundere anche ragazze che hanno già avu-to relazioni eshoní con alcuni n’aro, dai quali hanno avuto magari deifigli, ma che sono state in seguito abbandonate per un’altra donna oper l’entrata al manras, o che si sono separate di loro iniziativa daicompagni. In questo caso il kundere offrirà loro la possibilità di tro-vare altri corteggiatori e di raccontare pubblicamente delusioni, ge-losie, speranze, sofferenze, che non verrebbero altrimenti espresse se

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non a rischio della propria salute e reputazione. Per quanto l’età del-le n’ampuni oscilli all’incirca dai dodici ai vent’anni, la solista è ge-neralmente una delle ragazze più grandi, dotata di esperienza, ta-lento e di storie vissute delle quali cantare; le bambine si limiteran-no a fare il coro, imparando i testi a memoria. La solista tuttavia nonè sempre autrice delle canzoni che interpreta: può infatti eseguire te-sti composti da altre ragazze o appartenenti al repertorio del kunde-re di un altro villaggio. I canti che analizzeremo nei prossimi para-grafi sono stati cantati da Duminga Banca, figlia di Tcharte Banca eAugusta, del villaggio di Bijante. Il suo repertorio comprende anchecanzoni di Nhinha, Segunda, Djamila, Inaçia e Isa di Bijante e di Bi-ni dell’isola di Galinha.

3. Il suonatore di «n’opaatra»

La n’opaatra, letteralmente ‘zucca’ (in kriol viola, ossia ‘chitarra’), èl’unico cordofono in uso nell’arcipelago dei Bijagó. Si tratta di unliuto a tre corde costituito da un risuonatore emisferico, ricavato dauna cucurbitacea, del diametro di circa trenta centimetri, copertocon una pelle e forato nella parte inferiore, e da un lungo manico ci-lindrico parallelo alla cassa, non tastato, la cui lunghezza supera icentoventi centimetri. La n’opaatra viene suonata eseguendo rapidiarpeggi ostinati che accompagnano il canto, intervallati da variazio-ni ritmico-melodiche nei momenti in cui il canto tace.

Talvolta un idiofono rotondo di pochi centimetri di diametro,realizzato in latta e alla cui circonferenza sono attaccati dei piccolianelli metallici, viene fissato all’anulare della mano destra, affinchéil suo suono si unisca al colpo delle dita sulla pelle2. Questo stru-mento viene generalmente suonato da uomini non giovani, che han-no già affrontato il manras, e che tuttavia occupano una posizionemarginale all’interno della comunità di villaggio. Spesso questa lorosituazione di isolamento sociale è dovuta a una serie di sventure, lut-ti e malattie, che divengono il tema centrale delle loro composizionicanore.

Sono pochi nell’arcipelago gli uomini che suonano questo stru-mento: i musicisti che ho avuto modo di ascoltare nelle mie diversepermanenze sono persone anziane, spesso vedovi, infermi, ciechi,

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2 Per una descrizione dettagliata della n’opaatra si veda Bordonaro 1998.

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senza alcun parente in vita, costretti a vendere la loro arte come uni-co mezzo di sostentamento. Il suonatore di n’opaatra è quindi l’uni-co musicista che potremmo definire ‘professionista’, costretto spes-so a lunghi viaggi da villaggio a villaggio per esibirsi in occasioni ditipo informale, legati più a feste e riunioni tra amici, che ad ambitirituali. L’apprendimento delle tecniche esecutive passa da maestroad allievo e i pochi grandi virtuosi della n’opaatra sono conosciuti intutto l’arcipelago, anche per la drammaticità e la bellezza dei lorocanti, capaci di contagiare e commuovere il pubblico. Alcune can-zoni particolarmente toccanti raggiungono una tale notorietà chetutti i suonatori di n’opaatra le inseriscono nel loro repertorio, purnon essendone gli autori. Attualmente il suonatore di n’opaatra piùcelebre dell’arcipelago è Joaquim Cabrita, il cui nome bijagó èNinki, un anziano originario del villaggio di Ancaminho nell’isola diSoga. I canti che riporteremo in seguito fanno parte del suo reper-torio e sono stati registrati e trascritti a Bubaque nel marzo 2001.

4. La ricorrenza dei temi e i caratteri generali

Per quanto gli autori, le modalità esecutive e i contesti siano diversitra loro, tuttavia l’analisi dei testi delle canzoni dei tre ambiti rivelauna certa uniformità sia per la scelta dei temi, sia per il tipo din’atribá espressi dal solista e trasmessi al pubblico. Nonostante checiascun artista trovi ispirazione nelle sue vicende personali, inter-pretandole creativamente, si possono infatti individuare un numerolimitato di soggetti comuni ai canti dei n’aro, del kundere o del suo-natore di n’opaatra.

I loro testi parlano di lunghi e penosi ‘dolori-malattie’, originatidalla morte di persone care o dall’‘indigenza’ (enhenguená), e dellesofferenze provocate dal ‘desiderio inappagato’ (edík ekojókam) edalla ‘gelosia’ (korammó): tutti n’atribá che – secondo le normedell’etica dominante del controllo, i valori individuali dell’‘onore’ edella ‘dignità’ (n’otom ta n’ogbe bú, ‘mettere maggiore testa’) e lapreoccupazione per la preservazione dell’integrità dell’individuo edella comunità – non possono avere se non un’espressione contenu-ta e convenzionale. Nel dare forma alle loro esperienze individuali,gli artisti attingono pertanto creativamente a un insieme di metafo-re, espressioni linguistiche e stili retorici condivisi e formali, con-sentendo ai n’atribá contenuti nel canto di perdere il loro valoreprettamente individuale.

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Spesso utilizzano pronunce, accenti e termini inusuali o propridel bijagó di altre isole, ritenuti più raffinati e ricercati; talvolta par-lano di se stessi non in prima persona, ma utilizzando il ‘si’ imper-sonale, oppure occultano la loro identità, servendosi di metafore odi nomi privati e familiari; impiegano immagini ricorrenti conside-rate dal pubblico molto poetiche; attribuiscono a termini di uso co-mune significati differenti, spesso propri del linguaggio delle donnepossedute. Le narrazioni del sé, inoltre, che caratterizzano i canti deitre repertori analizzati, sono contraddistinte da una specifica ‘tona-lità emotiva’, che definisce questo tipo di produzione come ‘lamen-to’, inteso non già come forma compositiva rigidamente definita (co-me è il caso dei lamenti funebri kárina), quanto piuttosto come co-municazione commovente delle proprie sventure, della propria si-tuazione miserabile. Tutti questi canti possono infatti essere defini-ti con l’espressione locale nraw kan n’unummi konó, ‘canti della mi-seria-sventura umana’: l’analisi dei testi fa infatti emergere quella chenel capitolo precedente abbiamo definito ‘estetica tragica’, ossia unaquestione di gusto e sensibilità per tematiche legate alle disgrazie ealle sofferenze che la vita riserva.

Quest’uniformità tematica e stilistica costituisce un quadro di ri-ferimento indispensabile per dare voce ed espressione a contenutiemozionali che altrimenti non troverebbero una forma espressivaadeguata: analizzando i testi delle canzoni ci troviamo infatti, comevedremo, di fronte a una comunicazione estremamente efficace edesteticamente apprezzabile di contenuti emozionali che pongono incrisi le norme del discorso morale dominante. Attraverso il linguag-gio poetico del canto, persone perseguitate dalla sventura invocanola morte, incapaci di sopportare lo strazio per la perdita dei loro ca-ri; altre chiedono a dio la ragione di tanto soffrire, accusandolo dicombattere una guerra ingiusta contro bambini indifesi; altri ancoraraccontano il tormento e le malattie di chi si è ormai arreso all’im-peto delle passioni.

Il ricorso a un vocabolario stilistico convenzionale e condivisopermette dunque al cantante di trasformare la propria esperienza in-dividuale in una universale, consentendo agli ascoltatori di parteci-parvi, di commuoversi, ricordando analoghi episodi di sofferenza daloro vissuti, e di trovare, nelle parole degli artisti, un’espressioneadeguata alla propria esperienza emotiva. Il solista canta infatti deisuoi morti, delle sue sventure, delle sue storie d’amore, ma la sua vo-ce evoca in ogni ascoltatore esperienze intime, dolori dimenticati,

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compagni scomparsi. Gli artisti forniscono quindi al pubblico glistrumenti per inserire le loro esperienze personali nel quadro di ter-mini esteticamente ed eticamente apprezzabili, collocando le soffe-renze individuali in un racconto comune.

La standardizzazione dei temi come anche la convenzionalità del-la forma non costituiscono tuttavia per i cantanti un ostacoloall’espressione appassionata dei propri contenuti emotivi. Se la for-ma poetica trasforma l’esperienza del singolo artista in comunica-zione di contenuti emozionali universali, questo non deve distoglie-re l’attenzione dal fatto che il canto rappresenta comunque il risul-tato dell’elaborazione di un singolo, la narrazione di un’esperienzadi vita individuale. Le canzoni costituiscono infatti la forma privile-giata di narrazione del sé, l’unico contesto nel quale è consentito eapprovato il racconto delle proprie ‘storie di vita’, modalità discor-siva altrimenti insolita nella conversazione quotidiana. Le conven-zioni sociali delle comunità bijagó non prevedono ampi spazi diespressione personale: non solo infatti l’esigenza di narrare se stessiè poco sentita, specialmente in un contesto di relazioni faccia a fac-cia nel quale tutti si conoscono, ma soprattutto è considerata inap-propriata e perfino percepita come potenzialmente pericolosa. Unindividualismo marcato, come abbiamo precedentemente messo inluce, è infatti considerato sospetto, in un contesto che pone il be-nessere della comunità al di sopra degli interessi del singolo e nelquale, di conseguenza, il massimo prestigio per un giovane derivadall’adempimento di ordini, dal rispetto di norme, dall’obbedienzaall’autorità degli anziani e da un comportamento adeguato alla suaposizione nel circuito della solidarietà e degli scambi reciproci dellacomunità. Diffondere informazioni private, inoltre, significa render-si vulnerabile agli attacchi di iamadók e iabané.

I canti dei quali proponiamo l’analisi sono stati divisi secondo itemi trattati, raggruppandoli in due categorie: quelli che hanno perargomento la sofferenza per il desiderio inappagato, l’amore traditoe la gelosia, e quelli relativi alla morte e alla solitudine.

4.1. Desiderio, amore e tradimento. Nei precedenti capitoli ab-biamo parlato a lungo dell’edík, il ‘desiderio’, un kutribá la cui in-tensità se non controllata, può rivelarsi pericolosa. Abbiamo rac-contato storie di persone che, per l’eccesso della loro passione amo-rosa, hanno perso l’orebok, hanno ‘lacerato il loro corpo’ (n’okpúskugbí), e ‘spezzato il loro cuore’ (n’okpéntok tan konó), si sono resi

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ridicoli per la loro debolezza (n’ojóno, ‘essere debole, essere ridico-lo’), fino a uccidersi. Abbiamo già evidenziato le molteplici sfuma-ture di significato del verbo n’odík, che riassumono le caratteristicheideali dei n’aro, che sono forti, vigorosi e sensuali, danzano, lottanoe seducono le donne. Poiché il kabido3 non può avere relazioni conle donne e il kassuká è un anziano che ormai ‘cammina lentamente’,solo il karo, tra gli uomini, corre effettivamente il rischio di lasciarsidominare dall’edík, rendendosi schiavo (orase) della sua donna e delsuo desiderio fino ad ammalarsi o a rendersi ridicolo. Non control-lare il proprio desiderio è quindi pericoloso per l’equilibrio dell’in-dividuo come per la sua immagine pubblica: in un caso è in gioco lasalute, nell’altro la dignità.

Il karo deve quindi sapersi comportare con le sue donne in mo-do distaccato, controllando le sue passioni: è il conquistatore (oiámeiakanto, ‘colui che conquista le donne’, oassé iakanto, ‘che seduce ledonne’ e oas kariá, ‘il seduttore che piace alle donne’) per eccellen-za, che indossa un nuovo bracciale per ogni donna posseduta e che,nella quotidianità, mai si presenterebbe come un uomo che si la-menta delle sue sofferenze d’amore. Il termine che indica la relazio-ne tra una donna e un karo, eshoní, significa infatti anche ‘desideriosessuale’: spesso ci si riferisce a questo legame anche con espressio-ni quali n’omoni, ‘fare l’amore’; n’odorók, ‘sdraiarsi o riposare insie-me’; n’oboné, ‘dormire con il partner’; n’usóke, che letteralmente si-gnifica ‘sciogliere, fondere’, ma metaforicamente indica sia il desi-derio, sia l’atto sessuale, sia il lento movimento delle onde sullaspiaggia.

Allo stesso modo non è ben considerata una donna che si lasciguidare eccessivamente dall’edík: sarà probabilmente una compagna‘disobbediente’ (ojata), ‘incline al tradimento’ (oborokán) e ‘gelosadella sua co-moglie’ (orammó korammó). Il suo comportamento saràcontemporaneamente causa di ikosó (‘vergogna’) e omaróke (‘rab-bia’). Una donna ‘bella nel comportamento’ (oseney ta kunsaro), se-condo la morale comune, infatti, non esagera, non eccede (osomam):piuttosto manifesta un atteggiamento calmo e dolce (obod). In op-posizione alle rappresentazioni delle donne bijagó fornitaci dai re-soconti coloniali, che ci parlano del loro comportamento lascivo,

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3 Il kabido è il grado d’età che segue il manras, l’iniziazione in foresta.

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promiscuo e senza inibizioni4, sembrerebbe che una donna ‘onesta’(n’opatrakan, ‘essere affidabile, degno di fiducia, rispettabile’) noncerchi avventure, accontentandosi di un solo partner. Per un uomoavere una donna otribak, che si comporta bene, significa anche nonavere problemi tra le sue mogli, non venire traditi e non esporsi al ri-dicolo5. Difficilmente infatti tale donna si mostrerà pubblicamentegelosa delle altre mogli del suo compagno, offenderà il marito fre-quentando altri amanti o esibirà pubblicamente il suo desiderio perl’amica preferita.

Queste regole di comportamento cedono nelle canzoni all’impe-to di n’atribá pericolosi, disonorevoli o ridicoli, in quanto inappro-priati al proprio genere o status, quali il timore di essere lasciati, lagelosia, la disperazione per la morte o l’abbandono della propriadonna, la rabbia e la sofferenza per il tradimento, la paura di essereingannati. Così M’Bene, un karo di Bijante, che nella quotidianitàspesso si vanta di avere così tante amanti da non poterne ricordare inomi, canta nella piazza del villaggio il suo tormento per la donnache vuole abbandonarlo6:

1. Mi aspetto che tu mi lasci nella stagione secca,aspetta per lasciarmi l’arrivo della stagione delle piogge,abbi pietà di me,che misera condizione (n’unummi konó) la mia, povero me.

La supplica non appartiene certo alle modalità con le quali il ka-ro si rapporta nella quotidianità alle sue partner. La richiesta di pietà,

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4 Si vedano per esempio Simões Landerset 1935: 148; Lyall 1938: 266; Morei-ra 1946: 79, 98-99; Valoura 1972: 271.

5 Quasi tutte le donne anziane con le quali ho lavorato sostengono di avere avu-to il primo uomo verso i vent’anni e avere intessuto poche relazioni amorose nellaloro vita. Secondo le mie interlocutrici, la verginità un tempo era un valore moltoimportante: significava che la ragazza sapeva dominarsi, seguendo i consigli deglianziani e che rispetto e obbedienza erano più forti del desiderio. La morale vuoleche le ragazze affrontino ancora vergini la cerimonia d’iniziazione al culto di pos-sessione: il primo ‘uomo’ a entrare nel corpo di una donna deve essere il defuntodel quale si farà carico durante il manras iarebok. Le ragazze che hanno rapportisessuali prima di questo passaggio rituale vengono pubblicamente biasimate e nelcorso della cerimonia saranno punite per le loro colpe. Al contempo le loro fami-glie dovranno ‘pagare’ con diverse offerte le anziane del tempio per rimediare all’er-rore delle figlie.

6 Per la versione bijagó dei canti si rimanda a Pussetti 2003.

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che in un altro contesto sarebbe considerata con spregio come unaumiliazione, diventa nel canto una possibilità alternativa di relazio-ne con la propria donna. Si tratta evidentemente di un’ammissioneesplicita e impudica di debolezza, una resa incondizionata. Ci tro-viamo di fronte a un rapporto tra i generi basato sulla tenerezza,sull’ammissione di vulnerabilità, sulla dipendenza affettiva. M’Bene,per trattenere la donna che desidera, non fa più leva in questo con-testo sugli strumenti di seduzione che gli sono propri, ossia l’osten-tazione di forza, l’autocontrollo e la potenza sessuale, che caratteriz-zano la costruzione locale del genere maschile. Al contrario, mette anudo la sua condizione infelice, la sua posizione di dipendenza, cer-cando di indurre pena nella sua compagna per convincerla a non la-sciarlo.

Il timore dell’abbandono si tinge di vergogna e rabbia quando iltradimento è il tema principale del canto, come nei frammenti se-guenti di M’Bene, nato a Canhabaque e trasferitosi in seguito a Bu-baque, il quale spesso denuncia la sua condizione di straniero nel vil-laggio e la scarsa simpatia che avverte intorno a sé:

2. La mia donna non mi vuole più,detesta conversare con mequalcuno possiede la mia ragazza, e voi non me lo avete detto!Prendetevi pure gioco di me!Se ancora potete, prendetevi gioco di questo bambino ospite!

3. La mia donna mi prende in giro.Dove posso trovare Matildi per parlare,dove posso trovarla?Ho sentito molte cose,quelle cose sono già giunte a me:la mia sposa si allontana,mentre io siedo con gli altri, lei si allontana da me.La donna bambina m’inganna,io siedo solo, perché lei mi tradisce,lei siede sotto il collega suo nella casa dei n’aro7.Non fare così, io sono M’bene,il tuo comportamento è una vergogna per me.

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7 Quest’espressione metaforica significa che la donna ha istituito una relazioneeshoní con un karo, suo coetaneo.

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Tutto il mondo già sapeva che avevo scelto nel mio letto Matildi,Matildi, non fare così, per me è una vergogna.

4. La mia donna ha sbagliato con me troppo, la gente ride di me. Matildi ti supplico, mi stai rendendo ridicolo.

5. La mia donna se n’è andata,perché sono stato a lungo in viaggio,ma qualcuno del clan Orakumaama prendersi gioco di me del clan Oraga.Scherzate pure con me:se poteste mi fareste la guerra,danneggereste questa vacca sbattendola al suolo (n’okpeteká)8,perché sono un ospite tra voi.

In un contesto come quello di Bubaque, nel quale l’influenza isla-mica e cristiana è estremamente recente e poco consistente, soprat-tutto per ciò che riguarda le comunità di villaggio, il dolore per il tra-dimento, con la costellazione di costruzioni morali che lo generano(valore della verginità, monogamia, esclusività dei rapporti), appareinaspettato nei testi delle canzoni. L’atteggiamento nei confrontidell’infedeltà (n’oborokán) è infatti generalmente piuttosto rilassato:il tradimento genera senza dubbio sofferenza, ma non costituisce uncrimine o una violazione significativa di norme morali. A maggior ra-gione stupisce il dolore per il tradimento in relazione ai legami tem-poranei che un karo stabilisce con numerose compagne di differen-ti villaggi. L’adulterio però, secondo i miei informatori, è un’offesagrave in quanto mette in dubbio le qualità del karo come amante,oscurandone la ‘fama’ (natá), un attributo ritenuto fondamentalenell’ideale di questo grado d’età. Le caratteristiche fondanti l’iden-tità dei n’aro sono state espresse in modo emblematico da Abás, ungiovane karo di Bijante che, rimarcando l’importanza dell’avere buo-na reputazione e notorietà (n’oguenéta, ‘essere popolare, conosciu-to’; n’ampokóta, ‘essere famoso, noto’), ha paragonato la vita del ka-ro a quella di un artista famoso, come Youssou N’Dour.

Nell’ideale maschile che il karo dovrebbe incarnare, ‘abbando-nare’ è dunque un verbo che dovrebbe essere declinato solo nella sua

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8 Il termine n’okpeteká viene generalmente utilizzato per indicare l’azione delvento e delle tempeste sui campi di riso.

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forma attiva, mai in quella passiva: essere traditi, lasciati dalla pro-pria donna, costituisce un ribaltamento dei rapporti di forza chedanno forma alle relazioni di genere. In questo senso, l’ammissionepubblica del tradimento subito da parte della propria donna costi-tuisce un’ulteriore ammissione di debolezza e sconfitta, in sintoniacon il frammento 1. Nei suoi canti quindi M’Bene lamenta sia la ver-gogna e la pubblica umiliazione per il tradimento della sua donna,sia la sua sofferenza e il timore dell’abbandono.

Il sentimento di dipendenza verso la propria compagna vienenuovamente esplicitato e messo in relazione con la rabbia per il tra-dimento nel seguente frammento, tratto da una canzone di Joaquim,il vecchio suonatore di n’opaatra di Soga:

6. Io piango per causa tua me stesso,ma noi siamo arrabbiati con te,moglie mia dove sei andata?Noi siamo disorientati da te,moglie mia dove sei andata?Non tornare a entrare dentro di me,ma dove sei?Noi siamo disorientati da te.

Il testo descrive la situazione di confusione, i n’atribá contrad-dittori di Joaquim nei confronti della sua donna che, nonostante leumiliazioni e gli inganni, non riesce o non vuole dimenticare. Da unlato la cerca, vuole sapere dove si trova, desiderando rivederla;dall’altro però le chiede di non ritornare più, mostrando al contem-po dolore per la perdita e rabbia per la vergogna. Questa situazionedi passività nei confronti dei propri n’atribá più violenti non può cheavere come drammatica conseguenza la malattia, come Joaquim af-ferma nel seguente frammento:

7. Mi sono ammalato, per quale ragione?Mi sono ammalato: edík ha avuto ragione di me.

Il desiderio e la passione per la propria donna acquistano i ca-ratteri di una forza esterna, di un’esplosione emotiva che minaccia lasalute dell’individuo: edík è infatti un kutribá tra i più pericolosi, cheesige uno sforzo di autocontrollo costante, in mancanza del quale,come avviene nel caso di Joaquim, prende il sopravvento sull’indivi-

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duo, facendolo ammalare o morire. Come nel caso di M’Bene, ancheJoaquim si abbandona nel canto all’intensità dei n’atribá, giungendoad ammettere la sua incapacità di dominarli, di controllarli. Cantare«edík ha avuto ragione di me» significa confessare pubblicamente ilproprio fallimento nel seguire le norme della morale condivisa. Am-missione che non costituisce tuttavia una protesta o una critica neiconfronti delle regole morali relative all’espressione e al controllodei n’atribá individuali, quanto piuttosto una richiesta di supportoper la propria debolezza. Gli individui, come vedremo meglio pro-cedendo nell’analisi dei testi, appaiono spesso nei canti come vitti-me del destino, dei propri amanti, di n’atribá violenti. La pubblica eimpudica dichiarazione della propria fragilità, vulnerabilità, incapa-cità di autocontrollo, non ottiene però, qualora espressa nel canto, ilbiasimo degli ascoltatori, i quali piuttosto partecipano empatica-mente al dolore del solista. Al di là delle rigide norme imposte daglianziani, sembra farsi strada una nuova prospettiva morale, più am-pia, più indulgente, che vede gli esseri umani come vittime impotentisopraffatte da forze a loro esterne. Nei testi dei canti affiora una se-conda ideologia, una visione del mondo e degli uomini parallela aquella fornita dall’autorità degli anziani che, con un fatalismo tragi-co che ricorda le epopee omeriche, considera gli individui poten-zialmente in balia di passioni incontrollabili.

Il tema del tradimento e il conseguente timore della derisione siritrovano anche nei canti kundere di Duminga Banca, che racconta-no la travagliata storia con Adjunto, il suo uomo dell’isola di Ga-linha. Abbiamo già parlato di questa relazione, osteggiata in primoluogo dai parenti di lei, non contenti del suo trasferimento a Ga-linha, in secondo luogo dalla gelosia di Segunda, la prima moglie diAdjunto, della quale inizialmente Duminga ignorava l’esistenza. Ilsuo primo canto è dedicato proprio a quest’amara scoperta. Adjun-to ancora non le ha confessato di avere una moglie che lo attende alvillaggio, ma la voce è già giunta all’orecchio di Duminga, la quale,dopo un momento di incredulità, pretende una giustificazione perquesta situazione che la espone al ridicolo. È infatti frequente, nelleaccuse rivolte a uomini o donne infedeli, sottolineare che «i miei col-leghi, i miei figli rideranno di me»: il tradimento nella quotidianitàsembra suscitare in amici e parenti non tanto atteggiamenti empati-ci e consolatori, quanto beffardi commenti di scherno. Il timore del-la derisione è un elemento molto importante per assicurare laconformità delle persone alle norme morali: in questo caso la perso-

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na gelosa si espone a sospetti e beffe, a causa del suo comportamen-to pericoloso per la tranquillità familiare; il traditore che, spinto daedík, causa la gelosia del partner, è oggetto di pettegolezzi e battuteper la sua condotta poco controllata. Con queste parole per esempioDuminga si rivolge al suo compagno:

8. Adjunto, parla!Il giorno vuole che tu mi ascolti,Adjunto parlami!Ti ascolterò con le orecchie,anche se ormai non vedo che cosa fare:le mie colleghe sanno che quel qualcuno che mi stancasi è visto in segreto con Segundae anche i miei figli ridono con forza.

9. Non dite che avere un uomo è meglio,io ho un uomoe non lo vedo da una settimana;le mie colleghe stanno ridendo di me,dove mi nasconderò?Io non ho un uomo!

In un altro canto invece, sorprendendo il pubblico, Duminga ri-dicolizza apertamente il comportamento del marito: la derisione di-venta in questo caso uno strumento di attacco, un balsamo per il suoorgoglio ferito. Adjunto, avendo molte donne, credeva di potersicomportare come un re tra la gente di Galinha. Ma quale re? Un resiede sotto la pergola reale, mentre Adjunto, nonostante le due mo-gli, è costretto a compiere da solo i lavori quotidiani femminili.

10. Gente, non ridete di me,ma di mio marito Adjunto,vorrebbe essere re tra le persone di Galinha,ma non mi sembra di vederlo sotto la pergola reale del villaggio.Questo re come se fosse una donna si carica il legno sulla testa!

Adjunto infine confessa, ma la sua onestà tardiva non può lenirela delusione e la gelosia di Duminga. La poliginia, prevista dall’or-ganizzazione familiare bijagó sia nei legami koneió sia, e a maggiorragione, nelle effimere relazioni eshoní, è sempre meno tollerata dal-

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le giovani. Sulle difficoltà e le tensioni dei rapporti tra co-mogli ci di-ce molto, come abbiamo già sottolineato, la terminologia indigena:il significato del termine korammó, con il quale ci si riferisce alle al-tre spose del proprio marito, si colloca infatti tra gelosia, rivalità, dif-fidenza e inimicizia. Nelle nuove generazioni inoltre, legate mag-giormente agli influssi della praça, la poliginia si scontra con un idea-le di ‘amore romantico’ – espresso in bijagó con il termine amor, pre-so in prestito dal kriol – che sta causando sensibili cambiamenti neirapporti tra uomini e donne. L’assolo di Duminga è infatti contrap-puntato dal coro delle n’ampuni, che cantano:

11. Ti chiedo di non mettermi insieme a quella persona:tu pensi che io non sappia che èedík che ci spinge ad avere un bambino,tu pensi che io non sappia che èamor che ci spinge ad avere un bambino.

Nell’undicesimo frammento le ragazze del kundere affermanopubblicamente che ciò che spinge uomini e donne gli uni verso glialtri non è solo edík, inteso come desiderio sessuale, ma anche amor,per quanto dalla morale dominante un coinvolgimento sentimenta-le ‘romantico’ verso il proprio partner venga considerato un ridico-lo segno di debolezza e causa di problemi familiari. L’edík infatti èpericoloso quando ‘spezza in due’, quando ‘apre nella testa’, quan-do ‘cuoce nel cuore’: in altre parole quando diventa amor, ossia unsentimento esclusivo e così intenso da creare un rapporto di dipen-denza emozionale tra i partner. È da questo coinvolgimento che na-scono i problemi nella famiglia e nella comunità. Un uomo che de-dica troppe attenzioni a una delle sue mogli manca di rispetto alle al-tre spose e di riflesso alle loro famiglie; causa invidie e risentimenti,guastando l’ideale rapporto di cooperazione tra co-spose; diventasuccube dei suoi n’atribá rendendosi più vulnerabile alla rabbia, al-la gelosia, al dolore per il tradimento o la perdita della sua compa-gna; si rende ridicolo per la sua debolezza, comportandosi come unadonna (ogudé ogan okanto ta kunsaro, letteralmente ‘quell’uomo èuna donna nel comportamento’), fino a perdere il rispetto dei gio-vani e la considerazione degli anziani. Allo stesso modo una donnaguidata dall’edík-amor può ribellarsi alla famiglia, per contrarre unmatrimonio non approvato; può perdere l’orebok in seguito all’ab-bandono del marito; diventare una moglie gelosa, sospettosa, intol-

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lerante tanto che ogni altra donna sarà per lei un’umiliazione e uninsulto. Una moglie troppo appassionata è una donna otin’áni, che‘conduce delle guerre’, e che può rivolgere ‘sguardi penetranti’, fa-cendo ammalare o morire le sue co-spose. Chiaramente non semprela tensione e i contrasti tra co-mogli sono imputabili all’intensità deldesiderio e dell’amore: molto più pragmaticamente spesso si trattadi rapporti economici e di potere. La moglie preferita è infatti gene-ralmente quella che riceve regali, danaro e favori dal marito, a svan-taggio delle altre spose. Nel caso di Duminga e Segunda è peròl’edík-amor per Adjunto, che viene cantato come causa di sofferen-ze e disaccordi: nel tredicesimo frammento Segunda sfida la sua ri-vale danzando di fronte a lei con fare provocatorio alla festa del vil-laggio. Duminga intuisce allora che Segunda è ancora la preferita diAdjunto e ritorna a Bijante:

12. Segunda sei venuta qui a ballare alla festa,per farmi vedere che ti sei vista ancora con Adjunto.

13. Io sono già partita in viaggio,perché Adjunto mi ha detto di andare:il nostro matrimonio è finito.

Ma la gelosia non risparmia neanche Segunda, della quale Du-minga canta la sofferenza, interpretando sulla scena anche la vocedella rivale: il conflitto tra le due donne, narrato in modo teatrale,astrae in parte dai suoi caratteri personali, rappresentando in termi-ni generali le problematiche del rapporto tra co-mogli.

14. «Me ne vado,la gente dice che vado,vado da mia madre Kadinaperché lei continui a partorirmi9e la smetta di volere che mi sposi.»Questa cosa di Adjuntoha strappato l’oreboka questa donna: povera, povera co-moglie.

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9 L’espressione metaforicamente indica la protezione e la cura di una madreverso la figlia.

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La gelosia tra co-mogli costituisce attualmente una delle causepiù frequenti di separazione, come mostra un altro canto di Dumin-ga, nel quale dà voce a Bini, una donna dell’isola di Galinha:

15. Il mio uomo mi ha detto di alzarmi e usciresiccome l’ho stancato, e gli ho impedito di sposare un’altra donna.

Altri canti parlano della sofferenza causata da matrimoni osteg-giati, perché non rispettano l’endogamia a livello di villaggio: la re-lazione tra Duminga e Adjunto, per esempio, fu oggetto di granderiprovazione da parte degli anziani di Bijante, che non accettaronoil trasferimento della giovane a Galinha. Duminga canta come le fuproibito in tutti i modi di partire per Galinha, criticando pubblica-mente, protetta dall’elegante patina di una forma espressiva ricerca-ta e apprezzata, una regola sociale che nella quotidianità non sareb-be mai stata messa apertamente in discussione, nonostante che mol-te persone trovino difficoltà ad adattarvisi:

16. Ragazzi, miei colleghi,volevo già partire in viaggio,ma ho dovuto rinunciare al cammino.Eh! Io volevo partire,ma la gente mi ha detto di non andare:obbedisco, non posso partire.

Continuando questa critica cantata nella piazza del villaggio, Du-minga interpreta la storia travagliata e osteggiata tra Djamila, unadonna dell’isola di Galinha, e un kope, un giovane cooperante euro-peo. Il frammento riportato riguarda il momento nel quale Djamilarealizza di essere stata abbandonata dal kope, a causa delle macchi-nazioni delle persone del suo villaggio:

17. Sono salita sulla parte alta della montagnae sono rimasta a guardare il cooperante che partiva per mare:e lui non mi ha detto nulla.Gente! Siete riusciti a ottenere quello che volevate:avete detto a una ragazzina (bambina-donna) di dirgli che in ve-ritàho smesso di amarlo,ho smesso di amarlo,

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e adesso io posso solamente morire.

4.2. La morte e la solitudine. Nel precedente capitolo abbiamoparlato a lungo dei n’atribá legati alla morte (situazione prototipicadi distruzione dei legami e di corrosione della salute e dell’equilibrioindividuale), come i più pericolosi e violenti in assoluto. Secondoquesta prospettiva, abbiamo affrontato i canti funebri femminili,analizzando i repertori e le storie di vita delle sei cantanti professio-niste di Bubaque, come caso emblematico di ‘lavoro del dolore’ (Ma-grini 1998). Introducendo il concetto di ‘estetica tragica’ avevamoanticipato una predilezione locale per l’espressione poetica del do-lore per la morte, che infatti è l’altro tema centrale dei canti dei n’aro,del kundere e del suonatore di n’opaatra, per quanto nessuno di que-sti sia legato allo specifico contesto del lutto. Questi artisti, trovan-do ispirazione in drammi personali, cantano il tormento, il dolore, ladifficoltà di accettare la scomparsa di persone care. Così M’Benecanta la sua disperazione per la morte di una sua amante:

18. Parlo con la terra,ma non capisce le mie parole;bambino anche tu non capisci le mie parole,che parlano della mia donna bambinae che dicono che si è tolta la vita.

La sanzione morale e la preoccupazione per la salute nei con-fronti di chi si lascia eccessivamente sconvolgere dal lutto, non im-pediscono a M’Bene di esprimere tutta la sua nostalgia, il suo dolo-re, la sua voglia di parlare ancora con la sua donna, di salutarla. Nelcanto seguente, nonostante il rischio di rendersi ridicolo, egli chiedea Quinta, una delle colleghe della sua donna, Kaonra, di tentare dicomunicare con il suo orebok nel tempio dei defunti per portarle unmessaggio.

19. Quinta ti ho mandato là nel tempio per riferire un messaggio,ma la gente mi dice di ascoltarli,che io smetta di piangere, ma io piango Kaonra,che era la mia donna.‘Comandante’ Pempen restituiscimi la mia sposa,

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affinché io possa salutarla,io piango ancora Kaonra.

Uno dei temi centrali che affiora dall’analisi dei canti che hannoper argomento la morte è proprio l’esigenza di istituire un dialogocon coloro che sono scomparsi. Questa volontà rappresenta un ulti-mo atto di protesta nei confronti della morte, l’intenzione di ripren-dere una conversazione interrotta all’improvviso, di ricomporre unafrattura che si rivelerà insanabile. Ancora con i versi di M’Bene:

20. Mansebu, io ti mando dove sono gli Arakuma10:se puoi, vai a inginocchiarti di fronte a loro eporta loro il mio messaggio,vai dalla mia donna,a dire che avevamo preparato il viaggio per partire con lei.

Ma quest’ultimo disperato tentativo ha sempre un esito negativo:l’impossibilità di riprendere il dialogo, il silenzio delle anime di co-loro che ci sono stati vicini in vita, è un espediente stilistico fre-quentemente utilizzato per esprimere l’ineluttabilità e l’irrimediabi-lità della separazione causata dalla morte. Come suggeriscono le pa-role di Teté, l’anziano suonatore di tamburo sacro: «si comprende lamorte quando si ascolta il silenzio». È importante, di fronte a que-st’associazione di morte e silenzio suggeritaci dai canti e da Teté, ri-cordare l’importanza della parola e dell’udito, sensi sociali per ec-cellenza, come evidenziato nel terzo capitolo. Lo scambio di parole,la dinamica parlare/sentire, fondamentale nelle relazioni sociali, vie-ne brutalmente interrotta dal sopraggiungere della morte: la frattu-ra dei legami affettivi, il sentimento della perdita, è quindi metafori-camente espresso nei canti attraverso l’immagine del giovane chetenta invano di comunicare con i suoi defunti. Gli iarebok vengonoinfatti descritti come troppo lontani per poter sentire le parole deivivi, come in questo canto di Cavalero, composto per la morte dellamadre:

21. Io chiedo: voi non sentite le mie parole rivolte a quell’orebok, e tu madre mia, non senti le mie parole?

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10 Nome di uno dei quattro clan matrilineari.

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Anche nella canzone di Cavalero che segue, la distanza tra vivi emorti viene descritta come incolmabile: le anime non sentono, sonosorde alle parole dei vivi, ma lo strazio è reciproco e il dolore per lalontananza e la perdita non risparmia neppure gli iarebok.

22. Voi avete già capito perché io ero malato,e io, madre mia, ho capito perché tu già orebok ti sei ammalata:hai lasciato che noi desiderassimo essere orebok,tu hai abbandonato degli orfani.Mia madre desidera piangere nell’anarebok,io penso che sia perché l’isola è lontana,piange, io penso, perché l’isola è lontana.Madre degli orfani torna,e portami via,che io mi riposi di questa sventura.Padre degli orfani torna,e portami via,che io mi riposi di questa sventuraMia madre, la sentite? Piange forte e tra le lacrime chiede di meda quell’isola.

In questo canto la madre di Cavalero piange nell’anarebok per lapena di aver abbandonato il figlio orfano sulla terra. L’eccessiva lon-tananza dell’isola dei defunti, esprime in modo metaforico il senti-mento di malinconia e disperazione per la perdita di una persona ca-ra: il distacco è rappresentato dal racconto di un viaggio troppo lun-go, di un’isola troppo distante. La geografia e l’esperienza quotidia-na del viaggio nell’arcipelago si fanno metafore della perdita, delsenso di abbandono. Troviamo per la prima volta in questa canzonel’invocazione della morte come soluzione definitiva alle sofferenze,unita al lamento per la propria condizione di orfano.

Il desiderio di comunicare con le anime dei propri genitori ritor-na con frequenza nei testi di Cavalero. Nei canti seguenti si rivolgea un amico che ha avuto la fortuna di intravederle sull’isola di Unho-como, ultima tappa terrestre del lungo viaggio che gli iarebok com-piono per raggiungere l’anarebok:

23. Amingona è arrivato prima di me,è riuscito a vedere gli spiriti dei morti,là a Unhocomo,è riuscito a vedere gli spiriti dei morti.

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Poi, interpellando direttamente l’amico fortunato, invoca l’aiutodei genitori:

24. Se tornerai a vedere l’orebok di mio padredigli che io gli chiedo di inventare una cosa da fare,anche a mia madre io chiedo di inventare una cosa:ho saputo che mia madre chiede di me là a Unhokomo,Ominka11 non mi lasciare, torna da me come orebok,orebok di mio padre, non te ne andare:noi non abbiamo ancora parlato.

In altri canti troviamo invece il tema della morte di persone carein relazione a specifici eventi tragici, che hanno segnato la vitadell’autore. Nel seguente frammento, per esempio, Duminga cantadi un terribile naufragio avvenuto nel mare di Orango, dal quale so-lo lei, Pedro Banca e un altro fratello, riescono a salvarsi:

25. Io piango il luttodi chi era con menel mare di Orango.

Ancora Duminga, riferendosi a un altro episodio della sua vita,canta di quando la sua famiglia le nascose con una menzogna la mor-te del suo primo uomo, Nuno, raccontandole che egli era improvvi-samente partito per l’isola di Soga:

26. Non mi avete raccontato una cosa:io vi chiedevo del maschio bambino,io ero tornata dal viaggio iniziatico,vi ho chiesto di Nunoe mi avete detto che era andato a Soga.

Cavalero invece canta la sua tristezza per Quintino, un compa-gno morto in mare. Come in molte composizioni dei n’aro, anche inquesto caso tema centrale è il carattere violento e indomabile dein’atribá, ai quali ci si arrende, cadendo malati o, come in questo ca-so, rischiando la follia. Ancora una volta l’ammissione dell’incapa-cità o forse dell’impossibilità di aderire totalmente all’etica del con-

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11 Si rivolge a sua madre chiamandola con il nome del clan matrilineare.

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trollo. Per quanto elemento fondante della propria ‘umanità’, le rea-li circostanze tragiche della vita sembrano rivelarne tuttavia il carat-tere ideale e utopico: da questa pena «troppo grande», infatti, Ca-valero viene dominato e impazzisce. Il suo dolore che lo fa oscillaretra desiderio di morte e follia trova voce nel richiamo dei suoi com-pagni defunti, che lui solo può udire: dal mare invocano il suo no-me, invitandolo a raggiungerli nell’anarebok, il luogo dei morti, chesi trova proprio nelle oscure profondità dell’oceano:

27. Madre mia, vai a interrogare gli spiritisul lutto orribile improvviso in mare.Voi non sentite che mi chiamano per entrare nel mare:vieni sotto il mare;la pena rende follila marea si è ritirata con il giovane Quintinoe io mai più tornerò a viaggiare.

Una delle più devastanti conseguenze della perdita dei propri ca-ri è la solitudine, la peggiore e più miserabile condizione possibile,come abbiamo già sottolineato nei precedenti capitoli. La morte deipropri familiari ha come tragico esito proprio la perdita di ogni sup-porto economico e affettivo: specialmente per le persone anziane,come anticipato nei canti femminili del cordoglio, questa situazionesi traduce in un totale isolamento sociale. Joaquim di Soga, nei suoicanti, rappresenta in modo emblematico questa condizione di po-vertà e solitudine. La casa ora è vuota, la veranda silenziosa:

28. Io vado da solo a casa, chi mi riceverà?Guardate come sono sfortunato (n’unummi konó):già non ho più nessuno eogni anno piango qualcuno.I tamburi sacri del villaggioguardate cosa hanno mandato per me:i tamburi sacri del villaggio mi hanno fatto rimanere nella veran-da da solo;nessuno parla più con me nella veranda.

I tamburi sacri, primo segnale di un lutto al villaggio, vengonoutilizzati come metafore della morte stessa, che ha lasciato Joaquimsolo nella sua casa. La veranda, luogo privilegiato di riunione dellafamiglia, di incontri, visite e chiacchiere, è ora silenziosa, muta: Joa-

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quim lamenta la sua condizione di ‘orfano’, la profonda solitudinedella sua vita. Nel canto riappare infatti il desiderio di comunicarecon i propri defunti: Joaquim chiede a ‘colui che passa’ senza fer-marsi, di riferire le sue parole al padre Okpas e alla madre N’unhin-te. La mancanza di legami familiari lo costringe a coltivare da solo ilcampo di riso e a vivere nella povertà: solo la ‘gonna’, l’abito tradi-zionale, è consentito agli orfani, che non si possono permettere ve-stiti più belli. Per questo ormai aspetta la morte senza paura: il tem-po del lutto è un tempo desiderato.

29. Se tu passerai, dì a Okpasche suo figlio va al campo di riso da solo,se tu passerai, dì a N’unhinteche suo figlio va al campo di riso da solo.Eh12! Voi che siete orfanisapete che dovete vestire solamente le gonne?Arisene non sa che un castigo è giunto per meio non mi posso più salvare perché siedo nella veranda da solo.

30. Eh! La sfortuna (n’unummi konó) ha trovato il mio corpo orfano nella veranda.Eh! Ha trovato il mio corpo solo nella veranda.

Quest’ultimo frammento riprende il tema del ‘fatalismo tragico’,al quale abbiamo già accennato e che riprenderemo nel prossimo pa-ragrafo: ricercando il senso delle sue disgrazie, Joaquim concludecon rassegnazione che la sventura si è abbattuta inesorabile sul suocorpo, come una forza esterna. N’unummi konó, la ‘sventura’, ha laforza e l’ineluttabilità del fato e sembra dotata di una precisa volontà

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12 ‘Eh!’ è un’interiezione utilizzata in diverse isole per esprimere dolore. Le al-tre interiezioni di uso comune a Bubaque, raccolte con la collaborazione di diversiinformatori e confermate anche da Scantamburlo (2000), sono le seguenti:

achó! Interiezione per esprimere gioiaai! Interiezione per esprimere spaventoaioh! Interiezione per esprimere meravigliaayu! Interiezione per esprimere apprezzamentobálmos! Interiezione per esprimere fastidiobám! Interiezione per esprimere incredulitàesóno! Interiezione per esprimere sgomento ioh! Interiezione per esprimere stupore odé! Interiezione per esprimere sorpresa spiacevole.

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di nuocere: trova il corpo del vecchio Joaquim sulla veranda e scon-volge la sua vita, senza che egli possa in alcun modo intervenire. Ilcanto si conclude infatti con la continua ripetizione disperata di unlamento: ‘ewanun kan enho’, ‘enhenguená kan enho’, entrambeespressioni traducibili con ‘povero me’.

31. Che sventura (n’unummi konó), che povertà!Povero me, povero me, povero me che sono solo.

5. «N’unummi konó», la miseria e la disperazione umana

Tutti i canti registrati sul campo, siano dei n’aro, del kundere o disuonatori di n’opaatra, condividono una considerazione generalesulla vita, enunciata nell’espressione n’unummi konó, la quale con-densa molteplici sfumature di significato. Per quanto letteralmentepotremmo tradurre questa frase come ‘cuore acceso, bruciato’, il suosignificato varia secondo i contesti: può indicare sia lo sconforto, lapovertà e la desolazione personali, sia in termini più generali l’infe-licità, la sventura e la miseria proprie della condizione umana. In uncaso, il cantante lamenta le sue disgrazie, attirando l’attenzione de-gli ascoltatori su di esse; nell’altro, riflette sulla miseria della vitaumana, sul significato del dolore, fino a chiedere a Nindo, il dio su-premo che presiede ai destini degli uomini, la ragione di tanto sof-frire. La morte, la malattia, la solitudine, la povertà sono situazionidi ‘crisi’, che più di altre muovono alla ricerca di un senso: n’unum-mi konó esige una spiegazione, una giustificazione, proprio perché èqualcosa che accade, sulla quale l’uomo non ha potere e dalla qualenon ha salvezza.

Segunda, autrice di una canzone kundere interpretata da Du-minga, canta il fardello della povertà e l’ineluttabilità di una soffe-renza, dalla quale non trova un’uscita, una via di fuga, proprio per-ché «la vita è miseria»:

32. Mi chiedono che cosa ho da piangere:piango perché sono poveretta (enhenguená)13.

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13 Il significato del termine enhenguená si colloca infatti tra l’indigenza econo-mica e la sfortuna, l’afflizione personale. In questo caso si può tradurre sia ‘perchésono povera’ sia ‘perché sono sfortunata’.

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La gente mi chiede che cosa ho da piangere:se bastasse fuggire l’avrei già fatto,gente, se bastasse diventare orebok,lo avrei già fatto,gente, se bastasse diventare iangue-iangue14, lo avrei già fatto,gente, se bastasse diventare un uccello,lo avrei già fatto:la vita è miseria/sventura.

Si tratta di un lamento disperato per un destino infelice che nonsi è meritato, che non si comprende e al quale non ci si può oppor-re. Così Segunda, disorientata nella sua incapacità di trovare il sen-so di tanto soffrire, decide di rivolgersi all’Orebok Okotó, il GrandeSpirito sede degli antenati del villaggio e rappresentazione tangibiledi Nindo, il dio creatore:

33. Sono andata a interrogare sulla mia sorte l’Orebok Okotó, ma l’orebok si è rifiutato di ascoltarmi,per quale motivo egli nega di dirmiperché continuo a soffrire,egli si rifiuta di dirmiche cosa devo ancora aspettarmi,Kungaran15 dimmi quale è il problema,Kungaran trova un senso,tu che puoi saperlo.

L’immagine della ragazza che, alla ricerca di una spiegazione, in-terroga lo spirito del villaggio, il quale rimane muto di fronte alle suedomande, è straordinariamente intensa. Di fronte al dramma dellamorte dei propri affetti, alla malattia, alle sciagure, alla tragicità del-la propria vicenda, Segunda cerca qualcosa cui aggrapparsi, un prin-cipio che possa conferire significato a queste esperienze. La miseriae la drammaticità della situazione umana prendono forma nell’im-magine dell’Orebok Okotó, divinità sorda alle suppliche della ragaz-za implorante. In questo caso l’espressione e la riflessione sul dolo-re non costituiscono un ‘lavoro della cultura’, inteso, alla Obeye-

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14 Il culto femminile Iangue-Iangue, di origine Balanta, è diffuso in tutta la Gui-nea Bissau (Callewaert 1995).

15 Nome proprio dell’Orebok Okotó di Bijante.

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sekere (1985: 147), come processo di metabolizzazione sociale e diattribuzione di significato a esperienze di perdita e sofferenza po-tenzialmente distruttive. La ricerca di una giustificazione termina difronte alla figura muta dello spirito del villaggio, vuota forma di le-gno dagli occhi lucenti, immagine tangibile e terribile di un dio chenon solo infligge castighi e pene immeritate agli uomini, ma che ne-ga loro addirittura la consolazione di un ‘senso’.

Questo tema non può non richiamare alla mente, nonostante ladistanza storica e culturale, la figura biblica di Giobbe, ‘colui che èoppresso’, l’innocente perseguitato senza un motivo da un dio che«lo considera suo nemico e si accanisce contro una paglia secca»(Giobbe 13, 25-26). Anche il lamento di Giobbe è rivolto a un dioche non ascolta e non risponde:

«Chiama pure! C’è forse chi ti risponda? Fra i santi a chi ti rivolge-rai?» (Giobbe 5,1); «E io come potrei rispondergli, scegliere le mie pa-role contro di lui? Avessi anche ragione, non riceverei risposta» (Giobbe9, 14-15); «Oh, sapessi come trovarlo! Giungerei sino alla sua dimora.Aprirei un processo davanti a lui; riempirei di argomenti la mia bocca.[...] Se vado verso oriente, lui non c’è; verso occidente, non lo trovo. Locerco a sinistra, non lo vedo; piego verso destra, non lo scorgo» (Giobbe23, 3-4; 8-9); «Dalla città provengono i gemiti dei morenti; i feriti invo-cano aiuto, ma Dio non ne ascolta la supplica» (Giobbe 24, 12); «Io gri-do verso di te, ma non mi rispondi; ti sto davanti e tu non badi a me. Tisei cambiato in duro avversario per me; mi colpisci con la tua mano vi-gorosa» (Giobbe 30, 20-21).

Le vicende personali in questi canti di M’Bene (34), Dominga(35) e Cavalero (36), si fanno simbolo della condizione esistenzialedell’essere umano, gettato nel mondo come un bambino, inerme eignaro, in balia di un destino inclemente:

34. Io sono colui che parla forte nella foresta grande16,che piango per l’Oraga M’Bene17;parlo forte nella foresta grande perché sono malato,

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16 Si tratta della foresta fitta, luogo del ritiro iniziatico, di defunti in pena e spi-riti non umani.

17 Il termine Oraga indica il clan al quale M’Bene appartiene.

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per questo soffro,perché sono un uomo bambino,perché la sventura mi ha preso:Nindo perché lotti/giochi contro un bambino?

35. Mi sono stancata di viaggiare le isole,di sopportare il mio castigo, sono una donna bambina, eppure soffro.

36. Nindo combatte contro un bambino.

In questi casi M’Bene, Duminga e Cavalero si paragonano espli-citamente a bambini indifesi: ammettendo apertamente la loro de-bolezza, la loro incapacità di opporsi al dolore, ottengono simpatia,compassione e comprensione dal pubblico e al contempo si dere-sponsabilizzano per eventuali comportamenti contrari all’etica do-minante. Sono dei bambini impotenti contro i quali Nindo combat-te-gioca (n’otin’áni): necessitano dunque di sostegno e non di biasi-mo. N’unummi konó è la lotta di un dio ‘malvagio’ contro uomini in-difesi: M’Bene (37), Duminga (38) e Cavalero (39) protestano alloraper i tormenti e le sciagure con i quali Nindo li affligge, ingiuste e as-surde quanto una guerra contro un bambino. E l’uomo, indifeso,straziato dalla morte dei genitori, dalla perdita dei compagni, dallemalattie, si rivolge a Nindo: perché combatti contro un bambino? Ilcanto assume allora i toni epici della protesta dell’uomo nei con-fronti di dio e del suo destino:

37. È Nindo che sta sopra di noi che gioca/lotta con me.

38. Nindo smetti di giocare/lottare con me,io imploro Nindo; io faccio cerimonie,ma Nindo non ascolta, Nindo non cede, Nindo è malvagio.

39. Baba di Ankamona18 io ti mando dov’è Nindoperché la smetta di castigarmi.

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18 In questo caso Baba, l’Orebok Okotó del villaggio di Ankamona viene invia-to come intermediario da Nindo.

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Il risultato di n’unummi konó, la sventura, la condizione misere-vole degli uomini, è la disperazione, la follia, la stanchezza per unalotta che si sa vana, il desiderio di morire. L’uomo si arrende total-mente, smette di combattere, vinto, si piega: «vento, tempesta, in-cendio» hanno avuto ragione di lui, come Cavalero ammette pub-blicamente cantando la sua sconfitta:

40. La tempesta ha distrutto il villaggio,il vento ha spezzato i rami,l’incendio ha bruciato le case:la sventura ha vinto la guerra,la sventura ha avuto ragione di me.

L’amara ammissione viene espressa sempre attraverso un lin-guaggio metaforico e poetico, che riveste l’impudica rivelazione del-la miseria e piccolezza dell’uomo con i veli della forma, della con-venzione, della ‘tradizione’, proteggendo al contempo la reputazio-ne del cantante19.

41. Andrò a svegliare gli uccelli nella foresta grande,quando sorge il sole.

In questo caso, per esempio, l’immagine del giovane karo che, al-le prime luci dell’alba, quando gli uccelli dormono ancora, vaga perla foresta ‘grande’, la selva fitta, pericolosa, popolata nelle ore not-turne da spiriti dannati e anime in pena, evoca nel pubblico l’idea diun uomo tormentato, disperato, afflitto, reso folle dalle sue sventu-re. Ancora Cavalero ricorre a una immagine metaforica, parlando dise stesso in terza persona e paragonandosi a una vacca (maschera ti-pica dei n’aro), per indicare la sua resa, l’abbattimento, la prostra-zione:

42. Il toro è caduto,la vacca è ferita gravemente,la vacca è sdraiata sugli arbusti.

Attraverso la similitudine con una vacca che riposa, stremata, su-gli eben’á, arbusti spinosi che crescono in prossimità della spiaggia,

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19 Si tratta di un processo simile a quello descritto da Lila Abu-Lughod riguar-do alla poesia dei Beduini Awlad ‘Ali (1986).

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Cavalero racconta al pubblico delle malattie che lo affliggono a cau-sa dei troppi patimenti. La sofferenza lo sta uccidendo, come am-mette infine, ricorrendo alla desolante immagine del suo corpo di-vorato dagli uccelli:

43. Colleghi miei, andrò a ingrassare gli uccelli

Quando ormai la violenza dei propri n’atribá, della sventura, delcastigo di Nindo, hanno avuto ragione sull’uomo, non resta che in-vocare la morte, balsamo per le sofferenze di questo mondo. Neicanti di M’Bene (44), Duminga (45), Cavalero (46) e Joaquim (47)l’esito ultimo del n’unummi konó è dunque il desiderio di riposare,sottraendosi a una vita di dolore e contrarietà:

44. Ascoltate: io non smetto di domandare a Nindoche accetti di portarmi viaio voglio andare al luogo dei morti,è un luogo ormai vicino per me.

45. La sventura abita la mia casa se almeno Nindo accettasse di uccidermi.

46. Madre degli orfani, vieni a prendermie portami via che io riposi dalla sventura.

47. Voi sapete che quella ragazzaha detto che mia madre si è stancata di piangere il corvo nel luogo dei morti;mio figlio ha pianto il corvo nel luogo dei mortila vita è solo miseria,io ormai ho fretta per quella cosa.

In quest’ultimo frammento il corvo rappresenta ovviamente l’au-tore stesso, Joaquim, triste cantore di lutti e disgrazie, la cui vocepronuncia «le parole del dolore con il suono del pianto degli uccel-li». Sua madre e suo figlio piangono nell’aldilà per le sue sfortune –la cecità, la povertà, la condizione di orfano – che lo rendono a talpunto disperato da avere fretta di morire: ‘quella cosa’, come deli-catamente e pudicamente canta Joaquim. Il desiderio di morte ap-pare anche in un’altra canzone, nella quale lo stesso autore invoca

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l’anima di suo figlio e di suo padre, perché vengano a prenderlo perportarlo nell’anarebok a riposare:

48. Figlio mio portami via adesso,che io possa andare a riposarmi.Padre mio portami via,che io possa andare a riposarmi.

Nei versi di Cavalero invece la morte, nonostante le malattie e di-sgrazie che lo affliggono, non è auspicata ma temuta. Nel canto cheriportiamo integralmente, mentre il solista canta delle sue sofferen-ze, il coro, rivolgendosi al pubblico, sottolinea il timore di Cavalerodi andare all’iniziazione dei defunti (il manras iarebok), in opposi-zione al manras dei ragazzi del villaggio di Menegue. Metaforica-mente si allude a una morte prematura, precedente l’iniziazione. Lesofferenze della vita hanno stancato quest’uomo, ma la morte inquesto caso viene considerata un destino ancora più crudele, un «ca-stigo»:

49. Svegliate le orecchie, sedetevi ad ascoltare la mia voce:la malattia ha combattuto questa vacca20,la febbre ha stancato questa vacca.

CORO

Questa persona non vuole andare all’iniziazione con i defunti,Yeyou21 non vuole andare alla partenza iniziatica con i defunti; la malattia combatte questa persona.

Il castigo del regno dall’acqua salata mi uccide.

CORO

Questa persona non vuole andare in viaggio con i defunti; la malattia combatte questa persona.

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20 La maschera che Cavalero indossa nelle danze dell’eraké ia n’aro è quella del-la vacca (isé okanto), mentre per esempio M’Bene porta la maschera dell’isé egude,il toro.

21 Yeyou è il nome familiare di Cavalero.

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Sarei andato all’iniziazione a Meneguecon i miei giovani colleghi,invece siedo nella canoa dei defunti.

CORO

Yeyou non vuole andare alla partenza iniziatica con i defunti;la malattia combatte questa persona.

Il contenuto dei canti sembra dunque non concordare con i det-tami della morale pubblicamente accettata, che prevedono un com-portamento sobrio e controllato. Il cantante accusa Nindo o la sven-tura di giocare con lui, di combatterlo ingiustamente: è una guerracontro un bambino e alle sue domande imploranti l’Orebok Okotónon risponde. Concentrato esclusivamente su se stesso e su n’atribápotenzialmente pericolosi, la sua disposizione d’animo in altri con-testi sarebbe considerata inadeguata, ridicola e dannosa per la suasalute e la tranquillità del gruppo. È importante considerare peròche la ‘trasgressione’ del cantante sta proprio nella confessione del-la sua debolezza, della sua incapacità di controllarsi, di rispettare la‘regola della giusta misura’ implicitamente proposta dagli anziani. Ilcantante non agisce in modo veramente ‘immorale’: nessuno cantadi aver covato un’invidia profonda, di aver rubato, violato una don-na o agito attraverso un omadók per danneggiare un rivale. Edík,amor e ikojóke, i n’atribá maggiormente cantati, sono certamente pe-ricolosi per la loro intensità, ma non sono veramente ‘antisociali’, co-me l’odio, la rabbia, l’invidia, il furore omicida. Cosa c’è di immora-le nel cantare, come fa Joaquim, che gli sono morti tutti e adesso èrimasto solo e disperato? O, come nel caso di Dominga, che suo ma-rito l’ha delusa, tradita, umiliata e abbandonata? È forse antisocialeil comportamento di M’bene, che vorrebbe parlare ancora con la suadonna che è morta, o quello di Cavalero, orfano e senza famiglia, chepiange i suoi cari? Non si tratta di canti ‘immorali’, quanto di nrawkan n’unummi konó, ‘canti della sventura’.

Nell’esibizione il cantante non cerca riprovazione e biasimo, maconforto e sostegno: ammettendo la propria incapacità di dominar-si e paragonandosi esplicitamente a un bambino indifeso si proponecome una vittima bisognosa di aiuto. Nessuno condanna i suoi mo-tivi, in quanto è evidente a tutti la gravità dei problemi che l’afflig-gono: molte volte nei discorsi quotidiani queste persone vengono an-zi indicate come vittime di compagni infedeli, di famiglie intriganti,

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o in generale della sventura. Spesso inoltre le persone del villaggiocercano giustificazioni per la loro vulnerabilità e mancanza di con-trollo: l’eccesso di un ingrediente in un piatto destinato ad accende-re edík-amor in chi lo consuma, l’azione di un omadók o di un obané,il tormento di un’anima in pena, che non vuole essere dimenticata.Significativo al proposito è il seguente canto nel quale Duminga, uti-lizzando i termini del linguaggio dei defunti, si rivolge direttamenteall’orebok di Nuno, il suo primo marito, per chiedergli di lasciarladefinitivamente. Solo dimenticandolo, infatti, le sarà possibile limi-tare il suo dolore: ma Nuno, che non vuole essere scordato, la tor-menta, la ossessiona, penetra con forza i permeabili confini del suocorpo. Per questo il suo spirito è pericoloso: perché è più forte e po-tente della capacità di controllo di Duminga, che non può se non ar-rendersi al dolore.

50. Defunto, allontanati da me.Defunto, che sei più forte di me,defunto, che sei più potente di me,spirito di morto pericoloso che sei più forte del legno22

questo defunto mi ha presoNuno, ti prego, torna a dormire nel luogo dei defunti.

Ciò che è veramente in opposizione alla morale dominante èl’ammissione pubblica di debolezza, in un contesto nel quale, so-prattutto per gli uomini, l’imperativo è essere forti e padroni di sé.Il cantante si dichiara ad alta voce vinto, soggiace suo malgradoall’intensità dei suoi n’atribá, esponendo se stesso e gli altri ai rischidel suo mancato controllo. Gli uomini, la cui condotta dovrebbe es-sere di esempio per i più giovani, confessano la loro debolezza; i ra-gazzi, che devono affrontare il manras, svelano i loro timori e le loroperplessità; le donne, che dovrebbero preoccuparsi dell’armonia fa-miliare, cantano la loro gelosia, il desiderio e la rabbia per il tradi-mento. E il pubblico, coinvolto, si lascia conquistare: rapito, si ar-rende al contagio del dolore.

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22 Il legno nel linguaggio delle possedute indica il corpo femminile, paragona-to a una piroga che trasporta gli spiriti dei morti (uruté iarebok). Si veda Pussetti1998.

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6. Etica del controllo ed estetica tragica

Come abbiamo mostrato analizzando il repertorio dei diversi inter-preti, le parole dei canti evocano contenuti emozionali eccessivi. Gliautori, che si narrano come vittime di n’atribá troppo violenti, sem-brano contravvenire doppiamente all’etica del controllo: in primoluogo perché dichiarano di non riuscire a dominare i loro sentimen-ti, in secondo luogo perché esprimono pubblicamente emozioni pe-ricolose e facilmente trasmissibili attraverso le permeabili barrieredei corpi. Parlare di n’atribá potenti e contagiosi significa infattiesporre se stessi a pettegolezzi, sospetti, al ridicolo o, peggio ancora,ad azioni di ‘stregoneria’, svelando la propria vulnerabilità, e al con-tempo coinvolgere suo malgrado chi ascolta, trasmettendogli pen-sieri-sentimenti capaci di attaccarsi (n’otronnán) o incollarsi(n’osavkán) al corpo. Tuttavia, come abbiamo più volte sottolineato,l’espressione poetica di questi n’atribá non solo è apprezzata, ma ilpubblico, contravvenendo alle basilari regole di prudenza, si lasciacoinvolgere senza remore e condivide il dolore del cantante, com-patendolo e giustificando il suo strazio. Se questi sentimenti sonoconsiderati pericolosi, ci si potrebbe chiedere riprendendo alcunequestioni che Lila Abu-Lughod si pone nella sua analisi della poesiadei Beduini Awlad ‘Ali (1986), perché consentirne allora la pubbli-ca espressione? Per quale motivo suscitano, qualora espressi nel can-to, approvazione e consenso, quando in altri contesti sarebbero for-temente stigmatizzati? Perché i cantanti, all’interno di un discorsomorale che privilegia il dominio delle proprie passioni, scelgono dirappresentare pubblicamente se stessi attraverso l’ammissione dellapropria debolezza? E perché non sono oggetto di riprovazione daparte della comunità, ma al contrario sono stimati per la loro abilità,al punto che conquistano successo e fama in tutto l’arcipelago? Perquali motivi il canto sembra permettere agli individui di svelareaspetti di sé contrari ai valori locali dell’onore e della dignità, senzaper questo giocarsi la reputazione?

Se gli interventi pedagogici degli adulti mirano alla costruzionedi una specifica ‘forma di umanità’, rappresentata pienamente dallafigura composta e autorevole dell’anziano, i canti offrono invece unavisione dell’uomo alternativa: un essere debole, permeabile, vulne-rabile, talvolta ‘agito’, vittima del suo prossimo come della sventura,in balia di passioni che non riesce a dominare e che si traducono inmalattie, sofferenze, isolamento sociale, pazzia.

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In primo luogo, dobbiamo considerare che i canti costituisconouna strategia retorica che gli individui adottano per narrarsi, attra-verso l’espressione di contenuti emozionali non accettati e la dichia-razione della propria debolezza. Quella che abbiamo precedente-mente definito ‘estetica tragica’, avvicinandoci al concetto locale dinraw kan n’unummi konó, è quindi interpretabile anche come unastrategia discorsiva, nella quale e attraverso la quale gli individui co-struiscono la narrazione delle loro vicende personali, della loro si-tuazione esistenziale, ricercando il consenso e la condivisione con glialtri. La poetica del n’unummi konó è dunque una forma cultural-mente apprezzata, approvata, condivisa, che propone una concezio-ne della vita umana alternativa a quella implicita nel discorso mora-le principale, consentendo agli individui di esprimere sentimenti efare affermazioni relative al sé che contravvengono all’ideale dell’au-tocontrollo. L’uso di un linguaggio ridondante, metaforico, poeticocostituisce un elemento di separazione rispetto alle interazioni lin-guistiche quotidiane, condizionando la risposta emotiva e il giudiziodel pubblico. Gli elementi di vulnerabilità, passività, debolezza e di-pendenza che emergono nella poesia rimandano inoltre alla situa-zione infantile: in questo modo l’artista cerca sia di ottenere simpa-tia, aiuto e comprensione, sia di mettersi al riparo dalla derisione edal biasimo degli altri23. Obbiettivo di queste strategie retoriche èdunque anche trasformare le attitudini del pubblico, coinvolgendo-lo emozionalmente: come affermano i miei interlocutori, ‘sono bellii canti che fanno piangere’. Il contesto performativo, trasformandoun contenuto strettamente personale in uno condiviso, consenteinoltre agli individui di riformulare le loro esperienze personali inuna forma esteticamente apprezzata, astraendole dall’ambito dellavita quotidiana, dove verrebbero considerate come sfide individualial sistema morale. Narrare le proprie vicende personali dolorose inuno stile narrativo approvato e comune, permette al singolo di ren-dere comprensibili, comunicabili e quindi controllabili, contenutiintimi potenzialmente distruttivi.

Raccontando come il desiderio ha lacerato il loro corpo, il dolo-re strappato il loro orebok, la gelosia bruciato il loro petto, la soffe-renza spento la loro voglia di vivere, i cantanti mostrano apertamen-

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23 Lila Abu-Lughod, nella sua analisi della poesia dei Beduini Awlad ‘Ali, cuiper molti aspetti sono debitrice, sottolinea questa retorica dell’infantilizzazione delpoeta per ottenere l’appoggio e la comprensione del pubblico.

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te i rischi che corre chi non riesce a controllare i propri n’atribá: lamalattia soprattutto, ma anche la follia, la riprovazione, lo scherno,la morte. In questo senso, anche l’ammissione cantata della propriaresa alle passioni contribuisce al mantenimento della morale domi-nante, mostrando in primo luogo i drammatici esiti del mancato do-minio di sé, in secondo luogo la capacità di autocontrollo del solistache, nonostante le terribili avversità, riesce a gestire l’impeto dei suoin’atribá trasformandoli in canto. Non solo infatti il cantante soprav-vive alla forza di emozioni e circostanze che avrebbero potuto ucci-derlo, ma dà loro una forma accettabile ed esteticamente appagan-te, narrandole all’interno di un contesto sociale adeguato e attraver-so uno stile definito e convenzionale. Avrebbe potuto ridursi a va-gare nella foresta senza orebok e coscienza, o finire con lo spegnersilentamente perdendo il contatto col mondo: invece nella piazza delvillaggio intrattiene il pubblico con il canto, con la poesia. La sua esi-bizione di padronanza di sé, quindi, mette in luce che la conformitàall’etica del controllo e il raggiungimento degli ideali culturali di ‘di-gnità’ e ‘onore’ non sono obiettivi facili o superficiali.

Parlare di discorso del sé non significa tuttavia avanzare l’ipotesidell’esistenza di un ambito nel quale viene espresso il sé più ‘auten-tico’, in cui i contenuti emozionali sono ‘naturali’, ‘veri’, ‘sinceri’, inopposizione a quelli ‘culturali’, ‘simulati’, ‘imposti’. Per quanto neicanti si parli dell’incapacità umana di resistere all’intensità din’atribá devastanti, della mancanza di senso della sofferenza, dellavulnerabilità e della tragicità della condizione umana, queste espe-rienze nell’ottica indigena non sono considerate come ‘innate’ o al difuori della ‘cultura’. Possono essere incompatibili con i valori san-zionati dall’etica del controllo, ma non per questo sono considerateidiosincratiche, istintive o naturali. L’espressione poetica della pro-pria vulnerabilità e della miseria umana, per quanto intima e appas-sionata, è di fatto costruita culturalmente, un idioma altamente con-venzionale. I n’atribá che confluiscono nel canto non sono più spon-tanei o aculturali di quanto non lo siano quelli espressi nel discorsoordinario: come abbiamo mostrato nel terzo capitolo infatti, nell’et-nopsicologia implicita, il bambino alla nascita non ha alcun kutribáinnato, ma solo sensazioni animali, come fame, sete o sonno. In’atribá vengono gradualmente acquisiti non solo attraverso i consi-gli degli anziani, ma anche, per esempio, assistendo agli spettacolidei n’aro, delle n’ampuni o dei suonatori di n’opaatra. I bambiniascoltano i canti e progressivamente nuovi n’atribá e interpretazioni

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della vita si sviluppano in loro. I versi delle canzoni li porteranno aesperire situazioni ricorrenti in modi simili, fornendo modelli per in-terpretare o inquadrare eventi della loro vita, secondo una visionecomune dell’esistenza. In questo senso, la forma poetica delle can-zoni offre non solo modelli di ma anche modelli per (Geertz 1987:182) le emozioni, consentendo agli ascoltatori sia di acquisire un vo-cabolario adeguato per esprimere i propri sentimenti sia di provare icontenuti emotivi rappresentati: vita e performance si contaminanoa vicenda. Questa visione ‘tragica’, che si affianca alla morale domi-nante, non trova quindi espressione solo nel canto, ma anche nellaquotidianità ogni qual volta il comportamento individuale contrasticon la morale dominante.

Piuttosto che vedere nell’etica del controllo un’ideologia cultu-rale ‘monolitica’ che riassume l’esperienza degli individui, è proba-bilmente più corretto supporre l’esistenza di molteplici ‘discorsi’ cuila gente può attingere per esprimere se stessa, per costruire delle nar-razioni di sé. In questo senso i canti rappresentano un modo di es-sere alternativo, e incoraggiano, riflettendolo, un lato dell’esperien-za più tollerante, più ‘umano’. Potremmo dunque interpretare i can-ti come metacommenti o riflessioni critiche sulla vita, la ‘struttura’,la morale egemonica, l’autorità degli anziani. La ‘visione tragica’, ri-marcando l’impotenza dell’uomo nei confronti del destino e la man-canza di senso delle proprie sofferenze, rappresenta una splendidarisposta antistrutturale all’etica del controllo di sé: in essa il disordi-ne, la tragedia, la disperazione si contrappongono alla serenità della‘buona morte’, alla tranquillità del comportamento ‘ordinato’ di chi‘cammina lentamente con gli anziani’24. Questa visione è presentatainfatti da donne sole, ragazzi umiliati da un’adolescenza prolungatae anziani socialmente marginali, ossia dalle persone che non benefi-ciano del sistema che l’ideologia del controllo mantiene, pur suben-done i costi e i limiti.

Questo non significa che l’etica del controllo sia semplicementeuna regola di esibizione pubblica di sentimenti appropriati: una ma-schera indossata in pubblico per ottenere l’approvazione sociale(Goffman 1959), vuota e ipocrita apparenza di moralità in opposi-zione all’esperienza personale espressa nei canti. Attribuendo un ca-rattere esclusivamente drammaturgico all’osservanza delle norme

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24 Per un’esposizione della dialettica tra ‘struttura’ e ‘antistruttura’ si veda Tur-ner (1957, 1969).

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etiche nella vita quotidiana, si corre il rischio di svalutare il signifi-cato individuale della conformità sociale, trascurando il desideriosincero e personale di comportarsi in modo moralmente corretto.Gli orientamenti morali sono percepiti non tanto come norme quan-to piuttosto come valori (Abu-Lughod 1986: 237): l’individuo nonsi adegua alla morale, acquisendola attraverso generalizzazioni espli-cite, ma cresce nella morale, la incorpora attraverso esperienze e par-tecipazioni ripetute. Questi valori, profondamente assimilati dallepersone (attraverso, per esempio, strategie discorsive quali compli-menti, elogi, condanne, biasimi, rimproveri) e associati a particolarisentimenti (si pensi alla ‘vergogna’ o alla ‘colpa’), si traducono a li-vello individuale in motivazioni personali: i cultural models diventa-no quindi human motives (D’Andrade e Strauss 1992), una questio-ne di sensibilità, onore e dignità personale.

Tuttavia, come l’analisi dei canti ha rivelato, è ragionevole sup-porre che i membri di una società siano inseriti in una molteplicitàdi discorsi morali, che forniscono visioni del sé che talvolta si trova-no in aperto contrasto. Come ha affermato Mary Beth Mills, in unsuo lavoro su giovani donne immigrate a Bangkok, le rappresenta-zioni così come gli sforzi di costruzione del sé non comportano ne-cessariamente una scelta esplicita e consapevole tra identità chiare edistinte: «l’esperienza vissuta dell’identità individuale è un processoin atto di negoziazione e contestazione tra e con le ‘posizioni del sog-getto’ disponibili [...]. Queste posizioni soggettive sono costituitedai molteplici discorsi che esistono in ogni società. Gli effetti ege-monici di questi discorsi potrebbero limitare ciò che gli individuipercepiscono come posizioni soggettive per loro disponibili; ciò no-nostante, gli individui continuamente scelgono tra e si muovonoall’interno di questi sé potenziali o immagini del sé nel corso dellaloro esistenza quotidiana» (Mills 1997: 38). Anche nel caso dell’an-tropologia implicita bijagó si può forse parlare di quello che Hen-rietta Moore definisce ‘soggetto internamente differenziato’ (1994:58): il sé è concettualizzato come incompleto e frammentario, com-posto di molteplici sfaccettature in relazione ai diversi discorsi cheabita, o meglio alle molte possibili ‘realtà’ che coesistono nello stes-so spazio sociale. Non c’è da stupirsi, quindi, della possibilità di mu-tare e vacillare, di cedere alla vanità e tradire, di essere arrendevoli evolubili.

Come abbiamo messo in evidenza nel corso di questo libro, l’in-tervento pedagogico degli anziani è destinato per un verso a defini-

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re, sfrondare, orientare in una precisa direzione i n’atribá confusidei bambini, per l’altro a creare degli specifici pensieri-sentimentimorali, funzionali al mantenimento dell’armonia sociale e dell’equi-librio individuale. Se il discorso della ‘stregoneria’ può essere in-terpretato come il linguaggio preferenziale dei n’atribá non accetta-ti, in quanto totalmente opposti al discorso dominante dei ‘senti-menti morali’, diversa è la questione per il n’unummi konó. Non sitratta infatti in questo caso dell’espressione di n’atribá che appar-tengono al ‘lato oscuro’ dell’uomo, a una morale rovesciata, al re-gno degli iabané, dei rifiuti, della decomposizione e della sporcizia.L’amore (amor), il desiderio (edík), il dolore (ikojóke) non sonoconsiderati aberranti e antisociali: sono però n’atribá particolar-mente intensi e quindi potenzialmente pericolosi qualora non con-trollati. In questo senso, i canti del n’unummi konó propongonouna visione dell’essere umano alternativa, ma non necessariamenteopposta alla morale dominante. I cantanti mettono in scena una di-mensione dell’esperienza che non trova spazio nei paradigmi di ri-ferimento dominanti – muti e incapaci di rendere conto del doloree delle sofferenze umane, come Nindo o Iahvé di Giobbe – ma cheimpone la ricerca di un senso e scuote profondamente i singoli e lacollettività, per esempio ogni qual volta si confrontino con la mor-te di un loro caro.

Riprendendo la celebre argomentazione di Abu-Lughod sul con-trasto tra onore e modestia e l’espressione poetica delle emozioni trale donne Awlad ‘Ali (1986), si potrebbe pensare in questo contestoche sia la ‘stregoneria’ sia nraw kan n’unummi konó costituiscanol’inevitabile traboccare di quei n’atribá che sono stati esclusi dal di-scorso dominante. Questa posizione comporta il presupposto cheper dare all’esistenza umana una forma distinta, ogni cultura debbanecessariamente sacrificare o escludere molto. Un’interpretazione diquesto tipo presupporrebbe però l’esistenza di un ambito esperien-ziale naturale o preculturale, al quale la società deve necessariamen-te dare forma, escludendone pertanto determinati aspetti, destinatia rimanere sullo sfondo. Come abbiamo più volte ripetuto, l’etno-psicologia locale non contempla l’esistenza di pensieri-sentimentinaturali e innati, materiale grezzo dal quale ricavare una specifica‘forma di umanità’. Piuttosto, tutto il mondo esperienziale ed emo-tivo degli individui viene costruito nel corso della vita: il neonato èinfatti considerato come una tabula rasa, che verrà incisa dal contat-to con gli altri. I Bijagó della comunità di Bubaque fin da piccoli han-

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no ascoltato i consigli degli anziani, le minacce, le accuse e i sospet-ti di stregoneria, i pianti delle donne e i canti della miseria umana.Partecipando della vita sociale, nei singoli individui sono venuti aformarsi sia i n’atribá morali di chi sa ‘camminare lentamente con glianziani’, sia quelli notturni, di chi ‘cammina da solo’, ‘vuole troppo’,‘ha lo sguardo tagliente’, sia i sentimenti violenti e pericolosi quali ildolore. La persona dunque, nell’antropologia bijagó, non viene in-tesa come un’unità monolitica e compatta, quanto piuttosto comeuna costellazione – parziale, non mai completa né integra – di ele-menti diversi e talvolta persino in contraddizione tra loro. Le possi-bilità alle quali l’individuo può adeguare il suo comportamento nonsono dunque infinite, ma certamente il discorso dominante non leesaurisce. La sola morale egemonica del controllo, come sistema diregole privo delle sue negazioni o alternative, è evidentemente in-completa, in quanto non sufficiente a rappresentare e a rendere con-to della complessità della vita sociale e dell’imprevedibilità dell’esi-stenza. Come i sistemi non sono mai esaustivi, in quanto vi sono sem-pre categorie che sfuggono e che il sistema non è in grado di coor-dinare, allo stesso modo nessuna società è un sistema chiuso e cir-coscritto, autonomo, completo, perfettamente equilibrato e omeo-statico. Riprendendo una affermazione di Edmund Leach riguardoall’organizzazione sociale dei Curdi Rowanduz dell’Iraq, dobbiamopensare alla società bijagó come «in uno stato di flusso costante e dicambiamento potenziale» (1940: 62), caratterizzata da una fonda-mentale instabilità e imperfezione. Le società umane, come anche gliindividui che le compongono, sono organismi inquieti, necessaria-mente incompleti e destinati a coltivare possibilità alternative, a cer-care i loro presupposti e la loro ragione d’essere al di fuori di lorostesse.

Come afferma Douglas R. Hofstadter, in un libro dal titolo Gö-del, Escher, Bach: an Eternal Golden Braid, «in realtà nelle cose uma-ne è spesso quasi impossibile fare una netta distinzione tra ciò che è‘dentro il sistema’ e ciò che è ‘fuori del sistema’», dato che noi vivia-mo costantemente entro un gran «numero di ‘sistemi’, interdipen-denti, intrecciati e spesso incoerenti» ([1979] trad. it. 1984: 41).L’incompletezza strutturale dei sistemi, con le parole di Remotti, cheha molto riflettuto sull’argomento, «è la ragione più autentica cheobbliga gli esseri umani a uscire dai propri angoli di mondo, a supe-rare i confini delle proprie forme di umanità, a cercare connessionie a istituire rapporti di vario genere (dal rispetto al rifiuto, dall’assi-

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milazione all’alleanza) con altre forme di umanità» (2000: 57)25.Contraddizione e precarietà sono quindi caratteristiche costitutivedi ogni gruppo umano: nella sua costituzione e rappresentazione en-trano infatti anche le esclusioni, le possibilità non realizzate, le scel-te negative e provvisorie.

7. Incompletezza, potere e sistemi aperti

Nell’antropologia implicita dei Bijagó della comunità di Bubaque, lavenuta al mondo di un bambino è quella di un organismo prematu-ro, aperto, penetrabile, dipendente in tutto dalla relazione con gli al-tri. Dalla sua incompletezza dipende il ricorso alla cultura, la neces-sità della costruzione e quindi di un modello di riferimento, di unaspecifica ‘forma di umanità’, prodotta dalle scelte più o meno con-sapevoli, revocabili e provvisorie di individui particolari. In realtà,abbiamo visto che coesistono prospettive alternative, modi diversi,divergenti, spesso addirittura incompatibili di intendere e forgiarel’umanità. Le possibilità scartate dal discorso dominante – rifiuti dadisprezzare, minacce da temere, oppure alternative da tollerare o ap-prezzare – sono lì a ricordare la natura ideale della forma di umanitàproposta dagli anziani e a dimostrare che ciò che si è realizzato è pursempre un modello particolare. Integrare e organizzare gerarchica-mente queste possibilità differenti e potenzialmente concorrenti, si-gnifica evocare il tema della competizione, del contrasto, dell’inte-resse, della contestazione: in ultima analisi, significa riflettere sullaquestione del potere. Abbiamo visto come gli anziani manipolino lerisorse simboliche della comunità allo scopo di trarne vantaggi e po-tere. In questo senso i discorsi locali sulla persona e le emozioni so-no stati interpretati come un linguaggio primario per definire e ne-goziare le relazioni sociali, in base per esempio alle differenze d’etàe alle caratterizzazioni di genere.

Catherine Lutz (1988, 1990) ha sottolineato come anche il di-scorso euro-americano contemporaneo sulle emozioni – derivato daalcuni settori della cultura americana e dalle teorie delle emozioni at-tualmente dominanti nelle scienze sociali – si riferisce prevalente-mente a ‘stati o eventi interiori’, ma di fatto coinvolge anche la vita

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25 Riflessioni su questi temi sono state esposte in Remotti 1990, 1993b, 1996a,2000, 2003.

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sociale, in quanto tende a riflettere (e tacitamente a riprodurre) unaspecifica ideologia del sé, del genere e delle relazioni sociali. In que-sto senso, i discorsi locali sulle emozioni possono essere consideraticome uno dei dispositivi che le persone elaborano per interpretare etrasformare la realtà, e attraverso i quali organizzano, definiscono enegoziano le azioni e le relazioni sociali che sorreggono le differen-ze di status e le caratterizzazioni di genere. Considerare per esempiole emozioni come soggettive, corporee, caotiche, incontrollate, irra-zionali e antisociali, legittima la necessità del controllo, dell’autoritàe giustifica la distinzione e la gerarchia tra uomini e donne. Lutz hamesso in luce che la comune associazione tra il femminile e l’emo-zionalità è rafforzata dalla supposta ‘naturalità’ che questi condivi-dono: «la visione degli uomini e della conoscenza come più cultura-li e civilizzati si oppone infatti alle primordiali associazioni dei con-cetti di femmina, emozioni e natura, ciascuno dei quali è più sem-plice, più primitivo e più antistrutturale dei concetti di maschio, co-noscenza e cultura» (1988: 74-75). Le donne sono quindi considera-te intrinsecamente, ‘naturalmente’ e geneticamente più emotive: perun verso necessitano quindi di protezione e controllo, per l’altrovengono relegate in una posizione socialmente debole e subordina-ta. Le ideologie del genere, del sé e dell’emozione si rinforzano a vi-cenda nell’individuare i settori della collettività che saranno consi-derati deboli e inferiori: parlare di emozioni significa dunque ancheparlare di potere e del suo esercizio. Queste considerazioni riporta-te da Catherine Lutz derivano da una concezione della persona co-me divisa in una parte razionale, mentale, culturale e in una parteemotiva, corporea, naturale: come abbiamo sottolineato nel secon-do capitolo, questa dicotomia si ricollega a una lunga tradizione dipensiero, che colloca le emozioni all’interno dei corpi, nella sfera pri-vata e inconoscibile delle persone, in contrapposizione al regno pub-blico della ragione e del pensiero.

Nel corso di questo libro abbiamo visto invece come le teorie et-nopsicologiche, che sostengono e strutturano i discorsi sulle emo-zioni nella comunità di Bubaque – frutto di un’antropologia localefondamentalmente antropo-poietica e di una visione della personacome internamente indivisa e aperta alle influenze del mondo socia-le –, uniscono in modo complesso categorie e aspetti della personache noi abitualmente consideriamo domini separati, come mente ecorpo, ragione ed emozione. Potremmo affermare, alla luce dei datiriportati, che i Bijagó di Bubaque condividono una concezione ‘co-

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struttivista’ delle emozioni: come abbiamo illustrato nel terzo capi-tolo, infatti, i n’atribá, termine che abbiamo tradotto come ‘pensie-ri-sentimenti’, non sono immediatamente dati alla nascita, ma ven-gono a formarsi progressivamente grazie alla crescita, all’educazionee all’estrema ‘permeabilità’ del corpo del bambino.

Questa visione delle emozioni come culturalmente costruite si ri-flette anche sulla concezione locale del maschile e del femminile.Mentre le ricerche di Lutz dimostrano che nel discorso ‘occidenta-le’ sulle emozioni l’associazione tra femminile, emozionalità e natu-ra giustifica come congenita, innata e naturale la distinzione tra i ge-neri, la comunità bijagó di Bubaque sembra condividere una conce-zione della differenza di genere come socialmente costruita. Se-guendo il processo di formazione della persona e di costruzione delgenere e analizzando le pratiche e i discorsi pedagogici, abbiamo os-servato come nella prima infanzia l’opposizione maschile/femmini-le non è sentita come rilevante e non si riscontra una fondamentaledistinzione di genere nella costruzione dei n’atribá. I percorsi di cre-scita verranno diversificati più tardi, quando gli anziani cercheran-no di intervenire in particolare sui giovani maschi, in accordo con unmodello che vede in ogni uomo un guerriero: alcuni n’atribá (qualiper esempio la ‘responsabilità’ o il ‘coraggio’), come la stessa eticadel controllo, diverranno allora più rilevanti e rigidi per gli uominiche per le donne26. Nonostante che i bambini inizino gradualmentead avere n’atribá e a comportarsi in modo effettivamente ‘umano’ at-traverso un vasto arco di esperienze concrete e quotidiane – grazieall’azione continua e silenziosa dei diversi ambienti e pratiche socia-

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26 La costruzione della specificità di genere nell’antropologia bijagó è un pro-cesso sempre aperto, continuamente ridefinibile e rinegoziabile: i n’atribá e la ‘per-sonalità’ in alcuni momenti della vita possono subire radicali trasformazioni, cometestimonia il caso emblematico dell’inversione di genere nella possessione femmi-nile manras iarebok (Pussetti 1998, 1999, 2001; Bordonaro e Pussetti 1999). Incor-porando l’orebok di un ragazzo morto, la posseduta ne acquisirà anche l’identità,la personalità, i pensieri-sentimenti. Lascerà gli abiti femminili, i figli, la famiglia, icompiti quotidiani, per condurre la vita del guerriero che incarna, per periodi chepossono arrivare fino a sei mesi consecutivi. Nel corso di questi periodi modelli al-terati di uso del corpo, nuove relazioni ed esperienze (la posseduta, per esempio,adotta pratiche corporee e atteggiamenti marziali tipicamente maschili, corteggiaapertamente le amanti del defunto, intona canti di guerra) favoriscono la creazio-ne nella donna di nuovi n’atribá, inducendo nuove riflessioni e trasmettendo ele-menti fondamentali dell’etica bijagó.

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li e alla constante immersione nella vita del villaggio (socializzazioneprimaria) –, il percorso antropo-poietico è strettamente legato al po-tere della parola degli anziani di agire sui giovani, penetrando i loropermeabili confini corporei (socializzazione secondaria).

Nel primo caso, questo processo di plasmazione si insinua nelleforme silenziose della quotidianità, nei simboli, nei valori, nell’auto-rità non dichiarata dell’abitudine e della convenzione. Come l’insi-stenza locale sul concetto di ‘abitudine, ripetizione’ (omég) sembrasottolineare, è proprio attraverso la formazione di un habitus che laconvenzione sociale acquista la sua naturalità e la sua immediatezzae che le pratiche del potere, profondamente inscritte nelle azioni delquotidiano, cessano di essere percepite o rimarcate come forme dicontrollo: la ‘naturalizzazione’ di un qualsiasi fatto sociale costitui-sce infatti una delle strategie ideologiche più diffuse.

Nel secondo caso, si tratta invece della capacità di singole perso-ne di modellare intenzionalmente e direttamente le azioni e il com-portamento degli altri secondo un preciso programma antropo-poietico. Come abbiamo visto, gli anziani si occuperanno di forma-re, disciplinare e guidare, a partire dall’infanzia e per tutta la vita, in’atribá dei giovani in una direzione ideale, coerente e funzionale almantenimento di un preciso ordine morale e sociale e alla costru-zione di un certo tipo di adulti. È ascoltando-comprendendo(n’oguén), durante gli anni, le parole (kabonake) e i consigli (n’oki-nad) degli anziani che verranno a formarsi i n’atribá più importantiper il buon vivere sociale: in questo senso, il discorso sulle emozionidegli anziani non propone tanto norme cui gli individui dovrebberoattenersi, quanto costruisce gli individui come esseri emozionali diun certo tipo. Gran parte dei n’atribá che si possono provare derivaquindi direttamente da questi discorsi pubblici sulle emozioni, chenon solo creano specifici pensieri-sentimenti, ma al contempo indi-cano e orientano il tono emotivo delle relazioni, offrendo modelli dicomportamento percepiti come ‘normali’ e ‘naturali’, che aiutano gliindividui a tradurre le proprie sensazioni in espressioni adeguate eaccettabili. Attraverso questi discorsi, infatti, alcuni membri dellacomunità presentano pubblicamente i possibili comportamentiemotivi, offrendone al contempo un giudizio, una valutazione, unmodello ideale, un’interpretazione e stabilendo così cosa appariràcome ‘razionale’, ‘normale’, ‘giusto’, ‘accettabile’: qui si apre unaquestione che ha importanti implicazioni politiche.

I consigli degli anziani possono essere letti infatti come pratiche

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che dipendono e che al contempo generano potere, consentendo ilmantenimento e la riproduzione di relazioni di tipo ‘gerontocratico’.Modellare gli altri, proponendosi come detentori del sapere, signifi-ca disporre di un grande potere: in questo senso comprendere chiconosce cosa, chi crea e definisce significati culturali e con quale fi-ne, diviene una questione molto seria. Nella comunità bijagódell’isola di Bubaque, le persone che padroneggiano i segreti inizia-tici, la legge, la volontà degli antenati, che conoscono il passato ehanno la possibilità di trasmettere, definire e utilizzare queste no-zioni, sono relativamente poche. Se, seguendo il suggerimento diKeesing (1987), consideriamo la cultura come un testo, possiamo af-fermare che non tutti lo comprendono o lo possono leggere nellostesso modo e non tutti contribuiscono a interpretarlo, a scriverlo oa modificarne i significati. La conoscenza legittima il controllo, il po-tere e la gerarchia: così gli anziani, fisicamente più deboli, incapaciormai di lavorare, tagliati fuori dalle nuove dinamiche del mercatocome dalle possibilità di istruzione, possono controllare i giovani,accumulando beni, mogli e figli. Solo loro possono infatti agire co-me intermediari con gli antenati, solo loro hanno accesso ai segreti,conoscono la legge, hanno incorporato pienamente la responsabilitàsociale e hanno quindi la maturità per educare gli altri e per decide-re e dirimere le questioni del villaggio.

L’analisi del discorso dominante sulle emozioni nella comunitàbijagó di Bubaque ci ha permesso dunque di mostrare come ancheaspetti che possono essere ritenuti intimi e naturali riflettono inrealtà dinamiche di potere: in questo senso l’antropologia delle emo-zioni si presenta anche come una prospettiva critica, volta a ricon-durre ogni aspetto individuale e culturale al più ampio contesto sto-rico, politico e sociale in cui esso è inserito. Uno degli obiettivi diquesta ricerca nella comunità di Bubaque, è fornirci di nuove lentiattraverso le quali far emergere aspetti di un qualche rilievo della no-stra stessa società, superando lo schermo delle nostre naturalizza-zioni, la barriera delle nostre reificazioni, i veli della convenzione. Inquest’ottica l’antropologia delle emozioni potrebbe assumere un’im-portante funzione di critica sociale anche al di fuori del mondo ac-cademico, nella misura in cui è in grado di illuminarci sulla relativitàe la natura socioculturale del nostro sapere più indubitabile, del sen-so comune, addirittura delle nostre emozioni e sensazioni corporee,svelandone la natura politica e sociale. Le emozioni infatti, come ab-biamo visto nel secondo capitolo, rivelano un’essenza contempora-

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neamente biologica e sociale, collocandosi in quella zona opaca e dif-ficile da definire nella quale percezioni, sensazioni, valutazioni, ap-prendimento, orientazioni cognitive, moralità pubblica e ideologiaculturale si congiungono. In virtù di queste loro caratteristiche – sot-tolineano Lock e Scheper-Hughes – le emozioni svolgono un im-portante ruolo di mediazione e connessione fra tre corpi diversi e in-sieme coesistenti: quello individuale proprio dell’analisi fenomeno-logica e relativo al self corporeo; quello sociale indagato dallo strut-turalismo e dall’antropologia simbolica; quello politico, messo in lu-ce dalla genealogia foucaultiana e dagli studi del poststrutturalismo(1987: 69).

Esaminare come le emozioni siano immaginate, definite e inter-pretate significa dunque riflettere su relazioni sociali, rapporti fragruppi dominanti e gruppi oppressi, differenze di status e caratte-rizzazioni di genere. Se per un verso la cultura entra a far parte del-la vita degli individui, non dobbiamo però trascurare il fatto che isoggetti si appropriano a loro volta dei discorsi culturali adattando-li, trasformandoli, contestandoli, rovesciandoli, in ultima analisi ne-goziando di continuo il loro significato. Ovviamente stiamo qui fa-cendo riferimento a una definizione della cultura «non solo come si-stema condiviso di credenze, di comportamenti, di pratiche, ma an-che nei termini di una struttura eterogenea, instabile, perciò stessoconflittuale, dove coesistono attitudini, ruoli, desideri, rappresenta-zioni differenti o contraddittori, e dove gli individui non solo si adat-tano alla loro società, ma hanno la necessità di inventare la società ecostantemente produrla» (Beneduce 1997: 124).

La presenza di un ‘discorso morale egemonico’ non significa in-fatti che queste direttive generali siano al riparo da interpretazioniindividuali e situazionali, che non vengano cioè discusse quotidia-namente, trasformate, adattate, addirittura stravolte. Gli stessiorientamenti morali non costituiscono un sistema perfettamentecoerente, privo di brecce, ma si trovano spesso in conflitto, prestan-dosi quindi a interpretazioni discordanti: contestando l’assunzionedella coerenza delle strutture referenziali, in quanto basata su una vi-sione essenzialista della cultura, Gilles Bibeau ci invita a considera-re l’eterogeneità interna dei sistemi di rappresentazione che gli indi-vidui usano per costruire il proprio sé, le proprie emozioni e la pro-pria esperienza del mondo, osservando con attenzione gli interstizi,i paradossi, le ambiguità e le inconsistenze che sono parti costituti-ve dei sistemi di significato. «Gli individui – sostiene infatti Bibeau

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– costruiscono la loro esperienza combinando i codici fondamenta-li delle molteplici visioni del mondo cui essi aderiscono, con ele-menti periferici marginali che hanno invaso i loro sistemi di rappre-sentazione» (1997: 57). Per costruire i loro mondi interiori gli indi-vidui fanno infatti riferimento a schemi che generano inevitabil-mente puzzles, anomalie, spazi vuoti, contraddizioni e sovrapposi-zioni di valori, a codici centrali di riferimento che generano struttu-re di rappresentazioni e scenari pragmatici che possono essereampiamente caratterizzati come mobili, instabili e transitori (Bibeau1997: 55, 57).

Come abbiamo più volte sottolineato, è bene non dimenticareche tra il piano dell’ideazione e quello della realtà, tra gli obiettiviche si perseguono e i risultati effettivamente conseguiti, tra il mo-dello ideale della ‘persona’ e i singoli individui vi sono considerevo-li scarti. Le situazioni della vita quotidiana sono fluide e indetermi-nate e le azioni e relazioni rimandano a una pluralità di valori e nor-me, talvolta in contrasto tra loro. Sono quindi possibili interpreta-zioni alternative a seconda dei fini degli individui, oltre che della lo-ro posizione sociale e rete di relazioni, che autorizzano forme diver-se di comportamento.

Ogni esperienza inoltre avviene in mondi locali – un villaggio,una comunità, un gruppo, una famiglia – ma questi contesti non so-no circoscritti e stabili, quanto piuttosto mutevoli e aperti a diverseinfluenze locali, nazionali e transnazionali. Il ‘punto di vista indige-no’ non costituisce una verità ultima, ma «un ‘discorso’ che fa partedi un certo ‘ordine’, che si produce all’interno di una situazionecomplessa e polifonica, che è immerso nella storia e nel mutevolecampo di forze creato da istanze e interpretazioni molteplici e con-flittuali» (Rossi 2003: 130). Ogni cultura, in misura minore o mag-giore, possiede un’anima molteplice, contraddittoria, discordante,così come in ogni individuo coesistono differenti soggetti: con le pa-role di Bibeau: «molte voci parlano negli individui [...] connesse ametanarrative frammentate e a sistemi di rappresentazione flessibi-li» (Bibeau 1997: 57).

Come la stessa antropologia implicita dei miei interlocutori met-te in luce, i n’atribá non si creano apprendendo un sistema ordinatoe assolutamente coerente di norme e valori culturali, ma partecipan-do in modo pragmatico e continuo a relazioni sociali e ad azioni quo-tidiane dal carattere talvolta incompleto, ambivalente e frammenta-rio, ascoltando parole diverse – degli anziani come dei missionari, di

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Tcharte come dell’infermiere del centro di salute – spesso contrad-dittorie e confuse. Dire che un ragazzo «ha la testa confusa», poichéè esposto a una grande molteplicità di messaggi contrastanti, signifi-ca dire che si colloca nell’intersezione dei diversi discorsi che coesi-stono nella stessa società. La concezione di ‘discorso’ che qui è sta-ta proposta, come abbiamo più volte rimarcato, non è così potenteda precludere ogni possibilità di libertà e agency agli individui: le re-gole di questo gioco possono essere alterate, trasgredite e ridefinitedai suoi giocatori, che resistono a certi paradigmi nel momento incui ne accettano altri, agendo in modi contraddittori e alterando leloro azioni nel corso del tempo. In questo senso il concetto di ‘di-scorso’, come quello di ‘cultura’, non ha una realtà separata, unastruttura omogenea e coerente, ma coincide con le pratiche, le stra-tegie retoriche e le esperienze dei soggetti, nella loro contradditto-rietà ed eterogeneità27. Ha quindi a che fare con la costruzione, lanegoziazione e la comunicazione dei significati nelle interazioni del-la vita quotidiana, in un processo di ricreazione continua della realtàsociale.

Affrontando il tema della ‘stregoneria’ e la poetica della miseriae della debolezza umana, per esempio, abbiamo fatto affiorare alcu-ni discorsi paralleli, la cui presenza acquista significato proprio inopposizione ai sentimenti della ‘buona vita’, all’etica del controllo edel dominio dei propri n’atribá. Sia il linguaggio della ‘stregoneria’sia la poetica del n’unummi konó, per quanto l’una nascosta e stig-matizzata, l’altra pubblica e approvata, possono essere dunque in-terpretate come visioni antagonistiche e alternative, il lato oppostodella medaglia, lo specchio che riflette in una forma invertita le nor-me e i precetti morali che appartengono al discorso dominante, gliscarti della ‘forma d’umanità’ proposta dagli anziani, o ancora comela voce e le pratiche delle persone marginali che tentano di agire sul-la loro situazione. Entrambi possono essere letti inoltre alla lucedell’incontro e della contrapposizione tra i valori ‘tradizionali’ pro-posti dagli anziani – legati all’epoca precoloniale e all’antico ordineculturale – e le nuove aspirazioni e aspettative, connesse all’impatto

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27 A questo proposito Roberto Beneduce (2002: 38), contrapponendo la diver-sificazione e la moltiplicazione di discorsi e pratiche a una visione superata della cul-tura come internamente coerente e coesa, riprende il concetto di ‘diversità intra-culturale’ proposto da Sankoff già nel 1971 (Sankoff cit. in Corin e Bibeau 1975:285).

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della globalizzazione e alle rapide trasformazioni economico-sociali.Nel quarto capitolo abbiamo messo in luce come la ‘stregoneria’ for-nisce un discorso efficace per interpretare gli enigmi, i conflitti, leaspirazioni e le inquietudini dell’attuale situazione socio-storica. Èuna questione di potere, ma un potere destrutturato, in costantecambiamento, preso, rubato, reclamato da un ampio spettro di atto-ri sociali: dalle categorie dominanti, come strumento di accumula-zione e difesa dei propri privilegi; dagli individui ai margini dellastruttura, come possibilità inedita di ricchezza, promozione e affer-mazione personale. Nel sesto capitolo abbiamo invece affrontato lapoetica del n’unummi konó, della vulnerabilità, della debolezza,dell’incapacità di controllo, nella quale trovano voce ancora una vol-ta individui socialmente deboli, che non beneficiano del sistema chel’etica del controllo mantiene, pur subendone i costi e i limiti. I can-ti, per quanto non possano essere ridotti a una forma di critica so-ciale, spesso lamentano l’intolleranza e l’autorità degli anziani; il pe-so di norme che i giovani più non condividono; l’insoddisfazione dichi – alle soglie della vecchiaia – ancora si trova costretto in un’ado-lescenza prolungata. Talvolta rappresentano il veicolo adeguato perl’espressione della protesta delle donne che – in nome dell’amor –non accettano la poliginia; delle ambizioni di coloro che vorrebberostudiare, partire, cercare fortuna a Bissau o ancora più lontano; del-le rimostranze delle persone anziane e malate, cui è venuto a man-care il supporto sociale.

Allo stesso tempo, in contrapposizione alla ‘serenità’ della buonavita – implicita nel discorso degli anziani, che associa un comporta-mento ‘ordinato’, ‘rispettoso’ e ‘adeguato’ al favore di Nindo e degliantenati e dunque al benessere e alla prosperità della famiglia e delvillaggio – la poetica del n’unummi konó parla dell’ineluttabilità deldolore, dell’impotenza dell’uomo di fronte a un destino capricciosoo a un dio malvagio che gioca/combatte con le sue creature, vittimedeboli e indifese come bambini. Se nei discorsi pubblici degli anzia-ni la conformità a quella che abbiamo definito ‘etica del controllo’ eai suoi sentimenti morali comporta tranquillità sociale e personale,prestigio e benessere, nei canti del n’unummi konó in ultima analisil’uomo non è artefice del proprio destino, ma una pedina costrettain un gioco che non ha un senso, la cui unica speranza e consolazio-ne sarà la morte.

Per un verso dunque una visione tragica del mondo, nella qualenon ci sono premi né condanne, ma solo la minaccia di una sventu-

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ra che colpisce a caso e di un dio crudele che gioca con gli uomini.Per l’altro una vita segnata dal peso di un debito e una responsabi-lità nei confronti della collettività, nell’attesa di raggiungere la posi-zione di anziano, culmine massimo di una gerarchia sociale oggi sem-pre più vuota di significato agli occhi dei giovani, orientati verso dif-ferenti modelli e nuove promesse. Questa costante erosione dei va-lori e delle norme proposti dagli anziani nei termini della ‘tradizio-ne’ e la perdita di importanza della coesione del gruppo si rivelanoparticolarmente distruttive anche nei confronti di quei riferimenti ereti di significati dai quali trae origine quell’‘aura di fattualità’ chepermette all’individuo di appropriarsi e comprendere le sue espe-rienze e la sua sofferenza28. Forse è anche da leggersi in relazione aquesto disgregamento dei codici e dei riferimenti tradizionali il can-to di chi, come Joaquim, Duminga e Segunda, non trova la ragionedi ciò che accade, non arriva a conferire senso al suo dolore, inter-rogando uno spirito che si rivela un muto pezzo di legno.

È a loro, come anche a Tcharte, M’Bene, Pedro, Koká, Obennóe Babú tra gli altri, che devo quanto ho compreso, lasciandomi coin-volgere dai loro racconti, commuovere dai loro canti e contagiare dailoro n’atribá. La scommessa di questo lavoro è stata quella di darespazio alla loro voce e alle loro storie, in modo da rappresentare ledimensioni soggettive dell’‘essere nel mondo’ in un determinatocontesto locale dal punto di vista dei soggetti che agiscono, evitan-do cioè, per quanto possibile, di fare un eccessivo affidamento sumodelli concettuali e spiegazioni sistematiche troppo distantidall’esperienza locale29. Occuparsi delle emozioni delle persone concui ci troviamo a dialogare come antropologi, significa infatti anchepresentare una visione più intensa e vicina a noi dei nostri interlo-cutori, preferendo all’immagine impersonale di attori sociali quelladi «persone che si confrontano con la possibilità della morte di unmembro della loro famiglia» (Lutz 1986: 431), non riducendo quin-

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28 Interessanti riflessioni sulle dinamiche psichiche, comportamentali e relazio-nali che i processi economici e socioculturali in contesti africani attivano nei singolie nelle comunità sono state proposte da Roberto Beneduce (1995: 7-40).

29 In contrasto a etnografie che, per usare l’espressione di LeVine, «produco-no una descrizione culturale analoga a una mappa o a una fotografia aerea di unacomunità», le etnografie incentrate sulla persona (person-centered ethnography) «cidicono che cosa significa vivere là – quali aspetti sono salienti per gli abitanti» (Le-Vine 1982: 293).

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di i singoli protagonisti a mere incorporazioni di una cultura astrat-ta, ma evocando soggetti «pieni di speranze, paure, desideri e pro-getti» (Paul 1989: 1, 4).

Riportare i racconti, le biografie, le riflessioni e le parole di per-sone reali, sottolineando ciò che gli stessi interlocutori indicano co-me significativo, si rivela dunque un’importante strategia per meglioconsiderare e apprezzare le sfumature di significato dei vissuti emo-zionali. Per quanto infatti sia certamente possibile riscontrare tra diessi delle ‘somiglianze di famiglia’, tali contenuti emotivi perdereb-bero indubbiamente la loro particolarità, le loro caratteristiche uni-che, qualora astratti dallo specifico contesto e situazione. Un’etno-grafia person-centered rappresenta inoltre una metodologia utile pernon appiattire eccessivamente la vita degli individui in tipificazioni,essenzialismi e definizioni astratte, rendendo invece conto dell’ete-rogeneità dei significati, delle prospettive e delle passioni individua-li. Quest’antropologia che tenta di «catturare stile, stati d’animo,emozioni» (Marcus e Fischer [1986] trad. it. 1998: 141) è stata a suavolta un’impresa personale e intellettuale appassionata, coinvolgen-te ed emotivamente carica. La speranza è quella di essere riuscita inalcuni momenti a trasmettere al lettore a taste of ethnographic things(Stoller 1989), rendendolo vulnerabile alla forza e al contagio dein’atribá, in quanto, con le parole di Ruth Behar, «un’antropologiache non spezzi i cuori non ha più alcuna ragione d’essere» (1996:177).

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Glossario

anarebok: Il luogo degli iarebok, aldilàankataba: Luogo del luttoannani: Stanza centrale della casa dove dormono e partoriscono le donnebú, n’abú: Testadeeki: Soloedík, ko-: Desiderio sessuale, amore, cupidigia, avidità, combattimentoekéntro, i-: Patto, responsabilità sociale, legge, scarificazione iniziaticaenhenguená: Indigenza, povertàeraké, ko-: Danza, spettacolo, teatroerande, inv.: Entità sovrannaturaleeshoní: Matrimonio dei n’aroIagbaaga: Abitanti dell’isola di Bubaqueiangaram, ka-: Tamburo ikojóke: Dolore-malattiaikosó: Vergogna, imbarazzo di fronte a persone gerarchicamente superiori jáaprot: Idiota, stupidokabido, n’a-: Grado d’età maschilekabonake, n’a: Parola, problema, opinione, avvenimento, conversazione, discorsokadene, n’a-: Grado d’età maschilekakpaná, n’a-: Paura, spaventokakpikpidí, n’a-: Tempestakampende, n’a-: Ornamento dei n’aro indossato come una cinturakampuni, n’a-: Ragazze non sposatekanhokam, n’a-: Grado d’età maschilekanjá iarebok: Tempio degli spiriti dei morti, sede del culto di possessione femmi-

nilekanjá, n’a-: Tempiokanunake: Prima cerimonia del culto di possessione femminilekárina: Lamenti funebrikaro, n’a-: Grado d’età maschilekassisa, n’a-: Orebok malvagiokassuká, n’a-: Grado d’età maschilekataba, n’a-: Cerimonia funebre; cadaverekobané, n’a-: Angoscia, paura di chi teme di essere perseguitato da uno stregonekoneió, n’a: Matrimonio definitivokonno, n’a-: Orecchiokonó, n’a-: Cuore, fegato, petto

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korammó, n’a-: Co-moglie; gelosiakoratrakó, n’a-: Legatura, cosa segreta o proibitakpau koronho: Cassia Podocarpa, piccola pianta associata alla figura dell’oronhókuduba, n’a-: Clan matrilinearekugbí, n’a-: Corpokumbonki, n’a-: Tamburo sacrokundere: Danza delle n’ampunikunsaro: Comportamentokutribá, n’a-: Pensiero, sentimento, emozionemanras iarebok: Iniziazione degli iarebok, culto di possessione femminilemanras: Iniziazionen’ajóko: Mondo, le case del villaggion’éta: Ricordon’obén: Essere brutto, essere sbagliaton’obítr kusina: Ciclo rituale che distribuisce la popolazione maschile in classi e gra-

di d’età e che prevede una forma di pagamento dai giovani verso gli anzianin’oboj: Potere, sopportare, resistere, contenere, spegnere il fuoco, controllarsi n’obójetin’o: Riuscire a salvarsi, a fuggire; controllarsi, sopportaren’obonaki: Parlare, conversare raccontare una storia, un avvenimenton’odá: Ritorno, reincarnazionen’odag: Piangere; il verso di alcuni animali (uccelli, vacche, gatti)n’odés: Ridere n’odi: Letteralmente ‘voi andate’; nostalgia, mancanzan’odík: Volere, desiderare, amare; battersi, competere, picchiarsin’oditam: Dire, insegnare, educaren’ogbe bú: Avere testa, dare un senso, un significato alle cosen’ogbe konó: Avere petto, cuore o fegato, avere pazienzan’ogbe: Averen’ogbok: Stancarsi, essere stancon’ogbón: Essere adulto, maturo, completon’oguén: Sentire, ascoltare, comprenderen’ojabán: Scherniren’ojentók: Solitudinen’ojir: Coerenzan’ojiron: Essere calmo, freddo, intelligenten’ojón: Vederen’ojóno: Essere debole, essere ridicolon’oka: Sedersin’okandaré: Abbandonarsi, lasciarsi andaren’okinad: Consigliaren’okojóke: Provare dolore, soffrire, aver male, fare malen’okosó: Vergognarsin’okpaná: Avere pauran’okpé: Uccidere, morire, morten’omaróke: Arrabbiarsin’omatrák: Non resistere, non sopportare, bruciare, esploderen’omég: Abitudine, abituarsin’onam bú: Essere testa, avere rispetto, essere consapevole e riflessivon’onam konó: Essere cuore, provare pena, dispiacere

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n’oniné: Avere gli occhi perforanti, appuntiti, avere invidia, essere invidioson’onyón: Essere tranquillo, stare in silenzio, smetterlan’opaatra: Strumento a cordan’openón: Coraggio, essere forten’opetekam: Essere pauroso, debole, stanco, pigro, rilassaton’orai: Cantaren’orak: Danzaren’oraw ankataba: Canto eseguito durante la cerimonia funebre kataban’oraw, n-: Canton’orib: Parlaren’oribiká: Spiegare, rendere esplicito, dare un’opinionen’orokóm: Giocare, lottare, essere pazzon’orotókan: Vendicarsi, riparare, restituire, scambiaren’oseney: Essere ordinato, fare pulizia, essere buono o bello, bellezzan’otin’áni: Guerreggiare, combatteren’otrémme: Chiedere, domandare, interrogare il destinon’otribak: Pensare-provare, comportarsi bene, avere buoni pensieri-sentimentin’unummi konó: Sventuranabá, n’-: Parola, vocenaua, mwa: Interrogazione del mortonea, nh-: Neonatonetí: Vento Nindo: Divinità suprema creatricenunkude, mu-: Uccelloobané, ia-: Stregone, witchodiáki, ia-: Guaritore, divinatoreogoutí, ia-: IncendioOgubane: Nome di clan matrilineareojoko, ia-: Personaokanto, ia-: Donnaokinka, ia-: Sacerdotessa responsabile delle cerimonie femminiliokotó, ia-: Grande, anzianoomadók, ia-: Stregone, sorcereromaróke: Rabbiaomeguén, ia-: Sordoomgbá, ia-: BambinoOminka: Nome di clan matrilineareOraga: Nome di clan matrilineareOrakuma: Nome di clan matrilineareOrebok Okotó: Grande orebok, presiede al benessere del villaggioorebok, ia-: Anima, spirito, principio vitaleoronhó, ia-: Autorità di villaggio, reoshó, ia-: Spirito tormentato di un ragazzo morto prima del manrasotribák, ia-: Calmo, prudente, equilibratooum, ia-: Suonatore di tamburo sacro kumbonkiSerafinte: Spirito marinounikán, n’a-: Medicina-spiritouruté, n’a-: Piroghe

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Indice

Prefazione di Francesco Remotti 00

Ringraziamenti 00

I. Percorsi 001. Arrivando alle isole, p. 00 - 2. L’arcipelago dei Bijagó trapassato e presente, p. 00 - 3. Bijante: resistenza e identità, p. 00- 4. Pensieri sulle emozioni, p. 00 - 5. «Tu qui sei come un bam-bino»: metodologia della ricerca sul campo, p. 00 - 6. L’empa-tia e il contagio delle emozioni, p. 00

II. Tu chiamale se vuoi... emozioni 001. Che cos’è un’emozione? Considerazioni su una questione ir-risolta, p. 00 - 2. Teorie innatiste sull’emozione, p. 00 - 3. Lepossibilità e la scelta: aspetti biosociali di cervello ed emozio-ni, p. 00 - 4. Uomini senza cultura, uomini senza emozioni, p.00 - 5. L’emozione tra corpo e cultura, p. 00 - 6. Antropologiadelle emozioni, p. 00

III.L’arte del vivere sociale e i sentimenti morali 001. Il pensiero-sentimento, p. 00 - 2. La nozione di persona: larelazione tra «orebok», «kugbí» e «kutribá», p. 00 - 3.«N’oguén»: ascoltare e comprendere, p. 00 - 4. I consigli, p. 00- 5. Camminare lentamente con gli anziani, p. 00 - 6. La legge,il patto, la responsabilità, p. 00 - 7. Il «kanhokam» e il furoreguerresco, p. 00

IV.I pericoli della perdita del controllo 001. Sentimenti pericolosi e linguaggi notturni, p. 00 - 2. «Kak-paná kabakam orebok»: la paura strappa via l’«orebok», p. 00- 3. «Kobané»: l’angoscia di chi è vittima di ‘stregoneria’, p. 00- 3.1. Il desiderio incontrollato degli «iamadók», p. 00 - 3.2.

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L’«obané» dallo sguardo tagliente, p. 00 - 3.3. Il male che vie-ne da dentro, p. 00 - 4. Il ‘desiderio’ che lacera il corpo, p. 00- 5. Morire di dolore, p. 00 - 6. Alla ricerca dell’«orebok» per-duto, p. 00 - 7. I veli protettivi della forma, p. 00

V. Le donne, gli «iarebok», la morte, il dolore 001. Il «manras iarebok», l’iniziazione degli spiriti dei morti, p.00 - 2. Pratiche e rituali funebri, p. 00 - 3. Morti senza pianto,p. 00 - 4. Lacrime piene di pensieri, p. 00 - 5. Il suono del pian-to e le parole della morte, p. 00 - 6. Le professioniste del dolo-re, p. 00Appendice 1. Koká e la morte di suo figlio, p. 00 - 2. La mor-te del marito di Babú, p. 00 - 3. Obennó e il pianto per i figliperduti, p. 00 - 4. Il lamento di Mina, p. 00 - 5. Le sofferenzedi Nabon’a, p. 00

VI.«Sveglierò gli uccelli della foresta grande al sorgeredel sole». Cantando d’amore e morte 001. L’«eraké ia n’aro», p. 00 - 2. Il «kundere», p. 00 - 3. Il suo-natore di n’opaatra, p. 00 - 4. La ricorrenza dei temi e i carat-teri generali, p. 00 - 4.1. Desiderio, amore e tradimento, p. 00- 4.2. La morte e la solitudine, p. 00 - 5. «N’unummi konó», lamiseria e la disperazione umana, p. 00 - 6. Etica del controlloed estetica tragica, p. 00 - 7. Incompletezza, potere e sistemiaperti, p. 00

Glossario 00

Bibliografia 00

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