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www.judicium.it 1 COSTANZO M. CEA L’appello nel processo sommario di cognizione* Sommario: 1- Premessa – 2 – I provvedimenti pronunciabili e il loro regime di impugnazione – 2.1 – I provvedimenti sulla competenza – 2.2 – L’ordinanza ex art 702 ter, 2° comma, c.p.c. – 2.3 – Gli altri provvedimenti di rigetto in rito – 2.4 – I provvedimenti di conversione del rito o di prosecuzione con le forme sommarie – 2.5 – I provvedimenti non definitivi – 2.6 - I provvedimenti di merito definitivi – 2.7 - I provvedimenti pronunciati nei giudizi in unico grado - 3 – L’appello: l’art. 702 quater c.p.c. – 3.1 - Il termine – 3.2 – L’atto introduttivo del giudizio – 3.3 – La disciplina applicabile - 3.4 – Lo ius novorum. 1 - Premessa All’appello nel processo sommario di cognizione è dedicato un solo articolo (702 quater c.p.c.). Troppo poco per sperare che possano trovare soluzione espressa tutti i problemi che dall’applicazione di questo istituto potrebbero derivare. Arduo, pertanto, appare il tentativo di intessere una trama interpretativa coerente ed attendibile. Ma prima di accingersi a tale compito, appare opportuno svolgere alcune considerazioni generali sul nuovo procedimento introdotto dalla novella 69/2009 e disciplinato dagli artt. 702 bis, ter e quater c.p.c. 1 * In memoria di Franco Cipriani 1 Per una bibliografia essenziale sul nuovo istituto, v. ACIERNO, Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni applicative, Corr. giur., 2010, 503; ARIETA, Il rito “semplificato” di cognizione, www.judicium.it ; BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, Foro it., 2009, V, 324; BASILICO, Il procedimento sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, 737; BIAVATI, Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, Riv. trim. proc. civ., 2010, 185; BINA, Il procedimento sommario di cognizione, Riv. dir. proc., 2010, 117; BOVE, Il procedimento sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, 431; CAPONI, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il

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Page 1: L’appello nel processo sommario di cognizione* · L’appello nel processo sommario di cognizione* Sommario: 1- Premessa – 2 – I provvedimenti pronunciabili e il loro regime

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1

COSTANZO M. CEA

L’appello nel processo sommario di cognizione*

Sommario: 1- Premessa – 2 – I provvedimenti pronunciabili e il loro regime di impugnazione – 2.1

– I provvedimenti sulla competenza – 2.2 – L’ordinanza ex art 702 ter, 2° comma, c.p.c. – 2.3 – Gli

altri provvedimenti di rigetto in rito – 2.4 – I provvedimenti di conversione del rito o di

prosecuzione con le forme sommarie – 2.5 – I provvedimenti non definitivi – 2.6 - I provvedimenti

di merito definitivi – 2.7 - I provvedimenti pronunciati nei giudizi in unico grado - 3 – L’appello:

l’art. 702 quater c.p.c. – 3.1 - Il termine – 3.2 – L’atto introduttivo del giudizio – 3.3 – La disciplina

applicabile - 3.4 – Lo ius novorum.

1 - Premessa

All’appello nel processo sommario di cognizione è dedicato un solo articolo (702 quater c.p.c.).

Troppo poco per sperare che possano trovare soluzione espressa tutti i problemi che

dall’applicazione di questo istituto potrebbero derivare. Arduo, pertanto, appare il tentativo di

intessere una trama interpretativa coerente ed attendibile. Ma prima di accingersi a tale compito,

appare opportuno svolgere alcune considerazioni generali sul nuovo procedimento introdotto dalla

novella 69/2009 e disciplinato dagli artt. 702 bis, ter e quater c.p.c.1

* In memoria di Franco Cipriani

1 Per una bibliografia essenziale sul nuovo istituto, v. ACIERNO, Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni

applicative, Corr. giur., 2010, 503; ARIETA, Il rito “semplificato” di cognizione, www.judicium.it; BALENA, Il

procedimento sommario di cognizione, Foro it., 2009, V, 324; BASILICO, Il procedimento sommario di cognizione,

Giusto proc. civ., 2010, 737; BIAVATI, Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, Riv. trim. proc.

civ., 2010, 185; BINA, Il procedimento sommario di cognizione, Riv. dir. proc., 2010, 117; BOVE, Il procedimento

sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, 431; CAPONI, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il

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Mi sembra chiaro che con tale normativa il legislatore voglia perseguire un duplice obbiettivo: da

un lato, tentare, ancora una volta, di velocizzare la nostra giustizia civile per porre rimedio agli

endemici mali che l’affliggono; dall’altro, attribuire al nuovo istituto il compito di ambasciatore di

un futuro più o meno prossimo, dal momento che il processo sommario, nella delega prevista

dall’art. 54 l. 69/2009, costituisce uno dei tre modelli processuali nei quali il legislatore delegato

dovrà sciogliere la moltitudine dei riti che oggi caratterizzano il panorama della giustizia civile.

Il nuovo processo sommario si rivela rimedio alternativo (ma facoltativo) al processo a cognizione

ordinaria disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c.2; è atipico, nel senso che può sfociare in una sentenza

di condanna, o costitutiva o di mero accertamento; prescinde da qualsiasi situazione di urgenza, da

procedimento sommario di cognizione, Foro it., 2009, V, 334; ID, Sulla distinzione tra cognizione piena e cognizione

sommaria (in margine al nuovo procedimento ex art. 702-bis ss. c.p.c.),, Giusto proc. civ., 2009, 1115; CAPPONI, Il

procedimento sommario di cognizione tra norme e istruzioni per l’uso, Corr. giur., 2010, 1103; CARRATTA, Nuovo

procedimento sommario e presupposto dell’”istruzione sommaria”: prime applicazioni, Giur. it., 2010, 902; CIPRIANI,

Un’altra riforma <<pubblicistica>>, Giusto proc. civ., 2009, 641; CONSOLO, Una buona novella al c.p.c.: la riforma del

2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, Corr. giur., 2009, 737; ID, La

legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, ibid., 877; DALFINO, Sull’inapplicabilità

del nuovo procedimento sommario di cognizione alle cause di lavoro, Foro it., 2009, V, 392; A. DIDONE, Il nuovo

procedimento sommario di cognizione, Giur. mer., 2010, 411; DITTRICH, Il nuovo procedimento sommario di

cognizione, Riv. dir. proc., 2009, 1582; FABIANI M., Le prove nei processi dichiarativi semplificati, Riv. trim. dir. proc.

civ., 2010, 795; FERRI, Il procedimento sommario di cognizione, Riv. dir. proc., 2010, 92; GIORDANO, Il procedimento

sommario di cognizione, Giur. mer., 20010, 1210; GUAGLIONE, Il nuovo processo sommario di cognizione, Roma, 2009;

LOMBARDI, Il processo sommario di cognizione generale, Giusto proc. civ., 2010, 473; LUISO, Il procedimento

sommario di cognizione, Giur. it., 2009, 1568; LUPOI, Sommario (ma non troppo), www.judicium.it; MENCHINI,

L’ultima <<idea>> del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di

cognizione, Corr. giur., 2009, 1025 ss.; ID., Il rito semplificato a cognizione sommaria per le controversie semplici

introdotto con la riforma del 2009, Giusto proc. civ., 2009, 1101; OLIVIERI, Il procedimento sommario di cognizione,

Dir. giur., 2009, 389; PORRECA, Il procedimento sommario di cognizione: un rito flessibile, Riv. trim. dir. proc. civ., 2010,

823; ROMANO, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, 165; PROTO PISANI,

La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), Foro it., 2009, V, 221, sub par. 2.5;

ID, Appunti sull’ultima riforma, Giusto proc. civ., 2010, 107, sub. par. 16; SANTI DI PAOLA, Il nuovo procedimento

sommario di cognizione, Il civilista, 2009, fasc. 12, 48; TOMMASEO, Il procedimento sommario di cognizione, Prev. for.,

2009, 125; VIANELLO, Ricorso ex art. 702 bis c.p.c.: procedimento sommario di cognizione, Studium iuris, 2009, 1371;

VOLPINO, Il procedimento sommario di cognizione, Nuova giur. comm., 2010, II, 53.

2 Con l’unico limite che la domanda sia attribuita alla competenza del tribunale in composizione monocratica.

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particolari evidenze probatorie, ovvero dalla qualità del diritto azionando; ed inoltre, last but not

least, è sicuramente riconducibile al paradigma della tutela dichiarativa dei diritti, posto che il

provvedimento di merito che lo definisce produce, per espressa previsione normativa (art. 702

quater, 1° comma), gli effetti di cui all’art. 2909 c.c.

Benché la collocazione topografica e l’espressa denominazione legislativa rendano forte la

tentazione di ricondurre il nuovo procedimento allo schema classico della tutela sommaria, la

maggior parte degli interpreti propende per la classificazione dello stesso quale processo a

cognizione piena ma semplificata. Per il vero, a tale tesi si obbietta, non senza un qualche

fondamento, che, così opinando, si finisce per confondere << la “cognizione” intesa come modus

procedendi dalla “cognizione” intesa come risultato o accertamento >>3. Sicché, non potendosi

escludere che anche un procedimento sommario nel modus procedendi possa sfociare in un

accertamento completo ed esauriente dei fatti di causa, non per questo il nostro procedimento perde

la sua natura sommaria e diventa a cognizione piena4.

Non mi sembra utile prendere posizione a favore dell’una o l’altra tesi, anche perché, a ben

riflettere, la divergenza tra l’opinione maggioritaria e quella da ultima esaminata, se marcata sotto il

profilo della teoria generale, è invece irrilevante ai fini applicativi, dal momento che anche

quest’ultima tesi, benché definisca il nostro un procedimento sommario in senso tecnico, finisce poi

per concludere che, all’esito dello stesso, il giudice addiverrà ad un convincimento che <<

comunque ha da essere pieno (art. 116 c.p.c.) >>5.

Se però alla catalogazione del nostro processo in termini di sommarietà in senso proprio consegue

anche l’affermazione della possibilità che l’accertamento sia superficiale e probabilistico, ebbene,

in tal caso, il contrasto non è più soltanto teorico, ma rileva anche ai fini applicativi del nuovo

istituto.

Poiché l’ipotesi più tipica di cognizione sommaria perché superficiale è quella del procedimento

cautelare, mi sembra decisivo rimarcare la differenza di previsione legislativa che intercorre tra

3 CARRATTA, Nuovo procedimento sommario di cognizione, cit., 903.

4 CARRATTA, loc. cit.

5 CARRATTA, op. cit., 905.

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l’art. 669 sexies, 1° comma e l’art. 702 ter, 5° comma, c.p.c. Nel primo caso, la legge prevede che il

giudice della cautela proceda nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione

indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto; nel secondo, gli atti

di istruzione che il giudice del processo sommario può compiere sono quelli rilevanti in relazione

all’oggetto del provvedimento richiesto.

E’ difficile, a mio avviso, svalutare la diversità lessicale per poterne inferire la stessa nozione di

sommarietà dei due procedimenti, cui consegue la stessa qualità della cognizione (superficiale),

giacché nel procedimento cautelare la superficialità della cognizione ben spiega perché il giudice

debba limitarsi a compiere solo quegli atti di istruzione indispensabili ai fini del raggiungimento

dell’obbiettivo cautelare (la neutralizzazione del periculum in mora): di qui l’ulteriore conseguenza

di un provvedimento anche potenzialmente definitivo6, ma non certo fornito dell’efficacia del

giudicato.

Nel caso del processo sommario, invece, il giudice, svincolato da qualsiasi presupposto di urgenza,

non può limitarsi a compiere soltanto gli atti indispensabili per la neutralizzazione di un periculum

non previsto, ma, al contrario, deve compiere tutti gli atti rilevanti ai fini del provvedimento

richiesto: il che a me sembra che con tale espressione il legislatore abbia voluto rimarcare che,

benché deformalizzata l’istruttoria, comunque il convincimento del giudice deve essere pieno. In

altre parole, possiamo anche convenire sulla definizione del nostro come procedimento sommario in

senso tecnico, purché sia chiaro che l’accertamento dei fatti in esso coinvolti non è superficiale, ma

pieno alla stessa stregua di ciò che avviene nel processo a cognizione ordinaria ex artt. 163 ss. c.p.c.

A favore di tale conclusione cospirano numerosi indizi: il fatto che la fase introduttiva sia

disciplinata in maniera pressoché analoga a quella del processo ordinario; il fatto che il nostro

processo riproduce, in buona sostanza, il modello del processo a cognizione semplificata ma piena

previsto dalla delega di cui all’art. 54 l. 69/2009; e, soprattutto, il fatto che esso sia idoneo a fornire

tutela dichiarativa dei diritti azionati.

In definitiva, la sommarietà deriva dal fatto che la predeterminazione legale riguarda soltanto la fase

introduttiva del giudizio, mentre le altre fasi (quella preparatoria, quella istruttoria in senso stretto e

6 Come nel caso dei provvedimenti cautelari anticipatori.

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quella decisoria) sono completamente rimesse all’impulso del giudice. Ma la sommarietà che

caratterizza il nuovo giudizio non significa anche superficialità dell’accertamento dei fatti, che,

come già si è detto in precedenza, è pieno come quello del processo disciplinato dagli artt. 163 ss.

c.p.c.

2 – I provvedimenti pronunciabili e il loro regime di impugnazione

Una volta individuata la natura del processo sommario di cognizione, è possibile entrare nel vivo

dell’indagine che ci siamo prefissati, tentando innanzitutto di individuare il regime di impugnazione

dei provvedimenti emessi nel corso del giudizio di primo grado.

A tal riguardo la legge non è di grande aiuto, innanzitutto perché non individua tutti i possibili

provvedimenti che possono essere pronunciati in primo grado; inoltre, quando lo fa, non sempre ne

indica il mezzo di impugnazione; infine, quando specifica il rimedio impugnatorio, usa termini

ambigui e poco perspicui, che complicano ulteriormente il problema, piuttosto che risolverlo.

2.1 – I provvedimenti sulla competenza

Procedendo con ordine, il primo rilievo da svolgere è che nel processo di primo grado, a parte il

decreto di fissazione dell’udienza di comparizione, il giudice provvede sempre con ordinanza,

anche quando definisce, in rito o nel merito, il giudizio. Tanto precisato, passando all’esame della

normativa che disciplina il procedimento dall’udienza di comparizione in poi (art. 702 ter)7 , viene

in considerazione il primo comma dell’art. 702 ter c.p.c., a mente del quale il giudice, se ritiene di

essere incompetente, deve provvedere con ordinanza. Orbene, poiché oggi, a seguito della riforma

ex l. 69/2009, tutte le questioni in tema di competenza vanno decise con ordinanza (artt. 42, 43, 279,

1° comma, c.p.c.), è indubbio che il provvedimento in questione è impugnabile esclusivamente con

il regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c.8 Problematica è invece l’ipotesi di una

pronuncia non definitiva che rigetti le eccezioni di incompetenza, litispendenza, continenza e

7 L’art. 702 bis regola esclusivamente la fase introduttiva del processo.

8 Analogo è il regime dell’ordinanza che definisce il giudizio ai sensi degli artt. 39 e 40 c.p.c.

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connessione, dovendosi innanzitutto verificare se nel processo sommario ci sia spazio per tali

decisioni9.

La dottrina prevalente è tendenzialmente per la soluzione negativa in considerazione delle finalità

acceleratorie che caratterizzano il rito in questione. Indubbiamente questa opinione coglie in parte

nel segno se si considera che, utilizzandosi il processo sommario per la definizione delle cause

“semplici”, normalmente non ci sarà spazio per fenomeni di frazionamento della pronuncia. Ciò

però non esclude che il giudice possa pronunciare un provvedimento di rigetto delle eccezioni in

questione e disporre che si prosegua nelle forme del sommario, non ravvisando i presupposti per la

conversione nel rito ordinario. Peraltro, proprio con riferimento al processo ordinario, non va

trascurato che oggi, dopo la riforma del 2009, la legge prevede espressamente l’ipotesi

dell’ordinanza di rigetto dell’eccezione di incompetenza10

e che dispone la prosecuzione del

giudizio (art. 279, 1° comma, ult. parte, c.p.c.). Sicché a me sembra che, se pur normalmente nel

processo sommario non ci sarà spazio per una pronuncia non definitiva sulla competenza,

litispendenza, continenza e connessione, ciò nondimeno nulla vieta che il giudice possa adottare tale

tipo di decisione11

. La pronuncia in questione, quindi, in quanto intervenuta soltanto sulla questione

di competenza12

, sarà impugnabile esclusivamente con il regolamento di competenza; se invece il

giudice ha pronunciato anche su altro, il provvedimento sarà soggetto al concorso tra regolamento

facoltativo ed appello13

, con la precisazione che, ove la parte interessata voglia avvalersi di tale

9 Su tale questione v. amplius sub 2.5.

10 Nonché di quelle ad esse assimilate: litispendenza, continenza e connessione.

11 Come si sarà capito dai rilievi svolti nel testo, l’ipotesi che prendo in considerazione è quella della pronuncia di

rigetto dell’eccezione in questione e di prosecuzione del processo con le forme del rito sommario. Non credo invece

che vada presa in considerazione l’ipotesi in cui il giudice ritenga la causa non compatibile con il rito sommario, posto

che in tal caso il giudice si asterrà dalla pronuncia in esame prima della conversione del rito e della fissazione

dell’udienza ex art. 183.

12 Ovvero di litispendenza, continenza e connessione.

13 Secondo un consolidato orientamento della S.C., «decisione di merito» s’intende non soltanto una pronuncia sul

rapporto sostanziale dedotto in giudizio, in contrapposizione ad una pronuncia sul rapporto processuale, bensì anche

la risoluzione di questioni diverse da quella sulla competenza, di carattere sostanziale o processuale, pregiudiziali di

rito o preliminari di merito, salvo che dal contenuto della pronuncia - per la cui determinazione occorre far

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ultimo rimedio, ma non voglia esperirlo immediatamente, dovrà formulare riserva di impugnazione

ex art. 340 c.p.c.14

2.2. – L’ordinanza ex art. 702 ter, 2° comma, c.p.c.

Una volta esaurita l’indagine sui provvedimenti che pronunciano sulla competenza, tocca ora

occuparsi del 2° comma dell’art. 702 ter c.p.c., secondo cui il giudice deve dichiarare

inammissibile, con ordinanza non impugnabile, la domanda che non rientra tra quelle contemplate

dall’art. 702 bis (cioè, le domande demandate al tribunale in composizione monocratica15

).

Benché la lettera della legge sembri non lasciare dubbi a riguardo, si discute se tale espressa

inimpugnabilità dell’ordinanza sia a tenuta stagna, ovvero consenta l’esperibilità del ricorso

straordinario per cassazione. La tesi prevalente, sul presupposto dell’insussistenza di un diritto del

ricorrente al “rito”, è per la soluzione negativa. Secondo tale opinione, inoltre, considerato che non

si attribuisce a tale pronuncia in rito alcuna efficacia preclusiva, è sempre consentita la

riproposizione della domanda, anche nuovamente nelle forme del rito sommario; fermo restando

che deve comunque ritenersi esperibile il ricorso straordinario per cassazione contro la statuizione

sulle spese, in quanto in tal caso è innegabile l’esistenza di una decisione che incide su diritti

soggettivi.

Sennonché, così opinando, non si tiene conto che la tutela del ricorrente che subisce il

provvedimento inimpugnabile di inammissibilità non può essere limitata soltanto alla

considerazione della possibilità di riproporre la domanda, dovendosi anche valutare a riguardo la

perdita secca degli effetti sostanziali e processuali della stessa domanda conseguenti alla pronuncia

riferimento, oltre che al dispositivo, anche alla motivazione - risulti che l’esame di tali questioni sia stato compiuto

solo incidentalmente, in funzione della decisione sulla competenza e senza pregiudizio per l’esito definitivo della

controversia: per tutte, v. Cass. 18425/2006, 1295/2004.

14 In tal caso, se l’ordinanza è stata pronunciata in udienza, la riserva, a pena di decadenza, va formulata

immediatamente dopo la lettura del provvedimento; in caso di pronuncia fuori udienza, la riserva di impugnazione va

effettuata nell’udienza fissata dal giudice per la prosecuzione del giudizio.

15 Nonché, se si ritiene il procedimento sommario di cognizione alternativo al solo processo a cognizione ordinario,

anche quelle da trattare con le forme di un processo speciale a cognizione piena (si pensi, per esempio, alle

controversie del lavoro).

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di inammissibilità.16

E’ doveroso allora chiedersi, in una prospettiva di interpretazione sistematica e

costituzionalmente orientata17

, se la carenza del presupposto speciale in considerazione debba

portare necessariamente alla definizione del giudizio con la pronuncia di inammissibilità. A tal

riguardo credo che occorra tener conto di una serie di fattori. Innanzitutto va considerato che, a

livello di disciplina generale, l’errore sul rito non è ostativo alla prosecuzione del giudizio, come si

ricava dagli artt. 426 e 427 c.p.c. Inoltre, la tendenza del sistema a far salvi gli effetti sostanziali e

processuali della domanda anche in presenza di vizi ben più gravi di quello conseguente all’errata

scelta del rito è testimoniata dalla nuova versione dell’art. 182 c.p.c.18

, nonché dal fatto che la

traslatio iudicii (con conseguente conservazione degli effetti della domanda) è oggi garantita, oltre

che nel caso di pronuncia di incompetenza, anche in quello in cui il giudice declini la propria

giurisdizione.

Orbene, se si tiene conto di tali indici sistematici, a me sembra che, in una prospettiva che miri ad

una incisiva tutela del valore costituzionale del diritto d’azione, nonché di quello di cui all’art. 3

Cost.19

, sia possibile sostenere che il promovimento del giudizio sommario anche in ipotesi non

consentita per carenza del presupposto speciale richiesto dal legislatore non debba comportare la

chiusura in rito dello stesso, ma debba sfociare in una pronuncia di conversione del rito.20

Né credo che la tesi qui sostenuta sia ostacolata decisivamente dalla lettera della legge, dovendosi

intendere che la sanzione dell’inammissibilità prevista dall’art. 702 ter, 2° comma, c.p.c. non stia

16

Tant’è che non è mancato chi (LUPOI, op. cit., sub 5), per rimediare a tale inconveniente, ha sostenuto

l’ammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, 7° comma, c.p.c.

17 A riguardo v. PROTO PISANI, Appunti sull’ultima riforma, cit., 117.

18 V. l’ultimo comma di tale articolo.

19 La cui violazione mi sembra evidente se si considera che la conservazione degli effetti della domanda viene garantita

in ipotesi di vizi non meno gravi di quello derivante dall’errata scelta del rito.

20 Peraltro, se ci si riflette su, ci si accorgerà che tale soluzione va adottata esclusivamente nei casi in cui sia promossa

con il rito sommario una causa demandata al tribunale in composizione collegiale. Infatti, ove la carenza del

presupposto speciale in questione sia la conseguenza dell’incompetenza del giudice adito (perché la domanda è

attribuita alla cognizione del giudice di pace), la conservazione degli effetti della domanda deriverà dal fatto che il

giudice adito declinerà la sua competenza determinando la prosecuzione del processo davanti a quello indicato come

competente.

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necessariamente a sottolineare il dovere del giudice di definire immediatamente il processo in rito,

quanto piuttosto quello di impedire la prosecuzione del giudizio con le forme sommarie. In altre

parole, inammissibile non è la prosecuzione del giudizio tout court, ma la prosecuzione del processo

sommario: risultato che può ottenersi anche mediante l’ordine di conversione del rito.

Così opinando, peraltro, si risolve anche il problema del cumulo di domande avvinte da connessione

forte nel caso in cui una sia suscettibile di trattazione con le forme sommarie e l’altra no.

Ulteriore benefica ricaduta della tesi qui sostenuta è la sdrammatizzazione del problema dell’errore

del giudice tutte le volte che egli, non rilevando la carenza del presupposto speciale di ammissibilità

di cui si discute, consenta la prosecuzione del giudizio sommario sino alla sua definizione. Infatti,

una volta escluso che la carenza del presupposto speciale in questione debba comportare la

definizione in rito del processo, perde completamente valore la disputa tra chi sostiene che il

giudice di appello debba definire in rito la domanda con pronuncia di inammissibilità della stessa21

e chi invece ritiene che il giudice di appello, rilevato il vizio e disposta la rinnovazione degli atti

compiuti dal primo giudice, debba decidere nel merito la causa. Infatti, accertato l’errore del rito, il

giudice d’appello deve soltanto disporne la conversione ed abilitare le parti all’esercizio dei poteri e

facoltà precluse dal mancato rilievo del vizio conseguente alla scelta errata del rito.

2.3 – Gli altri provvedimenti di rigetto in rito

Al di là dell’ipotesi di cui all’art. 702 ter, 2° comma, c.p.c., nulla è previsto in ordine

all’impugnazione dei provvedimenti che comportano la definizione in rito del processo sommario.

Se il silenzio della legge dovesse ritenersi sintomatico del regime di inimpugnabilità di tali

provvedimenti, dovremmo concludere che il legislatore avrebbe raggiunto un risultato dissonante

rispetto alle intenzioni che sostengono l’introduzione del processo sommario. Infatti, ad onta del

proclamato intento acceleratorio tramite la previsione di un procedimento idoneo anche a fornire la

tutela dichiarativa dei diritti (e, quindi, a sfociare in un provvedimento destinato a passare in

21

Beninteso, sempre che la parte interessata abbia proposto uno specifico motivo di impugnazione, non potendosi

dubitare della vigenza della regola ex art. 161, 1° comma, c.p.c.

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giudicato), si avrebbe che gran parte delle pronunce che definiscono in rito il giudizio sommario22

rivesterebbe una portata limitata, in quanto esse non sarebbero destinate ad esplicare alcuna

efficacia preclusiva. Orbene, poiché tale conclusione non mi sembra affatto persuasiva sotto il

profilo logico, credo che la tesi dell’impugnabilità dei provvedimenti in questione vada abbracciata

senza esitazione. Innanzitutto perché il regime normale di un provvedimento è la sua impugnabilità,

tanto più quando si tratta di decisione che definisca un giudizio, sicché la deroga a tale regola deve

essere espressa. Non a caso, nella disciplina del processo sommario, quando la legge ha voluto

derogare a tale regola, lo ha fatto espressamente. Per esempio, allorché ha sottratto al regime di

impugnabilità l’ordinanza ex art. 702 ter, 2° comma; ovvero, quando si prevede che il giudice debba

disporre la conversione del rito ritenendo la causa non idonea alla sommaria istruzione (art. 702 ter,

3° comma).

In definitiva, mi sembra che il silenzio legislativo non sia di alcun ostacolo alla possibilità di

affermare l’impugnabilità dei provvedimenti (diversi da quelli declinatori di competenza) che

definiscono in rito il giudizio; impugnabilità che, in carenza di esplicita disposizione, va declinata

con le forme dell’appello.23

2.4 – I provvedimenti di conversione del rito o di prosecuzione con le forme sommarie

Proseguendo oltre, viene ora in considerazione il provvedimento previsto dal terzo comma dell’art.

702 ter c.p.c., secondo cui il giudice se ritiene, sulla scorta delle difese delle parti, la causa non

compatibile con le forme del rito sommario, con ordinanza non impugnabile fissa l’udienza ex art.

183 c.p.c.

22

In questa prospettiva interpretativa, infatti, sarebbero impugnabili (con il regolamento necessario di competenza)

soltanto le ordinanze declinatorie della competenza.

23 Né credo che possa obbiettarsi a tale tesi che l’appellabilità sarebbe prevista testualmente, ex art. 702 quater, 1°

comma, c.p.c., per la sola ipotesi di ordinanza di accoglimento della domanda. A parte il fatto che, se si desse credito

fino in fondo alla lettera della legge, si avrebbe che l’appellabilità dovrebbe essere riconosciuta soltanto alle pronunce

di accoglimento che siano idonee a fondare l’esecuzione forzata e che contemporaneamente costituiscano titolo per

l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione; in seguito, quando ci si occuperà dei provvedimenti di merito che

definiscono il processo sommario, si avrà la possibilità di verificare come l’appello sia il rimedio impugnatorio normale

per tutti i provvedimenti emessi nel corso del giudizio sommario (tranne, ovviamente, quelli che pronunciano solo

sulla competenza, ovvero che sono definiti inimpugnabili, oppure pronunciati in unico grado).

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E’ questo uno snodo cruciale del processo sommario, giacché la scelta dell’attore, indispensabile

per l’instaurazione del giudizio sommario, non è sufficiente perché il procedimento continui con le

forme sommarie, essendo a tal fine necessaria la valutazione giudiziale di compatibilità della causa

con l’istruzione sommaria. Orbene, ove tale valutazione sia negativa, il giudice deve disporre la

conversione del rito determinando la continuazione del processo con le forme di quello ordinario. Il

provvedimento con cui il giudice provvede in tal senso è un’ordinanza che, per espressa previsione

legislativa, è inimpugnabile (e, quindi, anche non revocabile, né modificabile: art. 177, 3° comma,

n. 2, c.p.c.).

E’ appena il caso di precisare che non può neppure essere adombrato il problema della possibilità di

chiedersi se detto provvedimento sia soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111

c.p.c., sia perché, come si è detto in precedenza, non esiste un diritto al rito del ricorrente, sia

soprattutto perché il provvedimento in questione non comporta il rigetto della domanda, ma soltanto

la conversione del rito e la continuazione del giudizio con le forme di quello ordinario.

Quanto, poi, all’inversa decisione (valutazione di compatibilità della causa con il rito sommario),

c’è da dire che la legge non prevede neppure che il giudice pronunci uno specifico provvedimento

in tal senso. Infatti, come emerge chiaramente dalla lettera dell’art. 702 ter, 5° comma, il giudice

provvede implicitamente a riguardo dando vita all’istruzione sommaria.

Se mai occorre chiedersi cosa succede se la decisione di procedere con il rito sommario si riveli

errata.24

Mi sembra persino problematico che in tale ipotesi possa parlarsi di vizio in procedendo,

giacché la parte interessata può solo dolersi dell’ingiustizia della decisione quale conseguenza

dell’errata decisione di procedere con il rito sommario. L’unico rilievo da svolgere è che, ove si

accerti che il giudizio, per lo stato di complicazione raggiunto quale conseguenza delle difese delle

parti, non poteva continuare con il rito sommario, la parte interessata potrà in appello essere rimessa

a compiere quelle attività di allegazione e probatorie che le erano state impedite dallo svolgimento

del processo con le forme sommarie.

24

Il che si verifica quando, alla stregua delle difese svolte dalle parti, la causa non appare suscettibile di essere trattata

con il rito sommario.

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2.5 – I provvedimenti non definitivi

Allorché ci si è occupati delle decisioni sulla competenza, si è potuto constatare che anche il

processo sommario può sfociare in una pronuncia non definitiva. Si tratta ora di verificare se tale

fenomeno sia limitato al tema della competenza ovvero abbia portata generale.

L’ostacolo all’ammissibilità di pronunce non definitive nel nostro giudizio non è certo rappresentato

dal fatto che la forma delle decisioni è quella dell’ordinanza, giacché, proprio a livello di disciplina

generale, si è accertato che il fatto che una pronuncia assuma la forma dell’ordinanza non impedisce

che possa essere non definitiva: infatti, nel rito ordinario, l’art. 279, 1° comma, ult. parte, c.p.c.

testualmente contempla la possibilità della decisione non definitiva sulla competenza tramite

ordinanza. Quindi, che una decisione sia presa con sentenza o ordinanza, è questione del tutto

irrilevante ai fini della soluzione del nostro problema. Sicché, rebus sic stantibus, l’ostacolo

maggiore all’ammissibilità delle pronunce non definitive nel processo sommario viene individuato

nella natura di tale giudizio e nelle finalità che con esso il legislatore persegue, tali da essere

incompatibili con il fenomeno del frazionamento della decisione.

Per quanto ritenga che nel processo sommario normalmente non ci sarà spazio per decisioni non

definitive, ciò nondimeno non credo che tale rilievo possa rappresentare un ostacolo definitivo

all’ammissibilità di tali pronunce. Infatti, ben potrebbe configurasi l’ipotesi in cui vengano sollevate

eccezioni pregiudiziali o preliminari di semplice definizione e la causa, pur non potendo

considerarsi complessa per il numero limitato di accertamenti fattuali che richiede, non sia

suscettibile di immediata definizione nel merito. In casi del genere non credo che l’immediata

definizione (con il rigetto) delle eccezioni pregiudiziali o preliminari sia incompatibile con la

prosecuzione del giudizio con le forme sommarie. Anzi, a dirla tutta, il mettere punti fermi tramite

un’attività decisoria che non comporta perdite di tempo consente alle parti di concentrarsi meglio

sul merito della causa. Né si obbietti che l’eventuale pendenza del giudizio di appello sulla

questione pregiudiziale o preliminare (instaurato a seguito di impugnazione immediata della

pronuncia non definitiva) determinerebbe perdite di tempo per il processo sommario, impedendone

la prosecuzione, giacché è agevole replicare che il giudizio di appello sulla non definitiva non

provoca automaticamente la sospensione del processo di primo grado, essendo necessaria a tal fine

l’istanza concorde delle parti (art. 279, 4° comma, c.p.c.).

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Accertata, quindi, la possibilità di pronunce non definitive di ogni tipo nel processo sommario di

cognizione, si tratta ora di individuarne il regime impugnatorio.

C’è stato chi25

, pur partendo dall’inammissibilità di tali decisioni, riconosce che tale eventualità

possa verificarsi, sicché, al fine di limitare la deconcentrazione del processo quale conseguenza

della pronuncia non definitiva, ha sostenuto che soltanto la decisione su (almeno) una (ma non tutte)

delle domande cumulate sarebbe sottoposta al regime ex art. 340 c.p.c. (riserva di impugnazione o

appello immediato), laddove, in caso di altre pronunce non definitive (quelle, cioè, che non

definiscono almeno una domanda )26

, la parte soccombente non potrebbe né riservare la decisione,

né impugnarla immediatamente, fermo restando che non ci sarebbe nessuna preclusione per il

riesame della questione con l’appello contro l’ordinanza che definisce il giudizio sommario.

Benché apprezzabile per l’intento che la sorregge, la tesi non mi sembra condivisibile, in quanto

fondata su un elemento esegetico abbastanza fragile, quale è quello rappresentato dal fatto che

l’art. 702 quater, parlando di appello solo con riferimento all’ordinanza di cui al 6° comma dell’art.

702 ter, sembrerebbe contemplare la possibilità di impugnazione della sola decisione di merito.

In seguito, allorché ci si occuperà del problema dell’impugnazione dell’ordinanza che definisce nel

merito il processo sommario (accogliendo o rigettando la domanda), ci si accorgerà di quanto sia

infelice la norma testé ricordata e di come alla stessa non possa attribuirsi il valore che la lettera

della legge sembrerebbe imporre. Sicché, una volta venuto meno l’appiglio esegetico in

considerazione, mi sembra che sia impossibile distinguere nell’ambito delle pronunce non definitive

per assoggettare al regime normativo previsto dall’art. 340 c.p.c soltanto alcune di esse (quelle che

pronunciano almeno su una delle domande cumulate). La verità è che, una volta che si ammette la

possibilità di pronunce non definitive nell’ambito del processo sommario, tutte sono assoggettate

alla disciplina ex art. 340 c.p.c., di tal che esse possono essere appellate immediatamente, ovvero

riservate.

25

BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, cit., 331-332;

26 BALENA, op. cit., 332, prende in considerazione soprattutto il caso di pronunce che abbiano rigettato eccezioni in

rito, ma credo che il discorso sarebbe lo stesso per le decisioni di rigetto di un’eccezione preliminare di merito.

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Peraltro, il riferimento innanzi svolto alle pronunce su alcune (ma non tutte) delle domande

cumulate richiede ancora alcune precisazioni, in quanto non è detto che in tali ipotesi la relativa

pronuncia sia sempre non definitiva. Si pensi, ad esempio, al caso di cumulo soggettivo di cause,

allorché la domanda sia accolta o rigettata nei confronti di uno solo dei convenuti. Orbene, anche in

caso di mancata separazione esplicita delle cause, se il giudice provvede sulle spese, a tale ultima

statuizione va attribuito anche il significato di separazione implicita della cause, con la conseguenza

che la relativa pronuncia va considerata definitiva ai sensi dell’art. 279, 2° comma, n. 5, c.p.c. e,

quindi, suscettibile soltanto di appello immediato.

2.6 - I provvedimenti di merito definitivi

L’esito naturale del processo sommario di cognizione (come di ogni altro giudizio) è (o dovrebbe

essere) il provvedimento di merito di accoglimento o rigetto della domanda. Il problema

dell’impugnazione di tali pronunce, anche alla luce dei rilievi fin qui svolti, dovrebbe essere di

agevole soluzione. Sennonché, il legislatore del 2009, facendo ricorso, more solito, ad una tecnica

normativa non certo impeccabile, ha complicato la questione, dando la stura a discussioni gravide di

conseguenze negative sul piano applicativo.

Il problema sorge perché l’art. 702 quater, 1° comma, c.p.c. prevede che l’ordinanza emessa ai

sensi del sesto comma dell’art. 702 ter produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. se non è appellata

entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. La norma richiamata (cioè, l’art. 702

ter, 6° comma), a sua volta, dispone che l’ordinanza è provvisoriamente esecutiva e costituisce

titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione. Sicché, a stare all’improvvida

formulazione letterale della legge, dovremmo dire che, riferendosi il sesto comma dell’art. 702 ter

soltanto ai provvedimenti di accoglimento della domanda idonei a fondare l’esecuzione forzata e a

costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione27

, soltanto questi ultimi

sarebbero appellabili ed idonei al giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c.

Se così fosse, non solo dovremmo smentire i risultati dell’indagine fin qui svolta (che ci ha portato

ad affermare l’impugnabilità di tutti mi provvedimenti emessi nel corso del processo sommario, ad

27

O per l’annotazione ex art. 2655 c.c.

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eccezione di quelli per i quali espressamente è stabilita l’inimpugnabilità), ma dovremmo dire che si

è in presenza di previsione legislativa irragionevole e palesemente incostituzionale. Ma prima di

acchetarci su tale conclusione, verifichiamo se esista la possibilità di una diversa, e più razionale,

interpretazione.

Come si è accertato in precedenza, la regola del sistema è la normale impugnabilità dei

provvedimenti e le deroghe a tale regime sono in genere espressamente previste. Nella specie, nel

disciplinare il procedimento sommario, il legislatore ha espressamente individuato i casi di

provvedimenti non impugnabili (art. 702 ter, 2° e 3° co.). Peraltro, lo stesso legislatore ha

espressamente disposto, sia pure in maniera infelice, l’impugnabilità del provvedimento definitivo

attraverso il rimedio dell’appello. Se cosi è, non par dubbio che tutti i provvedimenti definitivi,

tanto di rigetto (anche in rito) quanto di accoglimento, sono passibili di impugnazione nelle forme

dell’appello; inoltre, quanto agli effetti dell’art. 2909 c.c., essi si producono sia in caso di

accoglimento che di rigetto della domanda. Se così non fosse, se, cioè, ci attenessimo strettamente

alla lettera della legge, si avrebbe che il provvedimento di rigetto della domanda non sarebbe

appellabile e non sarebbe idoneo al giudicato sostanziale e, quindi, non impedirebbe la

riproposizione dello stesso giudizio; sicché, ad onta del palese intento acceleratorio che ha

giustificato la previsione del procedimento sommario, il legislatore consentirebbe che tramite

l’esperimento dello stesso si possa pervenire ad un incomprensibile spreco di attività

giurisdizionale. La palese incongruità di tale conclusione non lascia adito a dubbi su quale debba

essere l’interpretazione da seguire. Ciò detto, se si riflette ulteriormente, ci si accorge che

quell’infelice formulazione letterale, cui innanzi si è accennato, è suscettibile di una lettura che ne

smussi gli aspetti di più palese irrazionalità. Il sesto comma dell’art. 702 ter c.p.c. altro non sta ad

indicare se non le qualità delle pronunce di accoglimento in determinate ipotesi (condanna, ovvero

decisione di accertamento o costitutiva in tutti i casi in cui sia prevista la trascrizione o

l’annotazione della sentenza). Inoltre, si deve ulteriormente osservare che, inerendo l’efficacia ex

art. 2909 c.c. esclusivamente alla decisione di merito, il riferimento dell’art. 702 quater, 1° comma,

al sesto comma dell’art. 702 ter c.p.c. è parso al legislatore automatico, posto che quest’ultima

norma si riferisce espressamente alla pronuncia di merito (sia pure solo di accoglimento). In

definitiva, se si condividono questi rilievi, sicuramente non potrà dubitarsi del fatto che i

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provvedimenti di merito che definiscono il processo sommario sono tutti appellabili ed idonei alla

produzione degli effetti di cui all’art. 2909 c.c.

2.7 – I provvedimenti pronunciati nei giudizi in unico grado

Nel concludere questa parte di indagine, occorre considerare l’ipotesi delle controversie in unico

grado, sempre che, ovviamente, trattasi di cause demandate al tribunale in composizione

monocratica. Il problema si pone perché, se promosse con le forme ordinarie, queste cause

sarebbero inappellabili; mentre, a stare pedissequamente alla lettera della legge, l’instaurazione del

processo sommario si conclude sempre con un provvedimento appellabile.

Tale conclusione, però, è sicuramente inaccettabile, giacché non è pensabile che la parte,

utilizzando un rito diverso da quello ordinario, possa eludere le prescrizioni legislative in tema di

impugnazione dei provvedimenti; sicché, considerato che l’appello è proponibile se non escluso

espressamente dalla legge (art. 339, 1° comma, c.p.c.), il richiamo a questo mezzo di impugnazione

contenuto nell’art. 702 quater, 1° comma, deve intendersi riferito alle ipotesi in cui l’appello

sarebbe proponibile anche se la causa fosse stata instaurata con il rito ordinario.

Dando per assodata tale conclusione, c’è stato chi28

ha negato l’ammissibilità del processo

sommario in caso di pronunce inappellabili. Infatti, secondo tale tesi, sorgerebbero seri dubbi di

costituzionalità circa la previsione di un procedimento sommario idoneo alla tutela dichiarativa dei

diritti, cui non faccia seguito un grado di controllo completo.

Non credo che tale conclusione sia necessitata. Innanzitutto occorre considerare che non può

parlarsi di generico pregiudizio del diritto di difesa delle parti, giacché, nel caso in esame, dalle

parti pregiudicate va escluso l’attore, che, pur non essendo costretto, ha scelto il rito sommario.

L’unica parte, quindi, che potrebbe dolersi di eventuali pregiudizi al suo diritto di difesa dovrebbe

essere il convenuto29

, il quale non sceglie il rito sommario, ma lo subisce. Non va però trascurato

che questo stato di soggezione del convenuto non è assoluto, in quanto la parte in questione ha la

possibilità di sottrarsi al rito sommario, “complicando la causa”, rendendola, cioè, tramite le sue

28

OLIVIERI, op. cit.

29 Nonché i terzi chiamati in giudizio per iniziativa delle parti o del giudice.

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difese, incompatibile con la trattazione sommaria. Certo, si può obbiettare che non si è in presenza

di una facoltà incondizionata del convenuto, in quanto l’idoneità della causa alla trattazione

sommaria è decisione esclusiva del giudice. Qui però occorre intendersi. Allorché ci si pone sul

piano della tutela costituzionale, non ci si può limitare alla considerazione atomistica di singole

situazioni di vantaggio, essendo invece necessario porsi nell’ottica di un sistema dinamico di valori

destinati a coesistere, anche scontrandosi. Ergo, il problema della tutela costituzionale è sempre una

questione di equilibrio tra esigenze configgenti e non di riconoscimento assoluto di una a discapito

delle altre. Ciò premesso, occorre chiedersi se il diritto di difesa di una sola parte30

possa avere

riconoscimento assoluto sino al punto di rendere impraticabile il rito sommario nell’ipotesi in

considerazione. A tal riguardo non può ignorarsi che la trattazione sommaria, rispondendo a finalità

acceleratorie, è ispirata a valori dotati di copertura costituzionale ex art. 111 Cost. (ragionevole

durata del processo). Sicché, ancora una volta31

, occorre chiedersi quale sia la misura ragionevole

dell’equilibrio tra le opposte esigenze, superata la quale sia necessario il ricorso al giudice delle

leggi. Tornando al caso in esame, si è già detto che, instaurato il processo sommario, il convenuto

ha la possibilità di ottenere la conversione del rito in quello ordinario; se ciò non avviene è perché la

causa, nonostante i tentativi di “complicazione”, resta “semplice”. Ed allora occorre chiedersi se in

ipotesi di tal fatta sia giustificata la pretesa di una parte al rito ordinario, anche considerando che

nulla impedisce alla stessa di svolgere tutte le sue attività di allegazione e probatorie anche nel

processo sommario. Né il pregiudizio può derivare dal fatto che alla parte in questione saranno

precluse quelle limitate attività di allegazione e probatorie che sono consentite in appello, visto che

ciò accade anche in caso di instaurazione della causa con il rito ordinario, trattandosi di controversia

in unico grado. E non credo che, a sostegno della tesi che si avversa, sia invocabile l’ipotesi della

trattazione sommaria quale conseguenza dell’errore del giudice. Si pensi all’ipotesi in cui il

processo sommario sia stato attivato, e sia giunto a conclusione, in caso di controversia non

30

Ovvero di più parti, ma non tutte, ove si sia in presenza di processo sommario in cui ci sia stata chiamata in causa di

terzi.

31 In campo processuale si può dire che sia immanente il conflitto tra diritto di difesa delle parti ed esigenza di

ottenere una ragionevole durata del processo, giacché le finalità acceleratorie comportano di norma il

ridimensionamento delle garanzie delle parti.

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demandata al tribunale in composizione monocratica; ovvero a quella in cui, pur sussistendo il

presupposto speciale di ammissibilità, per le difese svolte dalle parti, la causa si riveli incompatibile

con il rito sommario e, ciò nondimeno, il giudice non abbia disposto la conversione del rito. In casi

di tal fatta, rilevato l’errore, la cassazione, ove riscontri che il vizio abbia impedito l’esercizio dei

poteri che sarebbero spettati alle parti in caso di giudizio instaurato con le forme ordinarie,

annullerà il provvedimento impugnato e rinvierà al primo (ed unico) giudice, il quale, in forza del

motivo di rinvio, dovrà disporre la conversione del rito e far procedere il processo con le forme

ordinarie.

Ancor più evidente è la compatibilità con il rito sommario quando l’unico grado di giudizio sia

conseguenza dell’accordo delle parti ex art. 114 c.p.c.32

o 360, 2° comma, c.p.c. In questi casi,

infatti, non può dolersi l’attore che ha scelto di instaurare la causa con il rito sommario, ma neppure

il convenuto che ha prestato il consenso per rendere, direttamente o indirettamente33

, inappellabile

la sentenza.34

3 – L’appello: l’art. 702 quater c.p.c.

E’ giunto ora il momento di occuparsi del procedimento di appello, con la consapevolezza che la

legge, nell’unico articolo a ciò dedicato (art. 702 quater), ha espressamente disciplinato soltanto

alcuni dei numerosi problemi che l’applicazione di tale istituto suscita.

3.1 – Il termine

32

L’inappellabilità, in tale ipotesi, è sancita dall’art. 339, 2° comma, c.p.c.

33 Nell’ipotesi contemplata dall’art. 114 c.p.c. l’accordo delle parti riguarda la possibilità del giudizio di equità, mentre

l’inappellabilità è la conseguenza che la legge (art. 339, 2° comma) ricollega a tale accordo.

34 Una volta affermata l’ammissibilità del rito sommario anche per le controversie da decidere in unico grado

(ovviamente sempre che sussista il presupposto speciale di ammissibilità della cognizione del tribunale in

composizione monocratica), va da sé che la pronuncia che definisce il giudizio è impugnabile, oltre che con ricorso per

cassazione, anche per revocazione (art. 395, 1° comma, c.p.c.). Peraltro, è appena il caso di precisare che, tanto si sia

in presenza di controversie in unico grado, quanto di quelle in primo grado, la relativa decisione sarà impugnabile con

opposizione di terzo nei casi contemplati dall’art. 404 c.p.c.

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Tra gli aspetti espressamente considerati dal legislatore vi è quello del termine per appellare, in

quanto l’art. 702 quater dispone che il giudicato si forma se l’ordinanza non è appellata nel termine

di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. E’ – questa – una disposizione in parte

analoga a quella dettata dall’art. 669 terdecies, 1° comma, c.p.c., con la precisazione che tale ultima

norma, oltre a prevedere un termine per il reclamo inferiore a quello ex art. 704 ter, ne dispone la

decorrenza, oltre che dalla comunicazione o notifica, anche dalla pronuncia in udienza.

Dalla previsione della decorrenza del termine di impugnazione dalla comunicazione, oltre che dalla

notifica, traspare evidente l’intento acceleratorio del processo, anche se la soluzione adottata non si

rivela condivisibile, giacché l’assimilabilità del nostro giudizio a quello cautelare appare

compromessa dal fatto che il secondo è subordinato alla ricorrenza del periculum in mora, mentre

l’attivazione del primo prescinde da ragioni di urgenza. Meglio, pertanto, avrebbe fatto il legislatore

a lasciare ancorata la decorrenza del termine breve di impugnazione alla sola notifica, essendo alto

il rischio che la parte soccombente, avvenuta la comunicazione (che si ipotizza normalmente

anteriore alla notificazione), comunque provvederà a cautelarsi proponendo appello: il che lascia

ipotizzare che le possibilità di prosecuzione della causa in grado di impugnazione (con conseguente

allungamento dei tempi di definizione) siano maggiori rispetto alle ipotesi di domande instaurate

con il rito ordinario.

Come si è visto in precedenza, la legge, a differenza di quanto previsto nel procedimento cautelare,

nulla dice sulla decorrenza del termine di impugnazione nell’ipotesi in cui la pronuncia sia stata

resa in udienza. In tal caso, se si attribuisce valore significativo alle difformità legislative

riscontrabili tra l’art. 669 terdecies, 1° comma, e l’art. 702 quater c.p.c.35

, dovrebbe pervenirsi alla

conclusione secondo cui, in caso di pronuncia del provvedimento in udienza, non essendo prevista

la comunicazione dello stesso36

, il termine per impugnare dovrebbe decorrere soltanto dalla notifica

della decisione. Sicché, considerato che, secondo alcuni, nel caso di processo sommario non

35

E, quindi, si ritiene che la mancata previsione in quest’ultima norma dell’ipotesi della pronuncia in udienza non sia

una mera dimenticanza del legislatore.

36 La legge, infatti, prevede che la comunicazione debba avvenire soltanto in caso di ordinanza resa fuori dell’udienza

(art. 134, 2° comma, c.p.c.).

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sarebbe operante il termine lungo ex art. 327 c.c.37

, si potrebbe persino avere che, in mancanza di

notificazione, il provvedimento non passerebbe mai in giudicato.

E’ evidente l’assurdità di tale conclusione, se sol si consideri che la previsione dei termini di

impugnazione risponde ad esigenze di certezza ed a favorire, quindi, la possibilità che

l’irretrattabilità di un provvedimento avvenga in un periodo congruo. Tale rilievo, pertanto, da un

lato, mi induce ad affermare la decorrenza del termine dalla data di udienza ove la pronuncia sia

avvenuta durante la stessa, dall’altro, a propendere per la tesi che ritiene applicabile anche nel caso

in esame l’art. 327 c.p.c. con le seguente precisazione. Tale ultima norma fa decorrere il termine

ultimo dalla pubblicazione della sentenza, mentre, nel caso di ordinanza, la legge non prevede la

pubblicazione. Orbene, poiché tale fenomeno consiste nel deposito della sentenza (art. 133, 1°

comma, c.p.c.), è evidente che, nel caso di processo sommario, la decorrenza del termine lungo avrà

come punto di riferimento il deposito dell’ordinanza. Peraltro, poiché il deposito è logicamente

compatibile con la sola ipotesi di pronuncia fuori dell’udienza, è del tutto ovvio che in caso di

pronuncia in udienza non sarà applicabile l’art. 327, 1° comma, in quanto in questa ipotesi, come si

è detto in precedenza, si avrà sempre la decorrenza del termine breve di trenta giorni.38

L’applicabilità anche nel processo sommario dell’art. 327, 1° comma, c.p.c. comporta ulteriori

conseguenze. La prima è che, nel caso in cui la comunicazione39

o la notifica avvengano dopo la

decorrenza del termine lungo, l’appello va considerato inammissibile, non essendoci più spazio per

l’operatività del termine breve.

La seconda è che, ove non ci sia stata comunicazione o notifica dell’ordinanza, l’istanza di

rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. non sarà ammissibile.40

37

Oggi di sei mesi, dopo le modifiche ex l. 69/2009.

38 Essendo del tutto ovvio che la decorrenza del termine lungo presuppone che non ci sia stata, non solo la

notificazione, ma anche la comunicazione dell’ordinanza (evento di certo non frequente, ma pur sempre ipotizzabile).

39 Ed è ovvio che ci si riferisce alla sola ipotesi di ordinanza pronunciata fuori dell’udienza, posto che soltanto in tal

caso è prevista la comunicazione del provvedimento,

40 Ovviamente sul presupposto di adesione all’opinione di chi ritiene che esista un termine finale di sbarramento, oltre

il quale non è possibile la reintegrazione nel relativo potere; termine che, in forza di interpretazione analogica, viene

individuato in quello di cui all’art. 327, 1° comma, c.p.c.: in tal senso sembrerebbe orientato CAPONI, Rimessione in

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L’ultima ricaduta applicativa cui innanzi si accennava concerne l’ipotesi in cui ci sia stata

contumacia della parte41

. In tale ipotesi, infatti, credo che la decorrenza del termine breve, ove

l’ordinanza sia stata pronunciata fuori dell’udienza,42

sia possibile soltanto in caso di notificazione

della stessa (arg. ex art. 292, ult. comma, c.p.c.). Ove manchi quest’ultima43

, decorrerà soltanto il

termine lungo di impugnazione. L’unico problema che si porrebbe in questo caso è quello di

accertare se l’art. 327, 2° comma, c.p.c.44

sia assorbito nella ormai generale previsione di cui all’art

153 c.p.c.45

, ovvero sia considerato tuttora vigente, in quanto ritenuto norma speciale (in virtù del

noto brocardo secondo cui lex posterior generalis non derogat priori speciali).

3.2 – L’atto introduttivo del giudizio

Uno degli aspetti totalmente ignorati dalla legge riguarda la forma dell’atto introduttivo del

giudizio. A tal riguardo occorre dire che sicuramente aveva fatto di meglio il legislatore dell’ormai

abrogato rito societario, che, nell’introdurre nel sistema l’omologo (soltanto quanto a nomen iuris)

procedimento sommario (art. 19 d.lgs. 5/2003), oltre a disciplinare più dettagliatamente il giudizio

di appello46

, aveva espressamente previsto la forma dell’atto introduttivo del giudizio (citazione).

termini: estensione ai poteri di impugnazione (art. 153, 2° comma, c.p.c.), Foro it., 2009, V, 283; e v. pure F. DE SANTIS,

La rimessione in termini, in Il processo civile competitivo (a cura di A. DIDONE), Torino, 2010, 267, nt. 43.

41 Con la precisazione che tale fenomeno non riguarda l’attore, visto che esso si costituisce con il deposito del ricorso.

42 Infatti, come si è precisato in precedenza, in caso di provvedimento reso in udienza, il termine breve decorre dalla

pronuncia dello stesso.

43 Ed escludendo, pertanto, che l’ordinanza debba essere comunicata al contumace.

44 Che prevede la possibilità per il contumace, in determinate ipotesi, di impugnare la sentenza anche nel caso in cui

sia già decorso il termine lungo.

45 E’ questa, per esempio, l’opinione di F. DE SANTIS, loc. cit., nel testo.

46 Cui sono dedicati tre articoli (20-22), in uno dei quali (l’art. 20) rinvia, da un lato, alla disciplina generale delle

impugnazioni, dall’altro a quella specifica dell’appello nel processo ordinario, sia pure con la previsione della clausola

di compatibilità.

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Nel colpevole silenzio dell’art. 704 quater c.p.c.47

, non è mancato chi ha ritenuto che l’appello

debba proporsi con ricorso48

. Pur nella consapevolezza che una così poco perspicua tecnica

legislativa incrementa il tasso di arbitrarietà di ogni opinione a riguardo, ritengo che il silenzio

legislativo sia sintomatico di una volontà di rimandare alla disciplina ordinaria per il processo di

appello. Infatti, se è pur vero che, come si è già detto in precedenza, la sommarietà del nostro

giudizio non impedisce che l’accertamento dei giudice sia pieno, è altresì indiscutibile che

comunque si è in presenza di un processo in cui alcune fasi sono regolate all’insegna della

sommarietà. Sicché, io non credo che, in mancanza di un’espressa volontà legislativa, sia possibile

estendere i tratti di sommarietà previsti per il primo grado anche al giudizio di appello. Il che

comporta che il richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., lungi dall’omologare, nei tratti di

sommarietà previsti, i due gradi di giudizio, significa invece applicazione al giudizio di appello

della normativa prevista in tema di cognizione ordinaria.49

Né credo che la situazione cambi

invocando il c.d. principio di ultrattività del rito. Ora, a prescindere dai dubbi circa l’esistenza di

tale principio o della sua portata generale, va ricordato che normalmente esso è richiamato per

individuare la disciplina dell’atto introduttivo di appello tutte le volte che il primo giudice abbia

errato nell’applicazione del rito. In altre parole, tale principio viene utilizzato per evitare che si

scarichino sulle parti gli errori del giudice, ma non è certo decisivo per la soluzione del nostro

problema. Peraltro, si può anche aggiungere che, allorché il legislatore ha voluto disciplinare

diversamente, rispetto al modello del processo ordinario, la disciplina dell’appello, lo ha fatto

espressamente (si pensi al rito del lavoro). E se è pur vero che in alcuni casi (si pensi ai giudizi di

separazione e divorzio) l’orientamento prevalente è quello di ritenere che l’appello vada proposto

con ricorso piuttosto che con citazione, non bisogna dimenticare che in quelle ipotesi la legge, lungi

47

Per i rischi conseguenti all’incertezze interpretative circa la forma dell’atto introduttivo dell’appello, si rinvia a

BALENA, Il procedimento sommario, cit. 332.

48 Così BOVE, Il procedimento sommario, cit., 450 s., il quale, peraltro, precisa che al giudizio di appello nel processo

sommario, avendo le stesse caratteristiche di quello di primo grado (considerato un processo a cognizione piena, ma

semplificata), si applica, in forza dell’art. 359 c.p.c., la stessa disciplina dettata per il primo grado (ovviamente, in

quanto applicabile).

49 Non c’è nessun ostacolo letterale alla proposta interpretazione dell’art. 359 c.p.c., se sol si consideri che la domanda

trattata con il rito sommario era proponibile anche con quello ordinario.

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dal tacere completamente, fornisce significativi spunti normativi a favore della tesi in questione: per

esempio, l’art. 4, comma 15°, l div. prevede che l’appello venga deciso in camera di consiglio.

Orbene, dovrà convenirsene, l’espressa previsione del rito camerale fornisce un riscontro testuale

notevole all’opinione in esame, posto che la normativa generale in tema di procedimenti in camera

di consiglio dispone che l’atto introduttivo del giudizio abbia la forma del ricorso.50

3.3 – La disciplina applicabile

Quanto detto in precedenza consente di individuare agevolmente la disciplina destinata a

regolamentare l’appello nel processo sommario: si tratta della normativa dettata per questo grado di

impugnazione nel processo ordinario, salvo le esclusioni e gli adattamenti imposti dalla particolare

struttura del giudizio sommario. Per esempio, se, in contrasto con l’interpretazione dominante51

, si

ritiene di stretta interpretazione la norma dettata dall’art. 702 bis, 5° comma, nella parte in cui

sembra limitare l’ammissibilità della chiamata in causa del terzo a quella per garanzia52

, è evidente

che nell’appello nel processo sommario l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. avrà una portata molto più

ridotta di quanto normalmente avviene nel rito ordinario. Ed ancora, ove si ritenga, diversamente da

quanto da noi sostenuto, che nel rito sommario non siano consentite pronunce non definitive, va da

sé che in appello non ci sarà spazio per l’applicazione di tutte le norme che presuppongono tale

evento.

Per il resto è applicabile la consueta disciplina dettata in tema di appello; in particolare, non avrei

dubbi nel ritenere sussistente l’onere di specificazione dei motivi previsto dall’art. 342 c.p.c.53

,

50

Analogo discorso può farsi per il processo di separazione, dal momento che la legge espressamente prevede che

contro la sentenza non definitiva è proponibile soltanto l’appello immediato da decidere in camera di consiglio (art.

709 bis, ult. parte, c.p.c.). Sul fatto che il rito camerale debba adottarsi anche in caso di appello contro le sentenze

definitive, mi sia consentito rinviare, anche per ulteriori ragguagli bibliografici, al mio Il nuovo processo di separazione

e divorzio, in Il processo civile competitivo, cit., 378 s.

51 Per tutti, esemplificativamente, v. BALENA, op. cit., 326.

52 In tal senso sembra propendere LUPOI, op. cit., sub 4.

53 Nel procedimento sommario previsto dall’abrogato rito societario era espressamente previsto che l’atto di appello

(la citazione) dovesse contenere, a pena di inammissibilità, specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata.

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anche se credo che l’estensione di tale onere sia condizionato dalla consistenza della motivazione

dell’ordinanza impugnata, nel senso che quanto più la stessa sarà sintetica, tanto meno sarà esteso

l’onere di cui si discorre. Fermo restando che, anche in caso di ridottissima motivazione, in caso di

pronuncia fondata su una pluralità di rationes decidendi54

, l’appellante, se non vuol sentirsi

dichiarare inammissibile il gravame, dovrà formulare censure per ciascuna delle singole ragioni che

sorreggono la decisione.

Ed ancora, non credo che sorgano dubbi sul fatto che l’inibitoria si svolga secondo i consueti

schemi previsti dal rito ordinario.55

Dubbi sono sorti circa l’applicabilità degli artt. 353 e 354 c.p.c. nel nostro giudizio di appello.

Secondo taluni,56

nell’appello nel processo sommario non troverebbe spazio la rimessione al primo

giudice, in quanto detto istituto sarebbe compatibile soltanto con un processo in cui entrambi i gradi

di giudizio siano organizzati secondo la cognizione piena.

Premesso che gli artt. 353 e 354 individuano in maniera tassativa le ipotesi in cui l’appello non ha

portata sostitutiva e deve concludersi con una pronuncia rescindente, non credo che questo

fenomeno sia ostacolato dalla mancanza di omogeneità tra la cognizione di primo grado e quella di

secondo grado. Inoltre, non va trascurato che il legislatore, quando ha voluto escludere l’operatività

della rimessione della causa al primo giudice, lo ha fatto esplicitamente, come avviene nel reclamo

cautelare (art. 669 terdecies, 4° comma, c.p.c.). Si deve, però, osservare che la soluzione adottata

per l’impugnazione contro il provvedimento cautelare, in quanto giustificata dalla peculiarità di

quel giudizio (attivabile sul presupposto dell’urgenza), non appare esportabile in un processo la cui

instaurazione prescinde del tutto da quel presupposto.

54

Da tener distinte dagli obiter dicta, che, a mio avviso, non sono idonei alla configurazione dell’onere ex art. 342

c.p.c. (anche se nella pratica è difficile distinguere un mero obiter da una ragione portante della decisione, soprattutto

nelle ipotesi di provvedimenti sinteticamente motivati).

55 Sicché anche in questo caso sono destinate a riprodursi le discussioni circa la portata del potere di sospensione

dell’efficacia esecutiva, se, cioè, debba limitarsi soltanto ai capi di condanna o possa estendersi a quelli aventi diversa

natura.

56 V. soprattutto OLIVIERI, op. cit., sub 10, cui adde MENCHINI, L’ultima idea, cit., sub. 5

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Peraltro, appare opportuno svolgere a riguardo ulteriori considerazioni. Potrebbe succedere che

l’errata decisione di primo grado, la cui riforma comporti la rimessione al primo giudice, abbia

impedito alla causa di incanalarsi nel solco del rito ordinario, Si pensi, per esempio, all’ipotesi in

cui, per la natura delle difese nel merito delle parti57

, non sarebbe consentita la trattazione con il rito

sommario; ma ciò nondimeno il giudice abbia ritenuto di procedere con quel rito, considerando il

giudizio immediatamente definibile in forza di un’eccezione di estinzione, da lui erroneamente

ritenuta fondata. Oppure si pensi all’ipotesi di errata estromissione di una parte, le cui difese

avrebbero “complicato” la causa, rendendola incompatibile con la trattazione sommaria.58

Non

senza trascurare che si possono verificare casi in cui la “semplicità” della causa (e, quindi, la sua

idoneità alla trattazione sommaria) derivi dalla mancata integrazione del contraddittorio nei

confronti di tutti i litisconsorti necessari. Ebbene, in tutte le ipotesi indicate, l’applicazione della

rimessione al primo giudice avrebbe un valore aggiunto: non solo servirebbe a perseguire l’intento

che ispira la disciplina di cui agli artt. 353 e 354, ma servirebbe anche a ripristinare le condizioni

per una corretta valutazione circa l’idoneità della causa ad essere trattata con il rito sommario.59

3.4 – Lo ius novorum

L’aspetto (ovviamente con riferimento alla disciplina dell’appello) che più ha destato l’attenzione

del legislatore è quello dei nova, anche se il risultato di tale considerazione è men che modesto.

Innanzitutto perché si sono prese in considerazione soltanto le nuove prove, mentre è stato del tutto

ignorato il tema delle nuove allegazioni; in secondo luogo perché la soluzione adottata sembra

57

Alludo tanto alle attività di allegazione, quanto a quelle probatorie.

58 Si faccia il caso di un processo instaurato nei confronti di più convenuti, definito con una sola pronuncia resa

all’esito di una trattazione in cui il giudice abbia del tutto ignorato le difese della parte estromessa, proprio sul

presupposto (errato) del fatto che la stessa dovesse essere estromessa dal giudizio.

59 Purché sia chiaro, a scanso di equivoci, che la rimessione della causa al primo giudice sarebbe giustificata soltanto

dalla ricorrenza delle ipotesi tassative ex artt. 353 e 354 c.p.c., in quanto l’errata valutazione in ordine alla

compatibilità della causa con il rito sommario, come già si è detto in precedenza, non comporta la definizione del

giudizio di appello con una pronuncia meramente rescindente.

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addirittura più intricata rispetto a quella rappresentata dal 3° comma dell’art. 345, 3° comma, c.p.c.,

che è stato e continua ad essere un tormento per gli interpreti.

Ma procediamo con ordine partendo dall’esame dell’art. 702 quater c.p.c. nella parte in cui prevede

che << sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene rilevanti

ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del

procedimento sommario per causa ad essa non imputabile >>. Appare evidente l’assonanza con la

norma dettata dall’art. 345, 3° comma, c.p.c., anche se alcune differenze vanno rimarcate.

Innanzitutto nella disciplina dell’appello nel processo sommario c’è un aggettivo diverso (<<

rilevanti >> invece di << indispensabili >>); inoltre non può passare inosservato che, mentre la

previsione ex art. 345, 3° comma, c.p.c., è formulata in negativo (<< non sono ammessi …>>),

quella di cui all’art. 702 quater è in positivo. Può anche essere che queste differenze linguistiche

siano soltanto casuali, ma non può escludersi che le diversità siano frutto di una volontà più liberal,

tendente a favorire un regime più permissivo dei nova probatori in appello.60

Resta il fatto che un

legislatore più accorto, che avesse avuto memoria delle diatribe ermeneutiche suscitate prima

dall’art. 437, 2° comma, poi dall’art. 345, 3° comma, c.p.c., sicuramente si sarebbe guardato bene

dal riprodurre formule linguistiche così ambigue.

Peraltro, è appena il caso di precisare che la nuova previsione, se sottoposta al vaglio della logica,

appare deficitaria sotto diversi profili. Infatti, dato atto che le chances di nuove prove in appello nel

processo sommario sono espresse in forma dicotomica, c’è subito da dire che il secondo corno

dell’alternativa (le prove che la parte era impossibilitata a produrre in primo grado) è, da un lato,

inutile, perché il rispetto di valori costituzionalmente protetti consentirebbe comunque l’ingresso di

tali prove in appello, anche in carenza di una specifica norma;61

dall’altro, assolutamente insensato,

in quanto, a stare pedissequamente alla lettera della legge, sembrerebbe che in tale ipotesi il giudice

dovrebbe ammettere le nuove prove anche se irrilevanti. Il che, come ognun comprende, è

palesemente assurdo.

60

Sospetto, peraltro, avvalorato, dal fatto che inizialmente il testo normativo conteneva l’aggettivo <<indispensabili>,

sostituito con quello << rilevanti>> a seguito di un emendamento.

61 Fermo restando che, a ben vedere, la norma ci sarebbe pure ed è quella rappresentata dall’art. 153, 2° comma,

c.p.c.

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Quanto, invece, alla prima parte della previsione normativa in esame, sempre in un’ottica di

ossequio supino alla lettera della legge, ne è evidente la superfluità, dal momento che è del tutto

scontato che una prova possa essere ammessa solo se rilevante.

Ed allora, se non si vuol concludere sull’assoluta irrilevanza della normativa in considerazione,

forse è necessario uno sforzo di memoria storica per recuperare all’indagine quella prospettiva

necessaria per attribuire un qualche significato alla nuova previsione. A tal fine occorre considerare

che il codice del ’40, in vistosa soluzione di continuità rispetto a quello del 1865, adottò, sia pure

con una certa elasticità62

, il principio di preclusione, tanto in primo grado quanto in appello. La

caduta del fascismo, e la ribellione che ne seguì, segnarono il ritorno, con la novella del ’50, del

principio di libertà delle deduzioni, che fu in seguito abbandonato, per le controversie del lavoro

con la riforma del 1973, per quelle ordinarie con la novella 353/1990. In particolare, nel rito del

lavoro, dopo l’adozione in primo grado di una versione rigida del principio di preclusione, per quel

che riguarda le nuove prove in appello si stabilì (art. 437, 2° comma) che esse potessero essere

ammesse, solo se << indispensabili>>. Ora, a prescindere dal significato da attribuirsi al termine in

questione63

, a me sembra che l’uso di quell’aggettivo stesse a rimarcare il carattere tendenzialmente

chiuso ai nova probatori dell’appello, sì da potersi ritenere che le nuove attività istruttorie in

secondo grado dovessero considerarsi l’extrema ratio del sistema. Per quanto riguarda il processo

ordinario, con le riforme succedutesi dal ’90 in poi, in primo grado è stato adottato il principio di

preclusione in maniera meno rigida rispetto al rito del lavoro; in appello, però, la scelta legislativa è

simile a quella che caratterizza il processo del lavoro, anche se se ne discosta per un tasso di

maggiore specificità normativa. Infatti, se nel rito del lavoro l’ingresso delle nuove prove in appello

è subordinato soltanto alla verifica della loro indispensabilità, nel rito ordinario l’apertura ai nova

probatori è consentita anche nel caso di prove che la parte non aveva potuto proporre per causa a lei

non imputabile. Non credo che questa maggiore specificazione normativa possa giustificare una

62

Tale mia affermazione è giustificata dal fatto che il codice del ’40 non adottò il principio di preclusione nella sua

versione più estrema, qual è quella rappresentata dal principio di eventualità: a tal fine mi sia consentito rinviare al

mio Trattazione e istruzione nel processo civile, Napoli, 2010, 19-41.

63 A riguardo, anche per ulteriori ragguagli bibliografici, rinvio al mio Le nuove prove in appello, Giusto proc. civ., 2006,

fasc. 3, 103 ss., spec. 126 ss, ora anche nel citato Trattazione ed istruzione nel processo civile, 260 ss.

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diversità di regime tra rito ordinario e rito del lavoro, giacché mi sembra del tutto intuitivo che

anche in quest’ultimo, pur in carenza di una espressa previsione, possano essere ammesse in appello

quelle prove che la parte era impossibilitata a chiedere in primo grado. Sicché, come ognun

comprende, la vera partita, tanto nel rito ordinario quanto in quello del lavoro, si gioca sul requisito

dell’indispensabilità della prova. Il che porta a concludere che la noma di cui all’art. 345, 3°

comma, pecca per superfetazione, anche se, come ho osservato in altra sede64

, tutto sommato quella

previsione dicotomica aveva il senso di far capire che l’ingresso delle nuove prove in appello non

poteva essere limitato soltanto ai casi in cui la parte era stata impossibilitata ad esercitare il relativo

potere in primo grado. Infatti, l’alternativa delineata dall’art. 345, 3° comma, c.p.c. impone che

debbano considerarsi ammissibili in appello le nuove prove anche quando potevano essere richieste

in primo grado (ovviamente se indispensabili): e ciò perché il principio della giustizia della

decisione (che sicuramente va annoverato tra quelli del << giusto processo >>) richiede l’adozione

di tecniche processuali volte a favorire l’accertamento veritiero dei fatti coinvolti nel processo.65

Se si tiene presente questo contesto, credo che sia possibile attribuire un significato razionale anche

alla nuova previsione di cui all’art. 702 quater, purché si tenga nella giusta considerazione anche il

particolare contesto in cui essa si cala. In altre parole, voglio dire che, per la soluzione del problema

interpretativo che ci occupa, non solo dobbiamo tener conto dei risultati conseguiti, in prospettiva

diacronica, con riferimento all’omologa questione nel rito ordinario e nel rito del lavoro; ma

dobbiamo anche non dimenticare che stiamo parlando dell’appello in un processo che in primo

grado, per quel che riguarda la fase istruttoria (ma non solo), si è svolto all’insegna della

sommarietà, senza, cioè, il rispetto di tutte quelle forme che garantiscono al massimo il diritto di

difesa delle parti.

Se si parte da queste premesse, forse la soluzione al problema in esame diventa agevole.

64

Le nuove prove, cit., 131.

65 Sul problema della verità nel processo, da ultimo, v. il bel libro di TARUFFO, La semplice verità, Bari, 2009, su cui i

rilievi di CAVALLONE, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di

Michele Taruffo), Riv. dir. proc., 2010, 1 ss., e di CHIARLONI, La verità presa sul serio, Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 695

ss., nonché la replica dello stesso TARUFFO a CAVALLONE, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a

Bruno Cavallone, ibid., 995 ss.

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Si tenga conto che, analogamente a quanto avviene nel rito ordinario e in quello del lavoro, la nuova

attività istruttoria in appello può essere imposta dal fatto che il primo grado si è concluso con una

pronuncia in rito, senza, cioè, che ci sia stata possibilità per le parti di esercitare i loro poteri

probatori: in tal caso, infatti, nulla impedisce che le stesse parti, oltre a riproporre le prove già

chieste (e non ammesse), ne chiedano di nuove. Oppure si pensi all’ipotesi di nuove allegazioni

consentite in appello (emendatio libelli o nuove eccezioni rilevabili di ufficio): in tal caso, infatti, il

potere di nuove allegazioni sarebbe tamquam non esset se non fosse consentito di provare i fatti che

lo sostanziano. Ovvero, si pensi ancora all’ipotesi in cui la necessità delle nuove prove sorga in

dipendenza del taglio giuridico della decisione adottata dal primo giudice. Ed infine, con

riferimento alle peculiarità strutturali del rito sommario, la necessità delle nuove prove in appello

potrebbe scaturire dall’istruttoria deformalizzata del primo grado. Ebbene, tutti questi esempi sono

sufficienti a dar sostanza ad uno dei corni dell’alternativa delineata dal legislatore (quella in cui si fa

riferimento alle prove che la parte è stata impossibilitata ad offrire in primo grado).

Per quel che concerne, invece, il secondo corno dell’alternativa (possono essere ammesse le nuove

prove se << rilevanti >> ), qui ancora una volta viene in gioco il principio che ho definito della “

decisione giusta”, che impone di favorire sempre l’accertamento veritiero dei fatti coinvolti nel

processo: il che significa che le nuove prove, anche se potevano essere chieste in primo grado,

possono trovare ingresso in appello tutte le volte che possano garantire il raggiungimento di una

decisione giusta perché fondata sull’accertamento veritiero dei fatti.66

Di diverso nell’appello nel processo sommario, rispetto al rito ordinario e a quello del lavoro, c’è

l’uso di un aggettivo (<<rilevanti >> invece di << indispensabili >>)67

, che, più che produrre

conseguenze significative in termini di risultato interpretativo, evidenzia l’intento “politico” del

legislatore di voler sottolineare il carattere meno chiuso dell’appello quale compensazione della

struttura sommaria che caratterizza il primo grado.

66

Nella prospettiva ermeneutica delineata nel testo diventa irrilevante la mancata menzione nell’art. 702 quater della

facoltà delle parti di deferire giuramento decisorio, giacché la sua portata decisiva, conseguente al valore di prova

legale, ne consentirà l’ingresso anche in appello.

67 Oltre alla già accennata formulazione in positivo della norma.

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Per concludere sull’argomento, bisogna osservare che, in caso di ammissione di nuove prove in

appello, la legge riconosce al presidente il potere di delegare l’assunzione delle stesse ad uno dei

componenti del collegio. E’appena il caso di precisare che tale facoltà è limitata alla mera

assunzione della prova, mentre l’ammissione della stessa rientra tra i poteri esclusivi e non

delegabili dell’intero collegio. Ciò detto, credo che l’assunzione davanti al singolo consigliere non

debba avvenire necessariamente nel giorno fissato per un’udienza collegiale, in quanto il giudice

delegato, per problemi organizzativi, ben potrà tenere una distinta udienza monocratica per

l’assunzione della prova, al termine della quale rimetterà la causa al collegio.

Come già si è detto in precedenza, il legislatore, nel disciplinare il problema dei nova in appello, ha

completamente ignorato l’aspetto delle nuove allegazioni. Essendosi in presenza di un processo

svoltosi in primo grado all’insegna della sommarietà, sarebbe lecito chiedersi se quel silenzio sia

sintomatico di una volontà di derogare ai consueti principi che, in subiecta materia, reggono

l’appello. Sennonché, gli interpreti concordemente hanno attribuito al silenzio legislativo il

significato di mera dimenticanza, sostenendo che la questione debba risolversi con l’applicazione

dei primi due commi dell’art. 345 c.p.c. La soluzione mi sembra del tutto condivisibile, parendomi

eccessivo che da un dato così ambiguo (il silenzio della legge) possa inferirsi una deroga così

vistosa agli schemi classici cui si informa l’appello. In altre parole, voglio dire che il legislatore, se

davvero avesse voluto abbandonare percorsi altamente sperimentati, non si sarebbe affidato al

silenzio, ma avrebbe trattato il tema espressamente. Ergo, le nuove allegazioni in appello sono

quelle consentite dall’art. 345 c.p.c.: emendatio libelli, nuove domande nei limiti previsti

dall’ultima parte del primo comma dell’art. 345, nonché eccezioni rilevabili di ufficio.