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Per una teoresi a più face del legame sociale: il problema di Rousseau tra la “famiglia” e la “polis”, relazione tenuta al Convegno: Il “pedagogista” Rousseau tra metafisica, etica e politica, organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze della Persona, Centro di Ateneo per la Qualità dell’Insegnamento e dell’Apprendimento, Università degli studi di Bergamo e il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia Applicata (FISPPA), Università degli studi di Padova e il Centro Italiano di Ricerca Pedagogica (CIRPED), Bergamo-Padova, 1-2-3 Ottobre 2012, in corso di pubblicazione. (25) Giuseppe Limone PER UNA TEORESI A PIÙ FACCE DEL LEGAME SOCIALE: IL PROBLEMA DI ROUSSEAU TRA LA “FAMIGLIA” E LA “POLIS” Jean-Jacques Rousseau è un autore complesso e controverso. Egli ha percorso in modo originale l’approccio psicologico, pedagogico e filosofico. Della sua concezione complessiva sono state date letture che insistono o sulla coerenza o sulla contraddittorietà. Per entrare nel suo mondo, è possibile scegliere tre polarità fondamentali: quella fra individuo e società, quella fra spontaneità e artificio, quella fra sentimento e ragione. A guardarlo in una prima approssimazione, Rousseau sembra insistere ora sul primo termine, ora sul secondo termine dell’opposizione. E, d’altra parte, a guardarlo sempre a una prima approssimazione, egli sembra insistere ora sulla prima polarità, ora sulla seconda, ora sulla terza. Se guardiamo a questo rapporto tra individuo e società, fra spontaneità e artificio, fra sentimento e ragione, ossia a tre antitesi fondamentali nell’architettura del pensiero rousseauiano, si potrà sostenere che nel corso della sua opera alcune volte prevale il primo termine e altre volte il secondo. Esemplare in proposito è il modo in cui Nicola Abbagnano sintetizza il problema- Rousseau 1 . Appare, a una prima investigazione critica, che il pensatore ginevrino non abbia una capacità veramente filosofica, perché non riesce ad avere nelle sue opere una visione unitaria nel momento 1 Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. La filosofia moderna: dal Rinascimento all’Illuminismo, vol. 2, UTET, Milano 2005.

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Per una teoresi a più face del legame sociale: il problema di Rousseau tra la “famiglia” e la “polis”,

relazione tenuta al Convegno: Il “pedagogista” Rousseau tra metafisica, etica e politica,

organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze della

Persona, Centro di Ateneo per la Qualità dell’Insegnamento e dell’Apprendimento,

Università degli studi di Bergamo e il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia,

Psicologia Applicata (FISPPA), Università degli studi di Padova e il Centro Italiano di

Ricerca Pedagogica (CIRPED), Bergamo-Padova, 1-2-3 Ottobre 2012, in corso di

pubblicazione.

(25)

Giuseppe Limone

PER UNA TEORESI A PIÙ FACCE DEL LEGAME SOCIALE: IL PROBLEMA DI ROUSSEAU

TRA LA “FAMIGLIA” E LA “POLIS”

Jean-Jacques Rousseau è un autore complesso e controverso. Egli ha percorso in modo

originale l’approccio psicologico, pedagogico e filosofico. Della sua concezione complessiva sono

state date letture che insistono o sulla coerenza o sulla contraddittorietà. Per entrare nel suo mondo,

è possibile scegliere tre polarità fondamentali: quella fra individuo e società, quella fra spontaneità e

artificio, quella fra sentimento e ragione. A guardarlo in una prima approssimazione, Rousseau

sembra insistere ora sul primo termine, ora sul secondo termine dell’opposizione. E, d’altra parte, a

guardarlo sempre a una prima approssimazione, egli sembra insistere ora sulla prima polarità, ora

sulla seconda, ora sulla terza.

Se guardiamo a questo rapporto tra individuo e società, fra spontaneità e artificio, fra

sentimento e ragione, ossia a tre antitesi fondamentali nell’architettura del pensiero rousseauiano, si

potrà sostenere che nel corso della sua opera alcune volte prevale il primo termine e altre volte il

secondo. Esemplare in proposito è il modo in cui Nicola Abbagnano sintetizza il problema-

Rousseau 1.

Appare, a una prima investigazione critica, che il pensatore ginevrino non abbia una capacità

veramente filosofica, perché non riesce ad avere nelle sue opere una visione unitaria nel momento

1 Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. La filosofia moderna: dal Rinascimento all’Illuminismo, vol. 2, UTET,

Milano 2005.

in cui si occupa dei vari problemi che affronta: il problema del legame familiare, il problema del

legame educativo e il problema del legame sociale. Rousseau sembra parteggiare ora per l’uno, ora

per l’altro termine dell’antitesi filosofica. Ma, d’altra parte, lo stesso Abbagnano annota che forse è

ricostruibile in Rousseau un modello unitario di discorso. A nostro avviso l’intera questione -

Rousseau è viziata da un equivoco fondamentale, a causa del quale non si riesce a comprendere

veramente il modo con cui il pensatore ginevrino ragiona.

Si tratta, a nostro avviso, di capire se e in che modo le tre polarità identificate (individuo/

società, spontaneità/artificio, sentimento/ragione) ne costituiscano in realtà una sola e se e in che

modo sia possibile ricondurre l’un termine della polarità all’altro senza facili scorciatoie.

Guardando quindi alla figura di Jean-Jacques Rousseau attraverso le tre indicate polarità,

alcuni critici hanno visto nel pensatore ginevrino percorsi contraddittori, altri forme di stretta

coerenza. In realtà, non solo in Rousseau possono essere còlti modelli diversi di pensiero, ma questi

stessi modelli mutano a seconda dei termini che in essi si considerano prevalenti. Potrebbe vedersi

l’opera rousseauiana secondo una lettura prevalentemente illuministica (Immanuel Kant)2,

prevalentemente romantica (Jean Starobinski)3 o prevalentemente antropologica (Claude Lévi-

Strauss)4, ma in ognuno di questi casi si perderebbe forse di Rousseau qualche componente

essenziale.

Non va dimenticato che nella lettura di Kant, Rousseau viene presentato come il vero Newton

della morale. L’idea di “natura” in Rousseau diventa così, guardata attraverso la ragione,

un’autentica idea etica, alla cui luce bisogna rifondare l’intero universo umano. Non va dimenticato,

d’altra parte, che nella lettura di Jean Starobinski appare centrale l’immagine della trasparenza e del

cristallo, secondo la cui luce la natura è chiamata a esprimersi, pur fra ostacoli, nella sua limpida

verità. Non va dimenticato, infine, il contributo critico, straordinario e spaesante, di Claude Lévi-

Strauss nella sua lettura del pensatore ginevrino. Per Lévi-Strauss, che guarda soprattutto a partire

dal Rousseau delle Passeggiate e dei Discorsi sull’ineguaglianza, l’io di Rousseau si presenta come

spiazzato, decentrato a partire dall’altro che lo guarda, sicché si tratta di capire che la complessiva

prospettiva rousseauiana non parte affatto da un’indicazione soggettivistica e solipsistica perché

muove invece da quello strato in cui nell’io guardato a partire da un altro io e da tanti altri io si

coglie una dimensione antropologica universale che riesce a prescindere da ogni appartenenza

culturale.

2 È noto che Kant, nel suo complessivo itinerario etico e nella sua Critica della ragion pratica, ha considerato Jean-

Jacques Rousseau il vero iniziatore di una rivoluzione teoretica nella visione morale: il Newton della morale. 3 Vedi Jean Starobinski, Jean-Jacques Rousseau, la trasparenza e l’ostacolo, Il Mulino, Bologna 1982.

4 Sul punto vedi, Claude Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo, postfazione a

Jean-Jaques Rousseau, Emilio, Mondadori, Milano 2012.

C’è da fare però, a questo punto, una precisazione essenziale. Se tendiamo a ridurre, nel

pensiero di Rousseau, l’idea di natura alla ragione che la pensa, la “natura” rousseauiana tende a

consumarsi interamente in una idea etica, che non lascia più residui. In tal caso, la posizione di

Rousseau rispetto agli illuministi perde la sua fondamentale eccentricità. Se, d’altra parte,

cerchiamo di mantenere la fondamentale eccedenza della natura rousseauiana rispetto alla semplice

ragione, rischiamo, pur mettendo in luce l’importante connotato romantico, di perdere il

complessivo intento riformatore che nella prospettiva rousseauiana mantiene un importante

significato. Se, infine, tendiamo a ridurre l’io dell’individuo rousseauiano a semplice elemento di un

insieme di forze in cui tutto si presenti come de - soggettivato, rischiamo di perdere il significato

profondo che in Rousseau ha pur sempre quel punto di partenza del “sé” da cui muovono le sue

Confessioni.

Il problema perciò, dal punto di vista dal quale ci poniamo, consiste nel riuscire a cogliere

all’interno dei tre fondamentali percorsi di Rousseau (il tema dell’amore e del rapporto coniugale, il

tema dell’educazione, il tema del contratto sociale), se c’è, un comune programma epistemologico,

per quanto non dichiarato o addirittura inconscio. Vorremmo qui mostrare che esiste, in ognuno

degli itinerari di Rousseau, un programma speculativo comune che ai tre percorsi individuati

soggiace. Coprire un tale programma significa lavorare attentamente fra i materiali dallo stesso

Rousseau disseminati: ciò, per cogliervi la filigrana di una figura, insieme con le eventuali

incrinature nascoste.

Proviamo a rappresentarci, da una parte, il percorso teoretico celato nella nuova Eloisa5,

nell’Emilio e nel Contratto sociale e, dall’altra parte, il percorso problematico che va dal sentimento

alla ragione, dalla spontaneità all’artificio e dall’individuo alla società. Potremmo accorgerci che

tutti i percorsi considerati si riconducono in realtà all’unico itinerario che va dalla natura (intesa

come sentimento) alla ragione, dalla natura (intesa come spontaneità) all’artificio e dalla natura

(intesa come il proprio individuale, unico sé) alla società. Tutti i percorsi considerati, cioè, si

rivelano riconducibili all’unico problema del rapporto tra la natura come spontaneità della vita e ciò

che, a un certo punto, emerge dalla natura stessa contrapponendosi ad essa (la ragione, l’artificio, la

società). La questione cruciale nasce dal fatto che in ognuno dei termini considerati (natura/ragione)

è in gioco qualcosa di essenziale. Nella natura è in gioco la spontaneità, l’autenticità, la felicità, la

libertà; nella ragione è in gioco la relazione, l’ordine, la giustizia, la durata. Non basta, per risolvere

la questione, dire che i due termini dell’opposizione vanno condotti fino alla loro congiunzione

ideale: una tale risoluzione rischia di essere soltanto intellettualistica e verbale. La vera questione si

5 Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, introduzione e commento di Elena Pulcini traduzione di Piero

Bianconi , Rizzoli, Milano 2008.

pone nel momento in cui si decide l’approccio: nel momento cioè in cui si decide, sulla base di una

ponderazione complessiva, la prospettiva da cui si vede, che viene a costituire, così, l’ubi consistam

ermeneutico e strategico nell’atto di impostare. Decidere da dove si guarda significa decidere che

cosa si guarda. Non è la stessa cosa vedere la natura a partire dalla ragione o la ragione a partire

dalla natura, così come non è la stessa cosa vedere l’individuo a partire dalla società o la società a

partire dall’individuo, né è la stessa cosa decidere di vedere la spontaneità a partire dall’artificio o

viceversa. D’altra parte, però, la scelta della prospettiva deve essere pur compiuta sulla base di ciò

che Rousseau mostra di preferire come impostazione di fondo. A guardar bene i modi con cui

Rousseau organizza i criteri del discorso, si scopre che egli, assumendo come terreno principale il

primo termine della polarità (sentimento, individuo, spontaneità), ne segue e ne orienta l’evoluzione

attraverso il confronto con un termine opposto (passione, dipendenza, artificio), allo scopo di

promuovere il primo termine a un grado evolutivo superiore, rispetto a cui il momento di partenza

resterà permanentemente il motore strategico e il criterio di misura.

Potremmo forse cercare di comprendere questo modo di Rousseau di intendere la natura,

impiegando in modo rovesciato e nuovo un noto detto di Carl von Clausewitz, riflettendo sul fatto

che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. In tale contesto prospettico bisognerà

quindi interrogarsi su come in Rousseau la “natura” continui con gli “altri mezzi” della “ragione”.

Potremo così domandarci sui tre modi diversi in cui appare in Rousseau il legame nella nuova

Eloisa, nell’Emilio e nel Contratto Sociale, se si osserva che nel primo caso si tratta di legame

coniugale, nel secondo di legame morale e nel terzo di legame civile.

L’itinerario critico che s’intende qui percorrere su Rousseau vuole rappresentare un quarto

modo di cercare il programma speculativo che segretamente agisce in tutta l’opera rousseauiana.

Cercheremo qui di procedere per passi di discorso, allo scopo di pervenire a un possibile quadro

unitario della prospettiva rousseauiana. Ci domandiamo: esiste, in tutta l’opera di Rousseau, un

unico modello epistemologico che agisce sottotraccia, ne sia consapevole o non consapevole

l’autore? E, se esiste, in che termini è configurabile?

Il primo passo per addentrarsi nella sensibilità e nella prospettiva rousseauiana è certamente

quello consistente nel muovere dal discorso che il pensatore ginevrino svolge sulle scienze e sulle

arti in relazione alla società del suo tempo. Come è noto, il ragionamento di Rousseau è

consapevolmente paradossale perché egli, nel tempo in cui sta maturando lo spirito illuministico,

che fa centro sul progresso delle scienze e delle arti, sostiene che questo progresso danneggia e non

avvantaggia la società. Il danno che Rousseau individua è nel fenomeno per cui la natura umana

viene da un tale “progresso” corrotta. Il baricentro speculativo del pensiero di Rousseau, pertanto,

si rivela l’affermata esistenza di una natura dell’uomo, che deve essere preservata da inquinamenti

corruttivi. Che cos’è questa “natura”? In che modo può essere identificata e concettualizzata?

Nell’analisi del concetto di natura in Rousseau gli studiosi, occupandosi del modo in cui l’autore

ginevrino concepisce lo “stato di natura”, si sono affannati nel rispondere alla domanda se un tale

stato di natura sia mai esistito, cioè se sia storicamente avvenuto. La pressoché unanime risposta al

quesito ha argomentato che, quando si parla di “stato di natura” in Rousseau, non si parla di uno

stato storicamente avvenuto, perché si tratta invece di un’idea etica da intendere come obiettivo

morale. In realtà, identificare lo stato di natura rousseauiano attraverso la secca alternativa fra uno

stato storicamente avvenuto e un ideale etico della ragione nasconde il vero problema che Rousseau

sta ponendo al centro dell’attenzione. Il pensatore ginevrino, infatti, assumendo la “natura” come

centro fondamentale del discorso, non sta parlando né di uno stato storicamente avvenuto né di un

puro ideale etico da conseguire. Affermare il primo termine del discorso significherebbe

immaginare una situazione fattuale in cui l’uomo si sia storicamente dato così come da Rousseau

immaginato a fondamento del percorso. Affermare il secondo termine del discorso, invece, significa

assorbire la “natura” dell’uomo all’interno di un concetto etico che ne conterebbe ed esaurirebbe

l’estensione. In questo secondo caso, il concetto di natura sarebbe interamente sostituibile dall’idea

etica che in sé lo consuma. La “natura” in Rousseau è, in realtà, né una “cosa” né uno “stato” ma un

accadere continuo: un puro scorrere, un puro fluire. Questa “natura” è nient’altro che l’antichissima

physis, da intendere come movimento e non come cosa, come spontaneità vitale che, da nulla

impedita, scorre come nella sua potenza già è. Questa “natura”, questa physis è un “essere” non nel

senso del sostantivo che dice la cosa, ma nel senso del verbo che dice il movimento. Nella

precomprensione di Rousseau una tale physis come spontaneità è buona, perché è uscita com’è dalle

mani del creatore. Quando Rousseau afferma «L’uomo è nato libero e dappertutto è in catene», sta

dicendo in realtà che l’uomo, in quanto nasce, è la sua libera spontaneità.

Non coglieremmo però bene il senso di questa physis come spontaneità se non

comprendessimo che una tale physis è perfettibile, e quindi da considerare nella sua strutturale

capacità evolutiva. Sarebbe un errore pensare a una spontaneità dell’uomo che semplicemente

ripetesse se stessa. La libera physis dell’uomo si evolve e progredisce rimanendo se stessa, in

quanto physis umana che si evolve. Questa physis è espressione e ricerca del proprio piacere nel

senso dell’esercizio di quell’amore di sé, di quell’ amor sui che dà felicità.

Crediamo, in questa luce, che il centro speculativo da cui muovere per intendere Rousseau sia

quello magistralmente messo in luce da Robert Derathé6, là dove si ricostruisce, anche sulla

falsariga di Sant’Agostino, il rapporto rousseauiano fra l’amore di sé e l’amor proprio. L’amore di

sé è per Rousseau la forza naturale e originaria, radicata in ogni individuo, attraverso la quale questi

6 Robert Derathé, Jean-Jacques Rousseau e la scienza politica del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1993.

cerca di realizzare la sua felicità conservandola nel tempo. Rousseau critica radicalmente, in questa

luce, la teoria della socievolezza, sostenuta, sulle orme di Aristotele, da Grozio e da Pufendorf. Egli

critica, insieme con la teoria della socievolezza, anche l’opposta teoria, quella di Hobbes, che

concepisce i rapporti tra gli uomini come rapporti potenziali di guerra (bellum omnium contra

omnes). Rousseau, centrando la sua analisi sull’amore di sé, non accetta né la teoria della

socievolezza né la teoria della potenziale guerra fra gli individui. Egli ritiene però che, insieme con

l’amore di sé (con l’amor sui), operi nell’individuo una forza incoercibile, la pietas, la pietà,

consistente in quella naturale tendenza dell’uomo a partecipare, come d’istinto, alla sofferenza

dell’altro, fino a soccorrerlo nelle condizioni di emergenza. Non la socievolezza, quindi, ma

l’amore di sé e la pietas sono a fondamento della natura umana. Là dove l’amore di sé indica il

nucleo centrale dell’individuo, la pietas ne delinea il minimo nucleo relazionale. In questa luce,

l’amor sui appare muoversi entro due coordinate: nella coordinata temporale e nella coordinata

relazionale. Nella coordinata temporale, nel senso che, se è vero amor sui e non amor proprio, tende

a conservare l’io in cui è radicato, e nella coordinata relazionale, nel senso che in tale amor sui vive

nascosta quella pietas che è l’ultimativo soccorrere, in ultima istanza, chi soffre. D’altra parte, però,

è proprio esercitando l’amor sui nella coordinata temporale (in cui si cura la durata) che si scopre la

necessità di regolare bene i rapporti con l’altro, quando si incontra l’altro, perché è proprio nei

rapporti con l’altro che possono nascere quelle passioni e quegli eccessi che possono spingere,

anche inconsapevolmente, alla distruzione e all’autodistruzione. La passione amorosa, in quanto

distrugge l’amante e l’amato, diventa il contrario dell’amor sui; la vanità, l’ambizione, l’invidia, lo

spirito di rapina, in quanto corrompono e distruggono i rapporti con gli altri, sono il contrario

dell’amor sui; il muoversi verso l’asservire o l’essere asserviti, in quanto distrugge i rapporti civili,

è il contrario dell’amor sui.

Un tale amor sui pertanto non va guardato nella pura puntualità di un momento, altrimenti

diventerebbe semplicemente amor proprio: un tale amor sui va considerato invece nella sua

capacità di garantirsi il durare. Esso nel garantirsi un tale durare, non può non incontrare il

problema del rapporto con l’altro, ossia il problema della relazione umana, da cui nasce l’occasione

e il pericolo. Infatti è dalla relazione che nascono i principali fattori di corruzione. È nella relazione

umana che nascono l’invidia, l’ambizione, lo spirito di rapina, il desiderio di sottomettere o di

essere sottomessi. L’amore di sé, se è veramente tale, deve saper conservare l’io nel suo durare.

Deve, incontrando la relazione con l’altro, saper superare il pericolo che viene dal sottomettere o

dall’essere sottomessi, dal distruggere o dall’essere distrutti. Rousseau sa bene che l’uomo perde la

sua libertà non solo quando si sottomette a un altro, ma anche quando sottomette gli altri, perché nel

sottomettere gli altri perde il rapporto con la propria e con l’altrui libertà.

Il pensatore ginevrino muove dalla considerazione degli uomini nello stato di natura,

concependoli come indipendenti gli uni dagli altri, in uno stato di assenza di relazione. L’uomo,

considerato nello stato di natura, è guardato perciò nella sua libertà intesa come indipendenza, ossia

come situazione di non dipendenza da nessun altro, come una prima forma della padronanza di sé,

della maîtrise de soi, anche se espressa ancora nella forma dell’indifferenza rispetto a qualsiasi

altro. Un tale “stato di natura” è stato di “assenza di relazioni”, in cui l’unica forza operante è la

spontanea physis di ognuno.

Occorre a nostro avviso, per intendere questo metodo e questa prospettiva, fare una premessa.

Sarebbe fuorviante intendere il rapporto fra stato di natura e stato civile come rapporto cronologico,

ma sarebbe ugualmente fuorviante intenderlo come intercorrente fra un essere e un dover essere.

Rousseau, parlando dello stato di natura, non sta parlando né in termini cronologici né in termini

etici. Potremmo dire che egli intende costruire una spiegazione dei fatti umani a partire

dall’individuazione di alcune “forze” di base, di alcune forze elementari, guardate inizialmente

ancor prima che interagiscano fra loro, forze che, inserite in una rete di relazioni costanti allo scopo

di enuclearne leggi consentano la ricostruzione complessiva del fenomeno indagato. Se ci è

consentita una metafora, egli guarda ai fenomeni osservati non come un astronomo ma come un

astrofisico. Ciò significa che egli non guarda la successione cronologica degli eventi allo scopo di

individuarne le leggi, cioè non guarda alla mera superficie temporale, ma guarda la successione

degli eventi allo scopo di individuare, nella loro profondità, quei princìpi - forza che, perennemente

operanti, fanno apparire in superficie quanto l’occhio scientifico solo dall’esterno osserva. Lo

sguardo di Rousseau non è cronologico né etico, ma archeologico. Nel fondo della storia attuale

degli uomini, egli cerca di individuare quelle forze semplici che, perennemente operanti,

perennemente restituiscono, nel loro incrociarsi, la situazione attuale. Rousseau non sta guardando,

nei fatti, né la successione né le semplici relazioni empiricamente osservabili, ma la matrice. Un

edificio può essere architettonicamente considerato nel sequenziale accostamento tra le sue parti

oppure nelle complessive fattezze esterne; altra cosa è, invece, identificarne la matrice profonda,

ossia la figura geometrica fondamentale, invisibile all’esterno, che attraverso progressive proiezioni

- trasformazioni geometriche comanda l’intera struttura della costruzione7 in tutti i suoi punti topici.

Quando perciò Rousseau guarda gli uomini nello stato di natura, egli guarda a quelle forze

naturali di base che continuano ad operare nel presente, rivelando la struttura archeologica di ciò

che è sotto i nostri occhi.

7 Sul punto del rapporto fra architettura e matrice, considerato a partire dal problema dell’equità, si veda Giuseppe

Limone, Tra il principio dell’intero e il principio dell’eccezione: l’equità dell’etica, l’etica dell’equità, in L’etica

dell’equità, l’equità dell’etica, Quaderno del Dipartimento di Scienze Giuridiche, vol. 4.1, a cura di Giuseppe Limone,

Franco Angeli, Milano 2010 pp. 9 - 44.

Partendo dalla physis, domandiamoci a questo punto sulla libertà. Come è stato notato, quando

Rousseau parla di libertà, sta parlando non solo della libertà di fare ciò che si vuole, non solo della

libertà di fare ciò che piace, ma soprattutto della libertà consistente nel non essere comandato da un

altro, ossia di quella libertà che si realizza come indipendenza da ogni altro. È appunto in questa

indipendenza da ogni altro che consiste per Rousseau lo stato originario di natura. Per Rousseau

l’uomo, in quanto libera physis, sceglie di vivere il piacere della sua libertà restando in una

condizione di non dipendenza da nessun altro. Egli vive il libero piacere di non dipendere da

nessuno. Egli si auto - comanda nel suo non impedito fluire. Il problema rousseauiano di base a cui

l’autore resterà sempre fedele, è quello di garantire, in qualsiasi forma evoluta, la forza naturale di

questa “libertà”.

A questo punto possiamo dire che, se guardiamo il percorso di Rousseau nei suoi tre filoni

fondamentali (il romanzo epistolare La nouvelle Héloïse, il trattato Émile ou de l'éducation e il

Contrat social) il problema del pensatore ginevrino è, nelle forme mutate, sempre lo stesso: come

fare in modo che la “natura”, in quanto non impedita spontaneità, passando per il matrimonio, per

l’educazione e per lo stato civile, rimanga la stessa, ossia libertà. Pertanto, la celebre formula con

cui Rousseau esprime nell’Emilio e nel Contratto Sociale il passaggio dell’uomo dallo stato di

natura allo stato civile («fare in modo che l’individuo, sottomettendosi alla volontà generale, resti

libero come prima») va adeguatamente generalizzata in questi termini: come fare in modo che la

natura dell’individuo, passando per tutte le possibili istituzioni, resti natura come prima. Compito

importante è, a nostro avviso, cercare di identificare in tutti i percorsi meditativi - narrativi e/o

filosofici - di Rousseau un programma speculativo comune. Per capire Rousseau nella coerenza

della sua prospettiva di fondo bisogna perciò, a nostra avviso, trasferire, come già dicevamo, a un

livello epistemologico ulteriore un detto di Carl Von Clausewitz, da noi opportunamente rovesciato

(“la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”): in questo contesto, si tratta di vedere

in che modo la natura dell’individuo si realizzi come natura, restando natura, con gli “altri mezzi”

della società, dell’artificio e della ragione.

Il problema del rapporto fra individuo e società, fra sentimento e ragione e fra spontaneità e

artificio può riformularsi, in realtà, attraverso l’unico rapporto fra natura e ragione. Nel nesso

costitutivo interno alle tre polarità individuate si dà in ogni caso quest’unico rapporto.

La lettura del testo rousseauiano muta a seconda che noi l’intendiamo attraverso il criterio che

fa prevalere il primo termine sul secondo o attraverso il criterio che consuma il primo termine nel

secondo. L’opera rousseauiana potrà perciò comprendersi diversamente a seconda che se ne dia una

lettura illuministica, à la Kant, una lettura romantica, à la Starobinski o una lettura antropologica, à

la Lévi-Strauss. Nel primo caso, si leggerà la natura rousseauiana secondo il criterio di un dover

essere da realizzare; nel secondo caso, la si leggerà secondo il criterio di una spontaneità da

preservare; nel terzo caso, la si leggerà secondo il criterio di una struttura profonda in azione nella

quale si scambino reciprocamente i ruoli l’io e il tu come forze di campo. La strategia

epistemologica con cui qui si propone di leggere l’opera rousseauiana intende distinguersi da tutte e

tre le letture precedenti, per cercarne una quarta, testualmente ponderata.

Un unico filone ideale può essere colto nella Nuova Eloisa, nell’Emilio e nel Contratto sociale,

se ci poniamo dal punto di vista dell’amore di sé come centro speculativo della prospettiva

rousseauiana. Nella Nuova Eloisa si pone il problema dell’amore coniugale (contrapposto

all’amore-passione), nell’Emilio si pone il problema della crescita educativa (contrapposto alla

selvaggia naturalità) e nel Contratto sociale si pone il problema della libertà civile (contrapposto

alla condizione di sottomissione al potere). In ognuno dei tre casi il problema concerne lo sviluppo

qualitativo della natura come sviluppo di libertà, là dove la conservazione della naturalità significa

conservazione dell’autenticità.

Vediamo come nel Contratto sociale Rousseau formula il problema davanti al quale si trovano

gli uomini a un certo punto della loro evoluzione naturale (Libro I, cap. VI): «Suppongo gli uomini

giunti a quel punto in cui gli ostacoli che si frappongono alla loro conservazione nello stato di

natura prevalgono con la loro resistenza sulle forze che ogni individuo può impiegare per

mantenersi in tale stato. Allora questo stato originario non può più durare e il genere umano

perirebbe se non mutasse la sua maniera di esistere»8.

Si noti l’affermazione «io suppongo» («je suppose»), che sembra proprio quella di un

astrofisico che individua le forze elementari in atto. Rousseau sta dicendo che, arrivati a un certo

stadio della loro evoluzione naturale, gli uomini sono posti davanti all’alternativa di mettersi

insieme o perire. Ciò significa che in questa situazione di alternativa agiscono due tendenze

opposte: quella inerziale per cui ogni uomo desidererebbe mantenere lo stato naturale di

indipendenza da ogni altro e quella anti-inerziale che lo spinge a uscire da questo stato di

indipendenza per conservare la vita, la cui conservazione appartiene allo stesso desiderio naturale.

Potremmo dire che, a questo punto, la “natura” intesa come spontaneità non impedita è costretta a

biforcarsi fra il conservare l’indipendenza e il conservare la vita. È a questo punto che interviene - è

sollecita a intervenire - la volontà, ossia una volontà capace di rispondere al dilemma intrinseco allo

stesso desiderio naturale. Qui Rousseau è più vicino a Hobbes di quanto si possa immaginare. La

natura dell’uomo, per conservarsi nell’amore di sé, è posta davanti a un’alternativa radicale di

strade, davanti a una biforcazione, rispetto alla quale deve decidere in quale ramo, conservandosi ed

evolvendosi come linfa di natura, deve fluire. Per questi motivi gli uomini preferiscono, attraverso

8 Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto sociale, a cura di Roberto Gatti, Rizzoli, Milano 2005, p. 66.

un atto di volontà, decidere di associarsi. Questa decisione è, ancor prima di un atto di artificio, un

atto ponderato per la conservazione della vita: è, in realtà, un atto contenente al tempo stesso una

forza della natura e una decisione in cui quella stessa natura fluisce, dando vita così a uno scatto

nell’evoluzione della natura come indipendente spontaneità. L’amore di sé, l’amor sui, impone la

decisione di associarsi. Gli individui cercano di passare così dalla mera, frantumata aggregazione

all’associazione. L’individuo è sollecitato dal suo stesso desiderio di conservazione (amore di sé) a

passare dall’indipendenza all’interdipendenza. Ma ciò, per Rousseau, l’uomo potrà, in linea con

l’amore di sé, correttamente fare soltanto se, nel passare dall’indipendenza all’interdipendenza, lo

farà attraverso quell’auto - dipendenza in cui egli rimanga libero come prima, cioè capace di dare il

comando a se stesso senza riceverlo dagli altri. Per Rousseau l’uomo naturale deve essere guardato

nella sua indipendenza, ossia nella sua isolata auto - dipendenza. In questa condizione egli non è

comandato da nessuno ed esercita la sua libera spontaneità, governata dall’amore di sé. In questa

condizione l’uomo vivrebbe senza relazioni; ma, d’altra parte, egli ha un ineludibile bisogno di

relazioni se non vuole perire. Rousseau però sa che, per altro verso, è proprio dalle relazioni che

nasce la corruzione della natura umana. Contrariamente a quanto pensa Hobbes e a quanto pensano

altri autori che riflettono sul conflitto, Rousseau ritiene che non bisogna proiettare sull’uomo

naturale le immagini che vengono dai vizi e dagli eccessi che contraddistinguono l’uomo già

immerso nelle relazioni. L’uomo naturale, considerato senza relazioni, non è viziato e, d’altra parte,

a un certo punto, non potrà non entrare in relazione; ma è proprio nella decisione necessitata di

avere relazioni che correrà il massimo pericolo di viziarsi e di perdersi. Solo entrando nel mondo

delle relazioni l’uomo potrà diventare vanitoso, ambizioso, desideroso di sottomettere gli altri,

servile. Solo entrando in queste relazioni l’uomo, per conservare la sua natura, rischierà di perdere

la sua natura, cioè la libertà, ossia la naturale capacità di vivere la propria felicità autogovernandosi.

Rousseau sa bene che perde la sua libertà non solo chi si sottomette agli altri, ma anche chi decide

di sottomettere gli altri, perché anche chi sottomette diventa prigioniero di quel vizio che lo

allontana dalla sua libertà come autonomia. Nel Contratto sociale, pertanto, viene in rilievo quel

problema che ha attraversato e che attraverserà tutto Rousseau: come la natura possa, evolvendosi,

conservare l’amore di sé senza perdersi, pur entrando nel mondo delle relazioni e anzi traendone

nuovi stimoli per la sua espressione. Come vedremo, è lo stesso problema che attraverserà il

Rousseau dell’amore coniugale e il Rousseau dell’educazione alla libertà. L’uomo entrando in

relazione con gli altri, mentre cerca per amore di sé di non perire, si scontra con l’ostacolo che le

stesse relazioni umane costituiscono per lui in quanto lo spingono alla possibile corruzione:

all’invidia, all’avarizia, all’ambizione9 e a tutti gli eccessi che il frastuono sociale innesca.

9 Vedi Jean-Jacques Rousseau, Professione di fede del vicario Savoiardo, in id., Emilio, Mondadori, Milano 2012, p.

S’impone pertanto la necessità di realizzare l’amore di sé superando l’ostacolo, anzi traendone

occasione per far evolvere in maniera positiva e virtuosa la propria natura. L’uomo, per continuare a

realizzare l’amore di sé, deve poter educarsi attraverso quegli ostacoli che nelle relazioni sociali si

frappongono e che costituiscono l’occasione e la frontiera per un nuovo scatto evolutivo. La natura,

per conservare se stessa, deve cominciare a maturare come ragione, anche se non si consumerà mai

interamente nella ragione.

Rousseau formula, nel Contratto sociale, in questo modo il passaggio dallo stato di natura allo

stato civile: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza

comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti,

non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima»10

, ossia, come anche altrimenti

lo stesso Rousseau si esprime: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere

sotto la suprema direzione della volontà generale e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro

quale parte indivisibile del tutto»11

.

Nella prospettiva di Rousseau, l’uomo, nato libero, deve poter conservare sempre la natura

della sua libertà e, a questo scopo, deve poter entrare in una società in cui questa natura sia

conservata e garantita. Contrariamente ai teorici del giusnaturalismo che lo precedono, Rousseau

ritiene che l’uomo non possa e non debba rinunciare alla sua libertà, sotto pena di nullità di una

qualsiasi convenzione che ciò stabilisca. In tali coordinate di pensiero, vediamo la formula

rousseauiana controluce. Emergono le linee di alcuni paradossi, degni di pensiero.

Vediamo il primo paradosso. L’individuo, nel caso del patto sociale, rinuncia alla sua libertà.

Rinunciare alla propria libertà significa il movimento per cui l’uomo liberamente rinuncia alla sua

libertà. Una tale rinuncia, in realtà, nella prospettiva generale di Rousseau, non sarebbe consentita.

Infatti, il pensatore ginevrino, diversamente dai giusnaturalisti che lo precedono, ritiene che la

libertà non possa essere alienata, neppure nell’esercizio della stessa libertà. Detto in altri termini: a

nessuno è consentito di diventare liberamente schiavo. Nel caso configurato da Rousseau però,

ossia nel fenomeno del Patto Sociale, questo principio rousseauiano di partenza viene sovvertito.

Rousseau consente questa libera rinuncia alla libertà perché ritiene che in questo unico, eccezionale

caso una tale rinuncia sia giustificata dal fatto che il corpo sociale gli restituirà interamente quella

stessa libertà, e quell’uomo sarà libero come prima. Quell’uomo compirà la sua rinuncia alla libertà

a condizione di riceverla dal corpo sociale come prima. L’eccezionalità della causa rende

consentibile l’eccezionalità della rinuncia. Su questo punto dell’eccezionalità insiste

359 ss. 10

Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto sociale, traduzione a cura di Roberto Gatti, Libro I, cap. 6. 11

Ibidem.

particolarmente il contributo critico di Robert Derathé12

. In termini simbolici, potremmo dire che

l’uomo del patto sociale di Rousseau decide di morire alla sua libertà per risorgere alla sua libertà.

L’atto del morire per risorgere è garantito dalla certezza che alla morte seguirà la resurrezione.

Domandiamoci: chi e che cosa garantisce che questa morte diventi resurrezione? La garanzia, nella

prospettiva rousseauiana, sarà data dal fatto che il corpo sociale si comporterà come corpo sociale,

ossia come corpo che, avendo radunato in sé le libertà di tutti, le restituirà a ciascuno, sotto pena del

venir meno alla sua propria identità. Ma chi e che cosa garantirà che quel corpo sociale si

comporterà come il corpo sociale configurato da Rousseau? Su questo punto Robert Derathé ha

scritto penetranti pagine13

, che riguardano il problema della resistenza del singolo al potere

costituito, con particolare riguardo a Pufendorf. L’uomo di Rousseau, nel consegnarsi attraverso il

patto sociale al se stesso comunitario, non ha più titolo a resistergli, essendo per Rousseau

contraddittorio che il popolo, attraverso la volontà generale e le leggi, possa nuocere a se stesso

nuocendo a un qualsiasi singolo. Tutto ciò però riposa sulla perfezione di un trapasso la cui qualità è

garantita, in ultima istanza, da semplici strutture definitorie che, in ultima istanza, non si pongono il

problema di chi definisce che cosa. Per la verità, Rousseau cerca di inserire nel processo originato

da questo patto una precisa figura di garanzia: questa figura è il legislatore, ossia colui che,

singolarmente esperto e virtuoso riuscirà a fare in modo che il corpo sociale si esprima con leggi

che garantiscano la libertà di ogni singolo. Ma anche a questo punto il problema teorico rimane:

come fare e con quali criteri operare per scegliere questa singolarissima figura di esperto virtuoso

sulle cui spalle poggerà la realizzabilità del patto sociale secondo la sua precisa causa?

Vediamo il secondo paradosso. L’individuo, attraverso il patto sociale, pone in essere un patto

con quel corpo sociale che deriva dal compimento del patto stesso. Rousseau, cioè, afferma che

l’individuo pone in essere il patto con quel soggetto-corpo sociale che è il risultato del patto. Su

questo punto Robert Derathé esercita la sua valutazione critica definendolo un espediente

giustificato dall’eccezionalità dell’evento in atto. In realtà, come lo stesso Derathé sottolinea, qui

Rousseau ha voluto esplicitamente evitare di istituire e distinguere due patti, il patto di unione e il

patto di soggezione, a differenza di come avevano fatto invece i suoi predecessori (fra i quali

Hobbes e Pufendorf). Rousseau non configura affatto il patto come patto fra singoli, dai quali

emergerebbe il corpo sociale, ma preferisce configurare questo patto come patto tra i singoli e il

corpo sociale. È certamente paradossale, per non dire contraddittorio, pensare che si possa istituire

un patto con il corpo collettivo che è il risultato del patto stesso. In realtà va svolta, a nostro avviso,

una considerazione più radicale, che mette in questione l’omogeneità stessa dei fatti costituenti il

fenomeno associativo da Rousseau considerato. Infatti, l’insieme degli eventi attraverso i quali i

12

Robert Derathé, Jean-Jacques Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit. 13

Cit., p. 213 ss.

singoli mettono in comune se stessi all’interno del corpo sociale costituisce pur sempre un

fenomeno qualitativamente distinto da quello per cui il corpo sociale intrattiene rapporti con i

singoli che a esso aderiscono. In questa luce, nell’insieme degli eventi costituiti dal mettersi le

persone in comune e dal mettersi le singole persone in relazione col corpo sociale comune si

individuano pur sempre gli eventi distinti del patto di unione (pactum unionis) e del patto di

soggezione (pactum subiectionis). Rousseau, come abbiamo già sottolineato, nel VI capitolo del

libro I del Contratto sociale, scrive che, a un certo punto della loro evoluzione umana, gli uomini

sono costretti dalla necessità di salvare se stessi a passare dalla mera aggregazione all’associazione.

Ciò avviene attraverso un patto (che è in quanto tale atto convenzionale, cioè artificiale). Tutto ciò

significa che, a partire dall’avvenuta coscienza dello stato di necessità, si mette in moto una serie di

eventi attraverso i quali gli uomini, da un lato si associano, e, dall’altro lato, stabiliscono

singolarmente rapporti con l’associazione da loro costituita. All’interno di questa serie di eventi

vivono contemporaneamente, di fatto e indipendentemente da ciò che Rousseau stesso pensi, un

patto di associazione (pactum unionis) e un patto di relazione specifica di ogni singolo con

quest’associazione (patto che potrà essere ben chiamato pactum subiectionis, alla stretta condizione

che in questo caso la soggezione di ogni singolo è a quel se stesso che è inserito nella comunità, e

pertanto non si tratta di soggezione nel senso classicamente tramandato). L’intero fenomeno

rousseauiano osservato significa che il singolo non rischia affatto la sua libertà, perché essa gli sarà

subito restituita dal sé comunitario. Domandiamoci: che cosa potrebbe mai fare il singolo se il sé

comunitario non gli restituisse la sua libertà? Potrebbe forse rispondersi che il singolo potrebbe

riprendersela, essendo stata proprio la restituzione della libertà la causa del suo patto; ma Rousseau

non risponde affatto così, perché per lui sarebbe contraddittorio pensare che il corpo sociale,

nuocendo al singolo che gli appartiene, nuoccia a se stesso. E, in ogni caso, Rousseau non prevede

affatto la possibilità che il singolo possa uscire dalla comunità a cui ha aderito. Domandiamoci, a

questo punto: può la semplice definizione del corpo comunitario come tale garantire la restituzione

della libertà? O meglio: può l’avvento di un legislatore ben scelto garantire la restituzione di questa

libertà? A questo problema Rousseau ha cercato di rispondere nel suo scritto sul governo di Polonia,

là dove egli cerca di individuare i fondamentali casi in cui le deliberazioni di leggi del corpo sociale

debbono essere necessariamente prese all’unanimità. Sarebbero infatti le deliberazioni prese

all’unanimità quelle in cui la libertà del singolo non può essere messa in pericolo.

È configurabile un terzo paradosso. L’individuo, ponendo in essere il patto sociale allo scopo

di costituire il corpo comune, lo istituisce allo scopo di farne derivare una forza che garantisca

l’esistenza e il rispetto del patto stesso. Ciò significa che non basta affatto il patto a garantire la sua

attuazione, perché occorre che dal patto derivi una forza adeguata e che questa forza adeguata sia

correttamente indirizzata al suo fine, che è quello della salvaguardia delle singole libertà. Ma dalla

stipula del patto non deriva affatto la sicurezza che emerga la forza necessaria alla sua attuazione,

anche se va certamente considerato che la coscienza dello stato di necessità, dando origine al patto,

ha ben potuto decidere di correre il rischio connesso alla sua decisione.

Nel complessivo fenomeno del patto sociale configurato Rousseau sottolinea che la persona

aliena tutta se stessa e le sue cose al corpo sociale, e ciò fa, come sottolinea lo stesso Derathé, allo

scopo di evitare la difficoltà per cui un giudice non può decidere in causa propria. Avendo infatti la

persona alienato sé e le sue cose al corpo sociale, il corpo sociale può essere, a questo punto, a buon

diritto giudice sui diritti delle singole persone, dal momento che appartengono alla sua

giurisdizione, il che non accadrebbe se il corpo sociale fosse chiamato a decidere in un conflitto tra i

singoli e se stesso.

Le considerazioni svolte da Rousseau intorno alla necessità e all’origine del patto sociale

lasciano aperte, pertanto, alcune aporie di fondo. D’altra parte va sottolineato che l’individuo

rousseauiano accede al patto sociale non tanto per dovere etico quanto per una scelta strettamente

condizionata da uno stato di necessità, nel quale deve in sostanza decidere se mantenere la sua

libertà come indipendenza, e quindi perire, o decidere per un’associazione in cui regolare

l’interdipendenza mantenendo la libertà come indipendenza attraverso la libertà come autonomia14

.

A guardar bene, Rousseau ha messo in atto, in questo percorso, un programma speculativo

preciso: fare in modo che la natura come libertà possa evolvere in direzione della natura come

ragione, restando natura come libertà. Ma, d’altra parte, un tale programma speculativo rivela una

sua precisa aporia, una sua insanabile crepa.

Se osserviamo, a questo punto, i due altri percorsi enucleabili dalla nuova Eloisa e dall’Emilio,

ci accorgiamo che si aprono, all’interno del mondo rousseauiano, aporie analoghe, anche se

diversamente denominabili.

Nel romanzo epistolare La nuova Eloisa la protagonista, Julie, decide di rinunciare all’amore

passione per il suo antico amante Saint-Preux, scegliendo consapevolmente quell’amore - tenerezza

del rapporto coniugale con de Wolmar che consente alla sua felicità di durare nel tempo e di essere

in sintonia con la comunità a cui appartiene, quella di Clarens. Julie sa molto bene che l’amore -

passione distrugge chi la vive e chi la subisce. Essa è catastrofica sia per gli amanti che per la

comunità a cui essi appartengono. L’amore - tenerezza, invece, garantisce la durata

dell’appartenenza alla comunità, così come il rapporto di Julie con il marito dimostra. Come ha ben

notato Elena Pulcini, qui la prospettiva di Rousseau, a differenza di quella presente nell’epistolario

tra Abelardo e Eloisa, non si pone come critica dell’istituzione in quanto tale in nome dell’amore,

14

Potrebbe qui certamente obiettarsi che è pur sempre dovere etico quello di realizzare, conservandosi, l’amore di sé,

ma si tratterà pur sempre di un “dovere etico” specificamente qualificato.

ma si pone come un nuovo modo di intendere l’amore all’interno di un nuovo modo di intendere le

istituzioni15

. Ma, se osserviamo la differenza fra l’ottava lettera con cui Julie testimonia la fede

nella bontà della sua scelta, e la dodicesima lettera, quella che sarà letta postuma, con cui la stessa

Julie confesserà di non essere mai riuscita a rimuovere l’amore - passione che ha sempre continuato

in lei a covare, ci accorgiamo che Rousseau, alla fine del percorso individuato, è ben consapevole

dell’aporia che insanabilmente si apre all’interno del mondo prospettato dal suo desiderio di

armonia16

.

Nel romanzo di formazione Emilio o dell’educazione Rousseau immagina lo sviluppo di

Emilio a partire da un’accuratissima e personalizzata attenzione alle progressive emergenze della

sua natura attraverso quell’insieme di azioni coordinate che chiamerà “educazione negativa”. Ma, se

osserviamo nelle pieghe dello stesso romanzo, possiamo accorgerci come proprio Emilio, alla fine

del suo percorso educativo tradisca. D’altra parte, lo stesso vicario Savoiardo nei suoi consigli a

Emilio osserverà che a nessuno può chiedersi di fare più di quanto egli con le sue forze possa fare.

L’unico programma speculativo di Rousseau su cui stiamo indagando conosce, in tutti e tre i

percorsi individuati, un analogo punto di crisi, un analogo scacco.

Nella nuova Eloisa, Julie rappresenta la figura di colei che ha superato il pericolo dell’amore -

passione attraverso la scelta dell’amore - tenerezza, in nome del principio della durata e della

comunità. Tutto sembra, in questa chiave, conciliato. Ma se osserviamo l’esito già ricordato del

romanzo epistolare, scopriamo che quell’armonia così fermamente testimoniata da Julie stessa

dissimulava una profonda e rimossa disarmonia. Nel momento più vicino alla morte Julie

confesserà a se stessa e agli altri che la contraddizione non era mai stata superata.

Nell’Emilio il giovane educando, dopo essere stato inserito in un percorso di vigile azione

educativa, ha dovuto saper superare l’innamoramento attraverso un viaggio che gli consentisse di

rendere solido e maturo il suo amore. Emilio, pur così educato, a un certo punto tradisce. L’amore,

pur maturato secondo il suo percorso più sano, non riesce a superare ogni contraddizione.

D’altra parte, come abbiamo già osservato, nello scritto sul governo polacco il pensatore

ginevrino si interroga sulla necessità di imporre che alcune deliberazioni di leggi siano assunte

all’unanimità, per evitare che la volontà generale possa ingiustamente colpire un singolo. Anche qui

la concezione che il corpo sociale non sbagli è messa in crisi dal dubbio sulla sua effettiva capacità

di comportarsi come corpo sociale.

L’unico programma speculativo di Rousseau emerge con chiarezza da quanto nell’Emilio viene

detto all’educando: «Non c’è felicità senza coraggio, né virtù senza lotta. La parola virtù deriva

15

Vedi l’Introduzione di Elena Pulcini a Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, cit. 16

Ciò, d’altra parte, emergeva già dalle pieghe della lettera in cui Julie confessava che il suo amore felice era

permanentemente accompagnato da una irremovibile noia.

dalla parola forza. La forza è la base di ogni virtù. Ti ho cresciuto piuttosto buono che virtuoso, ma

chi è soltanto buono si conserva tale unicamente fino a quando prova piacere ad esserlo, fino a

quando la sua bontà non è annientata dalla furia delle passioni. Finora tu sei stato libero solo in

apparenza, hai fruito unicamente della libertà come uno schiavo a cui nulla sia stato comandato. Ora

è tempo che tu sia realmente libero e però sappi essere padrone di te stesso. Sappi comandare al tuo

cuore. Solo a questo patto si guadagna la virtù»17

.

La libertà, nascendo come physis e come amor sui, si guadagna progressivamente attraverso il

superamento di quegli ostacoli che rappresentano contemporaneamente un pericolo e un’occasione

di crescita. Chi crede di essere buono senza mai aver affrontato gli ostacoli è semplicemente «uno

schiavo a cui nulla sia stato comandato». La libertà come indipendenza deve necessariamente

incontrare l’occasione e l’ostacolo della relazione umana, in cui può rischiare di essere corrotta

dalla passione che la distrugge, ma in cui può elaborare la ragione che la conserva. Solo in questa

prospettiva l’amore di sé si conserva come tale e non diventa amor proprio. Solo in questa

prospettiva l’indipendenza può diventare interdipendenza attraverso la scoperta di quell’auto

dipendenza che è l’autonomia. In un tale programma speculativo l’opzione di Rousseau, che

costituisce anche la sua prospettiva teoretica, è quella di partire dal più rigoroso “sé”, che intende

esercitare l’amore di sé nello sviluppo della sua naturale libertà come ricerca della felicità e come

autonomia, senza delegare mai nessuna struttura sociale se non a condizione che essa garantisca

strettamente la libertà del suo sé. In un tale percorso l’amore di sé per realizzarsi senza diventare

amor proprio, deve saper pagare il costo della liberazione dalle passioni e dagli eccessi. Nella

concezione rousseauiana l’amor sui è l’asse fondamentale. Esso realizza il bene dell’individuo

perseguendo il fine della durata che preserva dalla catastrofe: lungo questa strada compie

l’inevitabile incontro con l’altro, depurando e declinando con intelligenza quella gravitazione

sociale che costituisce il principio di ogni legame. Rousseau è consapevole che l’individuo

indipendente, entrando nel campo magnetico degli altri, rischia il catastrofico pericolo di impazzire

nella sua rotta, ma l’autonomia individuale può essere il pilastro centrale e la misura dell’intera

società, della famiglia e di lui stesso. In definitiva, la prospettiva teoretica di Rousseau è centrata

sulla salvaguardia della propria singolare natura, chiamata a conservarsi, attraverso tutti gli ostacoli,

come natura con gli “altri mezzi” della ragione, pur nella prospettiva complessiva in cui questa

natura deve essere considerata al pari di ogni altra che con essa si confronta. In questa luce, la

“ragione” rousseauiana si rivela essere nient’altro che la stessa “natura”, pervenuta agli “altri

mezzi” della sua autoidentificazione. Il baricentro del pensiero di Rousseau - nella polarità tra

sentimento e ragione, tra spontaneità e artificio e tra individuo e società - è nella natura come

17

Jean-Jacques Rousseau, Emilio o dell’Educazione, Oscar Mondadori, Milano 2012.

sentimento, come spontaneità, come io che sa diventare, o meglio sa continuare ad essere se stessa,

attraverso gli “altri mezzi” della ragione. In tale prospettiva, Rousseau mostra di saper esplorare

secondo più percorsi il problema del legame coniugale, del legame morale e del legame civile. Tutti

e tre i legami si dànno, in realtà, attraverso l’elaborazione complessa che ogni individuo deve

compiere della sua gravitazione necessaria verso l’altro (forse con l’unica differenza che, mentre nel

legame coniugale e nel legame morale la gravitazione fin dall’inizio si dà, nel legame civile essa

rimane una necessità problematica da trattare “artificialmente”, degna di una lunga e costante

rielaborazione).

Rimane però in questo programma speculativo un preciso “però”. Come abbiamo visto, in

ognuno dei percorsi rousseauiani si dà la sua specifica aporia. In tutti e tre i percorsi, infatti,

l’itinerario di Rousseau rivela un analogo scacco. Ciò che costituisce la crisi nella realizzazione

della comunità politica è l’analogon di ciò che costituisce la crisi nel rapporto coniugale e nello

sviluppo educativo. Rousseau, pur contestando l’istituzione presente in nome di più radicali

istituzioni, sa che anche in quelle istituzioni il seme dell’aporia radicata nel cuore umano permane.

Il programma speculativo di Rousseau, pur comune a tutti e tre i percorsi identificati, rivela un

unico, comune punto di crisi. La “natura”, promossa la sua evoluzione ulteriore, non riesce a

maturare fino al punto in cui possa raggiungere una compiuta armonia. Ciò è certamente dovuto

anche al fatto che Rousseau, pensatore travagliato, intende presentare la complessità della realtà

attraverso molteplici punti di vista, pur contrastanti tra loro, ma resta il fatto che anche questa

postura speculativa conferma, alla seconda potenza, la mancata armonia che continua a sussistere

nel suo pensiero. Rimane in ogni caso il fatto che una tale permanente apertura delle soluzioni

rousseauiane a nuove aporie non fa certamente cessare l’idea che il pensatore ginevrino continui a

esortare i suoi interlocutori a non rinunciare mai a nuove mete, pur viaggiando sempre gli uomini

nella condizione di una perdurante fragilità.

Padova, 3 ottobre 2012

Giuseppe Limone

Per una teoresi a più facce del

legame sociale: il problema di Rousseau tra la "famiglia" e la "polis".

ABSTRACT

Guardando alla figura di Jean-Jacques Rousseau attraverso le tre fondamentali polarità di

individuo-società, di sentimento-ragione e di natura-artificio, alcuni critici hanno visto nel filosofo

ginevrino percorsi contraddittori, altri forme di stretta coerenza. In realtà, non solo in Rousseau

possono essere còlti modelli diversi di pensiero, ma questi stessi modelli mutano a seconda dei

termini che in essi si considerano prevalenti. Potrebbe vedersi l’opera rousseauiana secondo una

lettura prevalentemente illuministica (Immanuel Kant), prevalentemente romantica (Jean

Starobinski) o prevalentemente antropologica (Claude Lévi-Strauss), ma in ognuno di questi casi si

perderebbe forse di Rousseau qualche componente essenziale. Il problema consiste nel riuscire a

cogliere all’interno dei tre fondamentali percorsi di Rousseau (tema dell’amore, tema

dell’educazione, tema del contratto sociale), se c’è, un comune programma epistemologico, per

quanto inconscio o non dichiarato. Si tratta di vedere cioè, parafrasando Carl von Clausewitz, se in

questo programma la “natura” si esprima con gli “altri mezzi” della “ragione” ed eventualmente in

che modo, domandandosi al tempo stesso come questo modo di pensare incida sulla concezione del

legame nei tre percorsi considerati. L’itinerario critico che s’intende qui percorrere su Rousseau

vuole rappresentare un quarto modo di cercare il programma epistemologico che segretamente

agisce in tutta l’opera rousseauiana.

Napoli, 28/9/2012