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1 J. J. Rousseau La vita di J. J. Rousseau L’autobiografia in Rousseau Le confessioni di J. J. Rousseau Le fantasticherie del passeggiatore solitario La vita di J. J. Rousseau Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra il 28 giugno 1712 da un modesto artigiano di origine francese, calvinista; la madre morì nel darlo alla luce. La precoce scomparsa della madre segnerà in modo drammatico la vita di Rousseau. II padre non si preoccupa di dargli un'educazione formale e regolare, incoraggiando invece letture disordinate, romanzesche e fantasiose. Nel 1722 il padre viene costretto a lasciare Ginevra per evitare l'arresto perché coinvolto in una rissa e Rousseau viene affidato a uno zio: era l'inizio di una adolescenza e di una giovinezza difficili ed errabonde, dallo stesso Rousseau descritte con grande raffinatezza introspettiva nei primi capitoli delle Confessioni. L'educazione presso il pastore Lambercier, a Bossey, con lo studio del latino, di Plutarco, degli stoici (vedi pag. 5-7); il ritorno a Ginevra nel 1724 e gli impieghi presso un notaio e un incisore. Lavora, dedicando il tempo libero alla lettura e alle proprie solitarie fantasticherie, un'abitudine che lo accompagnerà negli anni. Una sera in cui si spinge, passeggiando, oltre le mura cittadine senza accorgersi del trascorrere del tempo, rimane chiuso fuori; è la spinta ad andarsene, a inaugurare, a sedici anni, una vita di vagabondaggio (vedi pag. 7-9). Dopo varie vicissitudini, trova protezione a Chambery presso Madame de Warens, (vedi pag. 10-11) una dama dedita alla difesa del cattolicesimo a cui lo lega dapprima un affetto filiale e poi una relazione amorosa. Madame de Warens lo invia a educarsi nell'opprimente Ospizio dello Spirito Santo di Torino (dove anche Jean-Jacques abbraccia la religione cattolica). Lacchè di un aristocratico, studente di seminario, maestro di musica, Rousseau trascorre diversi anni ramingo per l'Europa (Lione, Friburgo, Losanna, Neuchatel, Berna) senza riuscire a trovare una collocazione stabile. Raggiunta infine a Chambery Madame de Warens, "Maman", ne diviene l'amante, pur dovendo dividerne i favori con l'intendente di lei. A Chambery Rousseau trascorre alcuni anni tran- quilli, rassicurato affettivamente, a contatto con la natura, immerso nelle letture e negli studi (vedi pag. 13-17) .. Ma la comparsa di un nuovo favorito della sua amante-protettrice (vedi pag. 17-18) lo costringe a nuove peregrinazioni: prima a Lione, come precettore e impiegato di catasto, poi a Parigi, dove il giovane provinciale fa il suo primo incontro con i philosophes e con la brillante vita culturale e mondana della capitale. Dopo un soggiorno a Venezia come segretario dell'ambasciatore francese, nel 1745 Rousseau ritorna a Parigi, dove incomincia a farsi conoscere per i suoi studi di teoria musicale e per alcune opere teatrali, sia pure di scarso successo: gli vengono così affidate le voci musicali dell'Encyclopédie. Nel frattempo si unisce a una giovane cucitrice, Marie-Thérèse Le Vasseur, che sarà sua compagna per il resto della vita e dalla quale avrà cinque figli, tutti abbando- nati alla pubblica carità (vedi pag. 20). Il grande esordio letterario e filosofico di Rousseau è il Discorso sulle scienze e le arti, scritto per il concorso bandito nel 1749 dall'Accademia di Digione sul tema: "La rinascita delle scienze e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare i costumi?". La conquista del primo premio, ma ancor più le clamorose tesi sostenute da Rousseau, che provocarono un esteso e vivacissimo dibattito, diedero all'autore un'immediata celebrità. Infastidito, Rousseau, con uno dei suoi gesti tipici, rifiutò il ruolo di letterato "alla moda" (compresa la pensione regia) e si appartò, riducendosi a copiare musica per sopravvivere (vedi pag. 21-30). La seconda grande opera del ginevrino, il Discorso sull'origine della disuguaglianza fra gli uomini, del 1754, ancora per l'Accademia di Digione, non ottenne altrettanto successo: ma ormai Rousseau era diventato un "caso" nel mondo culturale e filosofico francese. Nel maggio 1754 Rousseau fece ritorno a Ginevra, ottenendo solennemente il titolo di cittadino dalla repubblica alla quale aveva dedicato il secondo Discorso, e si convertì nuovamente al calvinismo. Gli anni successivi furono quelli di maggiore fecondità del suo pensiero: prima nel castello

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J. J. Rousseau

La vita di J. J. RousseauL’autobiografia in RousseauLe confessioni di J. J. RousseauLe fantasticherie del passeggiatore solitario

La vita di J. J. Rousseau

Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra il 28 giugno 1712 da un modesto artigiano di originefrancese, calvinista; la madre morì nel darlo alla luce.La precoce scomparsa della madre segnerà in modo drammatico la vita di Rousseau. II padre non sipreoccupa di dargli un'educazione formale e regolare, incoraggiando invece letture disordinate,romanzesche e fantasiose. Nel 1722 il padre viene costretto a lasciare Ginevra per evitare l'arrestoperché coinvolto in una rissa e Rousseau viene affidato a uno zio: era l'inizio di una adolescenza e diuna giovinezza difficili ed errabonde, dallo stesso Rousseau descritte con grande raffinatezzaintrospettiva nei primi capitoli delle Confessioni. L'educazione presso il pastore Lambercier, aBossey, con lo studio del latino, di Plutarco, degli stoici (vedi pag. 5-7); il ritorno a Ginevra nel 1724e gli impieghi presso un notaio e un incisore. Lavora, dedicando il tempo libero alla lettura e alleproprie solitarie fantasticherie, un'abitudine che lo accompagnerà negli anni.Una sera in cui si spinge, passeggiando, oltre le mura cittadine senza accorgersi del trascorrere deltempo, rimane chiuso fuori; è la spinta ad andarsene, a inaugurare, a sedici anni, una vita divagabondaggio (vedi pag. 7-9).Dopo varie vicissitudini, trova protezione a Chambery presso Madame de Warens, (vedi pag. 10-11)una dama dedita alla difesa del cattolicesimo a cui lo lega dapprima un affetto filiale e poi unarelazione amorosa. Madame de Warens lo invia a educarsi nell'opprimente Ospizio dello SpiritoSanto di Torino (dove anche Jean-Jacques abbraccia la religione cattolica). Lacchè di unaristocratico, studente di seminario, maestro di musica, Rousseau trascorre diversi anni ramingo perl'Europa (Lione, Friburgo, Losanna, Neuchatel, Berna) senza riuscire a trovare una collocazionestabile. Raggiunta infine a Chambery Madame de Warens, "Maman", ne diviene l'amante, purdovendo dividerne i favori con l'intendente di lei. A Chambery Rousseau trascorre alcuni anni tran-quilli, rassicurato affettivamente, a contatto con la natura, immerso nelle letture e negli studi (vedipag. 13-17) .. Ma la comparsa di un nuovo favorito della sua amante-protettrice (vedi pag. 17-18) locostringe a nuove peregrinazioni: prima a Lione, come precettore e impiegato di catasto, poi a Parigi,dove il giovane provinciale fa il suo primo incontro con i philosophes e con la brillante vita culturalee mondana della capitale. Dopo un soggiorno a Venezia come segretario dell'ambasciatore francese,nel 1745 Rousseau ritorna a Parigi, dove incomincia a farsi conoscere per i suoi studi di teoriamusicale e per alcune opere teatrali, sia pure di scarso successo: gli vengono così affidate le vocimusicali dell'Encyclopédie. Nel frattempo si unisce a una giovane cucitrice, Marie-Thérèse LeVasseur, che sarà sua compagna per il resto della vita e dalla quale avrà cinque figli, tutti abbando-nati alla pubblica carità (vedi pag. 20).Il grande esordio letterario e filosofico di Rousseau è il Discorso sulle scienze e le arti, scritto per ilconcorso bandito nel 1749 dall'Accademia di Digione sul tema: "La rinascita delle scienze e dellearti ha contribuito a corrompere o a purificare i costumi?". La conquista del primo premio, ma ancorpiù le clamorose tesi sostenute da Rousseau, che provocarono un esteso e vivacissimo dibattito,diedero all'autore un'immediata celebrità. Infastidito, Rousseau, con uno dei suoi gesti tipici, rifiutòil ruolo di letterato "alla moda" (compresa la pensione regia) e si appartò, riducendosi a copiaremusica per sopravvivere (vedi pag. 21-30).La seconda grande opera del ginevrino, il Discorso sull'origine della disuguaglianza fra gli uomini,del 1754, ancora per l'Accademia di Digione, non ottenne altrettanto successo: ma ormai Rousseauera diventato un "caso" nel mondo culturale e filosofico francese.Nel maggio 1754 Rousseau fece ritorno a Ginevra, ottenendo solennemente il titolo di cittadino dallarepubblica alla quale aveva dedicato il secondo Discorso, e si convertì nuovamente al calvinismo.Gli anni successivi furono quelli di maggiore fecondità del suo pensiero: prima nel castello

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dell'Ermitage, presso Parigi (vedi pag.30), ospite di Madame d'Epinay, poi a Mont-Louis, sotto laprotezione del duca di Montmorency, Rousseau scrisse Giulia o la Nuova Eloisa, nel 1761, e IlContratto sociale ed Emilio nel 1762. Ma nello stesso tempo maturava la rottura con glienciclopedisti, causata da una profonda divergenza nel modo di concepire la filosofia e il ruolodell'intellettuale, nonché da incomprensioni personali, molte delle quali originate dal carattere rigidoe instabile di Rousseau, dalla sua volontà di sottolineare in ogni modo la propria diversità edeccezionalità. Di tali aspetti del suo carattere sono testimoni le Confessioni.Alla rottura con gli enciclopedisti si sommano in questi anni le aspre reazioni suscitate dal Contrattosociale e dall'Emilio, opere peraltro di enorme successo: condannato dall'arcivescovo di Parigi,Christophe de Beaumont, e dal parlamento di quella città per la visione naturalistica della religioneesposta nella celebre Professione di fede del vicario savoiardo (contenuta nell'Emilio), Rousseau fucostretto a lasciare nuovamente la Francia per la Svizzera, recandosi a Môtiers, dove rimase sino al1765. Ma anche i pastori dell'idealizzata repubblica ginevrina lo delusero, condannando le sue opere,tanto che egli rinunciò alla cittadinanza. Coinvolto nei conflitti che opponevano l'oligarchiaginevrina, i borghesi e i "nativi", privi di diritti civili, Rousseau condusse nelle Lettere scritte dallamontagna una lucida analisi delle contraddizioni del sistema politico della repubblica e un violentoattacco contro l'intolleranza della locale chiesa calvinista. La condanna dell'opera da parte deimagistrati ginevrini e un feroce libello di Voltaire, dove tra l'altro si rivelava l'abbandono dei figli daparte di Rousseau, resero per quest'ultimo la situazione insostenibile, costringendolo a rifugiarsi sullago di Bienne (vedi pag. 32-36), in territorio bernese, e quindi in Inghilterra, su invito di Hume(1766).Ma anche il rapporto con il filosofo inglese si deteriorò rapidamente: l'equilibrio psichico diRousseau si fa sempre più instabile, egli vede ovunque complotti, derisione, persecuzioni ai suoidanni.Rousseau torna quindi in Francia e dopo diversi viaggi nelle regioni francesi meridionali è di nuovoa Parigi.Appartengono a questa fase, tuttavia, altre opere importanti: gli scritti politici Progetto dicostituzione per la Corsica (1768) e Considerazioni sul governo della Polonia (1772), in cuiRousseau dà applicazione concreta ad alcune delle tesi esposte nel Contratto sociale, ma soprattutto igrandi scritti autobiografici: le straordinarie Confessioni - un'opera che eserciterà una notevoleinfluenza sull'evoluzione dell'analisi introspettiva che si va affermando nel romanzo all'interno dellaletteratura europea - i dialoghi Rousseau giudice di Jean- Jacques (1772-76), e le Fantasticherie diun passeggiatore solitario (1776-78).Durante questo periodo parigino si aggrava la mania di persecuzione che da tempo lo tormenta.Ritiratosi nella tenuta di Ermenonville, ospite del marchese de Girardin, muore nel 1778. Nel 1794,sotto il governo della repubblica giacobina, le ceneri di Rousseau sono portate nel Pantheon diParigi.

L’autobiografia in Rousseau

L'ultimo quindicennio della vita di Rousseau, profondamente segnato dallasofferenza e da fasi di perdita della lucidità in forma di vero e proprio deliriopersecutorio, è però anche l'epoca della grande riflessione autobiografica. Questa ècondotta in primo luogo nelle Confessioni, che narrano dettagliatamente la vita delginevrino dalla nascita alla fine del 1765, alla vigilia cioè dell'infelice esperienza inInghilterra presso David Hume, e poi nei dialoghi Rousseau giudice di Jean-Jac-ques e nelle Fantasticherie di un passeggiatore solitario.Rousseau ripercorre nella forma di una intensa e spesso sofferta meditazione moltedelle tematiche che avevano attraversato la sua riflessione filosofica. Senza lapretesa di dare conto della complessità dell'opera autobiografica del ginevrino, valela pena di indicare qualche filo conduttore di queste pagine, che hanno, tra l'altro,grande dignità letteraria.

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II valore conoscitivo della meditazione interiore

Conviene partire dalla frase celebre che apre il primo libro delle Confessioni: «Miimpegno in una impresa senza esempio, e la cui esecuzione non avrà imitatori.Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; equest'uomo sarò io». L'autobiografia è così innanzitutto ricerca di quellatrasparenza che, in un mondo dominato dal dissidio fra essere e apparire, si ponenon come un dato, ma come un compito esemplare da realizzare. Rousseau affermail valore di conoscenza che è contenuto nel rientrare in se stessi, nel ritrovarenell'immediatezza del rapporto con il proprio animo la verità della propria natura.Anche se non segue i percorsi della razionalità discorsiva, anche se, addirittura,avviene più profondamente nell'abbandonarsi alla "fantasticheria", il ritorno in sestessi non è un atto irrazionale, un'effusione sentimentale: per Rousseau scrive JeanStarobinski — «rientrare in se stesso vuol dire avvicinarsi a colpo sicuro a unamaggiore chiarezza razionale e a una evidenza immediatamente sensibile, inopposizione al nonsenso che regna nella società». L'agostiniano in te ipsum reditrova in Rousseau un nuovo significato: se le Confessioni di Agostino erano unosvelamento della luce divina all'interno dell'anima, quelle di Rousseau sono un attodi ricerca dell'autenticità dell'io, della sua natura, condotto in un contesto di vitadominato dall'inautenticità e dall'opacità delle relazioni fra gli individui e di ogniindividuo con se stesso, specificamente al livello culturale cui si è pervenuti nellasocietà contemporanea.È questo un punto che merita di essere sottolineato: nell'autobiografia Rousseaunon mostra solo un percorso di conoscenza di sé, ma mostra se stesso al fine diessere conosciuto dagli altri. Per richiamarci ancora ad Agostino, potremmo direche mentre le confessioni del vescovo di Ippona avevano luogo sotto lo sguardo diDio, quelle di Rousseau sono sotto lo sguardo degli altri: uno sguardo che sicostituisce immediatamente non appena dalla dimensione dell'individuo singolo,irrelato, si passa a quella dell'individuo sociale, che confronta, paragona, giudica.Rousseau ha la certezza di non essere compreso, di venire misconosciuto e quindifatto oggetto di un'ingiustizia, poiché — come egli dice di se stesso — «giustizia everità sono, nel suo spirito, sinonimi di cui usa indifferentemente» una certezzache lo accompagna sempre, raggiungendo a volte dimensioni ossessive,patologiche.Per dissolvere questo errore Rousseau vuole che tutti leggano nel suo cuore, perchéil giudizio degli altri sia infine equilibrato e giusto.La meditazione autobiografica di Rousseau trascorre così continuamente fra laparticolarità di una vicenda individuale e l'universalità di un'esperienza esemplare.Che titoli ha Jean-Jacques per imporre al lettore la propria storia? Non è uomo dirango, non è re né vescovo. Ebbene, questi titoli gli vengono dalla consapevolezzadella eccezionalità della propria figura: «Non sono fatto come nessuno di quelli cheho incontrati; oso credere di non essere come nessuno di quanti esistono. Se nonvalgo di più sono almeno diverso. Se la natura abbia fatto bene o male rompendo lostampo nel quale mi ha colato, non si potrà giudicare che dopo avermi letto»(Confessioni, I). E un'eccezionalità che viene dall'interno, dalle idee e dal pensiero,e che cancella il dato della condizione sociale: «Non mi si faccia l'obiezione che,essendo solo un uomo del popolo, non posso dir nulla che meriti l'attenzione deilettori. Per quanto oscuramente abbia potuto vivere, se ho pensato più e meglio deire, allora la storia del mio animo è più interessante della loro». Rousseau sembracosì indicare l'assoluto valore e la piena dignità di quella indagine dell'uomo, diqualunque uomo, su se stesso che sarà uno dei grandi temi della cultura e dellaletteratura successive.

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La "marginalità" sociale e la solitudine intellettuale di Rousseau

L'importanza della collocazione sociale dell'uomo Rousseau non va sottovalutata:«uomo del popolo», Jean-Jacques ha percorso una "carriera" assolutamenteoriginale rispetto a quelle degli intellettuali del suo tempo. Lo studioso Baczko hautilizzato per descriverla il concetto di "marginalità sociale", una marginalità cheRousseau vive e presenta a un tempo «come voluta e come imposta, come scelta ecome subita». E imposta nel giovane vagabondo, escluso dalla città natale, che faesperienza di vera e propria povertà; è imposta, ancora, nell'intellettuale debuttanteche dalla periferia si affaccia al gran mondo parigino dei letterati. Poi, il successo,le amicizie con i philosophes, la vita smagliante dei salotti, in cui peraltro Jean-Jacques si mostra incerto, imbarazzato, privo di esprit. Anche nel momento delsuccesso, Rousseau mantiene tratti e comportamenti del "marginale": il legame conuna donna semianalfabeta, l'abbandono dei figli. Dopo il 1756, la rottura, la"marginalità voluta": la scelta di copiare musica per campare, il divorzio violentodall'ambiente della philosophie, la solitudine, i nuovi vagabondaggi, la ricercafallita di nuove radici a Ginevra. Rousseau colloca se stesso ai margini di quelmondo in cui era infine riuscito ad affermarsi.C'è un' ambiguità profonda nella marginalità di Rousseau: come scrive Baczko,«essere senza radici, straniero nel mondo, è per Jean-Jacques nello stesso tempo undestino crudele e il più grande privilegio che egli rivendica». E la solitudine, infatti,intesa come non integrazione sociale che apre a colui che non ha "stato", che non è"nulla", lo spazio per mostrare a tutti com'è l'uomo "naturale", l'uomo nella suavera essenza. Ed è la solitudine, intesa come dimensione esistenziale, che consentedi appartenere esclusivamente a se stessi e alla natura.La tensione fra solitudine e socialità, l'essere per se stessi e l'essere per il mondo,attraversa in profondità tutta l'opera di Rousseau.Quando Diderot, in uno scritto del 1756, afferma perentoriamente «Soltanto ilmalvagio è solo», Rousseau si sente direttamente chiamato in causa dall'amico; lasua autobiografia si può leggere anche come un lungo, ripetuto tentativo didifendersi da questo giudizio. Scrivendo a Malesherbes, Rousseau giustifica così lapropria scelta di isolamento all'Ermitage: «Amo troppo gli uomini per averebisogno di scegliere fra di loro, li amo tutti, ed è proprio perché li amo che odiol'ingiustizia, è perché li amo che li fuggo». Impossibile amare gli uominirimanendo prigionieri del mondo delle convenzioni e dell'apparenza. Ma vi è ancheun altro aspetto: solo nella solitudine è possibile la vera felicità, che è espansionedella propria esistenza, incontro con la natura.Non a caso l'immagine dell'isola ricorre con tanta frequenza nella scrittura diRousseau; e non a caso è su un'isola, quella di Saint-Pierre nel lago di Bienne, cheRousseau trascorre uno dei momenti più intensamente felici della propria esistenza,fantasticando e contemplando per giorni in una condizione di pienaimmedesimazione con l'ordine naturale (esperienza descritta nella quintapasseggiata): «Di che cosa si gioisce in uno stato simile? Di niente di esteriore, diniente se non di se stessi e della propria esistenza; finché dura questa condizione,siamo sufficienti a noi stessi, come Dio».

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LE CONFESSIONI DI J. J. ROUSSEAU

Libro PrimoLibro SecondoLibro TerzoLibro QuintoLibro SestoLibro SettimoLibro OttavoLibro Nono

Libro Primo

Mi accingo ad un'opera senza esempi e senza imitatori. Voglio mostrare ai mieisimili un uomo in tutta la verità della natura, e quest'uomo sarò io, io solo. Sento ilmio cuore e conosco gli uomini. Non sono come alcun altro da me conosciuto, eoso credere di non essere fatto come alcun altro che esista. Se non valgo di piùsono, almeno, diverso. Se la natura ha operato bene o male nello spezzare la formanella quale mi ha plasmato, ciò non si può giudicare che dopo avermi ascoltato.Suonino quando vogliono le trombe dell'estremo giudizio, io andrò e, con questolibro in mano, mi presenterò al giudice supremo. Dirò sicuro: « Ecco ciò che hofatto, ciò che ho pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene ed il male con lastessa franchezza. Non ho taciuto niente di cattivo, non ho aggiunto niente dibuono: e se talvolta ho aggiunto qualche indifferente ornamento non è stato che percolmare un vuoto dovuto alla debolezza della mia memoria. Ho potuto pensarecome vero ciò che sapevo avrebbe potuto esserlo, non ciò che sapevo essere falso.Mi sono mostrato quale sono stato, spregevole e vile, buono, generoso e sublime.Ho svelato il mio intimo così come Tu stesso l'hai visto, Essere eterno. Raccogliattorno a me l'innumerevole folla dei miei simili: che ascoltino le mie confessioni,che arrossiscano per le mie indegnità, che gemano per le mie miserie; che ciascunod'essi, a sua volta, apra il suo cuore con la stessa sincerità ai piedi del tuo trono epoi uno solo Ti dica, se osa: «io fui migliore di quell'uomo». . . .

Così, risalendo alle prime tracce della mia sensibilità, trovo degli elementi che, pursembrando qualche volta incompatibili, si sono uniti e fusi in un effetto unico esemplice; e ne trovo degli altri che uguali, in apparenza, hanno formato dellecombinazioni così diverse, per il concorso di determinate circostanze, che non sipenserebbe mai potessero avere tra loro alcun rapporto.Chi crederebbe per esempio che una delle migliori energie della mia anima scaturìdalla stessa fonte dalla quale attinsi la lussuria e la mollezza?Senza abbandonare l'argomento del quale ho parlato, ne trarrete ora unaimpressione molto diversa.Un giorno studiavo da solo la mia lezione nella stanza vicina alla cucina. Lacameriera aveva messi ad asciugare sulla mensola i pettini della sua padrona.Quando ritornò a prenderli trovò tutto un lato rotto. Chi incolpare di questo danno?Io solo ero entrato nella stanza. Venni interrogato e negai di aver toccato il pettine.Il signore e la signorina Lambercier insieme mi esortarono, mi minacciarono, mipressarono, io insistei con ostinazione: ma la loro convinzione era troppo forte enon credettero a tutte le mie proteste, sebbene fosse la prima volta che mitrovavano così audace nella menzogna.La cosa fu presa sul serio; lo meritava. La bricconeria, la menzogna, l'ostinazioneparvero ugualmente degne di punizione: ma la punizione non ci fu data dallasignorina Lambercier. Scrissero a mio zio Bernard, ed egli venne. Il mio povero

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cugino doveva scontare un'altra colpa non meno grave: fummo inclusi nella stessaesecuzione che fu terribile. Se, cercando il rimedio nel male stesso, avessero volutofar tacere per sempre i miei sensi depravati, non avrebbero potuto far meglio. Essimi lasciarono in pace per lungo tempo.Non poterono strapparmi la confessione che volevano. Punito di nuovo e di nuovoridotto nello stato più spaventoso, fui irremovibile. Avrei sopportata la morte, erodeciso. E la forza dovette cedere al diabolico incaponimento di un fanciullo; nondiversamente fu chiamata la mia costanza. Uscii infine da questa prova crudele abrandelli, ma vittorioso.Adesso sono passati quasi cinquanta anni da questa avventura e non ho paura diessere punito da capo per la stessa causa. Ebbene! Posso dire al cospetto del cieloche ero innocente, che non avevo, né toccato, né rotto il pettine, che non mi eroavvicinato alla mensola e che non ci avevo neanche pensato. Non mi si domandicome è successo quel malanno; non lo so e non riesco a capirlo: ciò che so concertezza è che ero innocente.Pensate, un carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma ardente, fiero,indomabile nelle passioni, un ragazzo governato sempre dalla voce della ragione,trattato sempre con dolcezza, equità, benevolenza; che non aveva neanche l'ideadella ingiustizia, e che, per la prima volta, ne prova una così terribile, proprio dacoloro che ama e rispetta di più. Che capovolgimento di pensieri, che tumulto disentimenti! Che sconvolgimento nel suo cuore, nella sua testa, in tutto il suopiccolo essere morale! Immaginate, se potete, tutto ciò: è impossibile; io, per contomio, non mi sento capace di distinguere, di seguire la pur minima traccia di ciò cheallora si agitava in me.La mia ragione non era ancora in grado di capire come le apparenze micondannavano e di mettermi al posto degli altri. Quello che sentivo era solo tutta ladurezza di una punizione terribile per una colpa che non avevo commessa. Il dolorefisico, sebbene acuto, lo sentivo poco; non sentivo che la indignazione, l'ira, ladisperazione. Mio cugino, che era in condizioni quasi simili, punito di una colpainvolontaria, come per un atto premeditato, andava in furia, sul mio esempio, e simontava, per dir così, al mio unisono. E tutti e due nello stesso letto ciabbracciavamo con uno slancio convulso, soffocavamo; e quando i nostri giovanicuori, un poco alleviati, potevano sfogare la loro ira, ci mettevamo a sedere egridavamo insieme cento volte, con tutte le nostre forze: « Carnefice, carnefice,carnefice ». Scrivendo, sento che il mio polso si agita ancora; questi momenti misaranno sempre presenti, dovessi vivere anche centomila anni. Questa primaimpressione della violenza e dell'ingiustizia è rimasta così profondamente incisanella mia anima che tutte le idee che vi si riferiscono me la fanno rivivere. Ed essa,relativa a me alla sua origine, ha acquistato una tale forza per se stessa, si ètalmente liberata da ogni interesse personale che il mio cuore si accende alla vista,o al racconto, di qualsiasi azione ingiusta, qualunque ne sia l'oggetto e inqualunque luogo venga commessa, come se i suoi effetti ricadessero su me.Quando leggo delle crudeltà di un tiranno feroce, delle sottili malvagità dellafurbizia di un prete, partirei volentieri per prendere a pugni questi miserabili;dovessi per ciò morire cento volte. Spesso mi sono lanciato a inseguire, o con lacorsa, o a colpi di pietre, un gallo, una vacca, un cane, un animale che vedevotormentarne un altro solamente perché si sentiva il più forte. Questo sentimentoforse mi è naturale, e credo che lo sia, ma l'impressione della prima ingiustizia chesoffersi vi rimase troppo a lungo e troppo fortemente legata per non averlo moltorafforzato.Finì allora la serenità della mia vita di fanciullo. Da quel momento cessai di gioiredi una felicità piena, e anche oggi sento che là si arresta il ricordo degli incantidella mia fanciullezza. Restammo a Bossey ancora per qualche mese. Ci restammocome ci viene raffigurato il primo uomo che è ancora nel paradiso terrestre, ma hacessato di gioirne. In apparenza la situazione era immutata, ma in realtà era tuttaun'altra maniera di essere. L'attaccamento, l'intimità, il rispetto, la confidenza, non

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legavano più gli alunni alle loro guide; non li guardavamo più come dei, capaci dileggere nei nostri cuori; eravamo meno vergognosi di agire male, e più timorosi diessere accusati, cominciavamo a nasconderci, a ribellarci, a mentire. Tutti i difettidella nostra età guastavano la nostra innocenza e rendevano brutti i nostri giuochi.Anche la campagna perdette ai nostri occhi quel fascino di dolcezza e di semplicitàche arriva al cuore: ci sembrava deserta e cupa, si era come coperta di un velo chece ne nascondesse le bellezze. Smettemmo di coltivare i nostri piccoli giardini, inostri fiori, le nostre erbe. Non andammo più a smuovere leggermente la terra e agridare di gioia scoprendo il germe del grano che avevamo seminato.Ci disgustammo di questa vita; gli altri si disgustarono di noi; mio zio ci ritirò e ciseparammo dal signore e dalla signorina Lambercier stanchi gli uni degli altri epoco dispiaciuti di lasciarci.Sono passati quasi trent'anni da quando ho lasciato Bossey e mai ne ho ricordatopiacevolmente il soggiorno per alcuni ricordi che vi si connettono; ma, ora che hosuperata l'età adulta e declino verso la vecchiaia, sento che questi ricordi rinasconomentre gli altri si cancellano; essi si incidono nella mia memoria con dei tratti il cuifascino e la cui nitidezza aumentano di giorno in giorno; come se volessi riafferraredal suo inizio la vita che sfugge. Anche i più piccoli particolari di allora mipiacciono per la sola ragione che sono di allora. E ricordo tutti i particolari deiluoghi, delle persone, delle ore. . . .

Così, determinata la mia vocazione, fui mandato come apprendista non da unorologiaio, ma da un incisore. Il mio maestro, signor Ducomun, era un giovanevillano e violento che in pochissimo tempo riuscì a spegnere tutto il brio della miainfanzia, ad abbrutire il mio carattere affettuoso e vivace, e a ridurmi, nello spirito,come lo ero stato dalla fortuna, alla mia vera condizione di apprendista. Il miolatino, le mie antichità, la mia storia, tutto fu, per lungo tempo, dimenticato; nonricordavo neanche che al mondo vi erano stati dei Romani. Mio padre, quandoandavo a trovarlo, non ritrovava più in me il suo idolo: per le signore non ero più ilgalante Gian Giacomo; ed io stesso sentivo che il signore e la signorina Lambercierin me non avrebbero più riconosciuto il loro allievo, che avrei avuto vergogna diripresentarmi a loro, e da allora non li ho più visti.. . .Il lavoro non mi dispiaceva in se stesso; amavo molto il disegno: il giuoco delbulino mi divertiva abbastanza; poiché nell'orologeria l'abilità dell'incisore è moltolimitata, speravo di raggiungervi la perfezione. Ci sarei forse arrivato, se labrutalità del mio maestro e la eccessiva soggezione non mi avessero allontanato dallavoro. Gli rubavo il mio tempo per impiegarlo in occupazioni dello stesso genere,ma che avevano per me il fascino della libertà. Incidevo delle specie di medaglieche dovevano servire a me e ai miei compagni come ordine cavalleresco. Il miomaestro mi sorprese in questo lavoro di contrabbando e mi bastonò di santaragione, dicendo che mi esercitavo a coniare monete false, giacché le nostremedaglie portavano le armi della repubblica. Posso giurare che non avevo nessunaidea della moneta falsa e molto poca della vera. Sapevo molto meglio come sifacevano gli assi romani, che i nostri pezzi da tre soldi.La tirannia del mio maestro finì col rendermi insopportabile il lavoro che avreiamato e col darmi dei vizi che avrei odiato, come la menzogna, la fannullaggine, ilfurto. Niente, meglio del ricordo dei cambiamenti che produsse in me quest'epoca,mi ha insegnato che differenza esiste tra la sottomissione filiale e la schiavitùservile. Timido e vergognoso per natura, mai per alcun difetto ebbi maggiorerepulsione che per la sfrontatezza; ma avevo goduto di una libertà onesta chesolamente si era ritratta fin là per gradi e che infine scomparve del tutto.Ero franco con mio padre, libero con il signor Lambercier, prudente con mio zio;divenni timoroso col mio maestro, da allora fui un ragazzo perduto. Abituato aduna uguaglianza perfetta con i miei superiori nella maniera di vivere, a nonconoscere un piacere che non fosse alla mia portata, a non vedere un cibo del qualenon avessi la mia parte, a non avere un desiderio che non manifestassi, a mettere,

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infine, tutti i movimenti del mio cuore sulle mie labbra; si giudichi quello che poteidiventare, in una casa dove non osavo aprire bocca, dove dovevo alzarmi da tavolaa metà del pranzo e uscire dalla stanza non appena non avevo più niente da farvi,dove, continuamente inchiodato al mio lavoro, non vedevo che oggetti di gioia pergli altri e privazioni solo per me, dove la vista della libertà del maestro e deicompagni aumentava il peso del mio assoggettamento, dove nelle discussioni sucose che sapevo meglio di tutti non osavo aprire bocca, dove infine tutto quello chevedevo diventava per me oggetto di desiderio ardente, solo perché ero privo ditutto. Addio disinvoltura, gaiezza, parole spiritose che prima spesso nei miei fallimi avevano fatto sfuggire al castigo. . . .Raggiunsi così i sedici anni, inquieto, scontento di tutto e di me, senza interesse peril mio stato, senza i piaceri della mia età, divorato da desideri di cui ignoravol'oggetto, piangendo senza ragione di pianto, sospirando senza sapere perché; infinecarezzando teneramente le mie chimere, per non vedere attorno a me niente chevalesse quanto loro. Le domeniche, dopo la predica, i miei compagni venivano acercarmi perché andassi a divertirmi con loro. Sarei loro sfuggito volentieri, seavessi potuto: ma una volta impegnato nei loro giuochi ero più ardente e andavopiù lontano di un altro; difficile a scuotere e a fermare. Questa in tutti i tempi fu lamia caratteristica costante. Nelle nostre passeggiate fuori della città andavo sempreavanti senza pensare al ritorno, a meno che degli altri non vi pensassero per me. Vicaddi due volte; le porte furono chiuse prima che potessi arrivarvi. Il giorno dopofui trattato come si immagina; e la seconda volta mi fu promessa una taleaccoglienza per la terza che decisi di non espormivi. Ma questa terza volta cosìtemuta arrivò lo stesso. La mia precauzione fu resa vana da un maledetto capitanoche si chiamava signor Minutoli e che chiudeva la sua porta una mezz'ora primadelle altre.Tornavo con due compagni. A mezza lega dalla città, sentii suonare la ritirata,raddoppiai il passo; sentii battere il tamburo, corsi a gambe levate; arrivai sfiatato,grondante di sudore; il cuore mi batteva, da lontano vidi i soldati al loro posto;accorsi, gridai con voce spezzata; era troppo tardi. A venti passi dal posto avanzato,vidi levare il primo ponte: fremetti vedendo nell'aria questi corni terribili, sinistro efatale auspicio del destino inevitabile che in quel momento cominciava per me.Nel primo impeto del mio dolore mi gettai sullo spalto e morsi la terra. I mieicompagni ridevano della loro sventura e presero subito la loro decisione. Io presipure la mia, ma fu diversa. Su quel luogo stesso giurai di non ritornare mai dal miomaestro; e il giorno dopo, quando all'ora dell'apertura essi rientrarono in città, dissiloro addio per sempre pregandoli solo d'avvertire segretamente mio cugino Bernarddella risoluzione da me presa e del luogo dove avrebbe potuto vedermi ancora unavolta.Da quando avevo cominciato a fare l'apprendista, poiché ero più lontano da lui, loavevo visto meno. Pur non di meno per qualche tempo ancora ci riunivamo ledomeniche; ma, insensibilmente, ognuno prese abitudini diverse e ci vedemmo piùraramente. Sono convinto che sua madre contribuì molto a questo cambiamento.Lui era un ragazzo della buona società; io, misero apprendista, non ero più che unragazzo di Saint-Gervais. Non vi era più uguaglianza, malgrado la nascita;frequentarmi era mancare alla propria dignità. Tuttavia i legami non cessarono deltutto tra di noi; e poiché era un ragazzo buono di natura qualche volta seguiva ilsuo cuore, malgrado le lezioni di sua madre. Saputa la mia decisione accorse nonper dissuadermi o dividerla, ma per darmi con dei piccoli regali qualche piacerenella mia fuga: poiché le mie risorse non potevano condurmi molto lontano. Miregalò tra l'altro una piccola spada della quale ero molto innamorato e che hoportato fino a Torino dove me ne disfeci o, come si dice, me la sono passataattraverso il corpo.Più ho riflettuto, dopo, sul suo modo di comportarsi con me in questo momentocritico, più mi sono convinto che seguì le istruzioni di sua madre e forse di suopadre; perché non è possibile che, spontaneamente, non avesse fatto qualche sforzo

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per trattenermi, o che non avesse tentato di seguirmi. Ma basta: mi incoraggiò nelmio progetto anziché distogliermi; poi, quando mi vide ben deciso, mi lasciò senzatroppe lacrime. Non ci siamo mai scritti, né rivisti. Peccato! era di un carattere es-senzialmente buono; eravamo fatti per amarci.Prima di abbandonarmi alla fatalità del mio destino, mi si permetta di volgere unmomento gli occhi su quello che mi avrebbe atteso se fossi caduto nelle mani di unmaestro migliore. Niente era più confacente alla mia inclinazione, né più adatto arendermi felice che, lo stato tranquillo e oscuro di un buon artigiano, specialmentein certe classi, come è a Ginevra quella degli incisori. Questo stato, abbastanzalucroso per dare una vita agiata, e non abbastanza per condurre alla fortuna,avrebbe limitata la mia ambizione per il resto dei miei giorni e, lasciandomi unozio meritato per coltivare dei piaceri moderati, mi avrebbe trattenuto nel miostato, senza offrirmi alcun mezzo per uscirne. Con un'immaginazione abbastanzaricca per ornare ogni stato con le sue chimere, abbastanza forte per trasportarmi,per così dire, dall'uno all'altro, non mi importava in quale fossi in realtà. Nonpoteva esservi tanta distanza dal luogo nel quale ero al primo castello di Spagna,che non mi fosse facile fermarmici. Da ciò soltanto seguiva che lo stato piùsemplice, quello che dava meno imbarazzi e preoccupazioni, quello che lasciava lospirito più libero, era quello che mi si addiceva di più ed era precisamente il mio.Avrei vissuto nel seno della mia religione, della mia patria, della mia famiglia, edei miei amici una vita tranquilla e dolce, quale era necessaria al mio carattere,nell'uniformità di un lavoro di mio gusto e di una società secondo il mio cuore.Sarei stato buon cristiano, buon cittadino, buon padre di famiglia, buon amico,buon artigiano, un buon uomo in tutto. Avrei amato il mio stato, lo avrei onoratoforse; e dopo aver passato una vita oscura e semplice, ma uniforme e dolce, sareimorto in pace in mezzo ai miei cari. Ben presto dimenticato, senza alcun dubbio;sarei stato tuttavia rimpianto sinché si fossero ricordati di me.Invece... Quale racconto sto per fare! Ah! non facciamo anticipazioni sulle miseriedella mia vita, non occuperò che troppo i miei lettori su questo triste argomento.

Libro Secondo

Tanto mi era sembrato triste il momento in cui il terrore mi aveva suggerito ilprogetto di fuggire, tanto mi sembrò bello quello in cui lo eseguii. Lasciare il miopaese ancora fanciullo, i miei parenti, i miei appoggi, le mie risorse, lasciare unapprendistato fatto a metà senza conoscere abbastanza il mio mestiere per viverne;slanciarmi verso gli orrori della miseria, senza vedere nessun mezzo per uscirne;espormi nell'età della debolezza e dell'innocenza a tutte le tentazioni del vizio edella disperazione; cercare lontano i mali, gli errori, le insidie, la schiavitù e lamorte, sotto un giogo molto più inflessibile di quello che non avevo potuto soffrire;ecco quello che stavo per fare, era questa la prospettiva che avrei dovuto guardarein faccia. Come me la dipingevo diversa! L'indipendenza che credevo di averconquistata era il solo sentimento che mi commoveva. Libero e padrone di mestesso, credevo di poter fare tutto, giungere a tutto: non dovevo che lanciarmi perinnalzarmi e volare nell'aria. Entravo con sicurezza nel vasto mondo; il mio meritolo avrebbe riempito, ad ogni passo mi avviavo a trovare feste, tesori, avventure,amici pronti a servirmi, donne desiderose di piacermi; mostrandomi, stavo per oc-cupare di me l'universo, non tuttavia l'universo intero; lo dispensavo in qualchemaniera, non avevo bisogno di tanto. Una società ricercata mi bastava, senzapreoccuparmi del resto. La mia moderazione mi inseriva in un ambiente ristretto,ma scelto con molta accuratezza, nel quale ero sicuro di regnare. Un solo castelloappagava la mia ambizione. Favorito del padrone e della padrona, amante della

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figlia, amico del fratello e protettore dei vicini, sarei stato soddisfatto, non avreiavuto bisogno d'altro.In attesa di questo modesto avvenire, vagai per qualche giorno nei dintorni dellacittà, fermandomi presso dei contadini che conoscevo e che mi ricevettero, tutti,con molto maggiore bontà di quel che avrebbero fatto dei cittadini. Miaccoglievano, mi alloggiavano, mi nutrivano troppo bonariamente per farsene unmerito. E ciò non si poteva dire un far l'elemosina; non vi mettevano abbastanzal'aria di superiorità. . . .

« Dio vi chiama, mi disse il signor di Pontverre. Andate ad Annecy; vi trovereteuna buona signora molto caritatevole, che i benefici del re mettono in condizioni diliberare altre anime dall'errore dal quale lei stessa è uscita ». Si trattava della,signora di Warens, nuova convertita che i preti obbligavano a dividere con lacanaglia che veniva a vendere la sua fede una pensione di duemila franchi che ledava il re di Sardegna. Io mi sentivo molto umiliato di aver bisogno di una buonasignora molto caritatevole. Mi piaceva che mi desse il mio necessario, ma non chemi facesse la carità, e una devota non era per me molto attraente. Tuttavia, spintodal signor di Pontverre, dalla fame che mi incalzava, molto lieto anche di fare unviaggio e di avere uno scopo, prendo la mia decisione sebbene con dolore e partoper Annecy. . . .Quando stavo per entrare in questa porta la signora di Warens si voltò alla miavoce. Che cosa divenni a quella vista! Avevo immaginato una vecchia devotamolto arcigna; la buona signora del signor di Pontverre a mio avviso non potevaessere altro. Vidi un viso pieno di grazia, dei begli occhi azzurri pieni di dolcezza,una carnagione splendente, le linee di un seno incantevole. Niente sfuggi al rapidocolpo d'occhio del giovane proselita; poiché divenni subito il suo, sicuro che unareligione predicata da tali missionari non poteva non condurre in paradiso. Leiprese sorridendo la lettera che le presentai con mano tremante, l'aprì, diede unosguardo a quella del signor di Pontverre, ritornò alla mia che lesse per intero e cheavrebbe riletto ancora se il suo servo non l'avesse avvertita che era tempo dientrare. « Eh! fanciullo mio, mi disse con un tono che mi fece trasalire, eccovi peril mondo molto giovane; in verità, è un peccato ». Poi, senza aspettare la miarisposta aggiunse: « Andate a casa e aspettatemi, dite che vi preparino da mangiare,dopo la Messa parlerò con voi ».Luisa Eleonora di Warens era una signorina di La Tour de Pil, nobile e anticafamiglia di Vévai, città del paese di Vaud. Molto giovane aveva sposato il signor diWarens della casa di Loys, figlio maggiore del signor di Villardin di Losanna.Questo matrimonio non diede bambini perché non troppo riuscito e la signora diWarens, spinta da qualche dispiacere familiare, colse il periodo in cui il re VittorioAmedeo era a Evian, per passare il lago e venire a gettarsi ai piedi di questoprincipe; abbandonando così la sua famiglia e la sua terra per una balordagginesimile alla mia e che ha avuto tutto il tempo di scontare. Il re, cui piaceva fare ilcattolico zelante, la prese sotto la sua protezione, le diede una pensione di 1500 lirepiemontesi, molto per un principe così poco generoso; e comprendendo che perquesta accoglienza lo avrebbero creduto suo amante, la mandò a Annecy scortatada un distaccamento delle sue guardie, dove, sotto la direzione di Michele Gabrieledi Bernex, vescovo titolare di Ginevra, abiurò nel convento della Visitazione.Era là da sei anni quando io arrivai e aveva 28 anni . . .

Coloro che negano l'attrazione delle anime spieghino, se possono, come dal primocolloquio, dalla prima parola, dal primo sguardo la signora di Warens mi ispirò nonsolo il più vivo attaccamento ma una confidenza perfetta che non si è mai smentita.Supponiamo che ciò che ho sentito per lei sia stato veramente amore, cosa chesembrerà almeno dubbia a chi seguirà la storia dei nostri legami; come mai questapassione fu accompagnata sin dal suo nascere dai sentimenti che meno suoleispirare: la pace del cuore, la calma, la serenità, la sicurezza, la fiducia? Come mai,

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avvicinando per la prima volta una donna cortese, amabile, abbagliante, una damadi una classe superiore alla mia, come non ne avevo mai incontrata una uguale,colei dalla quale in certo modo dipendeva la mia sorte, dall'interesse più o menogrande che vi avrebbe preso; come mai, dico, con tutto ciò mi sentii subito cosìlibero, così a mio agio come se fossi stato perfettamente sicuro di piacerle? Comemai non ho avuto un momento di imbarazzo, di timidezza, di soggezione? Pernatura vergognoso, smarrito, senza aver mai visto il mondo, come mai presi con leisin dal primo giorno, dal primo istante, le maniere semplici, il linguaggio tenero, iltono familiare che avevo dieci anni dopo, quando la più grande intimità lo resenaturale?Vi può essere amore non dico senza desiderio, io ne avevo, ma senza inquietudine,senza gelosia? Non si vuole almeno sapere se chi amiamo ci riama? Mai una voltami è venuto in mente di farle una simile domanda, come mai mi venuto in mente dichiedere a me stesso se mi amo; e mai lei è stata più curiosa con me. Certamente viè stato qualche cosa di strano nei miei sentimenti per questa donna affascinante e inseguito troverete delle originalità inaspettate.

Libro Terzo

In conclusione, mi abbandonavo tanto meglio al dolce sentimento del benessereche provavo vicino a lei, in quanto questo benessere del quale godevo non eraturbato da nessuna preoccupazione sui mezzi per sostenerlo. Non ero ancora nellaintima confidenza dei suoi affari e credevo che fossero in condizione da procederesempre nello stesso modo. In seguito, in casa sua, ho trovato gli stessi piaceri; ma,più edotto sulla situazione reale e vedendo che essi anticipavano sulle rendite, nonli ho più gustati con tranquillità. La previdenza ha sempre guastato in me la gioia;ho sempre previsto inutilmente l'avvenire, non ho mai potuto evitarlo.Sin dal primo giorno si stabilì tra noi la più dolce familiarità come poi è continuataper tutto il resto della vita. Piccolo fu il mio nome; mammà il suo e restammosempre piccolo e mammà, anche quando gli anni cancellarono, quasi, la differenzache c'era tra noi. Mi sembra che questi due nomi rendano a meraviglia l'idea deinostri rapporti, la semplicità delle nostre maniere e soprattutto l'attaccamento deinostri cuori. Ella fu per me la più affettuosa delle madri, che non cercò mai il suopiacere, ma sempre il mio bene; e se i sensi ebbero una parte nel mio attaccamentoa lei, non era per cambiarne la natura, ma solo per renderla più squisita, perinebriarmi alla gioia di avere una mamma giovane e carina che mi era deliziosocarezzare dico carezzare in senso letterale; poiché ella non pensò mai dirisparmiarmi i baci, né le più tenere carezze materne, e mai pensai di abusarne.Direte che tuttavia alla fine abbiamo avuto relazioni di altro genere, ne convengo;ma bisogna aspettare, non posso dire tutto in una volta.Il primo sguardo del nostro primo incontro fu il solo momento di passione che ellamai mi abbia fatto sentire e questo momento fu effetto della sorpresa. I mieisguardi indiscreti non andavano mai sbirciando sotto il suo fazzoletto; sebbene unafloridezza mal nascosta in quel punto avrebbe potuto attirarveli. Non avevo nérapimenti, né desideri presso di lei, ero in uno stato di calma incantevole e gioiososenza sapere di che. In questo stato avrei passato tutta la mia vita e anche l'eternitàsenza annoiarmi un istante. Essa è la sola persona con la quale non ho mai sentitoquella aridità di conversazione che mi rende supplizio il doverla sostenere.I nostri colloqui non erano delle conversazioni, quanto un inesauribile cicaleccioche per finire aveva bisogno di essere interrotto. Anziché pregarmi di parlare,bisognava pregarmi di tacere. A furia di meditare sui suoi progetti, ella cadevaspesso nella fantasticheria. Allora la lasciavo sognare, tacevo, la contemplavo edero il più felice degli uomini.

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Avevo inoltre una stranezza veramente singolare senza aspirare alla gioia di unincontro da sola a solo lo cercavo incessantemente e ne gioivo con uno slancio chedegenerava in furore quando degli importuni venivano a turbarlo.Non appena arrivava qualcuno, non importa se uomo o donna, uscivo mormorandopoiché non sopportavo di restare vicino a lei come terzo. Andavo nella suaanticamera a contare i minuti e maledivo questi eterni visitatori, senza riuscire acapire cosa avessero da dire così a lungo, poiché io avevo da dire ancora di più. . . .

Due cose quasi inconciliabili si uniscono in me senza che io possa capire come: untemperamento molto ardente, delle passioni vive, impetuose e delle idee lente anascere, impacciate e che si presentano sempre troppo tardi. Si direbbe che il miocuore e la mia testa non appartengano allo stesso individuo.Il sentimento più veloce del lampo fa traboccare la mia anima, ma invece diilluminarmi mi brucia e mi abbaglia. Sento tutto ma non vedo niente; sonoimpulsivo, ma stupido. Per pensare è necessario che io sia a sangue freddo.E strano, ma tuttavia ho il senso abbastanza sicuro della penetrazione, dell'acutezzaanche, purché mi si aspetti: faccio delle magnifiche improvvisazioni con comodo,ma sul momento non ho mai fatto o detto niente che valga. Farei una bellissimaconversazione per posta, come dicono che gli spagnoli giochino a scacchi. . . .Questa lentezza di pensiero insieme a questa vivacità di sentimento non l'hosolamente nella conversazione, la ho anche da solo e quando lavoro. Le idee sicombinano nella mia testa con la più incredibile difficoltà. Vi si muovonolentamente, vi fermentano fino a commuovermi, a riscaldarmi, ad agitarmi, e pertanta emozione non vedo niente con chiarezza; non saprei scrivere una sola parola:bisogna che aspetti. Insensibilmente questa grande agitazione si calma, questo caossi schiarisce, ogni cosa si mette al suo posto, ma lentamente e dopo una lunga econfusa agitazione. Non avete visto qualche volta l'opera in Italia? Su quei granditeatri nei cambiamenti di scena regna un disordine spiacevole che dura moltotempo; tutte le decorazioni sono mescolate. Da ogni parte si vede una confusioneche fa pena, si crede che tutto va sossopra, e tuttavia a poco a poco tutto siaggiusta, niente manca e si resta sorpresi nel vedere seguire a questo lungo tumultouno spettacolo stupendo. Questa manovra è simile a quella che avviene nella miamente quando voglio scrivere. Se avessi saputo prima attendere, e poi rendere nellaloro bellezza le cose che così vi si sono rappresentate, pochi autori mi avrebberosuperato. Da ciò deriva la grande difficoltà che trovo nello scrivere. I mieimanoscritti, cancellati, scarabocchiati, confusi, indecifrabili testimoniano la faticache mi sono costati. Non ve ne è uno che non abbia dovuto copiare quattro ocinque volte prima di darlo alle stampe. Non ho potuto mai fare niente con la pennain mano davanti a un tavolo e alla carta. A passeggio, tra le rocce e i boschi, dinotte, nel mio letto durante le mie insonnie scrivo nel mio cervello, e si puògiudicare con quale lentezza, soprattutto per un uomo assolutamente sprovvisto dimemoria verbale, e che durante la sua vita non ha potuto ritenere sei versi amemoria. Alcuni dei miei periodi li ho girati e rigirati cinque o sei notti nella miatesta prima che potessero essere messi sulla carta. Da ciò ancora deriva che ioriesca meglio nelle opere che richiedono lavoro, che in quelle che debbono esserefatte con una certa leggerezza, come le lettere; genere di cui non ho mai potutoprendere lo stile e di cui occuparmi è per me un supplizio.Non scrivo una lettera sul più futile argomento che non mi costi delle ore di fatica;e se voglio scrivere di seguito ciò che mi viene non so né cominciare né finire, lamia lettera è una lunga e confusa ciancia; vi si capisce a fatica quando la si legge.Non solo mi è faticoso rendere le idee, ma mi è faticoso anche riceverle. Hostudiato gli uomini, e credo di essere un osservatore abbastanza buono; tuttavia nonso vedere niente di quello che vedo, non vedo bene che ciò che ricordo, e non hoacume che nei miei ricordi.Di tutto quello che si dice, di tutto quello che si fa, di tutto quello che avvienedavanti a me non comprendo niente non penetro niente, la forma esterna è tutto

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quello che mi colpisce. Ma dopo tutto ritorna a me, mi ricordo il luogo, il tempo, iltono, lo sguardo, il gesto, la circostanza; niente, allora, mi sfugge su ciò che si èfatto o detto, ritrovo ciò che si è pensato ed raro che mi sbagli. Così poco padronedel mio spirito quando sono solo con me stesso, si pensi quello che debbo esserenella conversazione, quando, per parlare a proposito, bisogna pensare a mille cosenello stesso tempo e con prontezza. Il solo pensiero di tante convenienze delle qualisono sicuro di dimenticarne almeno qualcuna, basta ad intimidirmi; non capisconeanche come si osi parlare in un crocchio poiché a ogni parola bisognerebbepassare in rassegna tutte le persone che sono là, bisognerebbe conoscere tutti i lorocaratteri, sapere tutte le loro storie, per essere sicuri di non dire niente che possaoffendere qualcuno. Su questo punto quelli che vivono nel mondo hanno un grandevantaggio: sapendo meglio quello che debbono tacere, sono più sicuri di quello chedicono, eppure spesso scappa loro qualche scemenza. Si pensi a chi cade dallenuvole: gli è quasi impossibile parlare impunemente. Quando si è solamente due viè un altro inconveniente che io trovo anche peggiore: la necessita di parlaresempre. Quando vi parlano bisogna rispondere, e se non dicono una parola bisognarisollevare la conversazione. Questa insopportabile costrizione da sola mi avrebbedisgustato della società; non trovo che vi sia una tortura maggiore dell'obbligo diparlare con prontezza e sempre. Non so se questo dipenda dalla mia mortaleavversione per ogni assoggettamento, ma basta che sia necessario che io parliperché dica infallibilmente una scempiaggine. Quel che è più tragico è che invecedi saper tacere quando non ho niente da dire, proprio allora per pagare più in frettail mio debito ho la smania di voler parlare. Mi affretto a balbettare subito delleparole senza idee, felicissimo quando esse non significano completamente niente.Per voler vincere o nascondere la mia incapacità raramente manco di mostrarla.

Libro Quinto

Comunque, mammà si accorse che per strapparmi ai pericoli della mia giovinezza,doveva trattarmi da uomo; e fu così che fece, ma nella maniera più singolare cheuna donna abbia mai pensato in simile occasione. Trovai in lei l'aspetto più grave eil ragionamento più morale che di consueto. Alla gaiezza giocosa, con la quale leiordinariamente intercalava i suoi insegnamenti, succedette, ad un tratto, un tonosempre sostenuto che non era né familiare, né severo, ma che sembrava preparasseuna spiegazione.Dopo aver inutilmente cercato in me stesso la ragione di questo cambiamento glielachiesi: era quello che aspettava. Mi propose una passeggiata al giardinetto per ilgiorno dopo: vi andammo al mattino. Aveva fatto in modo che ci lasciassero solitutto il giorno, e lei ne approfittò per prepararmi alla bontà che voleva usarmi, noncome un'altra donna, col raggiro e le lusinghe, ma con dei discorsi pieni di senno edi ragione, fatti più per istruirmi che per sedurmi, e che parlavano più al mio cuoreche ai miei sensi. Ma, per quanto magnifici e utili potessero essere i discorsi che leimi tenne, per quanto non fossero che freddi e tristi, non vi prestai tutta l'attenzioneche meritavano e non li impressi nella mia memoria, come avrei fatto in altrotempo. Il suo esordio, questo tono di preparazione mi avevano reso inquieto.Mentre parlava, sognatore e distratto mio malgrado, mi occupavo meno di quelloche lei diceva che di cercare a che cosa tendesse. E non appena l'ebbi capito, cosache non fu facile, la novità dell'idea, che una sola volta mi era venuta in mente daquando vivevo vicino a lei, occupandomi interamente, non mi lasciava la capacitàdi pensare a ciò che lei mi diceva. Non pensavo che a lei e non l'ascoltavo.Voler rendere attenti i giovani a quello che ad essi si vuol dire, facendo vedere, allafine, una cosa molto interessante per loro, è un controsenso, frequentissimo negliistitutori e che io stesso non ho evitato nel mio Emilio. Il giovane, colpito

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dall'oggetto che gli viene presentato, si occupa esclusivamente di questo e salta apie pari sui vostri discorsi preliminari, per giungere subito dove voi lo conducetetroppo lentamente per il suo gusto. Quando si vuole che stia attento non bisognafare che comprenda oltre: in questo mammà fu malaccorta. Per una stranezza che sidoveva al suo spirito sistematico, prese la precauzione perfettamente inutile di farele sue condizioni; ma, non appena ne vidi il prezzo, non le ascoltai neanche e miaffrettai ad acconsentire a tutto.Dubito anche che, in un caso simile, vi sia, su tutta la terra, un uomo abbastanzafranco o abbastanza coraggioso per osar mercanteggiare, e una sola donna chepossa perdonare l'averlo fatto. Continuando nella stessa stranezza, aggiunse aquesto accordo le più gravi formalità e mi diede otto giorni per pensarvi, dei qualile assicurai falsamente di non aver bisogno.Per colmo di stranezza, infatti, fui molto contento di averli, tanto mi aveva colpitola novità di queste idee e tale era il turbamento delle mie, che mi chiedeva tempoper riordinarle.Penserete che questi otto giorni furono per me come otto secoli. Al contrario, avreivoluto che lo fossero stati in realtà. Non so come descrivere lo stato in cui mitrovavo, pervaso da un certo spavento misto ad impazienza, temevo quello chedesideravo, fino talvolta a cercare improvvisamente nella mia testa qualche mezzoonesto per evitare di essere felice.Pensate al mio temperamento ardente e lussurioso, al mio sangue in fiamme, al miocuore ebbro d'amore, alla mia robustezza, alla mia salute, alla mia età; pensate chein questo stato, assetato di donne, non ne avevo ancora avvicinata nessuna; chel'immaginazione, la vanità, la curiosità si univano per divorarmi nell'ardentedesiderio di essere uomo e di sembrarlo: e aggiungete soprattutto, perché questonon dovete dimenticare, che il mio vivo attaccamento per lei, lungi dall'intiepidirsi,non aveva fatto che aumentare di giorno in giorno, che non mi sentivo felice chevicino a lei, che non mi allontanavo da lei che per pensare a lei, che avevo il cuorepieno, non solo della sua bontà, del suo carattere amabile, ma del suo sesso, dellasua figura, della sua persona, di lei in una parola, per tutti gli aspetti sotto i qualipoteva essermi cara; e non si pensi che per i dieci o dodici anni che io avevo menodi lei, fosse o mi sembrasse vecchia. In realtà, dopo cinque o sei anni, da quandoavevo provato dei sentimenti così dolci, alla sua prima vista, era poco cambiata emi sembrava che non lo fosse affatto. Per me è stata sempre bella e allora lo era pertutti. Solo il suo corpo era un pò più rotondo. Poi erano gli stessi occhi, la stessacarnagione, lo stesso seno, gli stessi lineamenti, gli stessi bei capelli biondi, lastessa gaiezza, tutto fin’anche la stessa voce, quella voce argentea della gioventùche ha fatto sempre tanta impressione su di me, da non lasciarmi, ancor'oggi,sentire senza emozione il suono di una bella voce di ragazza.Era naturale che nell'attesa di possedere una persona tanto cara dovessi temere dianticipare, e di non poter governare abbastanza i miei desideri e la miaimmaginazione, per restare padrone di me stesso. Vedrete come, in un'età avanzata,il solo pensiero di qualche piccolo favore, che mi aspettava vicino alla personaamata, accendeva il mio sangue a tal punto che mi era impossibile fareimpunemente il breve percorso che mi separava da lei. Come, per quale miracolo,nel fiore della gioventù ebbi così poca fretta di giungere al primo godimento?Come mai potei vederne avvicinarsi l'ora con più dolore che gioia? Come mai,invece delle delizie che dovevano inebriarmi, sentivo quasi ripugnanza e timore?Non vi è dubbio che, se avessi potuto sottrarmi facilmente alla mia felicità, lo avreifatto di tutto cuore. Ho promesso delle stranezze nella storia del mio attaccamentoa lei: eccone una alla quale certamente non eravate preparati.Il lettore, già indignato, pensa che lei, posseduta come era da un altro uomo,dividendosi si degradava ai miei occhi, e che un sentimento di disistima intiepidivaquelli che mi aveva inspirati; si inganna. Questa divisione, è vero, mi dava unapena crudele, sia per una delicatezza molto naturale, sia perché in realtà la trovavopoco degna di lei e di me; ma i miei sentimenti per lei non ne venivano affatto

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alterati, e posso giurare che mai la amai così teneramente, come quando desideravotanto poco di possederla. Conoscevo troppo il suo cuore casto e il suotemperamento di ghiaccio, per credere, per un momento, che il piacere dei sensiavesse alcuna parte in quest'abbandono di se stessa: ero perfettamente sicuro chesolo la preoccupazione di strapparmi a dei pericoli, diversamente quasi inevitabili,e di conservarmi interamente a me e ai miei doveri, gliene faceva trasgredire unoche lei non considerava con lo stesso occhio delle altre donne, come sarà detto inseguito. La compiangevo e mi compiangevo. Avrei voluto dirle: « No, mammà,non è necessario, vi rispondo di me senza tutto questo »; ma non osavo, innanzitutto perché non era una cosa da dire e poi perché in fondo sentivo che non eravero, e che in realtà non vi era che una donna, che potesse garantirmi dalle altre, emettermi al di sopra delle tentazioni. Senza desiderare di possederla, ero ben feliceche mi togliesse il desiderio di possederne delle altre, tanto guardavo come maletutto quello che potesse distrarmi da lei.La lunga abitudine di vivere insieme e di vivervi innocentemente, lungidall'affievolire i miei sentimenti per lei li aveva rafforzati, ma nello stesso tempoaveva dato loro un'altra forma che li rendeva più affettuosi, più teneri forse, mameno sensuali. A forza di chiamarla mammà, a forza di avere con lei la familiaritàdi un figlio, mi ero abituato a considerarmi tale. Credo che sia questa la vera causadella poca fretta che ebbi di possederla, sebbene mi fosse tanto cara. Mi ricordobenissimo che i miei primi sentimenti, senza essere più vivi, erano più voluttuosi.Ad Annecy ero in uno stato di ebbrezza, a Chambéry non vi ero più. La amavosempre appassionatamente, come più potevo; ma l'amavo più per lei e meno perme, o almeno, vicino a lei cercavo più la mia felicità che il mio piacere: era per mepiù che una sorella, più che una madre, più che un'amica, anche più che unaamante. Insomma la amavo troppo per desiderarla: ecco quel che vi è di più chiaronelle mie idee.Questo giorno, più temuto che atteso, venne alfine. Promisi tutto e non mentii. Ilmio cuore confermava i miei impegni, senza desiderarne il prezzo. Non di menol'ottenni. Per la prima volta mi vidi tra le braccia di una donna e di una donna cheadoravo. Fui felice? No, gustai il piacere. Non so quale tristezza invincibile neavvelenava la bellezza. Mi sentivo come se avessi commesso un incesto. Due o trevolte, stringendola con passione nelle mie braccia, inondai il suo seno delle mielacrime. Quanto a lei, non'era né triste, né eccitata; era carezzevole e tranquilla.Poiché era poco sensuale, e non aveva cercato affatto la voluttà, non ne ebbe ledelizie e non ne ha mai avuto i rimorsi.

Libro Sesto

. . . Comincia, ora la breve felicità della mia vita; cominciano ora i dolci mafuggitivi momenti che mi hanno dato il diritto di dire che ho vissuto. Momentipreziosi e tanto rimpianti! Ah! ricominciate per me il vostro dolce corso; se potete,scorrete nel mio ricordo più lentamente di quanto non abbiate fatto nel vostrofuggevole susseguirsi. Come farò a prolungare, come voglio, questo racconto cosìcommovente e semplice, e ripetere sempre le stesse cose, senza annoiare i mieilettori più di quanto non mi annoiassi io ricominciandole senza posa? Se fosserofatti, azioni e parole potrei, ancora in qualche modo, descriverli e renderli, macome esprimere quello che non era né detto né fatto e neanche pensato, ma solosentito, senza che io potessi indicare un oggetto della mia felicità che non fossequesto stesso sentimento?Mi alzavo con il sole ed ero felice; passeggiavo ed ero felice; vedevo mammà edero felice; scorrazzavo per i boschi, per i pendii, vagavo per i valloni, leggevo,restavo ozioso, lavoravo in giardino, raccoglievo i frutti, aiutavo in casa, e la

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felicità mi seguiva ovunque; non era in nessuna cosa, era in me, non potevalasciarmi un solo istante.Niente di quanto mi è accaduto durante questo periodo, a me così caro, niente diquello che ho fatto, detto e pensato è sfuggito alla mia memoria. I periodi cheprecedono e che seguono mi risovvengono a tratti. Li ricordo in manieradiscontinua e confusa; ma ricordo quello per intero come se durasse ancora.La mia immaginazione, che durante la mia giovinezza andava sempre avanti eadesso si volge indietro, compensa con questi dolci ricordi la speranza che hoperduta per sempre. Nell'avvenire non vedo più niente che mi tenti: solo i ricordidel passato possono lenirmi; e questi ritorni così vivi e veri all'epoca di cui parlospesso mi fanno vivere felice, malgrado le mie sventure.Darò un solo esempio di questi ricordi che potrà fare giudicare della loro forza edella loro verità. Il primo giorno che andammo a coricarci alle Charmettes, mammaera su una portantina e io la seguivo a piedi. La strada saliva; lei era abbastanzapesante; e temendo di stancare troppo i suoi portatori, volle scendere circa a mezzastrada, per fare il resto a piedi. Camminando vide qualche cosa di azzurro sullasiepe, e mi disse: « Ecco la pervinca ancora in fiore ». Non avevo mai visto dellapervinca; non mi abbassai per guardarla bene, e ho la vista troppo corta perdistinguere dalla mia altezza le piante a terra. Passando, diedi solo un'occhiata aquella e sono passati quasi trenta anni senza che abbia rivisto una pervinca, o che viabbia fatto attenzione. Nel 1764 mentre ero a Cressier con il mio amico signor DuPeyrou salivamo una montagnola, in cima alla quale vi è un grazioso salone che luichiama a ragione Bellevue. Cominciavo allora ad erborare un poco; salendo eguardando tra i cespugli dò in un grido di gioia: « Ah! ecco della pervinca! » e inrealtà lo era. Du Peyrou si accorse della slancio, ma ne ignorava la causa; laconoscerà, spero, quando un giorno leggerà queste pagine.Dall'impressione di una cosa così piccola il lettore può giudicare quella che mihanno lasciata tutte quelle che si riferiscono alla stessa epoca. . . .Nonostante tutto, l'aria della campagna non mi ridiede la mia primitiva salute. Erolanguente e lo divenni di più. . . . Non digerivo più e capii che non dovevo piùsperare di guarire. In questo stesso periodo mi accadde un incidente notevole, sia inse stesso, sia per le sue conseguenze che non cesseranno che con me.. . .Le vendemmie, la raccolta delle frutta ci allietarono la fine di questo anno e cilegarono sempre più alla vita rustica, all'ambiente della brava gente dalla qualeeravamo circondati. Vedemmo venire l'inverno con grande rimpianto e ritornammoin città come se fossimo andati in esilio; specialmente io che temevo di nonrivedere la primavera e credevo di dire addio per sempre alle Charmettes. Non lelasciai senza baciare la terra e gli alberi e senza girarmi parecchie voltenell'allontanarmi.Abbandonati da un pezzo i miei scolari, perduto l'interesse ai divertimenti e aisalotti della città, non uscivo più, non vedevo più nessuno, tranne mamma e ilsignor Salomon che era diventato da poco medico suo e mio, onest'uomo, uomo dispirito, gran cartesiano, parlava abbastanza bene del sistema del mondo e le sueconversazioni piacevoli ed istruttive mi giovarono più di tutte le sue prescrizioni.Non ho mai potuto soffrire questo stupido ed inutile chiacchierio delleconversazioni ordinarie; ma le conversazioni utili e solide mi hanno sempre fattogran piacere e ad esse non mi sono mai rifiutato. Presi molto interesse a quelle delsignor Salomon; mi sembrava di anticipare con lui qualcuna delle alte conoscenzeche la mia anima avrebbe acquistata staccandosi dalle sue pastoie. Questo interesseche avevo per lui si estendeva agli argomenti che trattava, e cominciai a cercare ilibri che potevano aiutarmi a comprenderli meglio. Quelli che univano fede escienza erano i più rispondenti a me; così in particolare quelli dell'oratorio di Port-Royal. Mi misi a leggerli o meglio a divorarli.Me ne capitò tra le mani uno del padre Lami intitolato Conversazioni sullascienza". Era come un'introduzione alla conoscenza dei libri che ne trattano. Lolessi e rilessi cento volte; decisi di farne la mia guida. Alla fine, poco a poco,

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malgrado il mio stato o forse, meglio, dal mio stato, mi sentii trascinato verso lostudio con una forza irresistibile; e pur guardando ogni giorno come l'ultimo deimiei giorni, studiavo con tanto ardore come se avessi dovuto vivere sempre.Dicevano che questo mi faceva male; io credo, per conto mio, che mi fece bene; enon soltanto alla mia anima, ma anche al mio corpo; infatti questa occupazione,alla quale mi appassionavo, mi divenne così deliziosa che, non pensando più aimiei mali, ne ero meno tormentato. E vero, tuttavia, che niente mi apportava unsollievo reale, ma poiché non avevo dei dolori vivi mi abituai a languire, a nondormire, a pensare invece di agire, e infine a considerare il continuo e lentodeperimento della mia macchina come un progresso inevitabile che la morte solapoteva arrestare.Quest'idea, non solo mi staccò da tutte le cure vane della vita, ma mi liberò dallanoia dei rimedi ai quali, mio malgrado, mi avevano sottoposto sino ad allora.Salomon, convinto che le sue droghe non potevano salvarmi, me ne risparmiò ildisgusto, e si contentò di trastullare il dolore della mia povera mamma conqualcuna di quelle ordinazioni inutili che alimentano la speranza dell'ammalato esalvano la fama del medico. Abbandonai la dieta rigida, ripresi l'uso del vino e tuttol'andamento della vita di un uomo sano, secondo la misura delle mie forze, sobrioin tutto, ma senza privarmi di niente. . . .Mi affezionai alla bottega del libraio Boucahrd frequentata da alcune persone colte;e poiché la primavera, che avevo creduto di non rivedere, era vicina, mi fornii dialcuni libri per le Charmettes, per il caso che avessi avuto la fortuna di ritornarvi.Ebbi questa fortuna e ne approfittai. La gioia con la quale vidi le prime gemme èinesprimibile. Rivedere la primavera era per me risuscitare in paradiso. Le nevicominciavano, appena a sciogliersi quando lasciammo la nostra prigione, e fummoabbastanza presto alle Charmettes per godervi i primi canti dell'usignolo. Da quelmomento non credetti più di dover morire; e veramente è strano che in campagnanon abbia avuto mai malattie gravi. Vi ho sofferto, molto, ma mai vi sono statoobbligato al letto. Spesso, sentendomi peggio del solito, ho detto: « Quando mivedrete vicino a morire portatemi sotto una quercia, vi prometto che resusciterò ».. . .

Questo ragazzo1, tuttavia; non era affatto di animo cattivo: amava mammà perchéera impossibile non amarla: non aveva neanche avversione per me, e quando gliintervalli dei suoi impeti permettevano che gli si parlasse, mi ascoltava talvoltamolto docilmente, convenendo con franchezza che non era che uno sciocco, dopodi che faceva, ugualmente, nuove sciocchezze.D'altra parte aveva un'intelligenza così limitata e dei gusti così bassi che eradifficile parlargli ragionevolmente, e quasi impossibile stare volentieri con lui. Alpossesso di una donna piena di grazie, aggiunse il gusto di una cameriera vecchia,rossa, sdentata, della quale mammà aveva la pazienza di sopportare il disgustososervizio, sebbene lei le facesse male al cuore. Mi accorsi di questo nuovo maneggioe ne rimasi furente d'indignazione.Ma mi accorsi di un'altra cosa che mi colpì ancora molto più vivamente e che migettò in uno scoraggiamento più profondo di tutto quello che, fino allora, mi erasuccesso. Fu il raffreddarsi di mamma verso di me. La privazione che mi eroimposta e che lei aveva fatto finta di approvare è una di quelle cose che le donnenon perdonano, qualunque faccia facciano, meno per la privazione che ne derivaper loro stesse, che per l'indifferenza che vi vedono per il loro possesso. Prendete ladonna più sensata, la più filosofa, la meno attaccata ai suoi sensi, il delitto piùirrimissibile che possa commettere verso di lei l'uomo del quale, per il resto, lei sipreoccupa di meno è di poterne godere e di non farlo.

1 Il nuovo favorito della sua amante-protettrice Madame de Warens.

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Questo deve essere ben senza eccezione, poiché una simpatia così spontanea e fortefu alterata in lei da una astinenza che non aveva che dei motivi di virtù, di stima edi attaccamento.Da allora cessai di trovare con lei quella intimità di cuore che fece sempre la piùdolce gioia del mio. Non si apriva più con me che quando aveva da lamentarsi delnuovo venuto. Quando loro stavano bene insieme io entravo poco nelle sueconfidenze. In conclusione lei, poco a poco, assumeva una maniera di essere dellaquale io non facevo più parte.La mia presenza le faceva piacere ancora, ma non ne aveva più bisogno e io avreipotuto trascorrere giorni interi senza vederla, senza che lei se ne accorgesse.Insensibilmente mi sentivo isolato e solo in quella stessa casa di cui prima erol'anima e dove, per così dire, vivevo il doppio.Mi abituai, poco a poco, a separarmi da tutto quello che vi si faceva, da quelli stessiche l'abitavano, e per risparmiarmi degli schianti continui, mi chiudevo coi mieilibri, o andavo a sospirare e a piangere a mio agio in mezzo ai boschi. Questa vitapresto mi divenne del tutto insopportabile. Sentii che la presenza personale e lalontananza di cuore di una donna che mi era così cara irritavano il mio dolore e checessando di vederla me ne sarei sentito meno crudelmente separato. Formai ilprogetto di abbandonare la sua casa, glielo dissi e lungi dall'opporvisi lo favorì. AGrenoble aveva un'amica, la signora Deybens, il cui marito era amico del signor diMably gran prevosto di Lione. Il signor Deybens mi propose l'educazione dei figlidel signor di Mably. Accettai e partii per Lione senza lasciare, né quasi sentire ilminimo rimpianto per una separazione di cui prima il solo pensiero ci avrebbe datole angosce della morte.

Libro Settimo

Dopo due anni di silenzio e di pazienza riprendo la penna, malgrado le miedecisioni. Lettori, sospendete il vostro giudizio sulle ragioni che mi forzano aquesto. Non potete giudicare che dopo avermi ascoltato.Avete visto scorrere la mia tranquilla giovinezza in una vita abbastanza uguale,abbastanza dolce, senza grandi traversie, né grandi prosperità. Questa mediocrità fuin parte opera della mia natura ardente, ma debole, ancora meno pronta aintraprendere che facile a scoraggiare, che usciva dal riposo a scosse, ma che virientrava per stanchezza e per inclinazione, e che, conducendomi sempre, lontanodalle grandi virtù e più lontano dai grandi vizi, alla vita oziosa e tranquilla per laquale mi sentivo nato, non mi ha mai permesso di arrivare a niente di grande, sianel bene che nel male.Che quadro diverso dovrò tosto tracciare! La sorte che per trent'anni favorì le mieinclinazioni, le avversò negli altri trenta; e, da questa opposizione continua tra lamia situazione e le mie tendenze, vedrete nascere degli errori enormi, dellesventure inaudite, e tutte le virtù che possono onorare l'avversità, tranne la forza.La mia prima parte è stata scritta tutta sulla memoria e ho dovuto farvi molti errori.Costretto a scrivere anche la seconda sulla memoria probabilmente ve ne farò moltidi più. I dolci ricordi dei miei begli anni, trascorsi con uguale semplicità edinnocenza, mi hanno lasciato mille impressioni piene di fascino che mi piacericordare continuamente. Vedrete presto come sono diverse quelle del resto dellamia vita. Ricordarle è rinnovarne l'amarezza. Lontano dall'inacerbire quella dellamia situazione con questi tristi ritorni, li scarto per quanto è possibile e spesso viriesco a tal punto che non posso più rintracciarli all'occorrenza. Questa facilità didimenticare i mali è una consolazione che il cielo mi ha procurato, tra quelli che ildestino doveva un giorno accumulare su di me. La mia memoria, che ricorda solo

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le cose piacevoli, è il felice contrappeso della mia immaginazione spaurita che nonmi fa prevedere che crudeli avveniri.Tutte le carte che avevo riunite per supplire alla mia memoria e guidarmi in questaimpresa, passate in altre mani, non torneranno più nelle mie. Non ho che una guidafedele sulla quale possa contare: è la catena dei sentimenti che hanno segnato laevoluzione del mio essere, e la cui impressione non si cancella dal mio cuore.Questi sentimenti mi ricorderanno abbastanza gli avvenimenti che li hanno fattinascere, per potermi illudere di narrarli fedelmente: e se vi è qualche omissione,qualche trasposizione di fatti o di date, cosa che può avvenire solo per avvenimentidi poco conto e che mi hanno colpito poco, per ogni fatto restano abbastanza tracceperché, nell'ordine di ciò che narrerò, possa rimetterlo facilmente al suo posto.Tuttavia, e per buona fortuna, vi è un periodo di sei o sette anni del quale ho notiziecerte in una raccolta di lettere trascritte, i cui originali sono nelle mani del signorDu Peyrou. Questa raccolta che finisce nel 1760 comprende tutto il tempo del miosoggiorno all'Eremitaggio e della mia clamorosa rottura con i miei sedicenti amici:epoca memorabile nella mia vita, che fu la sorgente di tutte le mie altre disgrazie.Quanto alle lettere originali più recenti che ancora mi restano, e che sono moltopoche, invece di trascriverle, continuando la raccolta, troppo voluminosa perché—possa sperare di sottrarla alla vigilanza dei miei Argo, le trascriverò in questostesso scritto quando mi sembrerà che possano fornire qualche schiarimento allaverità dei fatti, sia a mio vantaggio sia a mio carico. Non ho infatti paura che illettore dimentichi che faccio le mie confessioni, per credere che faccia la mia apo-logia; ma, dopo l'esposizione del mio progetto, egli non deve neanche aspettarsiche io taccia la verità quand'essa parla in mio favore. Del resto, questa secondaparte non ha che questa stessa verità in comune con la prima, né supera l'altra cheper l'importanza degli avvenimenti. Tolto questo non può che esserle inferiore intutto.Ho scritto la prima con piacere e con compiacimento, a mio agio a Wooton o nelcastello di Trie. Tutti i ricordi che dovevo risuscitare erano per me altrettante nuovegioie. Vi ritornavo incessantemente con un piacere nuovo e potevo rigirare senzafastidio le mie descrizioni sino a che non ne fossi stato contento. Oggi la miamemoria e la mia testa, indebolitesi, mi rendono quasi incapace di ogni lavoro; nonmi occupo di questo che per forza e col cuore stretto dall'angoscia. Esso non mioffre che sventure, tradimenti, perfidie, che ricordi tristi e laceranti. A costo ditutto, vorrei poter seppellire nella notte dei tempi ciò che debbo dire; e, costretto aparlare, mio malgrado, sono ridotto ancora a nascondermi, a usare astuzia, aingannare, ad avvilirmi alle cose per le quali meno ero nato. I soffitti sotto i qualivivo hanno gli occhi, i muri che mi circondano hanno le orecchie; circondato daspie e da sorveglianti malvolenti e vigilanti, inquieto e distratto getto, sulla carta, infretta e furtivamente, qualche parola interrotta che appena ho il tempo di rileggere,ancora meno di correggere. So che, malgrado le barriere immense cheammucchiano attorno a me, temono sempre che la verità trapeli da qualche fessura.Come fare per farla trasparire? Lo tento con poca speranza di successo; giudicatese da ciò si possono fare dei quadri piacevoli e dare loro un colorito molto at-traente.Avverto dunque quelli che vorranno cominciare questa lettura che nientecontinuandola può garantirli dalla noia, se non il desiderio di finire di conoscere unuomo, e l'amore puro della giustizia e della verità.Nella prima parte ho lasciato me stesso che partivo per Parigi, lasciando il cuorealle Charmettes, fondandovi il mio ultimo castello di Spagna, progettando diportarvi un giorno ai piedi di mammà, restituita a se stessa, i tesori che avreiguadagnati, e contando sul mio sistema di musica come su una fortuna sicura.

Avevamo una nuova albergatrice che era di Orléans. Ella prese dal suo paese, perlavorare la biancheria, una ragazza di circa ventidue o ventitré anni che mangiavacon noi come la padrona. Questa ragazza, certa Teresa Le Vasseur, era di buona

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famiglia. Suo padre era ufficiale della zecca di Orléans, sua madre mercantessa.Avevano molti figli. La zecca di Orléans, falli, il padre si trovò sul lastrico; lamadre, avendo subito delle bancarotte, si trovò male nei suoi affari, abbandonò ilcommercio e venne a Parigi con suo marito e sua figlia, che li sostentava entrambicol suo lavoro.La prima volta che vidi questa ragazza a tavola, fui colpito dal suo comportamentomodesto, e più ancora dal suo sguardo vivace e dolce che per me restò sempreunico. La tavola, oltre che dal signor Bonnefond, era composta da parecchi abatiirlandesi, guasconi e altra gente simile; la nostra stessa albergatrice conduceva unavita alquanto dissoluta; e là io ero il solo che parlasse e si comportassedecentemente. Cominciarono a stuzzicare la ragazza; presi la sua difesa. Subito ifrizzi caddero su di me. Anche se non avessi avuto nessuna inclinazione per questapovera ragazza, la compassione, la contraddizione me l'avrebbe data. Ho sempreamato l'onestà nei modi e nei propositi, soprattutto nei rapporti tra uomini e donne.Divenni apertamente il suo difensore. La vidi sensibile alle mie premure, e i suoisguardi, animati dalla riconoscenza che non osava esprimere con le parole,diventavano sempre più penetranti.Era molto timida; io lo ero anche. Il legame, che questo comune temperamentosembrava dovesse allontanare, fu tuttavia realizzato molto rapidamente.L'albergatrice che se ne accorse divenne furiosa e le sue cattiverie mi avvicinaronodi più alla piccola, la quale, non avendo altro appoggio che me nella casa, mivedeva uscire con dolore, e aspettava il ritorno del suo protettore. La relazione deinostri cuori, il convergere delle nostre inclinazioni ebbero presto il loro effettoordinario. Lei credette di vedere in me un onest'uomo; non si ingannò: io credetti divedere in lei una ragazza sensibile, semplice e senza civetteria, e non mi ingannaineanche. Le dichiarai anticipatamente che non l'avrei abbandonata, né sposata mai.L'amore, la stima, la sincerità ingenua furono i ministri del mio trionfo, ed è perchéil suo cuore era tenero e onesto che fui felice senza essere intraprendente.Il suo timore, che mi seccassi di non trovare in lei quello che lei credeva vicercassi, fece ritardare la mia felicità più di ogni altra cosa. La vidi interdetta econfusa prima di arréndersi; voleva farsi comprendere e non osava spiegarsi.Lontano dall'immaginare la vera causa del suo imbarazzo, ne immaginai una moltofalsa e molto insidiante per i suoi costumi, e, credendo che mi avvertisse che la miasalute correva dei rischi, caddi in perplessità che non mi trattennero, ma che perparecchi giorni avvelenarono la mia felicità. Poiché non ci comprendevamo l'unl'altro, le nostre conversazioni su questo argomento erano altrettanti enigmi eassurdità più che ridicoli. Lei fu quasi per credermi assolutamente pazzo. Alla fineci spiegammo: piangendo mi confessò un suo sbaglio, unico, all'usciredall'infanzia, frutto della sua ignoranza e dell'accortezza di un seduttore. Nonappena la compresi diedi in un grido: « Verginità! esclamai; è proprio a Parigi, èproprio a vent'anni che si cerca! Ah, mia Teresa, sono troppo felice di possederti,saggia e sana, e di non trovare che ciò che non cercavo ».Da principio non avevo pensato che a procurarmi un divertimento; mi accorsi cheavevo fatto di più e che mi ero data una compagna. Un po' di frequenza conquell'ottima ragazza, un po' di riflessione sulla mia situazione mi fecero capire che,non pensando che ai miei piaceri, avevo fatto molto per la mia felicità. Al postodell'ambizione spenta avevo bisogno di un sentimento vivo che riempisse il miocuore; per dir tutto, avevo bisogno di un successore a mammà, giacché non dovevopiù vivere con lei; avevo bisogno che qualcuna vivesse con il suo allievo e nellaquale io trovassi la semplicità, la docilità di cuore che lei aveva trovato in me; eranecessario che la dolcezza della vita privata e domestica mi compensasse dellacarriera brillante alla quale rinunciavo. Quando ero del tutto solo il mio cuore eravuoto, ma non ce ne voleva che uno per riempirlo. Il destino mi aveva tolto, miaveva alienato, almeno in parte, quello per il quale la natura mi aveva fatto. Erosolo da allora, giacché per me non vi fu mai via di mezzo tra tutto e niente. Trovai

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in Teresa il supplemento di cui avevo bisogno; per lei vissi felice quanto potevoesserlo, dato il corso degli avvenimenti.

Libro Ottavo

Ritornando a Parigi appresi la piacevole notizia che Diderot era uscito dalla torre eche gli avevano dato il castello e il parco di Vincennes come prigione sulla suaparola, con il permesso di vedere i suoi amici. Come mi fu duro non poterviaccorrere nello stesso istante! Ma trattenuto, per due o tre giorni, dalla signoraDupin per alcuni lavori indispensabili, dopo tre o quattro secoli d'impazienza, volaitra le braccia del mio amico. Momento inenarrabile! Non era solo. D'Alembert e iltesoriere della Sainte Chapelle erano con lui. Entrando, non vidi che lui, non feciche un salto, un grido, incollai il mio viso sul suo, lo strinsi forte senza parlargli inaltro modo che con i miei pianti e i miei singhiozzi; mi sentivo soffocare dallatenerezza e dalla gioia. Il suo primo moto dopo questo slancio di affetto fu divoltarsi verso il prete e dirgli: « Vedete, signore, come mi amano i miei amici ».Tutto preso dalla mia emozione non riflettei allora a questa maniera di trarnevantaggio. Ma dopo, ripensandoci qualche volta, ho sempre pensato che al posto diDiderot non sarebbe stata quella la prima idea che mi sarebbe venuta.Lo trovai molto scosso dalla sua prigione. Il torrione gli aveva fatto unaimpressione terribile e sebbene al castello stesse molto bene e fosse padrone dellesue passeggiate in un parco, che non era neanche cinto da muri, aveva bisognodella compagnia dei suoi amici per non abbandonarsi al suo umore nero. Poiché ioero certamente quello che compativa di più la sua pena, credetti di essere anchecolui la cui visita gli fosse di maggiore consolazione, e ogni due giorni, al più tardi,malgrado le occupazioni mi assorbissero molto, andavo a passare con lui ipomeriggi sia solo, sia con sua moglie.In quest'anno 1749 l'estate fu terribilmente calda. Tra Parigi e Vincennes ci sonodue leghe. Non essendo in condizioni da pagare le vetture, quando ero solo andavoa piedi, alle due del pomeriggio, e andavo in fretta per arrivare più presto. Glialberi della strada sempre potati, secondo la moda del paese, non davano quasinessuna ombra e spesso, spossato dal caldo e dalla stanchezza, mi sdraiavo perterra che non ne potevo più. Per moderare il mio passo pensai di prendere qualchelibro. Un giorno presi il « Mercurio di Francia » e, sempre camminando escorrendolo, vidi il problema proposto dall'Accademia di Digione per il premiodell'anno successivo: Se il progresso delle scienze delle arti ha contribuito acorrompere o a migliorare i costumi.Non appena lessi questo, vidi un altro universo e divenni un altro uomo. Sebbeneabbia un ricordo vivo dell'impressione che ne ricevetti, i dettagli mi sono sfuggiti,da quando li ho affidati alla carta in una delle mie quattro lettere al signor diMalesherbes. È una delle stranezze della mia memoria che merita di esser narrata.Mi serve fino a che mi affido a lei; non appena confido alla carta l'argomento, miabbandona e, una volta scritta una cosa, non me ne ricordo più del tutto. Questastranezza mi perseguita finanche nella musica. Prima di averla imparata conoscevoa memoria una quantità di canzoni: non appena ho saputo cantare le arie scritte nonho potuto ritenerne nessuna e temo che, di quelle che ho preferito, oggi non sapreicantarne una intera.Quel che mi ricordo molto distintamente in questa occasione è che, arrivando aVincennes, ero in una agitazione vicina al delirio. Diderot se ne accorse; glienedissi la causa e gli lessi la prosopopea di Fabrizio scritta con il lapis sotto unalbero. Mi esortò a dare il via alle mie idee e a concorrere al premio.Tutto il resto della mia vita e delle mie sventure fu l'effetto e la conseguenzainevitabile di questo momento di smarrimento. I miei sentimenti ascesero con la

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più inconcepibile rapidità al tono delle mie idee. Tutte le mie piccole passionifurono soffocate dall'entusiasmo per la verità, la libertà, la virtù, e la cosa piùsorprendente è che questa effervescenza si mantenne nel mio cuore, per più diquattro o cinque anni, a un livello così alto, come non è mai stata nel cuore di unaltro uomo. . . .Quando terminai questo discorso, lo mostrai a Diderot, il quale ne fu contento e miindicò qualche correzione. Pur nondimeno, questo lavoro pieno di calore e di forza,manca del tutto di ordine e di logica; tra tutti quelli che sono usciti dalla mia pennaè il più debole nel ragionamento e il più povero di stile e di armonia, ma anche se siè nati con qualche capacità, l'arte di scrivere non si apprende d'un colpo.Spedii questo lavoro senza parlarne a nessun altro, se non, mi sembra, a Grimmcon il quale, dopo il suo ingresso dal conte di Frièse, cominciavo a vivere nella piùgrande intimità. Egli aveva un clavicembalo che ci serviva da punto di riunione eattorno al quale passavo, con lui, tutti i miei momenti liberi a cantare arie italiane ebarcarole, senza tregua e senza riposo, dalla mattina alla sera, o piuttosto dalla seraalla mattina, e, quando non mi si trovava dalla signora Dupin, si era sicuri ditrovarmi da Grimm, o almeno con lui a passeggio, o a teatro.Smisi di andare alla commedia italiana dove avevo ingresso libero, ma che a luinon piaceva, per andare con lui, pagando, alla commedia francese della quale eraappassionato. Insomma, una attrazione così forte mi legava a questo giovane e nedivenni talmente inseparabile, che anche la povera zia restava trascurata; cioè lavedevo meno; poiché mai per un momento, nella mia vita, si è affievolito il mioattaccamento per lei.Questa impossibilità di dividere alle mie passioni il poco tempo che avevo liberorinnovò, più forte che mai, il desiderio, che già avevo da lungo tempo, di fare casaunica con Teresa: ma l'ostacolo della sua famiglia numerosa, e soprattutto lamancanza di danaro per comprare i mobili, mi aveva trattenuto sino allora.L'occasione di fare uno sforzo si presentò e io ne approfittai. . . .La signora Le Vasnon mancava di spirito, si piccava e di educazione e di arie delgran mondo; ma aveva una misteriosa ipocrisia che mi era insopportabile, davapessimi consigli a sua figlia, cercava renderla falsa con me e faceva moine ai mieiamici separatamente e a spese gli uni degli altri e alle mie: quanto al resto, madreabbastanza buona perché trovava il suo tornaconto ad esserlo, copriva gli sbagli disua figlia perché ne approfittava. Questa donna, che colmavo di attenzioni, di cure,di piccoli doni e dalla quale tenevo straordinariamente a farmi voler bene, era, perla mia impossibilità a giungervi, la sola causa di afflizione che avessi in casa mia;per il resto, posso dire di aver gustato durante questi sei o sette anni la più perfettafelicità domestica che la debolezza umana possa comportare. Il cuore della miaTeresa era quello di un angelo, il nostro attaccamento cresceva con la nostraintimità e sentivamo sempre di più, giorno per giorno, come eravamo fatti l'uno perl'altra. Se i nostri piaceri potessero esser descritti farebbero ridere per la lorosemplicità: le passeggiate in due fuori città, dove spendevo con magnificenza otto odieci soldi in qualche bettola; le cenette all'inferriata della mia finestra, seduti difronte su due piccole sedie poste su un baule che ne occupava la larghezza delvano. In questa situazione la finestra ci serviva da tavola; respiravamo l'aria aperta;potevamo vedere quanto ci circondava, i passanti; e, sebbene fossimo al quartopiano, potevamo sentirci in strada anche mangiando.Chi saprà descrivere, chi comprenderà l'incanto di questi pasti formati da un quartodi pane ordinario, da qualche ciliegia, da un pezzetto di formaggio e da unquartuccio di vino che bevevamo in due? Amicizia, confidenza, intimità, dolcezzad'animo, che delizia quando siete con noi! Qualche volta restavamo là sino amezzanotte, senza pensarci e senza accorgerci dell'ora, se la vecchia madre non ciavesse avvertiti. Ma lasciamo stare questi dettagli che potranno sembrare insipidi, oridicoli: l'ho sempre detto e compreso, la vera gioia non si descrive.

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L'anno successivo 1750, quando non pensavo più al mio discorso, seppi che essoaveva ottenuto il premio a Digione. Questa notizia risvegliò tutte le idee che me loavevano dettato, le animò di una forza nuova e finì di mettere in fermento, nel miocuore, quel primo lievito di eroismo e di virtù che mio padre, la mia patria ePlutarco vi avevano messo durante la mia infanzia. Non trovai più niente di grandee di bello se non essere libero, virtuoso, al di sopra della fortuna e di ogni giudizio,e bastare a se stesso. Sebbene la vergogna nociva e il timore dei fischi miimpedissero, da principio, di vivere secondo questi principi e di romperlabruscamente con le massime del mio secolo, sin da allora ne abbi la decisa volontàe non tardai ad attuarla che il tempo necessario perché le contraddizioni lairritassero e la rendessero trionfante.Mentre filosofeggiavo sui doveri dell'uomo, sopraggiunse un avvenimento a farmiriflettere meglio sui miei. Teresa rimase incinta per la terza volta.Troppo sincero con me stesso, troppo fiero nel mio intimo per voler smentire i mieiprincipi con le mie azioni, mi misi ad esaminare il destino dei miei figli, e i mieirapporti con la loro madre, secondo le leggi della natura, della giustizia e dellaragione, e secondo quelle di questa religione pura e santa, eterna come il suo autoreche gli uomini hanno contaminato fingendo di volerla purificare, e della quale conle loro formule non hanno fatto che una religione di parole, visto che costa pocoordinare l'impossibile quando ci si dispensa di praticarlo.Se mi ingannai nei miei risultati, niente è più meraviglioso della sicurezza d'animocon la quale mi ci abbandonai. Se fossi stato uno di quegli uomini mal nati, sordialla dolce voce della natura, nell'intimo dei quali nessun vero sentimento digiustizia e di umanità germinò mai, questo indurimento sarebbe naturale, ma quelcuore caldo, quella sensibilità tanto viva, quella facilità ad affezionarsi, la forza conla quale gli affetti mi soggiogano, gli schianti crudeli quando bisogna romperli, labenevolenza innata per tutti i miei simili, l'amore ardente per il grande, il vero, ilbello, il giusto, l'orrore del male, qualunque fosse, l'incapacità di odiare, di nuoceree anche di volerlo, la commozione, la viva e dolce emozione che provo di fronte atutto quanto è virtuoso generoso amabile; tutto questo può accordarsi nella stessaanima con la depravazione che fa calpestare senza alcuno scrupolo il più dolce deidoveri? No, lo sento e lo dico ad alta voce, non è possibile; mai per un solo istantenella sua vita Gian Giacomo ha potuto essere un uomo senza viscere, senzacostumi, un padre snaturato. Ho potuto ingannarmi, ma non indurirmi.Se esponessi le mie ragioni, direi troppo. Giacché hanno potuto sedurmi,sedurrebbero molti altri e non voglio esporre i giovani che mi leggeranno alasciarsi ingannare dallo stesso errore. Mi accontenterò di dire che esso fu tale che,da quel momento, non guardai più i miei legami con Teresa che come una unioneonesta e santa, sebbene libera e volontaria; la mia fedeltà verso di lei, come undovere indispensabile, finché la unione durava; l'infrazione che avevo fatto unasola volta come un vero adulterio. E quanto ai miei figli, abbandonandoliall'educazione pubblica, giacché non potevo allevarli io stesso, destinandoli adiventare operai, o contadini, piuttosto che avventurieri e cercatori di fortuna,credetti di agire da cittadino e da padre; e guardai me stesso come un membro dellarepubblica di Platone. Dopo, più di una volta, i rimpianti del mio cuore mi hannodetto che mi ero ingannato; ma, anziché sentire lo stesso con la ragione, ho spessobenedetto il cielo di averli così preservati dal destino del loro padre e da quello cheli avrebbe minacciati, quando sarei stato costretto ad abbandonarli. Se li avessiaffidati alla signora d'Èpinay o alla signora di Luxembourg, le quali, o per amicizia,o per generosità, o per qualche altra ragione, hanno voluto incaricarsene in seguito,sarebbero stati educati ad essere persone oneste? Non lo so; ma sono sicuro che liavrebbero portati ad odiare, forse a tradire i loro genitori: è cento volte meglio chenon li abbiano conosciuti.Il mio terzo figlio fu dunque messo ai trovatelli, come gli altri due; e fu lo stessoper i due che seguirono; infatti ne ho avuti cinque in tutto. Questa sistemazione misembrò così buona, così sensata che, se non me ne vantai apertamente, fu

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esclusivamente per riguardo verso la madre, ma lo dissi a tutti quelli ai quali inostri rapporti non erano ignoti; lo dissi a Diderot, a Grimm; lo dissi poi alla si-gnora d'Épinay e dopo ancora alla signora di Luxembourg, e a testa alta, confranchezza, senza alcuna necessità, quando potevo facilmente nasconderlo a tutti.

Al tempo di cui parlo, forse perché mi ero stancato col noioso lavoro di quellamaledetta cassa, ricaddi peggio di prima e restai a letto, quasi sei settimane, nel piùtriste stato che si possa immaginare. La signora Dupin mi mandò il celebreMorand, il quale, malgrado la sua abilità e la delicatezza della sua mano, mi fecesoffrire dei dolori incredibili e non riuscì mai a sbloccarmi. Mi consigliò diricorrere a Daran, i cui cateteri più flessibili, infatti, riuscirono ad insinuarsi e avincere l'ostacolo; ma, riferendo delle mie condizioni alla signora Dupin, Morandle dichiarò che tra sei mesi non sarei stato più in vita.Questo discorso mi giunse alle orecchie, e mi fece fare delle serie riflessioni sulmio stato e sulla bestialità di sacrificare la tranquillità e il piacere dei pochi giorniche mi restavano da vivere all'assoggettamento di un impiego, per il quale nonsentivo che disgusto. Del resto, come accordare i severi principi che avevo adottaticon una condizione che vi si adattava così poco? E non avrei dovuto avere un belcoraggio io, cassiere di un ricevitore generale delle finanze, a predicare ildisinteresse e la povertà?Queste idee, con la febbre fermentarono così bene nella mia testa, vi sicombinarono con tanta forza che niente, da allora, ha potuto sradicarle e, durante lamia convalescenza, a sangue freddo, mi confermai in tutte le risoluzioni che avevoprese nel mio delirio. Rinunciai per sempre ad ogni progetto di fortuna e diavanzamento.Deciso a trascorrere nella indipendenza e nella povertà il poco tempo che mirestava da vivere, rivolsi tutte le forze dell'anima mia a spezzare i ferridell'opinione pubblica, e a fare con coraggio tutto quello che mi sembrava fossebene, senza intimidirmi, per nulla, del giudizio degli uomini.Gli ostacoli contro i quali dovetti lottare e gli sforzi che feci per trionfarne sonoincredibili. Vi riuscii, per quanto era possibile, e meglio di quanto io stesso nonavessi sperato. Se avessi scosso il giogo della amicizia così bene, come quello dellaopinione pubblica, sarei riuscito nel mio progetto, forse il più grande, o almeno ilpiù utile alla virtù che un mortale abbia mai concepito: ma mentre calpestavo igiudizi insensati della turba volgare dei sedicenti grandi e dei sedicenti saggi, milasciavo soggiogare e menare come un bimbo dai sedicenti amici, i quali, gelosi divedermi andare fiero e solo per una strada nuova, sempre mostrando di occuparsimolto a rendermi felice, in realtà non si occupavano che a rendermi ridicolo, ecominciarono col lavorare ad avvilirmi per arrivare dopo a diffamarmi. Fu meno lamia celebrità letteraria che la mia riforma personale, della quale segno qui l'epoca,che mi attirò la loro gelosia: forse mi avrebbero perdonato di brillare nell'arte delloscrivere, ma non poterono perdonarmi di dare con la mia condotta un esempio chenon volevano seguire e che sembrava li infastidisse.Ero nato per l'amicizia, il mio carattere facile e dolce la coltivava senza fatica.Finché vissi ignorato dal pubblico fui amato da tutti quelli che mi conobbero, e nonebbi un solo nemico: ma non appena ebbi un nome, non ebbi più amici. Fu unagrande disgrazia; e una più grande ancora fu di essere circondato da persone cheprendevano questo nome e che usarono dei diritti che esso dava loroesclusivamente per trascinarmi alla rovina. Il seguito di queste memorie svolgeràquesta odiosa trama; qua non ne mostro che l'origine, presto se ne vedrà formare ilprimo nodo.Nella indipendenza nella quale volevo vivere bisognava pur sostentarsi. Pensai adun nuovo mezzo molto semplice: copiare musica a tanto per pagina. Se qualcheoccupazione più solida avesse raggiunto lo stesso scopo l'avrei presa, ma poichéquesta era di mio gusto, la sola che potesse darmi pane giorno per giorno, miattenni ad essa. Credendo di non dovere più essere previdente facendo tacere la

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vanità, da cassiere di un ricevitore generale delle finanze divenni copista di musica.Credetti di aver guadagnato molto con questa scelta, e me ne sono così pocopentito, che non ho abbandonato questo mestiere che per forza, per riprenderlo nonappena fosse stato possibile.Il successo del mio primo discorso mi rese più facile realizzare questa decisione.Diderot si era incaricato di farlo stampare. Mentre ero a letto, mi scrisse unbiglietto per darmi notizia della pubblicazione e dell'effetto. Mi scriveva: « Siinnalza oltre le nubi, non vi è altro esempio di simile successo ». Questo favore delpubblico, per nulla ricercato e per un autore sconosciuto, mi diede la prima verasicurezza del mio ingegno, del quale avevo sempre dubitato, sino ad allora.Compresi quanto vantaggio potevo trarne per la decisione che stavo per prendere, epensai che un copista, in un certo modo celebre nelle lettere, non avrebbe dovutomancare di lavoro.Non appena presi definitivamente la mia risoluzione, scrissi un biglietto al signordi Francueil per partecipargliela, per ringraziarlo, come la signora Dupin, di tutte leloro bontà e per chiedere la loro clientela. Francueil, non comprendendo niente conquesto biglietto e credendomi ancora nel delirio della febbre, accorse a casa mia;ma mi trovò così fermo nella mia decisione che non riuscì a scuoterla. Andò a direalla signora Dupin e a tutti che ero diventato pazzo; lasciai dire e continuai.Cominciai la mia riforma dal mio vestiario, abbandonai le dorature e le calzebianche, adottai una parrucca rotonda, posai la spada, vendetti il mio orologio,dicendomi con incredibile gioia: « Grazie al cielo non avrò più bisogno di sapereche ora è ». Il signor di Francueil ebbe la correttezza di aspettare ancora a lungo,prima di provvedere alla sua cassa. Alla fine, vedendomi deciso, la affidò al signord'Alibart, già tutore del giovane Chenonceaux e conosciuto in botanica per la suaFlora parisiensis.Per quanto austera fosse la mia riforma estetica, da principio non la estesi sino allamia biancheria, che era bella ed abbondante, resto nel mio corredo di Venezia, alquale ero particolarmente attaccato. A furia di farne un oggetto di pulizia ne avevofatto un oggetto di lusso che mi era dispendioso. Qualcuno mi rese il servizio diliberarmi da questa schiavitù. La vigilia di Natale, mentre le donne erano ai vespried io al concerto sacro, forzarono la porta di un granaio dove era sciorinata tutta lanostra biancheria, dopo un bucato fatto poco prima. Rubarono tutto e tra l'altroquarantadue camicie mie di tela bellissima e che costituivano il pezzo forte del miocorredo. . . . Questa avventura mi guarì dalla passione della biancheria bella, e daallora non ne ho avuto che di molto comune, più adattata al resto del mioequipaggiamento.Completata così la mia riforma, non mi preoccupai più di altro che di consolidarlae renderla, duratura, lavorando a sradicare dal mio cuore tutto quello che ancora eraligio al giudizio degli uomini, tutto quello che, per timore di biasimo, potevasviarmi da quel che era buono e ragionevole in se stesso. Aiutata dallo scalpore chefaceva la mia opera, anche la mia decisione fece scalpore e mi procacciò clienti; inmaniera che cominciai il mio mestiere con abbastanza successo.Tuttavia, diverse ragioni mi impedirono di riuscirvi come avrei potuto in altrecircostanze. Prima di tutto la mia cattiva salute. . . .Le occupazioni letterarie furono un'altra distrazione, non meno dannosa al miolavoro di tutti i giorni. Non appena apparve il mio discorso, i difensori delle letteresi scagliarono su di me, tutti insieme. Indignato che tanti piccoli signor Josse2, iquali non capivano neanche il problema, volessero giudicare da maestri, presi lapenna e ne trattai alcuni in maniera da lasciarli coperti di ridicolo. . . .Tutta questa polemica mi occupava molto, con molta perdita di tempo per il miocopiato, poco vantaggio per la verità e poco vantaggio per la mia borsa, poichéPissot, che era allora il mio libraio, mi diede sempre molto poco per i mieiopuscoli, spesso niente. Per esempio non ebbi un quattrino dal mio primo discorso;

2 Personaggio di una commedia di Molière, divenuto il tipo proverbiale del consigliere interessato.

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Diderot glielo diede gratuitamente. Bisognava aspettare molto e strappare soldo asoldo il poco che mi dava. Intanto il copiato non procedeva. Facevo due mestieri,era il metodo per fare male l'uno e l'altro.Essi erano in contrasto ancora per le diverse maniere di vivere alle quali micostringevano. Il successo dei miei primi scritti mi aveva reso di moda. Ladecisione che avevo presa eccitava la curiosità: volevano conoscere quest'uomostrano che non cercava nessuno e non si preoccupava di niente, tranne che di viverelibero a modo suo; bastava questo perché non lo potesse. La mia camera erasempre piena di gente che con diversi pretesti veniva a rubarmi il mio tempo. Ledonne usavano mille astuzie per avermi a pranzo. Più trattavo male le persone piùloro si ostinavano. Non potevo respingere tutti. Facendomi mille nemici con i mieirifiuti, ero sempre sopraffatto dalla mia compiacenza, e, in qualunque maniera micomportassi, non avevo un'ora al giorno per me.Capii allora che non è sempre così facile come si immagina essere povero edindipendente. Volevo vivere del mio lavoro; il pubblico non voleva. Escogitavomille modi per ricompensarmi del tempo che mi facevano perdere. I regali di ognispecie venivano a cercarmi. Presto avrei dovuto mostrarmi come Pulcinella, a tantoper persona. Non conosco un asservimento più avvilente e più crudele di quello.Non vi trovai altro rimedio che rifiutare i regali grandi e piccoli, senza fareeccezione per nessuno. Tutto ciò non fece che attrarre i donatori che volevanoavere la gloria di vincere la mia resistenza e costringermi ad essere loro obbligato,mio malgrado. Chi non mi avrebbe dato uno scudo, se glielo avessi domandato,non cessava di importunarmi con le sue offerte, e, per vendicarsi di vederlerespinte, tacciava i miei rifiuti di arroganza e ostentazione. . . .Questi urti continui e le noie quotidiane delle quali ero vittima finirono colrendermi sgradevole il mio soggiorno a Parigi. Quando i miei malanni mipermettevano di uscire ed io non mi lasciavo trascinare qua o là dai mieiconoscenti, andavo a passeggiare solo, pensavo al mio grande sistema, affidavoqualche cosa alla carta grazie ad una matita e ad un libretto che avevo sempre nellamia tasca. Ecco come le noie impreviste di una maniera di vivere che avevo sceltoio stesso mi fecero dedicare alla letteratura per cercarvi sollievo, ed ecco perché, intutte le mie prime opere, trasfusi la collera e lo stato d'animo che me ne facevanooccupare.Ancora un'altra cosa vi contribuiva. Lanciato nel mondo, mio malgrado, senzaaverne il fare e senza essere in grado di acquistarlo, pensai di assumerne uno mioparticolare che me ne dispensasse. Poiché la mia stupida e sgradevole timidezzainvincibile aveva origine dal timore di venir meno alle buone maniere, decisi dicalpestarle tutte. Divenni cinico e caustico per vergogna, e finsi di disprezzare labuona educazione che non sapevo seguire. È vero che questa rudezza, conforme aimiei nuovi principi, si nobilitava nella mia anima, vi assumeva l'intrepidezza dellavirtù; ed oso dire che è proprio su questa augusta base che si è sorretta meglio e piùa lungo di quanto non ci si sarebbe dovuto aspettare da uno sforzo così contrario almio carattere. Tuttavia, malgrado la fama di misantropia che il mio aspetto equalche frase felice mi fecero in società, è certo che, in privato, rappresentaisempre male la mia parte, che i miei amici e i miei conoscenti menavano questoorso selvaggio come un agnello, e che limitando i miei sarcasmi ad alcune veritàdure, ma generali, non ho saputo mai dire a nessuno una sola parola scortese.

Capisco perfettamente che, se un giorno queste memorie arriveranno a veder laluce, io stesso eterno qui il ricordo di un fatto del quale volevo cancellare la traccia,ma ne trasmetto molti altri, mio malgrado. Il nobile scopo del mio lavoro chesempre è presente ai miei occhi, il preciso dovere di adempierlo pienamente non milasceranno distogliere da considerazioni più deboli che potrebbero allontanarmene.Nella strana singolare situazione nella quale mi trovo mi sento di dover troppo allaverità per dovere di più ad altri.

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Per conoscermi bene bisogna conoscermi in tutti i miei rapporti buoni e cattivi. Lemie confessioni sono necessariamente legate con quelle di molte persone: faccio lemie e le altrui con la stessa franchezza in tutto quanto si riferisce a me, noncredendo di dovere a chiunque altro maggiore riguardo quanto non ne abbia per mestesso, e volendo tuttavia averne di più. Voglio essere sempre giusto e sincero, diredegli altri bene fino a che mi sarà possibile, non dire mai che il male che miriguarda e per quel tanto che vi sono costretto. Chi, nelle condizioni nelle quali mihanno messo, ha il diritto di esigere di più da me?Le mie confessioni non sono fatte per apparire, me vivo, né mentre sono vive lepersone di cui vi è trattato. Se fossi padrone del mio destino e di quello di questoscritto, esso non vedrebbe la luce che molto tempo dopo la mia morte e la loro. Magli sforzi che il terrore della verità fa fare ai miei potenti oppressori, percancellarne le tracce, mi costringono a fare, per conservarle, tutti gli sforzipermessi dal più preciso diritto e dalla più severa giustizia. Se la mia memoria sidovesse spegnere con me, piuttosto che compromettere qualcuno soffrirei senzafiatare un obbrobrio ingiusto e passeggero: ma poiché il mio nome deve vivere epassare ai posteri, debbo a me stesso di cercar di trasmettere con esso il ricordodell'uomo sfortunato che lo portò, quale fu realmente e non quale i suoi iniquinemici lavorano incessantemente a dipingerlo.

Libro Nono

L'impazienza di abitare in campagna non mi fece aspettare il ritorno della bellastagione e non appena il mio alloggio fu pronto mi affrettai ad andarvi, seguitodalla baia dell'ambiente di Holbach, dove si prevedeva, pubblicamente, che nonavrei sopportato neanche tre mesi di solitudine, e che presto mi avrebbero vistoritornare a vivere a Parigi come loro, vergognoso per poco. Io che, lontano dal mioelemento da più di quindici anni, agognavo solo l'ora di rientrarvi, non facevoneanche attenzione ai loro scherzi. Da quando mi ero lanciato nel mondo, miomalgrado, non avevo cessato di rimpiangere le mie care Charmettes e la dolce vitache vi avevo condotta. Mi sentivo fatto per la campagna e la vita ritirata; nonpotevo vivere felice in altro luogo: a Venezia nel vortice dei pubblici affari, nelladignità di una certa funzione rappresentativa, nell'orgoglio dei progetti di carriera; aParigi nel turbinio del gran mondo, nella sensualità dei pranzi, nello splendoredegli spettacoli, nel fumo della vanità, i miei boschi, i miei ruscelli, le miepasseggiate solitarie venivano sempre a distrarmi con il loro ricordo, a rattristarmi,a strapparmi sospiri e desideri. Tutti i lavori ai quali avevo potuto sobbarcarmi,tutti i progetti di ambizione che avevano animato il mio zelo, non avevano altroscopo che arrivare: un giorno, a quei felici ozi campestri, ai quali ora speravo diessere giunto.Senza essere giunto all'onesto benessere che solo avevo creduto mi ci potessecondurre, pensavo di essere in condizione da farne a meno, per la mia particolaresituazione, e poter arrivare allo stesso scopo attraverso una strada del tutto opposta.Non avevo un soldo di rendita, ma avevo un nome, delle capacità; ero sobrio e miero liberato dalle esigenze più dispendiose, tutte quelle dell'opinione pubblica.Oltre a ciò, sebbene pigro, ero laborioso quando volevo esserlo, e la mia pigriziaera non quella di un fannullone, ma quella di un uomo indipendente che non salavorare che quando vuole. Il mio mestiere di copista musicale non era né brillante,né lucroso, ma era sicuro. In società mi erano grati di aver avuto il coraggio disceglierlo. Potevo esser certo che il lavoro non mi sarebbe mancato e che,lavorando bene, avrebbe potuto bastarmi. Duemila franchi che mi restavano dalguadagno sull'Indovino del villaggio e sugli altri miei scritti costituivano un di piùper non essere alle strette, e molte opere che avevo in lavorazione mi

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promettevano, senza vessare gli editori, dei supplementi sufficienti per lavorare concomodo, senza sovraccaricarmi e anche utilizzando gli ozi della passeggiata.La mia piccola famiglia, composta da tre persone che si occupavano tutteutilmente, non richiedeva molte spese. Insomma le mie risorse, proporzionate aimiei bisogni e ai miei desideri, potevano ragionevolmente promettermi una vitafelice sulla strada che le mie tendenze mi avevano fatto scegliere.Avrei potuto dedicarmi interamente alla occupazione più rimunerativa, e anzichéasservire la mia penna alla copia dedicarla interamente agli scritti, che per loslancio che avevo preso e che mi sentivo in grado di mantenere, potevano farmivivere nell'abbondanza ed anche nella ricchezza, se avessi appena voluto uniredelle manovre di autore alla cura di pubblicare buoni libri. Ma, senza ripetere ciòche ho detto sullo stesso argomento, aggiungerò soltanto che scrivere libri perguadagnarmi il pane avrebbe presto soffocato il mio genio e ucciso il mio talento.Esso era non tanto nella mia penna quanto nel mio cuore e, nato da una maniera dipensare nobile e fiera, questa sola poteva alimentarlo. Niente di forte, niente digrande può uscire da una penna del tutto venale. La necessita, l'avidità forse, miavrebbe fatto fare più presto che bene. Se il bisogno del successo non mi avessecacciato tra le cabale, mi avrebbe fatto meno cercar di dire cose utili e vere, checose che piacessero alla moltitudine; e da scrittore distinto, quale potevo essere,non sarei stato che un imbrattatore di carta. No, no; ho sempre sentito che il lavorodi autore è, e può essere, rispettabile e illustre, solo finché non è un mestiere. Ètroppo difficile pensare nobilmente quando non si pensa che per vivere. Per potere,per osar dire delle grandi verità, non bisogna dipendere dal successo.Davo i miei libri al pubblico con la certezza di aver parlato per il bene comune,senza nessuna preoccupazione per il resto. Se l'opera veniva respinta tanto peggioper coloro che non volevano profittarne. Io non avevo bisogno della loroapprovazione per vivere. Avevo un mestiere che poteva sfamarmi, se i miei librinon si vendevano; ed è proprio questo che li faceva vendere.Fu il 9 aprile 1756 che abbandonai la città per non abitarvi più; infatti nonconsidero tali i brevi soggiorni che ho avuto dopo, sia a Parigi che in altre città,sempre di passaggio e sempre mio malgrado. . . .Eccomi ora finalmente in un asilo piacevole e solitario, padrone di trascorrervi imiei giorni in quella vita indipendente, uguale e pacifica per la quale mi sentivonato. Prima di parlare dell'effetto che questa vita così nuova per me fece sul miocuore, è giusto rivederne i segreti sentimenti, per poter seguire meglio nella suacausa il progresso di queste nuove modificazioni.Ho sempre considerato il giorno che mi unì alla mia Teresa, come quello chedeterminò il mio essere morale. Avevo bisogno di un affetto giacché quello chedoveva bastarmi era stato, alla fine, così crudelmente spezzato. La sete di felicitànon si estingue nel cuore dell'uomo. Mammà invecchiava e si avviliva! Mi erachiaro che non potevo più esser felice in questo mondo. Perduta ogni speranza dicondividere la sua, dovevo cercare una felicità a me confacente. Per qualche tempoondeggiai d'idea in idea, di progetto in progetto. Il mio viaggio a Venezia miavrebbe lanciato negli affari pubblici, se l'uomo con il quale mi ero messo avesseavuto senso comune. Sono facile allo scoraggiamento, soprattutto nelle impresefaticose e a lunga scadenza. L'insuccesso di questa mi disgustò di ogni altra e,guardando, secondo la mia antica massima, gli oggetti lontani come le lusinghe diun inganno, decisi ormai di vivere giorno per giorno, non vedendo più nella vitaniente che potesse impegnarmi.Fu proprio allora che ci conoscemmo. Il carattere dolce di questa buona ragazza misembrò che si adattasse così bene al mio, che mi unii a lei di un affetto a prova deltempo e dei torti e che si è accresciuto anche attraverso ciò che avrebbe dovutospezzarlo. In seguito conoscerete la forza di questo affetto, quando scoprirò lepiaghe, le trafitture con le quali lei ha torturato il mio cuore nell'imperversare dellemie sciagure, senza che mai, sino al momento in cui scrivo questo, mi sia sfuggitacon nessuno una sola parola di sfogo. . . .

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Io mi ripeto, si sa, ma è necessario. Il primo di tutti i miei bisogni, il più grande, ilpiù forte, il più inestinguibile era tutto nel mio cuore: era il bisogno di unacompagnia intima, e intima quanto poteva esserlo; per questo soprattutto avevobisogno di una donna più che di un uomo, di un'amica più che di un amico. Questostrano bisogno era tale che la più stretta unione dei corpi non poteva bastare: avreiavuto bisogno di due anime nello stesso corpo; senza questo sentivo sempre unvuoto.Credetti di esser arrivato a non sentirlo più. Questa giovane donna, amabile permille eccellenti qualità, e allora anche per la sua figura senza ombra di arte o dicivetteria, avrebbe racchiusa in sé sola la mia esistenza, se io avessi potutoracchiudere la sua in me, come avevo sperato. Non avevo niente da temere da partedegli uomini; sono sicuro di essere il solo che lei abbia veramente amato; e i suoisensi tranquilli non le hanno mai chiesto altri, anche quando io per lei non fui piùuno, sotto questo aspetto. Io non avevo famiglia; lei ne aveva una; e questafamiglia i cui membri erano tutti troppo diversi da lei non fu tale che io potessifarne la mia. Fu questa la prima causa della mia infelicità. Che cosa non avrei datoper diventare il figlio di sua madre! Feci di tutto per riuscirci e non riuscii.Ebbi un bel volere unire tutti i nostri interessi, mi fu impossibile. Se ne creò sempreuno diverso dal mio, contrario al mio e anche a quello di sua figlia che già ne erapiù separato. . . . Dedita a sua madre e ai suoi, fu più loro che mia o di se stessa. . . .Ecco come in un affetto sincero e reciproco, nel quale misi tutta la tenerezza delmio cuore, il vuoto di questo cuore non fu mai ben colmato. I figli che lo avrebberocolmato, vennero; fu ancora peggio. Fremetti di abbandonarli a questa famigliamale educata, perché venissero educati ancora peggio. I rischi dell'educazione deitrovatelli erano per loro cento volte meno funesti. Questa ragione della decisioneche presi, più forte di tutte quelle che comunicai nella mia lettera alla signora diFrancueil, fu la sola che non osai dirle.Fin tanto che lo potevo, preferii non discolparmi di un biasimo così grave erisparmiare la famiglia di una persona che amavo. Ma, dai costumi del suo infelicefratello, potete giudicare, checché se ne possa dire, se dovevo esporre i miei figli aricevere una educazione simile alla sua.Non potendo gustare nella sua pienezza questa intima unione, di cui sentivo ilbisogno, vi cercavo dei completamenti che non ne riempivano il vuoto, ma che melo facevano sentire di meno. Per la mancanza di un amico, che fosse tutto per me,avevo bisogno di amici il cui impulso superasse la mia inerzia. Fu così che coltivai,che rafforzai i miei rapporti con Diderot, con l'abate di Condillac; che ne strinsinuovi con Grimm, e ancora più stretti, e che, infine, per quell'infelice discorso dicui ho narrato la storia, mi trovai, senza accorgermene, lanciato da capo nellaletteratura dalla quale mi credevo fuori per sempre.

Il mio esordio mi fece seguire una nuova strada che mi gettò in un altro mondointellettuale, del quale non potei senza entusiasmo esaminarne la semplice e fieraeconomia. Presto, a furia di occuparmene, non vidi più che errore e follia nelladottrina dei nostri saggi, che oppressione e miseria nel nostro ordine sociale.Nell'illusione del mio stupido orgoglio mi credetti fatto per dissipare tutte questeforze; e pensando che per farmi ascoltare bisognasse mettere la mia condottad'accordo con i miei principi, presi l'andamento strano che non mi hanno maipermesso di seguire, di cui i miei pretesi amici non mi hanno mai perdonato di darel'esempio, che, da principio, mi rese ridicolo e che, alla fine, mi avrebbe reso degnodi rispetto, se mi fosse stato possibile perseverare.Sino allora ero stato buono; da allora divenni virtuoso, o almeno ebbro della virtù.Questa ebbrezza era cominciata nella mia testa, ma era passata nel mio cuore. Il piùnobile orgoglio vi germogliò sui resti della vanità sradicata. Non recitavo: divennidavvero quale apparivo; e, durante gli almeno quattro anni che durò questaeffervescenza, niente di grande e di bello poté entrare in un cuore d'uomo che ionon potessi realizzare tra il cielo e me. Ecco da dove nacque la mia sublime

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eloquenza, ecco da dove si trasfuse nei miei primi libri quel fuoco, veramenteceleste, che mi riscaldava internamente e di cui, per quarant'anni, non era sprizzatala più piccola favilla, perché non si era ancora acceso.Ero veramente trasformato; i miei amici, i miei conoscenti non mi riconoscevanopiù. Non ero più quell'uomo timido, e più vergognoso che modesto, che non osavané presentarsi, né parlare, che una parola scherzosa turbava, che uno sguardo didonna faceva arrossire. Audace, fiero, intrepido, portavo dovunque una sicurezzaaltrettanto irremovibile e semplice che era più nella mia anima che nel miocomportamento. Il disprezzo che le mie profonde meditazioni mi avevano ispiratoper i costumi, per le massime e i pregiudizi del mio secolo, mi rendeva insensibileai motteggi di coloro che li seguivano e annientavo i loro frizzi con le miesentenze, come avrei annientato un insetto tra le mie dita. Che cambiamentosorprendente! Tutta Parigi ripeteva gli acri e mordenti sarcasmi di questo stessouomo, che due anni prima e dieci anni dopo non ha mai saputo trovare quello chedoveva dire, né la parola che doveva usare. Si cerchi nel mondo lo stato piùcontrario alla mia natura; troverete quello. Ricordatevi uno di quei brevi momentidella mia vita in cui diventavo un altro e cessavo di essere io; lo si trova ancora neltempo in cui parlo: ma, invece di durare sei giorni, sei settimane, durò quasi seianni e forse durerebbe ancora, se non ci fossero state quelle particolari circostanzeche lo fecero cessare, e mi restituirono alla natura, al di sopra della quale avevovoluto elevarmi.Questo cambiamento cominciò non appena lasciai Parigi e lo spettacolo dei vizi diquesta grande città cessò di alimentare l'indignazione che mi aveva ispirato.Quando non vidi più gli uomini smisi di disprezzarli, quando non vidi più i cattivismisi di odiarli. Il mio cuore, fatto poco per l'odio, non fece più che deplorare laloro miseria e non ne rilevava la loro cattiveria. Questo stato più dolce, ma moltomeno sublime, smorzò ben presto l'ardente entusiasmo che mi aveva inebriato pertanto tempo; e, senza che ci se ne accorgesse, senza accorgermene neanche iostesso, ridivenni timoroso, compiacente, facile, in una parola, lo stesso GianGiacomo che ero stato prima.Se il cambiamento non avesse fatto che restituirmi a me stesso e si fosse fermato là,tutto sarebbe andato bene; ma disgraziatamente, andò oltre e mi condusserapidamente all'altro estremo. Da allora la mia anima ondeggiante non ha più fattoche attraversare lo stato di tranquillità e le sue oscillazioni, sempre rinnovantesi,non le hanno mai permesso di restarvi. Entriamo nei particolari di questo secondocambiamento: epoca terribile e fatale di un destino che non ha esempi tra i mortali.

Avevo una casa isolata, in una meravigliosa solitudine; padrone in casa mia potevovivere a modo mio, senza che nessuno potesse controllarmi. Questa casa però miimponeva dei doveri dolci da compiere, ma indispensabili. Tutta la mia libertà nonera che precaria; più che da ordini, dovevo essere asservito dalla mia volontà; nonc'era un solo giorno in cui, alzandomi, potessi dire: « Lo impiegherò come mipiacerà ». Molto peggio; oltre la mia dipendenza dalle disposizioni della signora diÈpinay, ne avevo un'altra, molto più noiosa, dal pubblico e dai sopravvenienti.La distanza da Parigi non impediva che ogni giorno venissero delle schiere disfaccendati i quali, non sapendo che fare del loro tempo, sperperavano il mio, senzaalcuno scrupolo. Quando meno ci pensavo ero spietatamente assalito; e raramenteho fatto un bel progetto, senza vederlo capovolgere da qualche sopraggiunto.In breve, in mezzo ai beni che avevo maggiormente desiderato, non trovando lapura gioia, riandavo con trasporto ai giorni sereni della mia gioventù e talvoltaesclamavo sospirando: « Ah! non sono questi i giorni delle Charmettes! ». Ilricordo dei diversi periodi della mia vita mi portò a riflettere sul punto al quale erogiunto e mi vidi già sul declino della gioventù, preda di mali dolorosi, credendo diessere vicino alla fine della mia vita, senza aver gustato nella sua pienezza quasinessuno dei piaceri di cui il mio cuore era avido, senza aver dato sfogo aisentimenti vivi che sentivo di avere in riserva, senza aver assaporato, senza aver

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almeno sfiorato quella inebriante voluttà che sentivo in potenza nella mia anima eche, per mancanza di un oggetto, vi restava sempre compressa senza potersisfogare che attraverso i miei sospiri.Come era possibile che con un'anima espansiva per natura, per la quale vivere eraamare, non avessi trovato sino ad allora un amico tutto per me, un vero amico, ioche mi sentivo così fatto per esserlo? Come poteva essere che con dei sensi cosìinfiammabili, che con un cuore fatto di amore non avessi bruciato della suafiamma, almeno una sola volta, per un oggetto determinato?Divorato dal bisogno di amare, senza averlo mai potuto ben soddisfare, mi vedevoavvicinarmi alle porte della vecchiaia e morire senza avere vissuto.Queste riflessioni tristi, ma commoventi, mi facevano ripiegare su me stesso con unrimpianto che non era senza dolcezza. Mi sembrava che il destino mi dovessequalche cosa che non mi aveva dato. A che pro avermi fatto nascere con delle virtùsquisite, per lasciarle perdere sino alla fine? La consapevolezza del mio valoreintimo dandomi quella di questa ingiustizia me ne ricompensava in qualche modo,e mi faceva versare delle lacrime che mi piaceva lasciare scorrere.

J. J. Rousseau

LE FANTASTICHERIE DEL PASSEGGIATORE SOLITARIO

Quinta passeggiata

Fra tutti i luoghi in cui ho abitato – e ce ne sono stati di davvero incantevoli –,nessuno mi ha reso così pienamente felice e mi ha lasciato così dolci rimpianticome l’Isola di Saint-Pierre, in mezzo al lago di Bienne.Quest’isoletta che a Neuchâtel chiamano isola della Motte è piuttosto sconosciuta,perfino in Svizzera. Nessun viaggiatore, a quanto ne so, ne accenna. E tuttavia èpiacevolissima e particolarmente ben situata per fare la felicità di un uomo cuipiaccia appartarsi; benché io sia forse il solo al mondo il cui destino ne ha fatto unalegge, non posso credere di essere il solo che abbia un gusto così naturale, anche sefino ad ora non l’ho riscontrato in nessun altro.Le rive del lago di Bienne sono più selvagge e romantiche di quelle del lago diGinevra, in quanto rocce e boschi arrivano quasi al livello dell’acqua; non perquesto però sono meno ridenti. Se ci sono meno campi e vigne, meno paesi e case,si trova invece più vegetazione naturale, più prati, molti rifugi ombreggiati daboschetti, più frequenti contrasti e cambiamenti improvvisi del terreno. Nonesistono su queste felici rive strade grandi e comode per le vetture, per cui il postoè poco frequentato dai viaggiatori; ma quanto è interessante per dei contemplatorisolitari cui piaccia inebriarsi a volontà delle bellezze della natura e raccogliersi inun silenzio perfetto, turbato solo dal grido delle aquile, ad intervalli dal gorgheggiodi qualche uccello, e dal mormorio dei torrenti che scorrono dalla montagna.Questo bel bacino di forma quasi tonda racchiude nel mezzo due piccole isole, unaabitata e coltivata, di circa mezza lega di perimetro, l’altra più piccola, disabitata eincolta, che alla fine verrà distrutta dalle continue rimozioni di terra fatte perriparare i danni che le onde e le tempeste producono a quella grande. È così chel’essenza del debole viene sempre impiegata a vantaggio del potente.Nell’isola c’è solo una casa, ma grande, piacevole e comoda, che come l’isolaappartiene all’ospedale di Berna, e dove vi abita un fattore con la famiglia e i

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domestici. Qui si prende cura di numerosi animali da cortile, di una voliera e dialcuni vivai per i pesci. Benché piccola, l’isola è talmente varia nel terreno enell’aspetto che offre luoghi di qualsiasi tipo ed accoglie qualsiasi tipo di coltura.Vi si trovano campi, vigne, boschi, frutteti, pascoli grassi ombreggiati da boschettie delimitati da arbusti d’ogni genere mantenuti sempre freschi dalla vicinanzadell’acqua; un’alta terrazza con due file di alberi costeggia l’isola per tutta la sualunghezza, e nel mezzo di tale terrazza è stata costruita una bella sala in cui gliabitanti delle rive vicine si riuniscono e ballano la domenica, quando è tempo divendemmia.È in quest’isola che mi rifugiai dopo il lancio di pietre a Motiers. Qui il soggiornomi risultò così delizioso, vi conducevo una vita così confacente al mio umore che,risoluto di finirvi i miei giorni, mi preoccupavo solo che non mi lasciasserorealizzare questo progetto che mal si accordava con quello di condurmi inInghilterra, del quale già sentivo i primi effetti. Colto da tali presentimenti che mirendevano inquieto, avrei voluto che questo rifugio fosse trasformato in unaprigione perpetua, che mi si confinasse qui per tutta la vita, e che impedendomiqualsiasi possibilità e speranza di uscirne, mi fosse proibito ogni tipo dicomunicazione con la terraferma, in modo tale che, ignaro di tutto quello chesuccedeva nel mondo, io ne dimenticassi l’esistenza e venisse dimenticata anche lamia.Non mi hanno lasciato trascorrere che due mesi in quest’isola, ma ci avrei trascorsodue anni, due secoli, e tutta l’eternità senza mai annoiarmi un istante, benché io e lamia compagna non avessimo altra compagnia che quella del fattore, di sua moglie edei domestici, che in realtà erano tutti delle gran brave persone e niente di più, maera precisamente ciò di cui sentivo il bisogno.Considero quei due mesi il periodo più felice della mia vita, talmente felice chemi sarebbe bastato per tutta l’esistenza senza lasciar nascere per un solo istantenell’animo il desiderio di una condizione diversa.In cosa consisteva dunque questa felicità e il suo godimento? Lo do a indovinare atutti gli uomini di questo secolo in base alla descrizione della vita che viconducevo. Il prezioso far niente fu la prima e la principale di quelle gioie che hovoluto assaporare in tutta la loro dolcezza, e tutto quel che feci durante il miosoggiorno non fu altro se non l’occupazione deliziosa e necessaria di un uomovotatosi all’ozio.La speranza che non mi si chiedesse di meglio che di lasciarmi in quel soggiornoisolato in cui mi ero imprigionato da me, da cui mi era impossibile uscire senzaaiuto e senza essere scoperto, e dove non potevo né comunicare né corrispondere senon tramite coloro che mi circondavano, questa speranza, dicevo, mi dava quella difinirvi i miei giorni con maggior tranquillità di come avevo fino ad allora vissuto, el’idea che avrei avuto tutto il tempo per sistemarmi come volevo, fece sì checominciai col non farvi alcuna sistemazione. Trasportato lì, all’improvviso, solo espoglio, vi feci venire successivamente la governante, i miei libri ed il mio piccolobagaglio, di cui ebbi il piacere di non tirar fuori nulla, lasciando casse e bauli cosìcom’erano arrivati, vivendo nella casa in cui contavo di finire i miei giorni come inuna locanda da cui sarei dovuto partire il giorno seguente. . . .Al posto di queste tristi scartoffie e di tutto questo mucchio di vecchi libri, miriempivo la camera di fiori e di erbe; era quello il periodo del mio primo fervoreper la botanica, per la quale il dottore di Ivernois mi aveva ispirato un gustodivenuto ben presto passione. Non volendo più dedicarmi ad attività legate allavoro mi occorreva uno svago che mi piacesse e che non mi desse più fastidio diquanto potrebbe sopportare un uomo pigro. Iniziai a redigere la Flora petrinsularise a descrivere tutte le piante dell’isola senza tralasciarne una sola, con unaprecisione tale da esserne occupato per il resto dei miei giorni. . . .In conseguenza di questo bel progetto tutte le mattine, dopo la colazione chefacevamo tutti insieme, andavo, lente alla mano e Systema naturæ sotto il braccio,a visitare una zona dell’isola che a questo scopo avevo diviso in piccoli riquadri

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con l’intento di percorrerli uno ad uno in ogni stagione. . . .Di lì a due o tre ore mene ritornavo carico di un gran raccolto: era la mia scorta di svago nel caso avessidovuto trascorrere il pomeriggio in casa se fosse piovuto. Impiegavo il resto dellamattinata andando a vedere con il fattore, sua moglie e Thérèse i braccianti ed ilraccolto. Molto spesso lavoravo con loro e più volte alcuni bernesi venuti a farmivisita mi trovavano appollaiato su grandi alberi, con un sacco attorno alla vita cheriempivo di frutti e facevo calare poi a terra con una corda. L’esercizio fattodurante la mattinata ed il buon umore che ne è inseparabile mi rendevanoestremamente piacevole la pausa del pranzo; se però questo si prolungava troppoed il bel tempo mi invitava, non potevo attendere tanto a lungo e mentre eravamoancora a tavola sgusciavo via e saltavo, solo, su una barca che conducevo in mezzoal lago quando l’acqua era calma. Là, allungatomi tutto, gli occhi volti al cielo, milasciavo andare lentamente alla deriva, in balía delle onde, a volte per parecchieore, immerso in mille fantasticherie confuse ma deliziose che senza avere alcunoggetto determinato o costante mi risultavano mille volte più gradite di tutto quelche di più dolce avevo trovato in quelli che si chiamano i piaceri della vita.Spesso, quando il calare del sole mi avvertiva che era l’ora di ritirarmi, mi trovavocosì lontano dall’isola che ero obbligato a remare con tutte le mie forze per arrivareprima che fosse notte fonda. Altre volte, anziché spingermi al largo, mi piacevacosteggiare le verdeggianti rive dell’isola, le cui limpide acque e la frescuradell’ombra spesso mi hanno invitato a fare il bagno. Uno dei miei percorsi piùfrequenti, comunque, era l’andare dall’isola grande alla piccola; qui sbarcavo etrascorrevo il pomeriggio, ora facendo delle piccole passeggiate in mezzo ai salici,agli ontani, alle persicarie e ad alberelli d’ogni tipo, ora fermandomi in cima ad unacollinetta sabbiosa coperta d’erba, di timo, di fiori, perfino di ginestrella e ditrifoglio che probabilmente era stato seminato in altri tempi, molto adatta ai conigliche là avrebbero potuto moltiplicarsi in pace senza temere nulla e senza nuocere anulla. Diedi quest’idea al fattore che fece venire da Neuchâtel conigli maschi efemmine, ed andammo così in pompa magna, sua moglie, una sua sorella, Thérèseed io, a depositarli nell’isoletta. . . .Quando il lago agitato non mi permetteva di andare in barca, trascorrevo ilpomeriggio a percorrere l’isola erborizzando di qua e di là, sedendomi a volte negliangolini più ridenti e solitari per fantasticare a mio agio, a volte sulle terrazze e suipoggi, per seguire con lo sguardo il superbo ed affascinante panorama del lago edelle sue rive, che da un lato sono circondate dai monti vicini, dall’altro lato sislargano in ricche e fertili pianure, dove la vista si stende fino alle montagnebluastre più lontane che la limitano.Quando si avvicinava la sera scendevo dalle alture dell’isola ed andavo volentieri asedermi in riva al lago, sulla spiaggia, in qualche rifugio nascosto; là il mormoriodelle onde ed il movimento dell’acqua arrestavano i miei sensi, scacciavano dalmio animo ogni altra agitazione e lo tuffavano in una deliziosa fantasticheria in cuispesso, senza accorgermene, mi facevo sorprendere dalla notte. Il flusso e ilriflusso dell’acqua, il suo sciacquio continuo ma ad intervalli più forte micolpivano senza posa le orecchie e gli occhi, supplivano ai movimenti interni che ilsogno spegneva in me, ed erano sufficienti a farmi percepire piacevolmentel’esistenza, senza la fatica di pensare. Ogni tanto mi nasceva qualche debole ebreve riflessione sull’instabilità delle cose di questo mondo, di cui la superficiedell’acqua mi offriva l’immagine: ma ben presto queste impressioni leggeresvanivano nell’uniformità del movimento continuo che mi cullava e che senza lapartecipazione attiva dell’animo mi incatenava a tal punto che, richiamato dall’orae dal segnale convenuto, non potevo allontanarmi di là senza sforzo.Dopo cena, quand’era una bella serata, andavamo ancora tutti insieme apasseggiare un po’ sulla terrazza per respirare l’aria del lago e la frescura. Ci siriposava nel padiglione, si rideva, si chiacchierava, si cantava qualche vecchiacanzone che certo non era da meno di quelle moderne, ed infine si andava a lettocontenti della giornata, con l’unico desiderio di un’altra simile il giorno dopo.

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Così, tralasciando le visite impreviste ed inopportune, ho trascorso il tempo inquest’isola durante il mio soggiorno. Ditemi ora cosa vi è in quel luogo di tantoattraente da suscitarmi nel cuore rimpianti così vivi, così dolci e così duraturi che, adistanza di quindici anni, mi è impossibile ripensare a quel luogo tanto caro senzasentirmi ogni volta preso dagli slanci del desiderio.Attraverso le vicissitudini di una lunga vita ho notato che i periodi delle gioie piùdolci e dei piaceri più vivi non sono tuttavia quelli il cui ricordo mi attiri e micommuova maggiormente. Quei brevi momenti di delirio e di passione, per quantopossano essere vivi, e proprio per la loro stessa vivacità, sono tuttavia solo deipunti sparsi e radi sulla linea della vita. Sono troppo rari e troppo effimeri per potercostituire uno stato d’animo e la felicità che il mio cuore rimpiange non è certocomposta da istanti fuggitivi, è uno stato semplice e permanente che non ha in sénulla di vivo ma la cui durata ne accresce il fascino al punto da trovarvi, alla fine,la massima felicità.Tutto sulla terra è in un flusso continuo. Nulla mantiene una forma costante e fissa,e i nostri sentimenti per le cose esteriori passano e cambiano necessariamente comeloro. Costantemente, prima o dopo di noi, esse ricordano il passato che non è più oanticipano il futuro che spesso non deve affatto essere: non vi è là nulla di solido acui il cuore si possa attaccare. Così non abbiamo quaggiù nient’altro che piacereche passa; in quanto alla felicità che dura, dubito che la si conosca. A malapena sitrova nei nostri più vivi piaceri un istante in cui il cuore possa veramente dire:Vorrei che questo istante durasse per sempre; come possiamo allora chiamarefelicità uno stato fuggevole che ci lascia poi il cuore inquieto e vuoto, che ci farimpiangere qualcosa che era, o desiderare qualcosa che sarà?Ma se esiste uno stato in cui l’animo trova un equilibrio abbastanza stabile perriposarvisi completamente e raccogliere là tutto il suo essere, senza aver bisogno diricordare il passato né di sconfinare nel futuro, in cui il tempo non conti e ilpresente duri sempre, senza però lasciar traccia del suo durare né del succedersi,senza nessun altro sentimento di privazione né di godimento, di piacere né di pena,di desiderio né di timore, se non quello della nostra esistenza che, da solo, possasoddisfare completamente l’animo; fin tanto che questo stato dura, colui che vi sitrova può chiamarsi felice, non di una felicità imperfetta, povera e relativa, comequella che si trova nei vari piaceri della vita, ma di una felicità bastevole, perfetta epiena, che non lascia nell’animo alcun vuoto che sia necessario colmare. Questo èlo stato in cui spesso mi sono trovato all’isola di Saint-Pierre durante le miefantasticherie solitarie, ora sdraiato sulla barca che lasciavo andare alla deriva, inbalia delle onde, ora seduto sulle rive del lago agitato, ora altrove, sulla sponda diun bel fiume o di un ruscello mormorante tra i ciottoli.Di cosa si gioisce in una simile situazione? Di nulla di esteriore a sé, di niente senon di sé stessi e della propria esistenza; fin tanto che dura questo stato si èsufficienti a sé stessi come lo è Dio. Il sentimento dell’esistenza spogliato di ognialtro affetto è di per sé un sentimento prezioso di contentezza e di pace cha sarebbesufficiente da solo a rendere questa esistenza cara e dolce a chi fosse in grado diallontanare da sé tutte le impressioni sensuali e terrestri che vengonocontinuamente a distrarci e a turbarne, quaggiù, la dolcezza. Ma la maggior partedegli uomini, agitati da continue passioni, poco conosce questo stato d’animo, edavendolo sperimentato soltanto imperfettamente, per pochi istanti, ne conservaappena un’idea oscura e confusa che non permette di percepirne il fascino. Certo,non sarebbe neanche bene che, nell’ordinamento attuale delle cose, avidi di questedolci estasi, si disgustassero della vita attiva di cui i bisogni sempre nuoviimpongono l’obbligo. Ma un infelice che è stato escluso dalla società degli uominie non può più fare nulla quaggiù di utile e di buono, né per gli altri né per sé, puòtrovare in questo stato un compenso a tutte le felicità umane, che né la fortuna négli uomini saprebbero sottrargli.È peraltro vero che tali compensi non possono essere avvertiti da tutti gli animi e intutte le situazioni. Occorre che il cuore sia in pace e che nessuna passione ne venga

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a turbare la quiete. Occorre una certa disposizione in chi li prova e nel ruolo deglioggetti circostanti. Non occorre né un riposo assoluto né troppa agitazione, ma unmovimento uniforme e moderato senza scosse né intervalli. Senza movimento lavita sarebbe solo un letargo. Se il movimento è discontinuo o troppo forte sveglia;ricordandoci gli oggetti circostanti distrugge il fascino della fantasticheria, cistrappa dall’intimo di noi stessi per sottoporci subito al giogo della fortuna e degliuomini e per restituirci al sentimento delle nostre infelicità. Un silenzio assolutoporta alla tristezza. Offre un’immagine di morte. Allora è necessario l’aiuto di unaridente immaginazione, che si presenta abbastanza naturalmente a chi ne è statogratificato dal cielo. Il movimento che non viene dal di fuori si crea allora nelnostro intimo. Il riposo è così minore, è vero, ma risulta anche più piacevolequando lievi, dolci idee, senza agitare il fondo dell’animo, ne sfiorano per così diresolo la superficie. Ne occorre solo quel tanto per ricordarci di noi stessi edimenticare tutti i nostri mali. Questa sorta di fantasticheria si può godere ovunquesia possibile stare tranquilli, e spesso ho pensato che alla Bastiglia e perfino in unacella di isolamento in cui nessun oggetto mi fosse visibile, avrei ancora potutosognare piacevolmente.Ma bisogna confessare che era di gran lunga più piacevole farlo in un’isola fertile esolitaria, per natura circoscritta e separata dal resto del mondo, dove mi eranoofferte solo immagini ridenti, dove nulla mi richiamava tristi ricordi e i pochiabitanti erano socievoli e gentili senza essere interessanti al punto da tenermiincessantemente occupato; dove insomma potevo dedicarmi tutto il giorno, senzaostacoli e senza preoccupazioni, alle attività che preferivo o ad un molle ozio. Eraindubbiamente una bella occasione per un sognatore capace di nutrirsi di piacevolichimere perfino in mezzo agli oggetti più spiacevoli: poteva saziarsene apiacimento facendo concorrere tutto ciò che realmente gli colpiva i sensi. Uscendoda una lunga e dolce fantasticheria, vedendomi circondato da piante, fiori, uccelli, elasciando errare lo sguardo lontano, sulle romantiche rive che limitavano una vastadistesa di acqua chiara e cristallina, assimilavo ai miei sogni tutti quei gradevolioggetti; alla fine, trovandomi a poco a poco ricondotto a me stesso e a quel che micircondava, non ero più in grado di separare il sogno dalla realtà. Tutto difatticoncorreva nella stessa misura a rendermi cara la vita raccolta e solitaria checonducevo in quell’incantevole soggiorno. Non è forse possibile che rinascaancora? Non potrò mai andare a finire i miei giorni in quell’isola adorata senza maiuscirne, senza mai rivedere alcun abitante del continente pronto a ricordarmi i guaid’ogni tipo che si compiacciono di accumularsi su di me da così tanti anni?Presto sarebbero dimenticati per sempre; senza dubbio essi a loro volta nondimenticherebbero me, ma che mi importerebbe, purché non abbiano accesso pervenirmi a turbare il riposo? Liberato da tutte le passioni terrene generate daltumulto della vita sociale, il mio animo si libererebbe sovente oltre questaatmosfera e intraprenderebbe anzitempo relazioni con le intelligenze celesti di cuispera d’andare ad aumentare il numero entro breve tempo. Gli uomini siguarderanno bene, lo so, dal ridarmi un rifugio così dolce dove non hanno volutolasciarmi. Ma almeno non mi impediranno di trasportarmici ogni giorno sulle alidell’immaginazione, e di godervi per qualche ora lo stesso piacere che proverei seancora ci abitassi. Quello che là farei di più dolce sarebbe sognare a mio agio.Sognando di essere là, non faccio forse la stessa cosa? Anzi, faccio di più;all’attrattiva di un sogno astratto e monotono aggiungo delle immagini incantevoliche lo vivificano. I loro oggetti spesso mi sfuggivano ai sensi durante le mie estasi,ed ora più è profondo il mio sognare e più me li dipingo vivamente. Spesso mitrovo ora più in mezzo ad essi e più piacevolmente ancora di quando vi stavorealmente. Il guaio è che, via via che l’immaginazione si affievolisce, ciò succedecon una certa fatica e non dura tanto a lungo. Ahimè, è proprio quando si sta perabbandonare la spoglia mortale che si è maggiormente offuscati!

da: Rousseau, Opere, Sansone editore, 1972, pag. 745-1122