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PER UNA MEDICINA NEOTOMISTA: «LA SCIENZA ITALIANA» (1876-1889) In quello che probabilmente è il primo studio dedicato alla rinascita del tomismo nel XIX secolo, Giuseppe Saitta, nel 1912, si espresse con termini sferzanti verso una delle numerose accademie tomistiche che erano fiorite nel secondo Ottocento, quell'Accademia filosofico-medica di San Tommaso d'Aquino nata nel 1874, che, a suo avviso, rappresentò «una burla di cattivo genere», prodotto estremo di un ambiente conservatore e filosoficamente povero nel quale riteneva fosse maturato il ritorno a Tommaso 1 . Del neotomismo l'Accademia filosofico-medica di San Tommaso d'A- quino fu una delle espressioni più conservatrici e antimoderne, percepita come tale già da molti dei protagonisti di quel movimento, per la sua assun- zione dogmatica e impositiva della teologia di Tommaso. Era maturata, non a caso, negli ambienti cattolici antirisorgimentali, bolognese e ferrarese in particolare, che avevano combattuto la caduta del potere temporale e la na- scita del nuovo Stato. E appunto nell'ottica di restaurare il potere della chiesa attraverso un impianto culturale organico e unitario, l'Accademia si servì di un'interpretazione rigida del tomismo ed in particolare della teoria ilemorfica. L'ilemorfismo, infatti, con l'idea che la sostanza individuale è unità di materia e forma, offriva una chiave interpretativa organicistica della realtà ed uno schema concettuale forte e applicabile, per analogia, ad ogni ambito del sapere, ma soprattutto del sociale e del politico. L'assunzione di una causa ultima e metafisica come forma della realtà e della materia appa- riva come un efficace modo per definire un modello comportamentale chiaro e solido per l'individuo, riaffermando al tempo stesso un primato pa- pale su società e politica, quanto mai ritenuto necessario in un momento in cui il ruolo politico della chiesa cattolica era stato rivoluzionato. Attraverso alcuni dei suoi protagonisti e per mezzo del suo organo ufficiale l'Accade- mia cercò di influenzare il dibattito cattolico italiano e internazionale, soprat- tutto con una diffusione negli ambienti della gerarchia cattolica e delle isti- tuzioni ecclesiastiche. Peraltro, occorre sottolineare, questa sua influenza fu più contingente che effettiva e si esercitò esclusivamente nell'ambiente cat-

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PER UNA MEDICINA NEOTOMISTA: «LA SCIENZA ITALIANA» (1876-1889)

In quello che probabilmente è il primo studio dedicato alla rinascita del tomismo nel XIX secolo, Giuseppe Saitta, nel 1912, si espresse con termini sferzanti verso una delle numerose accademie tomistiche che erano fiorite nel secondo Ottocento, quell'Accademia filosofico-medica di San Tommaso d'Aquino nata nel 1874, che, a suo avviso, rappresentò «una burla di cattivo genere», prodotto estremo di un ambiente conservatore e filosoficamente povero nel quale riteneva fosse maturato il ritorno a Tommaso1.

Del neotomismo l'Accademia filosofico-medica di San Tommaso d'A-quino fu una delle espressioni più conservatrici e antimoderne, percepita come tale già da molti dei protagonisti di quel movimento, per la sua assun-zione dogmatica e impositiva della teologia di Tommaso. Era maturata, non a caso, negli ambienti cattolici antirisorgimentali, bolognese e ferrarese in particolare, che avevano combattuto la caduta del potere temporale e la na-scita del nuovo Stato. E appunto nell'ottica di restaurare il potere della chiesa attraverso un impianto culturale organico e unitario, l'Accademia si servì di un'interpretazione rigida del tomismo ed in particolare della teoria ilemorfica. L'ilemorfismo, infatti, con l'idea che la sostanza individuale è unità di materia e forma, offriva una chiave interpretativa organicistica della realtà ed uno schema concettuale forte e applicabile, per analogia, ad ogni ambito del sapere, ma soprattutto del sociale e del politico. L'assunzione di una causa ultima e metafisica come forma della realtà e della materia appa-riva come un efficace modo per definire un modello comportamentale chiaro e solido per l'individuo, riaffermando al tempo stesso un primato pa-pale su società e politica, quanto mai ritenuto necessario in un momento in cui il ruolo politico della chiesa cattolica era stato rivoluzionato. Attraverso alcuni dei suoi protagonisti e per mezzo del suo organo ufficiale l'Accade-mia cercò di influenzare il dibattito cattolico italiano e internazionale, soprat-tutto con una diffusione negli ambienti della gerarchia cattolica e delle isti-tuzioni ecclesiastiche. Peraltro, occorre sottolineare, questa sua influenza fu più contingente che effettiva e si esercitò esclusivamente nell'ambiente cat-

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tolico ed ecclesiastico. Quelle scienze naturali che si proponeva di contra-stare e correggere semplicemente la ignorarono, stendendo una «coltre di silenzio», secondo l'immagine usata in numerosi articoli dagli accademici. Un silenzio, d'altra parte, facilmente prevedibile, data la mediocre qualità e l'impostazione ideologica dei contributi sulle scienze naturali, e quasi ricer-cato, vista la scelta militante degli interlocutori: non gli scienziati positivisti, materialisti o quant'altro, bensì i cattolici, filosofi, teologi e soprattutto inse-gnanti e docenti universitari e dei seminari. Era ad essi che l'Accademia si rivolgeva, per fornire loro quegli anticorpi con i quali avrebbero dovuto sconfiggere le sirene del positivismo che agli accademici sembravano aver conquistato le menti di troppi cattolici, e combattere così in maniera più effi-cace la battaglia per la restaurazione del tomismo. Una battaglia tomista che doveva essere condotta, appunto, a partire da quegli ambienti dove le scienze del positivismo sembravano avere un'egemonia inattaccabile.

Il fallimento delle iniziative dell'Accademia era già iscritto nelle sue premesse. Da una parte le modalità e il linguaggio del discorso delle scienze erano infatti parte del patrimonio culturale di molti cattolici, che stavano cer-cando di integrare novità, scoperte, ipotesi in una prospettiva teologica. La strategia in molti casi non era lo scontro frontale, ma il tentativo di assumere all'interno di un quadro apologetico i discorsi della scienza, anche quelli apparentemente più distanti e inconciliabili. D'altra parte la stessa breve esperienza dell'Accademia fu per molti dei suoi protagonisti una tappa mo-mentanea in un percorso che li avrebbe portati in molti casi ad agire più ef-ficacemente, con altri mezzi e in altri ambiti, per la restaurazione del tomi- smo2.

Il quadro storico, politico e culturale all'interno del quale maturò questa esperienza è stato oggetto di numerose indagini e l'Accademia è stata spesso sfiorata da studi sulla filosofia, la cultura italiana o il cattolicesimo ottocente-sco. Tuttavia al suo elemento specifico, fare del rapporto con la medicina e la scienza in genere un problema, è stata prestata attenzione solo nella pro-spettiva della rinascita tomistica, lasciando da parte la produzione dell'or-gano dell'Accademia, che offre, invece, spunti per cogliere un certo tipo di reazione ai cambiamenti di quel periodo storico, comune ad una parte non piccola del mondo cattolico3.

Il recupero del tomismo ed il tentativo di renderlo egemone nella cul-tura cattolica è stato un fenomeno presente in tutta Europa, dalla Spagna di Gonzalez, alla Germania di Clemens e Plassmann, o alla Francia di monsi-

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gnor D'Hulst. Fu però nell'Italia post-risorgimentale che si sviluppò in niera più diffusa e organizzata. Già alcune iniziative di Mastai Ferretti prattutto nella parte finale del suo pontificato, avevano posto le basi per un'organizzata riabilitazione della dottrina di Tommaso. La fondazione di «Civiltà Cattolica»4 e l'impegno della Compagnia di Gesù rappresentarono canali fondamentali per una capillare e incisiva diffusione del tomismo, a livello di dibattito culturale, ma, soprattutto, sul piano della formazione del clero, nei seminari, nelle scuole, nelle università. Negli ultimi decenni del secolo furono fondate innumerevoli accademie o società intestate all'Aquinate, dall'Accademia Romana di San Tommaso a quella dell'Apollinare, a quella, ancora, di Giuseppe Pecci e di suo fratello, allora cardinale di Perugia, Gioachino. Quest'ultimo, divenuto papa con il nome di Leone XIII, diede un forte impulso al progetto neotomista, emanando nel 1879 quell'enciclica Aeterni Patris, che faceva della dottrina tomistica la base dottrinale della chiesa cattolica, promuovendo una nuova edizione critica delle opere di Tommaso e creando l'Accademia romana di San Tommaso, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto raccogliere il meglio deirintelligencija tomista, con il compito di guidare e coordinare le attività delle altre accademie. Tale progetto doveva seguire e rilanciare l'esempio dell'Accademia filosofico-medica, alla quale, non a caso, Gioachino Pecci aveva aderito fin dall'inizio. Snodo strategico per una diffusione efficace del tomismo rimaneva, però, il controllo dei luoghi della formazione del clero, università e seminari, dove il tomismo non costituiva il punto di riferimento teorico di numerosi insegnamenti, respinto non in quanto teologia, ma come impianto organico e completo di pensiero sul quale basare studi di storia, filosofia, scienze. I rapporti con Faristotelismo e l'ilemorfismo erano considerati elementi inattuali da molti dei docenti che insegnavano nelle università cattoliche, nei seminari e negli scolasticati. La stessa Compagnia di Gesù, d'altronde, aveva stimolato negli anni '60 indagini e studi che cercassero una coniugazione delle novità scientifiche all'interno dell'apologetica cattolica, dando attuazione ad un approccio filosofico-metodologico lontano dall'impianto tomistico. Uno dei luoghi dove le resistenze al tomismo erano maggiori era l'Università Gregoriana, dove l'atteggiamento critico verso l'impianto organico tomista era trasversale a tutti gli insegnamenti impartiti. E infatti fu proprio nell'ex Collegio Romano che Leone XIII diede un segno forte di cambiamento, con un'epurazione

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che nell'anno della Aeterni Patris aveva portato alla sostituzione dei docenti di filosofia antitomisti, con uomini di provata fede tomista5.

È in questo contesto che, nel periodo tra i due pontificati, si situò la na-scita della nuova accademia dedicata a Tommaso d'Aquino. Era stato un medico di Vasto, il dottor Alfonso Travaglini, che, nel maggio del 1870, aveva lanciato sulle pagine de «L'unità cattolica» l'idea di un'accademia di medici cattolici che non si riconoscevano nel materialismo degli scienziati positivisti. Lo spunto era stato subito raccolto da Giovanni Battista Cornoldi, agguerrito gesuita, considerato «quale rappresentante del più forte "antimodernismo" entro il movimento neotomista»6, che da molti anni era impegnato nella battaglia per la restaurazione del tomismo nei seminari cat-tolici. Cornoldi fu la figura centrale dell'Accademia, il vero motore della sua creazione e delle sue iniziative, al centro di una rete di relazioni diffusa e radicata negli ambienti ecclesiastici e nei palazzi vaticani. Aveva attraversato numerose delle prime esperienze tomistiche organizzate, ad esempio l'am-biente perugino dei fratelli Pecci, e da molto tempo cercava mezzi e spazi per rilanciare la propria crociata. Docente di filosofia negli scolasticati della Compagnia, predicatore e animatore di numerose attività giornalistiche, fu allontanato nel 1867 dall'insegnamento di filosofia nello scolasticato della provincia veneta. Con un opuscoletto, pubblicato nel 1864, / sistemi mecca-nico e dinamico circa la costituzione delle sostanze corporee considerati ri-spetto alle scienze fìsiche, aveva acceso una virulenta polemica in difesa del-l'ilemorfismo tomistico nelle scienze, contro le deviazioni meccanicistiche e atomistiche. Bersaglio dei suoi strali erano stati due gesuiti, Angelo Secchi e Salvatore Tongiorgi, rei d'aver pubblicato studi nei quali, pur salvaguar-dando metafisicamente i limiti ed i contorni delle cause fisiche ultime, ave-vano assunto una visione materiale della costituzione dei corpi e della loro organizzazione, in cui vi era spazio per ipotesi atomistiche e meccanicistiche. Scagliandosi pubblicamente contro i suoi due confratelli, Cornoldi aveva violato regole fondamentali della Compagnia. Ma se questa fu la motiva-zione principale, il suo allontanamento dall'insegnamento rispondeva anche ad una presa di distanza dalle sue posizioni neotomistiche, nonché dalle mo-dalità aggressive della sua polemica: un attacco ad personam che lo portava ad accusare l'interlocutore di essere materialista, di aver accettato tutti gli er-rori della cultura «alea». Un'impostazione polemica che si esplicitava anche in un'esposizione scritta assertiva, rigidamente deduttiva, dove le definizioni di principio originavano metodi e spiegazioni e che, in ultimo, negava la

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stessa libertà dell'indagine scientifica. Ciò aveva destato non poche preoccu-pazioni nella Compagnia di Gesù, da sempre gelosa della propria autonomia intellettuale7. Cornoldi venne spedito a Bressanone dove rimase alcuni anni e si spostò poi tra Ferrara, Bologna e Roma, dove si stabilì definitivamente nel settembre del 1880, quando Leone XIII lo chiamò a dirigere quell'Acca-demia Romana di San Tommaso per la quale aveva grandi progetti.

Per il gesuita l'idea proposta da Travaglini rappresentò, quindi, la pos-sibilità di rilanciare in maniera forte e organizzata la battaglia per la restau-razione del tomismo, con una iniziativa che fosse in grado di coinvolgere anche laici e scienziati e che sapesse creare una rete di relazioni negli am-bienti universitari, clericali e dei palazzi vaticani, tramite la quale sollecitare Roma ad un più forte investimento sul tomismo. Come sede dell'Accademia egli scelse Bologna, dove poteva contare su solidi rapporti con l'ambiente dell'intransigentismo antirisorgimentale, rappresentato dal medico Marcel-lino Venturoli8, dal giornalista Giambattista Casoni9, da Francesco Battaglini, prima docente di fisica al seminario e poi vescovo e cardinale, Gian Giu-seppe Bianconi, biologo^ e suo figlio Gian Antonio, zoologo; significativo era il sostegno di Lucido Maria Parecchi, arcivescovo di Bologna e tomista10. Molti di loro, tra l'altro, avevano già tentato la creazione di un'accademia tomistica nel 1853 e videro il nuovo tentativo come una prosecuzione di quell'esperienza.

La data ufficiale di fondazione dell'Accademia filosofico-medica di San Tommaso d'Aquino è il 7 marzo del 1874, lo stesso anno della nascita dell'Opera dei Congressi, quando un'assemblea dei soci si riunì a Roma per commemorare il sesto centenario della morte di Tommaso". Nel discorso programmatico Travaglini identificò i nemici dell'Accademia: le filosofie contemporanee e i loro errori, il materialismo, il positivismo, lo sperimentali-smo che avevano nei fatti distrutto l'unità sostanziale dell'uomo, la sua spiri-tualità, razionalità e immortalità. Vittima prima di queste degenerazioni era la medicina, che dava corso ad un'idea di vita come combinazione casuale di elementi, attuando la distruzione di una visione antropologica organica, per lasciar spazio a quella fisiologia che, nel campo delle scienze del corpo, era percepita come la grande nemica. Il nuovo Stato italiano non era estraneo a questa dinamica, poiché la sua politica «per nulla affatto nazionale» e il monopolio sull'insegnamento favorivano e accentuavano la gravita e influenza di queste «deviazioni»12. Pio IX aveva concesso udienza ai fondatori pochi giorni dopo, dando il suo beneplacito all'operazione,

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rinnovato poi con lodi in una lettera allo stesso Travaglini, nella quale elogiava il successo dell'Accademia, soprattutto perché agiva verso quei medici che «troppo si prestarono a consigliare e divulgare gli errori del materialismo»13. Quest'imprimatur papale in seguito sarebbe stato speso dagli accademici nei momenti di polemica con il mondo cattolico restio ad adeguarsi al tomismo.

L'adesione all'Accademia era siglata dalla consegna di un diploma, nel quale era attestata la fedeltà del nuovo socio alle dottrine tradizionali della chiesa sull'origine e la natura delle cose e dell'uomo, e, soprattutto, l'ade-renza fedele alle tesi tomistiche sull'unità sostanziale di anima e corpo. Si trattava, in altri termini, di un certificato di buona condotta tomistica, che, d'altra parte, legava insieme tomismo e tradizione dottrinale della chiesa, sancendone implicitamente l'organicità. L'avversione e la distanza da teorie contrarie o incompatibili ne era la diretta conseguenza: non vi era spazio per ipotesi atomistiche o meccanicistiche e per indagini sperimentali sulla mate-ria14.

Per i primi due anni di vita l'esistenza dell'Accademia fu testimoniata dalle pagine del giornale cattolico ferrarese «II Popolo», che fino alla fine del 1875 ne fu l'organo ufficiale15. Per dare visibilità maggiore all'Acca-demia, che non aveva né sede stabile, né possibilità di organizzare confe-renze o assemblee, Cornoldi scelse di potenziare lo strumento pubblicistico e fondò il nuovo organo ufficiale. «La Scienza Italiana. Periodico di filosofia, medicina e scienze naturali» uscì con il primo numero nel gennaio del 1876. Stampata dalla tipografia di Casoni aveva una cadenza mensile e fu diretta da Marcellino Venturoli, che si occupava della redazione e sovrintendeva so-prattutto alle questioni di medicina. Nel 1890 il giornale avrebbe aggiunto la denominazione di organo dell'Accademia Romana di San Tommaso, e sa-rebbe stato stampato a Roma. Ma per poco tempo: con il numero del luglio 1890 cessò, infatti, le pubblicazioni. I documenti dell'Accademia sarebbero poi stati pubblicati sulla rivista del clero intransigente milanese «La scuola italiana», che fino al 1901 affiancò alla propria la denominazione del perio-dico cessato16.

Nel gennaio 1876 «La Scienza Italiana» pubblicò la prima lista generale dei soci dell'Accademia17. Comprendeva 331 membri, di cui 32 arcivescovi e vescovi, 103 dottori e professori in teologia, 104 dottori e professori di fi-losofia e scienze naturali, 70 dottori in medicina e chinirgia, 6 prelati romani e soprattutto 16 cardinali, presidenti ad honorem18. Tra questi vi erano molti

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dei nomi più importanti ed influenti della gerarchla ecclesiastica di quel-l'anno, in particolare romana19. Le più significative congregazioni romane erano rappresentate: Vescovi e Regolari, Indulgenze, Propaganda Fide, Studi, Concilio, Sacri Riti, Indice e soprattutto l'Inquisizione. Tra i 16 cardinali di questo primo elenco erano compresi cinque cardinali inquisitori e due con-sultori della «Suprema», senza contare che molti appartenevano anche alla Congregazione dell'Indice20. Occorre considerare che alle autorità l'asso-ciazione era data ad honorem, senza la richiesta d'adesione e l'accettazione del diploma, ma la nutrita presenza dei vertici ecclesiastici del tempo, dato confermato ed ampliato nelle successive liste pubblicate dal giornale, testi-monia quantomeno di un'ampia e selezionata circolazione della rivista, sia in Italia che all'estero. Tra i presidenti onorari, infatti, figuravano anche il pri-mate d'Irlanda Cullen, di Francia Guibert e di Westminster Manning, nonché Mieceslao Ledochowski, arcivescovo di Gnesen e Posnania. È legittimo sup-porre che i temi e le questioni sollevate e discusse dal giornale dell'Acca-demia avessero una circolazione capillare in molti dei palazzi più importanti della chiesa cattolica, e che i temi da essa agitati fossero pertanto portati a co-noscenza di numerosi tra coloro cui era demandata una scelta e decisione ri-guardo alla dottrina della chiesa. Elemento, questo, che appare tanto più in-teressante, in quanto induce a connessioni con alcuni dei successivi sviluppi nella definizione della normativa sui comportamenti e le pratiche nel rap-porto tra medicina e fede; in particolare alcune decisioni inquisitoriali sul-l'ostetricia abortiva, che vedremo più avanti. Questo senza nulla togliere alle considerazioni di Malusa, che ha chiaramente mostrato come in molti casi gli stessi soci autorevoli dell'Accademia avessero preso le distanze dai modi e dai contenuti delle polemiche cornoldiane.

I quattro reggenti dell'Accademia erano Travaglini, Cornoldi, Venturoli, Casoni, mentre il consiglio era diviso in tre sezioni, teologica, filosofica, me-dica, composte ciascuna di cinque membri. La maggioranza erano soci ita-liani, anche se vi erano 47 soci di vari paesi, Francia, Austria, Inghilterra, Stati Uniti, Brasile. Per l'Italia le città più rappresentate erano Roma e Bologna, cui seguivano Ferrara e Perugia. Secondo le liste successivamente pubblicate le adesioni aumentarono progressivamente: cinquecento nel 1878, l'anno seguente i soci divennero 600, sull'onda del successo dovuto all'elezione di un accademico al soglio pontificio. Gli anni a cavallo dei due pontificati fu-rono quelli di maggiore crescita dell'Accademia e soprattutto del suo or-gano ufficiale, mentre il declino iniziò a partire dalla metà degli anni '80,

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quando la direzione di Venturoli si indebolì per il suo contemporaneo im-pegno nell'Opera dei Congressi.

Nel breve programma che apriva il primo numero del giornale, Ventu-roli descriveva l'Accademia come una dovuta risposta alle numerose richie-ste di scienziati, medici, teologi, che, frastornati dai discorsi delle scienze, cercavano una sponda sicura con la quale giudicarli e affrontarli. Già la de-nominazione del periodico era una polemica dichiarazione di intenti che su-scitò molti dubbi, ai quali rispose il programma scritto da Venturoli. L'ag-gettivo "italiana" avrebbe dovuto ricordare l'apice del pensiero raggiunto da un italiano, Tommaso d'Aquino, che aveva raccolto e sistematizzato «basi inconcusse del sapere antico», poi messe in discussione dal «pestifero veleno del razionalismo ultramontano»21. Riconoscere questa priorità italica non poteva arrecare offesa ai soci d'oltralpe, scriveva Venturoli, se realmente convinti della necessità di ritornare alla tradizione «debbono riconoscere per conseguenza che ciò proviene da causa di errori nati fuori d'Italia e in Italia importati»22.

Di indicare i responsabili e i mandanti di questa corruzione e di trac-ciare il piano di battaglia dell'Accademia si occupò subito nel primo nu-mero lo stesso Cornoldi in una comunicazione agli accademici. Quattro tipi di uomini erano responsabili di questo progresso nell'ordine sperimentale pagato con il crollo dell'ordine razionale e il precipitare nel materialismo e ateismo: i filosofi, che da Cartesio in poi balzavano da un concetto ad un al-tro, da un sistema al suo opposto e incontrando certi filosofi tedeschi erano arrivati ad una sintesi tra due estremi, insegnando «che il tutto è il nulla e che l'essere è il non essere»23. Quindi i cultori delle scienze naturali, che, abban-donata la sicura guida della filosofia, avevano assunto due nuovi dei, metro e bilancia, e nuovi paradigmi di verità, la vista e l'esperimento. Eredi dell'odio baconiano per il sillogismo, avevano sostituito alla causalità la casualità. Tyndall, Du Bois-Reymond, Huxley, Bù'chner, Moleschott, autori stimati di presunte «gemme del scientifico progresso moderno», citate, vendute, inse-gnate, non erano nient'altro che guastatori del vero. E poi i medici, alleati e complottardi, i più pericolosi nel diffondere il materialismo, perché «hanno facile ingresso in tutte le famiglie, e stanno in loro balia i mezzi più atti a fal-sare le altrui opinioni e a guastare i costumi»24. Infine i teologi, che non ave-vano fatto quanto era dovuto e necessario per fermare quest'ondata, per il semplice motivo che avevano abbandonato la sicura sponda scolastica, come in Germania, dove si erano diretti verso la teologia positivista, «per la qual

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cosa i teologi senza lasciar la natura di guerrieri, apparivano disarmati d 11 armi, più tra le altre poderose»25, cioè quella filosofia tomistica che un' «collega l'ordine logico o delle idee con quello fisico o della realtà»26 An che Galileo era presente in questo programma, con una duplice veste- di mandante, insieme a Bacone, della distruzione del «sillogistic'arco» e del dominio del metodo sperimentale, e di rassicurante esempio per l'Accade-mia. Infatti, proseguiva Cornoldi, nessuno degli scienziati contemporanei di Galileo gli aveva creduto, e, nonostante questo, nessuno d'essi era stato criti-cato o messo in discussione dagli scienziati ottocenteschi. Pertanto l'Acca-demia non doveva temere l'isolamento e le numerose critiche, poiché l'e-sempio galileiano mostrava che questa condizione di per sé non significava l'errore delle posizioni sostenute. Da una parte un solo italiano, Tommaso, dall'altra gli stranieri, i Descartes, i Malebranche, i Locke, e soprattutto i te-deschi Hegel e Kant, al momento dominanti, perché avevano conquistato at-traverso loro epigoni le scuole italiane, le cattedre universitarie27. Quei luoghi che erano strategici per gli scopi dell'Accademia, perché, sottolineava Cornoldi, «il frutto principale della nostra Accademia deve nascere dalle cattedre!»28

L'impostazione cornoldiana fu declinata per i medici da Venturoli. Il metodo sperimentale, sbagliato in sé, era la causa prima dei mali della medi-cina. Rompeva unità e identità di specie, stabiliva continuità tra animali e uomini e in questo modo faceva saltare il quadro teleologico predisposto dal cogito divino29. Ciò determinava quell'incertezza e variabilità intrinseche al nuovo modello di scienza e questo giudizio sarebbe stato il paradigma cri-tico con il quale tutti gli autori de «La Scienza Italiana» avrebbero poi esa-minato e valutato ogni argomento scientifico: dubbio, incertezza, mobilità di teorie e risultati, elementi ben lontani da quella solida e rassicurante chia-rezza e certezza del quadro logico-scientifico del tomismo. In questa pro-spettiva, ancora una volta, il ritorno al tomismo si traduceva nel ritorno all'e-sperienza solida e chiara dei clinici italiani: Taddeo Fiorentino, Guglielmo da Saliceto, Brasavola, Mercuriale, Fabrizio d'Acquapendente, che anche in questo caso avevano insegnato al mondo e alle generazioni successive, da Boerhaave a Lancisi, da Beccari a Frank, fino a Hufeland, Graves e Trous-

,30 seau

Per riprendere il linguaggio militare spesso usato dagli accademici, si può notare che le trincee della battaglia neotomista erano già state scavate in questi primi due testi. Il rifiuto del metodo sperimentale era totale, la materia

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non poteva essere oggetto d'indagine se non considerata nel suo essere parte di un tutto organico. Fisica, chimica, fisiologia non potevano considerarsi scienze, ma particolarismi che definivano qualcosa di profondamente e irri-mediabilmente altro dall'uomo. La visione organica e antropocentrica tro-vava buon gioco nel criticare le sperimentazioni sugli animali: la continuità tra animale e uomo era qualcosa di non concepibile all'interno di quel qua-dro organico dove le specie erano precisamente e teleologicamente definite. Sullo sfondo del rifiuto definitivo dell'approccio totalizzante delle nuove scienze positive che, con la fisiologia in primis, ambivano a costituire la base di una riorganizzazione del sociale. L'impianto composito dei nuovi modelli di scienza veniva rifiutato in blocco: dai nuovi criteri di verificazione all'ab-bandono di teorie sistemiche aprioristiche, dalla subordinazione, o annulla-mento, di teorie e sistemi all'osservazione microscopica, anatomopatologica o cllnica, per arrivare alle interazioni chimico-farmacologiche nell'organi-smo. E, non ultima, l'opposizione alle conseguenze teoriche e filosofiche de L'origine delle specie di Darwin, che era stato un ulteriore e forse più im-portante elemento di destabilizzazione dell'ordine simbolico e culturale cattolico: inserire l'uomo in una scala evolutiva implicava una perfettibilità che da una parte negava la teleologia metafisica del progetto divino, e dal-l'altra incrinava definitivamente ogni visione antropocentrica31.

La polemica indirizzata oltralpe era rivolta in realtà all'Italia degli anni del rinnovamento culturale e dell'interazione tra l'ambiente scientifico eu-ropeo e quello del nuovo Stato, che andava costruendo le proprie istituzioni culturali e universitarie e si era affidato in molti casi ai grandi nomi del posi-tivismo europeo. Al Moleschott chiamato a Torino da De Sanctis nel 1861, erano seguiti altri «stranieri» chiamati a cattedre di prestigio dell'università italiana: Herzen, Schiff, Von Schòn, Kleinenberg32. Ma, soprattutto, le uni-versità e i laboratori europei rappresentavano i luoghi in cui molti dei gio-vani scienziati italiani andavano a fare l'esperienza del materialismo, prima di teorizzarla: Vienna con Rokitansky, Monaco con von Voit e Pettenkofer, Berlino con Virchow e Du Bois-Reymond, Lipsia con Ludwig, Parigi con Charcot e Bernard. L'egemonia culturale33 che le scienze medico-biologiche ebbero nel dibattito culturale del secondo Ottocento italiano era il prodotto di questa interazione tra il nascente Stato, impegnato in un percorso di co-struzione politica e culturale, e il sapere medico e scientifico europeo. Un rinnovamento in cui la medicina, e in particolare la fisiologia, si attribuivano un ruolo fondamentale, quello di scienza totale del sociale, che conduceva a

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quell'utopia igienista che molti degli scienziati e medici italiani del secondo Ottocento cercarono di realizzare34.

I temi di medicina o di scienze naturali che furono affrontati dal gior-nale nel corso dei suoi quattordici anni di vita avevano come base comune l'assunzione ideologica del tomismo e dello schema ilemorfico come base interpretativa di tutte le questioni scientifiche - evoluzionismo, darwinismo sperimentalismo, meccanicismo, atomismo - e delle conseguenti pratiche te-rapeutiche. Dalle critiche delle prime traduzioni di Darwin, ad esempio i la-vori di Canestrini recensiti da Venturoli, alla teoria cellulare di Virchow, per arrivare all'esame della terapeutica, dal salasso alla profilassi antisettica fu-rono affrontati molti temi. In quest'ottica erano privilegiati i lavori di catto-lici, italiani e non, che venivano recensiti, e, se necessario, duramente conte-stati, nella prospettiva della rigida militanza neotomista che fu il carattere condizionante degli scritti pubblicati sul giornale. L'insieme dell'eterogenea produzione de «La Scienza Italiana» si configura come un tentativo di co-struire «la scienza cattolica», unica ed inconfondibile, in tutte le sue dira-mazioni, dalla fisica alla biologia, dalla medicina alla chimica, tutte accomu-nate dal porsi sulla solida e chiara piattaforma della filosofia di Tommaso, da cui sarebbero emerse chiarezza e solidità logico-concettuale tra teoria e pra-tica.

Questo ambizioso obiettivo è illustrato da un articolo comparso sul giornale nel settembre del 1878. Si trattava di un testo di quel nuovo socio francese, Sales Girond, direttore della «Revue medicale», che già negli anni '50 era stato impegnato in un dibattito, originato da una discussione all'A-cadémie Imperiale de Médecine di Parigi nel 1855, in cui aveva difeso tena-cemente il vitalismo, come scienza universale dell'uomo, che vantava illustri padri quali Aristotele, Ippocrate e Tommaso35. Nell'articolo pubblicato da «La Scienza Italiana», Sales Girond aveva affrontato il problema del rigore dei principi delle scienze naturali negli insegnamenti delle università cattoli-che, un elemento che era stato discusso diffusamente negli ambienti cattolici francesi all'indomani della legge del 1875 che permetteva la creazione di università cattoliche36. Parigi, Tolosa, Lille, Lione e Angers avevano iniziato ad organizzare corsi di diritto, lettere, scienze e medie-ma. Solo a Parigi e Lille erano stati attivati corsi di scienze naturali, mentre solo in quest'ultima esisteva una facoltà di medicina e farmacia37. In questa situazione era sorto, secondo Sales Girond, un problema d'ordine pratico, non grave per lettere e diritto, ma impellente per scienze e medicina. Occorreva definire la specifi-

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cita dell'insegnamento impartito nelle università cattoliche rispetto a quello delle università statali. Un problema che risaliva ai criteri di formazione e reclutamento dei docenti dei nuovi atenei. Molti di loro si erano formati al-l'École normale, magari avevano pure assistito alle lezioni di un Claude Ber-nard o di altri fisiologi positivisti. Come pretendere quindi che, pur animati da una buona fede cattolica, questi professori potessero insegnare qualcosa di molto diverso da ciò che veniva impartito nelle università di Stato? Soprat-tutto, proseguiva Sales Girond, come pensare che essi avrebbero sentito la necessità di distinguere e distinguersi? L'intervento di rettori o vescovi era poco praticabile. L'orgoglio professionale difficilmente avrebbe portato titolati docenti a seguire le indicazioni di persone, per quanto autorevoli, che erano assolutamente estranee ai contenuti ed alle competenze scientifiche. Il problema era molto chiaro al direttore della «Revue medicale»: «le fait est qu'on n'en est encore qu'aux débuts et que la physique, la chimie et la physiologie ont des organes aux Facultés catholiques, dont rien ne distingue-rai! les le£ons de celles qu'on entend aux Facultés de l'État»38.

Su quest'ultimo punto Venturoli si soffermò nel commento. Quella dottrina tomistica che l'Accademia propugnava era tanto più necessaria «non solo pei vantaggi propri derivanti da questa, ma anche per far cono-scere a colpo d'occhio in che le nuove Università si distinguono dalle Uni-versità governative od officiali»39. Altrimenti si rischiava di sprecare quegli «enormi sacrifici», che vescovi e cattolici francesi si erano sobbarcati per eri-gere le università cattoliche. Occorreva dunque recuperare la chimica catto-lica, la fisiologia cattolica: diverse perché, come diceva Sales Girond, «la première sait par principes ce que c'est qu'un corps, un'atome, une combi-naison», la seconda «c'est celle qui, partant du principe de l'individuante humaine corps et àme, se pose en face de la physiologie officielle subversi-vement fondée sur la négation de cette individuante, qu'on remplace par l'hypothèse absurde de l'ens per aggregationem»40.

Veniva posto qui il problema essenziale dell'intera rivista e probabil-mente uno degli elementi fondamentali del ritorno al tomismo: la necessità di distinguere la cultura cattolica, in tutti i suoi aspetti, da quella laica. Nel caso delle scienze della natura questo significava prendere le distanze sia da ipotesi teoriche, quali il darwinismo, o l'evoluzionismo o il meccanicismo positivista, sia soprattutto dall'impianto metodologico che le aveva originate, quell'approccio sperimentale alla ricerca e alla conoscenza che gli accade-mici identificavano come il principale responsabile delle «deviazioni» teori-

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che. L'insistenza su questi temi e sulla prospettiva per le università si giusti-ficava anche con il fatto che quelle stesse università cattoliche francesi erano ben rappresentate nell'Accademia. Il vescovo di Angers, il rettore dell'uni-versità e un professore erano soci dal 1876, nell'anno seguente si associa-rono il rettore e diciannove docenti dell'Università di Lillà; Lione dal 1879 fu presente con l'arcivescovo, il cardinale Caverot e con un professore, mentre Tolosa avrebbe avuto solo un professore dell'Università e Parigi, con l'arcivescovo e numerosi professori di scienze naturali e di teologia sarebbe stata fin dall'inizio la più rappresentata. Con la rete universitaria cattolica, quindi, l'Accademia cercò fin dall'inizio un rapporto organizzato e capil-lare, segno della prospettiva nella quale era nata e agiva.

Ben diversa era la situazione in Italia. Il percorso di unificazione si era sviluppato in opposizione al potere papale e le successive annessioni dei territori pontifici al nuovo Stato, soprattutto le zone emiliano-romagnole, avevano privato Roma di-larga parte del suo sistema universitario, tanto che, come nota Gasnault, con l'inizio dell'anno accademico 1860-1861 il pre-fetto della Congregazione degli Studi manteneva giurisdizione sulla sola università romana, che avrebbe perso dopo Porta Pia41. D'altro canto l'am-biente universitario era uno spazio che i cattolici e la chiesa consideravano come ostile. Aveva svolto un ruolo di supporto ideologico e culturale di primaria importanza nella costruzione del nuovo Stato e dall'università erano usciti numerosi dei protagonisti della vita politica del secondo Otto-cento italiano. Le leggi sull'università avevano posto una seria ipoteca alla presenza dei cattolici, in quanto prevedevano il giuramento di fedeltà al re ed alle istituzioni42, mentre nel 1873 erano state soppresse nel nuovo ordinamento le facoltà di teologia43. L'attenzione prioritaria de «La Scienza Italiana» verso la formazione del clero e l'insegnamento nelle università si colloca in questo quadro, all'interno del quale intendeveTàbbozzare un progetto di creazione di un sistema scolastico cattolico. In questa prospettiva Cornoldi presentò più volte come esempio da seguire il caso di Pisa, dove nel 1874 era stata tentata la costruzione di un collegio per studenti che volevano continuare a studiare nella «vera fede». Progetto fallito per la reazione dei gruppi anticlericali, ma che fu enfatizzato come un primo segno di costituzione di un sistema educativo cattolico organizzato44.

Da un altro articolo di Sales Girond, in cui celebrava la nomina alla cat-tedra di patologia interna della facoltà di medicina di Parigi di un allievo di Trousseau, Peter, che si definiva contrario agli indirizzi positivisti e materia-

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listi della facoltà, Venturoli prese spunto per attaccare ancora quella medi-cina della scuola dei «tedescanti», che si voleva succube di chimica e fisica, riducendo il medico a praticante. Datt'omnis cellula e cellula di Virchow a tutta la medicina sperimentale, la condanna fu totale. Riportando brani della lezione inaugurale di Peter, Venturoli sosteneva che questa impostazione medica era il prodotto dello «sminuzzamento» del corpo umano: dimenticato l'organismo per l'organo, l'organo per un suo frammento e questo per una cellula. La medicina si era ridotta ad uno iatro-meccanicismo, dove la terapeutica veniva disprezzata e l'attenzione era volta alla sola lesione, con uno sguardo irrimediabilmente viziato dal microscopio. Non si poteva più parlare di «scienza medica», ma solo di un sistematico particolarismo che aveva spazzato via teorie saldamente ancorate nella tradizione, dalle febbri essenziali alla dottrina dei temperamenti, per lasciar spazio a fantasie infettive o fermentative45. Ancora una volta queste teorie «d'oltralpe» avevano guastato la sana tradizione italiana, provocando uno scetticismo terapeutico, proseguiva Venturoli, «sconosciuto in Italia prima di quindici o venti anni fa»46. Compresi in questa stroncatura erano anche gli effetti positivi della farmacologia, testimoniati dalla statistica, che, per il medico bolognese, erano semplicemente il prodotto di miglioramenti igienici, non certo dell'efficacia «chimico-meccanica» di composti o terapie.

Venturoli anticipava nel numero di febbraio la critica della fisiologia, alla quale si sarebbe dedicato il medico romano Alessio Murino, che, con il numero del luglio 1877 iniziò la pubblicazione di uno studio su La fisiolo-gia umana in 31 capitoli, che sarebbero apparsi sul giornale fino al febbraio del 1883. Uno studio dedicato ai «giovani medici», come preannunciato nel gennaio del '78, ma anche ai dotti estranei alla medicina.

Murino, nella lezione preliminare, definiva la fisiologia umana come «studio delle funzioni organiche dell'uomo nello stato di sanità; che vai quanto dire nello stato normale». Cosa ben diversa da quella propugnata da chi nega Dio come base della scienza e divertitosi «a sventrar ranocchie e conigli, a martirizzare cani, a carezzar scimie, non ha mai osservato un uomo»47. Si ripresentava qui uno dei topoi dell'intera critica allo sperimen-talismo della fisiologia, le polemiche, cioè, contro la vivisezione applicata alle scienze mediche e fisiologiche, che portava implicitamente ad una equipa-razione o analogia tra fisiologia umana e animale. Posizioni critiche che non erano prerogativa del solo mondo cattolico, basti pensare alle vicissitudini di

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Moritz Schiff a Firenze, ma che si integravano densamente nell'impianto ideologico del giornale48.

La struttura delle lezioni di Murino seguiva lo schema dottrinale origi-nario: la fisiologia era messa in discussione dal punto di vista delle sue cer-tezze e dei suoi risultati. Le discontinuità, le contraddizioni, i cambiamenti teorici e pratici nelle terapie come nelle ipotesi erano letti come un effetto pratico e scontato del rifiuto di un quadro metafisico ultimo, al quale, in so-stanza, corrispondesse il quadro naturale. Nell'argomentare e spiegare le questioni fisiologiche erano inseguite ed enfatizzate in maniera pedante e ri-petitiva tutte le situazioni nelle quali vi fossero due o più letture o ipotesi su un dato fenomeno. Inoltre l'autore delegittimava la fonte alla quale l'em-briologia attingeva i risultati, i bruti o le analisi autoptiche, sostenendo che l'embriologia non poteva dirsi umana, «giacché e gli uni osservarono i bruti, e gli altri osservarono i cadaveri. E tra il bruto e l'uomo, e tra il cadavere e l'organismo vivente è un abisso»49. Quei tre déplacements che, secondo Canguilhem, caratterizzarono la medicina sperimentale ottocentesca sono ri-fiutati in blocco: il laboratorio, l'animale, il principio chimico attivo50. L'in-certezza sostanziale dello sperimentalismo derivava, secondo Murino, dal dominio della chimica nella spiegazione scientifica, efficace soltanto quando si limitava all'inorganico, «per la qual cosa il progresso non è più misurato dai secoli o dagli anni, ma dai giorni e dalle ore»51, ma fallimentare nel mo-mento in cui cercava di spiegare l'organico. In quest'ambito la chimica non poteva avere successo, poiché la sua analisi della materia si basava sulla scomposizione e la distruzione della materia stessa; identificati i singoli ele-menti che la componevano era poi incapace di sintetizzarli, e di effettuare il percorso inverso tornando al tutto: così con idrogeno, ossigeno e acqua, come con la carne. E se tale percorso non era invertibile, «è segno che o questi prodotti non sono i componenti, o almeno che non sono tutti i com-ponenti»52.

Nel proseguire le spiegazioni sull'embriologia Murino affrontava poi le ipotesi cellulari di Virchow, condannate perché ripresentazione in altra forma del panteismo: «dirassi che la cellula è insieme direttore e fattore, che ha in sé la potenza di far la legge e di eseguirla, di trasformarsi e di generare. Rispondo che una cellula siffatta può, a tutta ragione appellarsi Dio: e rimet-tesi in voga sotto forme più luride, perciò, il vecchio panteismo»53. Il micro-scopio e la chimica avevano falsato sguardo e ragione, per cui quel che ve-niva chiamato cellula non era altro, secondo Murino, che un essere morto,

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inerte, tolto da quel tutto organico all'interno del quale soltanto poteva vi-vere e essere compreso. Quest'approccio dei fisiologi si rifletteva in un brancolare in teorie tra loro contraddittorie, distruttrici l'una dell'altra, perse in individuali spiegazioni che non riuscivano più a risalire ad una spiega-zione organica e unitaria. Così Virchow, gli istologi e i fisiologi non erano capaci di trovare una comune spiegazione; l'individualismo degli elementi analizzati si rifletteva anche nell'individualismo delle teorie ipotizzate, per cui, concludeva Murino, «abbiamo nel nostro organismo cellule che man-giano, che muovonsi, che camminano: una specie di inquilini sconosciuti e invisibili che agiscono da padroni in casa nostra, andando dove loro più ta-lenta, alimentandosi di ciò che loro maggiormente piace»54. Perché, in fondo, «la cellula vivente nell'organismo nessuno ha mai veduta, né potrà vedere giammai»55.

Affrontando le ipotesi sull'ereditarietà il medico romano sfiorò il tema dell'animazione umana, concetto basilare nell'impianto teorico che faceva della materia qualcosa di formato da un elemento esterno. Murino sosteneva che l'ipotesi dell'animazione ritardata, che aveva in Tommaso il più autorevole teorico, era ormai superata dall'idea che «l'anima umana viene creata quindi immediatamente da Dio, e viene infusa contemporaneamente nell'organismo novello»56. A sostegno di quest'affermazione portava anche l'attività di magistero e la prassi legislativa della chiesa. Su questo specifico punto la direzione del giornale prese le distanze, in una nota si avvertivano i lettori che «La Scienza Italiana» non intendendo discostarsi dalle ipotesi tomistiche continuava a ritenere che l'animazione ritardata fosse l'ipotesi principale e più autorevole.

L'attacco a Virchow venne ripreso da Venturoli in una recensione, spo-stando la critica su un altro piano: il principio omnis cellula e cellula non poteva essere accettato perché implicava una concezione dell'identità umana basata sull'individualità della cellula. E in questo senso anche la Zellular-pathologie di Virchow e la sua affermazione che «anche l'uomo è una so-cietà», composta di sistemi funzionalmente differenziati, non poteva essere accettata dal medico ortodosso: il corpo e l'uomo erano e dovevano rimanere un'unità, organica e perfetta perché formata da un cogito metafisico. Ma soprattutto erano rifiutate le conseguenze possibili di tale ipotesi, la prospettiva biopolitica in cui la medicina e i medici erano portatori di un sapere con il quale si sarebbe riorganizzato l'ordine sociale e politico in funzione dell'igiene e della salute. L'argomentazione di Venturoli

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scivolava, infatti, nel politico, per cui non era possibile ridurre l'uomo a società:

un uomo vive ancora che sia cacciato e separato dal suo popolo, dal suo stato, dalla sua nazione: ma una cellula organica, una gamba, un fegato, non vivono un'ora, appena sono separati dall'animale al quale appartenevano [...]. Così che l'assoluta dipendenza al tutto negli elementi organici di un essere vivente è un fatto naturale e necessario, mentre in società è un fatto normale la limitata dipendenza degli enti subalterni all'autorità suprema sociale57.

Con la Aeterni Patris la crociata neotomista dell'Accademia trovò un'autorevole sponda, con la quale irrigidire la critica delle "eterodossie". Questo nuovo principio di autorità venne subito speso da Venturoli per criti-care il professore lovaniense Proost, reo di aver continuato a sostenere ipotesi fisico-chimiche come esplicative dei fenomeni vitali. Uno dei molti esempi nei quali la compatibilita con l'apologetica cattolica era stata trovata nella salvaguardia delle cause ultime, lasciando poi spazio alle teorie meccanicisti-che e atomistiche per la lettura dei fenomeni naturali. Una prospettiva che Venturoli non poteva accettare, soprattutto in funzione della militanza po-lemica neotomistica, perché, argomentava, «come si potrà nell'Università belga insegnare ai giovani il modo di combattere le pericolosissime teorie di Darwin e i falsissimi principi dell'evoluzione organica?»58 Sullo sfondo era contestata l'idea stessa di vita sia nell'accezione di ciclo vitale continuo sia in quella di materia organica organizzata in base ad associazioni, riduzioni, condensazioni. L'idea di vita non poteva essere ridotta a quella di materia vivente senza implicare che questa fosse autosufficiente e completa. La vita, secondo Venturoli, era un qualcosa di più, oltre la materia e la sua organizzazione, che al tempo stesso negava ambedue, poiché vi era stata inserita ab estrinseco da Dio. Dall'enciclica Venturoli trasse conferma di un modello interpretativo che aveva già avuto ampio spazio sulle pagine del giornale: l'idea che le singole cose corporee fossero state create nelle loro rispettive nature, differenziate e distinte, ognuna con un suo ruolo e funzione in materia e forma. Una prospettiva dalla quale erano bandite mobilità, trasformazioni, forme intermedie di un percorso evolutivo. Né poteva essere accettato, secondo Venturoli, il principio vitale, adottato da molti cattolici, poiché, se non poteva dirsi specificamente materialista, negava l'unità sostanziale dell'uomo, violando la visione ilemorfica. Nella stessa linea si inserirono le sue successive contestazioni ai metodi e alle ipotesi di Charcot,

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cui veniva imputato di aver negato, attraverso le sue ricerche sulle alterazioni organiche e dei centri delle sensazioni, la centralità dell'elemento razionale nel processo decisionale dell'uomo. Mentre per Venturoli le malattie nervose erano sempre alterazioni di quell'unico centro di volontà, razionalità e sensazioni che era la ragione, l'anima razionale59.

Se la critica delle grandi teorie e dei grandi sistemi scientifici ottocente-schi occupò la maggior parte della produzione de «La Scienza Italiana», per la penna soprattutto di Venturoli e di alcuni dei teologi tornisti soci dell'Accademia, quali Zanon, Liverani ed altri, i concetti e gli schemi di quella critica furono declinati anche sul piano più propriamente pratico della terapeutica. La difesa di terapie o interventi chirurgici caduti in disuso o fortemente messi in discussione dalle novità scientifiche della fisiologia del secondo Ottocento fu giocata nella stessa prospettiva ideologica. Anche qui resistenze o difficoltà nell'accettare le nuove e più recenti scoperte mediche, dalla Zellularpathologie di Virchow, all'asepsi di Semmelweiss, per arrivare all'ultima grande rivoluzione medica ottocentesca, la scoperta dei batteri da parte di Koch e Pasteur, non erano peculiarità del mondo cattolico. Si trattava di cambiamenti che incidevano nel profondo su mentalità, comportamenti e prassi mediche che resistevano ai nuovi concetti e alle nuove prospettive aperte da queste scoperte. Sulle pagine de «La Scienza Italiana» questi dubbi e resistenze, o per meglio dire rifiuti netti, derivavano dall'assunzione ideologica che quelle ipotesi fossero il prodotto di impostazioni scientifiche sbagliate, non coerenti e organiche con il dettato tomistico, per cui a priori invalidate ed invalidagli. E questo aprì in alcuni casi la strada ad una paradossale convivenza nell'argomentazione degli articolisti di una prospettiva sperimentale, basata sull'esperienza e la ripetizione di tentativi, osservati e valutati, con la critica di quest'approccio, quando usato dai propugnatori delle teorie che dovevano essere criticate.

Un esempio di intervento di questo tipo fu la difesa del salasso scritta dal medico chirurgo romano Ignazio Vespignani. Il caso del salasso rappre-sentava per lui l'esempio massimo della versatilità di pratiche e opinioni della medicina, che aveva abbandonato le sicurezze metafisiche per affidarsi alle incertezze sperimentali di una concezione materialista che si rifletteva anche sul versante politico:

guardate alle mal celate aspirazioni dei Parlamenti, delle Accademie e del Foro [...] e ditemi se il Divorzio, il Verismo, e le Tendenze Irresistibili, non valgano le ultime conseguenze pratiche di quella Scienza Antropologica che insegna essere il

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pensiero un fenomeno di fosforescenza cerebrale e l'anima stessa una funzione del cervello?!60

Il discredito ottocentesco del salasso come pratica terapeutica rientrava per Vespignani nel quadro dell'alternarsi, nella storia, di una «ematomania» e di una «ematofobia», che in differenti periodi avevano portato all'abuso o al rifiuto di tale pratica. Questo variare di opinioni nell'indirizzo scientifico-pratico faceva sì che il credito dell'attuale medicina fosse nullo, anche e so-prattutto nel negare l'efficacia del salasso. Vespignani traeva la morale me-todologica da Puccinotti, per il quale «fintantoché il metodo in Medicina prenderà le mosse o da qualche dato fisiologico o da alcuni fatti o sperienze, sarà un metodo che durerà finché quel dato sarà creduto vero o finché questi fatti o sperienze non incontreranno i loro contrari [...] i metodi così costituiti sono sempre i malfermi, e se giovano ad una Dottrina, non giovano al com-plesso della Scienza»6^.

Un secondo tema sul quale si esercitò la critica neotomistica della tera-peutica fu l'antisepsi. In questo caso il giornale ospitò un articolo di Filippo Girelli tratto dalla «Gazzetta degli ospedali» in cui veniva contestato l'uso dei metodi listeriani in medicina interna e l'uso di acido fenico, salicilico e sub-limato quali antisettici62. Le conseguenze allergiche dell'uso di tali sostanze aggiunte agli studi di Gauthier e Brieger avevano rovesciato l'idea antisettica, isolando delle sostanze tossiche all'origine delle malattie infettive, per elimi-nare le quali si riproponevano salassi, diuresi, sudorazione. Un altro esempio in cui fu affrontata la terapeutica è una memoria di Luigi Brajon, medico chirurgo primario del manicomio di San Servolo a Venezia, gestito dai Fate-benefratelli. Brajon ripresentò una memoria con la quale aveva concorso al premio della fondazione Balbi Valier per il progresso delle scienze mediche e chirurgiche nel biennio 1880-188163. La memoria era stata respinta, con un giudizio, pubblicato in testa all'articolo, che definiva il testo di Brajon insufficiente in quanto sosteneva teorie già note e superate dalla prassi clinica. Brajon usò lo spazio messogli a disposizione da «La Scienza Italiana» per difendere la bontà della sua memoria e per criticare l'approccio dei giudici del concorso veneziano. Oggetto dell'intervento erano le medicazioni di ferite e ulcere croniche e gli apparecchi per fratture e malattie articolari. Brajon usava nella pratica dell'ospedale una metodologia basata su quattro principi: sottrarre la parte malata all'influenza perniciosa di agenti esterni presenti nell'aria, procurarne l'immobilità, non interrompere il

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processo autoriparatore della natura e esercitare un grado di compressione. Rifiutava i metodi listeriani e ogni profilassi antisettica, in quanto violavano le capacità autorigenerative della natura. La bocciatura era, secondo il medico, il prodotto del solito prevalere delle teorie «prussiane», e dell'abbandono delle sane tradizioni italiane, seguendo le quali i «padri clinici» avevano riscosso notevoli successi in chinirgia, come testimoniavano le statistiche, perché «ammaestrati all'esperienza».

Nel corso dell'ultimo anno di pubblicazione del giornale appariva chiara la fine dell'esperienza de «La Scienza Italiana», perché il clima non era più favorevole ad un neotomismo rigido, i risultati della crociata neoto-mista non arrivavano e molti dei protagonisti erano impegnati in altri con-testi64, Venturoli chiuse l'annata con un lungo intervento, quasi ricapitolati vo, sui temi di fondo del rapporto tra neotomismo dell'Accademia e scienze. In quest'articolo passava in rassegna alcuni studi pubblicati in Francia, che avevano propagandato un epicureismo di nuovo conio di cui, a suo avviso, Spencer per la filosofia e Haeckel per l'embriologia erano stati i protagonisti. Anche in questo caso i libri recensiti provenivano da quelle università cattoliche francesi sulle quali l'Accademia aveva puntato molto, ma che resistevano a piegarsi all'ortodossia tomista.

Se sui punti fin qui esaminati le connessioni tra l'attività dell'Accade-mia e l'ampia rete di rapporti creata con le numerose associazioni, soprat-tutto all'interno dei più importanti organismi della chiesa romana, è qualcosa che non traspare immediatamente, su un altro punto specifico è possibile avanzare l'ipotesi che l'Accademia abbia avuto un ruolo nel coagulare posizioni, o nell'esercitare pressioni che poi hanno avuto un riscontro nella normazione della più importante istituzione della chiesa cattolica, la "Suprema" Congregazione del Sant'Uffizio. Come abbiamo visto, infatti, la presenza dell'Inquisizione, quantomeno a titolo formale, nell'Accademia era cospicua: più di un terzo dei membri onorari erano membri del Sant'Uffizio già a partire dall'anno di fondazione de «La Scienza Italiana». In tal senso è lecito supporre che fin dall'inizio delle pubblicazioni questi membri fossero a conoscenza degli argomenti sui quali i soci accademici intendevano insistere. E tra questi argomenti ve n'è uno che avrebbe avuto in seguito una definizione normativa che in larga parte rispecchiava l'impostazione ed i caratteri dell'analisi dei soci dell'Accademia. A partire dal 1884, infatti, il Sant'Uffizio iniziò ad emanare una serie di sentenze a carattere normativo che riguardavano uno dei

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problemi più cari agli Accademici, quello di definire la specificità dell'approccio cattolico alla pratica medica, in questo caso ostetrica. Un tema che incrociava, tramite il problema dell'animazione, anche il rapporto tra materia e spirito, «diatriba tra le più aspre sin da metà Ottocento»65. Infatti, oggetto della normazione inquisitoriale furono i problemi dell'ostetricia cosiddetta abortiva, vale a dire la definizione di modalità e limiti dell'intervento medico in situazioni in cui la vita della donna incinta era posta in pericolo, a causa più o meno diretta della presenza del feto nel suo ventre. Si trattava di discernere e identificare il modo cattolico di agire in questi casi, districandosi nella serie di possibilità terapeutico-chirurgiche che la medicina coeva stava già ampiamente usando. Le sentenze del Sant'Uffi-zio definirono ogni singolo caso, entrando nel dettaglio in maniera punti-gliosa e ripetuta. Ne risultò che qualsiasi operazione chirurgica o intervento medico di qualsiasi tipo su una donna incinta, in qualsiasi periodo della gravidanza, poteva esser attuato solo e soltanto nel caso in cui fosse stata garantita a priori la vita del feto.

L'ostetricia abortiva e il tema dell'identità del feto erano stati tra gli argomenti più presenti sulle pagine de «La Scienza Italiana», lungo tutto il periodo della sua esistenza. La prima comparsa del tema sul giornale fu nel maggio del 76, con una memoria che, trattando di un caso di gravidanza ex-trauterina, descriveva come pratica usuale l'operazione di estirpazione del-l'idrovario66. Nel fascicolo del giugno del 1877 la questione venne ripresa in una recensione di Venturoli al libro di Alphonse Eschbach, L'embryoto-mie au point de vue théologique et morale, ou examen de la question s'il est permis de tuer l'enfant pour sauver la mère, appena uscito nell'edizione ita-liana. Eschbach era uno dei personaggi dell'ambiente cattolico più esposti nella questione che avrebbe agitato il dibattito tra scienza e fede nell'ultimo ventennio, su cui aveva più volte scritto, e venne considerato infatti come l'antesignano degli antiembriotomisti67. Venturoli tornò ad occuparsi in quest'occasione di un argomento che aveva già affrontato. Infatti nell'aprile 1863 aveva pubblicato sugli «Annali Universali di Medicina», probabilmente la rivista di medicina più autorevole nell'Ottocento italiano, un articolo in cui contestava le pratiche abortive e embriotomiche in ostetricia e propugnava come alternativa terapeutica efficace la sola operazione cesarea68. Apprezzò subito il lavoro di Eschbach, sia perché era stato inviato dall'autore a tutti i rettori delle università cattoliche francesi, sia perché utile «ai tempi nostri, ne' quali è invalsa pur troppo fra i chirurghi la massima di

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potersi e doversi sacrificare il feto». Servivano strumenti per contrastare queste pratiche nate nel protestantismo e che nel passato non sarebbero mai state accettate «tra i popoli inciviliti dalla luce del cristianesimo», ma che purtroppo si diffondevano anche in Italia e «colle teorie utilitarie del giorno» era da attendersi che avrebbe avuto un ulteriore sviluppo69.

Se questi primi interventi registravano e commentavano lavori esterni all'Accademia, con il 1878 «La Scienza Italiana» iniziò a pubblicare materiale originale sui singoli aspetti che componevano la questione dell'ostetricia abortiva dal punto di vista scientifico-morale, verrebbe da dire, con un anacronismo, bioetico.

Fu ancora una volta Venturoli a riportare la questione alla ribalta, occu-pandosi dell'annosa e dibattuta questione del tempo in cui nel feto veniva infusa l'anima razionale, momento finale del percorso di ominizzazione dell'essere umano. La questione dell'animazione aveva avuto un lungo e complesso dibattito nel corso dei secoli, di cui Tommaso era stato un punto di svolta e di riferimento. Le due ipotesi sui tempi dell'animazione, al mo-mento del concepimento, oppure in un momento successivo, più o meno intorno al terzo mese, erano state discusse a lungo. E se fino alla fine del XVIII secolo l'ipotesi prevalente, sia nel dibattito teologico che nella prassi e dottrina della chiesa cattolica, era stata la vecchia ipotesi aristotelica dell'animazione ritardata, innestata e sistematizzata nella teologia cattolica proprio da Tommaso d'Aquino, con le ricerche embriologiche e con gli sviluppi della prassi ostetrica dell'epoca dei lumi, aveva iniziato a prevalere su ambedue i piani l'ipotesi alternativa che poneva l'animazione nel momento stesso del concepimento.

Venturoli doveva coniugare una prospettiva tomistica, quindi portatrice di una idea di animazione ritardata, con la negazione totale della legittimità di qualsiasi pratica abortiva. Come abbiamo già visto, infatti, nel pubblicare l'articolo di Murino sulla fisiologia umana la direzione del giornale aveva marcato la propria distanza dalle affermazioni del medico romano che da-vano per scontata l'animazione immediata. Anche il cambiamento di idee sui tempi dell'animazione era per Venturoli il prodotto dell'abbandono delle sicure tradizioni per i dubbi del materialismo razionalista. Dal punto di vista fisiologico non riteneva esistessero elementi a suffragio della «nuova» ipotesi, ne, peraltro, che negassero la tradizionale visione tomistica. Liquidata m questi termini la questione medico-scientifica, affrontò il vero nodo, la prospettiva filosofica. In questo senso assunse dettagliatamente e completa-

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mente la prospettiva tomistica per la quale l'animazione era il momento fi-nale di una successione di anime, vegetativa, sensitiva e, solo in ultimo, razio-nale. Quest'ultima era portatrice dello specifico ontologico dell'essere umano, per cui, argomentava, non poteva attribuirsi che ad un corpo che avesse una «forma» umana, organizzata e atta a recepire e sfruttare a pieno le potenzialità che l'anima razionale portava. Era del tutto sostenibile l'idea che l'anima razionale entrasse in «un corpo insomma tutto a lui appropriato e diverso da quello di tutti gli altri animali: talché nessuno stimerebbe giusto dare l'appellativo di essere umano ad una massa organica, che nella sua configurazione non ha nulla di distintamente umano»70. Anche perché, pro-seguiva, lo sviluppo embriogenico passava attraverso fasi nelle quali l'em-brione ha un tipo di vita non dissimile da quella vegetale prima ed animale poi, e, solo in ultimo, manifesta i caratteri distinti e specifici della specie umana71. Appoggiandosi all'embriologia di Quatrefages, Venturoli definiva una prospettiva progressiva, quasi evoluzionistica, nella quale l'embriogenesi era considerata fenomeno unitario di graduale perfezionamento, in cui solo l'essere umano raggiungeva l'ultimo e più perfetto stadio72. In tale prospettiva lo sviluppo era considerato qualcosa di programmato che procedeva per accumulazione, riconfermando così uno degli argomenti più criticati della tesi tomistica, che aveva indotto molti ad abbandonarla, vale a dire l'implicita presenza nella successione delle anime dell'idea di corruzione e generazione da una forma meno perfetta ad una più perfetta. Problema ben chiaro a Venturoli, che si rifugiò nel mistero e nell'incapacità umana di capire il tutto progettato dalla mente divina. La sola virtù del seme sarebbe quindi stata la capacità di predisporre la materia in maniera organizzata, per essere in grado di ricevere l'anima razionale. Una spiegazione che riteneva si integrasse perfettamente anche con le analisi fisiologiche sull'ereditarietà. Con l'animazione immediata infatti, sosteneva, non si sarebbe potuto capire quale fosse l'apporto del seme del padre al nuovo essere e come si spiegassero le somiglianze fisiche.

È sempre Venturoli a recensire due testi del dottor Vanverts, dell'uni-versità cattolica di Lille, nei quali erano presentati casi di aborto ostetrico provocato e operazione cesarea avvenuti all'Hòpital Saint-Eugénie.-41 me-dico scriveva contro la pratica dell'aborto ostetrico, ma soprattutto tendeva a descrivere le modalità terapeutiche specifiche dell'ospedale universitario di Lille, come profondamente diverse da quelle prevalenti negli ospedali parigini, o discusse in ambito medico. In questo quadro emergeva anche una

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particolare attenzione al problema dei tempi e dei modi del battesimo. Si trattava di un approccio alla terapeutica ostetrica che Venturoli sottolineò subito con entusiasmo. Ancora una volta era la prospettiva della costruzione di una scienza e prassi medico-scientifica cattolica ad essere enfatizzata e rilanciata, soprattutto in contrapposizione all'università di Parigi e alVAcadémie nationale de médecine, che avevano ambedue accettato e proposto l'aborto provocato a fini terapeutici come legittimo e doveroso dal punto di vista professionale e deontologico. Venturoli, spiegando i termini del problema, isolò quello che sarebbe poi stato il punto centrale sottostante a tutte le successive decisioni del Sant'Uffizio. Nelle situazioni di gravidanza a rischio, condizione necessaria e sufficiente di ogni intervento terapeutico era il non provocare direttamente la morte. Così l'aborto terapeutico o l'embriotomia non erano leciti, ma poteva esserlo l'operazione cesarea, in quanto «formalmente» prevedeva la salvezza di donna e feto. Che poi, nella realtà medica di tutto l'Ottocento, tale intervento fosse una sanzione di morte per la donna, date le carenze antisettiche e chirurgiche, non veniva considerato dal medico bolognese. Infatti, il punto cruciale e fondamentale della valutazione morale di questi problemi era che le pratiche abortive implicavano una morte scelta «per opera di chi non ha diritto di scelta»: «che una terza persona s'incarichi di decidere chi fra due, debba essere ucciso o che una madre snaturata, per evitare un proprio pericolo, debba raccomandarsi perché vengale sacrificato il parto delle sue viscere, questo è ciò che non si può intendere»73. Veniva qui identificato un altro dei punti che avrebbero poi sostanziato le sentenze del Sant'Uffizio, l'assunzione da parte del medico di un diritto di vita e morte che non gli competeva, in quanto prerogativa esclusiva di Dio. In questo senso anche il ricorso all'operazione cesarea si configurava come il massimo tipo di intervento attivo che un medico potesse fare in una situazione di pericolo di vita; oltre quel limite c'era soltanto l'affidarsi alla natura e al destino, che avrebbe salvato chi era destinato ad esserlo.

Ancora Venturoli recensì nell'anno successivo il libro del sacerdote Ste-fano Apicella dedicato alla craniotomia, nel quale tale pratica medica veniva accettata in determinati circostanziati casi74. Apicella per giustificare le pratiche abortive si appoggiava al classico argomento della collisione dei diritti, per il quale nella situazione di una gravidanza a rischio si scontravano due diritti alla vita, della donna e del feto, posti in linea di principio sullo stesso piano di legittimità. Un'analisi ponderata portava il sacerdote a definire

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quello della donna preponderante, poiché già sviluppatosi in relazioni sociali, affettive e familiari utili alla società. Venturoli contestò blandamente quest'uso, ma soprattutto richiamò Apicella ai doveri della militanza. Mostrare all'esterno, al nemico positivista, che anche tra i teologi esisteva una dialettica su questi temi era semplicemente un modo per indebolire la legittimità della chiesa e dei suoi argomenti: i medici da questo «trovan conforto a proseguire la loro pratica assai comoda e fanno il facile sacrifizio della vita di tante creature innocenti che non possono difendersi, a vantaggio tante volte, del vizio e della colpa»75.

Sempre nel 1879 venne pubblicata una memoria originale del medico bolognese Vincenzo Bacchi, il quale sottolineava uno dei punti fondamentali della vicenda e della discussione. Le pratiche abortive erano qualcosa di noto alla storia, non si trattava certo di una novità ottocentesca. E ne avevano par-lato anche i Padri della chiesa: ad esempio Tertulliano aveva scritto sull'embriotomia già nel II secolo. Si trattava di interventi che venivano praticati spesso sulla scena del parto, ma quantomeno «fu già un tempo che questa come tant'altre questioni non si facevano almeno ex professo»76: o si tacevano tali esperienze, o si trovavano nei principi generali gli strumenti per decidere. Invece ora, proseguiva il medico, anche sacerdoti e teologi si erano spinti a giustificare moralmente tale tipo d'intervento ostetrico. Il già men-zionato Apicella, Daniele Viscosi ed altri avevano cercato in vari modi di de-costruire la craniotomia, o l'embriotomia, in quanto interventi «Decisivi», con il dimostrare che la morte era un effetto indiretto di tali interventi, non il loro prodotto automatico ed immediato. Bacchi spostava invece l'analisi sul piano dell'ordine universale, per cui ogni essere vivente era per sua natura vivente e togliergli la vita significava andar contro l'ordine universale ed il suo artefice. In questo senso la gerarchla dell'ordine universale dettava una padronanza e un dominio degli esseri più perfetti su quelli meno perfetti. Tutto ciò per spiegare che il dominio sull'uomo non apparteneva ad un altro uomo, ma a Dio, che solo aveva il potere di vita e morte. L'intervento abor-tivo si configurava per il medico come un doppio attacco a Dio, cui veniva usurpata una prerogativa e che veniva insultato attraverso l'uccisione di un uomo. Si trattava quindi secondo Bacchi di un problema di autorità: il me-dico non poteva intervenire in tale senso perché non aveva né gli era stata attribuita da alcuno l'autorità per operare questo tipo di scelta.

Nel 1885 «La Scienza Italiana» pubblicò un'altra memoria originale. Questa volta, però, le argomentazioni degli accademici potevano giovarsi di

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un ombrello protettivo autorevole. Infatti il 28 maggio dell'anno prima la congregazione del Sant'Uffizio aveva decretato che non poteva essere inse-gnato con certezza che la craniotomia fosse lecita in talune determinate cir-costanze77. Si trattava di una risposta ad un quesito che era arrivato agli in-quisitori da una delle note università cattoliche francesi, quella di Lione, dove, peraltro, la facoltà di medicina era ancora allo stato di progetto. Firma-tario della richiesta al Sant'Uffizio era stato l'arcivescovo Louis Marie Cave-rot, socio dell'Accademia filosofico-medica dal 1879. Un ulteriore elemento, questo, a suffragio dell'ipotesi che l'insieme di posizioni che originò le sentenze del Sant'Uffizio fosse maturato all'interno dell'ambiente dell'Accademia, e in particolare del suo organo78. Sebbene la risposta inquisitoriale andasse nel senso della prospettiva dell'Accademia, non aveva la rigidità da questa auspicata. Infatti tra le formule disponibili per la risposta ne era stata scelta una, tufo doceri non posse, che assumeva l'incertezza e l'impossibilità di definire in maniera assoluta e categorica la liceità o meno dell'intervento. Cosa che fu subito notata dal medico di Chiari Antonio Rota, incaricato di scrivere una nuova analisi della questione della craniotomia. Tale risposta era «meno determinata e lascia maggior larghezza», sosteneva Rota, e «sebbene non risolva negativamente la tanto dibattuta quistione [...] pure addimostra esser più al sicuro chi sta sulla negativa che gli altri»79. Tanto più al sicuro, proseguiva il medico bresciano, se si considerava che il cesareo era pratica di grande successo grazie all'antisepsi, alla disinfezione e al drenaggio. Anche se la donna poteva avere in linea di massima il diritto di rifiutare il cesareo, il medico aveva l'obbligo di mostrargliene la convenienza. D'altronde, proseguiva Rota, era stata la donna a scegliere liberamente la gravidanza, ne aveva avuto incomodo, ma anche «vanto»: «trovi ella in sé tanta forza di esporre la propria vita a qualche rischio, pur che il voto di natura si compia. Altrimenti essa diviene un essere passivo, che invecchia senza il crescite et multiplicamini, e d'aggravio alla società, e al coniuge, che si vede defraudato nella speranza di prole [...] perché il suo destino è di dar la vita altrui sia pure perdendo la propria»80. E, in un crescendo di misogino entusiasmo, Rota concludeva che «sotto il parto la donna ragiona poco. La paura è cattiva consigliera, e così essa si persuade a stento del suo meglio, ossia che non si lascia dominare. Il parto è tal cosa che spaventa sempre la donna già debole per sé e facile a esaltarsi. Però si deve procedere secondo scienza e coscienza, e non secondo la tema»81. Il Sant’ Uffizio aveva portato una parola chiara e precisa per contrastare quella

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pratica, ancora una volta straniera, figlia del protestantismo anglosassone, che aveva fatto diffondere questo tipo di operazioni anche in paesi che ne erano stati immuni per lungo tempo.

Nel 1889 sarebbero state pubblicate le altre due sentenze del Sant'Uffi-zio sull'embriotomia, che procedevano nella linea inaugurata dalla prima, chiudendo però quegli spazi incerti e aperti che erano rimasti nella formula del luto doceri non posse*2. Ma non vi furono commenti o ulteriori articoli, poiché nello stesso anno il giornale chiuse.

Il periodico, come si è visto da questa breve ricognizione, si occupò di scienza, filosofia e medicina, e, secondo il feroce giudizio di Saitta, ne «riuscì una miscela indigesta di tutto ciò e un ammasso di dimostrazioni umoristiche e di diatribe violente contro chi non osasse piegarsi alla ortodossia pura»83. Una valutazione che per molti versi si può confermare. I temi e gli argomenti affrontati sulle pagine del giornale furono molti e diversi tra loro, dalla fisica alla medicina, dalle questioni pratiche della terapeutica alle conseguenze dei cambiamenti nell'insegnamento universitario. Per altro verso, il livello scientifico e intellettuale non risaltava per originalità e com-pletezza, le argomentazioni, seppur infarcite in alcuni casi di informazioni, dati e citazioni, erano subordinate in maniera pesante e condizionante all'as-sunzione totale di uno schema interpretativo ideologico. Uno schema, oc-corre sottolineare, che non lasciava alcuno spazio per conciliare i metodi, le ipotesi e i risultati delle scienze mediche e naturali con l'apologetica catto-lica. In questo senso l'insieme della produzione dell'Accademia appare come un tentativo di chiudere tutti gli spazi di comunicazione tra scienze e discorso cattolico, rivolto soprattutto ai cattolici, scienziati, teologi, e soprat-tutto docenti, ai quali venivano dati limiti e coordinate di ricerca assoluta-mente rigide e non negoziabili. Una rigidità che distanziava la stessa attività e produzione dell'Accademia anche da numerosi percorsi che all'interno dello stesso movimento neotomista si stavano impostando - basti pensare alla strada intrapresa dal cardinale Mercier e dall’Institut supérieur de philo-sophie di Louvain - o da molti di quei docenti italiani e, come abbiamo visto, francesi, che cercavano di assorbire all'interno dell'apologetica cattolica di-scorsi e temi delle scienze naturali. Ma l'impostazione dell'Accademia era, appunto, rigidamente definita, anche all'interno del quadro neotomista: l'as-sunzione dell'unità sostanziale di anima e corpo, di materia e forma, costi-tuiva il principio assoluto in base al quale doveva essere strutturata un'analisi scientifica, e anche una prassi terapeutica. Questa assunzione spiegava la

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condanna anche di quelle ipotesi, come il vitalismo, che salvaguardando la definizione dell'origine delle cause fisiche ultime, mantenevano aperta la possibilità di conciliare apologetica e scienza.

Se, quindi, dal punto di vista della polemica scientifica, il dibattito e l'attività dell'Accademia non possono considerarsi che di un livello mediocre, altri aspetti forniscono elementi interessanti e più significativi. Un primo punto è l'ampiezza e il livello dei soci. Un dato che indubbiamente non può essere sopravvalutato. Come si è detto le associazioni, princi-palmente quelle delle persone più autorevoli, avvenivano ad honorem, e, so-prattutto dopo l'elezione del socio Gioachino Pecci, iscriversi all'Accademia assunse un valore di prestigio. Appare comunque significativa la politica delle associazioni condotta dall'Accademia, diretta verso i vertici ec-clesiastici, i docenti dei seminari, degli scolasticati, e soprattutto delle uni-versità cattoliche, esistenti in Francia o in progetto in altri paesi. Questo ap-pare come l'elemento probabilmente più interessante dell'esperienza del-l'Accademia. Il quadro storico, caratterizzato da un mutamento profondo e traumatico per quanto riguardava le strutture e il ruolo mondano della chiesa cattolica, fu affrontato con un progetto che, seppur sproporzionato ai mezzi intellettuali e culturali dei promotori, era ambizioso sulla carta e rivelatore del sentimento profondamente antimoderno e confuso di una parte del cat-tolicesimo ottocentesco. Di fronte ai repentini e spesso radicali cambiamenti che le scienze positive portavano nelle pratiche, ma soprattutto nelle menta-lità e nella cultura, fu cercata una risposta nel recupero di una visione unita-ria e organica, con la quale spiegare e affrontare il confronto con questi cambiamenti. E, soprattutto, l'Accademia cercò con un'azione pianificata di portare quest'impostazione nei centri della formazione del clero cattolico e, particolarmente, in quelle università che avrebbero dovuto rappresentare il luogo principale dal quale iniziare la reazione verso le scienze naturali e le conseguenze che i soci attribuivano loro sul piano culturale e, specialmente, sul piano sociale e politico. Si tratta indubbiamente di un progetto abbozzato, più auspicio che definito e organizzato disegno, ma che costituisce una delle prime analisi, per quanto mediocri, del problema della formazione e della creazione di un sistema educativo universitario di matrice cattolica. Non per la Francia, ma sicuramente per l'Italia, che avrebbe visto la creazione di un'università cattolica soltanto all'inizio del Novecento per opera di Agostino Gemelli. In questo senso, quindi, l'elemento più interessante dell'Accademia rimane quello di aver tentato di dirigere, in

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maniera dogmatica, rude e culturalmente inadeguata, il progetto di organizzare i luoghi della formazione, per ricostruire l'identità cattolica nei differenti ambiti: la scienza cattolica, la fisica cattolica, la chimica cattolica.

Ma anche dal punto di vista più generale il caso dell'Accademia offre una prospettiva interessante. In quanto partecipe del movimento neotomista, infatti, l'esperienza dell'Accademia permette di complicare e discutere l'in-terpretazione che legge il ritorno alle teorie dell'Aquinate come una aper-tura alla modernità ed al dialogo con le scienze positivistiche. L'Accademia partecipava esplicitamente ed attivamente del movimento neotomista e ne condivideva ed assumeva le finalità ed i valori, cui diede però un'interpreta-zione profondamente conservatrice ed antimoderna, che non lasciava nes-suno spazio al dialogo o al confronto con le scienze ottocentesche, ma al contrario ne negava risultati, strutture ed in ultimo legittimità. Per gli acca-demici il ritorno a Tommaso era un ritorno ad antiche gerarchie organicisti-che, nelle quali la modernità e la scienza non avevano ragione e motivo di esistere.

Rimane aperto un punto. È emerso un elemento per il quale l'azione dell'Accademia ha avuto una risposta sul piano normativo, adeguata e coincidente con le sue richieste. Le sentenze che il Sant'Uffizio emanò nel corso dell'ultimo ventennio del secolo sul tema dell'ostetricia abortiva andarono per larga parte nella direzione che l'Accademia aveva dato all'analisi di questi problemi sulle pagine de «La Scienza Italiana». Che l'Accademia fosse stata l'origine e il punto di partenza di queste decisioni è al momento difficile dimostrarlo. È possibile, però, sottolineare come le do-mande da cui furono originate le sentenze del Sant'Uffizio, furono inviate agli inquisitori da persone e ambienti ai quali, almeno a titolo formale, l'Ac-cademia era nota. Il cardinale Caverot, che da Lione domandò al Sant'Uffizio se in un'università cattolica di medicina poteva essere insegnato che l'embriotomia, in precisi e determinati casi, era operazione lecita, era socio dell'Accademia fin dai primi anni. I successivi quesiti, del 1886 e 1889, arrivarono in Sant'Uffizio da parte dell'Università di Lille, dove una Facoltà di medicina e una clinica cattolica esistevano già, e ponevano lo stesso tipo di problemi. In questo senso, pertanto, l'azione dell'Accademia appare aver avuto un successo, quantomeno sul piano della sensibilizzazione e della impostazione analitica di determinati problemi. Sia dal punto di vista di chi li sottopose all'attenzione del Sant'Uffizio, sia dal punto di vista degli stessi inquisitori, ben presenti nell'Accademia, che a queste richieste rispo-

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sero. Ancora una volta si trattava di un problema di definizione della speci-ficità cattolica nella pratica medico-chirurgica, vale a dire di cercare e defi-nire i limiti che l'essere cattolico poneva ad un'azione terapeutica. Un'a-zione, si badi, che non era stata mai definita nel dettaglio dalle gerarchie cattoliche, che avevano lasciato a teologi e medici la definizione dei pro-blemi, e dei principi con i quali affrontarli. Anche in questo caso, come si è visto, il principio in base al quale si ritenne di dover decidere fu l'intervento nella dinamica decisionale: scegliere chi doveva decidere in date situazioni, e in base a quali parametri culturali e di valore. Un ulteriore punto che lascia trasparire come, anche negli ambienti nati con un'identità precisamente cat-tolica, i discorsi e i principi delle scienze naturali avessero modificato le strutture analitiche e metodologiche d'intervento e di valutazione.

Emmanuel Betta Istituto Universitario Europeo, Firenze

1 Cfr. G. SAITTA, Le origini del neo-tomismo nel secolo XIX, Bari, Latenza, 1912, p. 249. 2 Tra gli animatori Giambattista Casoni sarebbe stato chiamato nel 1890 a dirigere

«L'Osservatore romano», dopo una lunga attività nella pubblicistica cattolica e un impegno nell'Opera dei Congressi. Marcellino Venturoli dal 1884 al 1889 sarebbe stato Presidente del l'Opera dei Congressi, causando tra le altre cose la chiusura dell'organo dell'Accademia, che si fuse poi con la rivista milanese «La Scuola cattolica». Giovanni Maria Cornoldi venne chiamato a Roma a dirigere l'Accademia Romana di San Tommaso, ricoprì diversi incarichi ed ebbe una certa influenza negli ambienti ecclesiastici romani e anche sullo stesso Leone XIII.

• Cfr. G. GENTILE, / neotomisti, ora nella raccolta a cura di E. Garin, Storia della filosofia italiana, voi. II, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 508-519. Venturoli e Cornoldi su tutti, ma anche altri membri dell'Accademia furono attivi nel movimento cattolico ottocentesco. Cfr. G. DE ROSA, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla restaurazione all'età giolittiana, Bari, Laterza, 1966. L'unico lavoro che ha storicamente collocato in maniera ampia e approfondita l'esperienza dell'Accademia è la biografia intellettuale di Giovanni Maria Cornoldi scritta da Malusa, dove è ricostruito il quadro culturale nel quale visse e operò il gesuita ed è messo in luce il suo ruolo e peso nel movimento neotomista. In questo contesto anche la storia dell'Accademia è stata analizzata, prevalentemente dal punto di vista della teoria e della filosofia tomista. Rimando a questo studio per una conte-stualizzazione più ampia: L. MALUSA, Neotomismo e intransigentismo cattolico. Il contributo di Giovanni Maria Cornoldi per la rinascita del tomismo, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1986.

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4 Cfr. G. GRECO, La Civiltà Cattolica nel decennio 1850-1859. Appunti sulla pubblici stica reazionaria durante il Risorgimento, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» classe di Lettere e Filosofia, s. Ili, VI, 1976, 3, pp. 1051-1095; E. MORGANA, // problema universitario nell'ultimo decennio del secolo XIX attraverso le pagine di "Civiltà Cattolica", in Cento anni di università. L'istruzione superiore in Italia dall'unità ai nostri giorni, atti del III convegno nazionale, (Padova, 9-10 Novembre 1984), a cura di F. De Vivo e G. Genovesi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1986, pp. 155-163.

5 Sull'intero movimento neotomista cfr. R. AUBERT, Aspects divers du néo-thomisme sous le pontificai de Leon XIII, in Aspetti della cultura cattolica nell'età di Leone XIII, atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, a cura di G. Rossini, Roma, Edizione Cinque Lune, 1961, pp. 133-227. Sull'epurazione alla Gregoriana cfr. L. MALUSA, Neotomi smo e intransigentismo cattolico, cit., pp. 278-279.

6 Ivi, p. XXV. 7 Su Secchi, Tongiorgi e in generale per una più ampia analisi di questo episodio cfr. ivi,

in particolare pp. 51-65, pp. 87-113. 8 Su Venturoli, cfr. R. FANTINI, Marcellino Venturoli e il suo diario 1848, «Bollettino

del Museo del Risorgimento di Bologna», VII, 1962, pp. 111-189. 9 Casoni, pubblicista molto attivo nel secondo Ottocento, creò e diresse numerosi gior

nali cattolici, partecipò alle attività dell'Opera dei Congressi, e dal 1890 aPl901 venne chiamato da Leone XIII alla direzione de «L'Osservatore romano». Una descrizione dell'am biente intransigente bolognese nelle memorie di Casoni: cfr. G.B. CASONI, Cinquant'anni di giornalismo (1864-1900), Bologna, Tip. Successori Monti, 1907. Su Casoni cfr. la voce di A. ALBERTAZZI, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860-1980, diretto da F. Traniello e G. Campanini, voi. Il, / protagonisti, Casale Monferrato, Marietti, 1982, pp. 97-100.

10 Su Parecchi vedi la voce di A. CANAVERO, in Dizionario storico del movimento catto lico, cit., voi. Ili, Le figure rappresentative, Casale Monferrato, Marietti, 1984, t. II, pp. 628-629.

1 ' Cfr. G. CENACCHI, Tomismo e neotomismo a Ferrara, Città del Vaticano, Libreria Edi-trice Vaticana, 1975, p. 152. L'intervento di Travaglini fu pubblicato sul giornale nel numero di febbraio, cfr. «La Scienza Italiana» (d'ora in poi SI), I, 1876, voi. I, pp. 147-160; 519-530. Nel numero di maggio venne pubblicato anche il breve di Pio IX, datato 23 luglio 1874.

12 Cfr. SI, I, 1876, voi. I, p. 154. 13 I documenti della fondazione dell'Accademia e il testo della lettera di Pio IX sono in

G. CENACCHI, Tomismo e neotomismo, cit., pp. 174-181. 14 Per il testo del diploma ed altre informazioni sulla storia e le prospettive ideologiche

dell'accademia vedi il testo dello stesso Cornioldi, La conciliazione della fede cattolica e della vera scienza ossia Accademia filosofico-medica di S. Tommaso d'Aquino, Bologna, Mareggiani, 1878.

15 Giornale fondato il 2 novembre del 1873, dal numero 63 del 11 giugno 1874 diventò foglio ufficiale dell'Accademia, funzione che cessò con il numero del 31 dicembre 1875. Da bisettimanale passò quasi subito a quotidiano, con la dicitura «Giornale politico, letterario e ufficiale dell'accademia filosofico-medica di S. Tommaso D'Aquino», e con il motto «Dio - Patria - Verità e Pane». Fu diretto dal canonico Antonio Maria Franchini, coadiuvato da quattro «cultori» di scienze filosofico-teologiche, e da due medici, Giovanni Costa e Alessandro Benanti, direttore dell'Arcispedale di S. Anna. Il 2 marzo 1875 pubblicò un elenco dei primi 192 iscritti all'accademia. Gli accademici ferraresi si riunivano periodicamente, per ascoltare relazioni su temi teologici, filosofici e di cultura medica. In questo periodo gli articoli su argomenti medico-scientifici furono pochi: uno scritto del dottor Costa intitolato

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// medico nel rispetto morale, in cui si condannavano edonismo e facile guadagno come cause del traviamento dei giovani medici, a cui erano contrapposti edificanti esempi di medici che si sacrificarono per salvare le vite di pazienti. In questo periodo il giornale fu più impegnato nella lotta politica contro il nuovo stato. Cfr. G. CENACCHI, Tomismo e neotomismo, cit.; R. SGARRANTI, Lineamenti storici del movimento cattolico ferrarese, Rocca San Casciano, Cappelli, 1954.

16 Fantini afferma erroneamente che l'ultimo anno di esistenza de «La Scienza Italiana» fu il 1888. Cfr. R. FANTINI, La "geografia tomista" di fine Ottocento nelle indicazioni de "la Scienza Italiana", in L'enciclica Aeterni Patris. Suoi riflessi nel tempo, atti dell'Vili Con gresso Tomistico Italiano, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1981, pp. 403-450, p. 403.

17 La prima lista in assoluto fu quella pubblicata da «II Popolo», questa fu la prima lista generale pubblicata da «La Scienza Italiana».

18 Questo secondo le liste presenti in SI, I, 1876, voi. I, pp. 382-384, 478-480, 568- 570, voi. II, pp. 95-96, 185-186. Fantini ha raccolto altre liste in differenti periodi. Cfr. R. FANTINI, La "geografia tomista", cit. In una comunicazione ai soci all'inizio del 1877 Cornoldi sosteneva che alla fine dell'anno precedente il numero dei soci era cresciuto a 367. Cfr. Comunicazione ai soci, SI, II, 1877, voi. I, pp. 286-287.

19 Carlo Sacconi, Filippo De Angelis, Filippo Maria Guidi, Luigi Bilio, Carlo Luigi Monchini, il futuro Leone XIII Gioacchino Pecci, Antonino De Luca, Carlo Cullen, Raffaele Monaco La Valletta, Flavio Chigi, Giuseppe Ippolito Guibert, Tommaso Maria Martinelli, Ruggero Luigi Emidio Antici Mattei, l'arcivescovo di Westminster Manning, e Mieceslao Leochowsky. Martinelli era prefetto della Congregazione dell'Indice. Su Luigi Bilio, già consultore del Sant 'Uffizio e tra i reat tori del Sil labo, cfr . la voce di G. Martina, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, voi. X, 1968, pp. 461-463. Su Leone XIII, cfr. la voce di R. Aubert, in Dizionario storico del movimento cattolico, cit, voi. II, pp. 299-305.

20 Secondo La gerarchla cattolica del 1876 i membri della Congregazione del Sant'Uffizio erano: Luigi Bilio, Antonino De Luca, Filippo De Angelis, Filippo Maria Guidi, Raffaele Monaco La Valletta, che apparteneva come altr i , a più congregazioni , quali Concilio, Propaganda, Vescovi e Regolari, e i consultori Arcangelo Gatti e Lorenzo Nina. Cfr. La gerarchla cattolica e la famiglia pontificia per l'anno 1876, Roma, Monaldi, 1875.

21 M. VENTUROLI, Programma, SI, I, 1876, voi. I, pp. 3-4. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 7. 24 Ivi, p. 8. 25 Ivi, p. 9. 26 Ivi, p. 12.

Su Galileo nella cultura positivistica alcuni spunti in P. REDONDI, Dietro l'immagine. Rappresentazioni di Galileo nella cultura positivistica, «Nuncius. Annali dell'Istituto e museo di storia della scienza di Firenze», IX, 1994, 1, pp. 65-116.

28 G.B. CORNOLDI, Agli illustri accademici, SI, I, 1876, voi. I, p. 15. Sul ruolo filosofico del concetto di specie e i cambiamenti di cui fu investito con il

darwinismo, cfr. J. DEWEY, The Influence of Darwinism on Philosophy, in Io., The Influence of Darwinism on Philosophy and Other Essays in Contemporary Thought, New York, P. Smilh, 1951, pp. 1-20.

30 Su questi medici cfr. G. COSMACINI, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1987; A. PAZZINI, Storia della medicina dalle origini ai giorni nostri,

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Milano, Società editrice libraria, 1947; A. CASTIGLIONI, Storia della medicinn ivri Mondadori, 1948. ' l ano ,

31 Sull'impatto delle scienze e dell'antropologia sul cattolicesimo ottocentesco ci" A.R. LEONE, La Chiesa, i cattolici e le scienze dell'uomo: 1860-1960, in L'antropologia ita liana. Un secolo di storia, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 51-96. Sull'impatto del darwinismo in Italia vedi l'ormai classico G. LANDUCCI, Darwinismo a Firenze. Tra scienza e ideologia (1860-1900), Firenze, Olschki, 1977; A. LA VERGATA, La teoria di Darwin e la biologia del l'Ottocento, in Scienza e filosofia nella cultura positivistica, a cura di A. Santucci Milano Feltrinelli, 1982, pp. 289-312.

32 Cfr. G. LANDUCCI, Medicina e filosofia nel positivismo italiano, in Scienza e filoso fia nella cultura positivistica, cit., pp. 258-79. Il materialismo era stato introdotto in Italia nel 1867 con la pubblicazione di Forza e materia di Bùchner e nel 1869 con La circolazione della vita di Moleschott, nella mitigata traduzione di Lombroso, anche se nel decennio 1880- 90 il tentativo di introdurre il materialismo nella cultura scientifica italiana sarebbe poi fal lito. Cfr. G. COSMACINI, Problemi medico-biologici e concezione materialistica nella seconda metà dell'Ottocento, in Storia d'Italia. Annali, 3, Scienza e tecnica nella cultura e nella so cietà dal Rinascimento ad oggi, a cura di G. Micheli, Torino, Einaudi, 1980, pp. 815-861.

33 Termine ripreso da G. COSMACINI, Medicina, ideologie, filosofie nel pensiero dei cli- nici tra Ottocento e Novecento, in Storia d'Italia. Annali, 4, Intellettuali e~potere, a cura di C. Vivami, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1157-1194, p. 1171.

34 II termine è naturalmente preso a prestito dal fondamentale lavoro di C. POGLIANO, L'utopia igienista (1870-1920), in Storia d'Italia. Annali, 1, Malattia e medicina, a cura di F. Della Perula, Torino, Einaudi, 1984, pp. 587-631. Di Fogliano vedi anche La fisiologia in Italia fra Ottocento e novecento, «Nuncius. Annali dell'Istituto e museo di storia della scienza di Firenze», VI, 1991, 1, pp. 97-121. Sui medici cfr. G. PANSERI,/ / medico: note su un intellettuale scientifico italiano nell'Ottocento, in Storia d'Italia. Annali, 4, cit., pp. 1133- 1155.

35 Un esame di questo dibattito in V.P. BASINI, Vitalismo e medicina in Francia, in Scienza e filosofia, cit., pp. 245-257.

36 Sulle università cattoliche in Francia cfr. The Organization of Science and Techno logy in France 1808-1914, edited by R. Fox and G. Weisz, Cambridge-Paris, Cambridge Uni- versi ty Press-Edit ions de la Maison des Sciences de l 'Homme, 1980; G. W E I S Z, The Emergence of Modern Universities in France, 1863-1914, Princeton, Princeton University Press, 1983; H.W. PAUL, From Knowlege to Power. The Rise of thè Science Empire in France 1860-1939, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, in particolare pp. 221-250, dove esamina le discussioni sull'identità dell'insegnamento universitario cattolico negli ambienti cattolici francesi del periodo.

37 A Lione esisteva un progetto per creare una facoltà di medicina, che però rimase sulla carta, cfr. G. DESPIERRE, Histoire de l'enseignement medicai a Lyon. De l'antiquité a nos jours, Lyon, Editions Aceml, 1984, in particolare pp. 140-150. In un articolo del gennaio 1878 fu descritto l'ordinamento della facoltà di medicina e farmacia di Lille: 16 corsi di medicina, 9 di farmacia, in previsione la creazione di cl iniche complementari e specialistiche. Le regole per gli studenti ricalcavano quelle dei collegi, esercizi di pietà mattina e sera, un tempo prefissato per lo studi, orario fisso per la ritirata serale. Cfr. SI, I I I , 1878, voi. I, pp. 90-93. Due anni dopo Venturoli portò Lille ad esempio di capacità di resistenza agli attacchi delle forze «liberali». Cfr. M. VENTUROLI, Lafaculté de médecine et de pharmacie de l'université catholique de Lille, cenno bibliografico, SI, I I , 1879, voi. I, PP-467-469.

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38 S. GIRONO De la rigueur des principes de la science naturelle dans les universités catholiques, SI, II,' 1877, voi. II, pp. 327-338, p. 336.

39 M VENTUROLI L'accademia filosofico-medica di S. Tommaso e la Revue medicale franfaise et étrangère,SI, II, 1877, voi. II, pp. 327-338, pp. 328-329.

40 S. GIRONO, De la rigueur des principes, cit., p. 336. 41 Cfr. F. GASNAULT, La réglementation des^ universités pontificales au XÌXe siede. Pie

IX et le manopole universitaire, «Mélanges de l'École francaise de Rome. Moyen Age-temps modernes», XCVI, 1984, 2, pp. 1105-1168, p. 1162.

42 Sul giuramento cfr. S. POLENGHI, La politica universitaria della Destra storica 1848- 1876, Brescia, La Scuola, 1993, pp. 290-297.

43 Sul punto specifico della soppressione delle facoltà di teologia cfr. B. FERRARI, La soppressione delle facoltà di teologia nelle Università di Stato in Italia, Brescia, Morcel- liana, 1968.

44 Su questo tentativo cfr. L. MALUSA, Neotomismo e intransigentismo cattolico, cit., p. 356.

45 M. VENTUROLI, Un po' di patologia bene intesa, SI, II, 1877, voi. II, pp. 411-421, in particolare pp. 419-420.

46 Ivi, p. 419. 47 A. MURINO, La fisiologia umana. Lezione preliminare, SI, II, 1877, voi. II, pp. 432-

446, pò. 436-437. Sulla vicenda di Schiff a Firenze, cfr. G. LANDUCCI, Darwinismo a Firenze, cit., in

particolare pp. 32-36 e pp. 172-180. Cfr. P. GUARNIERI, Mariti Schiff (1823-96): Experimental Physiology and Noble Sentiment in Florence, in Vivisection in Historical Perspective, edited by N. Rupke, London, Groom Helm, 1987, pp. 105-124.

49 A. MURINO, La fisiologia umana. Embriologia. Lezione 1. Ovulo Umano, SI, III, 1878, voi. I, pp. 28-53, pp. 29-30.

50 Cfr. G. CANGUILHEM, L'effetto della batteriologia sulla fine delle "teorie mediche" nel XIX secolo, in Io., Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, Firenze, La Nuova Italia, 1988, pp. 49-74.

51 A. MURINO, La fisiologia umana, cit., p. 37. 52 Ivi, p. 38. 53 A. MURINO, Embriologia. Lezione II. Embrione, SI, III, 1878, voi. 1, p. 220. 54 A. MURINO, Embriologia. Lezione 111. Cellula, SI, III, 1878, voi. I, pp. 314-340, p.

328. 55 Ivi, p. 333. 56 A. MURINO, Embriologia. Lezione II, cit., pp. 223-224. 57 M. VENTUROLI, L'evoluzione e il materialismo, SI, V, 1880, voi. I, pp. 50-51.

M. VENTUROLI, // concetto della vita presso taluni scienziati cattolici d'oltremante, SI, V, 1880, voi. II, pp. 165-189, p. 175.

59 Cfr. M. VENTUROLI, Lo studio delle malattie nervose e la sana filosofia, SI, XII, 1887, voi. I, pp. 425-431, 530-541.

>° I. VESPIGNANI, Sulla ragione pratica del salasso, SI, XII, 1887, voi. I, pp. 423-439, voi. II, pp. 138-151, XIV, 1889, voi. I, pp. 50-60; la citazione è ivi, XII, voi. I I , p. 149. La descrizione del quadro della medicina ottocentesca è interessante: «Guardate! Quanta ricchezza di Anatomia Patologica, quanto lusso di analisi chimica e microscopica, quanto sfoggio di cognizioni istologiche! Poi: guardate la Patologia del Misto Organico e quella del Ricambio Molecolare: la Dottrina delle Infezioni e quella dei Fermenti... E l'altra più recente ancora (sebbene la più antica) ch'io dirò la patologia animalcolare o dei microbi!... Ecco tutto il fiore della odierna scienza medica!».

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61 Ivi, p. 151. 62 F. GIRELLI, L'antisepsi generale in medicina, SI, XIII, 1888, voi. 1, pp 328-334

articolo tratto da «Gazzetta degli ospitali», IX, n. 33, 22 aprile 1888, pp. 257-258 n 34~ 25* aprile 1888, pp. 256-266.

63 L. BRAJON, Della cura protettiva nelle malattie chirurgiche, SI, X, 1885 voi I pn 249-261, voi. II , pp. 74-85, 258-273, 342-273, 342-348, 399, 418.

64 Venturoli era presidente dell'Opera dei Congressi, mentre Cornoldi, chiamato a Roma da Leone XIII, stava investendo maggiormente le sue energie neotomistiche nei palazzi ro mani e nell'Accademia Romana di S. Tommaso.

65 C. FOGLIANO, Discorsi inaugurali nelle facoltà mediche italiane (1875-1925), «Nuncius. Annali dell'Istituto e museo di storia della scienza di Firenze», IX, 1994, 1, 265- 294, p. 270. 11 tema dell'animazione entrò anche nella lezione all 'università di Camerino del l 'anno accademico 1884-1885, di Francesco Legge. Cfr . F. L E GGE, Degli s tudi embriologia e del rapporto di essi con le scienze mediche, Camerino, Savini, 1885.

66 F. MARZOLO, Intorno ad una gravidanza extrauterina, SI, I, 1876, voi. I, p. 378. 67 Alphonse Eschbach (1839-1923) della congregazione del S. Spirito fu superiore del

Seminario Francese a Roma dal 1875 al 1900. Era arrivato a Roma nel febbraio del 1859, lau reatosi al Collegio Romano in diritto canonico con licenza in teologia, prese i voti nel 1861. Dopo un breve soggiorno allo scolasticato di Parigi tornò nel '64 al seminario romano, dove occupò le funzioni di direttore degli scolasticati; dal '75 diventò superiore del Seminario fran cese di Santa Chiara e procuratore generale della Congregazione presso il Vaticano fino al 1900. Redasse la versione francese della Rerum Novarum, fu poi consultore dell 'Indice, di Propaganda per gli affari orientali e del Concilio e membro della commissione per la codifica del diritto canonico e censore dell'Accademia Teologica e dei casi di morale di Roma. Cfr. la voce di B. Noèl, in Dictionnaire d'Histoire et de géographie ecclésiastiques, t. XV, Paris, Le- touzey et Ané, 1963, pp. 852-854. L'edizione del testo di Eschbach sull'embriotomia sarebbe apparsa l'anno dopo sul «Bollettino ecclesiastico di Benevento» e poi pubblicata a Torino da Marietti nel 1880. Eschbach intervenne per vent'anni sulle questioni abortive e relative alle pratiche embriotomiche su donne incinte in pericolo di vita. Le sue posizioni furono sempre contrarie, venne designato nei dibattit i che si svilupparono su questi temi come l 'antesi gnano degli antiembriotomisti, e vide riconosciute le proprie posizioni dall'insieme di sen tenze che il Sant'Uffizio emanò su questi temi nell'ultimo ventennio del secolo, che ricono scevano sostanzialmente il suo punto di vista. Il testo aveva avuto origine da una difesa del l'embriotomia apparsa a firma del direttore degli «Acta sanctae sedis» Pietro Avanzini.

68 Cfr. M. VENTUROLI, L'aborto ostetrico, l 'embriotomia sul vivo e l 'operazione cesarea, in «Annali Universali di Medicina», 550, CLXXXIV, 1863, pp. 72-95.

69 M. VENTUROLI, L'embriotomie au paini de vue théologique et morale, ou examen de la question s'il. est permis de tuer l'enfant pour sauver la mère, par A. Eschbach. Cenno biblio grafico, SI, I I , 1877, voi. I, pp. 279-281, p. 280.

70 M. VENTUROLI, Del momento nel quale l 'anima razionale prende ad informare l'umano embrione, SI, I I I , 1878, voi. I, pp. 341-347, p. 341.

71 Argomento che lo stesso Venturoli aveva affrontato l 'anno prima in un lavoro su Haeckel e la teoria evolutiva. Cfr. M. VENTUROLI, Haeckel. la teoria evolutiva e la sua teoria antropogenica, SI, I I , 1877, voi. I I , pp. 345-346.

72 II passaggio di Venturoli è estremamente interessante: «nei primi istanti della fecon dazione il germe e l'embrione vivono per virtù del generante di una vita di semplice accresci mento di ordinamento come avviene nelle piante, senza però che quel germe o quell'embrione si abbia a chiamare una vera pianta: che in seguito succede nell'embrione una vita che è di ac crescimento e di ordinamento e insieme sensitiva, cioè una vita generica d'animale, non già

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di un animale definitivamente determinato in una specie, ma di un animale che è in via a di-ventar uomo, quando per opera dell'anima intellettiva ab extrinseco immissa, l'embrione op-portunamente preparato riesce ad essere costituito indivìduo nella umana specie». M. VENTUROLI, Del momento in cui l'anima, cit., p. 346.

73 M. VENTUROLI, De l'avortement provoqué obstétrical, lecons d'ouverture (année scolaire 1878-1879)... par le docteur Vanverts..., De l'opération césarienne pendant la vie - De l'opération césarienne posi mortem - Du baptème, leyons faites a l'hòpital Saint-Eugeine par le docteur Vanverts... Cenno biografico, SI, IV, 1879, I, pp. 365-369, p. 637.

74 S. APICELLA, La craniotomia considerata in riguardo alla morale. Studio, Scafati, Libreria Pompeiana, 1879.

75 M. VENTUROLI, La craniotomia considerata in riguardo alla morale, osservazioni, SI, IV, 1879, voi. II, pp. 71-74.

76 V. BACCHI, Della craniotomia in ordine alla morale, SI, IV, 1879, voi. II, pp. 289- 300.

77 Decreto del 28 maggio 1884. Il testo in «Acta Sanctae Sedis», XVII, 1884, p. 555, e in SI, X, 1885, voi. I, p. 74.

78 II testo del decreto fu pubblicato da «La Scienza Italiana» nel numero di gennaio del 1885. Con una presentazione nella quale si faceva notare che sul tema il giornale aveva insistito, anche perché «non pochi» accettavano tale pratica. Cfr. La craniotomia sul vivo e la S.R. Inquisitone, SI, X, 1885, voi. I, p. 74.

79 A. ROTA, Della craniotomia sotto l'aspetto morale, SI, X, 1885, voi. I, pp. 273-280, p. 274.

80 Ivi, p. 276. 81 Ivi, p. 277. 82 II testo del decreto del 19 agosto 1889 in «Acta Sanctae Sedis», XXII, 1889, p. 748 e

in SI, XIV, 1889, voi. II, p. 570. 83 Saitta non riteneva opportuno e serio occuparsi della rivista dal lato scientifico; si

espresse chiaramente anche sul senso dell'intera operazione, sottolineando come il terreno al ritorno auspicato da Leone XIII al tomismo fosse stato preparato «per l'opera fanatica e poco seria del p. Cornoldi, gesuita fiero e battagliero, che in nome di S. Tommaso aveva raccolto a Bologna la sacra armata per le future conquiste del tomismo contro tutte le novità della scienza moderna». G. SAITTA, Le origini del neo-tomismo, cit., pp. 248-249