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PERCORSI TEMATICI MEDIEVALI DI CRISTIAN MAZZONI PERCORSO I UNIVERALISMI IN LOTTA E LORO DECLINO Per “universalismo” si intende la tendenza a conseguire sul piano pratico ed a pretendere sul piano di diritto o principio un potere temporale universale, ossia esteso su più “nazioni” (usando un termine improprio in quanto retrospettivo) ed in generale su più poteri locali. L’universalismo si oppone perciò al particolarismo (di Signori feudali, Comuni, Principi, Re). Premesso come l’Impero di Carlo Magno abbia rappresentato la realizzazione in epoca altomedievale di un potere temporale universale, dopo la sua disgregazione, l’Impero, risorto ad opera della dinastia di Sassonia come Sacro romano impero germanico, dovette nel Bassomedioevo opporsi al sorto (ai tempi della latitanza e debolezza del potere centrale) particolarismo dei signori feudali e degli stessi neonati (a partire dal Mille) comuni, che mai riuscì del tutto a sedare. Del resto, la tendenza imperiale all’esercizio di un potere temporale universale incontrò nel Bassomedioevo un’opposizione dall’alto da parte del Papato, che iniziò ad accampare la pretesa ad un potere temporale (e non solo spirituale) universale, esteso sullo stesso imperatore, nonché ad utilizzare in modo sempre più diffuso la Donazione di Costantino (oggi accertata come falso storico costruito ad arte) per legittimare il proprio potere temporale con strumenti mondani. Entrambe le pretese universalistiche (Papato e Impero) fallirono tuttavia sotto la spinta dei particolarismi. La ricomposizione di un potere politico centrale si svolgerà perciò non a livello di potere universale, ma a livello di monarchie nazionali (dapprima feudali). I futuri Re altro non erano, infatti, che grandi feudatari i quali, a seguito della loro capacità bellica o di una sapiente politica matrimoniale, riuscirono a ricondurre ad unità la molteplicità dei poteri di epoca bassomedievale, dapprima utilizzando vincoli di natura feudale (istituto vassallatico-beneficiario), poi, in Età moderna, procedendo ad una politica di accentramento assolutistica. EVOLUZIONE DELLE ISTITUZIONI MEDIEVALI Tardo Impero e Altomedioevo - I regni barbarici Occorre, innanzitutto, sgomberare il campo dalla tendenza generalizzata a retrocedere nel passato, anche remoto, categorie mentali, istituti e concezioni tipicamente moderne o contemporanee. Ciò vale, soprattutto, in riferimento alla figura regia e al regno. Possiamo notare, per fare un banale esempio, come il concetto odierno di “palazzo del Re”, per il quale identifichiamo il luogo dell’esercizio del potere politico regio in un certo palazzo dislocato in una certa città (la capitale del regno), non sia affatto applicabile al regno Merovingio (la dinastia di re franchi che precedette i Carolingi), né, nonostante la capitale fissata ad Acquisgrana da Carlo Magno, ai Carolingi stessi: questi re, infatti, viaggiavano continuamente da una all’altra delle loro villae, portando con sé in questo peregrinare il palatium, ossia l’insieme dei loro collaboratori. Queste constatazioni circa il “palazzo regio” hanno tuttavia ben poca rilevanza concettuale, rispetto alle seguenti considerazioni più generali, le quali ci danno nettamente il segno della distanza che separa la nostra attuale concezione del regno e del potere regio da quella barbarica: Percorsi tematici medievali Cristian Mazzoni www.chrisma.it 1

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PERCORSI TEMATICI MEDIEVALIDI CRISTIAN MAZZONI

PERCORSO I

UNIVERALISMI IN LOTTA E LORO DECLINO

Per “universalismo” si intende la tendenza a conseguire sul piano pratico ed a pretendere sul piano di diritto o principio un potere temporale universale, ossia esteso su più “nazioni” (usando un termine improprio in quanto retrospettivo) ed in generale su più poteri locali. L’universalismo si oppone perciò al particolarismo (di Signori feudali, Comuni, Principi, Re). Premesso come l’Impero di Carlo Magno abbia rappresentato la realizzazione in epoca altomedievale di un potere temporale universale, dopo la sua disgregazione, l’Impero, risorto ad opera della dinastia di Sassonia come Sacro romano impero germanico, dovette nel Bassomedioevo opporsi al sorto (ai tempi della latitanza e debolezza del potere centrale) particolarismo dei signori feudali e degli stessi neonati (a partire dal Mille) comuni, che mai riuscì del tutto a sedare. Del resto, la tendenza imperiale all’esercizio di un potere temporale universale incontrò nel Bassomedioevo un’opposizione dall’alto da parte del Papato, che iniziò ad accampare la pretesa ad un potere temporale (e non solo spirituale) universale, esteso sullo stesso imperatore, nonché ad utilizzare in modo sempre più diffuso la Donazione di Costantino (oggi accertata come falso storico costruito ad arte) per legittimare il proprio potere temporale con strumenti mondani. Entrambe le pretese universalistiche (Papato e Impero) fallirono tuttavia sotto la spinta dei particolarismi. La ricomposizione di un potere politico centrale si svolgerà perciò non a livello di potere universale, ma a livello di monarchie nazionali (dapprima feudali). I futuri Re altro non erano, infatti, che grandi feudatari i quali, a seguito della loro capacità bellica o di una sapiente politica matrimoniale, riuscirono a ricondurre ad unità la molteplicità dei poteri di epoca bassomedievale, dapprima utilizzando vincoli di natura feudale (istituto vassallatico-beneficiario), poi, in Età moderna, procedendo ad una politica di accentramento assolutistica.

EVOLUZIONE DELLE ISTITUZIONI MEDIEVALI

Tardo Impero e Altomedioevo

- I regni barbariciOccorre, innanzitutto, sgomberare il campo dalla tendenza generalizzata a retrocedere nel passato, anche remoto, categorie mentali, istituti e concezioni tipicamente moderne o contemporanee. Ciò vale, soprattutto, in riferimento alla figura regia e al regno. Possiamo notare, per fare un banale esempio, come il concetto odierno di “palazzo del Re”, per il quale identifichiamo il luogo dell’esercizio del potere politico regio in un certo palazzo dislocato in una certa città (la capitale del regno), non sia affatto applicabile al regno Merovingio (la dinastia di re franchi che precedette i Carolingi), né, nonostante la capitale fissata ad Acquisgrana da Carlo Magno, ai Carolingi stessi: questi re, infatti, viaggiavano continuamente da una all’altra delle loro villae, portando con sé in questo peregrinare il palatium, ossia l’insieme dei loro collaboratori. Queste constatazioni circa il “palazzo regio” hanno tuttavia ben poca rilevanza concettuale, rispetto alle seguenti considerazioni più generali, le quali ci danno nettamente il segno della distanza che separa la nostra attuale concezione del regno e del potere regio da quella barbarica:

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1) I re barbarici sono re di un popolo, ossia la loro autorità non si estende su tutti coloro che abitano un territorio, ma su tutti coloro che appartengono a un popolo, ovunque essi siano (i re franchi continueranno a chiamare se stessi “re dei Franchi” e non “re di Francia”). In questo senso, laddove gruppi etnici differenti coesistono su uno stesso territorio, ciascuno di essi è sottoposto unicamente all’autorità del suo re. I re barbarici, sin dal loro primitivo insediamento sui confini dell’Impero Romano, non sottoposero i romani alla loro autorità, consentendo che ai Romani si applicasse il diritto romano. Questa pratica continuò anche dopo la caduta dell’Impero d’Occidente (476 d. C.): i re barbari generalmente o applicavano ai Romani il diritto romano puro, o prevedevano leggi differenziate per i Romani e i barbari stessi. Questo fenomeno, per il quale la legge varia a seconda dell’appartenenza di popolo, per quanto entro uno stesso territorio, è detta “personalità della legge”. Inizialmente i matrimoni fra barbari invasori e Romani non erano consentiti (in quanto i primi per lo più di confessione ariana, tranne i Franchi, e i secondi cattolica), e questo rendeva l’applicazione della legge differenziata per gruppo etnico piuttosto semplice, in seguito, tuttavia, con l’affermarsi dei matrimoni misti, divenne difficile stabilire quale fosse il diritto da applicare agli eredi. Col tempo invalse perciò una legislazione unica. 2) I re barbarici esercitano un potere che deriva loro dal valore militare e lo esercitano unicamente nel loro interesse privato: non vi è alcuna concezione dell’interesse pubblico e del legame fra l’autorità e la tutela dell’interesse pubblico. Da ciò deriva che essi considerano il regno (comprensivo della funzione pubblica) un patrimonio privato e, come tale, soggetto alle stesse norme che regolano la trasmissione del patrimonio privato: il regno (inteso dopo la stabilizzazione come un insieme di proprietà terriere sulle quali abitano e lavorano uomini), alla morte del re è frazionato fra i suoi eredi in parti uguali, senza tenere in alcun conto le popolazioni che in esso abitano, della razza o volontà di queste, dei confini geografici, etc.; il re può vendere una qualsiasi funzione pubblica (imporre tasse, amministrare la giustizia, comandare, etc.) o donarla. Si dice che v’è carattere padronale (il re comanda come un padrone, ossia nell’interesse proprio e non del suddito) e patrimoniale (il regno è un patrimonio privato) della monarchia. Circa la giustizia, quale concepita presso i popoli barbarici, valgano le seguenti considerazioni. La giustizia, presso i regni barbarici, è amministrata in una modalità del tutto “incivile”, secondo i canoni odierni e anche secondo quelli romani. Cito un esempio. Presso i Merovingi (la dinastia che precede in Francia i Carolingi), esistono due tribunali: il tribunale del re e quello del popolo. Il diritto s’è evoluto nel tempo: inizialmente è ammessa la vendetta privata o, in alternativa, una composizione pecuniaria decisa ad arbitrio delle parti; in seguito invale la regola generale della riparazione pecuniaria stabilita per legge (la Legge salica dei Franchi prevede per ogni reato una precisa riparazione in denaro). Il giudizio è effettuato dal tribunale secondo tre procedure: 1) confessione, 2) testimonianze, 3) giuramento liberatorio. La confessione può essere estorta con la tortura. Il giuramento liberatorio consiste nel giuramento dell’imputato circa la propria innocenza, accompagnato spesso dal giuramento di altri circa la sua lealtà. Nel caso le tre summenzionate procedure non risolvano il conflitto, si ci rimette alla giustizia di Dio. Ad esempio i due contendenti sono costretti ritti e con le braccia alzate: il primo che cede ha torto. O l’uno dei due si infligge una ferita: se guarisce senza infezione, ha ragione. O si ricorre al duello giudiziario: chi fra i due contendenti prevale in duello, ha ragione. Col tempo, la compenetrazione del diritto romano a quello barbarico, mitigherà quest’ultimo.

- Carlo Magno e i Carolingi (VIII-IX secolo d. C.)Lo Stato, nel senso antico e moderno, ricompare con Carlo Magno (VIII secolo d. C.), per quanto in modo ancora generico. Egli non considera la dignità imperiale un patrimonio privato e, come tale, trasmissibile o frazionabile, ma una funzione pubblica la quale persiste in se stessa: si può frazionare il regno, ma non l’Impero. Inoltre, la dignità imperiale è soggetta all’incoronazione

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papale e all’elezione da parte dei Grandi: ciò a testimonianza che essa non è una proprietà nella piena disponibilità del suo titolare. L’Imperatore ha il supremo comando militare, emana leggi (capitolari) validi per tutti i sudditi ed esercita la suprema funzione giudiziaria (ciò anche rispetto ai re). Coi Carolingi, si frazionerà il regno, ma l’autorità imperiale verrà conferita sempre ad uno solo degli eredi (e non frazionata fra tutti). Inizia così a porsi una distinzione fra Re, Imperatore e le rispettive attribuzioni: il potere Imperiale, a differenza di quello regio, è universale, e, in ogni caso, a questo superiore. Contee e Marche. Carlo Magno attribuisce funzioni amministrative a Conti (e poi ai Marchesi sulle regioni di confine), i quali esercitano le loro funzioni a suo nome e sono sempre revocabili: Contee e Marche sono “feudi di dignità” o “onori”, cioè territori non dati in usufrutto ma in amministrazione (a differenza dei feudi normali, che servono come remunerazione per il servizio). I missi dominici, ossia i messi dell’Imperatore, hanno un’autorità superiore a quella dei Conti e Marchesi, e sono inviati per controllarne l’operato: in loro presenza l’autorità comitale è annullata. La funzione pubblica attribuita a Conti e Marchesi consiste nel rendere noti i capitolari, amministrare la giustizia, punire gli inadempienti ed esigere il pagamento delle ammende. Essi sono pagati con parte delle ammende (1/3) e con un beneficio (terra demaniale data in usufrutto) sul suolo della Contea o della Marca.Il prelievo fiscale. Non bisogna sopravvalutare l’ampiezza dell’imposizione fiscale richiesta in epoca carolingia, né supporre l’esistenza di un apparato per l’esazione simile a quello romano o che sarà poi d’epoca moderna o contemporanea. L’Imperatore trae i proventi per esercitare la funzione pubblica innanzitutto dal suo immenso patrimonio privato (v’è coincidenza fra patrimonio pubblico e personale dell’Imperatore), cioè dalle sue villae. Le imposte dirette (su persona e immobili) sono stabilite arbitrariamente (vista l’assenza di un catasto e di censimenti) dai missi dominici e prelevate dai conti. Il maggior introito è dato dalle tesse indirette, specie quelle per il passaggio su ponti, attraverso strade (pedaggi) che necessitano di particolare manutenzione, porti, etc. Esistono tuttavia forti vessazioni sui contribuenti: sono tenuti al mantenimento degli inviati dell’Imperatore e del loro seguito, i quali possono requisire cavalli, viveri, alloggi, etc. Inoltre, il contribuente è tenuto a giornate di lavoro gratuite per lavori di manutenzione strade, acquedotti, etc. Reclutamento dell’esercito. In caso di guerra o necessità l’Imperatore proclama l’eribanno. Il servizio è obbligatorio per gli uomini liberi. Tuttavia, con l’affermarsi della cavalleria a discapito della fanteria, e dati i costi maggiori della prima (armatura, cavallo, etc.), che cadono totalmente sul reclutato, si decide la seguente regola di reclutamento: devono prestare il servizio tutti gli uomini liberi che posseggano più di quattro mansi; gli altri devono associarsi insieme in modo da coprire un lotto di quattro mansi e devono armare ed inviare un uomo (generalmente uno di loro). Diverso è il reclutamento per i vassi (uomini legati da vincoli di fedeltà personale ad altri uomini) dei seniores, ossia gli uomini non liberi o semi-liberi: questi, infatti, debbono obbedienza innanzitutto al loro senior, dunque il loro reclutamento deve passare per il consenso del senior. Nel 807 d. C. Carlo Magno obbliga i vassi ad intervenire nelle campagne militari nei quali è reclutato il loro senior. Il reclutamento, da parte dell’Imperatore, si fa sempre più difficoltoso mano a mano che diminuisce il numero di uomini liberi e aumentano i rapporti di sudditanza personale: da ultimo l’Imperatore potrà contare direttamente soltanto sui propri vassi, mentre il restante reclutamento dovrà passare attraverso i vassi stessi, che dovranno procedere alla convocazione dei propri stessi vassi, etc.Il sistema carolingio presenta una tendenza alla disgregazione. Il sistema amministrativo-istituzionale ideato da Carlo Magno presenta un’evidente tendenza alla frammentazione: i conti tendono infatti a rendere il loro potere ereditario ed indipendente dall’Imperatore, così come ad aumentare i loro vassi, cioè le persone legate a loro da un vincolo di fedeltà personale. Questa tendenza può essere contrastata soltanto da un Imperatore forte, in grado di controllare l’operato dei

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conti attraverso i propri missi e di sanzionarlo. La vacanza e l’indebolimento del potere Imperiale nei secoli centrali del Medioevo (fine IX, X, XI secolo), poterà all’incremento del potere dei conti e al sorgere di nuovi potentati de facto.

- L’anarchia feudaleDurante la vacanza dell’Impero nei secoli X e XI i conti iniziarono ad esercitare un potere di natura pubblica del tutto indipendente, non più arginato dal potere imperiale. A lato del potere comitale, sorsero, tuttavia, in modo del tutto autonomo ed indipendente (cioè in assenza di ogni previa investitura da parte dell’Imperatore), altri soggetti che esercitavano di fatto diritti di natura pubblica (amministrare la giustizia, punire, comandare, imporre tasse, etc.). Si tratta in particolare o di titolari di normali feudi (non, cioè, Marche e Contee) che avevano assunto, per i rispettivi feudi, funzioni amministrative (circa la distinzione dettagliata fra feudi d’onore e normali feudi, si veda il capitolo Da beneficio a feudo), o di ricchi proprietari che avevano edificato castelli in cui trovavano rifugio le popolazioni circostanti (si tratta delle signorie di banno). Il principio generale era quello per il quale il potente forniva protezione e aiuto in cambio dell’obbedienza. Amministrazione della giustizia. Occorre rilevare come, durante l’anarchia feudale, s’intensificò quello che era e sarà una tendenza tipica di tutto il Medioevo, cioè il ricorso al diritto consuetudinario, soprattutto orale (e, solo da un certo punto, scritto). La consuetudine crea diritto, e lo crea a livello locale e personale: ogni località ha il suo diritto consuetudinario e questo varia a seconda del ceto (ordine): differenti sono gli obblighi e i diritti degli ecclesiastici, dei nobili (cavalieri) e dei lavoratori (leggi sulle successioni, sui matrimoni, etc.). I conti (ma anche i signori che esercitano poteri pubblici) rispettano il diritto consuetudinario, e, generalmente, lo fanno anche re e Imperatori. Non che questi ultimi non possano emanare editti contrari al diritto consuetudinario, ma questo accade assai raramente, poiché l’uso che persiste per un lungo periodo si ritiene sia, per il fatto stesso di perdurare, cosa buona. Inoltre, si noti che i tribunali giudicanti generalmente non sono costituiti dal solo conte o signore, ma da più giudici, spesso scelti fra persone di pari rango dei giudicati (l’esser giudicato da pari, a partire dal XIII secolo, è appannaggio della sola nobiltà). La procedura è ancora piuttosto rozza (sino al XIII secolo) e risente dell’uso barbarico: sono previste prove dell’acqua, del fuoco, del ferro rovente, etc., duelli giudiziari fra i contendenti e, nel caso l’imputato metta in dubbio l’attendibilità di un testimone avversario, fra imputato e testimone. Dal XIII secolo è abolito il duello giudiziario e la procedura si fa più razionale (indagini, prove scritte, etc.). E’ ammesso il ricorso al tribunale del re.Tassazione. I signori impongono tasse a vario titolo. In generale si paga la taglia per la protezione del signore: la taglia e fissata dalle consuetudini in un certo ammontare che deve essere corrisposto dalla comunità di villaggio (la ripartizione avviene fra i villani). Esiste, inoltre, l’obbligo di utilizzare i frantoi, i mulini, i forni, etc, del signore e, per l’utilizzo di questi è pagata una tassa. Spesso questa funzione sarà appaltata dal signore. Il forismaritaggio è una tassa pagata dai villani per contrarre matrimonio con villani di un’altra signoria: i matrimoni avvengono soltanto col consenso di entrambi i signori e previo pagamento della tassa. La manomorta esprime il principio che, alla morte del villano, la sua proprietà va al signore, il quale, generalmente, è poi tenuto a rimetterla all’erede: ciò eccezion fatta, in taluni casi, per i servi. Con questa accezione si vuole indicare che il villano non ha la capacità di trasmettere il patrimonio direttamente all’erede.

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Il Bassomedioevo

Il regime feudale (feudalesimo). Il Regime feudale si colloca fra il XII e il XIII secolo. Esso è caratterizzato dalla riemersione dell’autorità imperiale e regale, che, tuttavia, deve scontrarsi con una situazione di fatto nel frattempo creatisi. Dinnanzi all’esistenza di potentati territoriali de facto, è recuperato da Imperatori e re il vecchio istituto vassallatico-beneficiario (terra il cambio di servizio e obbedienza) utilizzato, però, ora in chiave feudale: il feudo comporta per chi lo riceve, nella quasi totalità dei casi, l’esercizio di poteri di natura pubblica sugli abitanti del feudo stesso e non è più revocabile all’erede, laddove egli presti giuramento di fedeltà. L’investitura del feudo riconosce i poteri che sono spontaneamente sorti, ma ottiene, a vantaggio del re o dell’Imperatore, il giuramento di fedeltà vassallatica: è una forma, seppur sommaria, di ricomposizione dell’autorità. Si distingue dal feudo l’allodio, ossia un fondo posseduto in piena proprietà: si dicono allodieri i proprietari di allodio. Il vantaggio di un allodiere rispetto ad un feudatario è che non è vincolato ad alcun altro uomo che non sia se stesso, tranne l’obbedienza dovuta al re e all’Imperatore. Molti piccoli allodieri, tuttavia, durante l’anarchia feudale, per ottenere protezione, hanno ceduto la loro proprietà ad un signore locale in grado di fornire loro protezione e l’hanno riottenuta a titolo di feudo: si parla, per questi casi, di “feudi oblati”.

I ComuniNel Medioevo non esiste il concetto dell’individuo inteso come portatore di valori e proprietà uniche ed esclusive (individualismo): ognuno si riconosce ed esiste in quanto membro di un gruppo (corporazioni di mestiere, etc.). La Comune rientra fra le associazioni tipiche del periodo medievale: essa rappresenta la popolazione urbana, a differenza di altre, esclude nobili ed ecclesiastici, ha il compito di proteggere gli associati dalle prevaricazioni dei Signori ed, all’origine, ha carattere segreto. Inoltre, gli aderenti alla Comune, in caso di controversia reciproca, si rivolgono, per il giudizio, agli organi della Comune e non al tribunale del Signore. Il Comune è perciò, a sua volta, un’autorità sorta in modo del tutto autonomo ed indipendente, la cui diffusione si amplia con la rinascita cittadina dell’XII e del XIII secolo. I Comuni cercheranno di ottenere dai Signori concessioni di vario tipo (riconoscimento di antiche consuetudini, esenzione dal versamento di imposte, garanzie contro le prevaricazioni degli ufficiali signorili, etc.) e, in qualche raro caso, autonomia politica. Essi spesso ottengono da Re e Signori Carte che attestano le loro “libertà” (per “libertà” si intendono nel medioevo esenzioni di varia natura), altre volte ingaggiano lotte contro Re e Signori. In generale, i Re sono favorevoli alla concessione di Carte che “liberino” le città, laddove tali città sorgano nelle Signorie, specie se grandi, ma raramente le concedono entro i domini da loro direttamente controllati. Questo risponde al preciso intento di limitare il potere dei Signori. La lotta fra Signori e Comuni si conclude in due maniere: o con la concessione da parte del Signore di Carte e la permanenza del Comune entro la Signoria (in generale l’amministrazione sarà affidata a rappresentati della Comune affiancati da un rappresentante del Signore), o con il farsi del Comune stesso Signoria. I Comuni rappresentano un ulteriore esempio della frammentazione del potere pubblico tipica dell’età bassomedievale.

Nascita della nobiltà. La nobiltà, sino al XII secolo non è chiusa, cioè non è un ceto in senso moderno, per il quale non sarebbe ammessa mobilità: la nobiltà coincide con i miles, in grado di fornire un servizio armato a cavallo. Chiunque, per coraggio e disponibilità economica (giacché cavallo e armatura hanno un costo piuttosto ingente), sia nelle condizioni di esercitare questo servizio sociale, indipendentemente dalla sua nascita, ha accesso alla nobiltà. Dal XII secolo il titolo

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nobiliare diviene ereditario, ossia da questo momento la nobiltà si fa “ceto” nel senso moderno del termine.E’ scorretto parlare di “privilegi” accordati alla nobiltà: si trattava all’origine semplicemente di uno Statuto particolare loro riconosciuto in virtù del ruolo militare e di protezione che essi ricoprivano, ciò alla stessa maniera in cui ogni altro ordine era soggetto ad una proprio diritto separato a seconda della funzione sociale che doveva assolvere. Ad esempio, i nobili non pagavano le tasse poiché ciò che mettevano in gioco a difesa della comunità era la loro stessa vita (pagavano l’imposta del sangue): questo diventerà un privilegio (dal XIV secolo) in senso proprio laddove essi cesseranno di svolgere il loro compito, pur mantenendo il diritto associato allo svolgimento di quella mansione sociale. Nel momento in cui la nobiltà si richiude su se stessa (serra le proprie fila) e non esercita più le sue funzioni sociali originarie, pur mantenendo il privilegio, allora diviene ceto inutile, parassitario e il privilegio ad essa accordato, per il fatto stesso di sussistere, costituisce un’ingiustizia sociale.

I poteri della monarchia feudale (XII – XIII secolo)Il Re conserva la totalità delle proprie prerogative unicamente sui territori del demanio: nei territori oggetto di Signoria, invece, le sue funzioni sono assunte dal Signore (giudicare, imporre tasse, etc.). L’ampiezza del demanio regio, tuttavia, sia in ragione di guerre vittoriose, sia di matrimoni e successioni dinastiche, aumenta considerevolmente a partire dall’XI secolo (dinastia Capetingia, fondata da Ugo Capeto). Le effettive prerogative del Re sono la direzione della politica estera (decisione circa guerre, partecipazione a crociate, etc.) ed una generale funzione di difesa dei deboli e di esercizio della suprema potestà giudiziaria. Il Re è ritenuto tale per diritto divino ed è paladino della Chiesa (è incoronato dal Papa e giura fedeltà alla Chiesa). Circa il suo potere di legiferare, questo è ridotto al demanio regio: solo nella metà del XII secolo il Re acquista nuovamente la facoltà di legiferare per atti generali su tutto il territorio del Regno. Questa facoltà, tuttavia, è profondamente avversata dai Signori. Si può dire che esista un’amministrazione regia solo nei territori demaniali: le Signorie posseggono una loro amministrazione particolare e separata. Il Re presiede la propria Corte di giustizia, ma, più spesso, questa Corte è presieduta da un Presidente che fa le veci del Re: col tempo la funzione giudicante è delegata dal Re ai Parlamenti, i quali fungono da supremo organo giudiziario (dinnanzi ai Parlamenti è possibile portare le istanze d’appello contro la giustizia signorile).

La monarchia nel XIV e XV secoloLa monarchia fa un notevole sforzo contro i Signori feudali al fine di limitarne i poteri. Una prima limitazione consiste nello svincolarsi del Re dalla dipendenza militare rispetto ai propri vassalli: al cavaliere si sostituisce il soldato, cioè colui che presta il suo servizio per il soldo (per denaro). Il Re dispone così di truppe indipendenti. Inoltre egli accentra nelle sue mani il prelievo fiscale, privando i Signori della facoltà di imporre tasse, e istituisce casi giudiziari di competenza esclusiva della propria Corte di Giustizia, oltre a potenziare le facoltà d’appello della Giustizia regia rispetto a quella signorile. La nobiltà, ovviamente, contrasta l’iniziativa regia, arroccandosi sui propri privilegi di Corpo. Lo sforzo di accentramento del potere politico da parte del monarca incontra anche la resistenza di Comuni, Vescovi, etc. Ciò conduce ad una sorta di compromesso fra l’istanza accentratrice del Re e quella, tesa al decentramento, propria della società feudale: questo compromesso si esprime in quella tipologia di Stato che gli storici hanno definito “società per ceti”. In questa società la legge non è uguale per tutti, ma varia a seconda dell’appartenenza di ceto. Oltre che a seconda del ceto, certe comunità locali sono soggette a norme particolari ereditate per consuetudine locale, etc.

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Si afferma la dottrina della separazione fra i beni personali del Re e il patrimonio della Corona: quest’ultimo non può più essere alienato (venduto, regalato, etc.) in quanto esso non è proprietà del Re, ma semplicemente da costui amministrato nell’interesse pubblico. Gli Stati Generali, ossia l’assemblea rappresentativa dei tre ordini (o ceti o stati) della società (Clero, Nobiltà e Terzo stato), a partire da un iniziale potere reale, acquistano un carattere meramente consultivo e sono convocati dal Re a suo arbitrio. Il tentativo compiuto per svincolarsi dai Signori feudali all’interno ha un equivalente verso l’esterno nello sforzo della monarchia teso ad affermare la propria autonomia sia rispetto al Papa (il Papa riteneva il potere regio a lui subordinato e da lui revocabile), sia rispetto all’Imperatore. Fra il XVI e il XVII secolo si compiranno gli ulteriori decisivi passi verso l’assolutismo del potere monarchico, culminati con il regno di Luigi XIV (il cosiddetto “Re Sole”).

UNIVERSALISMI

Il Papato dall’XI secolo agì sempre più intensamente:1) nel senso dell’affermazione della propria preminenza fra tutte le autorità terrene (re e

imperatore). Cito il passo del Vangelo in cui si legge (Gesù si rivolge a Pietro): “tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato anche in cielo e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche in cielo”;

2) nel senso del far valere la donazione di Costantino per la quale l’imperatore, trasferendo nel 312 la capitale dell’Impero a Oriente, trasferì la sovranità sui territori occidentali dell’Impero al Papa allora Silvestro (l’atto è un falso redatto probabilmente nella seconda metà del VIII secolo). E’ in forza di questa donazione che il Papa esercitava un controllo diretto (non solo spirituale, ma anche temporale) sui territori costituenti il cosiddetto “Patrimonio di San Pietro”: Lazio, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia).

Si noti: preliminare, rispetto ad ogni affermazione universalistica del papato, è la centralizzazione della Chiesa su quella romana, e sul suo vescovo. E’, cioè, indispensabile che il Papa sia riconosciuto, entro la Chiesa, come autorità indiscussa, superiore rispetto ad ogni altro vescovo della cristianità. Ciò si compì a partire dalla seconda metà dell’XI secolo (in proposito, vedi: “Immunità”). Un argomento classico per sostenere la preminenza del vescovo di Roma sugli altri vescovi è il passo del Vangelo in cui si legge “tu sei Pietro e su di te edificherò la mia Chiesa” (la frase è pronunciata da Gesù alla volta di Pietro).Punto 1. Nel 1075 il Dictatus Papae di Gregorio VII papa dal 1073 (Ildebrando di Soana) affermava esplicitamente che il Papa poteva deporre l’imperatore e sciogliere i fedeli da vincoli di fedeltà agli iniqui: questo, di fatto, equivaleva a vincolare l’agire dell’Imperatore all’assenso papale, ossia ad attribuire, seppure indirettamente, un potere temporale al Papa. Il principio cui qui si fa ricorso sarà formulato compiutamente da Bonifacio VIII nella bolla Unam Sanctam del 1302 e per esso l’imperatore riceverebbe la propria autorità sui sudditi (che coincidono con la società cristiana) non direttamente da Dio ma per medium del Papa, il quale solo lo trarrebbe direttamente da Dio. E’ un fatto poi che la tradizione ponga l’Imperatore come tale unicamente previa incoronazione da parte del Papa generalmente in Roma. Si noti tuttavia come la dottrina introdotta da Gregorio VII fosse ben lungi da quella che aveva retto la cristianità nell’Altomedioevo. Nel V secolo d. C. Papa Gelasio I affermava infatti ancora che l’autorità del Papa e quella dell’Imperatore coprivano due ambiti totalmente estranei ed eterogenei: quello spirituale e quello temporale. Per le faccende spirituali l’Imperatore sarebbe pertanto stato sottoposto all’autorità del Papa, e per le faccende temporali sarebbe invece stato il Papa a doversi rimettere all’autorità imperiale.

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Punto 2. Quando Pipino discese in Italia contro i Longobardi di Astolfo che avevano invaso l’Esarcato e la Pentapoli consegnò i territori conquistati non ai Bizantini, che ne erano i legittimi titolari, ma al Papa, in ciò confermando la donazione di Costantino. Ciò secondo gli accordi del 754 per i quali in cambio il Papa Stefano II incoronò Pipino re dei Franchi, legittimazione di cui quest’ultimo abbisognava poiché aveva usurpato il regno a Clodoveo III della dinastia Merovingia.Nel 1059 il papa Nicolò II con gli Accordi di Melfi infeudò Roberto d’Altavilla (detto il Guiscardo) non soltanto della Puglia e della Calabria (territori Bizantini e detenuti dai Bizantini), ma anche della Sicilia (territorio allora Saraceno), legittimando con ciò la conquista di quegli stessi territori da parte del Guiscardo (l’unificazione di Sicilia e Meridione avvenne nel 1130 con Ruggiero II d’ Altavilla). Fu poi in forza di questo stesso atto di sudditanza vassallatica che Gregorio VII assediato dall’Imperatore Enrico IV di Franconia che nel 1083 occupò Roma e nominò un antipapa fu tratto in salvo nel dallo stesso Roberto il Guiscardo. Fu la stessa Donazione di Costantino a consentire a Rolando Bandinelli (futuro papa Alessandro III, colui che si oppose alle pretese universalistiche dell’Imperatore Federico Barbarossa) di affermare che l’Impero non era altro che un grande feudo concesso dal Papa all’Imperatore. La stessa Donazione è poi alla base dell’infeudazione del Regno di Sicilia, dopo la morte di Federico II (1250), a Carlo d’Angiò (che sconfisse e uccise Manfredi a Benevento, nel 1266), fratello del re di Francia, in ciò privando del regno i legittimi eredi (Manfredi figlio di Federico II e suo nipote Corradino di Svevia), così come è alla base del giuramento di fedeltà vassallatica che il papa Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni, papa dal 1098) pretese da tutti i potenti di allora (re di Bastiglia, Aragona, Inghilterra, Portogallo, Sicilia).

L’Imperatore agì a partire dagli Ottoni (X, XI secolo. Dagli Ottoni in poi, per concessione papale, al titolo imperiale potrà accedere unicamente un principe tedesco: di qui la dizione “Sacro Impero Germanico”) e poi con la dinastia di Franconia (Enrico IV si oppose a Gregorio VII nella Lotta per le Investiture) e con la dinastia Sveva (Federico Barbarossa imperatore dal 1152, Enrico VI e Federico II) in senso esattamente contrario, ossa nel senso dell’affermare la supremazia dell’Imperatore su tutte le autorità terrene (gli altri re) e la derivazione della propria autorità direttamente da Dio senza il medium del papa (sacralità della figure dell’imperatore). In conformità con l’esempio di Costantino, che nel 325 convocò a Nicea il primo Concilio Ecumenico della storia della Chiesa, gli imperatori vollero poi farsi tutori della Chiesa stessa, in ciò soppiantando l’autorità papale (Federico I di Svevia, ad es., convocò un concilio per dirimere la questione sui due papi che si contendevano il Papato, Vittore IV e Alessandro III). E’ detta tecnicamente cesaropapismo l’assunzione da parte dell’Imperatore (Cesare) di funzioni non soltanto temporali (potere temporale), ma anche di direzione spirituale (potere spirituale): l’Imperatore è anche il capo della Chiesa. Esempio attuale di cesaropapismo è l’anglicanesimo.Da principio, coi Carolingi, valeva semplicemente questo, in riferimento alla figura dell’Imperatore. Dovendo Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno e imperatore dall’814, dividere il proprio Regno fra i figli, secondo l’uso germanico per il quale il regno era inteso come bene di proprietà, optò per una discriminazione fra regno (divisibile) e impero e dignità imperiale (indivisibile). Ora, ad uno solo dei figli fu riconosciuto il titolo imperiale, il quale attribuiva la peculiarità alle leggi emanate da colui che lo deteneva, di imporsi automaticamente su tutti i regni degli altri eredi, oltre che sul proprio. Progressivamente l’Imperatore divenne tuttavia un re come gli altri (tradizionalmente il titolo imperiale era legato alla titolarità del regno italico, e in seguito, dagli Ottoni, corona tedesca e italica si legarono fra di loro), salvo attribuirsi pretese universalistiche (sulla comunità dei cristiani tutti, in quanto impero sacro) e di difesa della fede.Si noti questo: per “regno” non si deve ancora intendere un corpo territoriale unitario e contiguo, sul quale si estende l’autorità regia; l’autorità regia si estende su una popolazione, indipendentemente da dove sia stanziata (ciò è retaggio della tradizione germanica dei capi di popolo, essendo i popoli

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nomadi), e di tale autorità sono parte integrante possessi e beni (ora, stanzializzatisi i popoli, precisamente localizzati in quanto beni soprattutto immobili). Chi eredita il regno eredita innanzitutto dei beni (ora immobili) e in forza precisamente della grandezza e consistenza di quel patrimonio, una autorità superiore agli altri potenti, autorità sempre più spesso sancita dal Papa. Filippo II Augusto (della dinastia Capetingia che regna dal 987), ai primi del Duecento, per primo si dichiarerà non re dei Franchi, ma re di Francia (il che vale a dire: che chiunque si trovi entro il territorio circoscritto della Francia è soggetto all’autorità del re di Francia).

Utilizzo dell’istituto vassallatico-beneficiario

L’istituto vassalatico-beneficiario fu utilizzato in senso feudale sia dall’Imperatore, sia dal Papa, ciò a partire dai secoli XI e soprattutto XII (Federico Barbarossa pretende atti collettivi di sudditanza vassallatica all’Imperatore da parte di ogni Comune, oltre che da parte di ogni signore feudale) e XIII (Innocenzo III ottiene atti di sudditanza vassallatica al Papa da parte di molti sovrani). In sé stesso l’istituto vassallatico beneficiario, il cui utilizzo sistematico risale ai Carolingi (Carlo Martello, Pipino il Breve, ma soprattutto Carlo Magno), non aveva affatto un carattere feudale, nel senso per il quale esso attribuisce a privati poteri di natura pubblica entro l’ambito territoriale del feudo di cui sono investiti – a proposito si distingueva fra feudi di dignità o onori, e normali feudi -.Se quindi è lecito parlare di feudalesimo ciò è unicamente a partire dall’XI secolo, mentre sarebbe scorretto retrodatare il feudalesimo all’epoca carolingia, che utilizzò l’istituto vassallatico-beneficiario, ma non in senso feudale: lo utilizzò cioè unicamente come strumento per remunerare il vassallo per il servizio armato reso e garantirsene (con il carattere unicamente vitalizio della concessione) la fedeltà futura, senza che la concessione della terra in usufrutto vitalizio comportasse affatto l’esercizio di poteri di natura pubblica sul territorio della stessa. Peraltro, la pratica di remunerare con terre era già stata dei re merovingi, salvo introdurre i carolingi il carattere vitalizio (e, dunque, revocabile) della concessione: non si trattava più di trasferimento di proprietà, ma di usufrutto.A partire dall’XI secolo, l’istituto vassallatico-beneficiario fu invece utilizzato in tutt’altro senso, ossia come strumento per riaffermare l’autorità imperiale (o anche papale) su una situazione di fatto nella quale privati esercitavano su aree territoriali circoscritte (ma spesso per parte sovrapponentesi le une alle altre) poteri di natura pubblica (imposizioni fiscali, amministrazione della giustizia, richiesta di pedaggi, difesa armata del territorio, etc.). Non si trattava per l’imperatore di recuperare quei poteri che, di fatto, esercitavano altri in sua vece, ma, viceversa, di ottenere da costoro, mediante il giuramento di fedeltà vassallatica, un riconoscimento della sua autorità superiore (di diritto, ma non più di fatto). Peraltro tale esigenza dell’imperatore si legava con l’altra dei titolari di tali potentati territoriali de facto, di ottenere una legittimazione de iure della loro stessa autorità, che, nel frattempo, incontrava una contestazione dal basso (dai loro sottoposti). Non implicando ormai più il giuramento di fedeltà vassallatica una prestazione di natura militare, ma risolvendosi in un puro atto formale, i Signori non avevano più alcuna difficoltà a divenire uomini di un altro uomo (l’imperatore, il re, il papa). L’istituto vassallatico-beneficiario fu tale da riadattarsi alla nuova situazione storica, per cui un’intera città poteva essere vassallo dell’imperatore, etc. Difficoltà sorsero unicamente quando l’imperatore pretese di rientrare di fatto in possesso dell’autorità pubblica che era nel frattempo (secoli IX, X) stata usurpata da privati (Signori di banno e poi, dall’XI secolo Comuni). La lotta fra Federico Barbarossa e i Comuni padani si giocò esattamente su questo terreno, poiché il Barbarossa, nella dieta di Roncaglia (1158) pretese dai comuni la restituzione delle regalie e la nomina imperiale dei podestà deputati all’amministrazione del comune. Nella pace di Costanza (1183) ciò che viceversa il Barbarossa ottenne fu il riconoscimento

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della sua superiorità formale (i Comuni si dichiararono suoi vassalli), ma, in cambio, dovette sancire de iure l’esercizio de facto di poteri di natura pubblica (imperiale) da parte dei Comuni, cioè dovette rinunciare alle regalie.Si rende pertanto indispensabile la distinzione:1) fra diritti signorili (spontaneamente sorti “dal basso” quale dato de facto) e diritti feudali

(provenienti “dall’alto” a mezzo di un’investitura feudale, cioè a mezzo dell’utilizzo dell’istituto vassallatico-beneficiario nel senso a) di cui al punto 2).

2) fra a) istituto vassallatico-beneficiario utilizzato in senso feudale (posteriore) e b) istituto vassallatico-beneficiario non utilizzato in senso feudale (quale era da origine)

Immunità

Eredita una prassi inaugurata già da Costantino con l’editto di Milano del 313 (libertà di culto ai cristiani), prassi per la quale l’Imperatore si pone come pontifex maximus della religione cristiana, convocando concilii, etc., ma, al contempo, favorisce la nuova religione, esentando gli ecclesiastici da gravami fiscali, di leva, riconoscendo valore civile alle sentenze dei tribunali ecclesiastici, attribuendo alle chiese e ai monasteri diritto d’asilo, etc., in ciò ottenendo un sostegno alla sua autorità dalla Chiesa stessa, che condanna la disobbedienza civile (Editto di Tessalonica, emanato nel 380 dall’imperatore Teodosio: la religione cristiana come religione di Stato).Definizione. L’immunità sancisce un’area giurisdizionale protetta entro la quale l’autorità comitale non può esercitarsi (il comes non può penetrarvi ai fini dell’amministrazione della giustizia, etc.), i territori oggetto di immunità cadono sotto la diretta (non mediata dai comites) giurisdizione regia. All’immunità è altresì associata un’esenzione fiscale.E’ un fatto come entro il territorio oggetto di immunità, il titolare del diploma di immunità eserciti di fatto poteri di natura pubblica. Tuttavia, questo, per quanto un fatto tacitamente riconosciuto, non è un diritto, come è riprovato che a lato di diplomi che concedono immunità, esistono diplomi che ad essi assommano un districtus. In genere titolari di diplomi di immunità sono vescovi per le loro diocesi, abati per i territori facenti capo ai loro monasteri, etc.I re e gli imperatori presero a concedere progressivamente diplomi di immunità in misura sempre maggiore agli enti ecclesiastici per contrastare l’eccesso di potere che i conti acquisivano nelle circoscrizioni (le contee) date loro in amministrazione, ove accumulavano (spesso usando della funzione pubblica per fini privati) patrimoni allodiali sempre più ingenti e si radicavano nel territorio. L’immunità istituiva in tal maniera aree giurisdizionali protette, ove un’autorità altra rispetto a quella comitale esercitava la funzione pubblica. Con Ottone I (fine X secolo), i vescovi vennero insigniti talora della stessa funzione comitale (vescovi-conti), ossia divennero a tutti gli effetti funzionari pubblici. L’attribuzione di poteri di natura pubblica ad ecclesiastici aveva poi questo di vantaggioso per l’imperatore: che, mentre la funzione comitale tendeva all’ereditarietà, e, dunque, a sfuggire al controllo imperiale (877, Capitolare di Quercy concesso da Carlo il Calvo per i feudi maggiori, 1037 Constitutio de feudis concessa per i feudi minori da Corrado II il Salico), i vescovi, in quanto ecclesiastici, erano tenuti al celibato e, non avendo formalmente eredi, alla loro morte la contea rientrava nella disponibilità dell’imperatore, che la poteva assegnare ad altri. Questo processo, particolarmente poderoso sotto gli Ottoni (X-XI secolo), imponeva all’imperatore un diretto controllo sulla nomina dei vescovi, in quanto da essi sarebbe dipeso il governo delle diocesi. Si trattava per l’imperatore di disporre di vescovi a lui fedeli, per medium dei quali avrebbe potuto governare il territorio. Ciò incontrò tuttavia la resistenza della Chiesa, che, a partire dall’epoca di Gregorio VII (fine XI secolo), si stava centralizzando intorno alla Chiesa romana e alla figura del vescovo di Roma (il Papa). Sino ad allora, infatti, le forme di governo ecclesiastico

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erano decise su base locale o regionale (i vescovi facenti capo ad un certo metropolita o i vescovi di una certa regione riuniti in concilio), non su base centralizzata, sicché ogni regione poteva darsi le forme di autogoverno che voleva, fossero anche difformi da quelle praticate dai vescovi facenti capo al vescovo di Roma (il Papa). Al papa era riservata una preminenza unicamente nelle questioni di dottrina (aveva un primato d’onore). Ora, tutto questo consentiva all’Imperatore di condizionare significativamente l’elezione dei vescovi, specie in Germania, la quale si svolgeva su base locale (la stessa elezione del vescovo di Roma avveniva per acclamazione da parte del popolo romano, e, dopo la regolamentazione dell’elezione del pontefice voluta nel 1059 da Nicolò II, per elezione da parte dei titolari delle chiese cardine di Roma, cioè pur’essa avveniva su base locale). Lo scontro fra papato e impero sorse laddove la chiesa si centralizzò su quella romana e sul suo vescovo (il Papa) e pretese essa sola di deporre e trasferire i vescovi (si noti che per un lungo periodo la nomina stessa del vescovo di Roma cadde sotto il controllo imperiale – il privilegium Othonis imponeva ai Romani di non eleggere più alcun papa senza il consenso imperiale; più tardi Enrico III di Franconia con il principatus in electione papae avocò a sé la nomina del pontefice, riservando al popolo la sola formalità dell’acclamazione -; la riforma dell’elezione pontificia voluta da Nicolò II operò precisamente contro l’ingerenza imperiale nella nomina del pontefice). Tale centralizzazione della Chiesa su quella Romana fu palesata con tutta evidenza dal IV Concilio ecumenico lateranense, convocato nel 1215 a Roma da Innocenzo III.

In dettaglio, sul processo di centralizzazione della Chiesa su quella romana, valgono le seguenti considerazioni:tale processo, intrapreso da Gregorio VII papa dal 1073 e già consigliere di Niccolò II papa, faceva tutt’uno (nel senso che ne era un effetto) con la cosiddetta Riforma della Chiesa, ossia con una opposizione interna alla Chiesa stessa alla dilagante immoralità del clero (concubinato e simonia), immoralità alimentata essenzialmente dall’investitura laica (in specie imperiale) di dignità ecclesiastiche. Per imporre una modalità di condotta “degna” al clero tutto, era in primis indispensabile centralizzare la Chiesa, ossia fare di essa un organismo con un'unica sorgente di comando, capace di canonizzare i comportamenti; ma per realizzare ciò si trattava, ancor più a monte, di sottrarre la stessa elezione papale al controllo imperiale – questo fu precisamente realizzato dalla riforma voluta da papa Niccolò II nel 1059, anno stesso nel quale il sinodo lateranense condannò solennemente simonia, concubinato e investiture laiche di cariche ecclesiastiche. Le posizioni del “Dictatus papae” non fanno che esprimere a livello teorico “alto” ciò che già la prassi aveva già inaugurato a livello “basso” – si noti che esse, tuttavia, non si limitano ad affermare la centralizzazione della Chiesa su quella romana e l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale, ma affermano esplicitamente la dipendenza del potere temporale da quello spirituale: vedi “universalismi”, più sopra.La Riforma si concretizzò poi anche nella creazione degli ordini Cluniacense (X secolo) e Cistercense (XI secolo). In specie il primo si caratterizzò per un’assoluta indipendenza dalle diocesi nelle quali i monasteri sorgevano e dai loro titolari (vescovi, spesso di nomina imperiale), sostituita dalla diretta dipendenza dal vescovo di Roma e dall’abate della casa madre (i monasteri cluniacensi, salvo quello di Cluny, non hanno un abate).

La lotta per le investiture si concluse con il Concordato di Worms del 1122 fra Enrico V imperatore e papa Callisto II. Il concordato sancì il riconoscimento ufficiale da parte dell’Imperatore del Papa (ossia il vescovo di Roma) come capo di tutta la cristianità, distinguendo tuttavia fra investitura spirituale (riservata al Papa) e investitura temporale (riservata all’Imperatore), ossia ponendo una netta distinzione fra potere temporale (dell’Imperatore) e spirituale (del Papa). Il primato della Chiesa di Roma risulta palese dal fatto che l’investitura spirituale all’eletto è attribuita al suo

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vescovo e non ad altro vescovo (ad esempio il metropolita cui fa riferimento la diocesi dell’eletto). Il meccanismo di elezione è poi strutturato in questo senso: restando vacante una sede vescovile, si procedeva all’elezione da parte dei canonici della chiesa cattedrale e da alti dignitari della diocesi, del successore. L’Imperatore era escluso dal collegio elettivo in Borgogna e Italia, ma vi presenziava in Germania. Inoltre, l’investitura feudale precedeva quella religiosa in Germania, mentre in Italia e Borgogna la seguiva: in questo senso l’Imperatore, indirettamente, vincolava l’elezione dei vescovi tedeschi, ma non quella dei vescovi italiani. Si noti: nel XIV secolo l’accordo raggiunto a Worms fu contraddetto palesemente dalla prassi romana di procedere a nominare i vescovi centralmente, e non su base locale (elezione da parte dei capitoli delle chiese cattedrali). In specie, il personale burocratico della Curia romana, era remunerato attribuendo ad esso in beneficio diocesi (delle quali erano nominati vescovi) spesso assai lontane ed in cui costoro non avevano mai risieduto, né mai risiederanno – la non residenza dei vescovi nelle proprie diocesi sarà fonte di profonda critica alla Chiesa.Progressivamente, tuttavia, l’unità raggiunta dalla Chiesa sotto Gregorio VII e Innocenzo III si ruppe per l’avvicinamento del clero nazionale alle monarchie nazionali che in quel mentre si formavano; alla stessa maniera e per lo stesso motivo i disegni universalistici dell’Impero, cioè l’ambizione ad un potere temporale unico e sovranazionale cui fossero subordinati i vari reggenti, tramontò. Emblematico è lo scontro fra Filippo in Bello re di Francia e Bonifacio VIII (Benedetto Caetani, papa dal 1294 al 1303). Il re di Francia revocò al clero francese l’immunità fiscale di cui la chiesa godeva sin dai tempi dei carolingi. Il papa proibì al clero di pagare qualsivoglia imposta senza l’approvazione della Santa Sede. Il re impedì ai proventi delle decime riscosse in terra di Francia di raggiungere Roma. Interessante è in tutto ciò l’appello di Filippo il Bello alla nazione a mezzo della convocazione di una assemblea rappresentativa dei vari ordini (nobiltà, clero e borghesia), la quale, in opposizione alla bolla Unam Sanctam emessa dal papa nel 1302 e ribadente il primato anche temporale del papa su ogni autorità terrena, confermò al re il suo pieno appoggio e la sua assoluta indipendenza quanto a questioni temporali da ogni altra autorità che non fosse direttamente quella di Dio (non mediata dal Papa). Seguì il trasferimento della sede pontificia ad Avignone, cioè nell’orbita francese, sino al 1377. Fra 1377 e 1378 vi fu il ritorno del papa a Roma seguito da successivi contrasti entro il collegio cardinalizio cui spettava l’elezione del papa e che si scisse fra italiani, che elessero papa Urbano VI e francesi, che elessero papa Clemente VII. Lo scisma della Chiesa d’occidente si protrasse fino al 1414, quando un apposito concilio convocato a Costanza, depose i papi (che non erano più due, ma addirittura tre), e procedette nel 1417 alla nomina del nuovo papa Martino V. Il concilio fece propria la dottrina della superiorità del concilio sul Papa, dottrina per la quale il papa è soggetto egli stesso ad un’autorità superiore che non è ancora quella di Dio: l’autorità collettiva del concilio, appunto. Ciò in contrapposizione alla dottrina secondo la quale nessuno, solo Dio, può giudicare il Papa, che, di contro, in nome di Dio può giudicare chiunque.

La monarchia in senso moderno

Le monarchie nel senso moderno del termine, cioè in quanto compagini territoriali continue e ben delimitate, rette da una suprema autorità comune (il re) esercitante la propria giurisdizione sul territorio a mezzo di un apparato burocratico centralizzato, sottoposte ad una legislazione unica, etc., si affermarono in opposizione con la frammentazione locale dei poteri che seguì al disfarsi dell’impero carolingio (seconda metà IX secolo, X secolo). Questa frammentazione fu dapprima ricondotta ad unità formale mediante il rapporto vassallatico-beneficiario, in seguito, da parte dei re, vi fu il tentativo di sovrapporre una legislazione unica per tutto il territorio del regno agli usi e ai diritti consuetudinari locali, vi fu la creazione di una corte suprema di giustizia del re che avocò a se

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i delitti più gravi (attentati alla persona o ai beni del re, furti, omicidi, etc.), vi fu l’esercizio generalizzato su tutti i sudditi del prelievo fiscale. Il processo fu lento e non ovunque produsse i medesimi risultati. In Germania, ad esempio, il potere dei Principi fu tale che, entro i rispettivi territori, ciascuno si comportò sempre da re, né la monarchia riuscì a consolidarsi in forma ereditaria, rimanendo vincolata all’elezione da parte del collegio dei principi e dei “grandi” (compresi alcuni vescovi) – le modalità di elezione e gli aventi diritto al voto furono codificati a metà del Trecento, con la “Bolla d’oro”. Il re di Germania, salvo il titolo, che generalmente assommò a quello di re d’Italia e Imperatore, non fu quindi mai effettivamente re se non sul suo stesso principato. Di contro, in Francia e Inghilterra la monarchia si specificò in senso ereditario.La Magna Charta del 1215, concessa dal re d’Inghilterra Carlo Senzaterra, e tradizionalmente interpretata come un atto che definisce i diritti e doveri reciproci di re e sudditi, è in verità la sanzione dei privilegi della nobiltà e dei grandi ecclesiastici, cioè è un atto eminentemente reazionario. Infatti la monarchia si afferma in senso moderno nella misura in cui riesce a sottrarre ai “grandi” i privilegi e i diritti che costoro esercitano de facto per consuetudine, o la funzione pubblica che hanno incamerato nel loro patrimonio allodiale (trasmissione ereditaria della carica comitale, etc.), la Magna Charta agisce invece in senso esattamente opposto: i liberi possono essere giudicati soltanto da tribunali di loro pari, il re non può imporre tasse addizionali salvo approvazione di nobiltà e clero, il re deve essere stabilmente affiancato nelle decisioni di governo da un gruppo di venticinque baroni. Pur essendo in se stessa reazionaria, la Magna Charta ha potenzialità rivoluzionarie, poiché assimila i privilegi delle città a quelli dei quelli dei “grandi”, e, ponendo il Consiglio del re come stabile, apre le porte alla possibilità di una assemblea rappresentativa di tutti i ceti sociali (anche dell’emergente borghesia mercantile) – Piccinni, 307-308).In verità, dunque, le assemblee rappresentative che i re sono costretti a concedere ai propri sudditi non sono altro che i luoghi istituzionali nei quali si fronteggiano, da una parte l’istanza di mantenimento dei propri privilegi da parte dell’aristocrazia a discapito della centralizzazione dello Stato, dall’altra l’esigenza di centralizzazione e unificazione del regno da parte del monarca. Le assemblee rappresentative sono concessioni regie alla feudalità (Donzelli 360-361).Importante: la creazione di una monarchia in senso moderno passa per l’istituzione di un esercito regio (Trecento-Quattrocento), cioè alle dirette dipendenze del re, ossia attraverso il superamento della prassi di reclutamento feudale (vassalli, valvassori, etc.). Nel senso della creazione in Inghilterra e in Francia di una monarchia in senso moderno, nonché della definizione territoriale di entrambe, agì la Guerra dei cent’anni (1337-1453): infatti essa indebolì il potere delle rispettive feudalità, rafforzando, di contro, l’autorità regia. In specie, in Inghilterra, alla Guerra dei cent’anni si legò la successiva Guerra delle due rose (1455-1485).

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LA LOTTA FRA PAPATO E IMPERO

L’opposizione fra Papato ed Impero ha tre momenti culminali:1) Papato ed Impero contrastarono dapprima per la pretesa dell’Impero di condizionare la nomina ecclesiastica, ciò in ragione della pratica inaugurata dalla dinastia di Sassonia (Ottoni) di attribuire a vescovi ed abati funzioni pubbliche (X - XI secolo). Questa pratica, condannata dalla Chiesa in quanto contribuiva a degenerare i costumi del clero, portò all’affermazione, da parte pontificia (Gregorio VII), della preminenza dell’autorità papale su quella imperiale: nel Dictatus papae (1075) Gregorio VII (al secolo Ildebrando di Soana) afferma la facoltà del Papa di sciogliere i sudditi dai vincoli di fedeltà agli iniqui. Ciò andava ben oltre la ragionevole richiesta da parte del Papato di esercitare in totale autonomia le nomine ecclesiastiche. A seguito di questa dura posizione papale, l’Imperatore Enrico IV della dinastia di Franconia, sentitosi minacciato, convocò una dieta imperiale che decretò la deposizione del Papa, il quale, a sua volta, rispose con la scomunica dell’Imperatore. Ciò costrinse l’Imperatore a chiederne il perdono presso Canossa, nei pressi di Reggio Emilia (1077). La lotta per le investiture si concluse col Concordato di Worms (1122), stipulato fra Papa Callisto e l’Imperatore Enrico V.2) La dinastia di Svevia (Federico I, Enrico VI e Federico II) succedette a quella di Franconia sul soglio Imperiale e riprese in tal maniera il conflitto fra Papato ed Impero, rifiutandosi l’Imperatore ad una qualsivoglia forma di subordinazione al papato. Federico Barbarossa (Federico I, Imperatore dal 1152-1190) non vedeva nell’unzione papale dell’Imperatore un trasferimento del potere temporale, di cui all’origine sarebbe stato depositario il Papa, ma un semplice atto formale. Il Barbarossa, per riaffermare l’autorità imperiale, non dovette soltanto opporsi al papato, ma anche ai Comuni del nord Italia, coalizzati nella Lega Lombarda, ed ai Principi tedeschi. I Comuni ebbero la meglio nella famosa battaglia di Legnano (29 maggio 1176) e costrinsero l’Imperatore alla Pace di Costanza (1183), che ne riconosceva l’autonomia sostanziale dall’Impero.3) La lotta fra papato ed impero si riaccese col nipote di Federico Barbarossa, Federico II (1220-1250), figlio di Enrico VI (figlio del Barbarossa) e della Normanna Costanza d’Altavilla, che si guadagnerà l’appellativo di Anticristo. Questi, inizialmente pupillo di Papa Innocenzo III, che ne caldeggiò l’elezione ad Imperatore, fu, in seguito, il sostenitore del più radicale accentramento del potere imperiale e della sua indipendenza dal Papato, tanto da incorrere più volte nella scomunica. Il suo progetto politico, fra le altre cose, metteva capo alla creazione di una continuità territoriale fra i possessi imperiali del padre ed il sud Italia ereditato dalla madre, ciò a discapito dello stesso Patrimonio di San Pietro.

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IL CROLLO DEGLI UNIVERSALISMI

Con la morte di Federico II di Svevia crolla ogni pretesa universalistica da parte dell’Impero, che si riduce unicamente ad un potere formale. L’Impero, inoltre, viene privato dei suoi domini italiani e ricondotto ai soli territori tedeschi. Nel 1273 l’elezione di Rodolfo I d’Asburgo pone fine alle lotte fra principi tedeschi (fine dell’interregno): nasce la dinastia imperiale degli Asburgo. L’elezione imperiale, tradizionalmente attribuita ai Principi tedeschi, a partire dalla Bolla d’oro (1356), voluta da Carlo IV di Lussemburgo, sarà attribuita a soli sette grandi elettori: i principi di Sassonia, Boemia, Brandeburgo e Palatinato ed gli arcivescovi di Treviri, Magonza e Colonia. Gli Imperatori, tuttavia, avranno un potere pressoché solo formale.In luogo dell’Impero guadagnano potere le monarchie nazionali, le quali finiscono per scontrarsi, dopo il tramonto dell’Impero, con le stesse pretese universalistiche del Papato.Lo scontro si consuma fra Bonifacio VIII Papa (dal 1294 al 1303) e il re di Francia Filippo il Bello (1285-1314): questi vuole (1296) incamerare nei beni dello Stato le decime versate dai fedeli al clero francese (che confluivano come tasse a Roma) e, dinnanzi all’opposizione del Papa (da cui è minacciata la scomunica), non esita a convocare dapprima gli Stati Generali (1302), l’assemblea rappresentativa degli ordini di Francia, e poi un’assemblea di giuristi e prelati francesi, i quali decretano la deposizione dello stesso Papa per indegnità morale. In seguito, Filippo il Bello, per dar seguito a questa deliberazione conciliare, fa catturare ed imprigionare lo stesso Pontefice, che s’era rifugiato ad Anagni. Questi, liberato da un’insurrezione popolare, morirà di lì a poco.Quest’episodio dimostra non solo come l’arma della scomunica sia ormai del tutto inefficace (i Francesi continueranno ad obbedire al loro re), ma anche come l’universalismo del Papato si vacillante all’interno della Chiesa stessa (le chiese nazionali cadono sotto le rispettive orbite regie). La bolla Unam Sanctam (1302), emanata da Bonifacio VIII, rappresenta il documento più esplicito di quello che ormai (all’atto della nascita delle monarchie nazionali) era un anacronismo storico: qui il Pontefice non soltanto ribadisce l’autorità del Papa su tutta la Chiesa, compresa quella scismatica d’Oriente (“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le forze dell’Inferno non prevarranno contro di essa. Ti darò le chiavi del regno dei cieli e quello che avrai legato sulla terra sarà legato in cielo, quello che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo”, Matteo XVIII, 19-20), ma la supremazia del Papa su Imperatori e Re (il Papa ha ricevuto da Dio entrambe le spade: una è impugnata dalla Chiesa, l’altra per la Chiesa).Morto Bonifacio VIII nel 1303, e dopo il breve pontificato di Benedetto XI, viene eletto Papa un francese, Clemente V, che trasferisce la sede papale ad Avignone, nel sud della Francia: inizia la “cattività avignonese” ed il controllo del re di Francia sulla Chiesa.

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L’IMPERO MEDIEVALE

Dinastia carolingia771 Morte di Carlomanno. Carlo unico re dei Franchi.800 Incoronazione imperiale di Carlo.814-840 Ludovico il Poi imperatore.817 Ordinatio Imperii, con la quale Ludovico il Pio intende regolare la successione fra i suoi figli840-855 Lotario imperatore. Nonostante l’Ordinatio Imperii e gli sforzi di Lotario per preservare l’autorità imperiale, questa tende costantemente ad indebolirsi855-875 Ludovico II imperatore875-877 Carlo il Calvo imperatore881-877 Carlo il Grosso imperatore, riunisce per breve tempo tutti i territori dell’Impero, prima di essere deposto

Ludovico il Pio divide il proprio regno fra i figli, ma non divide l’autorità imperiale, che egli ritiene unica e superiore all’autorità dei singoli re. Il titolo imperiale passa così indiviso al figlio Lotario, mentre il regno, col trattato di Verdun (843), che segna la conclusione della guerra fra gli eredi per la successione, è diviso fra Lotario (Italia e Lotaringia), Carlo il Calvo (odierna Francia) e Ludovico il Germanico (area tedesca). Di fatto, tuttavia, il titolo imperiale assumerà un risvolto soltanto formale: ciascun re, entro il territorio del suo Regno, non riconoscerà altra autorità che la propria. L’autorità di Lotario, perciò, nei fatti, si estenderà unicamente sui suoi domini.

Con la morte di Carlo il Grosso si estingue la dinastia carolingia e si apre entro ogni Regno la lotta per la successione. In Germania si impone la pratica dell’elezione del re da parte della grande feudalità. Tuttavia, laddove i duchi ed i principi tedeschi non raggiungano un accordo fra loro sul nome dell’eletto, spesso si ricorre alle armi. Nel 918 viene eletto re di Germania Enrico di Sassonia, detto l’Uccellatore: è il primo re della dinastia di Sassonia. Ottone I, suo figlio, restaura l’Impero (962), ora Sacro Romano Impero Germanico, ed associa all’Impero i territori italiani.

Dinastia di Sassonia962-973 Ottone I973-983 Ottone II imperatore983-1002 Ottone III imperatore1004-1024 è eletto re di Germania Enrico II, cugino di Ottone III, morto nel 1002. Con Enrico II si estingue la dinastia di Sassonia

Dinastia di Franconia1024-1039 Corrado II 1039-1056 Enrico III1056-1106 Enrico IV1106-1125 Enrico V

Dinastia di Svevia1152-1190 Federico I, detto il Barbarossa1191-1197 Enrico VI1215-1250 Federico II1250-1273 Grande interregno in Germania: di fatto, reggono il paese Duchi e Principi.1273 Elezione di Rodolfo d’Asburgo ad Imperatore e fine dell’interregno

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1356 Bolla d’oro. L’elezione imperiale viene limitata ai sette Grandi Elettori: Arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, re di Boemia, conte palatino del Reno, Duca di Sassonia, Margravio di Brandeburgo. Si noti: l’autorità imperiale non si esercita direttamente sui sudditi, ma sui Principi e sulle città libere, né l’Impero possiede un proprio esercito. Tutto ciò testimonia l’intrinseca debolezza dell’istituzione imperiale. Il Sacro Romano Impero Tedesco rimase in vigore fino all’occupazione napoleonica, che lo abolì agli inizi del 1800. Nel 1871, tuttavia, con Guglielmo I rinascerà, per quanto limitato alla sola area germanica (ne è esclusa l’Austria) il Secondo Reich.

LA FRANCIAIn Francia, a partire dal X secolo, si insedia, con Ugo Capeto, la dinastia Capetingia (sino metà del XIV secolo). Sarà seguita da quella dei Valois (dal 1328) e, da ultimo, da quella dei Borbone (dalla fine del 1500).

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IL PARTICOLARISMO COMUNALE:NASCITA ED EVOLUZIONE DEL COMUNE

PregressoIl presupposto per la nascita del Comune è la rinascita urbana dopo l’anno Mille. In questo nuovo contesto si collocano le fiere ed i mercati. Le fiere sono luogo d’incontro e scambio per i mercanti bassomedievali, i quali, a differenza dei mercanti altomedievali, operano su largo raggio e comprano e vendono all’ingrosso; i mercati si svolgono in città e prevedono la vendita al dettaglio: i contadini vi portano la merce dalle campagne circostanti, etc. Fiere e mercati valorizzano le città in cui si svolgono. La città, inoltre, vede il sorgere dell’ artigianato cittadino (contrapposto a quello signorile), da cui si svilupperanno le corporazioni. L’unità produttiva e di vendita artigianale è la bottega (in Francia l’atelier), dove opera un maestro (il proprietario) con l’aiuto di lavoratori ed apprendisti. I maestri che operano in uno stesso settore produttivo confluiscono nella rispettiva Corporazione. Divenire maestro presuppone il superamento di una sorta d’esame per verificare l’idoneità del richiedente (l’esecuzione di un “capolavoro”), il pagamento di una quota d’iscrizione, etc. La Corporazione elegge, fra gli iscritti, i suoi organi direttivi. Compito delle Corporazioni è fissare salari, prezzi delle merci, standard qualitativi. Il numero dei maestri per città è fisso, sicché è possibile per la Corporazione nominare nuovi maestri solo a condizione che ne vengano meno dei vecchi. Il titolo di maestro tende col tempo a trasmettersi di padre in figlio ed è resa sempre più difficoltosa la possibilità, per un lavoratore, di diventare maestro. Il sistema corporativo elimina la concorrenza e, con essa, l’innovazione tecnica, l’ammodernamento, etc.

I ComuniLa nascita dei Comuni si colloca fra XI e XII secolo e riguarda soprattutto la Francia e l’Italia. Il Comune è un fenomeno prettamente cittadino e, dunque, si riallaccia alla rinascita urbana dell’XI, del XII e del XIII secolo, che vede, fra l’altro, l’emergere di un nuovo gruppo sociale ricco e piuttosto omogeneo, cioè quello dei mercanti-banchieri (il futuro patriziato urbano). Circa il fenomeno comunale si tratta di focalizzare l’attenzione su tre fattori:1) in che cosa consiste un Comune?2) qual è l’origine dei Comuni?3) quali fattori spiegano le differenze fra la realtà comunale d’oltralpe (francese) e quella italiana?

Le risposte debbono tener conto delle differenze di contesto (francese e italiano). In generale si può dire che il Comune è una forma di organizzazione politica in cui il potere emana dal basso per elezione e non dall’alto per investitura divina o nascita: in questo senso è una forma “democratica” di organizzazione politica.

In FranciaIn Francia il Comune (la commune) è all’origine un’associazione urbana inizialmente segreta che ha la finalità di procurare la sicurezza agli aderenti tramite il mutuo soccorso contro le prevaricazioni del signore o dei signori suoi avversari, contro gli stranieri presenti in città, etc. Il Comune si assume anche l’onere di dirimere le controversie fra gli aderenti attraverso l’arbitrato: l’aderente, cioè, era tenuto a rimettersi alle decisioni del Comune senza rivolgersi al tribunale signorile. In questo senso esso assume finalità prettamente politiche in modo, diremmo, abusivo. Del Comune non fanno necessariamente parte tutti gli abitanti della città, essendo l’adesione all’associazione libera: ad ogni modo risultano generalmente esclusi nobili ed ecclesiastici.

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Col tempo il Comune s’è fatto portavoce di istanze autonomistiche e di autogoverno da parte della comunità cittadine contro i signori e, talora, contro lo stesso re: ciò ha portato all’acquisizione di Carte di libertà concesse da re e signori. In qualche caso tali Carte sono state concesse autonomamente da parte di re e signori, più spesso sono state il risultato di lunghi scontri: esse sono perciò assai varie nel loro contenuto e talora prevedono la presenza, fra gli amministratori, di magistrati nominati dal signore affiancati da rappresentanti degli abitanti, a volte concedono agli abitanti il pieno autogoverno, a volte fissano soltanto in modo ben preciso e rigoroso i doveri rispetto al signore e le esenzioni per gli abitanti, etc.I re, rispetto ai Comuni, hanno avuto un atteggiamento ambivalente: laddove il Comune sorgeva entro il territorio di una signoria, il re ha cercato di favorirne l’autonomia, laddove sorgeva entro il suolo demaniale, ossia entro i territori direttamente da lui amministrati, ha cercato di limitarla. Ciò si iscriveva nella logica regale dell’accentramento del potere. La condizione giuridica di “borghese” talora denota la condizione di associato alla Commune, talora la condizione di abitante della città. I Borghesi hanno diritti particolari (maggiori tutele rispetto al potere signorile) e si diventa borghese o per nascita da genitori borghesi o per acquisizione attraverso la dimora in città, un pagamento in denaro e il giuramento di fedeltà alla Carta della città stessa. La condizione di borghese è generalmente associata ad una città: perciò non si è borghesi in assoluto, ma sempre in riferimento ad una certa città. Ciò significa che i diritti del borghese non sono i medesimi ovunque, ma variano a seconda delle città e delle rispettive Carte. Il significato giuridico del termine “borghese” si rifà al suo significato sociologico: infatti i membri della Commune erano effettivamente dei borghesi in senso sociologico, cioè dei non nobili.Etimologicamente il termine “borghese” indica l’abitante del borgo. I borghi erano centri abitati deputati ad attività commerciali o manifatturiere che sorgevano lungo le vie di traffico principali o a ridosso delle vecchie città gallo-romane: in un tempo successivo (a partire dalla fine dell’XI secolo) i borghi vennero inglobati nelle città con l’edificazione di una seconda cinta muraria. La categoria del “borghese”, da un punto di vista sociologico, si costruisce in opposizione a quella del “nobile”: borghese è chi è dedito ad attività commerciali e produttive (commercianti ed artigiani), di contro al nobile il quale esercita il mestiere delle armi. Talora esistono appositi divieti che vietano al borghese di portare le armi: di qui l’espressione tutt’oggi utilizzata in gergo militare “essere in borghese”.

In ItaliaIn Italia il movimento comunale rivendica autonomie da Imperatori e signori e vede confluire nell’associazione comunale sia personaggi appartenenti ai nuovi ceti emergenti (ricchi mercanti e banchieri che, spesso, attraverso strategie matrimoniali, cercavano di acquisire il titolo nobiliare), sia la piccola nobiltà: ciò a differenza di quanto accadeva in Francia, laddove la Commune escludeva la nobiltà, peraltro assente dal contesto cittadino (i nobili vivevano nelle loro tenute di campagna). Premesso come la partecipazione politica fosse riservata ai pochi e non alla totalità degli abitanti la città, il potere esecutivo, entro le istituzioni comunali, fu attribuito inizialmente a magistrature collegiali elettive, i consoli, i quali venivano eletti dall’Arengo, l’assemblea dei cittadini con funzione legislativa. Coloro che partecipavano di queste magistrature erano provenienti dalla nobiltà e dalle ricche famiglie mercantili che avevano potuto darsi l’esteriorità ed i modi di vita dei nobili (carriera militare, rendita fondiarie, etc.): in questo senso, nel concetto di “magnati” o “grandi”, vanno inclusi tutti i ricchi e potenti, sia i vecchi, sia i nuovi. Era invece escluso dal potere politico il popolo: per “popolo” si intendono, appunto, quelli che non appartenevano alle élite dirigenti del Comune, essendo poi il popolo diviso in grasso (in Firenze i membri delle Arti maggiori, cioè: i lanaioli, i medici, i notai, i giudici, ma anche gli stessi mercanti e banchieri dalle cui fila si era staccata una minoranza che si era fatta grande”, etc. ) e minuto (in

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Firenze i membri delle Arti minori: fabbri, calzolai, etc.). Al popolo minuto si aggiungeva poi il popolo “magro” (talora collocato esso stesso entro il popolo minuto come la sua parte più umile), costituito dai lavoratori esclusi dalle corporazioni e che occupavano il gradino più basso della scala sociale (un esempio ne erano in Firenze i cosiddetti “ciompi”). Le famiglie dei grandi finirono per dar vita a lotte intestine fra di loro per il predominio e ciò determinò il passaggio dalla magistratura collegiale al governo podestarile. Il Podestà, in quanto individuo esterno alla comunità cittadina ed esperto di amministrazione, forniva garanzie di imparzialità e terzietà. Intanto, le forze popolari, estromesse dal potere politico cittadino, si organizzarono in società di popolo (un esempio ne sono le Arti o Mestieri) e cercarono di opporsi al potere magnatizio (ciò dal 1250, anno della morte di Federico II, che determinò ogni necessità di ricomporre le fratture interne ai Comuni per far fronte comune al pericolo esterno rappresentato dall’Imperatore). Per un certo periodo le istituzioni popolari ebbero il sopravvento sul potere magnatizio, creando un governo di popolo che si affiancava al governo legittimo cittadino, sino, talora, a sostituirlo: è la fase del Comune di popolo. Tuttavia, il governo di Popolo continuava comunque ad escludere dal potere politico il cosiddetto “popolo minuto” (i lavoratori delle arti, i garzoni, etc.), ossia una massa grandissima di popolazione, che, in città come Firenze, finì per ribellarsi dando vita ad un moto rivoluzionario (tumulto dei Ciompi del 1378). Dilaniato dallo lo scontro che, da una parte, opponeva magnati e popolo e, dall’altra, popolo grasso e popolo minuto, il Comune di popolo finì per sottomettersi all’autorità di un signore (generalmente proveniente da una delle famiglie magnatizie della città), pur di avere da questi la garanzia della pace e della sicurezza: è il fenomeno che portò, fra il XIII e il XIV secolo alla nascita delle Signorie. Le Signorie cittadine si posero a capo di veri e propri Stati regionali e cercarono di ottenere una legittimazione dall’alto del proprio potere, alternativamente o dal Papa o dall’Imperatore, tramutandosi così in Principati. Entro gli stati regionali si riproponevano le stesse dinamiche politiche che si verificavano, nel contempo, nei grandi stati europei (vedi la Francia), laddove il potere regio era impegnato in una lotta serrata contro il particolarismo (i signori locali). In taluni Comuni il passaggio alla Signoria fu evidente (vedi Milano: nel 1294 Matteo Visconti ottiene la nomina a “vicario imperiale” e nel 1395 Gian Galeazzo Visconti l’ereditarietà del titolo di Duca di Milano), in altri celato (Firenze rimase sempre formalmente una Repubblica, anche laddove, nei fatti, dal 1434 divenne la Signoria medicea). A Venezia non si giunse ad una Signoria ma ad un governo oligarchico (serrata del Maggior Consiglio del 1297), cioè un governo in cui la partecipazione al Maggior Consiglio, l’organo che eleggeva il Doge, era riservato a poche famiglie.

Differenza fra lo sviluppo dei Comuni italiani e di quelli francesiI Comuni italiani, rispetto a quelli francesi, hanno potuto espandersi sino ad inglobare gran parte del contado ed a raggiungere, in taluni casi, la configurazione di veri e propri stati regionali, per due fattori peculiari: 1) l’assenza del potere imperiale, cui, formalmente, l’Italia del nord era sottoposta; 2) la grandezza, in termini di popolazione e di ricchezza, delle città italiane, difficilmente arginabile da parte del potere signorile. Circa la 1) è da notarsi come questa assenza fosse pressoché totale nei secoli XI e XII, laddove l’Impero fu impegnato in una fortissima lotta col Papato, viceversa il tentativo successivo di Federico I (una volta riaffermata la propria autorità sui Principi tedeschi) e poi di suo nipote Federico II fallì poiché agì entro un contesto di realtà comunale già matura e ben insediata sul territorio (del 1176 è la sconfitta di Federico I ad opera della Lega Lombarda e del 1250 è la morte di Federico II, che, di fatto, segnò la decisiva vittoria dei Comuni). In Francia, per contro, il potere regio era costantemente presente sul territorio e la realtà urbana era comunque costituita da centri medio-piccoli, perciò, facilmente il re di Francia poté avere la meglio sulle istanze autonomistiche dei Comuni francesi. Si noti come la condizione dell’abitante del contado (il contadino) fosse totalmente difforme e svantaggiata rispetto a quella del cittadino: il contadino non poteva, ad esempio, vendere il suo

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grado all’infuori che nella piazza del mercato cittadino, non poteva possedere telai, ma era obbligato a vendere in città la sua lana ricomprandone il prodotto finito, etc. Inoltre ai contadini era generalmente preclusa la possibilità di acquisire la cittadinanza.

Differenza fra i Comuni del nord e del sud ItaliaNel sud Italia la realtà comunale non ebbe modo di assumere le dimensioni territoriali e l’autonomia politica che ebbero i Comuni del nord per la stessa ragione per la quale questo non accadde in Francia, ossia per la presenza radicata sul territorio di una solida monarchia. Dapprima il sud (chiamato “Regno di Sicilia”) fu dominato dai Normanni e dagli Svevi (Federico II era il figlio di Enrico VI di Svevia e di Costanza d’Altavilla); dopo la morte di Federico II (1250) il Papato, tuttavia, per scongiurare il pericolo di un accerchiamento imperiale a sud e a nord, cercò di insediare nel Mezzogiorno una dinastia che non avesse interessi territoriali nella Penisola. Fu così che, dopo due scontri campali con Manfredi (1266), figlio di Federico II, e con Corradino (1268), nipote di Federico, gli Angioini, dinastia di origine francese, si insediarono al Sud. Una rivolta autonomista scoppiata in Sicilia contro il dominio Angioino portò, tuttavia, nel 1302, con la Pace di Caltabellotta e dopo la ventennale guerra del Vespro (1282-1302) all’insediamento in Sicilia (detta ora “Regno della Sicilia ulteriore”, per distinguerla dal “Regno di Sicilia citeriore”) della dinastia Aragonese, di origine spagnola e imparentata con quella Sveva spodestata. Nel 1442, da ultimo, gli Aragonesi, con Alfonso V il Magnanimo, unificarono nuovamente sotto il loro dominio l’intero Mezzogiorno. Tuttavia, alla sua morte, Alfonso dispose che la parte continentale del Regno di Sicilia (conosciuta in epoca moderna come “Regno di Napoli”) andasse al suo figlio illegittimo Ferrante, mentre la Sicilia (conosciuta in epoca moderna come “Regno di Sicilia”) fosse annessa ai possessi dell’Aragona. Molti secoli dopo, nel 1816, i due Regni saranno finalmente riunificati sotto la dinastia dei Borbone col nome di “Regno delle due Sicilie”.

DINAMICHE DELLA STORIA MEDIEVALE: SUNTO

L’Impero, rinato, oltre che come “romano”, come “sacro”, ossia cristiano, sorge ad opera di Carlo Magno nella notte di Natale dell’800. In ciò Carlo riallaccia la tradizionale alleanza dei Carolingi (già di suo padre Pipino e di suo nonno Carlo Martello), col vescovo di Roma, con tutto ciò che essa implica (difesa della Cristianità, etc.). Carlo Magno, affiancando all’utilizzo tradizionale dell’istituto vassallatico-beneficiario, le funzioni di Conti e Marchesi (funzioni amministrative), remunerate pressoché alla stessa maniera, pone le premesse per lo svincolarsi, nel tempo, dei Conti e dei Marchesi dal controllo dell’autorità imperiale trasformandosi così in poteri, di fatto, autonomi. Conti e Marchesi, così come i normali feudatari (cioè colo che hanno ricevuto un feudo non di dignità), tendono a rendere ereditaria la loro funzione. Questa ereditarietà viene sancita legalmente per i feudi maggiori e minori dai successori di Carlo, ma ciò non accade per la funzione di Conte e di Marchese, ritenute funzioni amministrative. Tuttavia, durante i secoli centrali del medioevo (IX, X), caratterizzati da una nuova ondata d’invasioni (Ungari, Saraceni e Normanni) e dall’assenza di un potere centrale forte (la dinastia carolingia s’è estinta, il territorio dell’Impero è stato frazionato, ed ovunque, sia in Francia, sia in area tedesca, sia in Italia, si combatte una guerra per la successione al trono), Conti e Marchesi rimangono le uniche autorità in loco, affiancate dai ricchi signori feudali che, di fatto, forniscono protezione alle plebi rurali in cambio di obbedienza. Con ciò sorgono nuovi poteri pubblici dal basso che non hanno affatto ricevuto un’investitura dall’alto (a differenza di Conti e Marchesi).

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Quando rinasce l’Impero (Ottone I, X secolo), questa volta unicamente come Sacro Romano Impero Germanico, ossia limitato all’area tedesca (e per un certo periodo, italiana), gli Imperatori devono far fronte ad una frammentazione di fatto del potere ed, entro questo nuovo contesto, tendono ad utilizzare l’istituto vassallatico-beneficiario in senso feudale, infeudando i signori dei territori sui quali, di fatto, già esercitavano il potere. Al contempo, tuttavia, per limitare il potere laico, gli Imperatori tendono ad attribuire poteri pubblici ad ecclesiastici (vescovi ed abati), rendendo costoro titolari di immunità: l’investitura ad un ecclesiastico del potere temporale ha l’effetto che, alla sua morte, essendo questi vincolato al celibato, il territorio sul quale l’ecclesiastico esercitava la funzione pubblica, torna nella piena disponibilità dell’Imperatore. La pratica di investire di un potere pubblico ecclesiastici ha l’effetto di determinare un clero corrotto e degenerato: infatti l’Imperatore cerca di condizionare l’elezione dei vescovi di modo che questi risultino a lui graditi e fedeli, ma senza considerare in alcun modo le loro doti spirituali. Dinnanzi alla corruzione dilagante del clero, viene operata, entro la Chiesa, una riorganizzazione dell’intera struttura ecclesiastica: il primo passo di questa riorganizzazione è la sottrazione dell’elezione del vescovo di Roma al controllo imperiale; il secondo è la nomina dei vescovi non più a livello locale, ma da parte dello stesso Papa (a partire dal XIV secolo). La riforma dell’elezione papale avvenne nel 1059, mentre era Papa Niccolò II, ma, nella sostanza, fu voluta e diretta dal futuro papa Gregorio VII. Gregorio VII, tuttavia, non fu soltanto animato da un profondo e sincero intento moralizzatore, ma a lui si deve la prima e compiuta affermazione della preminenza dell’autorità papale su quella imperiale (Dictatus papae del 1075). I motivi della contesa con l’Impero sono perciò duplici: la pretesa dell’Imperatore di controllare l’elezione dei vescovi e la pretesa del Papa di deporre l’Imperatore laddove questi si mostrasse indegno. La lotta delle investiture si concluse con un sostanziale compromesso, tuttavia non venne eliminata la fondamentale commistione fra potere spirituale e temporale: infatti vescovi ed abati continuarono ad esercitare poteri di natura pubblica oltre che spirituali. Invece, quanto alla pretesa del Papa di esercitare un controllo sul potere imperiale, questa fu sempre fortemente avversata dagli Imperatori e, poi, dai re. Si delineano nel tempo due processi paralleli: l’uno interno alla Chiesa e l’altro interno all’Impero. La Chiesa, dopo un forte accentramento sulla figura del vescovo di Roma operato soprattutto durante il pontificato di Gregorio VII (secolo XI), ma iniziato già nel VIII secolo, subisce una fondamentale contestazione del potere papale sia da parte dei fedeli, sia da parte di alcune porzioni della stessa gerarchia ecclesiastica, tanto che si può parlare di una sorta di richiesta di democratizzazione interna: questa richiesta culmina, nel corso del Quattrocento, nel trionfo della tesi conciliarista (preminenza del potere del concilio ecumenico su quello papale). Questa tesi era già stata sostenuta durante la contesa fra Bonifacio VIII e Filippo il Bello re di Francia, il quale aveva fatto deporre il Papa da un concilio di vescovi Francesi. Il potere imperiale, invece, subisce un’analoga contestazione da parte del potere regio (nascita delle Monarchie nazionali) e, in Italia, da parte dei Comuni, che, sorti a partire dall’XI secolo, assumono i connotati di veri e propri Stati regionali. Esso si ridurrà ad un titolo puramente formale e verrà esercitato, di fatto, soltanto sui territori di cui l’Imperatore è anche re.Se, dopo il Quattrocento, l’autorità papale, entro la Chiesa, sarà decisamente riaffermata (infallibilità papale), l’ambizione da parte del Papa ad esercitare un controllo sul potere temporale dei re (che ormai hanno soppiantato l’autorità imperiale) incontrerà una resistenza infallibile da parte delle neonate Monarchie nazionali. Crolla così ogni pretesa universalistica, ossia ogni disegno volto alla realizzazione di un potere sovranazionale, sia essa da parte dell’Imperatore o del Papa. Osservata nel suo complesso, perciò, la dinamica della storia medievale presenta un’iniziale disgregazione (476) a partire da una compagine statale sovranazionale quale l’Impero romano d’occidente, un successivo tentativo di ricomposizione unitaria da parte dei Carolingi (Sacro

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romano impero) e, da ultimo, una definitiva disgregazione in direzione della costituzione di monarchie su base nazionale. La costituzione ed il consolidamento delle Monarchie nazionali sarà un processo lungo che si gioca su più fronti: 1) sul fronte esterno, contro le pretese universalistiche di Papato e Impero (tramontate entrambe già nel Quattrocento); 2) sul fronte interno contro le pretese della nobiltà, ossia di ciò che sopravvive del vecchio sistema feudale (la lotta delle monarchie contro la nobiltà si protrarrà per gran parte dell’Età moderna ed almeno sino al Seicento). Lo scontro, interno alle Monarchie nazionali, fra sovrano e nobiltà, sarà al contempo un tentativo di accentramento del potere (politico e militare) e di unificazione della legislazione su base nazionale.

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PERCORSO II

EVOLUZIONE DELLE ISTITUZIONI ECCLESIASTICHE FRA BASSOMEDIOEVO E RIFORMA PROTESTANTE

LA CHIESA FRA L’XI E IL XIII secolo

Lo Scisma d’orienteDel 1054 è lo Scisma d’Oriente che separa la futura Chiesa ortodossa da quella Occidentale. Lo Scisma si consuma per varie ragioni, fra le quali: il matrimonio per i sacerdoti ammesso dalla cristianità orientale ma non da quella occidentale, il mancato riconoscimento da parte del patriarca di Bisanzio dell’autorità del vescovo di Roma, la condanna, da parte degli orientali, dell’utilizzo delle immagini sacre, consentito invece in occidente, etc.La Chiesa d’oriente ritiene, sostanzialmente, che quella occidentale abbia travisato l’insegnamento originario del Cristo ed alterato la dottrina, e presenta se stessa come la custode dell’autentico cristianesimo delle origini quale stabilito nei primi concili della cristianità (questo è il motivo per il quale si dirà “ortodossa”, cioè custode dell’ortodossia, vale a dire della corretta interpretazione del cristianesimo). Fra le altre cose, la Chiesa d’oriente rifiuterà per sé ogni potere che non sia quello spirituale, laddove la Chiesa d’occidente, invece, attraverso il suo capo (cioè il vescovo di Roma), pretenderà d’esercitare un controllo sullo stesso potere imperiale. In Oriente non è la Chiesa ad esercitare un controllo sull’Impero, ma, semmai è il contrario, essendo l’Imperatore anche il capo della Chiesa bizantina.

Nuove forme di religiositàEntro la Chiesa d’occidente si diffusero a partire dall’XI secolo nuove forme di religiosità in opposizione al dilagante sfarzo ed opulenza dell’alto clero (generati anche dalla commistione fra interessi temporali e spirituali attraverso la creazione della figura del vescovo-conte): tali nuove forme di religiosità inizialmente furono incentivate dai Papi, ma, in seguito, vennero fortemente avversate. Distinguiamo una prima fase, che fa capo all’epoca di Gregorio VII, in cui il movimento riformatore è tollerato, se non incentivato, ed una seconda, inaugurata dal pontificato di Innocenzo III, in cui la Chiesa assume un atteggiamento più circospetto e repressivo. Quanto alla prima fase, si noti che la riforma stessa dell’elezione papale del 1059 costituì sia un tentativo di moralizzazione della Chiesa, sia un primo decisivo passo in vista dell’accentramento del potere ecclesiastico nella figura del Papa. Lo stesso concilio che decretò la riforma dell’elezione papale condannò la simonia ed il concubinato (o nicolaismo) e dichiarò nulli i sacramenti ricevuti da preti concubinari o simoniaci, venendo così incontro ad una delle principali richieste della Pataria. Per simonia (dalla figura di Simon Mago, in Atti degli apostoli, VIII, 9-24, il quale voleva comprare per denaro dagli Apostoli la capacità di far discendere sugli uomini lo Spirito Santo1) s’intende l’acquisizione per denaro delle cariche ecclesiastiche, per concubinato la pratica d’avere donne da parte dei preti, votati invece per giuramento alla castità. Il movimento riformatore, essenzialmente, si richiama alla purezza e semplicità della vita apostolica (Cristianesimo delle origini) e richiede l’osservanza talora letterale del dettato evangelico. Una delle esperienze di rinnovamento ecclesiastico favorite da

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1 Cito il passo delle Scritture in questione: Simone, quando vide che gli Apostoli conferivano lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, offrì del denaro dicendo: “Date anche a me questo potere, affinché, qualsiasi persona, cui io imporrò le mani, riceva lo Spirito Santo”. Ma Pietro gli rispose: “Va’ in perdizione tu e il tuo denaro, perché hai creduto che il dono di Dio si potesse acquistare col denaro!”.

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Roma fu l’istituzione dell’ordine cluniacense (da Cluny, località della Borgogna). I monasteri cluniacensi (sorti a partire dall’inizio del secolo X) avevano l’eccezionale caratteristica di non dipendere dall’autorità del vescovo nella cui dicesi sorgeva l’abbazia, ma di rendere conto direttamente al Papa: questo privilegio aveva la finalità di sottrarre l’ordine al controllo di un’autorità che non fosse religiosa (i vescovi spesso erano nominati sotto pressione imperiale). In una seconda fase, che inizia con l’epoca di Innocenzo III (Duecento) la Chiesa, s’è detto, si fa più intollerante: essa perfeziona in questo periodo storico i suoi strumenti repressivi nei confronti degli eretici con l’applicazione della tortura come strumento d’indagine e l’estensione della pena sino al rogo - le pene fisiche, tuttavia, potevano essere comminate solo dall’autorità pubblica (il “braccio secolare”), limitandosi invece l’autorità del tribunale ecclesiastico alla somministrazione delle sole pene canoniche (preghiere e digiuni): ciò significa che, dopo che il tribunale ecclesiastico aveva accertato la colpevolezza, era il tribunale laico a stabilire la punizione fisica (che poteva estendersi sino alla morte). Inoltre, l’onere della prova, nel processo romano spettante all’accusa, viene fatto ricadere sulla difesa ed è creato un tribunale speciale con giurisdizione su tutto il mondo cristiano per giudicare dell’eresia: l’Inquisizione pontificia (1231).Condannati come eretici, verranno perseguitati i Catari ed i Valdesi (XI-XIII secolo).I Catari (nome greco che significa “puri”), la cui prima traccia documentaria risale al 1140, in Renania, echeggiando tesi manichee, ritengono che, a lato del principio del bene (Dio), creatore delle cose spirituali, esista un principio del male (Satana), creatore delle cose sensibili. L’uomo può liberarsi dal male soltanto annullando la sua componente corporale (astinenza sessuale anche entro il matrimonio, da certi cibi, etc.), sino a giungere al suicidio collettivo rituale per inanizione (endura). I Catari, in quanto insediati prevalentemente nella regione della Linguadoca e nella città di Albi, vennero anche chiamati Albigesi. I Valdesi (dal nome del mercante Valdo, originario della città di Lione, che, circa nel 1170, dopo essersi fatto tradurre la Bibbia in Francese, la predicò al popolo) rifiutano la gerarchia ecclesiastica, condannano l’opulenza di Roma, professando il ritorno alla povertà evangelica, ed affermano la possibilità, per il singolo fedele, di leggere e professare il Vangelo: questa tesi anticipa quella protestante del “sacerdozio universale”.Contro i Catari Papa Innocenzo III bandirà una crociata nel 1208: il re di Francia, in ossequio al dettato papale, distruggerà la città di Alba (centro del movimento cataro), massacrerà i Catari e conquisterà la regione della Linguadoca. I Valdesi, per quanto dichiarati eretici (Sinodo di Verona, 1184), non saranno oggetto di una vera e propria crociata, ma verranno a più riprese perseguitati. Un altro movimento dichiarato ereticale è quello degli Apostolici. Secondo il suo stesso nome, questo movimento propugna il recupero della vita apostolica (vita di povertà, assenza di fissa dimora, etc.) e, addirittura, si spinge a vagheggiare forme di vita comunitaria in cui non esiste proprietà privata, né gerarchia ecclesiastica. Il principale esponente del movimento fu Fra’ Dolcino da Novara. Gli Apostolici, oggetto di crociata nel 1307, sono assediati sulle montagne della Valsesia, in Piemonte, e massacrati dopo un lungo assedio. Per quanto, a partire dal Duecento, la Chiesa si sia fatta più rigida rispetto a tutti quei gruppi di fedeli che ne contestavano l’autorità e il ruolo di guida della Cristianità, essa cercherà di non perdere il contatto con le masse promuovendo la costituzione degli Ordini mendicanti (Francescani e Domenicani, rispettivamente fondati da Francesco d’Assisi (1182-1226) e Domenico di Guzmàn (1170-1221), cioè di monaci non più dediti ad una vita cenobitica, ma attivi con il loro esempio nel contesto cittadino e delle campagne.

Le crociatePremessa

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Il bacino del Mediterraneo, a partire dalla predicazione di Maometto (571 d. C. - 632 d. C.), e poi coi primi 4 califfi e la dinastia Ommayade, subisce la progressiva espansione araba, che nel 711 varca lo stretto di Gibilterra per giungere a conquistare la pressoché totalità della Penisola iberica (chiamata Andalusia dagli Arabi e strappata ai Visigoti) e viene arrestata a Poitiers nel 732 dai Franchi di Carlo Martello (in realtà costoro arrestano una razzia diretta a Tours che, solo potenzialmente, poteva tramutarsi in conquista territoriale). L’espansione islamica si rivolge nello stesso arco di tempo anche verso oriente spingendosi sino alle soglie dell’India e della Cina (Persia). La dinastia Ommayade, che pose la propria capitale a Damasco (Siria), fu, a partire dal 750, sostituita da quella Abbasside, che trasferì la capitale a Baghdad, città da loro fondata. All’eccidio degli Ommayadi operato dagli Abbassidi sopravvisse un solo esponente della prima dinastia, che si rifugiò in Spagna (753) dove diede origine all’emirato autonomo di Andalusia, con capitale Cordova. Nel IX secolo (l’invasione è dell‘827) gli Arabi conquistarono anche la Sicilia bizantina, trasferendo la capitale da Siracusa (capitale bizantina) a Palermo. Sul finire dell’XI secolo riprende l’offensiva cristiana per strappare la Spagna e la Sicilia (lo sbarco Normanno in Sicilia è del 1061) agli infedeli. Nell’XI secolo la dinastia Abbasside deve inoltre fronteggiare ad oriente l’aggressività dei Turchi Selgiuchidi, suoi ex mercenari, che conquisteranno Baghdad ed i luoghi santi della Cristianità, arrivando a minacciare l’Impero bizantino e ponendo di fatto sotto tutela lo stesso Impero abbasside. I Turchi, a differenza degli Arabi, si mostreranno profondamente intolleranti coi Cristiani ed impediranno ai pellegrini l’accesso ai luoghi santi. Ai Turchi Selgiuchidi, nel 1299, succederanno i Turchi Ottomani, che daranno vita ad un Impero destinato ad una vita lunghissima: sarà smembrato e ridotto al territorio dell’odierna Turchia solo al termine della Prima guerra mondiale, da cui uscì sconfitto. Nel 1453 il sultano Maometto II guiderà vittoriosamente l’assedio di Costantinopoli, decretando la fine dell’Impero bizantino. Costantinopoli sarà ribattezzata Istanbul.

Dinnanzi alla conquista di Gerusalemme e dell’Anatolia bizantina da parte dei Turchi Selgiuchidi (1071), il Papa Urbano II, su sollecitazione dell'imperatore bizantino che temeva un'ulteriore avanzata musulmana, indisse la prima crociata (1095 a Clermont), chiamando i Cristiani a difesa dei luoghi santi della cristianità. A coloro che avessero risposto all'appello era garantita l'indulgenza plenaria. Nel 1099 Gerusalemme è nuovamente riconsegnata alla cristianità. Di lì a poco Gerusalemme sarà però riconquistata dai Turchi e non basteranno sette crociate per assicurare definitivamente questi luoghi alla cristianità. Il termine "crociata" venne per la prima volta impiegato nel 1700, riferendosi alla croce che i soldati cristiani portavano cucita sulle vesti (nel Medioevo costoro erano spesso indicati come cruce signati). Il significato tecnico e specifico del termine "crociata" è quello illustrato di guerra volta a recuperare i Luoghi Santi, tuttavia talora esso è impiegato in senso più esteso (crociata contro gli Albigesi, etc.) o metaforico (crociata contro il fumo, etc.).I crociata: 1096-1099II crociata: 1147-1149III crociata: 1189-1192IV crociata: 1202-1204V crociata: 1217-1221VI crociata: 1228-1229VII crociata: 1248-1254VIII crociata: 1270Circa il numero delle Crociate, questo varia a seconda degli autori poiché viene a dipendere da quali spedizioni vengono ritenute "Crociate": infatti taluni autori non ritengono tali le Crociate non

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approvate o non indette dalla Chiesa. Non furono indette dalla Chiesa, ad esempio, la Crociata dei pastori, quella dei fanciulli (1212) o quella dei pezzenti, che precedette la Prima crociata ufficiale. Furono invece sconfessate dalla Chiesa, dopo che essa stessa le aveva sollecitate, la Quarta e la Sesta. Tuttavia, per lo più, il numero è fissato in otto. Nel novero delle otto crociate sono escluse le crociate non medievali, cioè d'età moderna. La motivazione delle Crociate, s'è detto, consiste nella riconquista alla cristianità della Terra Santa, e ciò per lo più è vero per le crociate medievali indette ufficialmente dalla Chiesa. Tuttavia talora le spedizioni deviavano rispetto a questo intento iniziale. Dopo il successo della Prima crociata, che non solo riconquistò Gerusalemme, ma portò all'instaurazione di Regni Latini sui territori sottratti ai Turchi (e quindi non restituiti ai Bizantini), la Seconda crociata, ad esempio, fu motivata ufficialmente con la riconquista (fallita) di Edessa, città sottratta ai musulmani e su cui era stato impiantato un regno latino. Le altre, tuttavia, mantennero la propria motivazione di riconquista della Terra Santa. Infatti la Terza (pur'essa fallita) fu finalizzata alla riconquista di Gerusalemme, occupata dal Saladino, grande condottiero turco musulmano. Ad essa parteciparono Federico Barbarossa, che vi trovò la morte, Riccardo cuor di Leone re d'Inghilterra e Filippo II Augusto re di Francia. La quarta, indetta da Innocenzo III, si proponeva di approfittare della morte del Saladino per la riconquista di Gerusalemme. Tuttavia, per motivi accidentali ed indipendenti dalla volontà papale, i crociati conquistarono l'Impero Romano d'Oriente, instaurandovi un Impero latino che avrà breve durata e dimenticandosi totalmente della riconquista di Gerusalemme, che rimase in mano agli infedeli, tanto che Innocenzo III sconfesserà quella crociata e ne indirà un'altra. Dopo il fallimento della Quinta crociata, fu Federico II che, per via diplomatica e senza colpo ferire (sesta crociata) ottenne la cessione alla cristianità della città di Gerusalemme e di altri luoghi Santi della Cristianità. Questa Crociata non fu riconosciuta dalla Chiesa, poichè Federico II avrebbe mercanteggiato con gli infedeli. Nel 1244 Gerusalemme fu nuovamente riconquistata dagli infedeli e ciò portò alla Settima crociata, guidata dal re di Francia Luigi IX il Santo, la quale, tuttavia, fallì il suo obiettivo. Anche nell'Ottava i Crociati, guidati dallo stesso Luigi IX, furono sconfitti. Da quanto detto emerge che le Crociate non furono finalizzate, come talora si sostiene, alla conversione forzosa degli infedeli musulmani, bensì alla riconquista dei Luoghi Santi: in questo senso non possono essere classificate come una "guerra di religione". Ciò non è tuttavia vero per la cosiddetta "Crociata albigese", il cui fine espresso era espirare l'eresia catara: ai Catari era proposta l'alternativa conversione o morte.

INDULGENZELa dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa cattolica) ammette che, a fronte di pentimento e confessione, la Chiesa stessa (o, meglio, la sua somma autorità, o chi da esso delegato) può esonerare a sua discrezione dalle pene temporali che costituiscono la giusta punizione per il peccato: tale abbuono di pena viene chiamato “indulgenza” ed è a sua volta distinto in “plenaria” se elimina tutte le conseguenze del peccato o “parziale” se unicamente le ridimensiona. Le conseguenze del peccato sono infatti di due tipologie: la pena eterna, ossia la dannazione, che segue a peccati molto gravi (detti “mortali”) in assenza di pentimento e confessione, e le pene temporali che seguono ai peccati lievi o veniali, o anche a peccati molto gravi o mortali (la violazione dei dieci comandamenti) ma in presenza di pentimento e confessione. In buona sostanza, mentre un peccato veniale porta con sé come conseguenza una pena temporale, assolta la quale, il peccatore ha accesso al Paradiso anche in assenza di confessione, nel caso del peccato mortale la confessione è condizione imprescindibile per la salvezza (se il peccatore, ad esempio, muore senza aver confessato il peccato mortale, è destinato inevitabilmente all’Inferno). Le pene temporali (ossia per tempo determinato), a partire dall’introduzione nella dottrina del Purgatorio (circa dalla seconda metà dell’XII secolo, benché la sua formalizzazione risalga al Duecento), possono consistere nella

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permanenza in Purgatorio per un certo numero di giorni come espiazione del peccato. E’ da notarsi come, prima dell’introduzione del Purgatorio, le pene temporali non potessero affatto consistere in una punizione dopo la morte, ma in un’espiazione da consumare nell’arco della vita: tale espiazione in parte poteva provenire direttamente da Dio (i mali che ci affliggono nel corso della vita), in parte erano stabilite dalla Chiesa (le cosiddette “punizioni canoniche”): ad esempi, il penitente vestiva di un saio, faceva penosi digiuni, indossava il cilicio, doveva fare pellegrinaggi nei luoghi santi, etc.In occasione delle crociate fu concessa dal Papa l’indulgenza plenaria a coloro che vi avessero partecipato. In seguito, tuttavia, si diffuse la pratica di concedere, dietro pagamento in denaro, indulgenze parziali o plenarie. Questa pratica rese l’espiazione della colpa un oggetto di lucro, tanto che l’indulgenza poteva essere acquisita non soltanto per se stessi, ma anche per i proprio defunti di modo da limitarne la permanenza in Purgatorio.Valga inoltre qui la pena di ricordare il generale elemento di Dottrina cattolica per cui nessuno può accedere alla salvezza se non previo il battesimo somministrato dalla Chiesa. Se, infatti, è vero che il battesimo da solo non è sufficiente alla salvezza (occorrono anche le opere), ne è tuttavia condizione imprescindibile. Infatti è il battesimo che libera l’uomo dalla colpa ereditata dal Progenitore (Adamo), ed è questo il motivo per cui i giusti nati prima della venuta di Cristo, così come i bambini morti prima d’essere battezzati, si riteneva non potessero accedere al Paradiso ma fossero destinati al cosiddetto “Limbo” (diviso in “Limbo dei bambini” e “Limbo dei giusti”), che Dante stesso, nella Divina commedia collocava nell’Inferno. E’ da rimarcare, ad ogni modo, come l’esistenza del Limbo, per quanto implicitamente ammessa per molti secoli, non è mai entrata nella dottrina ufficiale della Chiesa (non è un dogma). La Chiesa diviene perciò necessaria alla salvezza in duplice senso: sia in quanto somministratrice del battesimo, sia in quanto somministratrice dell’assoluzione a seguito di confessione della colpa.

PAPATO FRA XIV E XV SECOLOClemente V, eletto papa a Lione nel 1305, francese, trasferì nel 1309 la sede papale ad Avignone. Gregorio XI pone fine alla cattività avignonese riportando nel 1377 la sede papale a Roma. Alla sua morte si riunisce un nuovo collegio cardinalizio nel 1378, a Roma, che elegge papa Urbano VI, un italiano.I cardinali francesi, preponderanti nel conclave (in quanto di nomina papale), ma costretti ad eleggere un papa italiano per i tumulti della piazza, poco dopo, a Fondi, eleggono un altro papa, Clemente VII, francese: vi sono ora due papi. I vari regni europei si dividono fra fedeli al pontefice romano e fedeli al pontefice avignonese (la Francia è col Papa avignonese, l’Inghilterra con quello romano): è il Grande Scisma, che durerà dal 1378 al 1418.Nel 1409 i cardinali delle due parti tentarono di risolvere la divisione con l’elezione di un nuovo Papa da parte di un conclave congiunto tenuto a Pisa. Il nuovo papa eletto non fu riconosciuto dagli altri due in quanto costoro non riconoscevano affatto l’autorità del collegio cardinalizio, ma unicamente quella papale, ossia di loro stessi: l’effetto fu che, anziché due papi, ora ve ne erano ben tre.Il Concilio di Costanza (1414-18), voluto dall’Imperatore Sigismondo, riuscì tuttavia a far abdicare i tre papi e ad eleggere al loro posto Martino V della famiglia dei Colonna (1417-31). Questa fu una decisiva vittoria del Conciliarismo, ossia della concezione per la quale entro la Chiesa, ha maggiore autorità il Concilio (il consesso di tutti i vescovi) rispetto al papa stesso. La tesi contraria e tradizionale sostiene che il Papa, traendo la propria autorità direttamente da Dio, è superiore ad ogni altra autorità terrena: la sua stessa nomina avviene soltanto all’apparenza delle cose tramite elezione da parte della maggioranza dei cardinali: in verità è lo stesso Spirito Santo ad intervenire nell’elezione.

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Importante è segnalare la predicazione di John Wycliff (1330-1384) in Inghilterra (i suoi seguaci furono detti “lollardi”), il quale si fece promotore di un ritorno alla povertà evangelica contro i fasti della Chiesa dell’epoca, sollecitando questa a privarsi dei suoi beni materiali. Inoltre tradusse la Bibbia in inglese e sollecitò tramite i suoi seguaci le masse, specie contadine, all’esame diretto delle Sacre Scritture.

RIFORMA PROTESTANTE

La Chiesa, fra Quattro e Cinquecento, era afflitta da mali del tutto evidenti e che la allontanavano, nel concetto dei fedeli, dalla purezza e povertà originarie (in questo si contrapponeva la Chiesa attuale a quella delle origini). I mali erano lo sfarzo e le pratiche diffuse del concubinato (o nicolaismo) degli ecclesiastici, e della simonia (vendita di cariche ecclesiastiche con relativi benefici), nonché le figure imbarazzanti di due Papi corrotti e nepotisti quali Alessandro VI e Giulio II. Particolare oggetto di critica era la vendita delle indulgenze: l’acquisto, dietro pagamento, dell’indulgenza, esonerava il fedele dalle pene canoniche (digiuni e preghiere), le quali rappresentavano l’espiazione ultima del peccato (dopo confessione ed assoluzione somministrata dal sacerdote). Il fedele poteva acquistare l’indulgenza per sé o per i propri defunti morti e collocati in Purgatorio ad espiare i propri peccati (l’esistenza del Purgatorio era stata formalizzata solennemente dal Papa, contro gli Ortodossi che la negavano, nel 1254). Per quanto non direttamente ammessa dalla dottrina, la Chiesa non ostacolò il diffondersi della credenza popolare per la quale l’indulgenza poteva rimettere non solo le pene canoniche, ma anche le stesse pene somministrate da Dio ai peccatori nel Purgatorio. Nel 1514 il ventiquattrenne Alberto di Hohenzollern (o di Brandeburgo), già arcivescovo di Magdeburgo e vescovo di Halberstrad, volle acquisire dal Papa Leone X, figlio del Magnifico e succeduto a Giulio II, il titolo di vescovo di Magonza, il più importante vescovado tedesco in ragione del titolo di Elettore imperiale ad esso associato. Per procurarsi la cifra in denaro richiesta dal Papa, egli contrasse un ingente debito con il banchiere di Augusta Jacob Fugger, che si impegnò a saldare con gli introiti di un’indulgenza plenaria della durata di otto anni a partire dal 1515, concordata dal Papa (vale a dire la cui elargizione gli era stata concessa da questi) su tutto il suolo tedesco ed i cui proventi sarebbero andati per la metà a restituire il prestito contratto coi Fugger e per la metà al Papa per ultimare i lavori di costruzione della Basilica di San Pietro, a Roma, già iniziati sotto Giulio II. Accadde così che circolassero su suolo tedesco banditori dell’indulgenza che spesso intonavano il detto “non appena la moneta cade nella cassetta, vola in cielo l’anima del defunto”, per quanto, formalmente, al fine di non incorrere nell’accusa di simonia, la Chiesa si guardasse bene, ufficialmente, dal richiede espressamente un contributo in denaro obbligatorio, quanto, invece, un’offerta volontaria.Martin Lutero (1483-1546), monaco agostiniano tedesco, obietta (celebre è l’affissione delle 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, nell’ottobre del 1517, oggi ritenuta un mito creato dagli storici piuttosto che un evento reale) che nessuno, nemmeno il Papa, può modificare la volontà divina: chi si salva, si salva per volontà divina, e chi è dannato, lo è per lo stesso motivo: nessuno può comprare la salvezza perchè nessuno può venderla. L’unica cosa che può salvare l’uomo è la fede nel Cristo. La fede stessa è un dono di Dio. Non si ci salva per le opere, ma per la fede. Da un punto di vista dogmatico, la principale differenza fra la dottrina cattolica e quella protestante (echeggiante in questo senso tesi già Paoline: si veda la prima Lettera ai Romani) è che, per i protestanti, l’uomo, con le sue sole forze, non è in grado di compiere il bene, essendosi il peccato di Adamo trasmesso irrimediabilmente di padre in figlio (traducianesimo) inclinando naturalmente l’uomo al peccato, sicché egli non è affatto libero di peccare o non peccare, ma non

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può non peccare: solo la fede in Dio ed in Gesù Cristo suo figlio consente all’uomo, per grazia ricevuta, di sottrarsi al peccato. Per il dogma cattolico, ribadito in seguito dal Concilio di Trento, l’uomo, dopo il battesimo, che lo ha emendato dal peccato di Adamo, è libero di peccare o non peccare: sta perciò unicamente a lui, con le sue buone opere (fra cui rientrano i digiuni, le penitenze, le preghiere, i pellegrinaggi, l’assidua partecipazione alle funzioni religiose, etc.) guadagnarsi o meno la salvezza. Circa la questione del libero arbitrio, forte fu la polemica fra Erasmo da Rotterdam (che scrisse il Del libero arbitrio) e Lutero (che gli rispose polemicamente con il Del servo arbitrio). La tesi è che per Erasmo la volontà umana, per quanto ferita ed indebolita dopo il peccato originale, può ancora compiere il bene (ed a ciò è dovuta la salvezza), quella di Lutero è che, senza grazia, non può che compiere il male e che la salvezza sta unicamente in rapporto con la fede. Ora, è evidente come le due posizioni siano inconciliabili. Erasmo, tuttavia, era stato, prima di Lutero, un profondo riformatore dalla Chiesa, chiedendo il ritorno alla Chiesa primitiva, traducendo in latino sull’originale greco il Nuovo Testamento, ritenendo necessario espungere dalla Dottrina tutto ciò che non era scritturale, etc. Egli, tuttavia, credeva fortemente che la salvezza stesse nelle buone opere, e se non giungeva a criticare i sacramenti canonici, certamente aveva una posizione di opposizione rispetto alla vendita delle indulgenze. La vara ragione del contendere fra i due, riguardava perciò essenzialmente il ruolo delle buone azioni nella salvezza umana. Per Lutero nella salvezza opera il rapporto diretto con Dio attraverso le Sacre Scritture, che devono essere nella disponibilità del libero esame da parte del singolo credente – e non attraverso la mediazione della Chiesa e dei suoi ufficiali. Il libero esame porta a concludere che molte delle pratiche attualmente in uso entro la Chiesa non hanno un corrispettivo nelle Scritture (ad esempio, Cristo né ha mai confessato, né rimesso peccati, né ha mai sposato alcuno o ordinato alcuno a sacerdote, etc.). Dei sette sacramenti (battesimo, penitenza, matrimonio, cresima, ordinazione sacerdotale ed estrema unzione), Lutero ne mantiene due (in quanto aventi fondamento nelle Scritture): battesimo ed eucaristia. Essi tuttavia non danno efficacia alla Grazia (non è grazie ad essi che si ci salva, nè senza di essi si è necessariamente dannati), ma ne sono solo il segno esteriore: non è, ad esempio, il battesimo a rimettere il peccato del Primo uomo, ma la fede. La stessa autorità del Papa è sottoposta all’osservanza delle Scritture: in tal senso l’autorità papale non è illimitata (contro l’infallibilità del Papa).

Nota teologica sul luteranesimo. Precisiamo qui di seguito ulteriormente i tratti salienti da un punto di vista teologico del Luteranesimo. Per Lutero la salvezza di consegue per sola fede (si parla, citando la Lettera ai Romani di Paolo di “giustificazione per sola fede” - cito, ad esempio, Lettera ai Romani, 5,1: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”), vale a dire che non sono le opere a salvare, bensì la fede (per fede si intende la fede in Cristo e nei suoi meriti di redentore dell’umanità dal Peccato originale). Le opere di bene non vanno compiute per meritare la salvezza ma come riconoscenza verso Dio per la salvezza da costui già concessa. Ora, siccome la fede in Cristo e nei suoi meriti salva e siccome la fede è dono, la salvezza non è mai meritata, ma è, appunto, concessa gratuitamente da Dio. Coloro che sono destinati alla salvezza sono predestinati. La conseguenza di questo approccio è che, se le opere non sono più necessarie alla salvezza, neppure è più necessario l’ausilio della Chiesa. Il dogma della Chiesa cattolica, viceversa, quale definito dal Concilio di Trento e divulgato attraverso il Catechismo della Chiesa cattolica, ritiene che la salvezza abbia come condizione necessaria ma non sufficiente la grazia divina: la restante condizione è la cooperazione attiva dell’uomo attraverso le opere di bene. Ora, l’uomo nasce peccatore e, nonostante il battesimo, che lo emenda della colpa derivante dal peccato originale del Primo uomo, si mantiene febbricitante ed incerto sulla via del bene, pertanto, le sue eventuali manchevolezze abbisognano costantemente

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della riconciliazione con Dio operata dai ministri della Chiesa attraverso la confessione e la remissione dei peccati. Senza Chiesa ed al di fuori della Chiesa non è perciò possibile salvezza alcuna. Lutero, di conto, ritiene che la salvezza si ottenga anche al di fuori della Chiesa (per fede) e che, anzi, il preteso potere della Chiesa di confessare, rimettere i peccati e condonare le pene temporali tramite l’indulgenza, non abbiano alcun fondamento scritturale, ma siano un’invenzione ecclesiastica per fini essenzialmente mondani e di lucro. Nota sull’uomo Lutero. E’ risaputo come Lutero si recasse nel 1510 in visita a Roma, più che come pellegrino per disbrigare alcune faccende burocratiche dell’Ordine cui apparteneva. E’ perciò indubbio come le degenerazioni del Clero romano gli fossero ben note. Tuttavia non tutti gli storici sono concordi nel ritenere che il Luteranesimo sia sorto come opposizione al malcostume ecclesiastico (cosa ben evidente se si guarda alla successiva pubblica critica della vendita delle indulgenze). La nota tesi di Lucien Febvre è che Lutero sia giunto al Luteranesimo soprattutto per un dramma personale: la consapevolezza di non riuscire a non peccare, il sentirsi intimamente, nonostante i propri costanti sforzi di mortificazione ed emendamento (digiuni, etc.), un peccatore. Per riuscire a non peccare, ovviamente, si intende non una condizione saltuaria di non peccato, ma la costanza del bene. Il peccatore Lutero vince il suo dramma nel momento in cui scopre nella Lettera di Paolo ai Romani che non sono le opere a salvare, ma la fede. Quindi il Luteranesimo non sorgerebbe come momento di critica alla Chiesa di Roma ed al suo malcostume (di cui è parte integrante l’invenzione del Purgatorio per lucrare sulle indulgenze), perciò come fatto sociale, ma come fatto in origine personale.

Nel gennaio del 1518 le tesi di Lutero giunsero a conoscenza del Pontefice, nel giugno dello stesso anno la curia romana gli intimò di venire a giustificarsi e all’agosto risale il mandato d’arresto per Lutero. Tuttavia Lutero, in quanto cittadino della Sassonia, trovò la protezione del suo Principe, l’Elettore di Sassonia Federico il Savio. Inoltre erano in corso allora le pratiche per l’elezione del nuovo Imperatore, che avrebbe dovuto rendere esecutive le decisioni papali, così la questione venne momentaneamente accantonata. Eletto il nuovo Imperatore nel 1919, con una bolla del 1520 (la Exsurge Domine), Papa Leone X condannò le tesi di Lutero, ordinò che i suoi scritti fossero gettati al rogo e gli diede due mesi per ritrattare. Lutero in dicembre bruciò pubblicamente la bolla papale e, per tutta risposta il Papa lo scomunicò (6 gennaio 1521). Anche in questo caso non mancò l’appoggio dell’Elettore di Sassonia, Federico il Savio, il quale ottenne che Lutero esponesse le sue ragioni dinnanzi alla prima dieta imperiale convocata dal nuovo Imperatore Carlo V a Worms per gli inizi del 1521. Dinnanzi all’Imperatore Carlo V Lutero del pari non sconfessò le proprie opinioni. Carlo V, con l’appoggio di parte della Dieta sconfessò pubblicamente le tesi di Lutero e lo dichiarò fuorilegge con l’editto di Worms: chiunque, da questo momento, non soltanto avrebbe potuto trarlo in arresto, bensì anche ucciderlo. Tuttavia, essendo questi munito di un salvacondotto non ancora scaduto per recarsi alla Dieta, riuscì a fuggire e fu messo in salvo da emissari dell’Elettore di Sassonia nel castello di Wartburg. La figura di Lutero godeva di un alone mitico rispetto a gran parte della popolazione tedesca, specie il proletariato urbano e i contadini, i quali vedevano nell’affermazione della libertà individuale nell’interpretazione delle Scritture un’affermazione di principio della libertà contro ogni oppressione.Inoltre Lutero era ben visto da molti Principi tedeschi, i quali volevano liberarsi dell’autorità imperiale e di quella del Papa. In questo senso risvegliò nella comunità tedesca un forte sentimento patriottico.In generale, si può dire che molti furono i fattori che cooperarono per dare alla Riforma della Chiesa prospettata da Lutero esiti del tutto differenti da quelli che ebbero le proposte di Riforma

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mosse da altre parti (in genere culminate sul rogo). In ciò, gran parte ebbe il risorgere di un sopito orgoglio tedesco.

Lutero tradusse la Bibbia in tedesco e compose una grande mole di opere in volgare, ossia in una lingua accessibile a tutti. Egli utilizzò al meglio il mezzo della stampa, diffondendo il proprio pensiero in amplissimi strati della popolazione. Inoltre, al fine di rendere possibile un contatto diretto col Testo Sacro, incentivò, l’alfabetizzazione anche degli strati più poveri della popolazione – anche di quella femminile. Mai come allora, le questioni teologiche, prima dibattute nella ristretta cerchia dei chierici e degli ecclesiastici, divennero oggetto di dibattito fra la popolazione comune.

Fecero proprie le tesi luterane dapprima i cavalieri (1521-1523), cioè piccoli nobili sprovvisti di mezzi e costretti al soldo dei grandi signori o al banditismo: essi ritennero di abbattere il dominio feudale laico ed ecclesiastico (immenso era il patrimonio terriero della Chiesa su suolo tedesco) e di porsi alla guida di una Germania finalmente unitaria. La rivolta tuttavia, fu presto sedata dall’unione delle forze feudali.

Rivolta ben maggiore fu quella dei contadini (1524-1525), scoppiata contro il privilegio feudale e che culminò nei dodici punti: un piano programmatico di richieste politiche, fra cui l’elezione e la revocabilità dei parroci, il libero utilizzo delle terre comuni e dei ruscelli, la riduzione della decima a semplice strumento per il sostentamento dei parroci, etc. Lutero sconfessò le tesi dei contadini, affermando che la vera libertà è quella interiore, e che occorre sottomettersi alla volontà di Dio senza ricorrere alla forza.Si fece, invece, paladino delle tesi contadine un seguace di Lutero, Thomas Muntzer, ben presto allontanatosi dalle posizioni di quest’ultimo che restringevano la libertà all’ambito privato e di coscienza. Thomas Muntzer fu definito da Lutero “il diavolo in carne ed ossa nel suo furore più selvaggio”. Muntzer riteneva che il dettato del Vangelo reclama l’uguaglianza di tutti gli uomini e l’abolizione del privilegio. Catturato nel 1525, fu torturato e decapitato, mentre Lutero tuonava contro la ribellione contadina ed incitava i signori allo sterminio dei rivoltosi. Circa questo atteggiamento di Lutero, il giudizio degli storici si è diviso fra coloro che vi scorgevano un calcolo politico ben oculato (la Riforma per trionfare aveva bisogno dell’appoggio dei Principi, mentre un eventuale sostegno alle tesi dei contadini le avrebbe precluso quell’obiettivo), e quanti, invece, supponevano un sincero convincimento teologico (sarebbe dovere del cristiano piegare il capo dinnanzi all’ingiustizia, secondo il motto insegnato da Cristo “a chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra”). Anche ammessa questa seconda tesi interpretativa, diviene tuttavia difficile spiegare l’accanimento e l’astio che Lutero mostrò contro i contadini ribelli e che si condensa in frasi di questo tenore, rivolte ai Principi: “Che ragione ci sarebbe di mostrare ai contadini una clemenza tanto grande? Se ci sono innocenti in mezzo a loro, Dio saprà ben proteggerli e salvarli, come ha fatto con Loth e Geremia”, o ancora “ Per tutte queste ragioni, cari Signori, scatenatevi, salvateci, aiutateci, abbiate pietà di noi, sterminate, scannate, e colui che ha potere, agisca!”, o “Noi viviamo in tempi straordinari, un principe può meritare il cielo versando sangue molto più facilmente che altri non lo meriti pregando!”.

Le rivolte, richiamandosi al Luteranesimo, aumentarono la diffidenza di parte dei principi verso i Luterani. La Dieta di Spira, del 1529, vide l’opposizione di parte dei principi e delle città (sei principi e quattordici città) al tentativo dell’Imperatore di rendere efficace su tutto il suolo germanico l’Editto di Worms del 1521, che condannava il Luteranesimo: in quanto essi “protestarono” contro questo intendimento, furono chiamati Protestanti. Nel 1530 i Protestanti

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definirono la propria posizione nella Confessione augustana e nel 1531 si strinsero in un’alleanza militare: la Lega di Smalcalda.Il Germania si creò perciò un’opposizione fra Imperatore e principi cattolici da una parte e principi luterani dall’altra: protestanti erano i due terzi del suolo tedesco (esclusa la Baviera e le regioni occidentali). I Principi Protestanti adottarono la celebrazione della messa in tedesco, abolirono il clero cattolico e procedettero alla requisizione dei beni ecclesiastici, che divennero patrimonio dello Stato. Lo stesso Lutero, nel 1525 si sposò, prendendo in moglie una ex suora.

Giovanni Calvino importò le tesi luterane a Gineva e Zwingli a Zurigo (da notare che Calvino era un francese fuoriuscito per motivi religiosi). Zwingli fu ucciso il battaglia, Calvino riuscì ad istituire a Ginevra una comunità di fedeli caratterizzata da un rigoroso controllo sociale sulle condotte dei cittadini e la loro moralità, controllo esercitato da un apposito organismo (il Concistoro, composto da laici e pastori). Il calvinismo è caratterizzato dall’insistenza sulla predestinazione, di cui sarebbe segno anche il successo mondano e la riuscita nel lavoro. In tal modo il fedele è spronato al successo mondano in quanto segno della predestinazione alla salvezza. In dettaglio le differenze col Luteranesimo sono: 1) insistenza sulla predestinazione alla fede (si salva solo chi ha fede e la fede è un mistero o dono divino); 2) il ruolo politico che la religione assume affiancandosi all’autorità civile: essa detta le regole di condotta, vigila sulla moralità, punisce per mezzo del potere politico l’eresia, etc. Lutero, viceversa, non approfondì il tema della predestinazione ma soprattutto quello della salvezza per fede e non per le “opere della legge”, ed affermò la netta separazione fra autorità civile e religione, riducendo la religione a fatto interiore e non esteriore. Il calvinismo, a partire dal 1545, ebbe una diffusione molto maggiore del Luteranesimo (limitato quest’ultimo a Germania, Svezia e Danimarca): esso fu importato in Inghilterra (Puritani), in Francia (Ugonotti), in Scozia (chiesa presbiteriana scozzese) e nei Paesi Bassi.

In Francia si diffusero dapprima il luteranesimo e poi il calvinismo (Calvino era di origine francese) – i calvinisti francesi saranno detti ugonotti. Nel 1534 cominciò la reazione anti-luterana a seguito dell’atteggiamento intransigente dei Luterani stessi. La reazione cattolica cominciò con Francesco I e proseguì con Enrico II. In Inghilterra, Enrico VIII, non vedendosi riconosciuto dal Papa l’annullamento del suo precedente matrimonio con Caterina d’Aragona, che voleva ripudiare per sposare Anna Bolena, diede vita, con l’Atto di supremazia, ad uno scisma (1534), cioè ad una rottura con la Chiesa di Roma: in se stesso lo scisma non investiva la dottrina, salvo assumere il re la funzione di Papa (cesaropapismo): egli nominava i vescovi e questi i parroci; i beni della Chiesa furono incamerati e messi all’asta. Successivamente, con Edoardo VI, la chiesa cosiddetta “anglicana”, assunse confessione protestante assommando caratteri del luteranesimo, del calvinismo e zwingliani. La Scozia, invece, assunse carattere calvinista. L’Irlanda rimase ferventemente cattolica.Nel dettaglio: il padre di Enrico VIII, Enrico VII, aveva combinato un matrimonio fra il suo primogenito Arturo e la figlia dei regnanti di Spagna Caterina d’Aragona. A matrimonio avvenuto, tuttavia, Arturo morì, lasciando Caterina vedova. Enrico VII fece così sposare al suo secondogenito Enrico (poi divenuto Enrico VIII) la vedova del fratello e, per ottenere ciò, fu necessaria una particolare dispensa concessa dal papa Giulio II nel 1505. Caterina diede ad Enrico VIII una sola figlia femmina, Maria (passata alla storia come “Maria la sanguinaria”) ed Enrico decise di ripudiarla per sposare la sua dama di compagnia, Anna Bolena, di cui s’era invaghito e da cui attendeva un erede (dalla loro unione nascerà la futura Elisabetta I). A tale scopo pretese dal Papa l’annullamento del suo matrimonio con Caterina, accampando come pretesto la nullità della precedente dispensa papale. Dinnanzi all’opposizione di Papa Clemente VII, Enrico VIII attuò lo scisma. Dopo Anna Bolena (che condannò a morte per adulterio) Enrico VIII sposò Jane Seymour,

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che nel 1537 morì di parto dando alla luce il desiderato figlio maschio (il futuro Edoardo VI). Enrico VIII ebbe altre tre mogli (di cui la seconda condannata a morte per adulterio), per un totale di sei.

CONTRORIFORMA E RIFORMA CATTOLICA

Il termine “controriforma”, assunto a significare la reazione cattolica al dilagare del Protestantesimo protrattasi dalla conclusione del Concilio di Tento alla fine del Cinquecento, connota l’agire della Chiesa cattolica come una mera reazione (in termini politici, istituzionali, teologici), un reagire a qualcosa che s’è prodotto da sé ed indipendentemente (la Riforma protestante). Il termine ha inoltre un evidente connotazione repressiva.D’altro canto, fra gli storici di orientamento cattolico ha prevalso il termine “Riforma Cattolica”, il quale, tuttavia, sembra far assumere alla Riforma Cattolica un carattere del tutto autonomo ed indipendente: fra l’altro la Riforma Cattolica pensata in tal senso sarebbe precedente o contemporanea alla Riforma protestante. In verità bisogna riconoscere come, sebbene, in parte la Chiesa avesse cominciato a ripensare se stessa prima della Riforma Protestante, questo ripensamento subì un’accelerazione netta con lo scoppiare della Riforma Protestante.La Riforma Cattolica o Controriforma si espresse nel Concilio di Trento, concilio ecumenico convocato per discutere i problemi della cristianità sia da un punto di vista dogmatico e teologico, sia istituzionale e disciplinare. Il Concilio (reclamato da secoli) fu convocato da Paolo III Farnese Papa nel 1545 e durò circa vent’anni (si concluse nel 1563). Ad esso non parteciparono i Protestanti poiché il Papa vi pretese un ruolo preminente e non vi furono ammessi i comuni fedeli ma i soli ecclesiastici. Se, infatti, la scelta di una località vicina al mondo di lingua tedesca, voleva essere un tentativo di conciliazione col mondo protestante (che in quella realtà s’era sviluppata), questo veniva palesemente sconfessato dalla modalità di convocazione e di partecipazione.

Esiti del ConcilioSul piano della Dottrina, furono sconfessate totalmente le tesi luterane:1) fu ribadita la validità oggettiva dei sette sacramenti e la presenza reale di Cristo nell’eucarestia;2) contro la tesi del sacerdozio universale fu ribadita la netta separazione di clero e laicato, il celibato dei preti, la superiorità del clero sul laicato e l’istituzione divina (la non nomina da parte dei fedeli) del clero;3) contro il libero esame la Chiesa riaffermò se stessa come l’unica interprete delle Scritture;4) alla giustificazione per fede come causa unica della salvezza si oppose la tesi per cui la salvezza si ottiene non con la fede sola, ma anche con le opere secondo quanto disciplinato dalla Chiesa stessa;5) fu raccomandato il culto della Vergine e dei Santi;6) fu dichiarata autentica la versione latina della Bibbia ufficiale (la vulgata di San Gerolamo).

Quanto alla disciplina, furono prese misure contro la compravendita dei benefici ecclesiastici, la non-residenza dei vescovi nelle loro diocesi, il concubinaggio, etc.Si stabilì il Latino come lingua ufficiale della Chiesa, e, a tale scopo e per preservare l’integrità dei sacerdoti, furono istituiti i seminari come scuole preparatorie al sacerdozio. Fu creato un catechismo in lingua volgare ad uso dei curati per diffonderlo fra la popolazione: esso conteneva, in forma semplificata, le norme dottrinarie stabilite a Trento.

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InquisizioneLa Chiesa Cattolica presentò, specie sotto Papa Paolo IV Carafa, caratteri repressivi assai marcati, tanto che l’attività del Concilio di Trento (finalizzata alla Riforma disciplinare della Chiesa ed alla fissazione del Dogma) fu sospesa per essere sostituita da una pesante repressione degli eretici – il tribunale dell’Inquisizione era già stato restaurato da Paolo III e posto sotto il controllo di un Collegio Cardinalizio, la Congregazione del Sant’Uffizio, di cui il futuro Palo IV era stato il Primo inquisitore.Vittime dell’Inquisizione furono illustri personaggi, fra cui Giordano Bruno, arso vivo in Campo dei Fiori e Tommaso Campanella, imprigionato a vita.Paolo IV fu, inoltre, l’istitutore del ghetto di Roma, ove furono confinati gli ebrei.Se, la Chiesa, presentò complessivamente, nel periodo della Controriforma, aspetti repressivi e rigidi nelle sue strutture di potere, sorsero, sul terreno sociale, nuovi ordini dediti al volontariato e all’assistenza, i quali recuperarono parte del credito che la Chiesa Cattolica aveva perso nei secoli precedenti: sorsero i padri cappuccini, dediti alla predicazione popolare e all’assistenza agli appestati; i padri somaschi (si occupavano soprattutto di orfanotrofi); barnabiti (assistenza agli infermi); le suore orsoline (dedite alla clausura e all’istituzione femminile), etc.Nel 1534 Ignazio di Loyola fondò la Compagnia di Gesù. Quest’ordine, dedito inizialmente all’istruzione, era rigorosamente gerarchizzato (il capo indiscusso era il Generale dell’Ordine) e prevedeva procedure d’accesso molto rigorose. Da ultimo, La Compagnia di Gesù assunse una funzione fortemente missionaria (in India, Giappone, Cina e America Latina).

Inquisizione: nota. La storia del tribunale dell’Inquisizione passa per tre fasi distinte di cui, le ultime due, parzialmente sovrapponentesi. L’Inquisizione medievale, voluta da Innocenzo III nel XIII secolo, quella spagnola, concessa nel XV secolo ai sovrani della cattolica Spagna (e di cui questi si serviranno per perseguire i convertiti, la cui fede era ritenuta di comodo), e quella romana (istituita a seguito del Concilio di Trento). La differenza fra le ultime due è che, mentre la prima faceva capo ai sovrani di Spagna, la seconda era gestita direttamente dalla Curia romana attraverso la Congregazione del Sant’Uffizio: in questo senso la Spagna costituiva una netta eccezione rispetto al resto dei paesi cattolici, potendo gestire in proprio non soltanto la fase dell’applicazione della pena all’eretico, ma anche la fase del processo.

La conversione al Cattolicesimo, che, nel passato, era stata imposta forzosamente agli ebrei abitanti i territori Cristiani (la maggior parte abitavano in Spagna o Italia), portò all’istituzione dei ghetti: per essere meglio controllabili, gli ebrei furono progressivamente rinchiusi in appositi quartieri o ghetti (dal nome di quello di Venezia, istituito nel 1516).

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PERCORSO III

ESPANSIONE COMMERCIALE EUROPEA ED INCONTRI DI CIVILTA’ NEL MEDIOEVO

ESPANSIONE ARABA

Il bacino del Mediterraneo, a partire dalla predicazione di Maometto (571 d. C. - 632 d. C.), e poi coi primi 4 califfi e la dinastia Ommayade, subisce la progressiva espansione araba, che nel 711 varca lo stretto di Gibilterra per giungere a conquistare la pressoché totalità della Penisola iberica (chiamata Andalusia dagli Arabi e strappata ai Visigoti) e viene arrestata a Poitiers nel 732 dai Franchi di Carlo Martello (in realtà costoro arrestano una razzia diretta a Tours che, solo potenzialmente, poteva tramutarsi in conquista territoriale). L’espansione islamica si rivolge nello stesso arco di tempo anche verso oriente spingendosi sino alle soglie dell’India e della Cina (Persia). La dinastia Ommayade, che pose la propria capitale a Damasco (Siria), fu, a partire dal 750, sostituita da quella Abbasside, che trasferì la capitale a Baghdad, città da loro fondata. All’eccidio degli Ommayadi operato dagli Abbassidi sopravvisse un solo esponente della prima dinastia, che si rifugiò in Spagna (753) dove diede origine all’emirato autonomo di Andalusia, con capitale Cordova. Nel IX secolo (l’invasione è dell‘827) gli Arabi conquistarono anche la Sicilia bizantina, trasferendo la capitale da Siracusa (capitale bizantina) a Palermo. Sul finire dell’XI secolo riprende l’offensiva cristiana per strappare la Spagna e la Sicilia (lo sbarco Normanno in Sicilia è del 1061) agli infedeli. Nell’XI secolo la dinastia Abbasside deve inoltre fronteggiare ad oriente l’aggressività dei Turchi Selgiuchidi, suoi ex mercenari, che conquisteranno Baghdad ed i luoghi santi della Cristianità, arrivando a minacciare l’Impero bizantino e ponendo di fatto sotto tutela lo stesso Impero abbasside. I Turchi, a differenza degli Arabi, si mostreranno profondamente intolleranti coi Cristiani ed impediranno ai pellegrini l’accesso ai luoghi santi. Ai Turchi Selgiuchidi, nel 1299, succederanno i Turchi Ottomani, che daranno vita ad un Impero destinato ad una vita lunghissima: sarà smembrato e ridotto al territorio dell’odierna Turchia solo al termine della Prima guerra mondiale, da cui uscì sconfitto. Nel 1453 il sultano Maometto II guiderà vittoriosamente l’assedio di Costantinopoli, decretando la fine dell’Impero bizantino. Costantinopoli sarà ribattezzata Istanbul.

LA SPAGNA DELLA RECONQUISTA

La Reconquista al Cristianesimo dei territori infedeli (arabi) del Califfato di Cordova, che, agli inizi del Duecento occupava più della metà della penisola iberica, culminata nella vittoria del 1212 (Las Navas de Tolosa) portò alla costituzione dei regni di Portogallo, Castiglia-Leòn (si fonderanno nel 1230 nell’unico regno di Castiglia), Aragona (dal 1137 unificata con la Catalogna e Barcellona) e Navarra (unico possesso rimasto agli Arabi entro la Penisola Iberica era il Regno di Granada). Successivamente l’unione matrimoniale di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona detto il Cattolico (1469) portò all’unificazione delle due corone. Si noti, tuttavia, che al tempo dell’unione matrimoniale fra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i due territori continuavano ad avere amministrazioni separate. Molti erano inoltre i motivi di differenziazione fra Castigliani e Aragonesi: innanzitutto la lingua, essendo il Catalano parlato nella provincia d’Aragona assai diverso dal Castigliano, secondariamente la composizione economico-sociale, essendo la Castiglia

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paese agricolo arretrato ed in cui il ceto cavalleresco-nobiliare (gli hidalgos) aveva un ruolo di prim’ordine, ed essendo invece l’Aragona a vocazione maggiormente commerciale e con un più pronunciato sviluppo dei centri urbani. Nel 1492 fu conquistato il Regno di Granada e nel 1512 fu annesso il Regno di Navarra. Il 1492 è anche l’anno dell’espulsione degli Ebrei (detti Sefarditi dal nome ebraico della Spagna, Sefarad), cui fu imposto di vendere i loro beni e al contempo negata la possibilità di fuoriuscire dalla Spagna portando con sé oro e argento. Quest’episodio è uno dei numerosi atti di prevaricazione cui furono sottoposte le minoranze religiose (Ebrei e Moriscos o Mori, cioè i Musulmani) su suolo spagnolo dopo la Reconquista (ciò contrariamente alla tolleranza di cui le minoranze avevano goduto durante il dominio arabo): in precedenza gli Ebrei erano stati costretti alla conversione (“marrani” erano detti sprezzantemente gli Ebrei convertiti - “marrano” significa “maiale”) e, nonostante la conversione, spesso venivano accusati d’eresia poiché avrebbero continuato a praticare, in segreto, i riti della loro religione d’origine. Dinnanzi allo stesso editto d’espulsione, si riproponeva l’alternativa: o abbandonare l’Ebraismo, convertendosi, o lasciare il paese. Qualche anno dopo (1496-97), in Portogallo, agli Ebrei furono imposte condizioni ancora più gravose, comportando queste la conversione forzata senza possibilità di emigrazione. Si noti come il Cristianesimo abbia generalizzato e diffuso alcuni falsi pregiudizi circa gli Ebrei, come quello del sacrificio rituale, secondo il quale essi impasterebbero durante la Pasqua ebraica il pane azzimo col sangue di bambini cristiani dissanguati: i primi processi per accusa di omicidio rituale risalirebbero all’Inghilterra del XII secolo. Tali pregiudizi furono nella Penisola Iberica più radicati che altrove.Agli inizi del XVI secolo, la Penisola Iberica si trovò così ad essere divisa in due compagini territoriali autonome: Spagna e Portogallo.

LA SICILIA

Nel 1059 Papa Nicolò II con gli Accordi di Melfi infeudò Roberto d’Altavilla (detto il Guiscardo), un Normanno, non soltanto della Puglia e della Calabria (territori Bizantini e detenuti dai Bizantini), ma anche della Sicilia (territorio allora Saraceno: i Saraceni avevano strappato la Sicilia ai Bizantini nel IX secolo), legittimando con ciò la conquista di quegli stessi territori da parte del Guiscardo (l’unificazione di Sicilia e Meridione avvenne nel 1130 con Ruggiero II d’ Altavilla).Il Meridione d’Italia (chiamato “Regno di Sicilia”) fu dominato perciò dai Normanni e poi dagli Svevi (Federico II era il figlio di Enrico VI di Svevia e di Costanza d’Altavilla).Dopo la morte di Federico II (1250) il Papato, tuttavia, per scongiurare il pericolo di un accerchiamento imperiale a sud e a nord, cercò di insediare nel Mezzogiorno una dinastia che non avesse interessi territoriali nella Penisola. Fu così che, dopo due scontri campali con Manfredi (1266), figlio di Federico II, e con Corradino (1268), nipote di Federico, gli Angioini, dinastia di origine francese, si insediarono al Sud. Una rivolta autonomista scoppiata in Sicilia contro il dominio Angioino portò, tuttavia, nel 1302, con la Pace di Caltabellotta e dopo la ventennale guerra del Vespro (1282-1302) all’insediamento in Sicilia (detta ora “Regno della Sicilia ulteriore”, per distinguerla dal “Regno di Sicilia citeriore”) della dinastia Aragonese, di origine spagnola e imparentata con quella Sveva spodestata. Nel 1442, da ultimo, gli Aragonesi, con Alfonso V il Magnanimo, unificarono nuovamente sotto il loro dominio l’intero Mezzogiorno. Tuttavia, alla sua morte, Alfonso dispose che la parte continentale del Regno di Sicilia (conosciuta in epoca moderna come “Regno di Napoli”) andasse al suo figlio illegittimo Ferrante, mentre la Sicilia (conosciuta in epoca moderna come “Regno di Sicilia”) fosse annessa ai possessi dell’Aragona. Molti secoli dopo, nel 1816, i due Regni saranno finalmente riunificati sotto la dinastia dei Borbone col nome di “Regno delle due Sicilie”.

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LA FIGURA DEL MERCANTE NEL MEDIOEVO

Nell’alto-medioevo (V-XI secolo) la figura del mercante non rientra nella tripartizione ordinaria (uomo di chiesa, cavaliere o lavoratore dei campi): a ciò si lega una diffusa riprovazione in quanto colui che lucra e brama denaro. Nei secoli XIII e IV la figura del mercante diviene imprescindibile per la sua importanza sociale. Il mercante diviene stanziale (prima viaggiava al seguito dei propri convogli, era spesso ignorante e rozzo, etc.): dal suo ufficio dirige l’attività di innumerevoli agenti. Diviene abile nel far di conto, acculturato. Tende a vestire e ad atteggiarsi come un nobile, alla cui parentela aspira (numerevoli i casi di figlie di mercanti che vanno in spose a nobili decaduti). Per converso molti nobili si trasferiscono nelle città e si dedicano all’attività mercantile, molto lucrosa, etc.Ciò che si è realizzato in questo arco cronologico (nel passaggio dall’Alto al Basso Medioevo) è innanzitutto una modificazione radicale del quadro economico. Se l’economia prima dell’anno Mille è chiusa e tesa all’autosufficienza (economia curtense), dopo il Mille si determina una graduale ripresa de traffici e una rinascita generalizzata del tessuto cittadino. Ciò innanzitutto è dovuto ad un miglioramento nelle tecniche di conduzione agricola. In generale condizione fondamentale perché si possano avere traffici è la presenza di un eccesso di prodotto rispetto alle esigenze del consumo. Entro la curtis pressoché le intere esigenze di consumo venivano coperte dalla produzione interna e la produzione non era in grado di superare quelle esigenze. Con il l’incremento della produzione agricola successivo all’anno Mille diviene invece possibile un’economia di scambio. Di per se stessa, tuttavia, la presenza di un eccesso della produzione rispetto al consumo non è ancora sufficiente per determinare il sorgere dalla figura del mercante. Infatti, sin tanto che, ad esempio, il contadino porta sulla piazza del mercato cittadino il suo prodotto agricolo in eccesso e lo vende direttamente al consumatore o l’artigiano fabbrica gli oggetti che poi vende all’utilizzatore ultimo, non si avrà alcuna forma di intermediazione fra consumatore e produttore. La figura del mercante come mediatore fra produttore e consumatore ha quindi bisogno di tempo per sorgere e poi consolidarsi. In generale questa figura opera sulla lunga distanza, ossia realizza un guadagno comprando merci in località remote e trasferendole in altre località dove quelle merci scarseggiano e sono richieste. Questa operazione, beninteso, all’epoca era molto più rischiosa rispetto ai giorni odierni, infatti il viaggio riservava molti inconvenienti e pericoli (le strade erano scarse, l’assalto dei briganti sempre possibile, le vie di navigazione esposte alla pirateria ed all’incertezza dei mari, etc.). Come visto, tuttavia, occorre distinguere, dopo il Mille, fra una prima fase, in cui il mercante non è stanziale ma viaggia assieme alla merce e si assume in prima persona il rischio dell’impresa (che spesso è rischio della vita), da una seconda fase in cui diviene stanziale e dirige il movimento delle merci dai propri uffici dislocati nelle principali centri di scambio. La demarcazione cronologica fra i due momenti è difficilmente precisabile in modo netto, ma grosso modo possiamo collocarla a cavallo fra Duecento e Trecento. Con l’emergere dei traffici sorge inoltre la necessità dell’uso della moneta (allora rigorosamente in metallo prezioso o in leghe di metallo prezioso) come strumento di intermediazione per agevolarli, cosa necessaria anche nel caso in cui il compratore non abbia nessuna merce che il venditore richieda (spesso questa condizione si verificava negli scambi con l’Oriente). Il sorgere dei traffici fa perciò tutt’uno col riemergere della circolazione monetaria. Si tratta ora di analizzare nell’ordine due aspetti: la figura del mercante socialmente intesa e le correnti dei traffici medievali.

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L’atteggiamento ecclesiastico rispetto alle professioni del lucroCirca il primo aspetto, il mercante godeva di una diffusa riprovazione sociale in quanto colui che lucra e brama denaro. Tale riprovazione, in una società pervasa di sentimento religioso, non poteva che essere conseguente ad una condanna di natura religiosa. La concezione cristiana aveva infatti elaborato nell’Alto Medioevo una partizione generale della società in tre gruppi, tutti funzionali all’interesse generale: la nobiltà cavalleresca, che era finalizzata a fornire la protezione, il clero che si occupava della salvezza delle anime, ed i lavoratori, che producevano l’occorrente per il sostentamento sociale. Il mercante, la cui figura si impose all’attenzione teologica in modo sempre più pressate dopo il Mille, non trovava posto in alcune di queste categorie: infatti egli neppure poteva essere ritenuto un lavoratore, non producendo nulla col proprio lavoro, ma lucrando su quello altrui (egli infatti ricavava un guadagno vendendo ad un prezzo maggiorato quanto aveva comprato da altri). Del resto, volendo riabilitarne la figura, si potevano in qualche modo ritenere un lavoro che giustificava una ricompensa le fatiche del viaggio da costui patite, ma questo in ogni caso poteva valere solo per il mercante non stanziale, non per quello stanziale. Quest’ultimo del resto, alle normali attività di mercatura (cioè commerciali) assommava generalmente nel tempo quelle del prestito ad interesse, che ne facevano un usuraio. La figura dell’usuraio, a sua volta, era ancor più oggetto di riprovazione sociale e di esplicita condanna da parte della Chiesa. Dal momento che ciò che vale per l’usura vale in modo minore ma sostanzialmente assimilabile per la mercatura, sarà utile percorrere brevemente l’atteggiamento ecclesiastico rispetto a questa pratica. L’usura è una pratica che la Chiesa condanna in quanto vietata dalle Scritture. Per “usura” intendiamo il prestito ad interesse. Precisamente l’Antico Testamento vieta l’usura allo straniero, non al “fratello”. In Esodo, 22, 24, si legge: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che è presso di te, non ti comporterai con lui da usuraio, non gli imporrai alcun interesse”. In Levitico 25, 35-37 si legge: “Se tuo fratello che vive con te cade in miseria e manca nei suoi rapporti con te, lo aiuterai come un forestiero o un ospite ed egli vivrà presso di te. Non gli presterai il denaro per trarne un profitto, né gli darai il vitto per ricavarne degli interessi”. Ancora in Deuteronomio 23, 20: “Non farai al tuo fratello prestiti ad interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta ad interesse. Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma presterai senza interesse al tuo fratello”. La tradizione ebraica, in questo fedele ai testi, ha inteso il “fratello” nel senso dell’appartenente al proprio popolo e ha ritenuto perciò legittimo prestare ad interesse allo straniero (non all’ebreo, invece). La tradizione cristiana ha invece generalizzato il divieto. Questo è il motivo per cui il mestiere dell’usuraio, necessario in una società in via di espansione economica, è stato originariamente esercitato dagli Ebrei, ai quali la loro religione lo consentiva. Per il Cristiano, invece, l’usura era equiparata al furto: infatti l’usuraio ricavava non solo quello che aveva dato (cosa giusta), ma pure un interesse: quest’ultimo era rubato. Tuttavia l’usura, divenuta col tempo necessaria e lucrosa, fece sì che molti mercanti si votassero a questa attività (in genere ad integrazione della loro principale) nonostante la condanna.Per comprendere il condizionamento operato sull’usuraio (ma vale in parte minore anche per il mercante) da una condanna ecclesiastica del proprio mestiere, occorre calarsi nella mentalità medievale che è ossessionata dal tema della salvezza e della dannazione. La Chiesa, ritenendo l’usura assimilabile al furto e perciò violazione di uno dei Dieci comandamenti (ossia un peccato morale), affermava recisamente che, in assenza di confessione, pentimento e penitenza, l’usuraio era destinato inevitabilmente all’Inferno. Ad integrazione di ciò, richiedeva come penitenza la restituzione per intero dei proventi del furto (cioè degli interessi) a coloro cui erano stati lucrati. Se l’usuraio giovane ed in buona salute poteva soprassedere rispetto alla minaccia del supplizio eterno, quello stesso usuraio in procinto di morte era ossessionato dall’alternativa: vita eterna o borsa? In

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un contesto in cui mercatura ed usura crescevano in maniera esponenziale e divenivano attività imprescindibili nella vita economica, la Chiesa dovette mitigare progressivamente la propria condanna (l’usura fu distinta dal prestito ad interesse, cioè fu riconosciuto al prestatore un certo margine di interesse lecito sopra al quale interveniva la condanna, si definì la dottrina del “giusto prezzo”, per la quale poteva essere consentito al mercante un giusto guadagno, etc.), ma, soprattutto, fu introdotto nella dottrina il Purgatorio (formalizzato nel Duecento). Il Purgatorio era un luogo di espiazione temporanea ove tutti i peccatori, in presenza di confessione e pentimento, potevano espiare le proprie pene per poi accedere al Paradiso. Mercanti e usurai avevano perciò una via aperta verso la salvezza: se non una certezza, almeno una possibilità. Questa via sarà poi resa ancora più percorribile col successivo meccanismo della vendita delle indulgenze.

I trafficiLe vie dei traffici si definiscono in modo piuttosto preciso e stabile fra XII e XIII secolo. Alcune aree d’Europa (Fiandre e Toscana in specie) si specializzano nella lavorazione dei tessuti di lana, altre (Inghilterra) nella produzione laniera, mentre dall’Oriente provengono soprattutto le spezie e la seta. I traffici con l’Oriente, sono appannaggio dai mercanti italiani, specie Veneziani, e mediati dagli Arabi e dai Bizantini (salvo rari casi si realizza l’approvvigionamento diretto sui luoghi di produzione). Esistono apposite aree di scambio dove confluiscono le merci per essere vendute diremmo noi oggi “all’ingrosso”. Una di questa aree è la Champagne, nella Francia orientale, sede di sei fiere annuali della durata di due mesi l’una.

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