Pensare la politica

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NUMERO OTTOBRE 2012 11 Pensare la politica contributi di Pietro Barcellona • Laura Bazzicalupo • Giancarlo Bosetti • Gianni Cuperlo • Vito De Filippo Mario Dogliani • Maurizio Ferraris • Miguel Gotor • Francesca Izzo • Marcella Marcelli • Alberto Melloni Elena Pulcini • Nadia Urbinati • Lucia Votano

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Tamtàm democratico ottobre 2012

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NUMERO OTTOBRE 201211

Pensare la politica

contributi di Pietro Barcellona • Laura Bazzicalupo • Giancarlo Bosetti • Gianni Cuperlo • Vito De Filippo

Mario Dogliani • Maurizio Ferraris • Miguel Gotor • Francesca Izzo • Marcella Marcelli • Alberto Melloni

Elena Pulcini • Nadia Urbinati • Lucia Votano

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Franco MonacoDirettore editoriale

Alfredo D’AttorreCoordinatore del Comitato editoriale

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COMITATO EDITORIALE

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Proprietario ed editore Partito DemocraticoSede Legale - Direzione e RedazioneVIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 RomaTel. 06/695321Direttore Responsabile Stefano Di TragliaRegistrazione Tribunale di Roma n.270del 20/09/2011I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza CreativeCommons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Noncommerciale - Non opere derivate

COMUNICAZIONE

progetto grafico/sito internetdol - www.dol.it

5 Dare peso alle idee

8 La nostra agoràGianni Cuperlo

11 Politiche del realismoMaurizio Ferraris

17 Ciò che manca all'EuropaAlberto Melloni

20 Valorizzarele passioni civiliElena Pulcini

25 Oltre l'egemoniadell'economia e lademocrazia plebiscitariaNadia Urbinati

36 Civismo e PD sidiano la manoMiguel Gotor

40 Non bastano le paroleGiancarlo Bosetti

43 Il conflitto trale generazioniPietro Barcellona

47 Ricerca e formazionecome leva dello sviluppoLucia Votano

50 L'Italia ne uscirà solose ce la farà il sudVito De Filippo

53 Condizioniper la rinascita.Il caso NapoliFrancesca Izzo

57 Una svolta culturaleper la domandadi autorealizzazioneLaura Bazzicalupo

61 La stella polare dellapersona e dei dirittiMarcella Marcelli

68 Costituzione e virtù politicaMario Dogliani

ALTRI CONTRIBUTI

SOMMARIO

FOCUS

PENSARE LA POLITICA

CARTA D’INTENTI

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Dare peso alle idee

uesto numero di Tamtàm democratico consta di tre parti. Nellaprima, anticipiamo taluni contributi del seminario promosso dalCentro studi del PD e al quale hanno partecipato una trentina distudiosi di varie discipline, specie filosofi e storici, che hannointerloquito con il segretario Pier Luigi Bersani (gli atti integrali sono

di prossima pubblicazione). I saggi in oggetto sono introdotti da Gianni Cuperloche appunto dirige il Centro studi. Nella seconda parte figurano alcune reazioni allaCarta di intenti dei democratici e progressisti messa a punto da Bersani quale basedi discussione e confronto per le primarie di coalizione. A seguire un denso saggiodi Mario Dogliani su Costituzione e virtù politiche. Uno dei riferimenti basici della"questione democratica" che il PD intende porre al vertice della sua agenda insiemealla "questione sociale" e al rilancio del progetto europeo.

Ci è sembrato appropriato dare all'intero numero il titolo "Pensare la politica".È nostra convinzione che, nel rispetto delle reciproche sfere di autonomia, chi fapolitica e chi si dedica alla riflessione, allo studio e alla ricerca debbanointerloquire sempre più intensamente. Perché la leggerezza può anche essere unavirtù su altri fronti, non su quello del pensiero.

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tate attenti: la nave è in mano ormai alcuoco di bordo e le parole chetrasmette il megafono del comandantenon riguardano più la rotta ma che cosasi mangerà domani”. Queste parole,

scritte più di un secolo e mezzo fa da Soren Kierkegaard,mi pare dicano piuttosto bene il grande pericolo, nonancora scampato, corso dalla politica (non solo italiana)negli ultimi vent’anni. Alcuni, prendendo a prestito ilvocabolario della finanza, parlano di shortermismo persignificare l’accorciarsi temporale e spaziale delle scelte,l’incapacità di pensare in termini di medio-lungo periodo,

La nostra agoràGianni Cuperlo è presidente del Centro Studi e deputato del Pd

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la ristrettezza degli orizzonti, il prosciugarsi del pensieroche hanno caratterizzato la lunga stagione dell’egemoniaeconomico-finanziaria.

Siamo chiari: “che cosa si mangerà domani” è tema nonsecondario e non trascurabile, tanto più nel pieno di una crisisenza precedenti, che ha già dissestato la vita di milioni dipersone e, insieme, le forme della democrazia. Che è riuscitaa scardinare sovranità, equilibri e ordinamenti di una realtàstorica come l’Europa, e più in generale dell’Occidente.

Ed è precisamente perché cogliamo la profondità diquesta crisi, ben oltre e al di là di come, ancora oggi, in tantice la raccontano, che decidiamo di partire da qui.

Dal fatto che, una volta smarrita la rotta, presto o tardi,non ci sarà più niente da mangiare (e non solo in sensometaforico).

Siamo di fronte a quella che un tempo avremmo chiamatouna “transizione di egemonia”, una fase delicata (comesospesa tra il “non più” e il “non ancora”) in cui s’incastranole spinte più pericolose: il riarmo dei nazionalismi, opopulismi di diversa estrazione, ma che piegano sempre sulfianco destro. In qualche modo la stessa utopia di un’Europaintegrata, non solo nella moneta, oggi sembra chiusa dentroquesta morsa. Una situazione drammatica che chiede allapolitica di gestire l’emergenza (dagli spread al debito, alle

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Siamo di fronte aquella che un tempoavremmo chiamatouna “transizione diegemonia”, una fasedelicata (comesospesa tra il “nonpiù” e il “nonancora”) in cuis’incastrano le spintepiù pericolose: ilriarmo deinazionalismi, opopulismi di diversaestrazione, ma chepiegano sempre sulfianco destro.

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strategie anti-cicliche), ma anche di costruire un pensiero, inlarga parte originale, che faccia da cornice a un nuovomodello per lo sviluppo di domani.

Messa così in alto, è chiaro che sarà impossibile saltarel’asticella da soli.

Ecco perché la cultura, i saperi – in particolare quellidiversi dall’economia – non possono sottrarsi allaresponsabilità di assumere una parte importante della faticanell’immaginare una via di uscita possibile.

Questa è la prova del nostro tempo. Questo il compitodelle classi dirigenti, non solo nella politica. Ed è anche lospirito che guida un partito come il nostro nel momento incui si candida a condurre il paese fuori da quella che ormai,senza iperboli, possiamo ben chiamare decadenza. Direiche soprattutto per questa ragione abbiamo scelto unpercorso non scontato: e a chi spingeva per un leader, unprogramma e un sistema di alleanze da decidere subito,abbiamo risposto che era giusto, invece, partire da unaCarta d’intenti e da un’idea dell’Italia e della sua funzione inEuropa. Il punto per noi è che quella Carta e quel progettodevono fondarsi su un corpo d’idee che non è interamentecompreso dentro un solo partito, per grande che sia e chenon è destinato ad accompagnare una sola stagione,seppure cruciale, come quella che si apre da qui allaprossima campagna elettorale. Sentiamo di dover incrociareuna cittadinanza attiva, movimenti, competenze, senza lequali è letteralmente impossibile una ricostruzione dalbasso. Questo mi pare il senso del progetto civico cheabbiamo messo a base di un nuovo centrosinistra e diun’alleanza credibile con i moderati. Questo il senso delconfronto cercato con le forze intellettuali – di cuil’incontro dello scorso 26 luglio è stato una tappaimportante – alle quali non abbiamo chiesto di aderire a undisegno già scritto, ma di aiutarci a pensarlo nellaconsapevolezza che siamo davanti a una prova moltoimpegnativa. La risposta è stata per noi incoraggiante e,come credo dicano i testi qui pubblicati in anteprima,ricchissima di suggestioni e stimoli a proseguire in uncammino di lunga lena che, se non la rotta, sappia ritrovarealmeno la voglia del mare.

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isogna che non appena questa gentetenterà di sbarcare, sia congelata suquesta linea che i marinai chiamano del“bagnasciuga”. Come sappiamo, ilbagnasciuga era poi la “battigia”, e si è

anche visto come è andata a finire. Churchill, invece, non siilludeva affatto che, in caso di invasione, i tedeschi sarebberostati “congelati” sul “bagnasciuga”, ed è per questo chedisse: “Noi combatteremo sulle spiagge, noi combatteremonei luoghi di sbarco, noi combatteremo sui campi e sullestrade, noi combatteremo sulle colline”, e non escludevanemmeno che l’Inghilterra potesse essere completamenteinvasa. Ora, che cosa caratterizza il discorso del bagnasciuga?Semplicemente e banalmente il rifiuto della realtà, lasostituzione di quello che c’è con quello che si vorrebbe chefosse, l’illusione spacciata per liberazione. Di discorsi delbagnasciuga se ne sono sentiti tanti dopo quello, ed è perquesto che alla presa della Bastiglia si tratta ora di sostituireuna più modesta presa della battigia, da intendersi come unapolitica del realismo, che chiami le cose con il loro nome. Perbrevità, propongo otto spunti per la discussione.

Il mio primo punto riguarda la mitologia. Il populismo ètradizionalmente mitologico, e ai miti dell’eroe e del “me nefrego” si è sostituita la favola del milione di posti di lavoroche è stata pagata cara quasi quanto quella degli otto milionidi baionette. Fin qui, tutto normale. L’anomalia è chedurante il postmoderno anche la sinistra ha inseguito dellemitologie, a volte cinematografiche e televisive, mamitologie. Rette magari da un equivoco di fondo, e cioè cheil realismo, abusivamente confuso con la Realpolitik, sia di

Politichedel realismoMaurizio Ferraris insegna filosofia teoretica all’Università di Torino

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destra, e questo proprio nel momento in cui l’antirealismo ela mitologia erano i cavalli di battaglia del populismo.Intanto, come si è visto a sazietà, la tendenza della destrapopulistica è fortemente antirealistica. Inoltre, il realismonon è in quanto tale né di destra, né di sinistra, ma migliorala politica tanto quanto l’antirealismo la peggiora, per lostesso motivo per cui si preferisce, potendo, andare da unbuon medico invece che da uno sciamano. Che poi possaessere declinato a destra o a sinistra è un altro discorso.

Da questo punto di vista, una politica del realismorichiede, in secondo luogo, una riflessione sulla politica. Nonè affatto vero che siamo in un’epoca post-politica come sisente da trent’anni a questa parte. Anche l’antipolitica èpolitica, ed è una politica, per l’appunto, particolarmenteideologica e mitologica, basti dire che da noi è riuscitapersino a costruire una entità fantasmatica come la Padania.Dunque, siamo in un mondo iper-politico, nel quale lapolitica è talmente diffusa, in forma capillare e microfisica,da apparire invisibile e da risultare spesso ingovernabile.Rispetto ai tempi in cui De Gaulle si chiedeva “come si puògovernare un paese che ha più di 300 tipi di formaggio?” lasituazione si è ulteriormente complicata. Quello che emerge,per esempio, nello specchio dei social network, è spesso unaagonalità pura, un rifiuto delle mediazioni. Il che è legittimo,ma proprio per questo lo spazio della politica e dellademocrazia deve presentarsi come il momento della sintesi, eciò può avvenire solo ridando centralità al parlamento erispettabilità alla politica.

Il mio terzo punto riguarda la sinistra. Non capisco tanto idiscorsi, anche quelli vecchi di decenni, secondo cui questadistinzione non ha più senso. Il senso c’è, eccome, ed è,grosso modo, questo: la sinistra è illuminista e punta per unaemancipazione dell’umanità attraverso la ragione, mentre ladestra crede che l’umanità debba essere comandata dal tronoe dall’altare (e dalle loro versioni aggiornate). Di lìdiscendono tutte le differenziazioni ulteriori su cui harichiamato a suo tempo l’attenzione Bobbio: sul piano deivalori (uguaglianza o differenza tra gli uomini), della politica(autorità o libertà) e della prospettiva storica (progresso oconservazione). Era così nell’Ottocento, al tempo delledestre controrivoluzionarie, orleaniste e bonapartiste, ed ècosì anche adesso. Ciò premesso, può capitare che la sinistragoverni con modalità di destra (si pensi a Stalin) e che ladestra attui ideali di sinistra (si pensi appunto a Churchill

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Siamo in un mondoiper-politico, nel

quale la politica ètalmente diffusa, in

forma capillare emicrofisica, da

apparire invisibile eda risultare spesso

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nella Seconda Guerra Mondiale). Inoltre, il mondo è pienodi persone che si credono di sinistra e sono di destra (o piùraramente si credono di destra e sono di sinistra). Questonon significa che destra e sinistra non abbiano più senso, masemplicemente che gli esseri umani non sempre hanno leidee chiare. Mi ci metto anch’io nel novero, però c’è una cosasu cui sento di potermi esprimere con certezza, ed è checoloro che si proclamano al di là della distinzionedestra/sinistra sono, in effetti, di destra, perché è tipico delladestra l’appello a una dimensione impolitica o metapolitica.

Il mio quarto punto riguarda il neoconservatorismo. Sepermane la differenza tra destra e sinistra, già sotto il profiloculturale non può essere privo di conseguenze il fatto che iriferimenti teorici della sinistra siano stati, da almenotrent’anni a questa parte, di destra: Nietzsche, Heidegger,Schmitt. Che infatti hanno determinato le linee politichefondamentali: decisionismo, potere carismatico, fatalismo.Perché si sia imposto il neoconservatorismo si può spiegaresociologicamente con le analisi ancora valide di Lukács: gliintellettuali non accettano le rinunce per il loro stile di vitache comporterebbe il marxismo, e preferiscono larivoluzione mitologica e a costo zero di Zarathustra. Siobietterà che, da vent’anni a questa parte, dopo la caduta delmuro, si è assistito a un potente ritorno di Marx. Però ilritorno di Marx è anch’esso mitologico. Marx ritorna ma,d’accordo con la caratterizzazione di Derrida che ha dato viaal processo, ritorna come spettro. Nel momento in cui ilsocialismo realizzato esiste solo in Goodbye Lenin!, alloral’intellettuale non ha alcuna difficoltà a dichiararsi marxista.La situazione è ben descritta da Cartesio: il pio marito chepiange sulla tomba della moglie non sarebbe poi cosìcontento se costei resuscitasse. Fuor di metafora, nell’arco diun quarantennio la sinistra ha visto, in successione, la propriaaffermazione culturale sull’onda della ribellione giovanile, epoi il crollo del socialismo reale. In questa trasformazione,l’effetto più significativo è che stili comunicativi di sinistra(vincenti sotto il profilo culturale) hanno veicolato contenutidi destra (vincenti sotto il profilo politico), e come risultatosi è avuto il fenomeno del neoconservatorismo.Quest’ultimo ha fatto valere con molta forza l’appello alconflitto, alla contrapposizione agonale e militare, al “nonfare prigionieri”.

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Nell’arco di unquarantennio lasinistra ha visto, insuccessione, lapropriaaffermazioneculturale sull’ondadella ribellionegiovanile, e poi ilcrollo del socialismoreale. In questatrasformazione,l’effetto piùsignificativo è chestili comunicativi disinistra hannoveicolato contenuti didestra e comerisultato si è avuto ilfenomeno delneoconservatorismo.

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Il mio quinto punto riguarda allora la ricostruzione. Invecedi proclamare astrattamente l’attualità (o l’inattualità, che aifini della retorica è lo stesso) di Marx, si tratta di esercitareuna critica dell’ideologia mettendo a fuoco gli elementi piùproblematici del postmoderno, ossia (come ho estesamenteanalizzato nel Manifesto del nuovo realismo), l’ironizzazione, ladesublimazione e la deoggettivazione. L’ironizzazione è unapresa di distanza dalle responsabilità e soprattutto una messatra virgolette della realtà, sistematicamente impropria emanipolabile. La desublimazione è la convinzione che leforze del mito e del desiderio siano vie di emancipazione piùpotenti e vere rispetto alla ragione. La deoggettivazione,proclamare la superiorità della solidarietà sulla oggettività, èdimenticarsi che le cosche mafiose sono estremamentesolidali, e che l’oggettività (così come il sapere in generale,che non può essere abusivamente confuso con il potere) èper l’appunto ciò che ci permette di distinguere non solo ilcaldo dal freddo o il nero dal bianco, ma una cosca mafiosada un parlamento.

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Nell’esaminare questi tre punti si tratta di tener ferme leistanze decostruttive avendo tuttavia ben chiaro che nelmomento in cui la confusione diviene una ideologia non c’èniente di più utilmente critico del realismo e dellaricostruzione, e che dunque un obiettivo fondamentale èquello di ricostruire la decostruzione.

È indispensabile che le analisi decostruttive della criticadell’ideologia vengano affiancate, in termini costruttivi, daindagini di ontologia sociale. Nel mondo non ci sono solo glioggetti naturali, esistono anche gli oggetti sociali, come lecrisi economiche e le guerre, le vacanze e i matrimoni, iparlamenti e la democrazia. Questi oggetti non sono affattoevanescenti o liquidi, come spesso si legge. Sono solidi comealberi o case, e importantissimi perché da loro dipende inbuona parte la nostra felicità o infelicità. Per questo latrasformazione è difficile, richiede pazienza e fatica, si prestamale ai colpi di bacchetta magica e alla finanza creativa. Inquesto senso, l’apporto specifico di un realismo di sinistrastarebbe nel condurre una analisi sulla genesi, la struttura e leproprietà della realtà sociale, che permetterebbe unintervento incisivo in quella realtà medesima.

Il mio sesto punto è il richiamo alle regole. Come abbiamovisto, al centro della mitologia c’è il rifiuto della realtà, e alcentro dell’idea della mitologia postmoderna c’è l’idea che ilmondo sia liquido ed evanescente. Nella sua versione disinistra, c’è l’idea che la realtà, la sua nettezza e le sue regole,siano lo strumento dei forti contro i deboli, quando èchiaramente vero il contrario. I forti non hanno bisogno di realtà,così come non hanno bisogno di leggi. Sono i deboli chedevono contare sull’esistenza di giudici, di istituzioni, diregole, che a loro volta devono essere condivise e legittime.La cultura italiana, con un effetto di lungo periodo che èstato ampiamente studiato, è ribellistica, e questo porta, deltutto naturalmente, all’antirealismo, al sogno, alla fuga dalleregole, sperando che il polverone e l’anomia si possa volgerea nostro vantaggio. Per questo uno slogan come “non cisono fatti, solo interpretazioni” ha potuto incontrare un cosìgrande successo, ed essere vissuto come emancipativo.Perché il senso di quello slogan era una sorta di “liberi tutti”,sebbene il suo risultato, come è del tutto ovvio, è “la ragionedel più forte è sempre la migliore”.

È qui che interviene il mio settimo punto, e cioèl’università. La ricostruzione e il riconoscimento delle regole siinseriscono in un complessivo bisogno di sapere. In questi

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I forti non hannobisogno di realtà,così come non hannobisogno di leggi.Sono i deboli chedevono contaresull’esistenza digiudici, diistituzioni, di regole,che a loro voltadevono esserecondivise e legittime.La cultura italiana,con un effetto dilungo periodo che èstato ampiamentestudiato, èribellistica, e questoporta, del tuttonaturalmente,all’antirealismo, alsogno, alla fuga dalleregole, sperando cheil polverone el’anomia si possavolgere a nostrovantaggio.

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anni la sinistra ha interiorizzato l’anti-intellettualismo delladestra. Fenomeni come l’abuso della cultura pop sono daquesto punto di vista illuminanti, perché fanno passare comeculturale un atteggiamento che può essere anticulturale eradicalmente mitologico. Lo stesso vale per il culto delpresente. E da questo punto di vista la riforma dell’universitàprogettata dalla sinistra e attuata dalla destra in spiritorigorosamente bipartisan è un fenomeno clamoroso, il cuieffetto principale è stato di favorire il pubblico e soprattutodi distruggere le élites intellettuali che tradizionalmente sonostate il sostegno della sinistra, se ammettiamo, comesuggerivo più sopra, la consustanzialità di sinistra eilluminismo. La riforma parte dunque dall’istruzione edall’università, in cui abbiamo libertà di azione, in cui non cisi può appellare ai vincoli e allo spread (perché una cattivariforma costa quanto una buona). La stagione passata havisto il parlamento invaso dalla televisione. Non sarebbesbagliato che ora la biblioteca riprendesse il suo posto,magari anche in forma aggiornata e con e-book, ecertamente con la consapevolezza che avere cultura nonsignifica essere intelligenti o giusti, ma aiuta.

Infine – e questo ultimo punto potrebbe sintetizzare tuttigli altri – si tratta di riconoscere la centralità del lavoro.Essere realisti non significa in alcun modo considerarel’economia come ultima istanza di riferimento. L’economia èuna struttura con fortissimi elementi di immaginazione, e trapopulismo ed economicismo ci sono molti tratti in comune,in particolare il fatto che basta una frase lasciata sfuggire intelevisione o sul web per causare catastrofi o salvezze.L’ultima istanza di riferimento, per una politica di sinistra, èallora appunto il lavoro, come trasformazione concreta dellarealtà. A livello globale assistiamo alla realizzazione delladialettica signoria-servitù: chi produce si sta impossessandodella terra. A questo non si può rispondere con delle guerredi carta, ma con altro lavoro, che può certo essere anchelavoro intellettuale, ma deve essere lavoro, che producericchezza (il beneficio secondario consisterebbe nel restituiredignità alle persone). E se un qualche neoconservatoreeroico verrà a dirci che questo è l’atteggiamento dell’ultimouomo gli risponderemo che sì, magari è così, e che lui se lodesidera può fare lo Zarathustra e il superuomo, ma a casasua, come D’Annunzio alla Capponcina.

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La stagione passataha visto il

parlamento invasodalla televisione.

Non sarebbesbagliato che ora la

biblioteca riprendesseil suo posto, magari

anche in formaaggiornata e con e-book, e certamente

con laconsapevolezza cheavere cultura non

significa essereintelligenti o giusti,

ma aiuta.

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l 24 settembre del 2011 “The Tablet”, la maggiorerivista cattolica del Regno Unito, ricordava a tuttiuna questione di fondo, drammatica, tale daconvincere tutti al fatto che gli sforzi che oggicircondano l’Europa e l’euro non possono essere

ridotti a mero affare negoziale: “If euro falls, what pricespeace?”. Nelle pagine interne della rivista un buon articolo diStephen Wall toccava tasti meno grevi: ma già Romano Prodial convegno di Fscire e dell’Excellenz Kluster Religion undPolitik aveva spinto fino all’estremo il paragone fra l’Europadegli anni Trenta che si dissolve equella degli anni Sessanta che si raccoglie; proprio per nonrifluire ancora verso la guerra. E adesso l’affiorare di unaespressione – “a qualunque costo” – usata da Draghi, Monti,Hollande per parlare della difesa dalla speculazione, torna infondo a ridire qualcosa di tremendo e fatale. Dopo l’euro nonci sono le monete: c’è la guerra.

Come tutte le generazioni pensiamo di essere meglio deinostri padri e dei nostri nonni: il che, insegna il profeta Isaia, èuna balla. Non siamo per nulla più saggi delle generazioni dicento anni fa che sono andate ad una distruzione convinte delvalore del gesto bellico, guerra, proprio quando

giungeva al suo apogeo la cultura, la potenza e l’innocenzadi un continente che si era macchiato del più atroce criminedella storia umana, il colonialismo.

La potenza contaminante della violenza che l’Europaaveva disseminato nel mondo sarebbe diventata visibile solodopo, quando una frase del papa che nessuno beatificò,diventò la riga più celebre di tutto il magistero pontificio:“una inutile strage”.

Ciò che mancaall’EuropaAlberto Melloni dirige la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna

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Non siamo nemmeno migliori delle generazioni che sonoandate dietro ai fascismi nella seconda guerra mondiale, chehanno portato consenso ed in due casi – i Popolari in Italia, ilCentro in Germania – hanno regalato il consenso cattolicoall’esordio della catastrofe dalla quale solo dopo alcuni annidalla fine del conflitto sarebbe emersa la coscienza di ciò che laShoah era stata e ciò che la Shoah aveva disvelato.

Nel linguaggio odierno, apparentemente, non c’è nulladella cultura della violenza degli anni dieci: gli stereotipinazionalisti o le banalità geoteologiche non fanno paura,ancora. Ma insegnano rime antiche di odio: e il populismosuonato nelle orecchie di una generazione giovane daitromboni di destra e di sinistra dell’indignazione dovrebberorenderci attenti alla fatto che la tragedia scende sempre dalViale delle Banalità: dopo l’euro non ci sono le monete; c’èquella guerra che gli europei non hanno mai mancato di farsiprima che l’intuizione dei superstiti vedesse nell’unione (onella comunità, come si diceva con una espressione assai piùbella) europea il rimedio al male intrinseco.

Dietro l’euro c’è la guerra: e sulla capacità di enunciarequesto assunto – è qui che l’espressione “a qualunque costo”prende senso – è oggi ciò che misura le fragilità o la forzaculturale delle classi dirigenti europee, la cui statura del dire edel pensare è stata erosa da molti venti: quello dei partiti cheinseguono la piazza, degli intellettuali che si danno sapore colproprio narcisismo (le goût du poisson c’est la sauce, dice la cucinafrancese); e anche dalle chiese, che contro la storia hannopartecipato di questo degrado.

Le chiese infatti hanno assunto e rilanciato uneuroscetticismo che ha eroso la capacità di visione.Dimentiche che è stato un istinto cristiano (la penitenza) cheha fondato l’Europa, si sono convinte che il processo che haunificato ancorché poco il continente sia il veicolo di unasecolarizzazione selvaggia fatta di diritti indigeribili; come se lastoria non avesse insegnato che diritti un tempo negati (lelibertà di coscienza, l’uguaglianza della donna, le costituzioniparlamentari) hanno giovato alla corsa dell’evangelo nel tempo.

Contro questa Europa che, secondo il discorso del cardinalRatzinger del 1°aprile 2005, sera della morte di Wojtyła,sarebbe giunta ad “impedire alla chiesa di enunciare il suomagistero sull’omosessualità”, le chiese hanno adottato unsilenzio istituzionale e magisteriale. La Santa Sede non ha unsostituto per l’Europa, la conferenza dei vescovi europei nonha detto nulla di serio della crisi e delle sue radici, e il papa

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Le chiese infattihanno assunto e

rilanciato uneuroscetticismo che

ha eroso la capacitàdi visione.

Dimentiche che èstato un istinto

cristiano (lapenitenza) che ha

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processo che haunificato ancorché

poco il continente siail veicolo di unasecolarizzazioneselvaggia fatta di

diritti indigeribili;come se la storia nonavesse insegnato che

diritti un temponegati (le libertà di

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Benedetto XVI ha speso la sua autorità in difesa dell’Europa.Quasi che non si rendesse conto che tramite lui e la figlia delpastore Merkel rischia di posarsi una nuova ombra scura edensa sulla storia tedesca.

In secondo luogo le chiese hanno assunto e rilanciato lasfiducia nella democrazia, usandola come fosse un attrezzo,una cosa priva di valore in sé. Forzando in questo caso ilpensiero di Ratzinger (e Scola) hanno fatto di “principi nonnegoziabili” (il lessico è quello del fondamentalismo battistadegli anni Venti) una clava che cala spezza la fisiologiademocratica, fulmina il timer delicatissimo che porta allaaffermazione di valori fondamentali nella società pluralista.Così le chiese finiscono per lasciarsi usare come stampella didestre (palesi ed occulte) prive di idee, che certo non amano ladottrina cristiana, ma conoscono bene le cose che eccitano lafantasia dell’istituzione ecclesiastica.

Sicché anziché assumere in modo superficiale oopportunistico i linguaggi delle chiese con la convinzioneche questo aiuti a guadagnare quei consensi irriflessi e queivoti suffragi in eredità che in politica non sono mai esistiti, igrandi attori della società europea dovrebbero sperare che lechiese possano concentrarsi sul loro dovere fondamentale(quod vulgo dicitur “mission”): praticare la misericordia,conoscere la debolezza, dar fiducia alla coscienza formata,insegnare il disprezzo del potere, relativizzare con sapienza ilfurore ideologico. Se le chiese pospongono questo doverealle carriere e agli opportunismi, all’Europa manca qualcosa.E all’Europa qualcosa manca nel rintocco muto di ciò chevale qualunque prezzo.

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orno in primo luogo a proporre la domanda cheavevo fatto preliminarmente al mio intervento:perché siamo qui? Qual è il senso e lo scopo diquesta riunione, al di là di un sia pur utilescambio e brainstorming sui grandi temi di

attualità politica?Nelle risposte, ho colto con piacere un obiettivo ambizioso:

quello di ricostruire un pensiero politico, di dotarsi deglistrumenti teorici adatti ad affrontare le sfide del presente.

Siamo infatti di fronte a sfide inedite, a veri e proprimutamenti epocali di cui è urgente non solo prendere atto,ma fare in modo che emergano nell’agenda politica e nellesue priorità.

Non pretendo certo qui di addentrarmi in una diagnosi deltempo, ma mi preme sottolineare subito quello che a mioavviso è il quadro generale all’interno del quale inserire la miariflessione: la globalizzazione (preferisco dire l’età globale persottolineare l’insorgere di una nuova epoca rispetto allamodernità) è portatrice di problemi e rischi inediti, ma anchedi nuove chances da cogliere con attenzione.

Vediamo allora i rischi e gli aspetti problematici.Il prepotente emergere dell’egemonia dell’economia

rispetto alla politica nella sua forma moderna cheindebolisce, come ben mostra la crisi finanziaria, la sovranitàdegli Stati; la comparsa sulla scena dei cosiddetti “rischiglobali” (global warming e riscaldamento del pianeta, erosionedelle risorse e crisi ecologica, minaccia nucleare), che rivelanopienamente l’interdipendenza quale caratteristica peculiaredel mondo globale, rendendo obsolete le strategieimmunitarie della modernità.

Valorizzarele passioni civiliElena Pulcini insegna filosofia sociale presso l'Università di Firenze

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Ne deriva una condizione diffusa di insicurezza e di paurache genera un sentimento di impotenza e spinge gli individuia ritrarsi sempre più in un asfittico individualismo. Siamoormai confinati nel triste ruolo di spettatori di eventi che nonriusciamo a controllare e a volte neppure a capire. Cresceinoltre la tirannia del consumo, che in una dilagante “societàdello spettacolo” sembra compensare la fragilità delleidentità e invade sempre nuove sfere della vita (come lacultura, i sentimenti e la stessa politica), sottraendo energie erisorse a tutto ciò che non riguardi le effimere e narcisistichesoddisfazioni del presente. La paura inoltre generaregressioni “sicuritarie”, e sfocia in aggregazioniendogamiche ed esclusive, fondate sull’opposizioneNoi/loro (come appare evidente da secessionismi, rigurgitidi razzismo, revivals nazionalistici o etnico-religiosi).

Si delineano così le due fondamentali patologie della societàglobale: da un lato, un radicale individualismo che si traducenell’indifferenza, nel deficit di impegno e nella diserzionedella sfera pubblica; dall’altro un comunitarismo entropico cheripropone forme di condivisione distruttive, generandonuove forme di violenza. Sappiamo bene, facendo anchetesoro della lezione tocquevilliana, come tutto questo sitraduca in una torsione totalitaria della democrazia: gli Statisfruttano l’indifferenza e la paura per imporre forme didominio indirette e pervasive, peculiari di quello cheTocqueville chiamava il “dispotismo mite”. Assistiamo cosìall’erosione dei diritti, alla proclamazione di leggi ingiuste,all’inasprirsi del controllo sulla vita intima e privata dellepersone. Si crea in altri termini un circolo vizioso tra individuie politica, in virtù del quale i primi chiedono alla political’esonero dalla vita pubblica e la politica reagisce a sua voltaattraverso la progressiva riduzione degli spazi democratici.

La democrazia sopravvive indubbiamente in una serie diforme di protesta che attraversano il pianeta e sono animateda un risveglio di passioni collettive. E’ vero che questeassumono spesso il volto preoccupante di un diffusopopulismo: il quale nelle sue forme peggiori, va adalimentare gli inganni e le derive della società dellospettacolo producendo, come nel caso del nostro paese,mostri carismatici; e nelle sue forme migliori, appareincapace di tradursi in progetto, strategia, proposta politica.

Ma la torsione populistica non deve indurre a liquidare lelegittime istanze che emergono dalle passioni collettive e daimovimenti che ne sono l’espressione; perché il pericolo, in

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Si delineano così ledue fondamentalipatologie dellasocietà globale: daun lato, un radicaleindividualismo che sitraducenell’indifferenza, neldeficit di impegno enella diserzionedella sfera pubblica;dall’altro uncomunitarismoentropico cheripropone forme dicondivisionedistruttive,generando nuoveforme di violenza.

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questo caso, è di consegnarle alla destra e alle suestrumentalizzazioni senza scrupoli (credo ancora nelladistinzione tra destra e sinistra!).

Mi chiedo perché la sinistra non abbia mai fatto seriamente iconti con una teoria delle passioni chiudendosi spesso in unoscettico snobismo, mi chiedo perché non sembri prendere sulserio il fatto che ogni mobilitazione poggia sempre e comunquesu componenti emotive; le quali quindi hanno bisogno diessere comprese e differenziate, incoraggiate laddove ènecessario, frenate laddove assumono torsioni negative.

Per fare solo un esempio: come rapportarsi di fronte alfenomeno dilagante dell’indignazione? Come far sì che essapossa essere compresa e rispettata come l’humus necessarioda cui nasce una protesta legittima, e allo stesso tempoevitare che degeneri in sterile risentimento? Penso che abbiaragione il filosofo Sloterdjk quando sostiene che si è persa

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oggi la capacità di raccogliere le energie emotive chescaturiscono dall’ira e dall’indignazione in “banche d’ira”capaci di dar vita a movimenti emancipativi. Non dovrebbeessere uno dei compiti della sinistra quello di favorire ilcoagulo delle passioni di lotta veicolandole verso rispostedemocratiche?

Ma non solo.È indubbio infatti che dalla società civile non emergono

solo passioni di lotta, tese alla legittima rivendicazione di diritti ealla lotta contro l’ingiustizia. Disponiamo anche di un tessutodi mobilitazione animato da quelle che vorrei definire passionipubbliche e solidali: dai Social forum mondiali ai referendumlocali sull'acqua, dall'arcipelago del volontariato alla difesadell'ambiente, dalle associazioni civili che si organizzanocontro il degrado di un quartiere all'impegno dei docenti dellascuola verso l'educazione alla legalità e al rispetto del diverso;per non parlare, last but not least, dell’impegno delle donnecontro la mercificazione del corpo e le seduzioni avvelenatedella società dello spettacolo. Insomma, esistono areemolteplici nelle quali l'obiettivo dell'impegno civile va oltre lastessa lotta per i diritti e la giustizia, nelle quali emerge unprepotente bisogno di condivisione solidale attorno alla parolad'ordine di un futuro migliore.

Lo slogan, argutamente ironico, "il futuro non è più quellodi una volta", usato qualche tempo fa nell'ambito delle lottedegli studenti in Italia, esprime qualcosa di più della pursacrosanta lotta per il diritto al lavoro, in quanto contiene,appunto, la nostalgia per l'idea stessa di futuro. Neldenunciare la perdita di futuro, che paradossalmentesmentisce e rovescia le promesse stesse della modernità con isuoi miti del progresso e del benessere, i giovani sembranovolersi riappropriare non solo dei loro diritti, ma anche diuna diversa immagine del mondo. E pensare una diversaimmagine del mondo, significa, qui ed ora, prendere in cura ilmondo, farsi carico responsabilmente del suo futuro.

Paradossalmente, come ho premesso sopra, l'età globale,portatrice di rischi e sfide inediti, sembra allo stesso tempofornire le condizioni oggettive per la condivisione e l'agirecomune. Per la prima volta infatti, nel corso della storia,siamo tutti legati e interdipendenti; per la prima volta unevento locale può avere conseguenze planetarie (bastipensare all'11 settembre o alla crisi finanziaria), e viceversaun evento globale può coinvolgere le zone più remote dellaterra (come il riscaldamento del pianeta). Ma questo vuol

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Nel denunciare laperdita di futuro, cheparadossalmentesmentisce e rovesciale promesse stessedella modernità coni suoi miti delprogresso e delbenessere, i giovanisembrano volersiriappropriare nonsolo dei loro diritti,ma anche di unadiversa immagine delmondo. E pensareuna diversaimmagine delmondo, significa, quied ora, prendere incura il mondo, farsicaricoresponsabilmente delsuo futuro.

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dire anche che, senza ovviamente trascurare le disuguaglianzee senza negare le differenze, siamo tutti membri di un'unicaumanità potenzialmente esposti agli stessi rischi e allo stessodestino, e vincolati gli uni agli altri nella possibilità di unprogetto comune.

Insomma l'interdipendenza può diventare una chance,purché diventi oggetto di una consapevolezza soggettiva epreluda alla mobilitazione di passioni pubbliche e solidali. Inquesto, la politica può avere una funzione feconda einsostituibile: nel promuovere questa consapevolezza etrasformare l'interdipendenza in un valore, nel dare visibilitàad eventi che a dispetto della loro importanza non hannol'appeal massmediale sufficiente ad ottenere l’attenzione chemeritano, nel raccogliere e valorizzare esperienze che per ilmomento restano frammentarie e prive di coordinazione.

Si parla spesso di ricostruire la società civile, di ricucire lostrappo tra individui e politica. Valorizzare e stimolare lepassioni pubbliche mi pare un primo passo in questadirezione: per lo sviluppo di un associazionismo civile checolmi lo spazio vuoto tra gli individui e le istituzioni ericostruisca una rete di solidarietà e di attiva partecipazione.Ma perché questo avvenga, è necessario che la politicadiventi quell'agire di concerto nel quale Hannah Arendtriconosceva la precondizione per un nuovo inizio.

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ffronto due temi, dedicando al secondomaggiore spazio: il ruolo dell'economia e lamutazione della democrazia.

Quando si parla di egemoniadell'economia occorre secondo me fare una

precisazione: l'economia della quale lamentiamod'egemonia non è l'economia politica quale la intendiamonoi “umanisti” ma neppure la scienza del benessereeconomico che si studia e si insegna nei dipartimentieconomici. I protagonisti della crisi economica scoppiatanel 2007, con l'avvisaglia venuta dall'Islanda e dall'Irlanda,vengono dalla Business School prima che dai Dipartimentidi Economia. Gli obiettivi dei tecnici del profittofinanziario sono assolutamente semplici e settoriali,oggetto di algoritmi e grafici. È dunque una disciplina chenon si occupa più del benessere della società, dellaproduzione e della ricchezza nel senso classico. La celeritàdegli scambi sui mercati azionari e l'andamento verso ilbasso o verso l'altro sono il motore che muove calcoli eprevisioni a breve.

Mentre è giusto criticare l'egemonia dell'economiaoccorre nel contempo evitare demonizzazionidell'economia; si tratterebbe semmai di riportarla alla suavocazione classica e nobile, quella che la qualificava comeuna componente essenziale della politica. Economia comescienza dei mezzi per il benessere della società e non cometecnica di accumulo del denaro. Come scienza sociale noncome branca della matematica.

Un effetto collaterale di questa trasformazionescientistico-razionalistica dell'economia (unatrasformazione che è iniziata alla fine del diciannovesimosecolo) è di aver impresso una radicale trasformazionedelle discipline sociali e politiche, anch'esse dominate dalla

Oltre l'egemonia dell'economia

e la democrazia plebiscitaria

Nadia Urbinati insegna scienze politiche alla Columbia University di New York

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riduzione metodologica che ha cambiato l'economiapolitica: metodo del rational choice (teoria della sceltarazionale) e lettura dei comportamenti politici comereazioni di individui che hanno obiettivi razionali e fannocalcoli di costi e benefici per riuscire ad attuarli. Il ruolodelle emozioni e delle passioni, e quindi dell'ideologia,perdono di senso oppure figurano come strategieintenzionali messe in atto da un attore (un'elite) peracquisire e preservare il potere con il consenso manipolatodei cittadini. Questa trasformazione strumentalista erazionalistica della disciplina della scienza politica è internaalla trasformazione dell'economia.

Certo, la lettura strumentalista dei processi decisionalinon è inutile; anzi, la scienza politica ha beneficiato di essa,in quanto i comportamenti collettivi quando sonoorganizzati secondo norme e procedure (istituzioni)possono essere previsti e i loro effetti controllati o diretti.Tuttavia l'azione politica non si compone soltanto dicomportamenti istituzionali o istituzionalizzabili. Nellesocietà democratiche c'è una parte importante dell'agirepolitico che è fuori delle istituzioni, anche se in dialogocon esse, e che è organizzato secondo un metodo che lecarte costituzionali garantiscono e proteggono: quello dellalibertà, che significa costruzione e trasformazionedell'opinione politica e pubblica, elaborazione di progetti eprogrammi su come meglio governare i processi sociali,costruzione di movimenti politici per la conquista dimaggioranza o l'abbattimento di maggioranze esistenti.

La politica nelle società democratiche è una diarchia:volontà sovrana che è normata o istituzionalizzata egiudizio politico che è costruito con azioni ideative ecollettive di cittadini associati in partiti politici emovimenti. Dimensione istituzionale e dimensione deliberativacorrispondono alle due forme della disciplina che studia lapolitica, composta di un settore sottoposto a analisirazional-scientifica, e un settore sottoposto all'arte dellapolitica come azione organizzati di cittadini liberi cheusano il discorso per modellare e creare consenso, epromuove dissenso. Due dimensioni che con l'egemoniamatematica della disciplina economica rischiamo diannullarsi in una: la produzione di decisioni, come rispostenecessarie a fatti oggettivi determinati e controllatidall'andamento dei mercati finanziari. Il decisionismo incui l'arte della politica si è via via trasformata è figlio della

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Nelle societàdemocratiche c'è una

parte importantedell'agire politico che èfuori delle istituzioni,

anche se in dialogocon esse, e che è

organizzato secondoun metodo che le carte

costituzionaligarantiscono e

proteggono: quellodella libertà, che

significa costruzione etrasformazione

dell'opinione politica epubblica,

elaborazione diprogetti e programmi

su come megliogovernare i processi

sociali, costruzione dimovimenti politici per

la conquista dimaggioranza o

l'abbattimento dimaggioranze esistenti

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semplificazione dell'economica politica in tecnicafinanziaria.

Recuperare la diarchia della politica – istituzioni (edecisioni) e sfere pubblica del discorso (costruzione delgiudizio pubblico) è un obiettivo centrale della politicademocratica.

Passo così alla seconda parte sulla mutazione dellademocrazia. Dietro un'espressione imprecisa e piena diambiguità come “antipolitica” si fa strada l'idea che noi citroviamo a fare le esequie ai partiti sostituendo allademocrazia dei partiti la democrazia del pubblico.Propongo di evitare questa semplificazione. L'idea chepropongo è che nella democrazia contemporanea (quellaitaliana in modo molto visibile) i partiti politici, essenzialiattori del sistema rappresentativo fin dalla sua apparizionenell’Inghilterra dei commonwealthmen, hanno mutato la lorofunzione ma non sono decaduti o finiti come spesso si sentesostenere; a questa loro mutazione è corrisposta unatrasformazione della democrazia da rappresentativa aplebiscitaria, con la precisazione che il plebiscitarismocontemporaneo non è fatto di masse mobilitate da leadercarismatici auspicato Max Weber e teorizzato Carl Schmittcome forma più completa di democrazia. Il nuovoplebiscitarismo è quello dell’audience, l’agglomerato indistinto diindividui che compongono il pubblico, un attore noncollettivo che vive nel privato della domesticità e quando èagente sondato di opinione opera come recettore ospettatore di uno spettacolo messo in scena da tecnicidella comunicazione mediatica e recitato da personaggipolitici. La personalizzazione del potere e della politica èun sintomo e un segno tanto della trasformazione deipartiti che della formazione della democraziadell’audience. Circa la trasformazione dei partiti, essariguarda il loro dimagrimento democratico al qualecorrisponde un’obesità di potere materiale effettivo nelleistituzioni dello stato e, soprattutto, la catena di funzioniche si dipana dall’esecutivo, il potere dello stato che questatrasformazione ha esaltato oltre e sopra quello delparlamento. Non è per questo convincente presentare lademocrazia dei partiti come una fase, ormai tramontata,della storia del governo rappresentativo (questa è la tesisostenuta da Bernard Manin). Vero è che essa è diventata atutti gli effetti una democrazia “dei” partiti, cioè esercitatada loro senza più cercare (prima ancora che avere) un

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rapporto con i cittadini che non sia di strategia orientataalla conquista dei voti: democrazia “dei” invece che “permezzo dei” partiti.

Il declino dei partiti è quindi declino di una formademocratica di essere del partito politico; un declino che simanifesta con il restringimento fino alla scomparsa dellasua struttura organizzativa periferica o territoriale, segnotangibile di una trasformazione di funzione, poichél’organizzazione (partito pesante) si addice a un partito chedeve cercare un rapporto molto stretto e continuativo (nonsolo nel momento delle elezioni) con i cittadini, permuoverli o renderli partecipi (a favore di una parte)attraverso narrative ideologiche che creano identità diappartenenza o di ispirazione ideale e fungono dastrumenti interpretativi e critici (mi riferisco all'importantelavoro di Mauro Calise). L’erosione del partito-organizzazione non ha significato la fine del partito, ma lafine di un partito che aveva bisogno e cercavainnervamento nella società perché aspirava a costruireconsenso e ottenere un’affermazione che non era solonumerica, ma era anche di progetto. Quel partito pesanteperché basato sull’organizzazione era per metà dentro eper metà fuori delle istituzioni statali, cerniera tra stato esocietà, un corpo intermedio della democrazia rappresentativache svolgeva varie funzioni di limitazione del potere:selezione degli eleggibili, controllo degli eletti (che il liberomandato rende legalmente irresponsabili verso i cittadini),stimolo e orientamento dell’opinione; infine esso fungevada scuola vera e propria per la formazione del personalepolitico delle istituzioni periferiche e centrali dello stato.Nei primi decenni del secondo dopo guerra, età dellaformazione e del consolidamento della democraziarappresentativa in Europa, la democrazia dei partiti hagestito il reclutamento tra cittadini/e ordinari/e di sindacie dirigenti, di parlamentari e ministri.

Con i nuovi partiti liquidi o leggeri, la funzione dicaptare gli interessi e le opinioni, una funzione che è dirappresentatività, è svolta non più dalle idee e dallenarrazioni ideologiche ma dai sondaggi. Se non che isondaggi servono al partito non per rappresentare almeglio o anche indirizzare la politica governativa ma pervincere le elezioni e seguire al meglio gli umori sociali. Ildeclino del partito-organizzazione ha corrisposto alla crescitadi un partito-spugna, che segue cioè i flussi e in qualche

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modo li irrora o alimenta ad arte per meglio guadagnareconsenso. Infine, il partito leggero è di difficile controlloda parte dei cittadini simpatizzanti e iscritti che nondispongono più di strutture e regole per l’articolazioneinterna del dissenso e del controllo, mentre è propenso aesaltare la persona del leader e per questo può farsiistigatore di politiche populistiche, se trova ciòconveniente, invece di essere una diga che le argina comeera il partito-organizzazione.

Questo slittamento da organizzazione a liquidità eprofessionalizzazione sondaggistica, da educatore politicoa seguace e istigatore degli umori popolari fa sì che lademocrazia “dei” partiti sia una democrazia protesa versonuove forme plebiscitarie. È questo l’aspetto che fa daretroterra alla trasformazione della democrazia dademocrazia del partiti a plebiscito dell'audience.

La democrazia del pubblico, quella che chiamoplebiscitarismo dell’audience. Schmitt interpretò lademocrazia plebiscitaria facendo leva sul mutamento disignificato del “pubblico” da una categoria giuridico-normativo (ciò che pertiene allo stato civile) a unacategoria estetica, come di ciò che è esposto alla vista eesistente in senso teatrale (ciò che è fatto davanti agli occhidel popolo). Questa visione romana del pubblico – con lacentralità del forum – ritorna nel plebiscitarismocontemporaneo. La rinascita degli argomenti e delle ideeche pilotarono la crisi del parlamentarismo nei primidecenni del ventesimo secolo – quando la concezioneplebiscitaria prese una configurazione alternativa allademocrazia rappresentativa o dei partiti – è un’indicazionepreoccupante del nuovo filone di ricerca teorica eapplicazione pratica interno alla democraziacontemporanea, un filone ancora una volta critico neiconfronti della struttura parlamentare e della funzionemediatrice dei partiti politici. Il declino della democraziadel partito politico e la crescita della democrazia del pubblicosignifica radicale personalizzazione della leadership; lapolitica come luogo nel quale creare la fiducia nel leader.L'accettazione di una crescente richiesta di poterediscrezionale da parte dell’esecutivo si incontra con unmutamento nell’organizzazione della democrazia elettoraleche è ora gestita non più da partiti di leader e di militanti,ma da partiti di esperti della comunicazione e di candidatialla carriera politica. “La democrazia dell’audience è

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Il declino dellademocrazia delpartito politico e lacrescita dellademocrazia delpubblico significaradicalepersonalizzazionedella leadership; lapolitica come luogonel quale creare lafiducia nel leader.L'accettazione di unacrescente richiesta dipotere discrezionaleda parte dell’esecutivosi incontra con unmutamentonell’organizzazionedella democraziaelettorale che è oragestita non più dapartiti di leader e dimilitanti, ma dapartiti di esperti dellacomunicazione e dicandidati allacarriera politica.

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governo degli esperti di media,” e quindi la celebrazionedel “potere oculare”. Mentre nell’età della democrazia deipartiti politici le elezioni erano fortemente basate sulladimensione vocale e l’aspetto volitivo della politica – lapartecipazione alla decisione era espressione della formaclassica della sovranità popolare che i partiti siincaricavano di organizzare – l’apparire in pubblico o ilsottoporsi al verdetto dell’audience è ora ciò che definiscel’arte della politica.

La transizione dalla centralità della cittadinanza comeautonomia alla centralità della visione e della trasparenza èsegno distintivo di questa trasformazione. La voce è infattil’organo di un’azione politica che vuole essere di propostae di critica, espressione di una idea di partecipazione attivao protesa alla decisione secondo la definizione classicadella sovranità democratica come autonomia oautogoverno, cioè il darsi leggi. D’altro canto, la visione èl’organo di un’azione giudicante non attuativa, valutativa diqualcosa che esiste e altri fanno e che si mostra all’occhiodi chi è titolato a giudicare piuttosto che agire. Parole,discussione e conflitti tra idee e interessi (o tra programmidi partiti), ovvero deliberazione in senso lato, sono centraliquando la voce è il centro della politica; trasparenza o“candore” (nel senso romano classico per cui chi sicandidava metteva una stola candida dando così il segno divolersi esporre al pubblico) sono centrali nel caso dellademocrazia dell’audience, in cui l’organo del poterepopolare diventa “l’osservazione” piuttosto chel’“autonomia.”

La democrazia dell'audience plebiscitario risulta in undivorzio interno alla sovranità popolare tra il popolo comecittadini partecipanti (con ideologie, interessi e l’intenzionedi competere per ottenere la maggioranza) e il popolocome un’unità impersonale e completamente libera dainteressi che ispeziona e giudica il gioco politico giocato daalcuni e gestito da partiti elettoralistici. La partigianerianon è espulsa dal dominio della decisione; è espulsa dalforum, nel quale il popolo sta o opera come pubblico ouna massa indistinta e anonima di osservatori che comesupremo spettatore “guarda soltanto” e giudica ma “nonvuole vincere” nulla.

Il prezzo per diventare un leader in questa democraziaplebiscitaria deve essere reso alto e costoso: questa èl’unica arma di controllo che l’audience ha dalla sua. Il

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Il prezzo perdiventare un leader

in questa democraziaplebiscitaria deve

essere reso altoe costoso: questaè l’unica arma

di controlloche l’audienceha dalla sua.

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costo che il leader deve pagare in cambio del potere chegode è la rinuncia di molta parte della sua libertàindividuale. Il leader si mette completamente nella manidel popolo-audience perché è permanentemente sotto isuoi occhi. Ma dalla considerazione convincente sul“peso” della pubblicità che il politico eletto sopporta edeve mettere in conto non discende l’assicurazione cheportare il leader sul palco del teatro pubblico comporteràeo ipso rendere il suo potere limitato e controllato. Ladecostituzionalizzazione delle democrazie plebiscitarieriposa sull'assunto che il vero controllo democratico sial’occhio popolare – controllo superiore a quello dellenorme costituzionali. Ma come ha dimostrato l'Italianell'era Berlusconi, essere permanentemente sotto l’occhiodei media che si intrufolavano nella sua vita non era perrivelare i potenziali illeciti del Premier ma per soddisfare lasete di scandali da mettere in pubblico. Creare il mercatodegli scandali e dare all’opinione pubblica la forma ditabloid non è servito a controllare o limitare il potere diBerlusconi. Il paradosso di insistere sul fattore esteticodell’opinione pubblica a spese di quello cognitivo e diquello politico-partecipativo è che non tiene conto delfatto che le immagini sono la sorgente di un tipo digiudizio che valuta gusti più che fatti politici, ed è quindiirrimediabilmente soggettivo.

Per comprendere il modello di democrazia plebiscitariadell’audience lo si deve mettere a confronto con gli altridue modelli che si sono consolidati negli anni dellademocrazia per mezzo dei partiti, quello deliberativo(razionalistico e normativo) e quello proceduralistico(realistico e strumentale), il primo associato al nome diJürgen Habermas e il secolo al nome di Joseph A.Schumpeter. Gli argomenti che i deliberativisti e iproceduralisti hanno avanzato sono essenzialmente etici emorali, fatti o nel nome del principio di universabilità degliargomenti razionali come principio legittimante o nelnome dei principi di aggregazione delle preferenze ericambio periodico degli eletti come le sole viepragmatiche per risolvere la carenza di razionalitàcontenuta nelle opinioni politiche senza rinunciare allalibertà ovvero al consenso elettorale. I teoricihabermasiani e quelli schumpeteriani concepiscono lademocrazia come un ordine politico che è basatosull’autonomia e il voto, una visione dell’attività politica

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che è centrata sulla decisione e la voce. Essi trattanol’opinione dell’individuo privato come una realtà che nondovrebbe entrare nel dominio politico senza subiretrasformazioni. Gli habermasiani propongo di ottenere ciòfiltrando le opinioni private attraverso la deliberazionerazionale e pubblica (usando la grammatica dei diritti edella legge, non quella delle credenze o delle convenienzepersonali), gli schumpeteriani estraendo dalle opinioniprivate l’unità numerica di calcolo, il fatto misurabile delvoto (un dato che il conteggio rende insindacabile e metteal riparo dalle interpretazioni personali). Queste duestrategie sono ciò che la democrazia plebiscitariadell’audience contesta e confuta quando oppone allaintermediazione del giudizio riflessivo (per mezzo delleragioni pubbliche o dei partiti) quello reattivo ed emotivoalle immagini.

Quando i cittadini votavano per partiti con piattaformee programmi esercitavano il loro giudizio sulla politicafutura, il loro voto non esprimeva semplicemente la fiducianella persona del notabile anche perché l’immagine delcandidato non si sostituiva alle aspettative future deglielettori come succede nella democrazia plebiscitaria, dovele elezioni sono incentrate sull’immagine del candidato e ilriferimento ai programmi e alle piattaforme politiche èpressoché irrilevante. La conseguenza è che anchel’accountabiliy (la rispondenza degli eletti agli elettori) vienea perdere rilevanza poiché gli elettori non hanno più alcuncontrollo, seppure indiretto, sulle questioni pubbliche e lepolitiche, nemmeno durante la campagne elettorali.Dunque, la trasformazione dal discutere e dibattere (evotare sui programmi) al guardare e giudicare stando inuna posizione spettatoriale è un segno di malessere non unmiglioramento democratico.

Per ritornare alla considerazione fatta nella prima parte:la politica democratica dovrebbe essere guidatadall'obiettivo di preservare la diarchia di potere che lacaratterizza: potere istituzionalizzato e potere giudicate odell'opinione.

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Carta d’intenti

Leggi il testo completo della Carta d'Intenti sul sito del Partito Democratico

www.partitodemocratico.it/cartadintenti

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el 1901 Bolton King, primo biografo diGiuseppe Mazzini, così descriveva l’Italia e la«decadenza dei partiti» che caratterizzava quelperiodo storico: «L’azione [dei partiti] sembrapoco meno di un’interessata lotta per

raggiungere cariche pubbliche e di una cieca resistenza aforze che non sanno comprendere e assimilare e pertantotemono. La politica italiana si è annebbiata: niente lo mostrain modo più penoso della differenza che corre fra la Destra ela Sinistra di oggi, rispetto agli uomini che governaronol’Italia nuova nei suoi primi tempi».

Nell’agosto 1945 Alcide De Gasperi tenne un discorso alConsiglio Nazionale della Dc in cui ricordò che, a soliquattro mesi dalla fine della guerra di Liberazione, gli italianisi mostravano «stanchi dei partiti», in preda a una «atarassiadilagante». Negli stessi mesi un protagonista della lottapartigiana come Emilio Lussu notava amareggiato che il«“partito del malcontento” in Italia era sempre esistito sin daitempi “di Pasquino e Marforio”» e «si sarebbe potutochiamare movimento o partito “piove, governo ladro!”».

Da allora è trascorso tanto tempo e oggi molti guardano aquel passato ormai lontano con un sentimento di nostalgiatroppo spesso acritico che induce a contrapporremeccanicamente l’età dell’oro della partecipazione e dellarappresentanza all’età bronzea dei tempi attuali,caratterizzati dalla disaffezione politica e dalla perdita diautorevolezza dei partiti.

Per sfuggire i rischi insiti in ogni processo diidealizzazione, l’altra faccia della rimozione, è utile essereconsapevoli che l’indifferenza o il malanimo degli italiani, e

Civismo e PDsi diano la manoMiguel Gotor insegna Storia moderna all’Università di Torino

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soprattutto di gran parte delle sue classi dirigentieconomiche, industriali, finanziarie, editoriali, verso i partiti ela politica rappresenta un costume antico della storianazionale, alimentato dal carattere ristretto assunto dalprocesso risorgimentale, dal successo del regime fascista cheha costituito una straordinaria miscela di antipolitica e diiperpolitica, e che si è incrostato nel corso della crisi deglianni Settanta, allorquando ha iniziato a trasmigrare dalladestra alla sinistra, dopo il fallimento delle speranzerivoluzionarie di una generazione super impegnata sulterreno dell’ideologia e della militanza.

Intendiamoci: la cosiddetta antipolitica, un termine chenon mi piace perché nasconde al suo interno tutto e ilcontrario di tutto, è in realtà anche una richiesta travolgentedi buona politica. Affinché questa domanda trovi unarisposta soddisfacente e non sia sfruttata in sensoconservatore o reazionario è anzitutto necessario non fare diogni erba un fascio e quindi esercitare l’arte critica delladistinzione. È obbligatorio farlo in quanto altrimenti si faoggettivamente il gioco dei ladri che guardano conbenevolenza a un discorso che alimenta l’idea di una notte incui tutte le vacche sono nere e di quanti puntano al disonoredella politica e alla sua incessante alimentazione mediaticaper aumentare la propria sfera di influenza in campogiornalistico o imprenditoriale.

Per comprendere il problema e spiegarlo non bastafornire una risposta semplicistica, che riguarda l’elenco degliepisodi di malaffare e degli scandali di questi ultimi mesi eanni. Essi ci sono sempre stati, con forme di corruzione nonmeno gravi di queste. Il dominio pubblico di questo discorsoè in realtà l’ultima forma assunta dall’egemoniaberlusconiana nella sua fase declinante: egli è entrato inpolitica svalutandola, presentandosi come l’imprenditore delfare contro il Palazzo e i suoi corrotti. È stata la crisi di quelmondo di potere a provocare un’esplosione del fenomeno, inbase all’idea di una presunta corresponsabilità di tutti glischieramenti e le forze politiche, in cui, ancora una volta,non si vuole distinguere.

Sul piano politico, ci sono almeno tre scelte da compiereper reagire all’attuale situazione: rispondere alla sacrosantarichiesta di trasparenza, di sobrietà e di correttezza concomportamenti e atti conseguenti; provare a colmare la fagliache si è aperta tra politica e cittadinanza attraverso lapartecipazione civica che consenta di valorizzare e mettere in

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Sul piano politico, cisono almeno tre scelteda compiere perreagire all’attualesituazione: risponderealla sacrosantarichiesta ditrasparenza,di sobrietàe di correttezza concomportamenti e atticonseguenti; provareacolmare la faglia chesi è aperta tra politicae cittadinanzaattraverso lapartecipazione civicache consenta divalorizzare e metterein opera le tanteenergie inespresse osoffocate che esistononel Paese e, infine,assumere unaconcezione dellapolitica come limite,costringendola a fareun passo in dietrorispetto al civismo.

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opera le tante energie inespresse o soffocate che esistono nelPaese e, infine, assumere una concezione della politica comelimite, costringendola a fare un passo in dietro rispetto alcivismo. Un movimento in cui la politica accetta di farsipenetrare e modificare, ma allo stesso tempo, proprio invirtù di quest’azione di apertura, ribadisce la propriadignità e autorevolezza.

Questi tre atti sono un passaggio ineludibile per realizzarequella ricostruzione civica del Paese in cui il civismo e unpartito rinnovato nelle sue modalità di agire devono darsi lamano e camminare insieme.

Da questa analisi e dalla consapevolezza dello stato diemergenza raggiunto scaturisce la proposta del segretario delPartito democratico di convocare le primarie di coalizione inderoga allo statuto del partito. Un atto di coraggio duplice,da un lato teso a verificare e reinvestire il proprio consenso equello del Pd e, dall’altro, rivolto verso l’interno del partito,per stimolare i suoi gruppi dirigenti centrali e periferici adandare in campo aperto, non rinchiudendosi in un fortino dicertezze e rendite di posizione. Piuttosto bisogna guardare lagente in faccia per costruire la base di quel consenso checonsentirà al Partito democratico di porsi, nel momento dellacompetizione elettorale, come forza che ambisce al governoed è in grado di raccogliere la sfida riformista che esso

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comporterà. È doveroso rischiare per recuperare la qualitàdella politica, non basta andare in televisione a dire di volerlofare, bensì è necessario avviare processi politici effettivi ecomportamenti conseguenti che implichino il senso di unascommessa che mette in gioco l’essenza stessa e l’energiariformatrice del Pd.

La governabilità di questo Paese, infatti, soprattutto intempi difficili come questi potrà essere assicurata soltanto sesi stabilirà un’effettiva connessione sentimentale traesecutivo e corpo elettorale. Solo così si potrà raggiungere ilduplice obiettivo di valorizzare le esperienze miglioridell’attuale governo Monti e di portare all’opposizione, per laprima volta negli ultimi vent’anni, tutti i populismi esistentisullo scenario politico nazionale.

Si tratta di una sfida nobile che ha illustri quantopreveggenti progenitori. Beniamino Andreatta in un articolopubblicato nel 1977, intitolato Strutture organizzative per unanuova strategia nella società italiana, toccava pubblicamente per laprima volta il tema della selezione della classe dirigente dellaDemocrazia cristiana che per rinnovarsi avrebbe dovutoaprirsi alla società civile attraverso periodici referendum diconsultazione anche dei non iscritti e allargare così il proprioconsenso. Un passaggio obbligato, che avrebbe dovutocomportare un processo di spoliazione del potere e cheavrebbe garantito alla Dc di sopravvivere alla crisi delsistema dei partiti.

Anche Enrico Berlinguer, in un articolo del 1979 sulCompromesso storico e i suoi avversari, denunciava gli affanni dellademocrazia italiana, cogliendo la crisi della forma partito ecollegandoli all’emergere di una vera e propria questionemorale. Egli si diceva preoccupato «e molto che in unasituazione quale quella attuale prevalgono l’ottusità delpragmatismo, le miserie del qualunquismo, i calcoli brevidell’opportunismo: tutti portatori di acqua al mulino delladisgregazione e dell’imbarbarimento del Paese».

Da questi ammonimenti di Andreatta e di Berlinguer sonotrascorsi tanti anni e il mondo di oggi èincommensurabilmente diverso da quello di allora, ma latenacia e la forza dei loro messaggi, che individuano iprincipali avversari di ogni cultura democratica, restanoattuali e devono motivare l’atto di coraggio che il segretariodel Pd ha richiesto al suo partito, un coraggio di cambiare edi governare utile a preparare giorni migliori per l’Italia.

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on bastano le parole», dice la Carta degli intentidel Pd, con una nota sincera, «dal sen fuggita»,di realismo. No, non bastano per colmare «lafaglia», il crepaccio minaccioso che si è apertotra la grande maggioranza dei cittadini italiani e

il «ceto politico». Metto tra virgolette questa espressione cheallude alla politica come conquista del seggio, del vitalizio,della prebenda; una politica che appare così quando unsistema democratico non dà più rendimenti, come nel 92-93.Con altrettanto realismo ho detto che il crepaccio taglia fuori«la grande maggioranza» dei cittadini, non tutti, perché nondobbiamo fingere di non vedere che i beneficiari dellapolitica interpretata dal «ceto», che i più aggressivi vogliono«casta», sono un numero ragguardevole. La società civile,come è noto, non è composta di soli innocenti e seconsideriamo tutto l’«indotto» del fatturato della politica.D’altra parte sappiamo non da oggi che un certo«radicamento» del voto ha il segno dello «scambio»: favoricontro preferenze. Lo spettacolo della Regione Lazio hamostrato dosi estreme di squallore del «ceto», nella formache gli ha dato una destra senza classe dirigente, ma non c’èda farsi troppe illusioni sul centro e sulla sinistra: esitazioni esilenzi delle opposizioni sono indicativi di un certoaccomodamento con il corso delle cose.

Si capisce che il populismo, nelle sue forme classiche diagitazione antipolitica, trova nel malessere economicosommato allo spettacolo di questo «ceto» il carburante perfare strada. Messi alla prova i tribuni populisti, a causa dellaloro vaghezza istituzionale e del loro rancore contro lademocrazia, si rivelano sempre più pericolosi dei loro

Non bastanole paroleGiancarlo Bosetti è direttore dell’associazione Reset - Dialogues on Civilizations

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avversari. Il programma e il linguaggio di Grillo parlano diun popolo «che prende in mano il proprio destino», ma nonsi capisce bene esattamente come, e contengono promesse dibenessere, salute, opere pubbliche, più treni e più tutto, chenon si vede come si potranno mai realizzare. Allainconcludenza segue di solito un «ceto» peggiore delprecedente. Abbiamo già misurato il sapore di questo décalagecon Di Pietro e il suo De Gregorio.

«Non bastano dunque le parole», è sicuro, ci voglionocomportamenti, azioni e coerenze. E nel momento in cuisfida il populismo, il Pd sceglie un avversario appropriato,una minaccia reale. Purtroppo la forza delle evidenze e delleazioni che testimoniano una buona conduzione della cosapubblica non è così schiacciante come si vorrebbe. Nellecittà e nei comuni la sinistra conserva ancora un buoncapitale di fiducia, ma non basta. Il ritiro della politica daaree che non le competono è una buona intenzione, ma checosa ha impedito o impedisce al Pd di fare i passi che puresarebbero alla sua portata? E che dovrebbero essereannunciati e fatti ora, con una terapia shock. Perché non hadato battaglia contro una gestione della sanità che apparepressoché ovunque inquinata da partiti invasivi e affamati di

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Nel momento in cuisfida il populismo, ilPd sceglie unavversarioappropriato, unaminaccia reale.Purtroppo la forzadelle evidenze e delleazioni chetestimoniano unabuona conduzionedella cosa pubblicanon è cosìschiacciante come sivorrebbe.

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denaro, da Milano a Bari? E perché il Pd non ha compiutouna svolta netta nella comunicazione, liberando il campo dalmostruoso ingombro della Rai dei partiti?

Qui l’Italia è un soggetto sotto osservazione, eripetutamente ammonito dalla Commissione europea e dalConsiglio europeo. Badate che siamo ancora e sempre unpaese «PF» (solo «parzialmente libero») per Freedom House.Chi risponde che è colpa di Berlusconi ha molte ragioni, mafinge di ignorare che nel generarsi della oscena situazioneattuale (il 58 per cento delle risorse pubblicitarie alle tvgeneraliste, un massacro per la stampa, senza eguali nelmondo), la Rai ha avuto una colossale funzione di alibi, dipunto di leva per la creazione speculare di un monopoliocommerciale privato. Lo statu quo della Rai è oggi presidiatoe difeso da Berlusconi come ancora di salvezza per il suopericolante impero economico. E in questo stato di cose ilPd continua imperterrito a «coccolare» le sue quote dipresenza, il suo canale prediletto, le sue trasmissioncine,senza capacitarsi che questi sono contentini che mantengonoviva l’infezione generale di un sistema malato.

Arduo il compito, si capisce. La rottura di abitudinidiventate strati storici, sedimenti rocciosi, istituzioni, carriere,è impresa per animi forti. Ma non stiamo parlando di questo?O si spera di farcela nell’alveo di una inerziale, residualetenuta di un vecchio paziente elettorato, da coltivare conBallarò e il Tg3? Non sottovalutiamone il peso: nellatempesta potrebbe essere un appiglio per tenersi in piedi. Maè questa la via d’uscita dalla terribile impasse in cui siamo?

Sarebbe il momento di coltivare una profondarigenerazione del progetto che il PD è stato, ma i tempipresentano una strettoia ravvicinata. E allora c’è da augurarsiche una vera battaglia, aperta, a esito non scontato, nelleprimarie, e poi una campagna elettorale su un’agendaeuropea che prosegua e completi il lavoro iniziato con ilgoverno Monti, producano quelle azioni e coerenze, con cuiil Pd possa mostrare di sapere separare la sua storia da quelladi un «ceto politico» fallimentare e fallito.

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ono decenni ormai che il tema del rapporto tragenitori e figli, e più in generale il rapporto tra legenerazioni, alimenta un dibattito che sembranon trovare mai alcuna risposta adeguata.Gramsci era molto attento alle rivolte giovanili e

giustamente, al di là del merito delle questioni sollevate dallenuove generazioni, affermava che l'insorgenza del conflittometteva in evidenza una inadeguatezza dei rapporti socialiesistenti che certamente non sapevano contenere etrasformare il confuso movimento degli studenti. Maproprio a partire da queste considerazioni, che mettono incampo una riflessione sulle dinamiche sociali, il tema dellacapacità dei rapporti sociali esistenti di offrire uno spazio percontenere e trasformare le spinte creative del mondogiovanile non può essere ridotto alla mediocre vicenda dellacandidatura di Renzi contro tutto il vecchio establishmentdel partito che vorrebbe destinare ad una rapidarottamazione. Un conflitto generazionale senza contenuti diproposta politica in cui soltanto l'età diventa titolo percandidarsi è di per sé un segno culturalmente reazionario.Certamente una pretesa fondata soltanto sulla propriagiovane età è una forma assai immatura e perdente dicontestazione del ruolo dei cosiddetti padri. I padri, infatti,non sono soltanto le figure concrete con cui si è fattal'esperienza dell'infanzia e della giovinezza ma sono anche gliesponenti sociali del principio di realtà e della rilevanza dellamemoria e della tradizione.

Come negli anni '70 scriveva Davide Lopez in un piccololibretto pubblicato da Jaca Book, dedicato al tema dellacontestazione giovanile degli anni '70 e intitolato Analisi del carattere

Il conflitto trale generazioniPietro Barcellona è docente emerito di Filosofia del Diritto all'università di Catania

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Un conflittogenerazionale senzacontenuti di propostapolitica in cuisoltanto l'età diventatitolo per candidarsiè di per sé un segnoculturalmentereazionario.

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ed emancipazione: Marx, Freud e Reich, la pretesa di partire dazero e il culto del nuovismo autoreferenziale è sempre ilsegno del persistere di una fantasia onnipotente di caratterenarcisistico-infantile. Quando in Europa si è cominciato aparlare della scomparsa dei padri (penso al bel saggio diMitscherlich, Una società senza padri), si iniziò a manifestarenel contesto delle società contemporanee la tendenza ad unadissociazione quasi patologica fra le tendenze istituzionali,espresse da tutte le classi dirigenti, e il desiderio primordialedi fare piazza pulita di tutto per realizzare ad ogni costo lapropria autoaffermazione. Molti guai sono legati a questavicenda: il prevalere nella discussione pubblica della finzionesull'analisi della realtà; lo sfrenarsi di una forma diindividualismo minimale, orientato unicamente al godimentoimmediato; l'emergere di spinte carismatiche epersonalistiche in netto contrasto con l'istanza dialogico-democratica che si voleva proporre all'intera società.

Tutti ricorderanno bene la lotta per la conquista del

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microfono in un'assemblea caotica senza regole e senzaalcun ordine nei lavori. Da quella stagione è cominciato ilterribile vizio di parlare per parlare anche quando non si haniente da dire e il successo personale si è risolto in una puraaffermazione del proprio potere senza alcuna veratrasformazione del tumulto delle passioni che certamenteagitavano il mondo giovanile. Proprio in quell'epoca Sartrescriveva che l'ambizione dell'uomo contemporaneo era quelladi essere figlio di se stesso, ma chi nega la paternità e ladipendenza della nascita da una coppia di altre persone èdestinato ad quel progressivo delirio megalomane che spinge lasocietà verso la frantumazione e la guerra di tutti contro tutti.

Io sono una persona anziana assolutamente fuori daogni gioco di potere e guardo al fenomeno di Renzi, comea tutti i fenomeni del giovanilismo, senza alcun pregiudizio,ma proprio per questo posso dichiarare senza alcunproblema che non riesco a capire quale sia il senso dellacandidatura di Renzi poiché nel suo discorso pubblico nonappare mai alcun criterio di distinzione tra ciò che paregiusto fare e ciò che pare ingiusto e cioè il tema centrale diogni scontro politico: l'idea di una società più giustarispetto a quella in cui ci si trova a vivere.

Già questa candidatura nasce dal disprezzo e dallaviolazione delle norme statutarie dell'attuale Pd, il che non èun buon segno perché è vero che gli statuti dei partiti nonsono testi sacri ma il solo modo serio di cambiarli è uncongresso con la presentazione di programmi diversi.Mandare a quel paese le regole dell'organizzazione alla qualesi appartiene solo con la decisione estemporanea diautocandidarsi alle elezioni del Paese, in pratica significarecidere violentemente ogni legame con la tradizione allaquale si appartiene, dimenticando che la tradizione è ancheinconsapevolmente un pezzo della propria identità. Tutte leproposte di rivoluzionamento dei rapporti sociali hannosempre assunto una tradizione di pensiero e una storiacomune come premessa fondativa dell'istanza dicambiamento anche radicale. Se alle spalle c'è soltanto ilnulla anche il cambiamento sarà di fatto un nichilismo vuoto.

Capisco bene che la situazione nella quale viviamo haprodotto nelle nuove generazioni un disagio senzaprecedenti e che lo sbandamento dei ragazzi e delle ragazzeoggi è una priorità della vera rinascita del paese ma, come lastoria ci insegna, anche lo stesso parricidio mitologico sirisolve mediante un recupero del rapporto con la nostra

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Tutte le proposte dirivoluzionamentodei rapporti socialihanno sempreassunto unatradizione dipensiero e una storiacomune comepremessa fondativadell'istanza dicambiamento ancheradicale. Se allespalle c'è soltanto ilnulla anche ilcambiamento sarà difatto un nichilismovuoto.

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stessa nascita attraverso quella che Freud chiamava unatrasformazione del padre reale in padre ideale. PerchéBerlinguer è rimasto nell'animo degli italiani come un grandeuomo che aveva amato oltre la vita il suo partito e il suopaese? Perché anche le persone che lo avevano combattutoerano abituate a fare i conti con una personalità rigorosa esemplice che imponeva sempre il confronto sui contenuti. Miviene da dire, forse con una certa superficialità, che i giovaniche cercano spazio e visibilità sono figli della generazione diquanti oggi hanno 40 e 50 anni, che hanno rimossocompletamente il problema della propria storia e dellepropria generazione e hanno trasmesso alle nuovegenerazioni soltanto gli effimeri impulsi all'esibizione e allavisibilità televisiva. Per comprendere i giovani di oggibisognerebbe analizzare la società dei cinquantenni di oggi edel vuoto che hanno creato attorno a sè.

Per tali ragioni quella di Renzi mi appare una candidaturaappesa nel vuoto che può suscitare labili consensi emotivi mache certamente danneggia il tentativo ancora troppo timidodi Bersani di costruire una forza coesa, capace di porre lebasi di una vera alternativa all'attuale fatalismo della grandemaggioranza degli italiani. Un tempo tra di noi si consideravapiù capace di dirigere chi sapeva unificare le parti diverse egarantire alle diverse opzioni la possibilità di esprimersi.Bisogna dirlo con franchezza, chi tende a produrrespaccature e conflitti non componibili con una mediazionepiù alta, di per sè mostra di non essere capace di guidare unagrande forza politica.

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on vi è dubbio che uno degli argomenti caldidell’attuale dibattito politico e sociale in Italiasia quello della individuazione degli strumentie delle risorse necessarie per uscire il piùrapidamente possibile dalla crisi e per far

ripartire la crescita del sistema Paese. L’occasione specifica per riflettere ancora una volta su

questo tema, visto da una persona che si è sempre occupatadi ricerca fondamentale in fisica, mi è stata fornita dallarecente partecipazione ad un congresso internazionaletenutosi a Kyoto in Giappone. I risultati che hanno riscossoil maggiore interesse riguardavano una specifica misura delfenomeno delle oscillazioni di neutrino e sono statipresentati da esperimenti che si trovano in Cina, Corea delSud, Giappone, Stati Uniti e Francia. A differenza degli altri,i fisici cinesi e soprattutto i coreani hanno iniziatorelativamente da poco l’attività sperimentale in questo campoe la rapidità ed efficienza con cui hanno costruito imponentie sofisticati apparati sperimentali e sono stati in grado difornire risultati molto importanti, ha impressionato lacomunità scientifica internazionale. La Francia, che pureaveva iniziato molto prima, è in ritardo nel completare unanalogo esperimento e a presentarne i risultati. Cina e Coreasono quindi paesi fortemente emergenti nella ricercascientifica. Questa radicale trasformazione è avvenuta negliultimi venti anni e la corsa non sembra essersi arrestata acausa della crisi economica che ha colpito pesantementel’Europa e gli Stati Uniti.

Ebbene la Cina ha anche un tasso di crescita media annuasuperiore al 6% e la Corea del Sud di poco inferiore a tale

Ricerca e formazionecome leva dello sviluppo

Lucia Votano è Direttore dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso

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valore, senza contare che il suo reddito annuo pro capite hasuperato quello degli italiani. C’è un altro dato interessante sucui riflettere, in Corea il 60% dei giovani di età compresa tra i25 e 35 anni ha una laurea e il 21% in ambito scientifico; inItalia nella stessa fascia di età solo il 20% ha una laurea e il4% in ambito scientifico, valori più bassi anche della mediaeuropea. Anche in Cina la percentuale dei giovani laureati stacrescendo sempre di più. Questi risultati sorprendentiraggiunti in campo scientifico e al contempo nello sviluppoeconomico sono il risultato di sempre crescenti investimentinella istruzione a livello superiore e nella ricerca.

Al di là di questi particolari esempi, studi ben più ampi eapprofonditi dimostrano in modo inequivocabile che lacorrelazione tra investimenti in formazione a tutti i livelli,ricerca scientifica, innovazione tecnologica e sviluppoeconomico di un Paese è fortissima.

Appare invece evidente che in Italia abbiamo una granderisorsa, il capitale umano, che continuiamo a sottoutilizzare esu cui invece è imperativo investire per non continuare adarretrare sempre di più nelle classifiche mondiali dellosviluppo culturale, sociale ed economico. Siamo un grandePaese con grandi tradizioni culturali, con eccellenze incampo scientifico, nicchie di imprenditori che ancoracredono nell’innovazione tecnologica, tuttavia nella scalasociale dei valori l’istruzione, la cultura, la ricerca hannoperso rispetto e considerazione di pari passo con la costantee notevole decrescita avvenuta negli ultimi 10 anni degliinvestimenti pubblici in istruzione e ricerca. Il mondo stacambiando radicalmente e il cambiamento più grosso èproprio nel livello medio di istruzione della popolazionemondiale, e dei paesi emergenti in particolare, nonché neimassicci investimenti che questi paesi hanno riversato negliultimi venti anni nella ricerca scientifica e tecnologica. OCSEci fornisce il dato che la media mondiale di giovani laureati èoggi intorno al 37%, da confrontare con il 13% della finedegli anni 50. Se poi estrapolassimo a qualche decennio inavanti la velocità di crescita di alcuni Paesi emergenti,supponendo che rimanga ai valori attuali, e la mettessimo aconfronto con il nostro immobilismo se non arretramento,potremmo rimanere terrorizzati dalla prospettiva di vederel’Italia come il terzo mondo prossimo venturo.

Questa paura la vivono ogni giorno gli scienziati chevedono i propri giovani che appena dopo aver conseguito ildottorato di ricerca o dopo poco anni, devono abbandonare

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La correlazione trainvestimenti in

formazione a tutti ilivelli, ricerca

scientifica,innovazione

tecnologica e sviluppoeconomico di un

Paese è fortissima.

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le Università o gli Enti di ricerca per essere accolti congrandi riconoscimenti nelle istituzioni estere. La formazioneuniversitaria a livello scientifico in Italia è ancora di altissimolivello e i giovani non incontrano molta difficoltà a trovarenegli Stati Uniti o in Europa delle opportunità di continuarel’attività di ricerca. Portare un giovane al dottorato costa alloStato Italiano circa 500000 Euro, un investimento perso se afronte di un italiano che va all’estero per non tornare più,non possiamo impiegare in Italia come contropartita ungiovane straniero altrettanto bravo.

Occorre quindi ripartire dalla profonda consapevolezzache solo nella società della conoscenza possono nascere ipresupposti per una crescita del Paese e operare una decisainversione di tendenza negli investimenti in conoscenza,sapere e ricerca.

Altrimenti, a quando l’esodo massiccio dei nostriricercatori verso la Cina e la Corea?

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er dieci anni, nel corso dei quali le politicheeconomiche e sociali della Destra del nostroPaese hanno subito i veti campanilistici di unaLega egoista ed antiunitaria, la parolaMezzogiorno è stata cancellata dal vocabolario

della politica italiana. E sappiamo come è andata a finire, cosìcome del resto è sempre accaduto quando Nord e Sudhanno marciato a ranghi separati. L’Italia si è allontanatadall’Europa. La crisi ha reso fragile, più che in altre aree delcontinente, il nostro tessuto produttivo. E le disuguaglianze, siasul piano sociale che su quello territoriale, si sono aggravate,scavando un solco profondo nella coscienza dei ceti più deboli,i quali, contrariamente a quanto era accaduto con i governi dicentrosinistra, si sono sentiti abbandonati da uno Stato semprepiù proiettato a garantire gli interessi dei più forti.

Sono convinto, per dirla con Pierluigi Bersani, che l’Italiace la farà solo se ce la farà il Mezzogiorno. Se il Sud saràrimesso al centro dell’agenda di governo. E se, accantonandol’illusoria speranza che il Nord possa andare avanti da solo,così come per anni hanno cercato di far credere Berlusconi ei suoi Ministri, ci si ripiegherà su un federalismo veramentesolidale. Un federalismo, come è scritto nella carta di intentidel Pd, presentata nelle scorse settimane dal segretarionazionale, “responsabile e ben ordinato che faccia delleautonomie un punto di forza dell’assetto democratico eunitario del Paese”.

Naturalmente, come classe dirigente di centrosinistra,abbiamo una duplice e difficile sfida da vincere. Perché oltrea rendere nuovamente pronunciabile la parola Mezzogiornoin un contesto politico che per due lustri l’aveva considerata

L'Italia ne uscirà solose ce la farà il sud

Vito De Filippo è Presidente della Regione Basilicata

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alla stregua di una bestemmia, abbiamo il dovere di fugare,agli occhi del Paese, l’immagine di un Sud assistito edaccattone. Sprecone ed inefficiente. Corrotto e irredimibile.E ciò sarà tanto più possibile se nella nostra azioneamministrativa, in Basilicata come altrove, continueremo afare del rigore, della competenza e della onestà la stellapolare dei nostri comportamenti quotidiani.

Mai come in questo momento, serve una politica sobria.Responsabile. Rispettosa dei cittadini, chiamati a faresacrifici, come mai era accaduto in oltre sessant’anni di vitarepubblicana. Governare in tempi difficili significaesattamente questo. Significa dare l’esempio. Come nelnostro piccolo, sin dall’inizio della legislatura regionale, adaprile del 2010, abbiamo voluto fare, abolendo i vitalizi per iconsiglieri regionali, riducendo i compensi del 20 per centoe, imponendo a tutti, presidente ed assessori in testa, diraggiungere l’ufficio con mezzi propri, rinunciando allemazzette dei giornali, oltre che razionalizzando l’utilizzodelle auto blu e degli immobili di proprietà regionale, conl’individuazione in ogni interstizio della pubblicaamministrazione di qualunque forma di risparmio.

Su un fronte delicato, come la Sanità, che in Italiarappresenta una sorta di spartiacque tra le Regioni virtuose equelle che lo sono un po’ meno, la Basilicata – sulla scia diun primato che non è solo meridionale – oltre a mantenere iconti in ordine ha voluto fare proprio un obiettivosicuramente ambizioso, qual è quello rappresentato dallecosiddette politiche di “compossibilità”, rimuovendo lecontraddizioni tra il diritto alla salute e le risorse destinate agarantirlo. Per di più mirando ad un notevole risparmio eticoed economico. La stessa linea, all’insegna del rigore, ma altempo della selettività degli interventi, è stata perseguita inaltri comparti, non meno importanti, della vita regionale:dalla Scuola all’Università, dal Turismo ai Beni Culturali.

Da questo punto di vista, la carta di intenti del Pd, volutadal segretario Bersani, quale base programmatica di un“patto” con gli italiani per la ricostruzione e il cambiamentodel Paese, è per noi amministratori di centrosinistra delMezzogiorno un ulteriore motivo di sprone e di sostegno, inun momento nel quale alla politica si chiede di testimoniarecompetenza e una condotta coerente.

In Italia, i dieci anni di governo delle Destre hanno fattoprecipitare il Paese in una crisi senza precedenti, scavando unsolco profondo tra cittadini e politica. Ci vorrà tutto

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In Italia, i diecianni di governo delleDestre hanno fattoprecipitare il Paesein una crisi senzaprecedenti, scavandoun solco profondotra cittadini epolitica. Ci vorràtutto l’impegno e laforza degli uominimigliori delcentrosinistra,proprio a partire daPier Luigi Bersani,per colmare questafrattura e consentirecosì all’Italia dirimanere inEuropa, coniugandorigore finanziario esolidarietà sociale.

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l’impegno e la forza degli uomini migliori del centrosinistra,proprio a partire da Pier Luigi Bersani, per colmare questafrattura e consentire così all’Italia di rimanere in Europa,coniugando rigore finanziario e solidarietà sociale.

La “deregulation” finanziaria, che ha portato al dominioincontrollato di soggetti estranei alla vita democratica, contutto ciò che ne è derivato sul piano economico, richiedeoggi un supplemento di partecipazione popolare, sulla scortadi un “patto”, come quello che il Pd e il suo segretarionazionale hanno proposto al Paese. Le scorciatoie suggeritedai demagoghi di turno, sull’onda di un’antipolitica che fa ditutte le erbe un fascio, non porterebbero da nessuna parte.Dice bene Pier Luigi Bersani: “La sola risposta al populismoè in una partecipazione rinnovata come base della decisione.E questo perché la crisi della democrazia non si combattecon “meno”, ma con più democrazia. Il che significa piùrispetto delle regole, una netta separazione dei poteri el’applicazione corretta e integrale di quella Costituzione cherimane tra le più belle ed avanzate al mondo”.

I dieci punti della carte d’intenti coniugano altrettanteparole fondamentali per il destino dell’Italia: dallademocrazia all’Europa, dal lavoro all’uguaglianza allosviluppo sostenibile. Ma è sulla “responsabilità” che si giocala vera partita per il “bene comune” dell’Italia. E Pier LuigiBersani sono certo sarà in grado di guidare responsabilmentel’Italia lungo la strada della ricostruzione e del cambiamento.

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ono personalmente molto interessata a quantoaccade nel Pd e intorno ad esso perché ritengoche, al di là di evidenti fragilità che segnalano unprocesso non concluso di costruzione politico-programmatica del partito, esso costituisca una

leva indispensabile per porre un termine alla lunghissimacrisi democratica italiana.

Di sicuro c’è l’enorme debito pubblico che ci rendevulnerabili ed attaccabili da chi vuole colpire l’euro e lepossibilità dell’unificazione politica europea, ma un fattorenon secondario del bilico pericoloso su cui è scivolata l’Italiaè l’attuale assetto istituzionale e politico che non solo hascavato quel fossato tra politica e cittadini di cui parla lalettera di Intenti ma intralcia ogni intervento che miri acolmarlo e rende incerta ogni prospettiva di rinascita. Benedunque ha fatto il segretario Bersani a rivolgersi a unvariegato mondo fatto di gruppi e di singoli per sollecitarnel’impegno e l’interesse a vedere consolidarsi un nuovofunzionante sistema politico che può finalmente prendere dipetto mali nuovi e antichi dell’Italia.

Io , come alcuni sanno, ho un vecchio e radicato interessea vedere trasformata l’Italia in “un paese per donne”, manutro anche una sofferta passione per la mia terra d’origine,il mezzogiorno, e per la sua antica storica capitale Napoli. Lìho accumulato una pluridecennale esperienza di docenteuniversitaria e di osservatrice civilmente partecipe dellecatastrofi, delle emergenze che ciclicamente l’hanno scossa edegli altrettanto ciclici tentativi di rinascimento, tutti falliti.Ne ho tratto un paio di considerazioni. Innanzitutto, sel’Italia vuole tornare a pesare in Europa e a competere non

Condizioni per la rinascita.

Il caso Napoli

Francesca Izzo insegna Storia delle dottrine politiche all’Università Orientale di Napoli

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può considerare che la sua seconda area urbana perpopolazione abbia non solo conservato ma esasperato lecaratteristiche tipiche del sottosviluppo, ovvero non abbia untessuto industriale produttivo legale e sopravviva anchegrazie all’espansione dell’economia criminale. Questoprocesso ha provocato la crisi e la decadenza anche di quellepunte di eccellenza rappresentate da istituti universitari e diricerca che rendevano Napoli un luogo produttivo di talenti ecompetenze riconosciute a livello europeo e mondiale. Matutto ciò non è frutto di una maledizione, di un destino:Napoli non è un caso di folklore malato che si può isolare etrattare come un’anomalia. Napoli parla dell’Italia. Losmantellamento dell’industria a capitale pubblico tra gli anni80 e 90 e il nulla, se non le attività in nero gestite dallacamorra, che l’ha sostituita parla del blocco dell’innovazionee della crescita che ha colpito l’insieme del paese. E quantosia stata illusoria e foriera di disastri l’idea, che avevaovviamente anche del buono, di un sud, di una città, di unterritorio che fanno da sé oggi appare drammaticamenteevidente. La rivendicazione dell’autonomia e di uno sviluppoautocentrato, se intendeva ribaltare l’immagine di un sudpiagnone e sempre alla ricerca di aiuto e sostegno esterno,avvalorava la tendenza a declassare il meridione da questionenazionale a singoli e parziali problemi “locali”.

Per il Pd che ambisce essere perno di una rinascita dellanazione la ripresa del meridionalismo, a meno che non lo siconsideri frutto di mero spirito solidaristico, ha da fare i conticon una riconsiderazione critica di una storia e di una culturasedimentata innanzitutto nelle teste di chi prende decisioni.

La perdita generalizzata di una visione “nazionale” diNapoli capitale del Sud ha fatto sì che dinanzi ad unfenomeno clamoroso, il dramma dei rifiuti, c’è stata una fugaanch’essa generalizzata da responsabilità, da parte dellapolitica locale e nazionale, dell’intellettualità dellecompetenze. Voglio solo ricordare un episodio a titolo diesempio. All’apice della crisi, quando noi docenti e studentientravamo nella sede universitaria facendoci strada tra muridi immondizia, come accadeva d’altronde in tutto il restodella città, ho pensato che uno dei compiti dell’ istituzioneuniversitaria fosse quello di interrogarsi e di interrogarel’insieme della “classi dirigenti” economiche, politiche esoprattutto intellettuali e professionali visto che avevanopartecipato da protagoniste al risveglio civile dei primi anni90. Interrogarle su come fosse stato possibile un disastro di

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La perditageneralizzata di unavisione “nazionale”

di Napoli capitale delSud ha fatto sì che

dinanzi ad unfenomeno clamoroso,

il dramma dei rifiuti,c’è stata una fuga

anch’essageneralizzata da

responsabilità, daparte della politicalocale e nazionale,dell’intellettualitàdelle competenze.

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dimensioni tali da non richiedere solo la testa di qualchecapro espiatorio ma un’analisi assai profonda e per certiaspetti “di lunga durata”. Infatti ero rimasta molto colpita daquello che si sentiva reclamare sulle barricate innalzate perimpedire il versamento dei rifiuti nei siti indicati dalleautorità. “Perché non li mandate ad Avellino, a Benevento…”. Ovvero perché non si continua nella relazione che semprela città di Napoli ha avuto nei confronti della “suacampagna”, cioè una relazione di tipo “feudale” e non“borghese-moderno”. Da Machiavelli sappiamo che ilmutamento del rapporto città-campagna, da economico-corporativo a egemonico da parte della città (per usare laterminologia gramsciana) è il principio, il fondamento dellanascita della società, della politica, dello stato moderni.Ebbene la città di Napoli, tutta la sua popolazione, dirigentie diretti, ha vissuto e vive della convinzione chela”campagna” sia metaforicamente e realmente il luogo dovegettare la monnezza e questa modalità di relazione strutturaforma mentis, selezione ed azione delle classi dirigenticittadine. Finché non accade che una “campagna” barbaricanon si espanda, conquistando lembo a lembo la città earrivando nel cuore della sue istituzioni.

Pensavo che nostro compito fosse cercare di capire, al di

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là della frustrazione, dello sconcerto e della rabbia verso iresponsabili politici di quella tragedia. La rivolta e il rifiutoverso questi ultimi c’è stato, il resto no.

Ecco, mi aspetto che la curvatura meridionalistica che ilPd intende dare al suo progetto per l’Italia non si fermialle pur necessarie proposte in tema di politicheeconomiche, sociali,organizzative.

Tocca mettere in gioco storia e cultura , gli ambiti decisiviper la formazione (o non formazione) delle classi dirigenti. Esi sa che intorno ad esse si vince o si perde la sfida. In altrimomenti della vicenda meridionale ed italiana si è creato unclima effervescente di mobilitazione di energie, di talenti,dientusiasmi per un nuovo rinascimento che ha coinvolto nonpoco della cultura italiana. È finita male. Ma questo nontoglie che da lì bisogna ripartire, capire perché si è fallito equali altre forze e come devono essere coinvolte, acominciare da quello straordinario serbatoio inutilizzato dicompetenze e di eticità formato, come ci ha detto l’ultimorapporto Svimez, da donne.

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a Carta di intenti è una buona base per ladiscussione. Rappresenta di per sé un valorel’apertura – in passato piuttosto avara – alconfronto con quelli che devono poi valutarel’operato e i progetti del partito e scegliere gli

orientamenti più consentanei a dare una risposta ad unacrisi che è non solo economica ma più radicalmentepolitica e rappresentativa. Mi sembra dunque primaria enon solo formale la decisione di aprire la discussione ericonoscere gli interlocutori. Il nodo della crisi dellarappresentanza cui ho appena accennato e della quale ilpartito sembra essere consapevole, sta proprio nelladifficoltà ad ascoltare e a prendere carico delle istanze; o,forse più radicalmente, dalla oggettiva carenza – cuisembra si voglia finalmente ovviare – di spazi aperti dove icittadini “democratici” possano direttamente partecipare evedersi riconosciuta quella spinta all’autogoverno, al rifiutodelle deleghe che è l’ambivalente portato della culturaneoliberale dell’ultimo trentennio. Ambivalente perché puòtanto indirizzarsi in senso privatistico e lobbistico, come difatto nella società neoliberale, che in senso dipartecipazione attiva nella gestione delle situazioni locali edelle ‘cose comuni’. Questa attenzione mi sembra diriconoscere nel documento di intenti: sia pure giustamentemediata dall’indispensabile “servizio” di un grande partito,capace di raccogliere e rinforzare le voci sociali.

Il documento è articolato in modo da mettere in rilievoi punti chiave che, a mio avviso, sono assolutamentecondivisibili.

Emerge – e ritengo debba essere sviluppata nel corso dei

Una svolta culturaleper la domandadi autorealizzazione

Laura Bazzicalupo insegna Diritto Pubblico e Teoria e Storia delle Istituzioni all’Università di Salerno

L

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dibattiti delle primarie – la consapevolezza che al declinare diquella che va considerata una grande egemonia culturale delladestra – una cultura complessa e articolata che purinnestandosi su un riduzionismo economico oggi smentitodalla realtà, ha costruito soggettivazioni insofferenti dellaautorità e della guida morale, proiettate in, anche mitici,progetti di autorealizzazione e di imprenditorialità su se stessi,cui difficilmente si può rinunciare – debba essere offerta unaalternativa consapevole della complessità delle nuovesoggettività, formate da quella cultura, ma oggi sofferenti perle realtà che quell’immaginario oscurava. Se si riconosce lapotenza dell’immaginario neoliberale che ha sorretto ilpredomino della destra, allora è sull’immaginario culturale chesi deve lavorare, per lanciare oggi un cambiamento di

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mentalità, accoglibile e condivisibile da quei soggetti,soprattutto giovani, che si sono formati in quel trentennio.

Questo significa spingere l’acceleratore sulla necessariasvolta culturale – con il lancio di parole chiave nuovecapaci di egemonizzare la frantumazione delle situazionisingolarizzate e delle domande sociali differenziate:mantenendo, nei limiti del possibile la componente diautogoverno e di intrapresa, ma indirizzandola versoquelle ‘utilità’ che il mercato distribuisce con grandiineguaglianze o addirittura sottrae del tutto.L’individuazione di una serie di beni comuni, commons,che troppo facilmente sono state in passato abbandonatiall’orientamento privatistico, mi sembra un punto di forzacapace di scaldare gli animi e sorreggere una necessariaproposta di ‘visione’ o di immaginario collettivo nuovo epersuasivo. Ovviamente – ma su questo la Carta sembradare ampie assicurazioni – ascoltando e dando voce aldisagio del mondo del lavoro e dei precari che è il punto diforza per accentuare la crisi dell’ideologia neoliberista, colsuo trionfalismo e la sua esaltazione dell’individualismoestremo, come se la libertà non passasse inevitabilmenteper la reciproca dipendenza e solidarietà. Questa svolta èoggi possibile.

Molto bene dunque la risposta in termini di piùdemocrazia. Anche se l’espressione: "usare il consenso pergovernare bene" oltre che suonare generica su un puntosensibile, allude ad un "uso" del cittadino e delle sue scelte.Laddove si potrebbe esprimere una nuova e maggiorefiducia nelle capacità di autogoverno che il partito intendepromuovere, “servire” e “organizzare”. Questo significa“apertura di spazi pubblici” (nella Carta se ne parla subitodopo) di partecipazione, dove la mediazione partitica sideve limitare (anche la parola limite è giustamente moltopresente!) alla tutela della qualità democratica delledecisioni. Limite del partito come agente “'diretto” digoverno. Indispensabile peraltro soprattutto nelle relazioniinternazionali che sfuggono totalmente ai cittadini.

Sarebbe importante ed efficace qualche mea culpa inpiù, sia pur nelle decise differenziazioni, proprio inrelazione all'occupazione partitica dei posti decisionali.

Mentre la Carta mi sembra padroneggiare perfettamenteil discorso dell’Europa, e, ancor meglio il discorso sullavoro, impostato con tutta la complessità che merita, sullascuola e sull’Università, come sulla cultura in genere, nelle

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Se si riconosce lapotenzadell’immaginarioneoliberale che hasorretto il predominodella destra, allora èsull’immaginarioculturale che si develavorare, perlanciare oggi uncambiamento dimentalità, accoglibilee condivisibile daquei soggetti,soprattutto giovani,che si sono formatiin quel trentennio.

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forme oggi molto diversificate che interessano larghissimefasce del “popolo democratico”, sarebbe opportuno nonsolo rafforzare l’attenzione a questo ‘bene comune”, maanche esplicitare una consapevolezza adeguata dellacentralità della battaglia sulla cultura. È superfluo ricordareche la identità specifica del partito di sinistra staesattamente nel binomio lavoro e cultura. Si tratta dirinnovare fermamente, senza cedimenti questa opzioneche coinvolge, oggi in tempi di capitalismo cognitivo,praticamente tutte le famiglie e i singoli soggetti. Dopoanni di politiche deficitarie anche da parte della sinistra sitratta di rendere esplicito “un cambiamento di rotta”rispetto a posizione condivise e addirittura promosse dalPd. Soprattutto circa la deriva di valutazione 'economica'dell'istruzione: c’è una sacca di immenso scontento sullatecnocrazia valutativa e sulla sua cecità culturale.

In tutte queste battaglie sui beni comuni, programmatedalla Carta di intenti, occorre discutere l’elementogiuridico delle garanzie pubbliche, che potrebberofacilmente scivolare – tramite la spinta all’autogestione,nell’area opaca del privatismo.

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o quasi quarant’anni. Per metà passati acredere che tutto sarebbe andato bene. Anzimeglio. Meglio di come era andata ai mieigenitori, ai quali peraltro era già andata assaimeglio che ai nonni… e così di seguito. Che

la mia generazione avrebbe avuto un lavoro qualificato emeglio retribuito (sulla sua “stabilità” non arrivavoneppure a concepire dubbi), un casa più bella, unfrigorifero a due piazze e magari una porta saloon in cucina(come quella dei Robinson, per intenderci). A condire iltutto la granitica certezza che il successo (alfa e omega,giustificazione necessaria e sufficiente di ogni esistenzaindividuale) fosse dipendente da una sola variabile: ilmerito. In uno svaporamento leggero e indolore di ognidimensione collettiva che travalicasse l’uscio di casa o il“gruppo” di appartenenza. Sono stata sempre, da che mi ricordi, di Sinistra. Maquesto, con tutta evidenza, non mi ha impedito di crederenel progresso e nello sviluppo come “accrescimento”,quasi solo quantitativo, intrinsecamente illimitato. Eppure,moltitudini di donne e uomini escluse da questo destino adogni latitudine erano lì a testimoniare quanto fragiledovesse essere un modello così clamorosamente fondatosu squilibrio, iniquità, disuguaglianza.Indignazione, mobilitazione caritatevole, politiche dicooperazione, capitalismo dal volto umano. Lenitivi nontanto per le suddette moltitudini quanto per la mia ‘cattivacoscienza’. E comunque, il sottotesto era che alla fine, ancheper loro (le moltitudini), era solo questione di tempo (e divittoria delle forze progressiste e di Sinistra, obviously).

La stella polaredella persona e dei diritti

Marcella MarcelliCentro studi del Pd

H

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E così è stato, a ben guardare. Solo che quella previsioneandava rovesciata: alla fine, anche per noi, è stata soloquestione di tempo. Un orecchio attento avrebbe avvertito iprimi scricchiolii all’alba degli anni Novanta (welfare semprepiù striminziti in nome della “sostenibilità” della spesa, tassodi natalità in picchiata, svuotamento di “senso” del lavoro, edi dignità della cultura, sbigottita irritata impaurita chiusuraall’”altro”…) ma si sa, del senno di poi…Sta di fatto che, da allora, è stato tutto un ruzzolare“uniformemente accelerato” lungo un pendio fattosi daultimo precipizio, che ci ha portati più o meno dove siamoora: con un’Italia e una politica “fuori di sesto” e un’idea difuturo da immaginare di nuovo. Non tanto nel senso di“ancora’” (come già tante volte nella storia accidentata diquesto Paese), quanto nel senso di “come mai primad’ora”. Perché, ormai l’abbiamo capito tutti, non si trattadi tornare ad essere quelli di ‘prima’, perché il “prima” senon è ancora morto, di certo non funziona più. Se l’accostamento non suonasse irriverente, direi che lacondizione attuale ricorda l’indomani della Seconda guerramondiale con la differenza che allora le macerie erano nellestrade, ché l’anima (almeno quella di molti) l’aveva slavata laResistenza. Noi, invece, le macerie le abbiamo ingoiateinsieme a ciò che resta (ed è ancora molto) della patinascintillante e vischiosa con cui è stato confezionato ilracconto del mondo negli ultimi venti o trent’anni. La miscelaè risultata indigesta al punto da generare un senso di nausea avocazione maggioritaria. Di più: universale, cosmica.Con queste premesse, che dire del coraggio di un Partito e delsuo Segretario, che pensa di “mettere penna in carta”(d’intenti, per giunta!) e che mentre ancora l’acqua ci sfiora leginocchia pensa a come tirarla via, certo, ma allo stesso tempoai nuovi argini da innalzare e alla nuova città da ricostruire?Credo che questo sia il merito più grande della Cartad’intenti dei Democratici e dei Progressisti. Non unprogramma (che pure verrà, com’è ovvio), ma lefondamenta su cui edificare programmi, alleanze, futuro.La spina dorsale di una politica responsabile, consapevoledei propri limiti, ma non per questo subalterna, che siriprende il posto che le compete sapendo che le supplenze,a scuola come nel governo, se durano troppo guastano ilrendimento. Una scelta controcorrente, che di fronte allamarea montante del fango che si incrosta su tutto e tuttinon rinuncia a spalare perché, prima o poi, si arriva al

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“nocciolo” della questione.Per i democratici e i progressisti la dignità della persona umana e ilrispetto dei diritti individuali sono la bussola del mondo nuovo e lacornice generale entro cui trovano posto tutte le nostre scelte diprogramma. Ecco, per quel che vale, credo che in questepoche righe ci sia un bel pezzo di quel “nocciolo” e certoil tratto più avanzato di una “visione” realmentealternativa a quella che ha generato la crisi e che ha minatodall’interno le stesse radici spirituali dell’Occidente. Proporre il rispetto dei diritti umani, nella loroindivisibilità, come termometro del grado di sviluppo diuna società e della qualità della sua democrazia, vuol direvedere e indicare già un nuovo ‘modello’ di crescita e diprogresso. Un nuovo punto di vista che poi, come dice laCarta, significa tornare a parlare di uguaglianza guardandola società con gli occhi degli “ultimi”. Significa, anche,riscoprire il senso profondo e il tratto identitariofondamentale della civiltà europea e a quello aggrapparsiper darsi lo slancio.Ma soprattutto mi pare che enfatizzare, come fa la Carta,la centralità di quello che molti chiamano “fattore umano”,abbia per l’Italia un significato in qualche misura“rivoluzionario” se è vero che essa presuppone un grandeinvestimento, un “affidamento” persino, nella persona, lasua dignità che poi è libertà e responsabilità. Un’aperturadi credito (a costo zero!), di fiducia che finora è mancatain un Paese che nelle sue classi dirigenti ha conosciuto econosce dualismi radicati e contrapposizioni financheirriducibili, ma, sorprendentemente, larghe convergenzesul disincantato (quando non cinico) scetticismo circa lacapacità delle persone di decidere consapevolmente eautonomamente del proprio destino. Con la Carta,insomma, si avvia un capovolgimento di prospettiva. Bastacon le tutele (morali, politiche o mediatiche poco importa)e avanti con l’idea di una politica di “servizio”, che tratti icittadini finalmente da adulti e lavori per accorciare ladistanza che separa ciascuno dalla propria idea di vitabuona.Se toccherà al Pd, le leggi (contro la violenza alle donne el’omofobia, per il testamento biologico, il riconoscimentodelle unioni civili e la riforma della cittadinanza) verranno,saranno laiche e quanto più condivise. Ma il punto, oggi,non è tanto definire i contenuti quanto l’obiettivo: darepiena attuazione all’articolo 3 della Costituzione e a quella

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Per i democratici e iprogressisti ladignità della personaumana e il rispettodei dirittiindividuali sono labussola del mondonuovo e la cornicegenerale entro cuitrovano posto tutte lenostre scelte diprogramma.

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promessa di dignità e di “pieno sviluppo della personaumana” senza di che, davvero, la politica non ha senso. Permolto tempo abbiamo inforcato le lenti di altri illudendociche la visione, comunque, si conservasse nitida grazie ainostri occhi avvezzi a guardare lontano. È finita che losguardo si è accorciato anche a noi. Averlo capito eripartire da un nuovo paio di occhiali è già un gran passoin avanti.

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Altri Contributi

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fiducia nel conflitto democratico.Continua a resistere, mutate le forme, ilrichiamo esercitato da un potereillusionistico (non sprechiamo l'aggettivo"carismatico") fondato sulla affabulazionee sulla manipolazione – quello descrittocon precisione da Thomas Mann neMario e il mago (Mario und derZauberer) nel 1930 – i cui interessi sonostabilmente sincronizzati con quelli deipoteri extrasociali (i signori dell'oro,nazionali e internazionali, e i signori dellospirito, tutori dei credenti non adulti).

Ci stiamo inabissando.Stiamo correndo agrandi passi verso unqualcosa di molto similea una regressione versoun primitivismopolitico: il paese

continua a dimostrarsi attratto (certo,provocato da comportamenti politicivergognosi) da forme, diciamo così,semplificate ed elementari diorganizzazione e legittimazione delpotere, mostrando di non avere alcuna

Costituzionee virtù politicaMario Doglianiinsegna Diritto costituzionale all'Università di Torino

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La causa di questo inabissamento non èimmediatamente economica, perché nonsi può affermare che le crisi economicheportino di per sé, ineluttabilmente, allacrisi della democrazia. Il New Dealrooseveltiano lo prova; e d'altra parte nonsi può sostenere che l'avvento neifascismi in Europa sia stato direttamentedeterminato da ragioni economiche.Anche di fronte all'impoverimentodiffuso, alla paura, all'avvilimento, allamiseria la causa della deriva autoritaria èpolitica, perché si risolve nella incapacitàdel potere rappresentativo di reagire inmodo razionale ed economicamenteefficace alla crisi attraverso gli strumentiche gli sono offerti dalla stessademocrazia che lo ha costituito. Ma che cosa ha prodotto questaincapacità?Oggi tutti dicono: la delegittimazionedella classe politica dovuta ai suoi vizi ealla sua incapacità; due concause che sirafforzano vicendevolmente. Questadiagnosi, pur vera, rischia, se nonsviluppata nell'esame del contestocostituzionale e culturale che haconsentito il diffondersi di quellenegatività, di confermare solo i giudizi diinutilità e di parassitismo diffusi, senzaindicare terapie e vie d'uscita. Invocareresipiscenze e scatti volontaristici, non sisa fondati su che cosa, è troppo poco perfronteggiare critiche che si indirizzanonon solo alla politica intesa come"mondo politico" (e cioè classe politica,casta), ma anche alla politica come tipo diazione umana. Occorre cercare unarisposta più strutturata. Alcuni la trovanonella posizione di degrado e subalternitàoggettiva in cui la rappresentanza politicaè stata condannata dal finanz–capitalismoglobalizzato: una funzione servente – sidice in sostanza – non può essere svolta

che da servi e mercenari, e rivelarsidunque non solo strutturalmentecorrotta, ma, nei momenti difficili,incapace di reagire al contesto che cosìl'ha plasmata. Ma anche questa è unarisposta disperante, o incompleta: se soloil rovesciamento di fatto di questocontesto può ridare dignità allarappresentanza, allora nei tempicalcolabili non c'è niente da fare. Se,invece, dal punto di vista in esame, èsufficiente collocarsi in una posizione dicritica – seppur radicale – allora si deveammettere che anche un atteggiamentosoggettivo può salvare da questacondizione umiliante. In tal modo, però,si torna ad ammettere la possibilità di unarappresentanza politica "libera e pura" infunzione dei valori assunti dalrappresentante, anche nel contestoattuale. Ma non è facile definire conesattezza i valori e gli obiettivi politici"liberanti", produttivi di dignità, chesaranno inevitabilmente molteplici. E cosìsi torna daccapo. È dunque necessario cercare di metteremeglio a fuoco la domanda: perché laquestione morale è stata finora – nelnostro sistema – irresolubile? E perché lacritica politica diffusa, che la agita, non èuna critica a una politica, ma una criticaalla politica? Perché non si incanala in unadomanda, ma si getta sull'exit (che restaun exit, anche se gridato, non bastandol'intensità delle grida a trasformarlo invoice)? È possibile formulare qualchegiudizio sullo stato dei comportamentipubblici che non si concluda con unamera esortazione alla moralità personale,privata, che dovrebbe guidare i singoliindividui cui sono affidate funzionipubbliche? È possibile, cioè, fare dellaquestione morale una questionecostituzionale?

Costituzionee virtù politica

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si curano del buon governo, perché èevidente che della virtù politica si devepreoccupare una città degna di questo nomee che non sia tale solo a parole. Altrimenti lacomunità cittadina diventerebbe un'alleanzamilitare differente dalle altre, quelle traalleati lontani, solo per la posizionegeografica dei contraenti, e la legge sarebbeuna mera convenzione e ... una garanzia deimutui diritti, ma non sarebbe in grado direndere buoni e giusti i cittadini.» Eribadisce, dopo aver esaminato tutte lecondizioni materiali necessarie perché si diauna convivenza, che la città non si riduceall'unità materiale fondata su quei mezzi,perché «fine della città è ... la buona vita ...una vita perfetta e indipendente ... una vitavissuta in modo bello e felice. Perciòbisogna ammettere che la comunità politicaabbia come fine le belle azioni e nonsemplicemente la convivenza. Quanticontribuiscono nella misura più alta alla vitadi questa comunità partecipano alla città ingrado più alto di quelli che, uguali ad essiper la libertà in cui sono nati ... o [superiori]in ricchezza, ne sono superati in virtù. Daciò che si è detto è risultato chiaramente checoloro che discutono sulle costituzioni

colgono solo una parte di ciò che èveramente giusto.»1

C'è un passo, famoso, dellaPolitica di Aristotele, cherappresenta una sintesi del suopensiero circa il nesso tra

cittadinanza e virtù, e che può indicare la viaper un riscatto della politica non affidatoalla mera volontà dei singoli e al caso delleloro inclinazioni. Dice Aristotele: «... la città[non] si costituisce semplicemente perché isuoi membri possano vivere, ma perchépossano vivere bene ..., né essa si proponeper fine la costituzione di un'alleanza volta aimpedire il danno reciproco o a favorire unoscambio vicendevole di servizi, perché inquesto caso gli Etruschi e i Cartaginesi etutti quelli che hanno dei patti di intesareciproca dovrebbero essere cittadini di unasola città. Eppure questi che hanno sì traloro patti commerciali sulle importazioni edesportazioni, convenzioni giudiziarie etrattati scritti di alleanza militare, non hannomagistrature comuni; anzi si reggono conistituzioni diverse gli uni dagli altri, non sicurano delle loro rispettive qualità, nonprendono provvedimenti perché non sicompiano ingiustizie o qualche altra colpada parte di coloro che sono compresinell'alleanza, ma badano solo che siano

rispettati i termini del trattato. Alla virtù emalvagità politica stanno attenti coloro che

È dunque ragionevole chiedersi: il nostro costituzionalismo ha

contribuito a far sì che la Repubblica sia qualcosa di più di un campo

in cui si bada solo che siano rispettati i termini della costituzione-

trattato, fondata a sua volta su una convenzione mirante a garantire

i mutui diritti?

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1. Politica, III,9, 1280a, 31 - 1281a, 10.

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costituzione nel suo insieme capace dipromuovere effettivamente le "belleazioni" e contrastare (ovviamente su unpiano diverso da quello della repressionepenale) la "malvagità politica"? E sequesto di più non c'è, vuol forse dire cheviviamo in una città solo a parole? e cioèche non abbiamo (più) costituzione?

Si può certo innanzi tutto direche questo "di più" dovrebbeconsistere nell'effettivitàpolitico–giuridica del principio

stabilito dall'art 54 della Costituzione,secondo cui «Tutti i cittadini hanno ildovere di essere fedeli alla Repubblica e diosservarne la Costituzione e le leggi. Icittadini cui sono affidate funzionipubbliche hanno il dovere di adempierlecon disciplina ed onore, prestandogiuramento nei casi stabiliti dalla legge».La Costituzione "presuppone" la sostanzadei concetti di fedeltà, disciplina e onore(e la vincolatività morale del giuramento),designanti virtù politiche, e ne afferma ilrilievo politico. Non sono necessarie molte parole perdimostrare come la ricerca dei mezzicapaci di dare effettività a questoprincipio, e per svilupparlo in tutte le sueimplicazioni, magis ut valeat, non sia stataaffatto perseguita. Una scorsa allabibliografia costituzionalistica dimostrache l'attenzione culturale per esso è stataminima. Paragonata al rilievo attribuito aitemi più estremi dei diritti di libertà,pressoché nulla. Ed è ragionevoleaffermare che la nullità dell'attenzioneaccademica sia simmetrica alla nullitàdell'attenzione culturale generale, e diquella politica. Sarebbe interessantecondurre un'indagine sui luoghi letterari egiornalistici in cui la parola "moralismo"appare in senso spregiativo; e chiarire a

Ciò che colpisce – tra le molteosservazioni possibili che il passo suscita– è la distinzione tra "città degna diquesto nome" e "città solo a parole".Distinzione che sembra finalizzata nonsoltanto a sostenere (con unaargomentazione ab absurdo) la polemicaintellettuale contro coloro che «discutonosulle costituzioni» senza comprendernel'essenza, ma la constatazione che le cittàpossono veramente essere città solo aparole; che il rischio di essere città solo aparole è possibile. È questa, d'altra parte,una affermazione che ricorre in molti deinostri discorsi, quando critichiamol'Unione Europea per il suo deficit didemocrazia. Non ci riferiamo infatti, conquesta critica, al fatto che, pur avendo"magistrature comuni" (e dunque essendouna "città"), l'Unione Europea è una cittàsolo a parole perché si limita a sorvegliareil rispetto dei trattati e dei mutui diritti, enon si occupa della buona vita deicittadini? E quando ricordiamo lo scopodi pace che aveva il disegno europeista aisuoi inizi, e, in fondo – al di là degliegoismi nazionali che sono riemersiprepotentemente e della strumentalità dimolti dei discorsi sui debiti pubblici –quando si parla di quel profilo per cui leparole debito e peccato si intrecciano, nonsi pone forse il problema di un raccordotra fini virtuosi e comportamenti virtuosi,in assenza del quale l'Unione resta unacittà solo a parole?È dunque ragionevole chiedersi: il nostrocostituzionalismo ha contribuito a far sìche la Repubblica sia qualcosa di più di uncampo in cui si bada solo che sianorispettati i termini della costituzione–trattato, fondata a sua volta su unaconvenzione mirante a garantire i mutuidiritti? E in che cosa consiste, oggi,questo "di più" che renderebbe la

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comportamenti viziosi appaiono come unqualcosa, appunto, di scandaloso, diinaudito, di esterno, geneticamente soloprivati e imperscrutabili.

Prima di riprendere il filo dellariflessione sul rapporto traconvivenza e vita buona, tracittadinanza e virtù, può non

essere inutile cercare di definire meglio lanatura del sentimento oggi più diffuso:l'indignazione. E cercare di chiarire ledifferenze che lo separano dallo sdegno:l'uno, un sentimento potenzialmente oindirettamente politico e, l'altro,radicalmente antipolitico. Un po'scherzosamente (ma non troppo)potremmo chiederci: se nei tempi arcaicidella magia il mondo generava sentimentidi terrore; in quelli della religione, didevozione; in quelli della scienza, dicuriosità; in quelli delle rivoluzioni, diribellione; in quelli dei totalitarismi, diresistenza; in quelli della democrazia, dipartecipazione ... oggi, quale sentimento il(nostro) mondo genera? Non sarebbesbagliato dire: lo sdegno.Si usa molto, per definire l'atteggiamentodi rifiuto di indirizzi o comportamentipolitici, la parola "indignazione"; el'indignazione è cosa sacrosanta. Ma a benvedere l'atteggiamento più diffuso non è,sempre, di indignazione. Frequentemente,o forse più frequentemente, è di sdegno.Che è cosa diversa. Nel linguaggiocorrente, indignazione e sdegno possonocoincidere; ma lo sdegno ha un significatoeccedente. La differenza sta nel fatto chel'indignazione è generata dalla violazionedi principi morali reputati fondamentali,mentre lo sdegno può anche – nelsignificato "eccedente" – essere generatoda una smisurata coscienza di sè:dall'orgoglio e dal disprezzo delle cose e

quale nozione di morale essa si riferisca.È appena il caso di ricordare che questovuoto non è affatto colmato dallastrabordante attenzione che politica eaccademia hanno dedicato al tema delleriforme istituzionali come riforme dellapolitica. Qui il tema è sempre stato quellodella efficienza dell'azione di governo,intesa in senso lato, e, in parte minore,quello della responsabilità politica deglieletti: la qual ultima cosa non attribuisceautonoma rilevanza al giudizio sulle virtùpolitiche prima ricordate, essendo rimastasempre strettamente inscritta nel circuitotra interessi (intesi in senso "materiale",per usare una parola sbrigativa) evalutazione del loro soddisfacimento. Néil vuoto è stato colmato dal cd.neocostituzionalismo, in quanto laeticizzazione della costituzione che essopropugna si risolve in una eticizzazionedella giurisdizione, senza toccare il temadella politica e delle virtù politiche. Anziassumendo che la politica non è, né puòessere, il luogo della virtù, il quale inveceè la giurisdizione, in quanto fondata sullasaggia applicazione di un diritto che noncoincide con la legge positivapoliticamente prodotta.Ci troviamo dunque in una situazioneapparentemente paradossale. Da un lato –e da tempo – a fronte dei vizi ancheripugnanti di una parte cospicua dellaclasse politica si diffonde ilconvincimento che le cattive azioni e gliscandali minino alla radice la capacità delsistema politico di adempiere alla propriafunzione rappresentativa e di governo;dall'altro, il sapere scientifico estrumentale sembrano non riuscire acomprendere la connessione tra questionemorale e questione democratica, avalorizzarla e a sistematizzarla nella teoriapolitica e costituzionale. Cosicché i

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delle persone. Può cioè designarel'atteggiamento di chi ritiene di non essere"alla pari" del suo interlocutore, o, peggio,di chi ritiene di non essere adeguatamenteconsiderato o trattato dal suointerlocutore. L'indignazione generaribellione verso gli autori deicomportamenti inaccettabili emobilitazione collettiva; e trasportocaritatevole nei confronti delle lorovittime. Lo sdegno, disprezzo stizzito. Ilproblema è che molti che oggi si dicono, esono definiti come, indignati sono, inrealtà, sdegnati. Il che spiega ancheperché oggi, quando l'indignazione – sidice – è diffusissima e dilagante, lamobilitazione politica sia invece scarsa(dal momento che l'esecrazione solitariaaffidata ad un computer difficilmente può

essere considerata, da sola, unamobilitazione), di gran lunga più scarsa diquella che si manifestò in anni passati,sugli stessi temi: appunto perché non diindignazione si tratta, ma di sdegno. Sologli indignati si mobilitano. Lo sdegno è un sentimento complessivoche può emergere in tutti i momenti dellavita e riferirsi a qualunque oggetto, perchéla sua caratteristica consiste proprio inquesto: nel mettersi al centro del mondoper poi voltargli le spalle. Ma limitiamociallo sdegno nei confronti della politica. Ilsuo diffondersi non è solo un fenomeno

di costume, ma di immediato rilievocostituzionale perché è alla base della crisidella rappresentanza moderna, la qualetrae il proprio valore da quello attribuitoal conflitto e alla mediazione politica. Edè qui, nel preciso punto di questaattribuzione di valore, che lo sdegno simanifesta.

Se si ammette che la società èdivisa, fratturata, e chequalunque contrasto (diinteressi, religioso, etnico ...)

può trasformarsi in un contrastodistruttivo, allora la politica – come artedella tessitura capace di indicare uncammino "nazionale" – acquista la suanobiltà; anzi si pone come la più nobiledelle attività umane. Ma se la politica

delude – e fallisce, tanto più dopo essersidegradata in demagogia, ed aver adulato ilpopolo, come è avvenuto in Italia – alloraassume immediatamente i connotati diuna funzione inutile e parassitaria. Aquesto punto scatta la ribellione controchi incarna tale disprezzata funzione.Ribellione che può essere propriamentepolitica (e cioè mirata alla restaurazione diun "vero" campo del conflitto), oppurepropriamente anti–politica (e cioè mirataalla eliminazione del campo politico in sè,dal momento che l'operare della classepolitica ne avrebbe definitivamente

Si usa molto, per definire l'atteggiamento di rifiuto di indirizzi

o comportamenti politici, la parola "indignazione"; e l'indignazione

è cosa sacrosanta. Ma a ben vedere l'atteggiamento più diffuso

non è, sempre, di indignazione. Frequentemente, o forse

più frequentemente, è di sdegno

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chiarezza che ciò che viene rifiutato non èsolo la complessità politica dei problemi,ma la loro complessità tout–court. È lacuoca di leniniana memoria che sireincarna in ogni sdegnato che si chiede"come si faccia a non capire quello che ècosì evidentemente necessario". È inquesto tornante che si perfeziona losdegno: la politica è inutile non perchénon è brava nell'affrontare problemidifficili, ma perché non capisce le coseche io invece capisco perfettamente. In questo senso campioni dello sdegnosono molti editorialisti dei grandi giornali,che si presentano non come gli espertiche possiedono l'arte di spiegare in modosemplice i problemi difficili senza che laspiegazione perda di rigore, e dunque diverità scientifica (come il Luigi Einaudiammirato da Piero Gobetti), ma comecoloro che sistematicamentecontrappongono il loro "ovvio" (offertocome un ovvio rappresentativo di ciò chei loro lettori già sanno) all'inutilmentecomplicato, o insensato, velleitario, pigro... fare/non fare della politica. Questoatteggiamento è micidiale. I conflitti – diqualunque genere – non vengonodelucidati nella loro cruda realtà, come

dimostrato il carattere finto e inutile).In questo contesto emerge lo sdegno nellasua differenza radicale con l'indignazione.L'indignazione è una passione politicaviolenta; lo sdegno è una gelidamummificazione del rapporto con la vita:la classe politica, tutta, è inutile – dice losdegnato – e dunque non vado a votare; laclasse politica è talmente eirrimediabilmente inutile che non meritadi esistere: sia eliminata e il governoaffidato a non importa chi (ai tecnici o achi la provvidenza vorrà inviarci). È ovvio che considerare la politica inutile,e parassitaria in quanto tale, comporta chenon si attribuisca alcun valore non soloalla classe politica chiamata ad esercitarla,ma anche al conflitto politico in sé,perché non si attribuisce alcunriconoscimento alla difficoltà politica deiproblemi (alla difficoltà generata dal fattoche non si tratta di problemi intellettuali,ma di questioni vitali – e dunque mortali– di interessi e di potere). Al contrario, siassume che siano problemi"tecnicamente" risolubili se solo nonfossero intralciati dall'ignoranza e dallavoracità della classe politica stessa. E se si guarda più a fondo si vede con

C'è dunque – e non solo nel nostro paese (e non solo rispetto

alle cose politiche) – come una anti-passione diffusa, una voglia

di gettare la spugna, di lasciar perdere, che però non è accompagnata

dal sentimento della sconfitta, dalla rabbia di doversi arrendere

all'impotenza, dal desiderio di riprendere in qualche modo la strada

non appena possibile, ma piuttosto da un sentimento di fuga

nella superiorità: fa tutto schifo, e io non voglio saperne

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conflitti "che ci sono", che il nostromondo ha prodotto, e che dunque vannoaffrontati nel loro essere storico; mavengono invece presentati come conflitti"che non ci dovrebbero essere" se solo sicapisse quel che la malvagità ol'inettitudine o la miopia politica noncapisce. In tal modo i conflitti vengonobanalizzati, totalmente soggettivizzati, e sigetta il germe dello sdegno. Il mondo nonè più un groviglio difficile da decifrare eda conformare, grande e terribile; è solouno scenario di banalità, stupido ecorrotto.È questo continuum tra lo sdegnopubblico del maître à penser e del clerc elo sdegno privato, ma vociante, dellacuoca che costituisce un pericolo mortaleper la democrazia. Se i problemi postidalla vita sociale sono chiari e facili, a checosa servono le istituzioni, i partiti ...Basta che ci sia "uno come noi" che liaffronti. Non è questione della incapacitàe della corruzione dimostrata da questopartito, da questo governo. È questioneche "io" posso a fare a meno diqualunque partito, di qualunque"schieramento", di qualunque azionecollettiva. E come me, tutti quelli comeme. Se si potesse sorridere di tutto ciò –che è tragico – si potrebbe dire che losdegnato canta alla politica: Non seidegna di me; non mi meriti più.... Al male non si contrappone la critica e lapassione per un bene. Si voltano le spalle,si crea un vuoto, si dà una delega assoluta:essendo ovvio che chi la raccoglierà nonpotrà che essere "come me". C'è dunque– e non solo nel nostro paese (e non solorispetto alle cose politiche) – come unaanti–passione diffusa, una voglia digettare la spugna, di lasciar perdere, cheperò non è accompagnata dal sentimentodella sconfitta, dalla rabbia di doversi

arrendere all'impotenza, dal desiderio diriprendere in qualche modo la strada nonappena possibile, ma piuttosto da unsentimento di fuga nella superiorità: fatutto schifo, e io non voglio saperne.

Il dilagare dello sdegno –ferme restando le colpemortali della corruzionepolitica, che agisce da

catalizzatore – potrebbe essere intesocome il nuovo volto di quella anomia chepoco tempo fa veniva diagnosticata, dalCensis, sulle orme di riflessioniprovenienti dal mondo della psicoanalisisoprattutto francese, comeparticolarmente evidente nella societàitaliana. Una anomia esprimentesi in unaperversione del legame sociale, fattosi, da"oblativo", "rapace": perverso proprio inquanto non riconoscente altra regola senon quella del godimento. Una coazioneall'appropriazione – al godimentocompulsivo degli oggetti – sembravadominare i comportamenti, non piùcapaci di vero desiderio. Oggi – tra ipianti e lo stridor di denti che la crisiprovoca – c'è da chiedersi se quellarapacità sia stata sconfitta. Forse, in suoluogo, purificata dalla sofferenza, si èinsediata la passione ribelle, di nuovocapace di azione collettiva? o quello stessoatteggiamento ha solo mutato la formadel suo manifestarsi, ed è diventatosdegno: egoistico esattamente come laprecedente ricerca di godimento? La risposta è difficile, ma le domandesono quanto meno sufficienti adimostrare che è ragionevole pensare chela crisi non stia tutta nelle istituzioni, negliapparati, tra "i politici", ma che abbiaradici profonde nella struttura psichica dimassa, e che lo sdegno sia la partesommersa, pesantissima, del problema. Lo

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l'autoconsapevolezza critica. Si può pensarea Bunuel, ma anche solo chiedersi: chi hapiù visto un dottor Tersilli? La"dannazione" di alcuni – come "i politici" oi trafficanti di droga – se presentati cometotalmente altro, confinati in un mondostilizzato, fantastico, che non ha contatticon quello quotidiano, non fa compierealcun passo in avanti nel cammino versol'educazione privata e pubblica. Anzi,genera tranquillizzanti capri espiatori.La "virtù", nella tradizione greca, è«l'eccellenza in una "pratica", dove per"pratica" non si intende una singola azione,ma un'attività riconosciuta ed apprezzata dauna determinata comunità. Tale eccellenzasi configura come un "abito", cioè unadisposizione abituale, frutto di una serie diinterventi sul mero dato naturale – l'indole– quali l'educazione, l'esercizio,l'obbedienza alle leggi, l'elogio e il biasimodella comunità di appartenenza. L'insiemedelle virtù viene così a formare il"carattere", in greco êthos (con la êta), dacui deriva "etica", il quale a sua volta è ilfrutto dell'abitudine, in greco ethos (con laepsilon), cioè della ripetizione di azionibuone, nel caso di un carattere virtuoso, ocattive, nel caso di un carattere vizioso»2.Se, a fronte di questo quadro attivo dicostruzione sociale delle virtù, pensiamo aquanto oggi tutti – anche da altissimiscranni – dicono: che dobbiamocombattere la corruzione e approvare unaapposita legge "perché ce lo chiedel'Europa", cadono le braccia. «Alla virtù emalvagità politica stanno attenti coloro chesi curano del buon governo, perché èevidente che della virtù politica si devepreoccupare una città degna di questonome e che non sia tale solo a parole»,abbiamo letto in Aristotele. Da noi,

sdegno è un voltar le spalle, un modo diandarsene dalla comunità politica. Ma nonsi può voltar le spalle alla comunitàpolitica perché, come dice il filosofo, «chi(dice che) non ha bisogno di nulla,bastando a sé stesso, non è parte di unacittà, ma o una belva o un dio».Alternativa inquietante.

Se non è la meccanica delleistituzioni, ma l'assenza diquella componente essenzialidelle costituzioni che è la virtù,

il cuore della crisi, come reagire a questasituazione? Come rendere la questionemorale una questione costituzionale nelsenso prima chiarito, e cioè assumendo lacostituzione come ciò che fa essere la cittàuna città non solo a parole? Come reagire,detto più prosaicamente, ad una situazioneumiliante, per cui il nostro paese èconsiderato la pecora nera d'Europa quantoa inefficienza politico–amministrativa, acorruzione pubblica e privata, a estensionedella delinquenza...Il primo passo dovrebbe consistere nellosmettere – almeno da parte di qualche forzapolitica e di qualche settore della cultura –di praticare l'adulazione del popolo, e cioèla demagogia. Non c'è nessuna societàcivile che è sempre dalla parte della ragione,e nessuna classe sociale è buona per natura.Vizi e virtù sociali vanno criticati e discussipubblicamente. Quanto siamo lontani dallacomprensione del vero "stato dellanazione" lo dimostra la totale assenza –nella letteratura e nella filmografia – diopere critiche (amare o ironiche, satiriche otragiche) nei confronti della società"normale". Non è inondando le televisionidi programmi fondati sulla lotta tra buoni ecattivi, tra eroi e mostri, che si fa progredire

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2. Enrico Berti, Alasdair MacIntyre: comunità e tradizione, in http://www.dircost.unito.it/dizionario/pdf/Berti-MacIntyre.pdf

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occuparsi della virtù e malvagità politica èun "compito da fare a casa" perché altri celo hanno dettato. Non abbiamo piùnemmeno la forza di assumerlo comenostro.In questo orizzonte – ed è questo ilsecondo passo che andrebbe fatto, postoche riusciamo, se non a rimetterci in piedi,almeno in ginocchio – politica e culturadovrebbero impegnarsi nello sforzo diriorientare, secondo le diverse visioni delmondo che si accolgano, i sentimentidell'opinione pubblica, non più adulata,verso la passione politica e la responsabilitàcollettiva. Ma non basta dare uno sboccoalla indignazione immettendola nelconflitto politico secondo la mera logicadell'amico–nemico, separando bene enettamente le parti, i campi, i giudizi, leresponsabilità. Occorre che la passionepolitica abbia come elemento costitutivoessenziale una idea di bene (qualcosa disimile all'"amore del ben fare" checaratterizzava la cultura operaia econtadina): un'idea che possa fungere daparametro per l'elogio e il biasimo,strettamente intrecciando dimensioneprivata e pubblica. Cosicché il discorsopolitico abbia ad oggetto non solo l'utile,ma anche il bene. Ammettiamo che percorsi educativi sianotuttora presenti nelle formazioni sociali. Laparte più spinosa del discorso riguarda leforme di collegamento tra questi percorsi el'ambiente pubblico dove quelle diverseforme di educazione dovrebbero assumeredimensione politica. È qui che viene il temadifficile dei partiti. È ovvio che non ci sipuò illudere sulla loro capacità attuale diassumersi questo compito. I partiti nel loroinsieme si sono trasformati, ovviamente chipiù chi meno, in artropodi, cioè in esseriche (come i granchi e le aragoste) nonhanno, a differenza dei vertebrati, uno

scheletro (una «sostanza sociale» che liregge, costituita da risorse di potereautonome, di natura culturale edorganizzativa), ma solo un esoscheletro(una corazza esteriore costituita dai ruoliistituzionali occupati in forza del potere didesignare le candidature). Il che spiega laforza preponderante, al loro interno, deititolari di cariche elettive e l'eclisse delladirigenza di partito come dirigenzaautonoma. Anche il maggior partito dellasinistra si è indebolito in quanto comunitàpolitica. Non è certo più ovvio e naturaleparagonarlo a un vertebrato (giraffa,rinoceronte, elefante o leone che si voglia,come nel celebre duello tra Togliatti e LaMalfa). Per quanto riguarda la cultura, chedovrebbe contribuire a sostenere questoprocesso, sarebbe necessario chel'egemonia del sapere scientifico estrumentale, e del radicale individualismoche lo ispira, si riducesse, e che si ampliasseinvece l'influenza di quelle forme di sapereche si richiamano alla filosofia pratica e, peraltro verso, all'istituzionalismo. Forme disapere che si dimostrano più capaci dicomprendere la struttura profonda deicomportamenti umani, e che sonointeressate a non separare (nel senso di nonrendere reciprocamente irrilevanti eignoranti) il discorso morale da quelloistituzionale; la tecnologia del potere dallacritica dei suoi fini; le tradizioni politichedalle tecniche di governance; l'affidamentoesclusivo alle regole repressive dello Statodalla ricerca delle vie per garantirecomportamenti buoni senza costrizione; laresponsabilità come esposizione ad unasanzione da quella della responsabilitàcome assunzione di un compito in favoredell'altro; i diritti fondamentali come dirittipretesi dai singoli beati possidentes daidiritti fondamentali come diritti da rendere

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