Pensare la democrazia in una prospettiva postempiristica · Bobbio, nel suo Elogio della mitezza,...

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PENSARE LA DEMOCRAZIA IN UNA PROSPETTIVA POSTEMPIRISTICA APPUNTI SUL CONFRONTO TRA NORBERTO BOBBIO E DANILO ZOLO Damiano Palano 1. Uno «stile di pensiero» «Identifico il mite con il non violento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia» (1). Le parole con cui Norberto Bobbio, nel suo Elogio della mitezza, celebrava quella «virtù non politica» - se non addirittura, come scriveva, «l'antitesi della politica» - non costituivano soltanto l'ennesimo capitolo di una lunga carriera intellettuale. In quelle pagine, Bobbio si trovava infatti a esplicitare la regola di fondo che, per molti versi, ha guidato lo studioso torinese nella sua appassionata «militanza» intellettuale per più di mezzo secolo. Una «mitezza» che non implicava naturalmente un cedimento all'avversario, ma piuttosto un dialogo serrato volto a esaminare le reciproche posizioni con rigore e chiarezza, senza concessioni alla retorica o allo spirito di bandiera. È per molti versi proprio a questi tratti che guarda Danilo Zolo nel momento in cui fissa i caratteri dello «stile di pensiero» di Bobbio: «la disposizione al dialogo con l'avversario, la dignitosa sobrietà di linguaggio, la chiarezza adamantina, l'atteggiamento di austera indipendenza intellettuale» (2). E sono inoltre questi stessi elementi che hanno accomunato Bobbio e Zolo in un rapporto durato per quasi trent'anni, di cui possono essere oggi ripercorse le tappe nel carteggio pubblicato in appendice a L'alito della libertà. Insieme a una serie di saggi dedicati al pensiero di Bobbio, Zolo ha infatti raccolto in questo volume - uscito nella collana dei Quaderni di Iura Gentium, edita da Feltrinelli - una selezione della corrispondenza intrattenuta fra i due dalla metà degli anni Settanta fino al 1999. Una corrispondenza da cui emerge - come scrive Zolo - «l'immagine di un grande intellettuale che all'inesorabile severità con cui giudica se stesso, anzitutto, e poi i suoi interlocutori, me stesso compreso, aggiunge una profonda sensibilità umana, bontà e modestia» (3). Il volume di Zolo può essere letto, così, come un omaggio allo «stile di pensiero» dell'intellettuale torinese e al suo esempio di rigore, chiarezza e apertura al dialogo. «A partire dai primi anni settanta», scrive Zolo nella Premessa, Norberto Bobbio è stato per me un punto di riferimento intellettuale e morale. La sua lezione di pensatore rigoroso e appassionato nello stesso tempo, attento alle vicende della vita politica e Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli 1

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PENSARE LA DEMOCRAZIA IN UNA PROSPETTIVA POSTEMPIRISTICA

APPUNTI SUL CONFRONTO TRA NORBERTO BOBBIO E DANILO ZOLO

Damiano Palano

1. Uno «stile di pensiero»«Identifico il mite con il non violento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia» (1). Le parole con cui Norberto Bobbio, nel suo Elogio della mitezza, celebrava quella «virtù non politica» - se non addirittura, come scriveva, «l'antitesi della politica» - non costituivano soltanto l'ennesimo capitolo di una lunga carriera intellettuale. In quelle pagine, Bobbio si trovava infatti a esplicitare la regola di fondo che, per molti versi, ha guidato lo studioso torinese nella sua appassionata «militanza» intellettuale per più di mezzo secolo. Una «mitezza» che non implicava naturalmente un cedimento all'avversario, ma piuttosto un dialogo serrato volto a esaminare le reciproche posizioni con rigore e chiarezza, senza concessioni alla retorica o allo spirito di bandiera. È per molti versi proprio a questi tratti che guarda Danilo Zolo nel momento in cui fissa i caratteri dello «stile di pensiero» di Bobbio: «la disposizione al dialogo con l'avversario, la dignitosa sobrietà di linguaggio, la chiarezza adamantina, l'atteggiamento di austera indipendenza intellettuale» (2). E sono inoltre questi stessi elementi che hanno accomunato Bobbio e Zolo in un rapporto durato per quasi trent'anni, di cui possono essere oggi ripercorse le tappe nel carteggio pubblicato in appendice a L'alito della libertà. Insieme a una serie di saggi dedicati al pensiero di Bobbio, Zolo ha infatti raccolto in questo volume - uscito nella collana dei Quaderni di Iura Gentium, edita da Feltrinelli - una selezione della corrispondenza intrattenuta fra i due dalla metà degli anni Settanta fino al 1999. Una corrispondenza da cui emerge - come scrive Zolo - «l'immagine di un grande intellettuale che all'inesorabile severità con cui giudica se stesso, anzitutto, e poi i suoi interlocutori, me stesso compreso, aggiunge una profonda sensibilità umana, bontà e modestia» (3).Il volume di Zolo può essere letto, così, come un omaggio allo «stile di pensiero» dell'intellettuale torinese e al suo esempio di rigore, chiarezza e apertura al dialogo. «A partire dai primi anni settanta», scrive Zolo nella Premessa, Norberto Bobbio è stato per me un punto di riferimento intellettuale e morale. La sua lezione di pensatore rigoroso e appassionato nello stesso tempo, attento alle vicende della vita politica e

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testimone esemplare di impegno civile, ha lasciato in me traccia profonda» (4). Ad avvicinare i due era, per un verso, «il fastidio che Bobbio provava per la malinconica pedanteria degli accademici, per la loro pigra indifferenza alle tragedie del mondo»; e, per un altro, «il bisogno di riflettere sulle vicende umane con un certo distacco, con lo sguardo proiettato, come Bobbio ha scritto in De senectute, verso l'immensità dello spazio e l'infinità del tempo, consapevole della precarietà dell'intera vicenda umana» (5).In Bobbio, la moderazione è sempre assunzione problematica, nella convinzione che il dibattito fra opzioni opposte possa costituire un argine all'irrigidimento delle ortodossie e alla netta contrapposizione delle parti. Come scriveva in Politica e cultura - in una frase che Zolo pone come epigrafe al testo, e che viene celebrata d'altronde anche nel titolo del volume - «ciò che può ridar vita al corpo sociale irrigidito è soltanto l'alito della libertà, con la quale intendo quella irrequietezza dello spirito, quell'insofferenza dell'ordine stabilito, quell'aborrimento di ogni conformismo che richiede spregiudicatezza mentale ed energia di carattere» (6). Non è dunque sorprendente che Zolo abbia celebrato in Bobbio l'intellettuale «mediatore», ossia l'intellettuale che, rifiutando il ruolo di aiutante del Principe, colloca il proprio impegno su un piano culturale inteso come almeno parzialmente autonomo. «C'è in Bobbio un'idea molto precisa di cultura - un'idea che egli esprime con la consueta chiarezza - e un'altrettanto lucida consapevolezza del suo ruolo di uomo di cultura», secondo cui l'intellettuale svolge «il ruolo del 'mediatore' in nome della ragione e della libertà, impegnato a ponderare gli argomenti di tutte le parti in causa con misura, cautela e modestia» (7). Un ruolo che, ovviamente, non può che essere ripensato in un contesto come quello odierno, in cui il dibattito culturale è sostanzialmente modificato, per non dire stravolto, dalle trasformazioni comunicative. Ma un ruolo in cui, comunque, Zolo, continua a scorgere delle componenti vitali:Dal mio punto di vista ciò che è importante nella proposta di Bobbio è l'idea dell'intellettuale come un cittadino spiritualmente inquieto, insofferente verso l'ordine costituito, spregiudicato, anticonformista. E altrettanto rilevante mi sembra l'insistenza su qualità intellettuali come lo spirito critico, lo scrupolo filosofico, la misura nel giudicare, il senso della complessità delle cose. È insomma l'immagine di un uomo di cultura intellettualmente e moralmente integro, che non si appaga delle risposte che la società cui appartiene dà per scontate. È un intellettuale che accetta il rischio di apparire paradossale, eccentrico o astruso, e di restare isolato, perché continua a dubitare anche quando tutti gli altri esibiscono certezze; perché continua a essere curioso ed esplorativo anche quando 'la sua parte' ha vinto e da lui aspetta comportamenti adattivi e ripetitivi (8).

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Si tratta di un modello di intellettuale che - come Zolo certo non si nasconde - rimane legato a una stagione forse irrimediabilmente trascorsa della storia europea. Una stagione in cui, pur in presenza dell'enorme lacerazione del confronto bipolare, e pur in presenza dalla barriera rappresentata da una talvolta impenetrabile cortina ideologica, la cultura europea conservava in fondo la propria unità interna. Nel dopoguerra, quando Bobbio scriveva i saggi raccolti in Politica e cultura, osserva Zolo, «occorreva mediare fra i due dogmatismi contrapposti e fronti partitici corrispondenti, anziché schierarsi a favore dell'uno o dell'altro come l'ethos della politique d'abord imponeva nei termini di un assoluto dovere etico-politico», soprattutto perché «tutto ciò supponeva [...] l'idea di una sostanziale unità della cultura europea, ancorata agli assiomi della fisica galileiano-newtoniana e corroborata dai successi delle sue applicazioni tecnologiche», e rinviava inoltre «a una tavola di valori etico-politici omogenea: un'etica cristiano-borghese universalmente legislatrice, un ordinamento politico e giuridico impegnato a promuovere, assieme alle aspirazioni delle classi subalterne, le libertà fondamentali dei cittadini, un'economia che, per quanto 'mista', rispettasse la proprietà privata, un'arte indipendente dalla politica e dalla religione» (9).Oggi, quel mondo non esiste più, per motivi che vanno al di là del semplice mutamento politico. «La fine del secondo millennio», osserva Zolo, «è l'era del trionfo della tecnologia, dell'egemonia dei mezzi di comunicazione elettronici e della contemporanea dissoluzione di ogni legame sociale di carattere organico, di ogni universalismo razionalistico e di ogni progetto che riguardi il destino comune degli uomini» (10). Ed è allora in questo quadro ben diverso che Zolo cerca di declinare lo «stile di pensiero» di cui Bobbio ha costantemente dato prova lungo mezzo secolo. «Una professione culturale di questo tipo comporterebbe, assieme a uno stile di sobrietà e di misura, anche un dignitoso distacco dal mondo dei grandi mezzi di comunicazione di massa, in modo del tutto particolare dalla televisione, pubblica e privata, almeno finché non venga ideato e realizzato un 'servizio pubblico' degno del nome»; ma, soprattutto, continua, «penso che la mediazione e il dialogo di cui parlava Bobbio meriterebbero oggi di essere esercitati non all'interno dei paesi occidentali, ma entro un orizzonte transnazionale», resistendo «alla omologazione culturale in nome della complessità del mondo, della sua varietà, della sua bellezza e della sua potenzialità evolutiva» (11).Per molti versi, è proprio lungo questa linea che la riflessione e la militanza intellettuale di Zolo si sono svolte negli ultimi trent'anni, affrontando una serie di differenti sfide teoriche e, soprattutto, incrociando le armi della polemica con posizioni spesso largamente condivise, se non addirittura egemoni, e, dunque, accettando quasi sempre «il rischio di apparire paradossale, eccentrico o astruso, e di

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restare isolato». I saggi raccolti da Zolo e il suo carteggio con Bobbio non ci offrono così soltanto un nuovo ritratto del più influente intellettuale italiano della storia repubblicana, che va ad aggiungersi a una letteratura ormai piuttosto cospicua. Per molti versi, ci forniscono anche la sintesi di un percorso intellettuale del quale Bobbio - spesso forse involontariamente - ha costituito di volta in volta il testimone, il mentore e persino il bersaglio polemico.2. Le tre stagioni di un confrontoSe il rigore intellettuale e l'impegno alla chiarezza accomuna i due studiosi, sarebbe invece difficile riconoscere nell'atteggiamento di Zolo qualcosa di analogo alla «mitezza» che Bobbio assunse come ferrea regola di condotta intellettuale. Non certo perché Zolo abbia ceduto alle lusinghe della dissimulazione o a un acritico impegno ideologico, quanto perché i suoi interventi sono spesso stati (e continuano a essere) animati da una evidente e dichiarata vis polemica, quantomeno inusuale nel paludato ambiente accademico italiano. In una lettera del settembre 1996, lo stesso Bobbio lo ricordava benevolmente a Zolo: «tu, amico mio, hai il gusto della provocazione. Renditene conto. Tu non critichi, ma demolisci, radi al suolo gli avversari» (12). Ma a spiegare almeno in parte il rapporto fra i due intellettuali è forse anche questa distintiva vena polemica, di cui lo stesso Bobbio ebbe peraltro modo di sperimentare direttamente il potenziale corrosivo, quando Zolo, a partire dagli anni Novanta, iniziò a indirizzarsi verso una critica serrata del cosmopolitismo e del globalismo giuridico.Quello che emerge in filigrana dal carteggio è infatti il ritratto di una parte importante della storia intellettuale italiana degli ultimi trent'anni. Una storia intellettuale che vede Zolo sempre collocato su posizioni fortemente polemiche e quasi sempre minoritarie. Ma ciò che affiora forse ancora più chiaramente rileggendo oggi queste polemiche - e leggendo anche il carteggio privato dei due studiosi - è che molto spesso Zolo rivolge le proprie critiche a Bobbio, anche se l'autore di Politica e cultura non è mai l'autentico bersaglio. Sembra infatti che Zolo - nelle diverse stagioni lungo cui si snoda il loro rapporto - tenda a trovare in Bobbio una sorta di terreno di dialogo e anche di possibile convergenza, certo in virtù della «mitezza» con cui il professore torinese era solito accogliere critiche anche severe, ma nella convinzione che il suo ruolo di intellettuale «mediatore» rendesse la dialettica intellettuale un confronto capace di alimentare effettivamente «l'alito della libertà» e, dunque, di evitare ogni rischio di ortodossia.Forse, si possono distinguere in tre fasi diverse sia la riflessione fino a oggi condotta da Zolo, sia la sua corrispondenza con Bobbio, che ovviamente non può non risentire dei mutamenti nel clima intellettuale del Paese e della radicale trasformazione politica che avviene sia in Italia, sia sul scenario globale. La prima fase può essere collocata all'interno di

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quel dibattito sull'esistenza di una teoria marxista dello Stato, che prese corpo negli anni Settanta e che assunse in Italia una declinazione del tutto peculiare, oltre che per molti versi biecamente 'politicista'. Com'è noto, in quegli anni anche Bobbio si era dedicato alla questione, aprendo anzi il dibattito italiano con un saggio emblematicamente intitolato "Esiste una dottrina marxistica dello Stato?", poi confluito nel volume Quale socialismo? (13). Anche Zolo aveva preso parte al dibattito, in una posizione che non si collocava al fianco di Bobbio e non si allineava neppure ai suoi principali avversari, quegli intellettuali vicini al Pci che erano impegnati, in quel periodo, soprattutto nel tentativo di rileggere la teoria di Marx (o, meglio, alcune sue pagine) in funzione di un progetto di legittimazione teorica dell'ipotesi del «compromesso storico». In questa fase, infatti, Zolo aveva dedicato la propria attenzione alla ricostruzione (quasi filologica) della teoria marxista dello Stato, pubblicando, in primo luogo, La teoria marxista dell'estinzione dello Stato e, in seguito, il volume Stato socialista e libertà borghesi (14). Soprattutto in quest'ultimo testo, Zolo si indirizzava verso una impietosa demolizione di alcuni dei pilastri dell'intellighenzia marxista del periodo: la tradizione italiana dell'hegelo-marxismo, portata avanti da intellettuali come Biagio De Giovanni e Giuseppe Vacca, la scuola di Galvano della Volpe, che aveva trovato in Umberto Cerroni una declinazione specificamente 'politologica', e, infine, persino la filosofia di Louis Althusser. Ed è proprio a questo periodo che risalgono i primi contatti fra i due studiosi. «Il nostro rapporto», scrive Zolo, «era iniziato quando Bobbio aveva risposto a un mio breve messaggio, che accompagnava l'omaggio di un mio libro, La teoria comunista dell'estinzione dello Stato, con una lunga lettera, che era di fatto un'accuratissima analisi critica del libro» (15). «Questa generosa e nello stesso tempo severa attenzione al mio lavoro», ricorda ancora, «mi aveva riempito di riconoscenza e di ammirazione», e «da allora non ho più abbandonato questi sentimenti verso Bobbio», «si sono anzi consolidati col tempo, sino a divenire un profondo affetto» (16).Le prime lettere si riferiscono in effetti proprio alle critiche rivolte da Zolo ad Althusser e a De Giovanni. «Negli anni Settanta», ricorda Zolo, «l'hegelomarxismo era sostenuto con notevole successo in Italia da un gruppo di intellettuali e militanti comunisti, riuniti attorno alla casa editrice De Donato, di Bari. Fra di essi emergevano Giuseppe Vacca, Biagio De Giovanni e in una certa fase anche Umberto Cerroni, nonostante le sue origini dellavolpiane» (17). In un capitolo di Stato socialista e libertà borghesi - intitolato Marx e lo Stato in una prospettiva hegelo-marxista - Zolo aveva preso di mira, in particolare, la lettura, avanzata da De Giovanni, di alcuni passi marxiani della Kritik des Hegelschen Staatsrechts (18). Zolo fa discendere da quella critica la sua «emarginazione» dai periodici del Partito comunista (19), mentre le lettere testimoniano un sincero apprezzamento da parte di Bobbio del contributo fornito «al

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dibattito in corso con rigore e senza le solite ipocrisie accademiche», oltre che una sostanziale condivisione della pars destruens del ragionamento:Come non essere d'accordo sulle critiche anche dure che lei muove ad Althusser (che dopo l'autobiografia o autocritica non ha più alcun diritto di essere preso sul serio), e agli hegelo-marxisti nostrani? Ho avuto un altro incontro con De Giovanni al Festival di Napoli. La sua risposta mi è parsa ancora una volta dottrinale, schematica, fatta di formule, e nonostante l'aria dimessa con cui è stata pronunciata, presuntuosa. La lezione anche di severità filologica che lei dà a questi nuovi seguaci di quelle 'scuole braminiche' che hanno imperversato nella filosofia italiana, e contro cui tuonava Carlo Cattaneo, mi è parsa di ottima qualità e mi auguro possa essere salutare (20).Naturalmente, se Bobbio apprezzava le critiche di Zolo, non poteva seguirlo però sul sentiero della 'rifondazione' del marxismo come scienza. «Un 'ismo' non può mai essere una scienza», scriveva per esempio nella stessa lettera, «e se c'è qualche cosa di 'scientifico' in Marx, questo è patrimonio di Marx e di tutti coloro che intendono procedere scientificamente nello studio dei fatti sociali», mentre, «nel momento stesso in cui lei pronuncia la parola 'marxismo' ha fatto di Marx un filosofo e delle sue ricerche una filosofia, una concezione del mondo, ecc.» (21). Una lettera successiva - del giugno 1978 - tornava a ribadire gli stessi motivi, spostando questa volta l'attenzione soprattutto su Althusser, cui Zolo aveva dedicato un saggio, come al solito, piuttosto corrosivo (22), e che anche Bobbio aveva avuto modo di considerare nel corso di un dibattito svoltosi nei mesi precedenti (23):ho letto con piacere e consenso il tuo saggio in risposta ad Althusser, e ho notato le concordanze, anche se il tuo stile polemico è più duro del mio. Ma nella sostanza sono totalmente d'accordo: il dibattito mi è parso nel complesso fiacco, sbiadito, ripetitivo, senza originalità e senza vie d'uscita. Sono curioso di sapere se Althusser risponderà. Quel che mi ha dato più fastidio in lui è l'enorme prosopopea. Quel volumetto di autocritica pubblicato qualche anno fa da Feltrinelli era in realtà un capolavoro di auto-incensatura. Se risponderà, vedremo se sarà il caso di fare il punto sull'intero dibattito. Anche ai marxisti nostrani, di tanto in tanto, una lezione non fa male, anche se, come i birilli con cui giocano i bambini, sono sempre tornati, almeno sinora, al loro posto (24).Insieme al dibattito sulla teoria marxista dello Stato - che si esaurisce con gli anni Settanta - si conclude per molti versi la prima fase del rapporto fra Zolo e Bobbio. I temi tendono infatti a spostarsi in un'altra direzione: verso la teoria del diritto e, in particolare, verso la riflessione di Luhmann: un autore, com'è noto, di difficile collocazione disciplinare, cui Zolo si era forse avvicinato anche grazie all'influenza esercitata su uno studioso marxista dello Stato come Claus Offe (25), e di cui aveva

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curato l'edizione italiana di Macht (26). Ma per molti versi, la seconda fase del confronto ha come oggetto il metodo delle scienze sociali e, dunque, lo statuto epistemologico della scienza politica. Se il tema della complessità offre lo scenario generale delle considerazioni di Zolo, la sua ricerca si indirizza soprattutto sulla critica del cosiddetto neo-empirismo, adottato come cardine teorico dalla political science nordamericana dopo il secondo conflitto mondiale e divenuto in seguito un punto indiscutibile (e in fondo indiscusso) dell'indagine politologica. Si tratta, in questo caso, di un percorso che si snoda lungo tutti gli anni Ottanta e che ha le tappe principali nel saggio su Otto Neurath, nella raccolta Complessità e democrazia e, infine, nel Principato democratico, il testo in cui i fili tornano ad annodarsi e ad assumere una notevole coerenza interna (27).Anche in questa seconda stagione, Bobbio diventa, al tempo stesso, bersaglio teorico e interlocutore privilegiato, col quale individuare non solo un terreno di mediazione, ma persino una via di uscita comune. Il testo più significativo è probabilmente I possibili rapporti fra filosofia politica e scienza politica, apparso originariamente su «Teoria politica» nel 1985 e ora ripubblicato nell'Alito della libertà con l'esplicito titolo L'empirismo di Norberto Bobbio (28). In quell'articolo, Zolo tornava a riflettere sulla distinzione tra filosofia politica e scienza politica che Bobbio aveva proposto tra la fine degli anni Sessanta e il principio degli anni Settanta, in un periodo per molti versi cruciale, in cui la scienza politica, anche in seguito alla recente riforma universitaria, si avviava verso la propria 'formalizzazione' accademica (29). «La posizione 'empirista' di Bobbio», scriveva Zolo, «svolse in quell'occasione un ruolo di riferimento generale per ciascuno degli interlocutori e ha poi continuato a svolgere questa funzione per la più ampia comunità scientifica dei teorici della politica italiani», al punto che «si può ritenere, anzi, che da allora il punto di vista empir ist ico di Bobbio ha inf luenzato più di ogni a l tro l'autocomprensione degli studiosi italiani di cose politiche, fossero essi storici, filosofi o scienziati» (30). Nella propria «mappa» della filosofia politica, Bobbio individuava quattro ambiti principali: la riflessione sull'«ottima repubblica», la ricerca sul fondamento ultimo del potere, la determinazione del concetto di politica e, infine, la metodologia della scienza politica (31). Per quanto riguardava invece la scienza politica, Bobbio faceva riferimento «a un solo significato di 'scienza', quello empiristico-comportamentistico», assunto come «presupposto, come concetto 'unitario' e 'comune'» (32). In altre parole, Bobbio intendeva come riferimento il metodo delle scienze empiriche, come la fisica e la biologia, e precisava inoltre che la scienza politica doveva essere, al tempo stesso, «descrittiva» e «avalutativa». Era proprio questa immagine della scienza, però, che non poteva essere più sostenuta negli anni Ottanta, dopo il dibattito che nel decennio precedente aveva demolito gran parte dei capisaldi del neo-empirismo.

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Zolo sintetizzava così una serie di motivi di critica molto forti, che andava dall'impossibilità di distinguere chiaramente tra «fatti» e «teorie», alla fragilità di ogni tentativo di distinguere un linguaggio scientifico da uno filosofico o teorico, e al fondamento 'convenzionale' del discorso scientifico. Così, in quel saggio, scriveva:Una volta caduto il mito naturalistico della spiegazione universale e riconosciuto il carattere statistico di ogni generalizzazione empirica; una volta storicizzate anche le scienze 'più sicure', come la fisica e la matematica; una volta riconosciuto che il condizionamento linguistico e sociologico opera, sia pure con intensità diverse, nei confronti di tutte le scienze e che per tutte il punto di partenza non è la pretesa oggettività dei 'fatti', ma l'equivocità e la variabilità delle strutture simboliche, allora si dovrebbe riconoscere la priorità epistemologica delle scienze sociali. Almeno nel senso che nessuna interpretazione e ricostruzione razionale dei significati e dello sviluppo della scienza può prescindere da un approccio semantico, storico, sociologico ai comportamenti, ai linguaggi, ai valori, alle pratiche e alle decisioni metodologiche delle comunità scientifiche (33).La conclusione di Zolo era, allora, che «la ricerca epistemologica non può che muovere circolarmente da un'interpretazione riflessiva del proprio universo simbolico». Perciò, «l'unità della scienza, a qualsiasi livello essa venga ricercata - linguistico, metodologico, nomologico -, potrà stabilirsi soltanto sulla base degli standard 'minimali' praticati dalle comunità degli scienziati sociali: generalizzazioni deboli e incomplete, spiegazioni locali, previsioni probabilistiche, bounded rationality» (34).Sulla scorta di questa riflessione critica - che rimane ancora oggi estremamente importante per chiunque intenda ripensare criticamente il metodo della scienza politica - Zolo trovava una via per superare i vizi del neo-empirismo proprio in un passo di Bobbio, nel quale l'intellettuale torinese aveva invitato alla cautela riguardo alle aspettativa da riporre nella «scienza politica»: una cautela che derivava dalle stesse caratteristiche dell'essere umano. Ancora nel 1970, nel volume su Stato e politica dell'Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, curato da Antonio Negri, aveva scritto, infatti, che l'uomo è «un animale simbolico, che comunica con i suoi simili attraverso simboli», che «è un animale teleologico, che compie azioni o si serve di cose utili al raggiungimento di fini non sempre dichiarati, spesso incoscienti» e, infine, che l'uomo «è un animale ideologico, che si serve dei valori vigenti nel sistema culturale in cui è inserito per razionalizzare il proprio comportamento, adducendo, allo scopo di giustificarsi o di ottenere consenso, motivazioni diverse da quelle reali, onde l'importanza che assume nella ricerca sociale e politica l'opera di disvelamento di ciò che è nascosto, l'analisi e la critica delle ideologia» (35). Era in questa immagine dell'essere umano come animale simbolico, teleologico e ideologico che Zolo guardava per trovare un

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punto di mediazione e, soprattutto, il varco per sviluppare un punto di vista «postempiristico». La «caratterizzazione empiristico-comportamentistica della scienza politica oggi prevalente in Italia dovrebbe essere ripensata», scriveva per esempio Zolo, «nel senso di un pieno recupero del problema della complessità sociale, e cioè del carattere simbolico, teleologico e ideologico dell'azione sociale dell'homo sapiens» (36). In altre parole, in questo caso, i fattori che rendevano impraticabile la strada della verificabilità empirica - ossia la costituiva complessità dell'universo simbolico dell'essere umano - cessavano di essere interpretati come un ostacolo per diventare, in qualche misura, l'oggetto stesso della ricerca. «Piuttosto che come un limite esterno e una insormontabile difficoltà dell'analisi scientifica - e fonte di frustrazioni e di complessi di inferiorità - la complessità dei fenomeni politico-sociali verrebbe considerata allora come l'oggetto specifico di questa indagine» (37).È anche a questa proposta che si richiamano le lettere di Bobbio, e in particolare alcuni passi di una lettera del 21 ottobre del 1984. «Mi è piaciuta la tua tesi della indistinzione di scienza politica e filosofia politica, da collocare, se mai, in un continuum di gradi sempre più ampi di temi», anche se, proseguiva, «questa conclusione nulla toglie, mi pare, alla mia quadriripartizione che era analitica e non prescrittiva: era puramente e semplicemente una constatazione che di fatto certi modi di trattare il problema della politica, e non altri, si sono chiamati e si chiamano 'filosofia politica'» (38). D'altronde, Bobbio interpretava - e apprezzava - il contributo di Zolo non tanto come attacco alla scienza politica comportamentista, quanto come tentativo di costruire uno spazio per la riflessione della teoria politica (39). Ma non risparmiava però alcune osservazioni critiche alla proposta di Zolo:Meno convincente mi pare l'idea a te cara del primato delle scienze sociali. Mi pare infatti un brillante paradosso. Anche le grandi metafore con cui si è cercato di dare un'interpretazione della società, quella meccanicistica, quella organicistica, e ora quella sistemica, gli scienziati sociali le hanno derivate dai naturalisti. Come ho avuto occasione di dire più volte, le scienze sociali si muovono ancora nell'universo del press'a poco e del per lo più (40).Per quanto assumesse Bobbio come destinatario esplicito delle proprie critiche, era piuttosto chiaro che la polemica di Zolo si indirizzava verso un altro bersaglio, solo parzialmente esplicitato, rappresentato dalle formulazioni, «epistemologicamente assai meno caute, di Giovanni Sartori e dei suoi discepoli» (41). In effetti, Sartori, già a partire dagli anni Cinquanta, aveva proposto una distinzione fra scienza politica e filosofia politica fondata sul diverso tipo di linguaggio utilizzato da queste due discipline e sul differente obiettivo che esse si ponevano. «La spiegazione filosofica», aveva scritto per esempio Sartori, «non accetta i fatti: li

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trasfigura; la spiegazione scientifica, che presuppone la ricerca, emerge da fatti e li raffigura», tanto che - concludeva - «la filosofia può essere caratterizzata come un 'capire ideando', laddove la scienza risulta, caratteristicamente, un 'capire osservando'» (42). Ovviamente, una simile proposta, agli occhi di Zolo, non poteva che risultare del tutto inadeguata, per motivi che, in fondo, non erano molto lontani da quelli che lo stesso Benedetto Croce aveva sintetizzato criticando la sociologia di Pareto. Anche se la scienza politica puntava a rendere schematicamente i «racconti di fatti» desunti dalla storia o dalla cronaca giornalistica, in realtà - scriveva Croce - «non prescinde dal pensiero e dalla filosofia che ha dato loro vita, così come il beccaio non può prescindere dagli animali vivi, che ammazza e riduce a carne macellata», al punto che «il professato aborrimento della filosofia, anche in questo caso, non serve ad altro che a preparare la surrettizia introduzione di una filosofia volgare o poverissima, e a permettere lo sfogo delle proprie passioni e capricci, collocati tra i severi teoremi della scienza meccanica che ha preso a oggetto lo Stato e la società» (43). In modo in fondo analogo, Zolo, attingendo però alla riflessione epistemologica contemporanea, poteva considerare il criterio di distinzione proposto da Sartori come del tutto inadeguato. «Che le finalità distintive della scienza politica debbano essere considerate come la spiegazione e la previsione [...] mi sembra insostenibile se per 'spiegazione' (Erklärung, explanation) si intenda l'esibizione delle ragioni per le quali un determinato (singolo) evento è accaduto e doveva essere atteso», perché «soltanto la vigenza di leggi universali di tipo causalistico (o quasi causalistico) potrebbe consentire spiegazioni (e previsioni) di questo tipo» (44). Ma un problema ancora più lacerante emergeva a proposito del criterio della «avalutatività», non solo in virtù della difficoltà di escludere l'elemento soggettivo nella valutazione degli standard di ricerca accettabili, ma soprattutto a causa della presenza di premesse assiologiche «dissimulate o inconsapevoli», o di premesse valoriali che «influenzano la percezione stessa dei fenomeni, la selezione e l'impostazione dei problemi, la selezione e l'impostazione dei problemi, la costruzione di teorie di vasto raggio e di elevata complessità» (45). E, infine, proprio per la sostanziale impossibilità di giungere a un linguaggio 'depurato' da qualsiasi incrostazione valoriale, filosofica, ideologica. Come scriveva infine, Zolo, con estrema chiarezza:Se [...] con il termine 'avalutatività' si intende l'uso informativo del linguaggio politico in opposizione al suo possibile uso prescrittivo, un importante criterio pragmatico - non sintattico né, propriamente, semantico - può essere introdotto per tentare di distinguere non già la scienza politica dalla filosofia politica, ma l'intera riflessione teorica sul fenomeno politico (includente sia la scienza che la filosofia politica) dall'uso etico-religioso o etico-ideologico del linguaggio politico. Ciò

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tuttavia suppone un'accurata distinzione concettuale fra 'assiologico' e 'deontico', fra l'etica teleologica e soggettiva e l'etica deontologica e normativa che non ha ricevuto sinora, a mio parere, la dovuta attenzione (46).Ancora una volta, il bersaglio implicito (ma agevolmente identificabile) era proprio Sartori, nella cui riflessione Zolo evidenziava il ruolo cruciale giocato di un fortissimo presupposto valoriale, e, in effetti, in un passaggio solo apparentemente incidentale si riferiva «al ruolo che l'anticomunismo svolge nella scienza politica di Giovanni Sartori» (47). Ovviamente, proprio l'esistenza dell'«anticomunismo viscerale» finiva con l'obliterare non soltanto l'iniziale impegno all'avalutatività del ricercatore, cui pure Sartori aveva chiamato lo scienziato politico, ma anche - com'è scontato - la stessa distinzione fra il linguaggio 'scientifico' e quello 'filosofico', se non addirittura 'ideologico'. Zolo aveva peraltro esplicitato in altre occasioni la propria distanza da Sartori, che non si limitava al piano del metodo, ma investiva anche quello della teoria della democrazia. In una caustica recensione a The Theory of Democracy Revisited (48), pubblicato nel 1987, Zolo aveva per esempio sottolineato come nel nuovo testo si ritrovassero in realtà le tesi che il politologo fiorentino aveva esposto trent'anni prima in Democrazia e definizioni (49).Come emerge dal carteggio, Bobbio faceva propria la valutazione sulla «tragedia della scienza politica» formulata da Zolo, e ripresa da un noto testo di David Maria Ricci (50). Ma, per quanto riguarda invece le critiche mosse a Sartori si distanziava, dando prova in questo di una «mitezza» senza dubbio più marcata rispetto a quella di Zolo. Nella lettera del 1 marzo 1988, per esempio, scriveva:Nell'immenso campo del sapere c'è posto per tutti. Anche per Sartori. Sul quale ho scritto in questi giorni una nota benevola per «Teoria politica». A me pare che tu sia stato un po' ingiusto. Non si può negare, perché è un dato di fatto, che questa nuova edizione è di molto accresciuta e aggiornata. Basta confrontare gli indici dei nomi delle edizioni italiane e di quest'ultima. Ci sono capitoli nuovi e quasi tutti sono stati ampiamente modificati. Permettimi di dirti scherzosamente che può essere viscerale anche l'antisartorismo (51).In questo senso, però, presentando le lettere di Bobbio, Zolo tiene a svolgere alcune precisazioni, che certo non mettono in questione il peso delle dichiarazioni pubbliche dell'intellettuale torinese, ma ne esplicitano alcuni presupposti. «A proposito di Giovanni Sartori», riconosce per esempio Zolo, «Bobbio trovava eccessivo il tono delle mie critiche alla sua concezione della 'scienza politica' e alla sua definizione della democrazia come regime oligarchico 'a finzione maggioritaria', oltre che alla sua tendenza a riproporre come nuove le tesi che egli aveva sostenuto nel 1957 in un libro fortunato, Democrazia e definizioni» (52). Ma precisa però che questo non escludeva una convergenza di fondo:

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Nonostante le riserve formali, Bobbio condivideva in larga parte, da filosofo della politica qual era, le ragioni della mia polemica. Approvata in generale l'idea della grave insufficienza epistemologica e conoscitiva della «scienza politica» statunitense, che Sartori aveva preteso di importare in Italia. E non esitava, come si vedrà nella lettera del 21 ottobre 1986, a fare propria l'espressione «tragedia della scienza politica» [...]. Anche Bobbio riteneva che la più recente produzione di Sartori fosse scarsamente originale e rifiutava soprattutto - e aveva censurato anche pubblicamente - il suo «anticomunismo viscerale». Bobbio mi aveva personalmente riferito che nel corso di un convegno, organizzato da Sartori alla Columbia University nel 1986, egli aveva trovato tanto 'visceralmente indisponente' il suo anticomunismo che in chiusura del convegno, davanti al pubblico dell'Istituto italiano di cultura di New York, aveva espresso vivacemente il suo dissenso meritandosi il caloroso applauso dell'uditorio (53).La polemica contro la «scienza politica» avrebbe trovato una sintesi nel Principato democratico, all'inizio degli anni Novanta, ma, proprio alcuni mesi prima della pubblicazione del volume il rapporto fra Zolo e Bobbio entrava in una nuova fase, determinata in questo caso in modo esplicito dal dibattito scatenato dalla prima guerra del Golfo. In un'intervista rilasciata al «Corriere della Sera» il 17 gennaio 1991, Bobbio aveva infatti definito l'intervento militare contro l'Iraq, da parte degli Stati e di una folta coalizione internazionale, come una «guerra giusta» (54). In questa occasione, Zolo si trovava su una posizione molto distante da quella di Bobbio, ed esplicitò in modo piuttosto netto il proprio dissenso non soltanto dal ragionamento dell'intellettuale torinese, ma anche dall'utilizzo di un'espressione concettualmente così densa (e ovviamente ambigua) come «guerra giusta» (55). A questa critica, Bobbio replicò sulle pagine del «Corriere» (56), ma è ora molto interessante leggere la lettera con cui alcune settimane dopo - il 25 febbraio 1991 - tornava sulle proprie posizioni, riconoscendo in particolare come l'utilizzo dell'aggettivo «giusto» fosse stato almeno parte ambiguo e fuorviante:Sono io stesso il primo a riconoscere che è stato da parte mia un errore usare la parola «giusto», non rendendomi conto che poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo intesa io, molto semplicemente come guerra «giustificata» in quanto risposta ad un'aggressione. Però, sin dalla prima intervista ho detto e ripetuto decine di volte che il problema rilevante non era quello della liceità bensì quello dell'efficacia o della conformità allo scopo. Tra l'altro non ho mai mostrato di credere, sin dalla intervista sul «Corriere della sera», che lo sarebbe stata. Mi ha un po' irritato il fatto che io sia diventato il bersaglio comodo di tutti i pacifisti da strapazzo. Però credo di avere il diritto di pretendere che anche coloro che hanno continuato a credere

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all'alternativa diplomatica mostrassero quella stessa perplessità che io ho più volte mostrato circa la via della guerra (57).La precisazione di Bobbio puntava dunque a sottolineare come il suo utilizzo dell'espressione «guerra giusta» fosse del tutto privo di riferimenti a una morale superiore, e dunque a una giustificazione etica della guerra non troppo lontana da toni che, ovviamente, si richiamavano (più o meno esplicitamente) alla dottrina medievale del bellum justum. Per «guerra giusta», Bobbio intendeva cioè una guerra «legale», ossia un intervento militare coerente con il quadro normativo definito dalla Carta delle Nazioni Unite. Ma, anche in questo senso, come emerge dalla lettera, Bobbio non si faceva soverchie illusioni sull'effettivo svolgimento della guerra e sul ruolo giocato nel corso delle operazioni militari da parte dell'Onu:Sulle tue considerazioni sull'Onu e sulle guerre dell'Onu sono perfettamente d'accordo con te. Del resto lo stesso Segretario generale ha detto che si era trattato di una guerra autorizzata dall'Onu e solo per questo legale. (Fra l'altro, «legale» è sin sa Aristotele uno dei due significati di «giusto».) Che poi l'Onu sia stata esautorata strada facendo, è verissimo. Per questo non sono affatto soddisfatto del modo con cui la guerra è stata condotta, specie poi per la spietatezza dei bombardamenti, che forse hanno raso al suolo, ma ne sappiamo così poco, una città come Bagdad (58).La prima guerra del Golfo non fornisce solo un nuovo motivo di polemica, perché Zolo inizia, proprio da quel momento, una riflessione concentrata sul «nuovo ordine mondiale» e, soprattutto, sulla critica delle varie forme di cosmopolitismo da una prospettiva che diventa - ormai in modo esplicito - realista. I principali testi di Zolo - da Cosmopolis, a Chi dice umanità, dai Signori della pace a La giustizia dei vincitori - si indirizzano dunque su un terreno nuovo, rispetto a quelli praticati in precedenza, giungendo anche una 'rilettura' del pensiero internazionalistico di Carl Schmitt (59). Anche in questa nuova fase, Bobbio è al tempo stesso bersaglio polemico e interlocutore. E, in effetti, Zolo provvede a una ricostruzione della riflessione internazionalistica di Bobbio, in un'ottica che non può che essere influenzata proprio dal dibattito sulla «guerra giusta». In un saggio del 1998, ora riprodotto nell'Alito della libertà, Zolo rileggeva infatti gli scritti che lo studioso piemontese aveva dedicato, nel corso degli anni al «problema della guerra» e alle «vie della pace», ricostruendo così i contorni del suo «pacifismo giuridico» o «istituzionale» (60). «Bobbio», scrive in questo senso Zolo, pensa «che un ordine mondiale più pacifico [...] potrà risultare solo da nuove istituzioni che superino il sistema degli Stati sovrani - il cosiddetto 'sistema di Vestfalia' - e attribuiscano efficaci poteri di intervento politico-militare a un'autorità centrale di carattere sovranazionale» (61). I riferimenti chiave di Bobbio, in questo senso, sono il progetto kantiano della «pace

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perpetua» e il contrattualismo hobbesiano, riletto però in una chiave che estende al piano internazionale - grazie all'espediente dell'analogia domestica - il pactum societatis e il pactum subjectionis, che sono infatti intesi «come procedure consensuali attraverso le quali gli Stati conferiscono a un 'Terzo' il potere di regolare coattivamente i loro rapporti e le loro eventuali controversie, e quindi di garantire la pace fra le nazioni» (62). È proprio in questo passaggio che Bobbio trova le condizioni per una effettiva «democrazia internazionale»: «mentre il dispotismo può essere considerato la continuazione della guerra all'interno dello Stato, la democrazia internazionale può essere intesa come il modo di espandere e di rafforzare la pace oltre i confini dei singoli Stati» (63). Attorno a questi temi, ruota anche il dialogo su Kelsen, risalente al 1998, nel quale Bobbio riconosce il proprio debito nei confronti del giurista austriaco, anche a proposito del rilievo assegnato al diritto internazionale e dell'idea che solo la creazione di un organismo sovranazionale possa garantire più stabili condizioni di pace (64). Proprio al termine del dialogo, Bobbio riafferma un punto che lo distanzia certamente da Zolo, relativo al ruolo dei Tribunali penali internazionali. A questo proposito, osserva Bobbio, «è naturale che io sia del tutto favorevole, e lo sono nella più pura linea kelseniana», precisando inoltre:C'è chi sostiene che si tratterebbe di un tribunale speciale o che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe andato ultra vires nel deciderne l'istituzione. Ma io penso che fosse comunque necessario cominciare e che è stato giusto cominciare così. Ma al di là di questo io sono soprattutto favorevole al fatto che ci si avvia verso un ordinamento internazionale in cui i soggetti di diritto non sono più soltanto gli stati ma lo sono anche e soprattutto gli individui. Si sta così realizzando, lo ripeto, un progetto che Kelsen per primo ha avuto la lungimiranza e il coraggio di concepire (65).Negli ultimi anni, Zolo ha dedicato la propria attenzione proprio alla critica di posizioni simili a quelle svolte da Bobbio. In termini generali, già nell'articolo del 1998, emergevano tre questioni che il pacifismo giuridico lasciava «irrisolte», relative in primo luogo alla validità del modello della domestic analogy, in secondo luogo alla peculiarità dell'anarchia internazionale (che non pare escludere necessariamente aree di cooperazione, pur in assenza di un'autorità sovraordinata), e, infine, alla realtà gerarchica (e, così, scarsamente democratica) delle Nazioni Unite. Nonostante questi «problemi cruciali», Zolo non poneva però in discussione «il rigore intellettuale e l'intensità morale con cui un pessimista esistenziale come Bobbio si è posto di fronte al problema della guerra e si è sforzato di tracciare una via della pace» (66). Quei «problemi cruciali», che Zolo segnalava, erano così destinati a rimanere irrisolti, anche perché un nuovo confronto, progettato nel 1999, doveva arrestarsi alle prime battute, a causa del peggioramento delle condizioni

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di salute del professore torinese (67). È però probabilmente sul terreno di confronto fra il «realismo» di Zolo e il pacifismo giuridico di Bobbio, «cosmopolita impenitente» (68), che si possono trovare gli elementi forse più rilevanti per una discussione sulla democrazia contemporanea e sulla sua dimensione internazionale.3. Il posto dei valoriIn linea con un'interpretazione sostenuta da Perry Anderson, Zolo sostiene che Bobbio, nel corso della sua riflessione si muova sempre all'interno di un'irrisolta tensione fra un realismo «che si ispira a Machiavelli, a Marx, a Pareto, a Weber» e una «concezione etica dell'individuo che lo spinge a giudicare i fatti politici secondo parametri morali e a concepire i fini della politica alla luce di austere aspettative di carattere 'ideale'». Tanto che, da questo punto di vista, «Bobbio si avvicina, assai più che al realismo, alla tradizione del giusnaturalismo politico e sembra condividere le assunzioni dell'etica kantiana» (69). «Nelle opere di Bobbio», scrive ancora Zolo, esiste «una sorta di grandioso e non risolto dilemma fra opzioni filosofico-politiche fra loro alternative», perché «la duplice ascendenza del realismo e dell'illuminismo introduce nel pensiero di Bobbio elementi di pessimismo antropologico e, assieme, una forte istanza normativa, un'inclinazione a concepire i fini della politica alla luce di aspettative di carattere etico: la giustizia, l'eguaglianza, la pace, l'emancipazione umana» (70). Si tratta di una lettura che, senza dubbio, trova numerosi riscontri nell'opera di Bobbio. E, forse, proprio quell'ambivalenza irrisolta stava anche al fondo della sua teoria realistica della democraziaZolo ha avuto modo di soffermarsi in più occasioni, ma soprattutto nel Principato democratico, sui limiti della teoria «neoclassica» della democrazia. In quel saggio, prendeva di mira tutte quelle riformulazioni della teoria democratica che - più o meno a partire dagli anni Quaranta del Novecento - avevano ridefinito la democrazia nei termini di una procedura volta a produrre decisioni, in cui la partecipazione popolare si risolve nella scelta elettorale fra alternative in competizione. Fra i teorici «neoclassici», Zolo inseriva naturalmente Schumpeter, Dahl e Sartori, che avevano inteso produrre una teoria «realistica» della democrazia, nettamente in contrasto con la teoria «classica» e, dunque, con l'idea di una partecipazione diretta del popolo alla vita politica. Mentre svolgeva la propria requisitoria, Zolo non mancava di rivolgersi anche a Bobbio, che, ovviamente, era considerato come uno dei principali campioni della teoria «neoclassica». Almeno in parte, però, Zolo trovava nella proposta dell'intellettuale torinese un elemento che la distingueva - in senso positivo - da quella prevalente. Anche se Bobbio aveva senz'altro proposto una teoria per molti versi «procedurale», Zolo ritiene che la sua proposta non dovesse essere interpretata solo in questo modo. «Non ho mai condiviso questa interpretazione», scrive per esempio, perché «a mio

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parere questa 'definizione minima', pur influenzata dalla dottrina neoclassica di Schumpeter, non è né procedurale né ideologicamente neutrale, e cioè priva di riferimenti a valori e interessi sociali» (71). In altre parole, la proposta di Bobbio non sarebbe interamente procedurale, perché si fonderebbe sul riconoscimento di alcuni valori che sono sottratti alle procedure e, dunque, alle norme che disciplinano le modalità di produzione delle decisioni politiche. «Per Bobbio, come per Kelsen», afferma infatti Zolo, «non c'è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà», «per Bobbio la democrazia si è sviluppata nell'alveo della grande tradizione 'garantista' dello Stato di diritto, inteso come rule of law e non semplicemente come Rechtsstaat legal-burocratico», e, perciò, «le libertà fondamentali erano per Bobbio i valori che davano senso allo Stato di diritto e alla democrazia, ben al di là delle dottrine formalistiche e avalutative della vita politica» (72). Per quanto le osservazioni di Zolo non siano affatto prive di fondamento, è però interessante leggere quanto Bobbio scriveva proprio commentando le pagine del Principato democratico, in una lettera del 23 marzo 1992:Per quel che riguarda il capitolo che mi hai dedicato nel tuo libro, di cui ti sono grato sia per avermi messo in lista coi maggiori teorici della democrazia di questo secolo, sia per il favore con cui ne parli, non mi pare del tutto esatto che vi sia nella mia «definizione minima» di democrazia anche un riferimento a un contenuto minimo. I diritti civili non sono il contenuto ma le condizioni dello stato democratico. Il contenuto dipende dalle decisioni collettive che di volta in volta vengono prese con quelle regole, e può essere grande o piccolo secondo i partiti al potere. In secondo luogo, fa parte a pieno titolo delle mia teoria «realistica» della democrazia, come del resto tu dici alla fine, la tesi principale del tuo libro, vale a dire, la «distorsione» del consenso, che del resto era tesi comune già alla critica ottocentesca del parlamentarismo, a cominciare da Mosca (73).Non si trattava però dell'unico rilievo, perché Bobbio indirizzava una critica ben più significativa alle conclusioni tratte dall'amico al termine del suo libro. Ancora una volta, se non poteva negare una straordinaria potenza corrosiva alla pars destruens del Principato democratico, Bobbio rimaneva in larga parte insoddisfatto dal fatto che Zolo non riuscisse a proporre una definizione alternativa della democrazia:Ciò su cui non sono d'accordo, e fu una ragione del nostro scontro fiorentino di alcuni anni fa, è che una volta constata questa distorsione, tu non riesca più a trovare un criterio di distinzione tra regimi democratici e regimi totalitari. Soprattutto dopo il catastrofico crollo dell'universo sovietico e dei regimi satelliti [...], questa tua antica idea che democrazie anche corrotte e stati totalitari siano su per giù la stessa cosa a me pare che diventi improponibile, e finisca di non avere altre conseguenze che quella di abbandonare le democrazie al loro destino.

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Infatti, ciò che mi sembra il punto più criticabile del tuo libro è che, dopo aver respinto tutte le teorie precedenti, alla fine non proponi alcun modello nuovo e lasci il lettore, che ti ha seguito sino alla fine, a bocca asciutta, a meno che non si volga trarre dalla conclusione l'idea che l'unica alternativa alla degenerazione oligarchica dei regimi democratici sia il dispotismo illuminato (74).Quello segnalato da Bobbio non era in effetti un problema secondario. Ma non si trattava di una conclusione che nasceva da un dissenso sulla descrizione dello stato di salute delle democrazie. Quello che segnalava Bobbio era piuttosto un problema teorico, che in effetti segnalava ciò che appare come una sorta di «problema irrisolto» nella proposta di Zolo (75).Sulla scorta delle osservazioni di Bobbio, è oggi interessante tornare a rileggere infatti le conclusioni cui approdava Il principato democratico. In quel testo, la gran parte delle energie di Zolo erano dirette, senza dubbio, alla pars destruens del ragionamento: una pars destruens che colpiva dalle fondamenta la teoria «neoclassica» della democrazia, mostrando come i suoi stessi presupposti fossero in gran parte 'irrealistici'. Quelle teorie, centrate sull'idea di un rapporto dinamica fra élite e cittadini, scriveva Zolo, «si rivelano soprattutto poco realistiche rispetto alla situazione che si è andata determinando, dal secondo dopoguerra a oggi, con l'imponente sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa» (76); in primo luogo, continuava, «ignorano il tema [...] degli effetti cognitivi, affettivi e comportamentali che soprattutto nel lungo periodo le comunicazioni di massa esercitano nelle società industriali avanzate, investite dalla rivoluzione informatica», e, in secondo luogo, «ignorano l'impatto che questi effetti hanno sul funzionamento dei sistemi politici contemporanei, sia in termini generali che per la loro specifica interferenza con i circuiti della comunicazione politica e i processi di formazione dell'opinione pubblica» (77). Sulla base di un'analisi che si concentrava soprattutto sulle trasformazioni comunicative, Zolo formulava così una previsione senza dubbio piuttosto pessimista sull'evoluzione dei regimi democratici: «ai miei occhi le prospettive non dico di sviluppo ma anche di semplice conservazione delle istituzioni democratiche nei paesi postindustriali appaiono molto incerte, e non solo per i rischi evolutivi che ho segnalato in questo libro, e cioè a causa delle tendenze interne a sistemi politici che governano società sempre più complesse», ma anche a causa di «rischi esterni» (78), tra cui inseriva l'espansione demografica, le imponenti ondate migratorie, il rischio militare, l'aggravarsi degli squilibri ecologici. Che i fattori interni ed esterni segnalati da Zolo fossero destinati a entrare stabilmente nell'agenda politica degli anni a venire è oggi piuttosto chiaro. Ed è ancora oggi piuttosto evocativo il riferimento, con cui si concludeva Il principato democratico, al «modello Singapore», inteso da Zolo come il

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paradigma di una sorta di autoritarismo asiatico, capace di combinare l'assenza di democrazia con alti livelli di sviluppo economico, efficienza tecnologica e diffuso benessere. «Alle soglie del terzo millennio Singapore si profila come il modello della più perfetta antipolis moderna, caratterizzata com'è da altissima efficienza tecnologica, largo uso di strumenti informativi, benessere diffuso, eccellenti servizi pubblici (in particolare le scuole e gli ospedali), assenza di disoccupazione, burocrazia efficiente e illuminata, rapporti sociali asetticamente mediati da esclusive esigenze funzionali, totale mancanza di ideologie politiche e di discussione pubblica» (79). Forse, suggeriva Zolo, proprio il modello di quella città-Stato asiatica poteva essere inteso anche come una sorta di prefigurazione della direzione in cui i regimi democratici occidentali parevano muoversi, proprio perché - per effetto di trasformazioni strutturali - al loro interno iniziava a emergere una «nuova e sofisticata forma di guardianship», formata da «oligarchie elettorali con basi sociali sempre più ristrette» (80).Anche di recente, Zolo ha ripreso questa stessa immagine per descrivere la tendenza in atto dei regimi democratici, precisando che il riferimento a Singapore non deve essere inteso come la prefigurazione di una trasformazione delle democrazie in veri e propri regimi autoritari, ma, piuttosto, come il paradigma di trasformazioni più complesse. Riferendosi ai sistemi occidentali, per esempio, osserva che «la coesione politica si fonda assai più su conformismi indotti dal consumo privato che non su un senso di appartenenza che abbia radici in una vitale società civile», che «le forme tradizionali della vita democratica - anzitutto il sistema dei partiti - sembrano aver smarrito ogni potenzialità partecipativa e ridursi a puri rituali di designazione dell'autorità politica sulla base di un consenso sempre più debole», che l'economia di mercato «tende, anche grazie alla spinta della globalizzazione, a divenire una componente dominante sia della vita pubblica che di quella privata», e, infine, che «la tutela delle libertà sembra efficace finché si tratta delle tradizionali 'libertà negative' [...] mentre diviene sempre più problematica quando si passa alle libertà collegate con l'esercizio dei diritti politici e dei diritti sociali» (81). Il «modello Singapore» configura allora l'allusione distopica di una dinamica reale, che però non avviene nel segno di un autoritarismo disciplinare. «La open society», scrive infatti Zolo con formule che riprendono quanto già aveva enunciato nel Principato democratico, «tende a chiudersi e irrigidirsi entro processi di omologazione politica e culturale che minacciano la libertà individuale al suo livello più profondo, poiché incidono sui processi identitari, sulla formazione delle preferenze intellettuali e delle propensioni politiche»; e, così, «l'integrazione sociale si realizza paradossalmente attraverso la destrutturazione della sfera pubblica e la privatizzazione-dispersione dei

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soggetti politici, anziché, come a Singapore, sulla base di una disciplina imposta dai vertici dell'amministrazione» (82).Il punto critico, su cui Bobbio attirava l'attenzione, non era certo costituito dal riferimento al «modello Singapore», perché, in realtà, in diverse occasioni aveva sottolineato proprio gli effetti negativi prodotti dall'uso dei mezzi di comunicazione di massa e, soprattutto, dalla conseguente «inversione del rapporto fra controllori e controllati» (83). Soprattutto negli ultimi anni di vita, il 'caso italiano' avrebbe inoltre indotto Bobbio ad alcune - ormai piuttosto rare - prese di posizione, dedicate al nodo del rapporto fra televisione e politica, oltre che alle sue conseguenze sulla dinamica democratica (84). Tanto che, commemorando Giovanni Spadolini nell'ottobre del 1995, e citando esplicitamente Zolo, indicò proprio nel «modello Singapore» il polo verso cui i sistemi politici occidentali rischiavano di dirigersi (85). Il punto critico su cui Bobbio si indirizzava era invece - molto probabilmente - la proposta che Zolo formulava, al termine del Principato democratico, come punto di partenza per una «ricostruzione della teoria democratica». Si trattava in realtà solo di «alcuni 'punti fermi'» che ricapitolavano il «senso complessivo» della sua riflessione; punti fermi che Zolo intendeva «sul piano epistemologico [...] come un'alternativa realistica sia alla scienza politica che al moralismo neokantiano» e «sul terreno teorico-politico [...] come indicazioni persuasive per un superamento delle dottrine classica e neoclassica della democrazia e per un tentativo postclassico di ricostruzione della teoria democratica» (86). Il primo di tali 'punti fermi' consisteva nell'abbandono dell'idea di rappresentanza e delle sue implicazioni, non ultima l'immagine secondo cui la rappresentanza contribuisce alla definizione del 'bene comune', o alla formazione della 'volontà generale'. Il compito della politica andava invece riconosciuto altrove: in modo più specifico, infatti, Zolo suggeriva di riconoscere nel sistema politico «una struttura sociale che svolge la funzione essenziale di 'ridurre la paura' regolando selettivamente i rischi sociali» (87). Sulla base di questa premessa - e qui nasceva con ogni probabilità il dissenso di Bobbio - Zolo proponeva di ridefinire i regimi democratici come «oligarchie liberali». Se le idee di 'sovranità popolare', 'partecipazione', 'rappresentanza', 'opinione pubblica', 'consenso', 'uguaglianza' non mostravano - dopo un'attenta analisi 'realistica' - una connessione con la realtà dei regimi democratici contemporanei, diventava allora possibile definire quei regimi in modo diverso:I regimi che chiamiamo democratici sono più propriamente dei sistemi autocratici differenziati e limitati, e cioè, per usare un linguaggio canonico, delle oligarchie liberali. In questi regimi si è realizzato un equilibrio del tutto nuovo, e cioè moderno, fra le istanze opposte della sicurezza e della complessità/libertà. In essi la struttura oligarchica (e non monocratica) del potere è garantita dal pluralismo dei 'governi privati' e questo

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pluralismo è funzionalmente connesso alla molteplicità degli ambiti sociali differenziati e autonomizzati (88).Come si è visto, Bobbio notava che, alla fine, Zolo non riusciva più a distinguere in modo efficace i regimi liberaldemocratici da quelli effettivamente autoritari e totalitari. Si tratta, in effetti, di un problema che i 'punti fermi' indicati dal Principato democratico senza dubbio sembravano profilare. Andando più a fondo di quella critica, ci si può però chiedere oggi qualcosa di più intorno a quei 'punti fermi'. Ovviamente, si tratta di una proposta 'realistica', anzi, di una proposta che si innesta piuttosto fedelmente all'interno della tradizione realista e della critica che questo filone di pensiero ha diretto alle molte varianti della teoria democratica. Ma - ci si potrebbe chiedere - si tratta anche di una proposta «post-empiristica»? In altre parole, è una proposta che sviluppa per intero le promesse della critica rivolta alla troppo rigida e semplicistica distinzione tra 'fatti' e 'rappresentazioni', fra 'realtà' e 'ideologia', assunta dai teorici neo-empiristi? E, infine, si tratta veramente di una proposta che 'prende sul serio', e fino in fondo, l'idea dell'essere umano come animale simbolico, teleologico e ideologico? Domande di questo tipo, forse non sono del tutto irrilevanti, proprio ai fini del ripensamento 'realistico' dei regimi democratici contemporanei.Quando Zolo individua all'interno della riflessione di Bobbio una cruciale tensione fra realismo e idealismo - che, almeno sotto il profilo delle implicazioni politiche, sembrano anche «largamente incompatibili fra di loro» (89) - afferma anche una marcata preferenza per la visione realista (90). Ma, forse, proprio un irrisolto rapporto fra realismo e idealismo caratterizza anche la proposta di Zolo. Non tanto perché il ruolo di intellettuale che Zolo rinviene nell'esperienza di Bobbio, e che assume come modello di riferimento - presupponga un impegno morale, che, benché spesso accompagnato da una sorta di 'pessimismo esistenziale', non va a indebolire «l'alito della libertà». Ma non è però sempre chiaro quale sia, all'interno della sua prospettiva, il livello cui Zolo colloca i valori, e, soprattutto, non è sempre chiaro in che modo questa istanza conviva con i presupposti realisti della sua discussione.La critica che muove al neo-empirismo e alla visione della scienza adottata dalla «rivoluzione comportamentista» è piuttosto chiara. La tesi di una netta distinzione tra la 'scienza' e la 'filosofia' non può basarsi sull'idea di una demarcazione fra la pura descrizione empirica dei 'fatti' dalla loro interpretazione e, dunque, dal mondo delle rappresentazioni filosofiche e ideologiche. L'essere umano, come scriveva Bobbio, è un animale simbolico, teleologico e persino ideologico, e non è dunque possibile isolare i 'fatti' dalla loro rappresentazione, dalla percezione per cui quei 'fatti' iniziano a esistere per gli esseri umani. E, anche per questo motivo, come si è visto, l'«avalutatività» della ricerca rimane un'ambizione destinata ogni volta a scontrarsi con la realtà di un'inevitabile 'parzialità'

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della conoscenza, a ogni livello della ricerca scientifica. Zolo non si limita a riconoscere questo dato di fatto, ma, in realtà, propone una distinzione fra il piano «assiologico» e quello «deontico» (91). Questa soluzione, però, non sembra risolvere il problema del ruolo che giocano i valori.In effetti, sotto questo profilo, la riflessione di Zolo non sembra allinearsi puramente alla tradizionale critica realista. Secondo quest'ultima, infatti, nel comportamento umano possono essere individuate una serie, estremamente ridotta, di 'regolarità', che tendono a ripresentarsi invariabilmente nella storia umana, per il semplice motivo che sono 'connaturate' all'essere umano. Da questo punto di vista, la critica dei grandi maestri del realismo politico si lega a una concezione antropologica per molti versi negativa, all'interno della quale l'essere umano è guidato da un insieme più o meno coerente di moventi psicologici, che consistono, fin dalla formulazione di Tucidide, nella ricerca della sicurezza, della gloria e della ricchezza. Queste componenti tendono a riemergere in modo costante, possono essere controllati e limitati da fattori esterni o istituzionali, ma, in ogni caso, non possono essere soppressi. I grandi realisti di fine Ottocento e del principio del Novecento - e, soprattutto, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels - utilizzarono questi principi non soltanto per sostenere l'immagine di una società inevitabilmente gerarchica, retta dalle funzioni direttive del vertice della classe politica, ma anche per svellere dalle fondamenta la teoria «classica» della democrazia, centrata sull'idea della partecipazione del popolo e sul mito della «volontà generale». In questo senso, il bersaglio degli elitisti era proprio l'idea roussoviana dell'autogoverno del popolo: un'idea che veniva criticata non solo per le conseguenze politiche nefaste, ma per la sua impossibilità. Secondo il ragionamento degli elitisti, in sostanza, anche le società democratiche, che si basano nominalmente sul principio dell'autogoverno del popolo, sono in realtà delle società oligarchiche, all'interno delle quali esiste sempre - invariabilmente - una minoranza compatta che si impone sulla maggioranza disorganizzata. Le parole d'ordine della democrazia, della sovranità popolare e dell'autogoverno sono, dunque, solo un 'travestimento' ideologico, una finzione che legittima un rapporto di dominio non diverso, nella sostanza, da quello operante nella storia e inscritto in quelle che Mosca definiva come le «tendenze psicologiche costanti». Anche se gli elitisti dimostrano spesso un forte pregiudizio valoriale (ossia posizioni politiche fortemente 'conservatrici' e antisocialiste), in questo tipo di critica non esiste alcuna necessità di riferirsi ai valori; o, meglio, i valori non godono di alcuna sovraordinazione (logica o politica) rispetto ai moventi psicologici che stanno alla base dell'esercizio del dominio da parte della minoranza. In altre parole, la conseguenza è una sorta di relativismo, che, in fondo assume come normale la contrapposizione fra la minoranza organizzata

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e la maggioranza disorganizzata e pone, così, ogni forma di organizzazione politica virtualmente sullo stesso piano: nessuna è 'moralmente' migliore rispetto alle altre, perché la superiorità dell'una o dell'altra può essere data solo dalla loro concreta efficacia, ossia dal fatto che - in un determinato momento, in una determinata società - una forma di organizzazione politica risulta dotata dalla forza necessaria per sostenersi e per consolidare la credenza nella legittimità del proprio dominio. Una simile conseguenza non riguarda, peraltro, soltanto la politica interna, ma, com'è scontato, anche lo scenario internazionale. E, d'altronde, Edward H. Carr e Hans Morgenthau, nel riprendere la lezione di Tucidide contro l'«idealismo» del principio del XX secolo, non potevano che giungere proprio a una posizione di sostanziale relativismo, per quanto attiene i valori: in politica, e soprattutto nella politica internazionale, i valori non sono infatti indipendenti dai rapporti di forza, non orientano le argomentazioni degli attori, ma, piuttosto, sono essi stessi il frutto di un determinato assetto di potere, secondo un processo ineluttabile di adattamento del pensiero al fine.Per molti versi, in Cosmopolis e nei suoi scritti successi, Zolo sembra mettersi su questa strada. Per esempio, per quanto attiene alla «guerra umanitaria», non esita a portarne alla luce le premesse parziali, e, così, ha buon gioco nell'evidenziare - sotto la coltre di un'ideologia universalista - la realtà di interessi di parte e il tentativo di giustificare moralmente il diritto del 'più forte'. Ma anche nel Principato democratico compie un'operazione simile e, soprattutto, rivolge le armi della critica realista contro quella teoria della democrazia che, pure, era stata elaborata proprio a partire dalle premesse realiste, oltre che nel tentativo di aggirarle. A partire da Schumpeter, infatti, la teoria «neoclassica» assume come presupposti la configurazione necessariamente oligarchica della società e l'esistenza di una classe politica nettamente distinta dalla massa dei governati, ma individua nella competizione elettorale fra almeno due alternative il meccanismo con cui distinguere l'oligarchia dalla democrazia, che assume allora le sembianze di una sorta di oligarchia competitiva, divisa in almeno due frazioni, tra cui gli elettori possono liberamente scegliere. Volgendosi verso la sintesi «neoclassica», Zolo pone in questione proprio il 'realismo' di questa soluzione, in primo luogo perché l'idea che il cittadino-elettore sia effettivamente libero di scegliere fra alternative - e, dunque che abbia le competenze cognitive necessarie, che riesca a selezionare le informazioni provenienti dal sistema politico e dai media - appare quantomeno 'irrealistica'. Nel suo discorso, Zolo mette così in dubbio proprio il preteso carattere «realistico» di queste teorie, perché non sono più in grado di dar conto della realtà di una dinamica sociale sempre più complessa, in cui il rapporto fra cittadino e potere muta radicalmente rispetto al passato. «Le teorie della democrazia di cui disponiamo», scrive, «non offrono

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strumenti concettuali sufficientemente complessi per consentire una interpretazione realistica di quel rapporto», al punto che, continuava, «alle soglie del terzo millennio la teoria politica occidentale sembra disarmata di fronte alle imponenti trasformazioni che la rivoluzione va promuovendo nei sottosistemi primari della società industriale», «trasformazioni che sembrano destinate ad accelerare i processi di specializzazione funzionale e a produrre di conseguenza [...] un ulteriore aumento della complessità sociale» (92).Zolo non sembra però arrestarsi al limite estremo della critica realista, ma pare invece procedere oltre. In questo senso, per esempio, considera un grave limite il fatto che la scienza politica abbia rimosso i valori dal proprio campo analitico. La scienza politica - mentre assume la definizione «neoclassica» della democrazia - non compie altro che un vero e proprio occultamento ideologico: la presunzione di 'descrivere' i 'fatti' - e di astenersi da assunzioni di valore - si risolve, infatti, nella legittimazione di un'oligarchia sempre più autonoma dai cittadini e via via più autoreferenziale. Dinanzi a una società sempre più complessa, la scienza politica, secondo Zolo, si è così ridotta a perpetuare «a una sorta di costante, implicita apologia delle istituzioni politiche occidentali», col risultato inevitabile di svuotare la nozione di democrazia di qualsiasi riferimento valoriale. «Una 'scienza' che in omaggio a un astratto ideale di rigore metodologico espunge dal proprio ambito la discussione sui valori della politica per occuparsi esclusivamente dei 'fatti'» - scrive ancora - finisce paradossalmente «per non essere più in grado di impostare, e tanto meno contribuire a risolvere, i problemi della politica», problemi che implicanofatalmente «una decisione sui fini, sui limiti e sul senso della vita politica» (93).Nella critica di Zolo, il riferimento ai «valori della politica», ignorati dalla scienza politica, non può che apparire ambiguo, se non altro perché non è chiaro quali siano questi «valori», o, meglio, quali siano i soggetti deputati all'espressione di tali valori. Non si tratta, in questo caso, di un rilievo marginale, perché è proprio attorno a questo nodo che pare emergano alcuni dei nodi irrisolti del discorso di Zolo. Le sue argomentazioni, sembrano suggerire infatti che, dopo un'analisi realistica, si aprano gli spazi di una critica e di un'azione guidati da valori. In qualche misura, dunque, quando Zolo auspica un'azione volta a garantire l'«autonomia cognitiva» dei cittadini, si richiama, almeno implicitamente, a una serie di valori, che, in qualche modo, inducono a giudicare le trasformazioni della democrazia non soltanto come un processo che lo studioso deve osservare - con lo stesso distacco con cui un medico legale sezionerebbe un cadavere sul tavolo di un obitorio - ma anche come un insieme di processi cui guardare con timore, in virtù dei suoi 'rischi evolutivi'. Ovviamente, Zolo non rinuncia così alla propria valutazione morale, e, in questo senso, com'è legittimo (e, per molti versi, inevitabile),

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continua a giudicare i processi sulla base dei propri valori, delle proprie posizioni politiche, della propria esperienza personale. Forse, una simile posizione potrebbe essere criticata da qualche cultore di un'asettica avalutatività, ma non costituisce certo un elemento di incoerenza in uno studioso che ha svolto una feroce critica proprio del mito del 'fisicalismo' e che ha, invece, sostenuto che eliminare le opzioni di valore - nelle varie fasi della ricerca - è di fatto impossibile. D'altronde, la celebrazione dello «stile di Bobbio» compiuta da Zolo è anche una celebrazione dell'«inquietudine della ricerca», un'inquietudine che, ovviamente, scaturisce proprio da uno sguardo nutrito di aspirazioni, valutazioni e disillusioni inevitabilmente 'soggettive'. Il punto cruciale, dunque, non consiste nel fatto che alla base delle posizioni di Zolo ci siano delle precise opzioni di valore, quasi sempre esplicitate, ma piuttosto nel fatto che nella sua proposta sembra che i valori siano solo qui. E, soprattutto, sembra che non ci sia alcun posto per i valori 'collettivi', i valori che stanno alla base (o contrassegnano) una determinata forma di organizzazione politica e, dunque, anche i regimi liberaldemocratici contemporanei.Nei 'punti fermi' che Zolo proponeva per ridefinire i regimi democratici, i valori non sembravano infatti avere alcun ruolo, nel senso che quelli che definiva come «sistemi autocratici differenziati e limitati» sembrava non poggiassero sul alcuna base etica, su alcun presupposto valoriale comune. In qualche modo, così, Zolo si trovava a seguire proprio le visioni esclusivamente procedurali e formalistiche della democrazia, che individuano i criteri della democrazia in un insieme di regole procedurali, prive di uno specifico 'contenuto' politico, valoriale, ideologico. In questo modo, Zolo forse tendeva a sminuire il pluralismo e le garanzie delle società liberaldemocratiche, ma - ed è questo che più importa sottolineare - finiva col tradire la promessa di 'prendere sul serio' la natura di animale simbolico, teleologico e ideologico dell'essere umano. Mentre definiva le democrazie come «sistemi autocratici differenziati e limitati», proponeva, in fondo, una definizione che tornava a scindere il piano dei 'fatti' da quello delle 'ideologie', nel senso che definiva la democrazia sulla base delle sue caratteristiche strutturali, ma tralasciava del tutto il piano dei valori: non solo dei valori 'superiori', ma anche dei valori che costituiscono il cuore delle ideologie e - secondo la terminologia moschiana - delle «formule politiche». In altre parole, Zolo finiva col perdere la specificità della democrazia contemporanea, anche perché cedeva, in fondo, alla seduzione di una definizione 'oggettiva'.Forse la strada per risolvere un simile problema parte, ancora una volta, dall'immagine dell'essere umano come animale simbolico, teleologico e ideologico, che aveva fornito il terreno di incontro fra Bobbio e Zolo negli anni Ottanta. Forse, infatti, si può effettivamente comprendere la specificità della democrazia contemporanea - che certo rimane, da punto

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di vista strutturale, molto simile a un «sistema autocratico differenziato e limitato» - nel suo fondamento 'valoriale'. Un fondamento 'valoriale' che non può essere inteso come un radicamento in una 'moralità superiore', ma, piuttosto, come una sorta di 'ideologia', o, meglio, secondo la proposta di Chantal Mouffe, come un ethos comune: un ethos tutt'altro che stabile e definito nei suoi contorni, ma costantemente ridefinito nei suoi contenuti dai conflitti sociali interni, oltre che, soprattutto, dalla contrapposizione con ciò che sta fuori dalla democrazia (94). In sostanza, dunque, il modo per prendere davvero sul serio l'idea dell'uomo come animale simbolico sta nel riconoscere nella democrazia contemporanea, prima di tutto, un vero e proprio «concetto» politico. Un concetto che definisce i sistemi rappresentativi elettivi in cui sono riconosciuti libertà civili e diritti politici, ma anche un concetto che, in virtù del proprio carattere 'politico', conserva dentro di sé un inevitabile contenuto polemico. In altre parole, si tratta di riconoscere nella democrazia contemporanea un 'contenuto' valoriale specifico, prodotto di un secolo di storia, dell'ascesa degli Stati Uniti sulla scena globale, di un assetto istituzionale prodotto dall'egemonia americana e, persino, dalla «rivoluzione spaziale» realizzatasi a partire dal secondo conflitto mondiale. Forse, a questo punto, non sarebbe impossibile individuare nel concetto contemporaneo di democrazia un forte nucleo valoriale (o ideologico), che trova lo scopo primario della democrazia nella protezione (e promozione) dei diritti di ogni essere umano. Oltre che, naturalmente, nella lotta contro ogni 'nemico del genere umano' (95).

Note1. N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Linea d'ombra, 1994, p. 31.2. D. Zolo, L'alito della libertà. Su Bobbio, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 10.3. Ivi, p. 136.4. Ivi, p. 9.5. Ibid.6. N. Bobbio, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1995, p. 280 (I ed. 1955).7. D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 24.8. Ivi, pp. 40-41.9. Ivi, p. 27.10. Ivi, p. 28.11. Ivi, p. 42.12. Lettera del 9 settembre 1996, ibi, p. 171.13. A inaugurare il dibattito furono infatti proprio gli interventi di N. Bobbio, "Esiste una dottrina marxistica dello Stato?" e "Quali alternative alla democrazia rappresentativa?", apparsi originariamente in Mondoperaio, (1975), 8-9 e 10, e in seguito raccolti in Id., Quale socialismo? Discussione di

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un'alternativa, Torino, Einaudi, 19775 (I ed. 1976), rispettivamente pp. 21-41, e pp. 42-65.14. Cfr. D. Zolo, La teoria marxista dell'estinzione dello Stato, Bari, De Donato, 1974, e Id., Stato socialista e libertà borghesi. Una discussione sui fondamenti della teoria politica marxista, Roma - Bari, Laterza, 1976, oltre che Id. (a cura di), Il marxisti e lo Stato, Milano, Il Saggiatore, 1977.15. La lettera fu poi pubblicata, come recensione, in Prassi e teoria, (1975), 3, seguita da un commento dello stesso Zolo.16. D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 10.17. Ivi, p. 137.18. Cfr, in particolare, D. Zolo, Stato socialista e libertà borghesi, cit., p. 123-145.19. In effetti, scrive Zolo: «La replica alla mia critica da parte degli interessati e in generale da parte della cultura marxista italiana fu il più assoluto silenzio sul tema specifico, la mia emarginazione dai periodici del Partito comunista - in particolare da «Rinascita», alla quale saltuariamente collaboravo - e l'immediata, tacita archiviazione delle tesi hegelomarxiste sino a quel momento sostenute dalla 'scuola barese' e largamente divulgate dalla stampa del partito» (ibid.).20. Ivi, p. 139.21. Ivi, p. 140.22. Oltre che in Stato socialista e libertà borghesi, cit., Zolo aveva affrontato la proposta di Althusser nel denso contributo "Epistemologia e teoria politica nelle interpretazioni del pensiero politico di Marx", in G. Carandini (a cura di), Stato e teorie marxiste, Milano, Mazzotta, 1977, pp. 36-60. In questo caso, però, Bobbio si riferiva al dibattito raccolto in L. Althusser et al., Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Louis Althusser, Bari, De Donato, 1978.23. Cfr. N. Bobbio, "Teoria dello Stato o teoria del partito?", in L. Althusser et al, Discutere lo Stato, cit., pp. 95-104, ora in Id., Né con Marx né contro Marx, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 213-222. Bobbio aveva invece esaminato qualche anno prima l'opera di Nicos Poulantzas, uno studioso fortemente influenzato da Althusser, nel saggio "Marxismo e scienze sociali", in Rassegna di sociologia, 15 (1974), 4, pp. 505-539, ora in Id., Né con Marx né contro Marx, cit., pp. 115-152.24. D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 141.25. Cfr. infatti l'importante raccolta di saggi di C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, a cura di D. Zolo, Milano, Etas, 1977. Mentre presentava al pubblico italiano i contributi di Offe, Zolo peraltro osservava, richiamando le provocazioni di Bobbio: «dal lavoro di Offe mi sembra emergere una indicazione di ricerca preziosa per chi oggi in Italia intenda contribuire ad una comprensione scientifica dei meccanismi del dominio tardo-capitalistico ed intenda avviare di conseguenza, dopo aver abbandonato la marxologia scolastica e il dibattito puramente ideologico

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sui testi autorizzati, quel rinnovamento della teoria marxista dello stato da tante parti auspicato, ma così raramente perseguito» (D. Zolo, "Introduzione", ibi, p. 9).26. Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, a cura di D. Zolo, Milano, Il Saggiatore, 1979 (ed. or. Macht, Enke, Stuttgart, 1975).27. Cfr. D. Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath. Una prospettiva post-empiristica, Milano, Feltrinelli, 1986, Id., Complessità e democrazia. Per una ricostruzione della teoria democratica, Giappichelli, Torino, 1987, Id., La democrazia difficile, Roma, Editori Riuniti, 1989, e Id., Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992.28. Cfr. D. Zolo, "I possibili rapporti fra filosofia politica e scienza politica. Una prospettiva postempiristica", in Teoria politica, 1 (1985), 3, pp. 91-109, ora, con il titolo "L'empirismo di Norberto Bobbio", in Id., L'alito della libertà, cit., pp. 57-84. L'articolo era stato ripreso anche in Id., Complessità e democrazia, cit.29. Ho tentato di ricostruire il dibattito che accompagna l'affermazione della scienza politica in Italia nel volume Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 2005.30. D. Zolo, "L'empirismo di Norberto Bobbio", cit., p. 59.31. Cfr. N. Bobbio, "Dei possibili rapporti fra filosofia politica e scienza politica", in N. Lipari et al., Tradizione e novità della filosofia della politica, Bari, Laterza, 1971, pp. 23-37, e Id., "Considerazioni sulla filosofia politica", in Rivista italiana di scienza politica, 1 (1971), 2, pp. 367-379, ora in parte ripresi in Id., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, pp. 1-24.32. D. Zolo, "L'empirismo di Norberto Bobbio", cit., p. 63. In particolare, Zolo si riferiva anche a N. Bobbio, "Scienza politica", in A. Negri (a cura di), Scienze politiche. 1. Stato e politica, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 432-441.33. D. Zolo, "L'empirismo di Norberto Bobbio", cit., p. 75.34. Ivi, pp. 75-76.35. N. Bobbio, "Scienza politica", cit., p. 440.36. D. Zolo, "L'empirismo di Norberto Bobbio", cit., p. 76.37. Ibid.38. Lettera del 21 ottobre 1984, in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 143.39. Cfr. in tal senso quanto scriveva, per esempio, in N. Bobbio, "Ragioni della filosofia politica", in S. Rota Ghibaudi - F. Barcia (a cura di), Studi in onore di Luigi Firpo, Milano, Franco Angeli, 1990, IV, pp. 175-188, ora in Id., Teoria generale della politica, cit., pp. 24-39.40. Lettera del 21 ottobre 1984, in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 143.41. Ivi, p. 77.42. G. Sartori, "La scienza politica", in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche economiche e sociali, Torino, Utet, 1972, VI, pp. 665-707, poi in Id.,

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La politica. Logica e metodo in scienze sociali, Milano, SugarCo, 1979 (la citazione è tratta da questa edizione).43. B. Croce, "Politica «in nuce»", in Id., Elementi di politica, Bari, Laterza, 1974 (I ed. 1925), p. 142.44. D. Zolo, "L'empirismo di Norberto Bobbio", cit., p. 77.45. Ivi, p. 79.46. Ivi, pp. 79-80.47. Ivi, p. 60.48. G. Sartori, The Theory of Democracy Revisited, Chatham, Chatham House Publishers, 1987.49. G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1957. Cfr. D. Zolo, "Le vecchie novità di Sartori", in Micromega, 3 (1988), 2.50. Il riferimento era a D. M. Ricci, The tragedy of Political Science, New Haven, Yale University Press, 1984, un testo su cui peraltro Zolo si era soffermato a lungo: D. Zolo, "La 'tragedia' della scienza politica", in Democrazia e diritto, 28 (1988), 6. Cfr. la lettera di Bobbio del 21 ottobre 1986, in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 146.51. Lettera del 1 marzo 1988, ibi, pp. 150-151.52. D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 137.53. Ivi, pp. 137-138.54. Cfr. N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia, Marsilio, 1991.55. Cfr. D. Zolo, "Guerra giusta?", in l'Unità, 22 gennaio 1991.56. N. Bobbio, "Ci sono ancora guerre giuste?", in Corriere della Sera, 22 gennaio 1991, ora in Id., Una guerra giusta?, cit.57. Lettera del 25 febbraio 1991, in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 154.58. Ivi, pp. 154-155.59. D. Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Roma, Carocci, 1998, Id., Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000, Globalizzazione. Una mappa di problemi, Roma - Bari, Laterza, 2004, Id., La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Bari - Roma, Laterza, 2006, D. Zolo, "La profezia della guerra globale", in C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, Roma - Bari, Laterza, 2008, pp. V-XXXII.60. D. Zolo, "La filosofia della guerra e della pace in Norberto Bobbio", in Iride, 11 (1998), ora in Id., L'alito della libertà, cit., pp. 85-98.61. Ivi, p. 90.62. Ivi, p. 91.63. Ivi, p. 92.64. Cfr. N. Bobbio - D. Zolo, "Kelsen, the Theory of Law and the International Legal System: A Talk", in European Journal of International Law, 11 (1998), 2, ora con il titolo "La teorie del diritto e il diritto

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internazionale. Un dialogo con Norberto Bobbio", in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., pp. 99-125.65. Ivi, p. 125.66. D. Zolo, "La filosofia della guerra e della pace in Norberto Bobbio", cit., p. 98.67. Cfr. "Prima che il gallo canti. Un dialogo incompiuto con Norberto Bobbio", in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., pp. 127-132.68. D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 10.69. D. Zolo, "Bobbio fra Machiavelli e Kant", in L'Unità, 21 aprile 1997, ora in Id., L'alito della libertà, cit., p. 46.70. D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 15.71. Ivi, pp. 16-17.72. Ivi, p. 17.73. Lettera del 23 marzo 1991, in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., pp. 156-157.74. Ivi, p. 157.75. D'altronde, anche Zolo riconosceva i limiti della propria proposta, eccedendo peraltro nel segnalare i difetti del volume, in una gustosa 'autorecensione': «Come spesso gli accade, l'autore mantiene molto meno di quanto promette. La sua pulsione critica è incontenibile e devastante. La sua insoddisfazione è senza rimedio. Non smette di chiedere a tutti: perché? E di ripetere puntigliosamente la domanda e di trovare qualsiasi risposta insoddisfacente. Una provocazione continua. Ma la conclusione, la pars construens, è scarna, sobria, troppo prudente. Questa reazione critica al libro - ma in realtà, molto più in generale, al suo autore - è molto diffusa, anche fra i recensori più benevoli, come Stame, Curi, Cavarero e Cerutti. Ed è una critica confortata, oltre che dall'autorità di Bobbio, dal giudizio di quasi tutti gli autori anglosassoni che ne hanno recensito l'edizione in lingua inglese, da David Miller a Zygmunt Bauman». Cfr. D. Zolo, "Heautontimorumenos", in Scienza & Politica, 1994, 11, pp. 113-116, specie p. 114.76. D. Zolo, Il principato democratico, cit., p. 181.77. Ibid.78. Ivi, pp. 205-206.79. Ivi, p. 212.80. Ibid.81. D. Zolo, Da cittadini a sudditi. La cittadinanza politica vanificata, Milano - Roma, Puntorosso - Carta, 2007, pp. 83-84.82. Ivi, p. 84.83. Cfr. N. Bobbio, L'utopia capovolta, La Stampa, Torino, 1990, p. XV.84. Cfr. gli interventi raccolti in N. Bobbio, Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo, Dedali, Bari, 2008.85. Questo discorso è ricordato da Bobbio nella Lettera del 9 ottobre 1995, in D. Zolo, L'alito della libertà, cit., p. 164.

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86. D. Zolo, Il principato democratico, cit., p. 207.87. Ivi, p. 209.88. Ibid.89. D. Zolo, "Bobbio fra Machiavelli e Kant", cit., p. 47.90. In questo caso, si riferiva alle ipotesi di ricostruzione della sinistra, a proposito delle quali scriveva: «in una visione realistica e pragmatica la sinistra dovrebbe rinunciare a definire delle 'etiche pubbliche' à la Rawls, sulla base delle quali disegnare un modello antropologico 'pubblico', selezionare i bisogni, stabilire 'valori comuni' e fondare diritti universali. Dovrebbe insomma riconoscere i propri limiti e la propria radicale contingenza e lasciare ad altre sfere sociali [...] la ricerca sui fini ultimi e la promozione dei valori» (ibi, p. 48).91. Cfr. D. Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath, cit.92. D. Zolo, Il principato democratico, cit., p. 73.93. Ivi, p. 47.94. Cfr. C. Mouffe, The Democratic Paradox, London, Verso, 2000, e Id., On the Political, Routledge, London, 2005, trad. it. Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 2007. Mi permetto di rinviare però, per una parziale critica al ragionamento di Mouffe, a D. Palano, "Il «politico» nell'«era postpolitica». Appunti sulla proposta teorica di Chantal Mouffe", in Teoria politica, 24 (2008), 3, pp. 89-132.95. Per uno sviluppo più articolato di questa proposta, rinvio a D. Palano, I confini della democrazia. Questioni di teoria politica nell'era postpolitica, Napoli, Liguori, in via di pubblicazione.

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