Pellegrini piacentini nel...

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1 Piero Castignoli Pellegrini piacentini nel medioevo. [Edito a stampa in Piacenza e i pellegrinaggi lungo la Via Francigena, Piacenza 1999, pp. 181-200. © Piero Castignoli. Distibuito in formato digitale da Itinerari Medievali] 1. L’Anonimo piacentino L’Itineraio dell’Anonimo piacentino o dello Pseudo Antonino ci è pervenuto attraverso una tradizione di codici molto scorretti ed incompleti 1 . Essa si distingue in due recensioni: la prima, la più antica e la più vicina all’archetipo è rappresentata dal Sangallensis 133 del sec. VIII-IX e dal Rhenangiensis ora Turicensis 73 del sec. IX, mentre la seconda, rappresentata da molti testimoni, dal IX al XVII secolo, è frutto di una ritrascrizione del testo, in epoca carolingia. Quest’ultima ha l’intento di migliorarne la lingua veramente assai barbarica, di correggere gli errori più vistosi e di rendere più leggibile il testo con interpolazioni che si trovano un pò in tutto l’Itinerario, obbiettivo raggiunto solo molto parzialmente, a scapito di gravi fraintendimenti che si sono trascinati fino a questo secolo 2 . Il primo di essi riguarda l’identità dell’autore dell’opera che è stata attribuita al santo piacentino Antonino martirizzato alla fine del III o inizio del IV secolo. I Bollandisti, seguiti dal nostro Poggiali, hanno invece scoperto che si tratta di un grossolano anacronismo 3 . Il testo infatti, in base ad elementi interni, è sicuramente databile, secondo la convincente analisi della Milani negli anni 560-570 con un termine ante quem invalicabile posto nel 637, anno in cui Gerusalemme cadde in mano al califfo Omar 4 . Inoltre il nome dell’autore, pellegrino in Terra Santa, di cui si sa solamente che è partito dalla città di Piacenza, non figura mai nel testo e non può essere scambiato con Antonino nome che ricorre solo come riferimento al santo sotto la cui protezione si pone l’autore, assieme ai suoi compagni, al momento della partenza e che invoca 1 C. MILANI, Itinerarium Antonini Piacentini. Un viaggio in Terra Santa dal 560-570 d.C., Milano, pp. 47-57. 2 L’ultima edizione critica, quella del Milani, Itinerarium…, comparando le due recensioni messe a fronte, dà conto delle varianti e delle interpolazioni che hanno modificato il testo primitivo. 3 D. PAPEBROCK, Acta Sancotorum, 11 Maggio, Anversa, 1680 p.x. C. POGGIALI, Memorie storiche della città di Piacenza, I, Piacenza, 1757, p. 310 ss. 4 MILANI, Itinerarium…, p. 36 ss.

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Piero Castignoli Pellegrini piacentini nel medioevo. [Edito a stampa in Piacenza e i pellegrinaggi lungo la Via Francigena, Piacenza 1999, pp. 181-200. © Piero Castignoli. Distibuito in formato digitale da Itinerari Medievali] 1. L’Anonimo piacentino L’Itineraio dell’Anonimo piacentino o dello Pseudo Antonino ci è pervenuto attraverso una tradizione di codici molto scorretti ed incompleti1. Essa si distingue in due recensioni: la prima, la più antica e la più vicina all’archetipo è rappresentata dal Sangallensis 133 del sec. VIII-IX e dal Rhenangiensis ora Turicensis 73 del sec. IX, mentre la seconda, rappresentata da molti testimoni, dal IX al XVII secolo, è frutto di una ritrascrizione del testo, in epoca carolingia. Quest’ultima ha l’intento di migliorarne la lingua veramente assai barbarica, di correggere gli errori più vistosi e di rendere più leggibile il testo con interpolazioni che si trovano un pò in tutto l’Itinerario, obbiettivo raggiunto solo molto parzialmente, a scapito di gravi fraintendimenti che si sono trascinati fino a questo secolo2.

Il primo di essi riguarda l’identità dell’autore dell’opera che è stata attribuita al santo piacentino Antonino martirizzato alla fine del III o inizio del IV secolo. I Bollandisti, seguiti dal nostro Poggiali, hanno invece scoperto che si tratta di un grossolano anacronismo3. Il testo infatti, in base ad elementi interni, è sicuramente databile, secondo la convincente analisi della Milani negli anni 560-570 con un termine ante quem invalicabile posto nel 637, anno in cui Gerusalemme cadde in mano al califfo Omar4.

Inoltre il nome dell’autore, pellegrino in Terra Santa, di cui si sa solamente che è partito dalla città di Piacenza, non figura mai nel testo e non può essere scambiato con Antonino nome che ricorre solo come riferimento al santo sotto la cui protezione si pone l’autore, assieme ai suoi compagni, al momento della partenza e che invoca

1 C. MILANI, Itinerarium Antonini Piacentini. Un viaggio in Terra Santa dal 560-570 d.C., Milano, pp. 47-57. 2 L’ultima edizione critica, quella del Milani, Itinerarium…, comparando le due recensioni messe a fronte, dà conto delle varianti e delle interpolazioni che hanno modificato il testo primitivo. 3 D. PAPEBROCK, Acta Sancotorum, 11 Maggio, Anversa, 1680 p.x. C. POGGIALI, Memorie storiche della città di Piacenza, I, Piacenza, 1757, p. 310 ss. 4 MILANI, Itinerarium…, p. 36 ss.

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quando cade ammalato in Terra Santa perché gli conceda di ritornare in patria5. Ma a questa certezza si è arrivati solo nel 1903 ad opera del Grisar dopo che pochi anni prima il Diehl aveva creduto di poter leggere su di una pietra di Cana un’invocazione del supposto Antonino colla quale si pregava il Signore di intercedere per i propri defunti genitori6.

Sulla piacentinità del viaggiatore sussistono invece pochi dubbi. A parte la menzione della città di partenza che si colloca all’inizio del resoconto, c’è la descrizione della morte a Gadara di Giovanni da Piacenza che era accompagnato dalla moglie Tecla7. Si può pensare che i pellegrini siano partiti da Piacenza, appena prima dell’irruzione nella città da parte dei Longobardi (570) che assieme allo sconvolgimento che provocò nella popolazione atterrita dall’orda barbarica assetata di saccheggio, diede luogo anche una lunga interruzione dei traffici terrestri ma soprattutto fluviali, anche per il permanere della guerra tra i conquistatori e l’Esarcato bizantino8.

Non sono mancati poi ragionevoli dubbi sulla veridicità del viaggio e quindi del resoconto alla luce di un uso letterario abbastanza diffuso nell’Alto Medioevo di ricostruire pellegrinaggi fittizi sulla base di testi precedenti e i numerosi errori di identificazione di luoghi in cui cade l’Anonimo piacentino potrebbero avvalorare questa tesi.

In particolare esistono punti di contatto con altri resoconti di viaggi precedenti: 1’Itinerarium Burdigalense del 333 ca., l’Itinerarium Egeriae del 381-384 ca., l’Epistula 108 di S. Girolamo, il Breviarius de Hierosolyma e il De situ Terrae Sanctae di Teodosio del 530 ca. Secondo la persuasiva analisi della Milani tuttavia, questi punti di contatto possono essere benissimo casuali perché riguardano veri e propri “topoi”, comuni a tutta la tradizione legata ai viaggi in Terra Santa. Un rapporto di dipendenza è dunque, a suo avviso, indimo-strabile9. Ma c’è di più: vi sono i concreti riferimenti ad esperienze molto dolorose, come la morte di Giovanni e la propria lunga malattia10. Inoltre l’autore parla spesso di sé; sulla pietra di Cana

5 MILANI, Itinerarium…, p. 36 ss. 6 C. DIEHL, La pietra di Cana, in «Bullettin de correspondance hellènique» 9 (1855), pp. 28-42. Il DIEHL aveva creduto di leggere in greco sulla pietra di Cana la seguente frase: “Ricordati, o Signore, del padre e della madre di me Antonino”, ma altri epigrafisti dopo di lui non confermarono la lettura, finché il Grisar nel 1903 provò definitivamente che non si poteva attribuire il nome di Antonino all’Anonimo (H. GRISAR, La pietra di Cana e l’itinerario del cosidetto Antonino di Piacenza, in «La Civiltà Cattolica», s. XVIII, 2, 1903, pp. 602-609. Più tardi il DIEHL ammise l’errore. 7MILANI, Itinerarium…, p. 36 ss. 8 Sulle vicende della conquista longobarda di Piacenza si veda: P. RACINE, Dalla dominazione longobarda all’anno Mille, in Storia di Piacenza, vol. I, parte I, p. 180 ss. 9 MILANI, Itinerarium…, La questione delle fonti, pp. 39-41. 10 MILANI, Itinerarium…, p. 110 (8); p. 229 (1-2).

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scrive il nome dei propri genitori11, a Nazaret nota la bellezza delle donne ebree che pensa discendere da quella di Maria12, partecipa alla teofania nel Giordano13, a Gerico raccoglie i datteri per il nobile Paterio14, ecc. ecc.

Storici e filologi sono d’accordo dunque nell’escludere una derivazione del testo da altri precedenti.

L’Itinerario dello pseudo Antonino ha goduto nel Medioevo di una grandissima fortuna: basta solo considerare che la sua tradizione manoscritta è ricca di ben 22 codici15. Essa si colloca nella mentalità che vede nel pellegrinaggio, soprattutto in quello nella terra del Signore, uno dei più significativi atti devozionali e penitenziali per propiziarsi la salvezza eterna. Si tratta insomma della più convinta manifestazione di fede per una religiosità, quella medievale, che identificava gli atti d’amore verso Dio soprattutto nel culto esteriore come i digiuni, le cerimonie, le litanie, i lumi, le elemosine ecc. ecc. Spiritualità tanto lontana da quella di oggi che si è liberata in gran parte dalle sovrastrutture della sacralità rituale, ma non meno sincera, anzi forse di più.

Per questo il resoconto dell’Anonimo piacentino, secondo recenti indagini dell’Oldoni, ha poi sensibilmente influenzato la storiografia successiva da Gregorio di Tours, suo contemporaneo, al venerabile Beda (673-735) fino al monaco cassinese Pietro Diacono (1107-1159)16.

Ma a noi non interessa tanto, in questa sede, sottolineare l’influenza che l’Itinerarium ha esercitato in patria dove fino a pochi anni fa erano ancora presenti due manoscritti della seconda recensione: il Placentinus dell’Archivio capitolare di S. Antonino del 1360 e il Placentinus della Biblioteca Comunale (ms. Pallastrelli 139) del sec. XVI, il primo dei quali andato malauguratamente disperso. Ma l’aspetto più singolare della persistenza di questo testo nella tradizione piacentina è la sua contaminazione con la Inventio corporis Sancti Antonini martyris cioè con la leggenda del patrono della città.

I due testi, come ha dimostrato assai bene il compianto Michele Tosi, hanno camminato parallelamente senza confondersi perlomeno fino al IX secolo17. Come abbiamo visto, l’Anonimo venerava Sant’Antonino alla fine del VI secolo in base ad una tradizione, non si sa se orale o scritta, che faceva risalire il ritrovamento del corpo del martire, verso la fine del IV secolo ad opera di Savino secondo vescovo

11 MILANI, Itinerarium…, p. 94 (4). 12 MILANI, Itinerarium…, p. 102 (5). 13 MILANI, Itinerarium…, p. 125 (11). 14 MILANI, Itinerarium…, p. 134 (2). 15 MILANI, Itinerarium…, I codici dell’Itinerarium, pp. 46-58. 16 MILANI, Itinerarium…, La fortuna di IAP, 41.44. M. OLDONI, Gregorio di Tours e i libri historiarum, in «Studi Medievali» XIII, 2 (1972), pp. 691-693. 17 M. TOSI, Il martire Antonino di Piacenza nel lavoro storiografico basso medievale, in «Archivum Bobiense», 8-9 (1986-1987), pp. 82-83.

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di Piacenza18. Nel primo codice che ci tramanda 1’Inventio corporis sancii

Antonini del IX secolo (Vat. Lat. 5771) la leggenda del patrono di Piacenza comincia ad essere contaminata dal resoconto dell’Anonimo. Al Santo si attribuisce un viaggio in Terra Santa e la sua appartenenza alla legione Tebea. Più avanti si spinge, alla fine dell’XI secolo, l’arcidiacono piacentino Giovanni che riscrive 1’Inventio arricchendola di molti particolari inediti: ascrive al patrono la cittadinanza piacentina, gli attribuisce nobili origini, lascia credere che abbia abbracciato il sacerdozio e che abbia iniziato l’evangelizzazione della città. Avalla il suo viaggio in Palestina: “Egressus est a Placentia desiderans videre mirabilia in Judeorum patria”. Insomma nell’interno di nobilitare la sua città di cui vanta le lodi (“o civitas Placentia, quantus inter reliquas urbes tibi debetur honor et gloria”), non si preoccupa di forzare la troppo sobria, per i suoi gusti, lezione originaria dell’Inventio19.

Da questo momento si stabilisce quella sovrapposizione tra le due figure del Santo patrono e dell’Anonimo pellegrino lontane di quasi due secoli l’una dall’altra destinata a dominare nel Basso Medioevo ed anche nella prima età moderna il sentimento religioso dei piacentini stimolandoli ad emulare il loro progenitore nella fede in Cristo soprattutto attraverso i pellegrinaggi nei luoghi santi. Così da tappa sulla via dei più importanti itinerari verso la Terra Santa, da città tra le più fornite di ospizi per l’accoglienza dei pellegrini, Piacenza diviene essa stessa luogo di partenza dal quale i suoi cittadini si dirigono sempre più numerosi verso le mete legate alla vita di Cristo.

Andrei fuori dal tema propostomi se dovessi analizzare in questa sede i numerosi testi agiografici e cronachistici piacentini del Basso Medioevo e anche della prima età moderna che ripropongono una biografia romanzata del santo patrono inserendovi elementi tratti dall’Itinerario dell’Anonimo. Si tratta di ingenue falsificazioni, dettate più che altro dall’amor di patria e dal sentimento religioso ancora riluttanti a sottoporsi ad un severo giudizio critico, che tuttavia creano una solida e duratura tradizione20.

Il viaggio, come si è detto, comincia a Piacenza sotto la

18 L’inventio del corpo di Antonino da parte di Savino viene collegata criticamente dal Tosi al rinvenimento dei corpi di Gervasio e Protasio operato poco prima da Ambrogio a Milano. Savino è discepolo di quest’ultimo e l’arcivescovo di Milano è considerato allora il metropolita delle diocesi dell’Italia nord-occidentale (TOSI, Il martire Antonino..., pp. 84-89). Sull’inventio di Sant’Antonino si veda anche L. CANETTI, Gloriosa civitas, culto dei santi e società cittadina a Piacenza nel Medioevo, Bologna, 1993, pp. 19-71. Quest’ultimo non ha tenuto conto tuttavia delle conclusioni del Tosi. 19 TOSI, Il martire Antonino..., pp. 89-93. 20 Per le deformazioni prodotte dall’agiografia e dalla cronachistica del Basso Medioevo sulla biografia del santo patrono si rimanda al già citato lavoro del Tosi.

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protezione di Sant’Antonino: praecedente beato Antonino martyre come si legge nella prima recensione che è stato frainteso e mutato nella seconda in procedente, come se il patrono cittadino avesse partecipato personalmente al viaggio. Esso si svolse presumibilmente, stante anche la situazione stradale ereditata dall’Italia dopo la guerra gotica, attraverso la più comoda e praticabile via d’acqua: il Po fino alla foce, quindi l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo e il mar Marmara fino a Costantinopoli. Salvo l’esplicito riferimento della base di partenza, l’Itinerario, nelle recensioni pervenuteci, tace su questa prima parte del viaggio.

Dalla città del Bosforo sempre via mare i pellegrini piacentini raggiungono l’isola di Cipro e da quest’ultima ripartono per approdare a Tripoli in Siria. Seguendo la costa verso sud fanno tappa a Biblo, Berito, Sidone, Tiro, Tolemaide da dove dopo aver visitato il promontorio del Carmelo si addentrano nella Galilea raggiungendo Nazaret. Proseguono visitando il monte Tabor sulla vetta del quale trovano tre cappelle che racchiudono i tre tabernacoli di cui parlò l’apostolo. Il lago di Tiberiade o di Genezaret è la loro successiva meta sulle cui rive visitano Tiberiade e Cafarnao dove trovano la casa di Pietro trasformata in basilica. Risalgono il fiume Giordano fino alle sue sorgenti dell’Ior e del Dan. Ritornati sui loro passi, attraversano il lago in barca e ridiscendono il fiume fino a Gadara dove trovano accoglienza in un ospizio per i pellegrini. Qui muore il compagno Giovanni da Piacenza in viaggio con la moglie Tecla. Dopo altre tappe, proseguendo verso sud, attraversano la Samaria dove visitano il pozzo della Samaritana a Samaria Sebaste. Riprendono poi a discendere il Giordano fin di sotto al monte Piccolo Ermon dove è stato battezzato Gesù e qui assistono alla cerimonia della teofania. Giungono quindi a Gerico, ricco di ricordi biblici, a cominciare dalle mura abbattute che asseriscono di aver viste. Là ammirano la prodigiosa fertilità della terra irrigata dalla fonte fatte scaturire dalla roccia dal profeta Eliseo: vigneti, oliveti, campi di messi e palme da datteri da cui l’Anonimo autore dell’Itinerario raccoglie e porta con sé alcuni frutti.

I datteri pesano, con evidente esagerazione, una libbra, cioè quasi 3 ettogrammi e mezzo. Uno di questi frutti sarà portato in patria e donato al patrizio piacentino Paterio. A loro volta i cedri giungono fino a quaranta libbre. Stordito dalla bellezza della natura del luogo (una specie di paradiso terrestre) e forse anche in vena di sensazionalismo l’Autore colloca la maturazione e il raccolto delle uve nelle festività dell’Ascensione e della Pentecoste. Ne ha visto lui stesso delle ceste traboccanti portate a vendere a Gerusalemme sul monte Oliveto. Anche collocando il viaggio nell’anno 569, con la Pasqua più alta (21 aprile), l’Ascensione cade il 30 maggio e la Pentecoste 1’8 giugno, date un pò

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improbabili per la vendemmia anche in Palestina21. Il sicomoro di Gerico sul quale è salito Zaccheo per vedere Gesù spunta invece da una cappella costruitagli intorno, ormai rinsecchito. La descrizione del Mar Morto è precisa; viene menzionato come mare del sale dal quale si ricavano bitume e zolfo. Del tutto improbabile invece che gli Alessandrini potessero raggiungerlo con le loro navi per risalire il Giordano e partecipare alla teofania del Signore attingendo acqua con orci colla quale aspergere le imbarcazioni. Nella narrazione abbondano dunque elementi favolosi anche se alcuni di essi possono essere spiegabili con comprensibili difficoltà e confusioni dovute al fatto che la stesura del resoconto avvenne probabilmente qualche tempo dopo il viaggio quando già l’autore era rientrato a Piacenza.

Proseguendo a sud del Mar Morto l’Anonimo visita le rovine di Sodoma e Gomorra e ammira la statua di Lot intatta; “non è vero dunque”, commenta, “che tutti gli animali vanno a leccare il sale di cui è fatta!”. Dirigendosi verso Gerusalemme si ferma a Betania dove trova la tomba di Lazzaro. Anche qui sorgono numerosi monasteri maschili e femminili come, del resto, un pò dovunque.

Segue una descrizione molto accurata della città santa con miracolose so-pravvivenze della passione di Cristo: i tre giacigli dell’orto di Getzemani, la valle di Giosofatt ormai priva della casa di Maria trasportata in cielo, il fico su cui si impiccò Giuda ecc. ecc. Lunga visita al Santo Sepolcro e al Golgota durante la quale si mescolano elementi favolosi accanto a particolari realistici. Nella basilica di Costantino venera il legno della croce e l’iscrizione che la sormontava: “Gesù Nazareno re dei Giudei”. Ammira vari oggetti della passione compiendo atti di culto: beve dalla spugna che fu offerta a Gesù quando ebbe sete, ma da essa grondava acqua benedetta, non aceto, vede il calice di onice che il Salvatore benedì durante l’ultima cena e la cintura di Maria. Sale poi sulla torre di David e nella basilica della Santa Sion, che fu la casa dell’apostolo Giacomo, crede di ammirare la pietra angolare del vangelo trasformando con un’ingenua interpretazione la metafora della parabola in un oggetto reale. In ogni caso questo equivoco ricorre in quasi tutti i resoconti di pellegrinaggi dell’epoca.

Nel Pretorio romano scorge l’orma del piede di Gesù rimasta impressa nella pietra del sedile sul quale sedeva quando fu interrogato da Pilato e ne ammira l’immagine dipinta, a suoi dire, ai tempi in cui il Redentore era ancora vivo, che così descrive: “piede bello, piccolo, sottile, statura comune, bell’aspetto, capelli inanellati, mano bella, dita affusolate”. Nella piscina di Siloe trova due vasche divise da un cancello, nell’una si immergono gli uomini e nell’altra le donne e anche

21 L’identificazione della Terra Santa con il Paradiso terrestre è ricorrente nell’immaginario collettivo del Medioevo (cfr. A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, Milano, 1984, p. 37 ss.

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qui si verificano miracoli in continuazione. La descrizione topografica della città santa è molto realistica e non vi

è dunque motivo di credere che sia frutto di invenzioni o che derivi da altri racconti che risultano molto più imprecisi.

Il sentimento religioso che esprime l’autore, ma potremmo dire più propriamente devozionale, è già molto lontano da quello della chiesa apostolica e si avvicina assai alla religiosità medievale. Il culto esteriore degli oggetti e delle reliquie e la tendenza ad attribuire un significato sacrale ai fenomeni naturali sono fortissimi e inducono ad atteggiamenti devozionali che sono estranei alla sensibilità religiosa moderna. Inoltre in essi è sempre sottesa una ricerca di salute terrena, di guarigione dalle malattie del corpo. Abbracciando la colonna dove fu flagellato Gesù si resta attaccati col petto e colle mani, nello staccarsi da essa rimangono delle macchie sulla pelle, con delle cordicelle si pren-dano le misure delle stesse e poi si leghino al collo portandole con sé. Il loro effetto traumaturgico per le malattie più gravi è assicurato. Lo stesso procedimento si usa per l’orma di Gesù nel Pretorio. Ad opera della cosidetta pietra angolare avvengono simili guarigioni. Sulle rive del Giordano vi sono dei serpenti colla cui pelle debitamente seccata si fa la polvere di “theriaca” efficace contro tutte le malattie. Tutti i pellegrini bevono devotamente dal cranio della martire Teodote e neppure il nostro si sottrae.

D’altro canto la teofania del Giordano e la processione della Santa Croce sul Golgota con il muoversi di una stella e il ribollire degli oli sacri durante la cerimonia, dimostrano come la dimensione miracolistica fosse diventata nell’animo religioso non un eccezionale intervento divino bensì un’esigenza quotidiana. In quasi tutte le cerimonie religiose si manifestano prodigi.

Altro aspetto della religiosità del tempo è l’enorme diffusione del monachesimo e dell’eremitaggio: la castità, la verginità e la povertà materiale assurgono a valori massimi della vita cristiana. Dappertutto troviamo monasteri, cenobi ed eremi; digiuni, privazioni e preghiere costituiscono l’alimento esclusivo dello spirito. Ma anche la carità ha un suo ruolo importante: i pellegrini vengono accolti ed ospitati con grande amore e numerosi sono gli ospizi pubblici destinati ad accoglierli dalla Siria fino all’Egitto. Non mancavano tuttavia anche allora raggiri orditi dagli indigeni a danno della disarmata ingenuità dei pellegrini. Ad Elusa, per esempio, trovano un monastero di vergini al quale attendeva un cellario cui facevano compagnia un asinello addetto alla macina del grano ed un leone terribile nell’aspetto e nel ruggito ma mitissimo come carattere al punto di convivere pacificamente con il quadrupede (reminiscenza biblica). Costui per cento soldi voleva vendere ai piacentini i due animali, ma essi si rifiutarono gentilmente. Piuttosto, saputo che nel deserto viveva una giovane vedova sprovvista di tutto,

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poiché dopo la morte del marito aveva donato ai poveri ogni suo bene, mandano a Gerusalemme per prendere tre tuniche, olio e legumi e farli avere alla povera eremita. Il cellario si incarica di eseguire la commissione ma presto torna dal deserto a mani vuote e tutto sconsolato dicendo di non essere riuscito a trovare la donna e di aver perso ogni cosa. Egli piangeva forte dichiarandosi indegno di essere un cristiano. Non si sa perché non fosse riuscito nel suo intento o perché non avesse resistito alla tentazione di far sparire quel ben di Dio che gli era stato affidato. I nostri pellegrini non commentano ma mostrano di aver capito il raggiro.

Dopo Gerusalemme le principali tappe sono Betlemme dove si può ammirare la grotta della natività, il sepolcro di San Gerolamo e il cimitero degli innocenti. A Mambre (Hebron) vi sono le tombe dei patriarchi ed una basilica divisa a metà da un cancello, nella quale entrano sia i cristiani che gli ebrei per assistere alle loro funzioni. Bisogna notare a questo proposito che in tutto l’Itinerario manca qualsiasi accenno polemico verso le altre religioni monoteiste e in particolare vi è assenza di pregiudizi nei confronti degli ebrei che sono descritti come amabili e rispettosi verso i cristiani. Questo spirito di tolleranza si estende anche ai pagani selvaggi chiamati Saracini, nel senso di popolazioni orientali, che vivono nel deserto e con i quali i pellegrini hanno com-merci, scambiando l’acqua da essi portata con il pane.

Un vero sentimento di fraternità mostrano poi verso le comunità copte dalle quali vengono ospitati con amicizia e onorati come compagni di fede. A Faran nella penisola sinaitica vengono accolti festosamente da un gruppo di donne copte che li accudiscono, lavano loro la testa e i piedi e poi li ungono con olio di rafano, salmodiando in copto l’antifona: “Benedetti voi dal Signore e benedetto il vostro arrivo, osanna nell’alto dei cieli”. Peraltro in tutto il viaggio non c’è traccia di incidenti o di un episodio increscioso, essi trovano sempre ospitalità e vivande a buon mercato adattandosi assai saggiamente agli usi e ai costumi delle popolazioni. La pace bizantina garantiva loro un sog-giorno sicuro e, nonostante le fatiche del viaggio e le condizioni climatiche, perfino lieto.

Dopo le città di Scalona e Gaza, anch’esse ricche di ricordi biblici, i pellegrini piacentini si inoltrano nel deserto del Sinai diretti al monte delle tavole della legge. La attraversata dura ben sei giorni durante i quali ci si nutre con poco pane e si beve molta acqua portata in otri dai cammelli al seguito. Giunti al monte Oreb vengono accolti da una folla di monaci e di eremiti salmodianti e danzanti e l’accoglienza è tale che tutti si commuovono fino alle lacrime. Dopo aver visitato il roveto di Mosè e passata la vigilia in preghiera presso un monastero, retto da tre abati, dove si parlano tutte le lingue, salgono all’alba sul Sinai; qui i monaci celebrano l’ufficio in un piccolo oratorio, al sorgere

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del sole. Consuetudine vuole che per devozione lì i pellegrini si taglino i capelli e la barba e il nostro si adegua sacrificando l’onor del mento. Beve poi assieme agli altri un liquido denso che cade dal cielo in forma di rugiada e che chiamano manna anche se non sembra che dal gusto gli paia tale. Comunque ne elogia le virtù terapeutiche. Il viaggio li porta poi in Egitto dove vedono il Nilo, visitano Menfi ed Alessandria ed altre città del delta.

Ritornati a Gerusalemme, l’Anonimo piacentino cade ammalato gravemente e si trova in pericolo di vita, invoca allora il santo protettore di Piacenza Antonino e Sant’Eufemia il cui culto era già praticato nella città. I santi gli appaiono in sogno dopo di che guarisce completamente. Nel viaggio di ritorno i pellegrini fanno una diversione in Mesopotamia dove visitano le famose città dell’Eufrate quindi, attraverso Apamea ed Antiochia in Siria riguadagnano il mare Mediterraneo da dove si imbarcano per ritornare in patria. Un viaggio complessivamente che non può essere durato meno di due anni.

Volutamente ci siamo soffermati nella descrizione dei luoghi e delle esperienze dell’Itinerario perché esso assumerà nel Medioevo non solo per Piacenza ma per tutto l’Occidente cristiano il valore di una guida esemplare ai luoghi santi. Non solo ovviamente una guida geografica e topografica corredata di ricchissimi riferimenti vetero e novo testamentari, ma soprattutto una guida per la devozione che nel Medioevo accentuerà tutti quei motivi propri di una mentalità religiosa profondamente ingenua ed emotiva. Il pellegrinaggio come cammino verso la salute non solo dell’anima ma anche del corpo, la via della penitenza per la riconciliazione con il Signore, la ricerca attraverso segni esteriori e cerimonie rituali della propria autentica vocazione cristiana: questi sono i propositi con i quali l’uomo del Medioevo affronta i disagi di un viaggio che dopo la conquista musulmana della Terra Santa diventa assai più rischioso e difficile.

2. Raimondo Zanfogni detto Palmerio

Il tema del pellegrinaggio è l’elemento centrale anche della spiritualità di un grande santo piacentino, Raimondo Zanfogni detto Palmerio, anche se il suo sbocco vocazionale risulterà alla fine assai diverso e completamente nuovo rispetto agli esiti tradizionali. Anche di Raimondo (1140-1200), come per l’Anonimo del VI secolo, possediamo una fonte (questa volta si tratta di una biografia) redatta quasi subito dopo la sua morte, nel 1212, del tutto attendibile. Essa è dovuta a Rufino canonico regolare della chiesa dei Dodici Apostoli che fu diretto testimone della vita

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e delle opere del santo22. Il relativo manoscritto, affidato alle monache di S. Raimondo, fu da esse consegnato ad un frate domenicano di San Giovanni in Canale nel 1525 perché ne curasse la traduzione in volgare ed esisteva ancora sicuramente nel 1618 quando lo storico della Chiesa piacentina Pier Maria Campi redasse la sua “Vita di San Raimondo Palmerio”23.

Il bollandista Peter Bosch venne a Piacenza nel 1728 alla ricerca del manoscritto che non riuscì più a rintracciare e dovette accontentarsi di volgere in latino, per gli Acta Sanctorum, la “Vita” del Campi”24. Nonostante le traversie della tradizione del testo, la storicità del personaggio e della sua vita appare sicura alla luce di molti atti notarili rogati in più riprese subito dopo la morte e attestanti i suoi miracoli25. La sua figura è inoltre ricordata da almeno due cronisti piacentini del Trecento26.

Nato da una famiglia, non ricca ma neppure sprovvista di beni, del ceto artigianale, nel sestiere di Santa Brigida, probabilmente nella vicinia di quella chiesa, a 12 anni fu collocato dal padre come apprendista in un laboratorio di calzoleria. La parrocchia era dominata da questi artefici, come ancora oggi attesta il nome della via dei Calzolai assai prossima a Santa Brigida, cioè a Piazza Borgo27.

22 Sulla persona del primo biografo di San Raimondo non è stata finora rintracciata alcuna documentazione ne è verificabile l’ipotesi che si possa identificare con l’omonimo e contemporaneo Rufino autore della Summa decretorum. 23 P. M. CAMPI, Vita di San Raimondo Palmario, Piacenza, 1618. 24 P. BOSCH, Vita s. Raymundi Palmarii, in Acta Sanctorum, luglio VI, pp. 638-663. Sulla sua visita a Piacenza per l’infruttuosa ricerca del manoscritto di Rufino, si veda la sua prefazione alla “Vita” (ibidem,pp. 642-643). 25 Alcuni atti notarili che si conservano nella Canonica dei Dodici Apostoli, visti dal BOSCH attestano miracoli compiuti dal santo dopo la morte negli armi 1202, 1207-1209 e 1217, data quest’ultima che il Bosch ha retrodatato, in base all’indizione al 1206 (ibid., 662, nota b). Questi rogiti sono stati editi dallo stesso Bosch nella I Appendix miracolorum e Appendix II della già citata Vita. 26 Si tratta di PIETRO DA RIPALTA, Chronica placentina (oggi edita), Piacenza, 1995 «Biblioteca storica piacentina» 4 (1974), che pone la morte del santo nel 1202. Giovanni Musso che scrive la sua cronaca verso la fine del secolo XIV riprende poi alla lettera le parole del Ripalta (“Iohannis de Mussis chronicon placentinum”, in Rerum Italicarum Scriptores, XVI, Milano 1730, p. 457, d'ora in poi RIS). Nella Placentinae urbis descriptio, in RIS, XVI, 472, che il Muratori attribuisce a Giovanni Musso, ma che è opera del frate minore Oberto Morgomo ( P. CASTIGNOLI, Il pensiero politico del cronista Giovanni Musso e la sua invettiva contro il potere temporale della Chiesa all’epoca del grande scisma d’Occidente, in «Bollettino Storico Piaentino» 90 (1995), pp. 166-167), si parla della chiesa dei Dodici apostoli e dell’annesso ospedale di San Raimondo con particolari (per es. quello relativo al fondatore della canonica: Alberto de Moroni) che sono assenti sia nel Ripalta che nel Musso. La Descriptio è databile alla fine del XIV, inizio XV secolo. 27 Nella ricostruzione della vita del santo seguiremo la biografia di Rufino che pur non mancando di accentuazioni agiografiche e apologetiche con chiare finalità perenetiche, tuttavia regge bene ai riscontri mutuabili da altre fonti coeve purché si tenga ben distinto l’intento edificatorio dell’autore dall’obbiettività dei fatti riferiti. La religiosità del santo si inserisce

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Il ragazzo, in ciò instradato da una madre devotissima, sentì precocemente l’attrazione alla vita religiosa alla quale non faceva mistero di volersi interamente consacrare. Assiduo alle cerimonie del culto, prediligeva la devozione ad un immagine di Cristo che si trovava nella chiesa di Santa Brigida. Rufino lo descrive di sveglio ingegno e di una candida, evangelica semplicità, macilento e magro nel fisico ma di una sorprendente agilità. Misurato nelle parole ed amorevolissimo con tutti, egli aborriva da ogni forma di astuzia e di inganno nell’esercizio del suo lavoro al quale si piegava docilmente, pur non sentendosi ad esso vocato. Obbedienza, mansuetudine e pietà paiono i caratteri distintivi di questo giovane artigiano. Il lavoro servile contraddiceva nella men-talità dell’epoca al concetto di vita religiosa e di perfezione cristiana, ma nella società urbana si faceva già strada un modello di santità diverso da quello tradizionale28. È assente in San Raimondo quel completo distacco dal mondo che caratterizza le conversioni cristiane di personaggi a lui contemporanei o quasi come San Francesco, Valdesio, Sant’Omobono. Anche se la sua ricerca della santità è all’inizio molto inquieta e travagliata; in essa non si intravvede uno iato, una illuminazione improvvisa che produca una frattura col passato, un ripudio totale della vita a cui l’obbligava la nascita e la condizione socia- le. L’idea del pellegrinaggio nei luoghi della vita di Cristo non poteva non affascinare il ragazzo dedito ad un culto cristocentrico e cristomimetico, come affascinava allora ogni cristiano. La sensibilità religiosa dell’epoca era attratta prepotentemente dal contatto fisico col sacro, la spiritualità si estrinsecava attraverso il corpo e i sensi: vedere, toccare, odorare, mangiare e bere qualcosa che sapeva di Cristo o dei suoi Santi era considerato la via maestra della perfezione. Il pellegrinaggio con il suo corredo di fatiche, di tribolazioni e di pe-ricoli rappresenta inoltre una forte istanza di espiazione e di penitenza. Raimondo alla ricerca del suo ideale di perfezione, a 14 anni, alla morte del padre, decide di recarsi in Terra Santa per la visita al Santo Sepolcro e la madre, lungi dal dissuaderlo, si unisce a lui. Entrambi ricevono dal vescovo il pettorale con la croce rossa dei pellegrini. Una costante della vita di Palmerio è il suo stretto collegamento con le gerarchie ecclesiastiche: il primo legittima la sua ascesa spirituale nella legalità istituzionale, le seconde, come vedremo, si appoggiano alla sua figura carismatica per combattere le deviazioni dogmatiche delle sette

perfettamente nella mentalità e nelle attese del momento storico come ha ben puntualizzato in una penetrante analisi Luigi Canetti ( L. CANETTI, Gloriosa civitas. Culto dei santi e società cittadina a Piacenza nel Medioevo, Bologna, 1993, pp. 167-285). Si veda anche: A. VAUCHEZ, Raimondo Zanfogni detto Palmerio s., in Bibliotheca Sanctorum, t. XI, pp. 26-29. 28 Sul modello tradizionale di santità oltre alle osservazioni del Canetti (Gloriosa civitas..., pp. 179-180), si veda: A.VAUCHEZ, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen-Age d’apres les proces de canonisation et les documentes hagiographiques, Roma, 1981, rivista e aggiornata nel 1988.

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ereticali che, nella seconda metà del XII secolo, prendono rapidamente piede e dilagano a Piacenza29.

Il viaggio nei luoghi santi è contrassegnato dai caratteristici segni della religiosità medievale propensa ad esprimere nell’emotività più accentuata la sua autenticità. La commozione e il pianto spesso dirotto si manifestano nei pellegrini alla vista dei luoghi, di oggetti e di reliquie: essi versano fiumi di lacrime ricordando il sacrificio del Salvatore di fronte alla loro miseria e indegnità. Del viaggio in sé sappiamo ben poco se non che ha toccato le tradizionali tappe di Betania, Gerusalemme e Betlemme.

Il miracolo e la prova sono l’altro contrassegno della predilezione di Dio che giungono puntuali durante il periglioso viaggio di ritorno su di una imbarcazione genovese.

Raimondo si ammala sulla nave colpito da una peste (termine generico per designare una malattia infettiva con febbre alta) e i marinai temendo il contagio e prevedendo un’imminente fine decidono di buttarlo a mare. Interviene allora l’intrepida madre che li scongiura e infine, disperata, prospetta loro l’immancabile castigo divino a fronte di un delitto consumato nei confronti di un suo servo. Si ravvedono allora i marinai e Raimondo guarisce quasi subito miracolosamente, manifesto segno della predilizione divina. Ma il santo è messo subito dopo alla prova dal Signore con la morte improvvisa della madre. Si tratta di eventi naturali che ricevono un’interpretazione sovrannaturale: Raimondo si sente sempre più chiamato ad una vita di perfezione cristiana ma non rie-sce ancora a realizzare il suo tipo di vocazione.

Al ritorno in città, appena quindicenne, si presenta al vescovo e viene ac-compagnato a casa da una turba festante di amici e parenti che non dubitano più ormai del suo carisma. È esortato a sposarsi e a riprendere il lavoro e, sebbene riluttante, accetta quella che gli sembra essere la volontà del Signore. E qui si disegna chiaramente la strategia della Chiesa protesa a rintuzzare la spiritualità catara che propone un modello di astinenza sessuale assoluta e nega una validità sacramentale al matrimonio. Il modello della santità non può più essere circoscritto esclusivamente al binomio continenza e preghiera che è proprio del sacerdozio, ma deve estendersi anche al tipo di vita proprio dai laici la cui più squisita vocazione si realizza nel binomio matrimonio e lavoro. In questa scelta il santo appare veramente guidato dalle preoccupazioni che suscita nel clero cittadino il dilagare delle sette eretiche a Piacenza (catari, valdesi, poveri lombardi e poveri di Lione) e quasi forzato ad intraprendere un cammino che non sente proprio. Tutti i papi della seconda metà del XII secolo vedono nella sessualità

29 Sull’eresia a Piacenza nei secoli XII e XIII: P. RACINE, Plaisance du X à la fin du XIII siècle, 3 voll., Paris Lille, 1979, t. II, pp. 798-889. ID., Il movimento ereticale, in Storia di Piacenza, vol. 2, Dal vescovo conte alla signoria, Piacenza, 1984, pp. 373-390.

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coniugale un atto di amore destinato alla continuazione della vita fino ad innalzarlo alla dignità sacramentale con Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV del 121530.

Anche nell’accettazione dello stato coniugale Raimondo vede l’ennesima prova alla quale lo mette il Signore: il matrimonio è invero pieno di fatiche, di tribolazioni e di doveri molto ingrati come quello di governare la moglie spesso indocile, allevare ed educare i figli non sempre obbedienti, amministrare con oculatezza ma nello stesso tempo senza dolo né avarizia il patrimonio familiare e quant’altro. Ma il santo trova anche il tempo di dedicarsi alle letture sacre ed alla conversazione con religiosi e, benché illetterato, ad acquisire un bagaglio dottrinale tramite, secondo il suo biografo, una divina infusione di sapienza. Si mette a predicare la domenica in un opificio, dove si raccoglievano i suoi compagni di lavoro, “veram sanctae Dei legis doctrinam” come riconoscono le stesse gerarchie ecclesiastiche. Si vede anche qui che il tradizionale atteggiamento di differenza del clero verso la predicazione dei laici si stempera notevolmente, crediamo soprattutto a causa del diffondersi di questa pratica nelle conventicole eterodosse. Naturalmente rimane in piede la di-stinzione fondamentale tra un attività omiletica di carattere etico-narrativo (predicazione aperta) distinta da quella di carattere teologico-dogmatico (predicazione profonda) che rimane prerogativa del clero. Del resto Raimondo, a differenza dei laici eretici, agisce sempre di consenso con il suo vescovo e può permettersi di riprovare anche duramente la condotta non esemplare di certo clero regolare e secolare.

È evidente il segno perenetico della sua predicazione: egli esorta a seguire i comandamenti e i precetti della Chiesa, a praticare le virtù e a fuggire le occasioni di peccato. D’altronde mancava nel clero, di allora, spesso indotto ed ignavo, la consapevolezza della necessità di una pastorale rivolta ai laici in una società fortemente urbanizzata, impegnata in attività produttive e commerciali pericolosamente spinte verso la ricerca di guadagni senza alcuna regola etica. Il lavoro sottopagato, l’usura, l’assenza di una assistenza legale creavano sacche di povertà spingendo all’accattonaggio ed alla prostituzione. La guerra endemicae con le città vicine faceva il resto, turbe di mutilati ed invalidi si aggiravano per le strade alla ricerca dell’elemosina o dell’occasione per un furto.

Rufino ci descrive Raimondo come un cristiano di una condotta esemplare; parco nel vitto, largo nell’elemosina, indefesso nella preghiera ed assiduo agli uffici divini. Si confessava spesso e durante l’Eucarestia si commoveva fino alle lacrime. Esemplarmente modesto: invitato a predicare nei luoghi pubblici e nello stesso foro si esimeva

30 A. FLICHE, CH. THOUZELLIER e V. AZAIS, La cristianità romana (1198-1274), in Storia della Chiesa, vol. X (trad. it. di M. DA ALATRI), 1976, p. 253 ss.

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perché quello era compito dei teologi e dei sacerdoti mentre lui, illetterato, sarebbe potuto cadere in gravi errori. Nonostante la venerazione in cui lo tengono i concittadini e l’alta considerazione che gode presso le gerarchie, Raimondo si sente inappagato ed anela continuamente ad uno stato di perfezione diverso. La morte dei cinque suoi figlioletti viene da lui interpretata come un segno di Dio. Vorrebbe a questo punto sciogliersi dal vincolo famigliare e dedicarsi alla continenza perpetua. Chiede alla moglie di esonerarlo dall’obbligo coniugale e di seguirlo sulla via della perfezione attraverso la castità. La donna si oppone: non ha scelto di far la vergine né la monaca, desidera avere altri figli e lui deve continuare ad adempiere il suo dovere di marito. Emerge qui evidentissima la tendenza dottrinale della Chiesa avviata a sacralizzare il matrimonio e non solo la liceità ma l’obbligo delle prestazioni coniugali: il corpo di un coniuge appartiene all’altro e viceversa, ma emerge anche in modo netto il modello della santità nel matrimonio come alternativo a quello tradizionale della santità nella continenza. Alla copia nasce un nuovo figlio Gerardo che Raimondo, di soppiatto dalla moglie, porta davanti al crocifisso di Santa Brigida per consacrarlo a Dio, vuole realizzare nel figlio la sua vocazione mancata: il sacerdozio. Una malattia della moglie la rende inabile al rapporto coniugale e successivamente la conduce alla tomba. Finalmente libero di seguire quella che ancora ritiene la sua strada della perfezione, il santo decide di abbracciare lo stato di pellegrino esule, di morire completamente al mondo e di seguire le orme di Cristo per tutta la vita. Dona quindi tutti i suoi beni ai poveri, affida il figlioletto alle cure dei suoceri che, increduli di fronte ad una decisione così radicale, lo esortano ad un compromesso: la città del resto, suggeriscono i poveretti, un pò ingenuamente, conserva tante reliquie sulle quali esercitare un’incessante devozione. Risponde gelidamente a loro ed ai suoi amici che esercitano pressioni di considerarlo d’ora in avanti come morto.

Riprende dunque il pellegrinaggio interrotto molti armi prima, lasciando definitivamente la sua città e vivendo di elemosine e di ospitalità offerta nel nome del Signore, intraprende il lungo viaggio verso San Giacomo di Compostela dove si mescola anonimo tra gli altri pellegrini. Sulla via del ritorno in Italia visita il Santuario di Sant’Antonio di Vienne ed altri luoghi di pellegrinaggio in Provenza. Si dirige quindi a Roma per onorare la memoria degli apostoli Pietro e Paolo e mentre riposa sotto il porticato di San Pietro viene sorpreso da una visione onirica nella quale il Signore gli svela finalmente il suo volere, proprio mentre progettava un secondo viaggio in Terra Santa. “Perché vaga continuamente nella vana ricerca di una santità fatta di rinunce fine a se stesse, quando Piacenza, la sua città, ha tanto bisogno della sua persona operosa? Perché non si adopera a spingere all’elemosina i suoi cittadini più ricchi, ma dai cuori più duri, perché non promuove la pace

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e la concordia tra le fazioni che si dilaniano, perché non si sforza di ricondurre gli erranti in seno alla Chiesa (ecco di nuovo il tema della lotta all’eresia), perché non redime le giovani dorme dedite al peccato per necessità (vagas mulierculas)?”.

Come in un dramma sacro di fronte ad una simile prospettiva, Raimondo cerca di resistere al superiore richiamo: “Ma Signore perché mi comandi questo? Perché mi vuoi legare ad una città, la mia, composta da uomini altezzosi, incalliti nel peccato, in continua discordia tra di loro che non conoscono la tua legge d’amore? Perché scegli proprio me, uomo illetterato e indotto, tutto si risolverà purtroppo in una vana tribolazione ed in una inutile afflizione. Del resto non hai affermato tu stesso: Nemo propheta in patria?.

Ma il Signore è irremovibile, questa è la sua volontà e il santo si piega. Questa è l’unica visione celeste che ha avuto Raimondo a fronte di tante, ma spesso disvianti, teofanie di San Francesco anche lui a lungo incerto sulla strada da intraprendere. Ritorna quindi in patria dove la voce del suo arrivo si sparge in un baleno, attorno a lui si raccoglie una gran folla che lo accompagna processionalmente in cattedrale dove il vescovo Tebaldo lo accoglie amorevolmente e lo conforta nel suo nuovo proposito. Apre subito un ospizio per i poveri presso la canonica dei Dodici Apostoli, l’attuale convento di San Raimondo, e comincia a raccogliere cibo ed indumenti elemosinando per la città. Oltre ai poveri, assiste gli ammalati, gli orfani e le vedove, avvia al matrimonio le pro-stitute convertite fornendole di dote, oppure le indirizza alla vita monacale. Riprende la predicazione e il dialogo con gli eretici, con il pieno assenso del vescovo. La sua statura profetica e carismatica aumenta tanto nella considerazione della gente e delle civiche autorità da venire consultato nelle questioni più delicate della repubblica cittadina. Assume la difesa dei poveri e dei deboli davanti ai magistrati e viene chiamato a risolvere i problemi più delicati della vita pubblica. In una città divisa dalle fazioni partitiche e insanguinata dagli scontri sociali tra popolari e nobili egli si assume spesso l’arbitrato e la composizione delle contese non esitando a interporsi di persona tra i contendenti, che vengono spesso a vie di fatto, e a tentare la riconciliazione a grave rischio della sua incolumità. Durissimo nella condanna della violenza ammonisce i cittadini che la loro condotta richiamerà sulla patria l’immancabile castigo divino. Rufino lo paragona ad Elia per le sue virtù profetiche e a Geremia per i suoi preannunci catastrofici.

Non rientra nell’ambito di questa relazione seguire fino in fondo la vita del santo né illustrare la fortuna e la venerazione godute dopo la morte. Vorremmo piuttosto sottolineare il suo totale abbandono dell’iniziale proposito di rifiuto del mondo e di consacrarsi al pellegrinaggio come esilio perpetuo. Calandosi invece nella realtà

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sociale della sua città egli sceglie di essere atleta di Cristo nella lotta per la difesa dei poveri e dei deboli, e per il trionfo della giustizia e della pace. Un disegno che rientra negli obbiettivi del nuovo orientamento pastorale ed ecclesiologico di tutti i vescovi che si sono succeduti alla guida della Chiesa piacentina nella seconda metà del XII secolo: Ugo Pierleoni, Tedaldo da Milano e i piacentini Ardizzone e Grimerio. Si tratta di un nuovo modello di santità laica definito da Vauchez con il binomio: carità e lavoro, senza dimenticare l’altro elemento fondamentale della predicazione antieretica31.

3. San Corrado Confalonieri La terza figura di pellegrino piacentino che ci siamo proposti di ricordare in questa rassegna dedicata al significato religioso del viaggio per amore di Cristo nel Medioevo è quella di Corrado Confalonieri. Sull’identità storica di questo personaggio sono state affacciate recentemente delle obbiezioni che non sono facilmente superabili. In una ricerca sulla vita di Corrado prima del suo esilio-pellegrinaggio a Noto, assai rigorosamente documentata e assistita da serie argomentazioni, Giorgio Fiori pone alcuni paletti ad una consolidata tradizione agiografica32. Partendo dalla più antica biografia, stesa probabilmente ap-pena dopo la morte del santo, avvenuta nel 1351, che attesta esclusivamente il suo nome, Corrado e la sua probabile origine piacentina, il Fiori attribuisce al Pugliese e al Littara, agiografi e poeti di Noto del secolo XVI, l’introduzione di falsificazioni e manipolazioni nella troppo generica ed asciutta vita trecentesca. In effetti una serie di gravi aporie inficiano questa tarda tradizione che non trova riscontri nella documentazione piacentina riguardante la nobile famiglia Confalonieri, documentazione peraltro assai ricca, e inoltre essa riceve puntuali smentite su alcuni importanti dettagli toponomastici, tra i quali i luoghi presunti della nascita: Torre Confalonieri e/o Calendasco nonché Gargolaro presunto sito del primo romitaggio del santo. Le prime località infatti non erano all’epoca ancora infeudate alla famiglia dei Confalonieri né essa vi possedeva beni, mentre l’ultima, oltre ad avere una conformazione ambientale difforme dal territorio rivierasco piacentino, dove la collocano i tardi agiografi, non è riscontrabile nella toponomastica locale.

Canonizzato nel 1515 da Leone X per impulso di frate Bernardo Bresciani che era piacentino solo d’origine, la figura di Corrado è completamente sconosciuta a Piacenza anche dopo quest’epoca fino alla

31 A. VAUCHEZ, La saintetè..., pp. 234-239. 32 G. FIORI, Precisazioni biografiche su 5. Corrado di Noto, in «Archivio storico per le Province Parmensi», IV serie, 43 (1991), pp. 171-188.

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sua riscoperta da parte dello storico locale Pier Maria Campi33. Se si considera che Corrado Confalonieri nel 1314 mentre si trova ancora a Piacenza, sarebbe stato protagonista di un episodio di inaudita gravità, del quale si parlerà più avanti, e che contemporaneamente la sua famiglia occupava un rango sociale di primissimo piano nella vita cittadina, il silenzio delle cronache e dei documenti al riguardo appare veramente inspiegabile.

Comunque, se si possono fondatamente mettere in dubbio il nome famigliare del santo e la ricostruzione della sua vita mentre ancora si trovava a Piacenza, la notizia della sua origine piacentina, invece risalente all’epoca del suo romitaggio a Noto, difficilmente può essere contestata. Secondo la tradizione più antica infatti Corrado sarebbe giunto nella città siciliana attorno alla seconda o al massimo alla terza decade del 1300 dopo un lungo pellegrinaggio penitenziale intrapreso a Piacenza34. Nella nostra città il santo sarebbe stato protagonista di un disgraziato incidente venatorio; avendo appiccato sconsideratamente il fuoco ad una boscaglia per stanare la selvaggina, non riuscì poi a controllarne lo sviluppo con conseguenti gravi danni e case e a culture. Dell’incidente fu accusato un povero diavolo che dopo un giudizio sommario, fu mandato al supplizio. Corrado di fronte all’imminente sacrificio di un innocente concepì col rimorso il proposito di riscattarsi dalla colpa e fece liberare l’accusato proclamandosi colpevole di fronte alle autorità e al popolo.

Disfattosi successivamente di tutto il proprio patrimonio in favore dei poveri, decise di ritirarsi dal mondo e di farsi romito e pellegrino ad imitazione di Cristo. Giunto a Noto trovò dapprima ospitalità nella Domus hospitalis allora retta da tale Giovanni Mineo di cui divenne subito amico. La sua seconda sistemazione fu in una cella rupestre in località Castello presso la Chiesa di S. Maria del Castello dove esistevano parecchi romitori detti celle del Crocifisso che appartenevano a Guglielmo Buccheri. Dedito alle preghiere, al lavoro nell’orto e al digiuno, Corrado acquistò presto fama di santità presso la popolazione della città siciliana e fu assediato da molti netini in cerca di conforto spirituale. Parendogli di non essere degno di tanta attenzione e sentendosi vocato alla vita eremitica pensò di abbandonare le celle del Castello per andare ad abitare nel deserto. Il luogo prescelto fu Cava dei Pizzoni nel feudo di Lenzavacche a pochi chilometri a sud est di Noto. Colà il santo, trovato rifugio in un anfratto, si diede ad una vita di stretta penitenza, alternando digiuni e preghiere alla cura di un piccolo giardino dove coltivava aranci, noci, pere e viti e da cui traeva il suo sobrio vitto. Nonostante la di-

33 P.M. CAMPI, Vita di S. Corrado piacentino, Piacenza, 1614. 34 La più antica biografia dedicata al santo è la Vita beati Corradi risalente alla fine del XIV secolo, di un anonimo (cfr. F. ROTOLO, L’autore della prima vita di S. Corrado, in Atti e memorie dell’I.S.V.N.A., VI , 1975, pp. 103-109.

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stanza che separava l’eremo da Noto non cessò il pellegrinaggio dei netini alla sua nuova dimora e la fama della sua santitià raggiunse tutta la Sicilia sudorientale. Anche dalla vicina Avola giungevano devoti ed infermi confidanti nelle sue virtù taumaturgiche. Lo stesso verscovo di Siracusa gli fede visita rimanendo edificato dal carisma religioso di Corrado nonché sorpreso dai prodigi che operò in sua presenza con grande semplicità. Ma l’azione umanitaria del santo si esplicò pienamente durante la peste nera nel 1348 quando accorse in aiuto alla popolazione della città siciliana assistendo e confortando gli ammalati, dando sepoltura ai morti, sprezzante del pericolo di contagio, e procurando cibo per vie miracolose ai superstiti. Nel febbraio del 1351 giunto al termine della vita tra aspre sofferenze procurategli dalle privazioni e dall’insorgenza di gravi infermità, volle confessarsi e comunicarsi, morendo poi in ginocchio in attitudine penitente35.

Se le notizie biografiche su san Corrado sono scarse e spesso non del tutto attendibili, varrà la pena di inquadrare la sua esperienza religiosa nel contesto delle tensioni spirituali di un’epoca che in gran parte sfuggirono al controllo dell’organizzazione ecclesiastica. Da questo lato si potrebbe raggiungere una verità storica non tanto sull’identità del santo piacentino (Confalonieri o di altra famiglia nobile locale o ancora di un laico qualunque) quanto piuttosto sulla concretezza storica del suo modello di vita religiosa. L’analisi fatta da Luigi Pellegrini, in occasione del convegno netino sul VII centenario della nascita di Corrado, è a questo riguardo assai persuasiva e ci offre un esempio di come si possa approfondire una ricerca partendo da pochi dati sicuri attraverso la loro contestualizzazione nel panorama storico circostante36.

Al di là di quelli che possono essere stati gli improbabili motivi politici di una così radicale scelta di esilio penitenziale avanzata da taluni storici e cioè la sconfitta dei guelfi piacentini cui appartenevano i Confalonieri ad opera del vicario imperiale e signore di Piacenza Galeazzo I Visconti37, va preso invece, a nostro avviso, in considerazione il grave disagio religioso che si determina in molto laici, terziari e non, in seguito alla progressiva normalizzazione isti-tuzionale dei Francescani con un marcato abbandono dell’ideale di povertà.

Nella nostra città ciò si rende evidente soprattutto con l’insediamento dei Minori nella piazza maggiore e con la costruzione dello splendido

35 Le vicende terrene di Corrado sono state riassunte criticamente nel recente saggio di F. BALSAMO, La biografia di Corrado Confalonieri, in Corrado Confalonieri. La figura storica, l’immagine e il culto, Atti delle giornate di studio nel VII centenario della nascita, Noto 24-26 maggio 1990, Noto, 1992, pp. 97-112. 36 L. PELLEGRINI, Eremitismo ed esperienza religiosa dei laici tra XIII e XIV secolo, in Corrado Confalonieri. La figura storica..., pp. 21-43 37 Si tratta della tesi del CAMPI, Vita di 5. Corrado..., ripresa recentemente anche dal BALSAMO, La biografia....

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tempio e del grande chiostro di S. Francesco a partire dal 127838. La scelta di inserire l’Ordine nella realtà urbana rendendolo arbitro di

vicende politiche e facendone un protagonista della vita religiosa, in forte contrasto con il clero secolare e lo stesso vescovo Filippo Fulgosi, è indubbiamente una scelta vincente ma prelude ad un progressivo smarrimento dei forti ideali evangelici delle origini39.

E noto che questo “tradimento” manifestatosi un pò in tutte le città dell’Italia centro-settentrionale provocò le reazioni dei gruppi più radicali dell’Ordine fino a veri e propri atti di insubordinazione e di ribellione verso la linea ufficiale, né valsero a sedarle l’intervento dei Provinciali e degli stessi capitoli generali dei Minori. D’altronde la debolezza del papato avignonese, prigioniero di un disegno quasi esclusivamente politico, se non era in grado di contrastare sul piano disciplinare i movimenti degli Spirituali e dei Fraticelli, ormai staccatisi dalla Regola, ricorreva a drastiche e pesanti condanne dogmatiche di quella che era l’ideologia sottostante alla ribellione. Nel 1317 Giovanni XII condannava irremissibilmente il pauperismo come dottrina eretica e scatenava contro gli Spirituali l’inquisizione domenicana con inauditi strumenti di repressione. Nel 1300 è proprio il francescano Niccolò IV (il papa che dirimerà la contesa tra il vescovo e il clero piacentino, da una parte, e i Minori di San Francesco dall’altra, a favore di questi ultimi) a mandare al rogo nella vicina Parma il capo degli apostolici Gerardo Segarelli40. Questa setta indirizzava i suoi adepti ad un modello di vita cristiana che ricercava la perfezione nel distacco assoluto dai beni e dal mondo, in cui la critica ai modi di vita degli ecclesiastici sfociava in un’aperta ribellione.

All’inizio del XIV secolo portando per la prima volta un loro rappresentante sulla sedia di S. Pietro i Francescani mostravano di aver compiuto tutta la strada verso l’inserimento dell’Ordine nel quadro istituzionale della Chiesa e di aver assimilato i tradizionali sistemi del potere religioso. La repressione inquisitoriale non è tuttavia sufficiente a scoraggiare soprattutto da parte dei laici la ricerca di una spiritualità alternativa al di fuori del quadro istituzionale ecclesiastico. Un pò ovunque pullulano iniziative religiose di tipo spontaneo da parte di individui e/o di gruppi che si isolano nello stesso contesto cittadino perseguendo un tipo di vita all’insegna dell’ideale evangelico-pauperista. Si tratta di forme di eremitismo, di carcerazione o di reclusione

38 Su tutta la vicenda si veda: P. M. CAMPI, Dell’historia ecclesiastica di Piacenza, Piacenza, 1651-1662 di 3 voll., II, p. 308; III, 17 (oggi in edizione anastatica, Piacenza, 1995). 39 Sul ruolo degli Ordini mendicanti nella vita sociale e politica di Piacenza nel Trecento si veda: RACINE, Plaisance..., tomo II, pp. 883-843; P. CASTIGNOLI, Il comune podestariale, in Storia di Piacenza, vol. II Dal vescovo conte...,pp. 261-276. Sui Francescani a Piacenza si veda anche il recente volume: La basilica di S. Francesco a Piacenza, Piacenza, 1998. 40 Sugli Apostolici si veda: Dizionario degli istituti di perfezione, I, Roma, 1974, pp.748-759.

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volontaria che coinvolge piccole comunità, non sempre peraltro in disaccordo con la Chiesa, che cerca di disciplinare il fenomeno come può.

A Piacenza la signoria di Galeazzo I Visconti (1313-1322) presenta un carattere decisamente ed ostinatamente anticlericale: il vescovo Ugo da Pillori viene espulso dalla città ed il palazzo episcopale è trasformato in un alloggiamento dei mercenari del signore. I benefici ecclesiastici vengono attribuiti a libito di Galeazzo mentre il clero secolare e regolare viene sottoposto a pesanti tassazioni41. In questa atmosfera non solo non è possibile perseguire l’eresia pauperista, ma essa viene anzi apertamente appoggiata dall’autorità civile che addita nella povertà dei preti e nella loro rinuncia ad ogni beneficio del potere la realizzazione del più genuino spirito evangelico. È chiaro che qui l’eremitismo laico assunse caratteri assolutamente irregolari in mancanza di un controllo ecclesiastico e l’assenza di documentazione al riguardo dimostra semplicemente l’impotenza dell’inquisizione domenicana di quegli anni.

L’ingenuo racconto dell’anonimo biografo siciliano di San Corrado, lontano dalle esperienze di eremitismo dell’ambiente padano, immagina un favoloso romitaggio in una grotta vicino al fiume Po presso il quale sarebbe cominciata l’esperienza religiosa del santo. Ambienta insomma nel paesaggio siciliano a lui consueto e nella tradizione locale eremitica, che risente ancora del modello dell’anacoretismo bizantino, un’esperienza religiosa, quella di san Corrado, che prende le mosse in un ambiente tuttaffatto diverso. Ma se Corrado fu veramente eremita a Piacenza, non ebbe bisogno di grotte né di paesaggi rupestri e desertici, ma più probabilmente si carcerò nella solitudine di una severa clausura all’interno stesso della città o in uno dei centri vicini, come paiono suggerire scelte analoghe di vita religiosa tese all’espiazione penitenziale e all’ascesi spirituale42.

Con il ripristino dell’autorità ecclesiastica, determinato nel 1322 dalla conquista della città da parte del legato pontificio Bertrando Del

41 P. CASTIGNOLI, La signoria di Galeazzo I Visconti, in Storia di Piacenza, vol. III Dalla signoria viscontea al principato farnesiano (1313-1545), e D. PONZINI, La storia della Chiesa e la vita religiosa, IBIDEM. 42 PELLEGRINI, Eremitismo..., pp. 32-33. Per quanto riguarda Piacenza si ricorda il caso di un’eremita di nome Luigia che nel 1369 dimorava presso la chiesa di S. Biagio (S. Raimondo) (cfr.: P.M. CAMPI, Dell’historia ecclesiastica di Piacenza, Piacenza, 1662, III, 131). Si deve ad un altro eremita, certo Guglielmo, se l’abate del monastero di San Sisto Pietro Veggio decide nel 1425 di consegnare il cenobio gravemente decaduto ai monaci riformati di S. Giustina da Padova (cfr.: U. LOCALI, De Placentinae urbis origine, successu et landibus, Cremona, 1564, pp. 874-875. Inoltre, ancora nel 1410, quando le autorità cittadine, preoccupate dal dilagare dell’accattonaggio, non facevano più grande differenza tra vagabondaggio ed eremitismo e si orientavano a reprimere il fenomeno, troviamo un’eremita che viveva nella campanea placentina destinataria di un piccolo lascito (cfr.: F. AOSTA, « Povertà assistita e povertà discriminata. Ipotesi sui criteri di gestione dell’assistenza ai poveri a Piacenza nel Basso Medioevo » , in «Bollettino Storico Paicentino», LXXXIII (1988), p.125.

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Poggetto, la libertà di queste forme irregolari, non istituzionalizzate di vita cristiana doveva presto cessare e per sfuggire alla persecuzione, questi romiti cittadini dovevano prendere le vie dell’esilio vero e proprio con il distacco da una realtà diventata ostile.

Questa ipotesi adombrata dal Pellegrini e indirettamente confermata dal Balsamo che sposta persuasivamente all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso l’arrivo del santo piacentino a Noto43, se, da un lato, finisce col far giustizia delle improbabili origini nobiliari attribuite a Corrado da una tarda agiografia, giustifica tra l’altro pienamente l’abbandono della città natale, la scelta del pellegrinaggio verso Roma prima e poi verso terre molto più lontane ma certamente più ospitali.

Si tratta pur sempre di congetture, ma sta di fatto che l’emigrazione di religiosi sospettati di eresia verso la Sicilia si manifestò in maniera del tutto evidente durante il regno di Federico II d’Aragona che assicurò loro una benevola protezione. Nel 1314, 40 francescani dei conventi di Arezzo, Carmignano e Asciano scomunicati dal vescovo di Siena perché aderenti alla setta dei Fraticelli, per sottrarsi all’abiura o al supplizio, fuggirono in Sicilia dove trovano ospitalità e protezione44. Erano dunque anche Corrado e il suo compagno di eremo del nome assai significativo, Michele Lombardo, dei “fraticelli lombardi” scampati dalle persecuzioni della Chiesa avignonese? Se fosse così riceverebbe anche una plausibile spiegazione lo stretto riserbo di cui il santo cir- condò sempre il suo passato durante la sua vita presso il romitorio di Cava Pizzoni.

Non è impossibile che di fronte alle istanze del suo contemporaneo biografo di conoscere le origini di un uomo così straordinario e carismatico, Corrado abbia rivelato solo delle parziali verità o delle verità allegoriche. L’incendio da lui appiccato potrebbe essere il fuoco di una dottrina eretica seguita in gioventù e il suo pellegrinaggio una forma di espiazione per il suo peccato di orgoglio dello spirito. Mentre le sue origini nobili, se non sono del tutto da scartare, potrebbero simboleggiare la nobiltà e la purezza della sua scelta di vita e non necessariamente natali di rango. Nel pensiero religioso medievale la conversione, configurando l’inizio di una vita nuova sul modello di Cristo, rappresenta una vera e propria nascita.

Avvalendosi dunque di un clima politico-religioso assai diverso, ammesso che possa essere stato un fraticello fuggiasco, e coprendosi con il più stretto anonimato, Corrado ha modo di realizzare a Noto un ideale di vita eremitica nella più totale ortodossia cattolica.

La sua pura pietà, la sua ardente carità e l’umile assenza di ogni polemica antiecclesiastica conquistano ben presto il clero locale; forse viene guardato con una certa sospettosa diffidenza solo dalla comunità locale dei

43 BALSAMO, La biografia..., p. 106. 44 PELLEGRINI, Eremitismo..., p. 41.

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Conventuali, installata all’estremità sud-ovest dell’Alveria, se pure l’assenza di documentati rapporti con il convento francescano di Noto può assumere questo significato. Sta di fatto che la visita del vescovo di Siracusa al suo eremo di Cava Pizzoni e il singolare esito della stessa che indussero il presule ad inginocchiarsi davanti al romito, per manifesti segni di virtù carismatiche, è indice sicuro della legittimazione ecclesiastica della sua scelta di vita. Tutto ciò riceve conferma dall’immediato avvio della pratica di canonizzazione subito dopo la sua morte45.

Nel suo già ricordato saggio, il Pellegrini traccia un quadro efficace dell’eretismo siciliano durante i secoli XIII e XIV giungendo alla persuasiva conclusione di un suo profondo collegamento con la tradizione bizantina dei monaci anacoreti sopravvissuta all’invasione araba e rinverdita durante il regno normanno del XII secolo. In Sicilia, durante la dominazione aragonese, vi sono numerose comunità di romiti laici che non necessariamente si identificano con il Terzo Ordine, oltre alle Celle di Noto vicino alla Madonna del Castello o del Crocefisso, ritroviamo simili gruppi di penitenti isolati sul monte Pellegrino, sull’Etna e sulla “lingua” del faro a Messina46. L’isolamento eremitico consente di continuare una scelta religiosa atipica, anche se non apertamente eterodossa, come quella di una povertà assoluta intesa come rifiuto di ogni mezzo di sostentamento che non derivasse dalle elemosine.

La Chiesa poteva tollerare questo atteggiamento solo se da esso fosse assente la pretesa dottrinale di considerare antievangelico il possesso di beni e di giurisdizioni da parte delle istituzioni ecclesiastiche.

In questo quadro del tardo monachesimo siciliano rinascente sotto la spinte delle nuove esigenze di fedeltà evangelica che percorrono nel Trecento tutta la società italiana, si inserisce la esperienza netina del santo piacentino. Non va- le la pena di sottolineare, come è già stato fatto autorevolmente, che gli altri pellegrinaggi a Malta e in Terra Santa attribuiti a Corrado prima del suo arrivo a Noto, mancando di sufficienti basi documentarie, sono probabilmente delle amplificazioni agiografiche47. In esse tuttavia bene si ravvisa il significato di cui si carica un determinato tipo di devozione così caro alla mentalità medievale quale l’esilio volontario dalla patria, il distacco dal mondo in uno slancio spirituale, ma ancora rivestito di fisicità materiale, di imitare il Cristo.

45 F. ROTOLO, I processi testimoniali per la canonizzazione di S. Corrado, in Corrado Confalonieri. La figura storica..., pp. 113-188. 46 PELLEGRINI, Eremitismo..., p. 43. 47 BALSAMO, La biografia..., pp. 104-105.