Pellegrinaggio in Turchia - Meditazioni · ecclesiologia di Paolo, ... e cerca nella casa di Giuda...

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ARCIDIOCESI DI CATANIA Pellegrinaggio in Turchia ellegrinaggio in Turchia ellegrinaggio in Turchia ellegrinaggio in Turchia sulle orme di san Paolo sulle orme di san Paolo sulle orme di san Paolo sulle orme di san Paolo 28 aprile – 5 maggio 2009 Meditazioni di don Dario Sangiorgio

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ARCIDIOCESI DI CATANIA

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28 aprile – 5 maggio 2009

Meditazioni di don Dario Sangiorgio

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Martedì 28 aprile – Messa a Istanbul, chiesa “S. Maria”

Cari fratelli e compagni di viaggio,

nel corso di questo pellegrinaggio in Turchia ripercorreremo alcune delle tappe dei viaggi missionari di san Paolo.

È però necessario ricordare che le strade di questa terra furono percorse dall’Apostolo in seguito a quanto era

prima accaduto su un’altra via, quella tra Gerusalemme e Damasco, lungo la quale, come sappiamo, avvenne

l’incontro tra Saulo e Cristo Risorto. Anche se non percorreremo geograficamente questa via, teniamola

spiritualmente presente, per poter meglio comprendere il senso di tutti i sentieri percorsi in seguito da Paolo, e per

cogliere anche il significato del nostro “muoverci”, dei nostri spostamenti in questi giorni che abbiamo innanzi.

Non siamo turisti, siamo pellegrini; il pellegrinaggio è, certo, anche un cammino geografico, ma deve avvenire in

corrispondenza con un altro itinerario, interiore: quello della conversione. Non si tratta di due cammini

“paralleli”: piuttosto, il cammino fisico diventa immagine, e anche stimolo, del più elevato percorso spirituale. La

sapienza cristiana ha sempre favorito i pellegrinaggi, poiché ha intuito che – essendo l’uomo una realtà unitaria, in

cui la dimensione corporea e quella spirituale non possono essere disgiunte – ciò che avviene fuori di lui ha

sempre dei riflessi nella sua interiorità e, viceversa, quanto accade nel segreto del cuore trova una naturale

manifestazione nei gesti.

La “via di Damasco”, quindi, dovrà essere la chiave di lettura del nostro pellegrinaggio; Paolo non avrebbe

attraversato con tanta generosità queste regioni, se prima non avesse percorso la via verso Damasco: questa la

percorreva, però, con l’iniziale intenzione di sradicare, di demolire la comunità cristiana nascente; la terra in cui ci

troviamo la percorse, invece, per piantare, per edificare nuove comunità. Il rapido e inatteso cambiamento dei suoi

obiettivi fu l’effetto di un incontro, l’incontro con colui che gli disse: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At

9,4), benché Cristo non fosse – almeno direttamente – l’oggetto delle sue persecuzioni! Il Signore Gesù, tuttavia,

era realmente perseguitato da Saulo nella persona dei discepoli, con i quali pienamente si identifica: «Ogni volta

che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). La

riflessione sulla domanda di Cristo («perché mi perseguiti?») sta quasi certamente alla base della futura

ecclesiologia di Paolo, ossia del suo modo di percepire la Chiesa come “Corpo di Cristo”, in cui Capo e membra,

indissolubilmente uniti, vivono in una relazione talmente profonda che il bene non può rimanere confinato in una

parte del Corpo, così come la sofferenza è condivisa dall’intero organismo. Leggiamo nella Prima Lettera ai

Corinzi: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra

gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (12,26-27).

Questa relazione profonda, questa identificazione tra Cristo e la sua Chiesa, dovrà essere un altro punto di

riferimento per tutto il nostro pellegrinaggio, accanto al già citato tema della conversione.

La Turchia, infatti, è stata definita la “Terra Santa della Chiesa”, la “culla del Cristianesimo”, perché in questa

terra la comunità cristiana, una volta varcati i confini della Palestina, ha cominciato a strutturarsi organicamente,

ad aprirsi in maniera decisiva alla predicazione ai “gentili”, a definire sempre meglio la propria dottrina: basti

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pensare che i primi sette concili ecumenici della storia si sono tutti svolti in località dell’attuale territorio turco:

Nicea, Costantinopoli (antico nome di Istanbul), Efeso e Calcedonia.

Il costante riferimento alla Chiesa è confermato anche dall’immediato seguito della storia della “conversione” di

Saulo: il testo degli Atti degli Apostoli, infatti, continua a narrarci come per Saulo l’incontro con Cristo sia stato,

al tempo stesso, l’incontro con quella comunità cristiana che egli voleva prima annientare.

«Ora c'era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: “Anania!”. Rispose: “Eccomi, Signore!”. E il Signore a lui: “Su, va’ sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista”. Rispose Anania: “Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha l'autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome”. Ma il Signore disse: “Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”. Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: “Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo”. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono». (At 9,10-19) Il racconto mette in luce i timori di Anania, la sua iniziale resistenza all’invito del Signore di andare incontro a

Saulo, ma anche il fatto che Dio si serva di un uomo non particolarmente coraggioso per donare lo Spirito Santo

al futuro “Apostolo delle Genti” e introdurlo nella vita cristiana attraverso il battesimo. Neanche Saulo, quindi,

benché abbia avuto un contatto personale con il Risorto, può fare a meno della mediazione ecclesiale: l’inizio

della sua vita cristiana è anche l’inizio del suo inserimento nella Chiesa. Un inserimento particolarmente delicato,

perché lo poneva dinanzi a una duplice difficoltà: da una parte, la sua adesione a Cristo gli procurava l’ostilità dei

Giudei, dall’altra – cosa, questa, ancor più dolorosa – il suo ingresso nella comunità cristiana era accompagnato

dalla diffidenza di quanti non credevano ancora all’autenticità della sua conversione e lo sentivano, piuttosto,

come “infiltrato” nella Chiesa, magari con l’intento di distruggerla più efficacemente dall’interno!

Tale difficoltà di inserimento fu superata, ancora una volta, grazie a una mediazione, che sarebbe stata

fondamentale anche nella futura esperienza missionaria di Paolo: la mediazione di Barnaba, definito dagli Atti

«uomo virtuoso e pieno di Spirito Santo e di fede» (At 11,24).

«Venuto a Gerusalemme, [Saulo] cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli potè stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore» (At 9,26-28).

Cari fratelli, sulle orme di Paolo viviamo anche noi questo tempo come occasione preziosa di conversione

personale, ma anche come autentica esperienza di vita ecclesiale. Stiamo per celebrare l’Eucaristia, e la

celebrazione eucaristica dovrà essere il centro ideale di ogni giornata del nostro pellegrinaggio: del resto, non

potrebbe esserci una vera esperienza di vita ecclesiale se non attorno all’Eucaristia. Non può sfuggirci che proprio

il nostro Paolo chiama l’Eucaristia e la Chiesa esattamente con lo stesso nome: Corpo di Cristo! Il Corpo

eucaristico del Signore Gesù, e il suo Corpo mistico che è la Chiesa, sono segni inseparabili della sua continua

presenza in mezzo a noi.

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Mercoledì 29 aprile – Messa a Istanbul, chiesa “Santo Spirito”

Nel territorio dell’attuale Turchia si svolsero i primi sette concili ecumenici della storia; di essi, tre ebbero luogo a

Istanbul, antica Costantinopoli (nel 381, nel 553 e nel 680). Il primo dei concili tenutisi in questa città –

comunemente detto Costantinopolitano I – riveste un’importanza particolare per la precisazione dottrinale della

natura divina dello Spirito Santo. Alla luce degli approfondimenti dei cosiddetti Padri Cappadoci (Basilio Magno,

Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno), che affermavano l’esistenza di «una natura e tre Persone», i vescovi

riuniti definirono lo Spirito Santo uguale al Padre e al Figlio nella natura: «Crediamo nello Spirito Santo, che è

Signore e dà la vita». In questo modo si completò la professione di fede elaborata nel precedente Concilio di

Nicea (325), che aveva affermato la divinità del Figlio, definendolo consustanziale al Padre. Il Credo che

abitualmente professiamo nelle celebrazioni festive è detto “Simbolo niceno-costantinopolitano”, proprio perché

raccoglie le definizioni dottrinali dei primi due concili ecumenici. Non possiamo che nutrire profonda gratitudine

nei confronti di quanti, attraverso una faticosa e rigorosa riflessione teologica, ci hanno permesso di formulare con

chiarezza la nostra fede!

È evidente, però, che le formulazioni di fede dei concili non sono frutto di speculazioni arbitrarie, ma sviluppano

coerentemente, sia pure attraverso categorie concettuali più elaborate, i contenuti della stessa Scrittura. Ecco

perché è opportuno dedicare la riflessione di questo secondo giorno di pellegrinaggio ad un approfondimento del

pensiero di Paolo sullo Spirito; così facendo, ci poniamo in continuità con la meditazione precedente, in cui

abbiamo avuto modo di riflettere sulla Chiesa: lo Spirito, infatti, è come l’anima della Chiesa e il suo principio

unificante.

Nella Prima Lettera ai Corinzi leggiamo: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità

di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E

a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo

Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a

uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno

il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le

varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo

Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte

membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo

stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo

abbeverati a un solo Spirito». (1Cor 12,4-13).

In questo brano, l’Apostolo si muove tra due poli fondamentali: da una parte l’unicità dello Spirito, dall’altra la

molteplicità dei suoi effetti sulla comunità cristiana:

Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito…

a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune…

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tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera…

noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo…

tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.

L’azione dello Spirito Santo è certamente unificante, ma non uniformante: lo Spirito non opera l’unità della

Chiesa attraverso l’annullamento delle diversità; piuttosto, fa sì che le peculiarità dei suoi membri si compongano

in armonia. Pensiamo a un coro polifonico: i suoi componenti non cantano all’unisono, ma intrecciano melodie

diverse, cantate con voci differenti per altezza e per timbro… eppure questa diversità non disturba l’orecchio di

chi ascolta, perché ogni voce entra in armonica relazione con le altre voci.

E così è (o dovrebbe essere!) nella Chiesa: la sua unità non va ricercata penalizzando l’identità del singolo, ma

operando affinché i carismi di ognuno entrino in armonia con quelli degli altri; ciò avviene soltanto quando,

intonando la propria melodia, ciascuno si lascia guidare dal “direttore di coro”, che è lo Spirito.

Anche nella letteratura patristica troviamo immagini efficaci per esprimere il rapporto tra l’unicità dello Spirito e

la molteplicità dei suoi effetti. Afferma san Cirillo di Gerusalemme: «L'acqua della pioggia discende dal cielo.

Scende sempre allo stesso modo e forma, ma produce effetti multiformi. Altro è l'effetto prodotto nella palma,

altro nella vite e così in tutte le cose, pur essendo sempre di un'unica natura e non potendo essere diversa da se

stessa. La pioggia infatti non discende diversa, non cambia se stessa, ma si adatta alle esigenze degli esseri che la

ricevono e diventa per ognuno di essi quel dono provvidenziale di cui abbisognano. Allo stesso modo anche lo

Spirito Santo, pur essendo unico e di una sola forma e indivisibile, distribuisce ad ognuno la grazia come vuole»

(Catech. 16, sullo Spirito Santo 1, 11-12. 16).

E, a proposito dell’azione unificante dello Spirito, scrive sant’Ireneo: «Come la farina non si amalgama in

un'unica massa pastosa, né diventa un unico pane senza l'acqua, così neppure noi, moltitudine disunita, potevamo

diventare un'unica Chiesa in Cristo Gesù senza l’“Acqua” che scende dal cielo» (Trattato Contro le eresie, Lib. 3,

17, 1-3).

Ma torniamo a san Paolo… Con grande forza l’Apostolo, in 1Cor, afferma la realtà della inabitazione dello

Spirito nei battezzati, servendosi di domande retoriche: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di

Dio abita in voi?; Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e

che non appartenete a voi stessi?» (1Cor 3,16; 6,19). Questa affermazione della dimora dello Spirito nei discepoli

– che divengono così tempio di Dio – va letta parallelamente ad altre espressioni del Nuovo Testamento sulla

realtà del “tempio”. Ricordiamo, anzitutto, l’episodio della “cacciata dei mercanti” secondo il vangelo di

Giovanni: «I Giudei presero la parola e gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose? Rispose loro

Gesù: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è

stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo»

(Gv 2,18-21).

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È Cristo Risorto, dunque, il “nuovo tempio” di Dio, perché in lui si realizza il vero incontro tra il Padre e gli

uomini.

Nella Lettera agli Efesini, tuttavia, Paolo estende la categoria di “tempio”: «[Voi siete] edificati sopra il

fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni

costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite

edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,20-22).

In questo passo è l’intera comunità cristiana, la Chiesa, ad essere definita “tempio santo”! Considerando

congiuntamente questi passi neotestamentari (Gv 2,18-21; Ef 2,20-22; 1Cor 3,16; 6,19), possiamo quindi

concludere che la definizione di tempio si applica al Cristo Risorto, alla comunità dei fedeli, ma anche al singolo

discepolo, perché inabitato e santificato dallo Spirito.

Se già la semplice etica naturale giunge ad affermare l’inviolabilità della persona umana, per i cristiani esiste

un’ulteriore ragione, soprannaturale, per difendere il carattere sacro dell’individuo e, in particolare, del

battezzato: egli è il luogo santo in cui dimora realmente la Santissima Trinità. Dichiara ancora Gesù nel vangelo

di Giovanni: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo

dimora presso di lui» (Gv 14,23).

Il punto più alto della dottrina paolina sullo Spirito Santo è, indubbiamente, il cap. 8 della Lettera ai Romani: in

continuità con il tema, appena sviluppato, dell’inabitazione dello Spirito, prendiamo in esame un passo di questo

testo, in cui l’Apostolo afferma che da quel “tempio”, che è il cuore dei discepoli, lo Spirito innalza – con loro e

per loro – un’incessante preghiera, una preghiera indubbiamente gradita al Padre e conforme alla sua volontà,

mentre non sempre l’uomo possiede la certezza che le proprie domande corrispondano al piano di Dio.

«Anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente

domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i

cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm

8,26-27).

L’azione dello Spirito ci conduce, quindi, ai vertici della preghiera e dell’intimità con Dio. Contro la tentazione,

sempre ricorrente, di un’ascetica “volontaristica”, Paolo ci ricorda che la “vita spirituale” non va intesa in senso

psicologico ma, anzitutto, come vita dello Spirito Santo in noi; analogamente, la preghiera cristiana non può mai

assumere il tono e lo stile di un’invocazione “privata”: l’orazione del battezzato (quand’anche non fosse preghiera

liturgica e assembleare) è sempre rivolta al Padre “per Cristo” (cfr. Rm 1,8) e “nello Spirito”; entrambi

intercedono costantemente per noi presso il Padre dando piena espressione alla debolezza delle nostre

invocazioni.

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Giovedì 30 aprile – S. Messa a Smirne, chiesa “San Policarpo”

Ci troviamo oggi a celebrare l’Eucaristia a Smirne, nella chiesa intitolata a san Policarpo, vescovo e martire. Si

tratta di una figura importante della Chiesa del I-II secolo, che testimonia la continuità della tradizione apostolica.

Ireneo, vescovo di Lione, ma anch’egli nato a Smirne, attesta che Policarpo «non solo fu educato dagli Apostoli e

visse con molti che avevano visto il Signore, ma anche dagli Apostoli fu stabilito nell’Asia come vescovo della

Chiesa di Smirne. Noi stessi l’abbiamo visto nella nostra prima età […]. Egli insegnò sempre quelle cose che

aveva appreso dagli Apostoli, quelle che appunto anche la Chiesa trasmette e che sole sono vere».

Policarpo, vescovo ancora molto giovane, aveva goduto della stima di Ignazio, anziano vescovo di Antiochia, che

era stato suo ospite (verso il 107) durante una sosta a Smirne, lungo la via che lo avrebbe portato a subire il

martirio a Roma.

Durante il regno dell’imperatore Antonino Pio, scoppia a Smirne una persecuzione contro i cristiani, e Policarpo,

che ha ormai 86 anni, viene portato nello stadio della città per la condanna. Il governatore romano vorrebbe

risparmiarlo, e gli chiede di dichiararsi non cristiano, fingendo di non conoscerlo, ma Policarpo manifesta la

propria fede, sale spontaneamente sulla catasta pronta per il rogo, non vuole che lo leghino, viene poi ucciso con

la spada; è il 23 febbraio del 155. La Chiesa di Smirne scrive allora alle Chiese sorelle per narrare la gloriosa

passione del proprio vescovo: è questa la più antica narrazione di martirio, e anche la prima a chiamare “martire”

chi muore per rimanere fedele a Cristo.

La parola greca mártys (da cui “martire”), suscita subito in noi l’idea del martirio di sangue a motivo della fede. In

realtà, nella sua prima accezione, questo termine indica semplicemente il “testimone”: la modalità della

testimonianza può variare (può essere verbale o, altre volte, richiedere il sacrificio della vita) ma con il sostantivo

“martire” il Nuovo Testamento indica anzitutto colui che parla per aver visto e udito. Quando i capi del Sinedrio

«ordinarono [a Pietro e a Giovanni] di non parlare assolutamente e di non insegnare nel nome di Gesù… [essi]

replicarono: “Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo

tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”» (At 4,18-20).

Anche di Paolo gli Atti ci narrano che «una notte in visione il Signore [gli] disse: “Non aver paura, ma continua a

parlare e non tacere, perché io sono con te”» (At 18,9-10a). Nel terzo racconto della conversione, infine,

leggiamo che il Signore disse a Saulo: «Alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e

testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora» (At 26,16).

Certamente, Saulo non poteva ancora immaginare quale sarebbe stato il peso di tale testimonianza, né che essa lo

avrebbe portato a dare la vita per Cristo, a Roma. Sappiamo, però, che l’incontro con il Risorto fece subito

nascere in lui un insopprimibile desiderio di annuncio, sostenuto dall’invito esplicito, ricevuto dal Signore, a

proclamare il Vangelo. Questa priorità dell’annuncio è ciò che fa proclamare all’Apostolo: «Non è per me un

vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1Cor 9,16).

Una meditazione sul martirio potrebbe apparire superflua in un’epoca in cui – almeno per noi cristiani

d’Occidente – la prospettiva di versare il sangue per la fede è una remota possibilità. Ma, oltre a ricordare che

anche nella nostra epoca, in alcuni luoghi del mondo, il martirio cruento dei cristiani non è affatto finito, vogliamo

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qui riflettere sul martirio come dimensione più ampia della vita cristiana, come testimonianza coerente che non

considera alcuna sofferenza, magari soltanto morale, un prezzo troppo alto da pagare perché la verità del Vangelo

risplenda.

Anche per Paolo questa dimensione del martirio ha preceduto di molto il dono supremo della vita; potremmo anzi

dire che ha accompagnato costantemente la sua predicazione, come egli stesso narra:

«Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono

stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi

innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli

nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza

numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la

preoccupazione per tutte le Chiese» (2Cor 11,24-28).

È necessario comprendere, quindi, che la testimonianza e la Croce sono due realtà inseparabili nella vita di ogni

discepolo di Cristo: non soltanto nel senso che esistono insieme, l’una accanto all’altra, ma nel senso, più

profondo, che anche la Croce è una modalità della testimonianza. In altri termini, il discepolo deve compiere un

passaggio, una sorta di conversione mentale, dall’idea di dover testimoniare Cristo nonostante la Croce, all’idea di

poterlo testimoniare più perfettamente grazie alla Croce, attraverso la Croce! La tribolazione non può essere letta

soltanto come un “imprevisto”, un “incidente di percorso” nella nostra sequela di Cristo, ma come una realtà

integrante della vita del discepolo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e

mi segua» (Mt 16,24); «se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20).

Anche Paolo, probabilmente, in un primo tempo, può aver pensato che le tribolazioni fossero un “ostacolo” alla

propria missione apostolica; forse così possiamo leggere la sua insistente preghiera al Signore perché lo liberasse

dalla sofferenza: «Mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi,

perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me»

(2Cor 12,7-8). Paolo, forse, riteneva che il proprio apostolato sarebbe stato più spedito ed efficace senza quella

“spina nella carne”, ma si sentì rispondere dal Signore: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta

pienamente nella debolezza» (v. 9). Allora l’Apostolo proclama: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie

debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi,

nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte»

(vv. 9b-10).

Proprio così: quando la forza umana viene meno, si rende più evidente l’azione di Dio, che sa servirsi di strumenti

deboli e imperfetti – come sono i discepoli del suo Figlio piegati dalla sofferenza – per compiere la sua opera.

Mi pare che il punto più alto della riflessione paolina sulla efficacia apostolica della sofferenza sia raggiunto nella

Lettera ai Colossesi, dove leggiamo: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne

quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (1,24). Si tratta certamente di

un’espressione ardita: cosa può mancare – ci chiediamo – alla Passione di Cristo? Lo stesso Paolo, tuttavia, in un

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altro testo ci offre la chiave di lettura per comprendere meglio questa affermazione: si tratta della splendida

pagina della Prima Lettera ai Corinzi (da noi già toccata nella precedente meditazione) in cui la Chiesa viene

presentata come mistero di comunione tra il Cristo-Capo e noi sue membra. Ebbene: se la Passione è già

perfettamente compiuta nel Capo del Corpo, che è il Signore Gesù, essa attende ancora di compiersi in noi, suoi

discepoli e sue membra! Si tratta di una nostra partecipazione misteriosa (anzi mistica), ma reale, alla Passione di

Cristo; una partecipazione che certo non spegne le nostre sofferenze, ma le carica di significato, di senso, e perciò

stesso le rende sopportabili; così, paradossalmente, queste sofferenze possono essere vissute con gioia («sono

lieto», dice l’Apostolo), non perché il dolore, in sé, possa suscitare la gioia, ma perché ci è dato di intravedere i

frutti della nostra oblazione quando essa si unisce all’oblazione di Cristo al Padre per la salvezza del mondo.

La figura di san Policarpo di Smirne ci ha condotti ad una riflessione sul martirio e, più in generale, sul tema della

sofferenza. La Chiesa di Smirne è una delle sette Chiese a cui sono rivolte le “lettere” del libro dell’Apocalisse. È

interessante osservare che anche nella lettera indirizzata a questa comunità il tema della perseveranza nella

tribolazione sia centrale: «All’angelo della Chiesa di Smirne scrivi: Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto

ed è tornato alla vita: Conosco la tua tribolazione, la tua povertà - tuttavia sei ricco - e la calunnia da parte di

quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana. Non temere ciò che stai

per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una

tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. Chi ha orecchi, ascolti ciò che

lo Spirito dice alle Chiese: Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte» (Ap 2,8-11). Appare qui chiara la

consapevolezza che il dolore dei discepoli non è mai vano, né nascosto agli occhi di Dio, ma costituisce la “via

stretta” attraverso cui giungeranno alla futura glorificazione.

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Venerdì 1 maggio – Messa ad Efeso, “Casa di Maria”

Proseguendo nel nostro pellegrinaggio sulle orme di san Paolo, ci troviamo oggi ad Efeso: come Smirne – che

abbiamo già visitato – anche Efeso è una delle sette Chiese menzionate nel libro dell’Apocalisse; è, anzi, la prima

di tali Chiese, e ad essa sono indirizzate queste parole: «Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e

cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi

sopportare i cattivi; li hai messi alla prova – quelli che si dicono apostoli e non lo sono – e li hai trovati bugiardi.

Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai

abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se

non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. Tuttavia hai questo di buono, che

detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al

vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» (Ap 2,1-7).

Il Signore Gesù afferma di conoscere le opere, la fatica e la costanza di questa comunità: ai suoi occhi, infatti, non

restano nascosti gli sforzi compiuti dai discepoli per seguirlo con coerenza. Ciò vale oggi come allora: benché

tante fatiche possano talvolta apparire senza frutto, il Signore le conosce, le apprezza, le accoglie. Ecco perché,

nel compiere il bene, è necessario non demordere, non avere ripensamenti: «L’amore di molti si raffredderà. Ma

chi persevererà sino alla fine, sarà salvato» (Mt 24,12b-13). Alla Chiesa di Efeso Cristo riconosce proprio la

perseveranza: «Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti» (v. 3); eppure tale

perseveranza non è completa: «Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima» (v. 4). È

questa una tentazione a cui è esposta la Chiesa di ogni tempo, ma che può cogliere anche il singolo discepolo:

abbandonare l’entusiasmo e il vigore spirituale che hanno segnato il “primo” incontro con Cristo e avviarsi a un

progressivo “abbassamento di livello” nella vita spirituale e morale. Vogliamo qui ricordare che la vita cristiana

non consiste nel compimento occasionale di opere grandi e appariscenti, ma nella fedeltà silenziosa, “feriale”, che

può sfuggire agli altri, ma non allo sguardo attento di Cristo. Devono risuonare forti anche per noi le parole rivolte

all’antica comunità ecclesiale di Efeso: «Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima»

(v. 5a). Avvertiamo l’urgenza di innalzare, ad un tempo, il tono della nostra personale vita spirituale e quello della

vita ecclesiale, che spesso pare languire nella mediocrità, anche a causa di una falsa logica del “quieto vivere” che

impedisce di esercitare la correzione fraterna, o la fa esercitare in maniera blanda e inefficace!

Efeso è legata profondamente anche alla Vergine Maria. Qui si è svolto, nel 431, il terzo Concilio Ecumenico, che

ha affermato l’unione ipostatica, nella persona di Gesù Cristo, della natura divina e della natura umana: in Cristo

non si hanno, quindi, due persone (l’uomo Gesù di Nazareth e, accanto a lui, il Verbo divino), ma una sola

persona in cui le due nature sono mirabilmente congiunte. Questa unione tra la natura umana e quella divina si è

compiuta proprio nel grembo della Beata Vergine Maria: in lei sono avvenute le “nozze” indissolubili tra

l’umanità e la divinità. È questo il motivo teologico del titolo Theotókos (“Madre di Dio”), riconosciuto dal

Concilio di Efeso alla Vergine, certamente non perché da lei abbia origine la divinità, ma perché l’umanità del

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Cristo, da lei generata, è perfettamente congiunta al Verbo divino, tanto da poter dire che Dio è nato secondo la

carne.

Proprio perché in Cristo l’uomo e Dio si sono congiunti per sempre, egli è il Riconciliatore, il Pontefice, ossia

colui che si è fatto “ponte” tra Dio e l’uomo, che il peccato aveva divisi, e anche tra l’uomo e i suoi fratelli.

Nella Lettera ai cristiani di Efeso, Paolo insiste su questo aspetto della identità di Cristo: «Egli infatti è la nostra

pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè

l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se

stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per

mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che

eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17). È evidente che l’Apostolo non fa, sulla pace, un

semplice discorso sociologico, né puramente morale, ma si preoccupa di darne il fondamento cristologico. È una

grande lezione per la nostra vita ecclesiale e familiare; gli ostacoli alla pace non vanno riconosciuti unicamente in

difficoltà caratteriali o comunicative, ma – ancor prima – in una frattura più profonda che l’uomo sperimenta

dentro di sé e che lo separa da Dio e dai fratelli, oltre a dividerlo in se stesso: questa frattura è il peccato. Appare

chiaro, allora, che operare per la pace significa, anzitutto, operare in vista di una integrale riconciliazione della

persona, risanare tutte le relazioni che essa vive.

Molte delle difficoltà sperimentate nella comunione fraterna – per esempio all’interno delle comunità cristiane –

sono, frequentemente, il riflesso di una distanza che i singoli vivono rispetto a Cristo: sarebbe illusorio, quindi,

adoperarsi per il superamento delle ostilità, se ciò non fosse accompagnato da un autentico impegno di

conversione. Ogni progresso nella vita spirituale e nell’intimità con Dio avrà un effetto benefico sulle relazioni

umane, in particolare su quelle con i fratelli di fede.

Trovandoci oggi a celebrare l’Eucaristia ad Efeso – che la tradizione indica come il luogo in cui la Vergine Maria

concluse la propria vita terrena – possiamo osservare che la dimensione cristologica della pace, su cui abbiamo

meditato, ci aiuta anche a comprendere meglio un titolo mariano presente nelle note “litanie lauretane”, che

accompagnano la preghiera del Rosario: il titolo di “Regina della pace”. Alla luce delle Scritture e della teologia

cristiana, questo titolo si addice a Maria non solo in quanto intercede continuamente per il dono della pace, ma

anzitutto perché, attraverso il suo “sì”, in modo perfetto e definitivo è stata fatta pace tra Dio e l’uomo, uniti

ormai indissolubilmente nel Verbo incarnato.

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Sabato 2 maggio – Messa a Konya (Iconio), chiesa “San Paolo”

Celebriamo oggi, 2 maggio, la memoria liturgica di s. Atanasio, nato ad Alessandria di Egitto e assistente del

proprio vescovo al Concilio di Nicea (325), il concilio che proclamò la divinità del Figlio, definendolo

“consustanziale” al Padre. S. Atanasio, nella propria riflessione teologica, approfondì la dottrina dell’Incarnazione

del Verbo, che sarebbe stata poi indicata dal Concilio di Efeso (431) come l’evento in cui la natura umana e quella

divina si sono congiunte nella persona di Cristo.

Le lettere di Paolo non sono “trattati” di teologia ma, generalmente, “scritti d’occasione”, nati per rispondere a

precise questioni (dottrinali, morali, ecclesiali) sorte in seno a una comunità; tuttavia, pur senza usare ancora

rigorose categorie filosofiche e teologiche, tali scritti manifestano già una profonda comprensione del mistero

dell’Incarnazione. Leggiamo nella Lettera ai Galati: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo

Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo

l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). Dopo aver meditato, durante la nostra tappa ad Efeso, sulla divina maternità di

Maria, notiamo che in questo passo essa è già, almeno inizialmente, intuita, attraverso l’accostamento delle due

espressioni «Dio mandò il suo figlio» e «nato da donna». Dal punto di vista retorico, ci troviamo dinanzi a un

ossimoro: Cristo, pur definito chiaramente “Figlio di Dio”, nasce “da donna”! Tuttavia, nella sua sapienza, Dio

rende possibile – attraverso l’Incarnazione – il superamento dell’apparente antinomia: il Figlio di Dio, senza nulla

perdere della propria natura divina, diventa realmente “figlio dell’uomo”, partecipe della nostra natura umana,

così da avere Dio per padre e una donna per madre. Abbiamo già osservato che il mistero dell’Incarnazione ha

avuto un posto centrale nella riflessione di s. Atanasio, venerato come vescovo e dottore della Chiesa; è bene

evidenziare che questi due titoli non vanno semplicemente giustapposti, ma bisogna comprenderne la relazione:

proprio perché vescovo, e quindi pastore di una Chiesa locale, Atanasio desiderava far progredire nella

conoscenza del mistero di Cristo il gregge affidatogli; si dedicò a indagare le verità di fede per poter meglio

esercitare il proprio ministero pastorale. La sua riflessione teologica, quindi, non ebbe il senso di una pura

speculazione intellettuale, ma fu mossa dal desiderio di condurre con sicurezza i fedeli ad una comprensione

sempre più profonda dell’identità di Cristo.

Lo stesso tipo di atteggiamento – ben prima di lui – aveva assunto san Paolo: da apostolo, quindi da pastore della

Chiesa, desiderava nutrire i discepoli con la verità dell’annuncio; è stato “dottore” proprio perché pastore! La

progressiva scoperta di Cristo, infatti, faceva nascere nelle giovani comunità cristiane domande e difficoltà, e

proprio per rispondere ad esse Paolo intraprese un faticoso lavoro di riflessione dottrinale: quanto più si ama tanto

più si desidera conoscere l’amato! In questa meditazione, traendo spunto dalla memoria liturgica di un pastore,

Atanasio, desideriamo riflettere sul modo in cui Paolo abbia inteso il proprio ministero pastorale: lo faremo

ripercorrendo alcune immagini che lo stesso Paolo ci offre nelle proprie lettere per illustrare il senso del lavoro

apostolico.

Il primo aspetto che prendiamo in esame è la relazione tra fede e annuncio. Chi annuncia il Vangelo deve essere,

anzitutto, un credente: «Animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato,

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anche noi crediamo e perciò parliamo» (2Cor 4,13). L’affermazione che per annunciare bisogna prima credere

potrebbe apparire fin troppo ovvia, eppure questo passo ci suggerisce due importanti considerazioni: anzitutto, ci

invita a domandarci se avvertiamo anche noi l’incontenibile esigenza di tradurre la fede in annuncio, o se talvolta

ci abbandoniamo a colpevoli silenzi che privano il mondo della nostra testimonianza; in secondo luogo, siamo

esortati a verificare se le verità dottrinali che insegniamo sono tutte e sempre oggetto della nostra fede personale,

o vengono da noi proclamate senza che abbiano toccato la nostra vita. Un altro aspetto del ministero apostolico,

fortemente sottolineato da Paolo, è la necessaria relazione con la Tradizione: «Vi ho trasmesso, anzitutto, quello

che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il

terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Sebbene l’Apostolo,

talvolta, faccia riferimento ad una rivelazione ricevuta personalmente da Cristo (cfr. Gal 1,12), si preoccupa qui di

mostrare come egli stesso si inserisca in una Tradizione di fede che lo precede («Vi ho trasmesso… quello che

anch’io ho ricevuto»); rispetto a tale Tradizione, Paolo manifesta profondo rispetto, e desidera porsi, nella propria

predicazione, in continuità con essa. Va qui ricordato il valore ineliminabile della Tradizione nella vita della

Chiesa: i cristiani di ogni epoca storica sono chiamati a custodire un patrimonio di fede che li precede, e che essi

devono trasmettere fedelmente – senza aggiunte o diminuzioni – alle successive generazioni di credenti. Ciascun

discepolo è come l’anello di una catena, e deve essere, quindi, saldamente congiunto agli anelli precedenti, da cui

ha ricevuto l’annuncio del Vangelo, e a quelli successivi, ai quali deve rendere testimonianza «perché la Parola

del Signore si diffonda e sia glorificata» (2Ts 3,1).

Un’altra definizione di apostolo offerta da Paolo è quella di “collaboratore”; anzitutto, tale collaborazione si attua

nei confronti di Dio: «Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio»

(2Cor 6,1). Nel concetto di collaboratore è implicita l’idea di una “dipendenza”: l’apostolo, cioè, benché

strumento importante nelle mani di Dio, ha coscienza di essere chiamato a “lavorare insieme” a Lui in posizione

subordinata, ricordando che il protagonista dell’azione pastorale resta sempre lo Spirito Santo. Dio chiama l’uomo

a cooperare con sé non perché abbia necessità di lui, ma perché desidera renderlo partecipe dell’opera della

salvezza, come lo ha già reso partecipe dell’opera della creazione, affidata alla sua custodia.

La definizione dell’apostolo come “collaboratore” non indica, tuttavia, solo riferimento a Dio, ma anche ai

fratelli: «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia,

perché nella fede voi siete già saldi» (2Cor 1,24). Ritengo che questa sia una delle descrizioni più intense del

ministero che Paolo offra nelle proprie lettere: gli apostoli non si pongono quali “padroni” sulla fede degli uomini,

ma operano perché i fratelli giungano alla gioia. Evidentemente, il raggiungimento della gioia vera da parte dei

fedeli implica che gli Apostoli esortino, correggano, riprendano – anche con forza, come spesso fa Paolo! – ma

sempre nel desiderio di agevolare il cammino dei fratelli verso la felicità che non delude, e di preservarli dalle

tante “illusioni di gioia” offerte dal mondo. La gioia di quanti realizzeranno un autentico incontro con Cristo sarà

pienamente condivisa da coloro che di questo incontro sono stati strumento, come ci ricorda lo splendido prologo

della Prima Lettera di Giovanni: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché

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anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose

vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1,3-4).

Continuando il nostro breve excursus tra le immagini paoline del ministero apostolico, incontriamo, ancora, la

definizione di “ambasciatore”: «Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo

nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Di questa immagine

desidero evidenziare un solo aspetto: l’ambasciatore è colui che non trasmette un messaggio personale, ma

“consegna”, inalterato, il messaggio affidatogli da chi lo ha inviato. Paolo ha sempre affermato – come tutti gli

Apostoli – di parlare in nome e per conto di Cristo, senza mescolare al messaggio evangelico la propria umana

sapienza, e senza in nessun modo alterarlo o adeguarlo ai gusti degli ascoltatori: «La mia parola e il mio

messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua

potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio […]. Di queste

cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo

cose spirituali in termini spirituali» (1Cor 2,4-5.13); «È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o

non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più

servitore di Cristo! Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo» (Gal

1,10-11).

È, questo, un monito per la Chiesa di tutti i tempi, sempre esposta al rischio di “modellare” il Vangelo sugli

uomini piuttosto che invitare gli uomini a “modellarsi” sul Vangelo stesso. L’ambasciatore non ha il diritto di

aggiungere o togliere, di amplificare o di addolcire: deve parlare, piuttosto, con la franchezza propria di chi sa di

portare un messaggio che supera, al tempo stesso, l’annunciatore e il destinatario; questa stessa distinzione, anzi,

viene quasi a cadere, poiché chi trasmette la Parola può farlo in quanto ne è stato, e continua ad esserne, a propria

volta, ascoltatore.

L’ultima definizione di apostolo sulla quale ci soffermiamo è quella di “amministratore”: «Ognuno ci consideri

come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che

ognuno risulti fedele» (1Cor 4,1-2). Si tratta di un’immagine affine a quella precedente di “ambasciatore”, anche

se l’attenzione si sposta dal messaggio da trasmettere ai “beni” da gestire: resta, però, anche in questo caso, la

necessità di tutelare un patrimonio che non si possiede, ma che è stato affidato. L’amministratore non è

proprietario dei beni che gestisce, ma deve renderne conto e trattarli, quindi, come fossero propri, lavorando

perché non si disperdano e, anzi, possano crescere. Analogamente, gli Apostoli amministrano un tesoro che non

appartiene loro: il tesoro della grazia, che si manifesta nella vita della Chiesa particolarmente attraverso la Parola

e i sacramenti. Se la definizione di amministratori si addice in primo luogo agli Apostoli, ai loro successori – i

vescovi – e a quanti svolgono nella comunità cristiana un ministero ordinato, in un senso più ampio essa si

applica a tutti i discepoli di Cristo: tutti, infatti, siamo chiamati a custodire beni preziosi che, ultimamente, non ci

appartengono, ma sono tuttavia affidati alle nostre cure. A tal proposito, ci ricorda la Prima Lettera di Pietro:

«Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una

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multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con

l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 4,10-11).

Infine, la consapevolezza di essere semplici amministratori di beni ricevuti “dall’alto” dovrebbe manifestarsi nella

rinuncia a ogni forma di vanto e di superbia: «Chi ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non

abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7). Possa l’umiltà

accompagnare sempre il nostro lavoro per il Regno!

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Domenica 3 maggio – Messa presso chiesa rupestre (Ávanos, Cappadocia)

Uno dei titoli più frequentemente applicati a san Paolo è quello di “Apostolo delle genti”: esso fa riferimento,

come è noto, allo straordinario impulso dato da Paolo alla diffusione del Vangelo oltre i confini della Palestina.

Sarebbe riduttivo, però, legare il titolo di “Apostolo delle genti” soltanto alla diffusione geografica del messaggio

cristiano; piuttosto, la grande intuizione paolina fu che l’accoglienza del Vangelo da parte dei non Giudei non

dovesse necessariamente passare attraverso l’osservanza previa della Legge di Mosè, poiché la giustificazione – e

quindi la salvezza – vengono donate all’uomo non in virtù di opere meritorie da lui compiute, ma grazie alla fede,

che lo dispone ad accogliere l’amore salvifico che Dio gratuitamente gli offre. Sebbene il problema del rapporto

tra fede ed opere sia molto complesso – e ripreso da Paolo in varie lettere, soprattutto quelle rivolte ai Romani e ai

Galati – cercheremo, in estrema sintesi, di meditare su questo tema centrale della teologia e della vita cristiana.

Percorriamo, quindi, alcuni tra i passi più illuminanti degli scritti paolini. Nella Lettera ai Galati Paolo affronta

l’argomento con particolare vigore: «Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete

ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione? Fu così che Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato

come giustizia. Sappiate dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede. E che nessuno possa

giustificarsi davanti a Dio per la legge risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede. Prima però che

venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata.

Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma

appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in

Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3,2.6-7.11.23-27).

L’Apostolo non ha dubbi: la salvezza non viene dall’osservanza della Legge mosaica, ma è l’effetto dell’amore

preveniente e gratuito di Dio; l’uomo, tuttavia, deve accogliere tale dono attraverso la disposizione interiore della

fede. Il modello biblico di questa giustificazione per la fede è Abramo, il quale – pur vivendo prima della

promulgazione della Legge di Mosè – viene dichiarato giusto, giustificato proprio per aver creduto alla Parola di

Dio. In questo contesto, però, Paolo si guarda bene dal disprezzare la Legge, ma ne dà una meravigliosa

definizione, quella di “pedagogo”: fuor di metafora, la Legge ha avuto una fondamentale funzione nella storia

della salvezza, ma la venuta di Cristo ha inaugurato per il popolo di Dio il tempo della maturità, per cui esso non

può rimanere ancora sotto la tutela dell’antico educatore, e deve aprirsi ad un nuovo tipo di relazione con Dio, una

relazione che ha nella fede la manifestazione più alta. Affermazioni molto simili troviamo anche nella Lettera ai

Romani: «In virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della

legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia

di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli

che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati

gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Noi riteniamo infatti che

l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei?

Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! Poiché non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la

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fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi. Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante

la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la legge» (Rm 3,20-24.28-31). In questo passo, l’affermazione della

giustificazione per la fede diviene anche la base per dichiarare che la circoncisione non è necessaria per entrare

nella salvezza: in tal modo, anche i pagani – senza prima passare attraverso le prescrizioni giudaiche – hanno

pieno diritto di accesso nella comunità cristiana! Inoltre, il fatto che la giustificazione non sia effetto delle opere

meritorie dell’uomo, ma iniziativa di Dio, sbarra la strada ad ogni tentazione di interpretare la salvezza come

“autoredenzione” o come “debito” di Dio nei confronti dell’uomo, e preclude ogni possibilità di “vanto”: «Per

questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere,

perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,8-9). La prova più evidente che la salvezza non sia motivata dalle opere

umane è presentata da Paolo, ancora una volta, nella Lettera ai Romani, e consiste nel fatto che il sacrificio di

Cristo si è compiuto mentre l’uomo si trovava ancora in una condizione di peccato: «Infatti, mentre noi eravamo

ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per

un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore

verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Laddove è abbondato il peccato, ha

sovrabbondato la grazia (Rm 5,6-8.20b).

Le considerazioni fatte finora sulla inefficacia delle opere in ordine alla salvezza potrebbe far maturare in noi

l’errata convinzione che le opere, nella teologia paolina, abbiano un ruolo marginale. In realtà la stessa struttura di

molte lettere paoline – in cui a una prima parte dottrinale segue una sezione parenetica, di carattere morale)

mostra che per l’Apostolo le opere hanno un ruolo determinante nella vita dei discepoli di Cristo, ma Paolo si

preoccupa di mostrare che le opere non sono la causa, bensì l’effetto della salvezza! Dio non salva l’uomo per le

opere buone da lui compiute, ma – al contrario – l’uomo diventa capace di una vita buona perché Dio lo ha

salvato! Ciò segna il superamento di una morale volontaristica nella quale la giustizia è percepita come

“conquista” dell’uomo piuttosto che come dono dall’alto! Le opere, nella teologia di Paolo, non hanno quindi la

funzione di acquistare all’uomo la salvezza, quanto piuttosto quella di custodire il dono della salvezza ricevuto

dall’amore di Dio, che non si lascia precedere né “pagare” da alcuno. Nella Lettera ai Galati il delicato rapporto

tra fede ed opere trova una formulazione particolarmente felice, una sintesi mirabile tra la dimensione del dono e

quella dell’impegno: «In Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera

per mezzo della carità» (Gal 5,6). Ecco, quindi, il modo corretto di intendere la vita dell’uomo redento: una

esperienza di fede operante, ossia di una fede che si manifesta in gesti mossi dalla carità. Del resto – afferma

l’Apostolo – «se uno è in Cristo, è una creatura nuova» (2Cor 5,17), e tale identità di “uomo nuovo” deve

necessariamente esprimersi in “opere nuove”! La liturgia cristiana mostra di aver ben compreso questo aspetto

della teologia paolina attraverso il segno della “veste bianca” consegnata al battezzato con l’impegno che egli la

porti «senza macchia per la vita eterna». Certamente questa consegna implica un impegno di ordine morale, ma

con una importante sottolineatura: al battezzato non viene chiesto di “rendere bianca” la veste con le proprie opere

(è il sangue di Cristo, infatti, che ha già cancellato ogni macchia), ma solo di mantenere e custodire la purezza

della vita nuova appena ricevuta. È questa la prospettiva che incontriamo anche nel libro dell’Apocalisse, in cui si

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integrano armonicamente due affermazioni: il sangue di Cristo ha lavato la veste dei discepoli, ma – al tempo

stesso – saranno le opere di giustizia di questi ultimi a far sì che, al suo ritorno, il Signore incontri la Chiesa, sua

Sposa, rivestita di un abito splendente: «“Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? […] Essi

sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col

sangue dell’Agnello”; “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze

dell'Agnello; la sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino puro splendente”. La veste di lino sono le opere

giuste dei santi» (Ap 7,13-14; 19,7-8).

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Lunedì 4 maggio – Messa ad Ádana

Nella precedente meditazione abbiamo affrontato il tema del rapporto tra fede ed opere nel pensiero dell’apostolo

Paolo, e abbiamo osservato con quanta forza egli affermi che le nostre opere non sono la causa della salvezza

ricevuta, poiché Dio ci salva in virtù di un amore gratuito, e ha inviato il proprio Figlio «mentre eravamo ancora

peccatori» (Rm 5,8); le opere sono, invece, effetto della salvezza, poiché l’uomo redento ha l’esigenza di

esprimere visibilmente la “nuova identità” che gli è stata donata: la fede, infatti, – con cui si accoglie la salvezza –

«opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).

Il momento in cui si riceve questa nuova identità – che dovrà poi manifestarsi nei gesti e nelle scelte personali – è

il battesimo: in esso l’“uomo vecchio” muore, e nasce quell’“uomo nuovo” che è il discepolo di Cristo. Nella

Lettera ai Romani tale dinamica di morte e risurrezione attraverso il battesimo è espressa con particolare efficacia:

«Noi che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel peccato? O non sapete che quanti siamo

stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati

sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così

anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte

simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato

crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi

è morto, è ormai libero dal peccato […]. Consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm

6,2-7.11).

Tutti, però, sperimentiamo che anche dopo il battesimo – che dovrebbe aver segnato la nostra “morte” come

peccatori – la realtà del peccato continua a manifestarsi nella nostra esistenza: l’uomo vecchio non si rassegna a

morire, rialza il capo e cerca di riprendere vigore. La vita cristiana, in effetti, è segnata da questa lotta interiore tra

l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, ma con la consapevolezza che quest’ultimo non è abbandonato a se stesso, ma

sostenuto continuamente dalla Grazia nel suo sforzo di rimanere fedele al Vangelo. È però necessario decidersi

univocamente per Cristo! A tal proposito, mi piace ricordare le parole del libro dell’Apocalisse rivolte alla Chiesa

di Laodicea, anch’essa in territorio turco, non lontana da Pamukkale (l’antica Gerapoli), uno dei luoghi toccati dal

nostro pellegrinaggio: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma

poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16). Sono

certamente parole dure, ma – come sempre avviene nella Scrittura – non sono pronunciate per gettare nello

scoraggiamento chi le ascolta, quanto piuttosto per stimolarlo ad una conversione pronta e decisa, non rimandata

di giorno in giorno, che segni il superamento di una vita cristiana superficiale e mediocre.

La nostra riflessione sui testi paolini ci ha condotti a una sintesi: le opere hanno una straordinaria importanza nella

vita dei discepoli di Cristo, purché non siano mai percepite come un “prezzo” da pagare per ottenere la salvezza,

né come “meriti” dinanzi ai quali Dio possa apparire in debito nei nostri confronti! Il punto di partenza di questo

percorso è stato l’affermazione di Paolo che l’uomo non è salvato per l’osservanza delle prescrizioni della Legge

di Mosè, ma per la fede. Noi, forse, oggi, non abbiamo la possibilità di comprendere fino in fondo il valore

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“liberante” di questa affermazione rispetto al legalismo con il quale spesso Gesù si confronta nei racconti

evangelici: un certo modo di vivere il riposo sabbatico, le minuziose prescrizioni sul puro e sull’impuro, varie e

complesse norme alimentari, ecc.; in questo contesto, comprendiamo bene la vivacità con cui Paolo difende nelle

proprie lettere il valore della libertà cristiana. Ciò avviene con particolare vigore nella Lettera ai Galati: «Cristo ci

ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù»

(Gal 5,1). Va precisato, però, che per l’Apostolo la libertà non è mai, anzitutto, libertà da qualcosa, ma libertà per

qualcosa di più grande. In altri termini, essere liberi, per Paolo, non significa essere sciolti da qualunque vincolo,

ma vincere le resistenze interiori e così impegnare le proprie risorse per donarsi a Dio e ai fratelli.

Paradossalmente, più è forte il vincolo del discepolo con Cristo, più egli sperimenta la propria autonomia rispetto

a tutto ciò che è relativo, non necessario: Paolo è consapevole di essere stato «conquistato da Gesù Cristo» (Fil

3,12), ma in questa appartenenza a Cristo non vede un ostacolo, bensì una garanzia della propria libertà; si tratta,

anzi, di una libertà talmente grande che lo rende capace di farsi volontariamente servo degli altri: «Pur essendo

libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero» (1Cor 9,19). L’Apostolo, quindi,

difende con entusiasmo la libertà dei figli di Dio, ma anche ad essa riconosce un invalicabile limite, quello

imposto dal valore supremo della carità: una libertà che pretendesse di esprimersi calpestando l’amore per i

fratelli sarebbe, infatti, una falsa libertà! È indicativo, al riguardo, l’atteggiamento assunto da Paolo circa il

problema delle carni immolate agli idoli e poi vendute nei mercati per il normale uso alimentare; la questione

interessava le comunità cristiane che vivevano in ambiente pagano e si chiedevano se fosse lecito consumare

alimenti che erano prima stati impiegati nel culto alle divinità. La posizione dell’Apostolo è molto chiara: poiché

le divinità pagane sono inesistenti, per i cristiani non costituisce certo un atto di idolatria consumare quelle carni

(cfr. 1Cor 8,1-6). Tuttavia, subito dopo, considerando il problema non più in se stesso, ma nella situazione

concreta delle persone, Paolo aggiunge: «Ma non tutti hanno questa scienza; alcuni, per la consuetudine avuta fino

al presente con gli idoli, mangiano le carni come se fossero davvero immolate agli idoli, e così la loro coscienza,

debole com’è, resta contaminata. Badate che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli.

Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio

fratello» (1Cor 8,7.9.13). Il cristiano, dunque, quando è opportuno, deve saper anche rinunciare all’esercizio della

propria libertà in nome della carità! Non basta, perciò, chiedersi se un gesto sia in se stesso lecito; è anche

necessario chiedersi se esso possa diventare un ostacolo per i fratelli più deboli: «“Tutto è lecito!”. Ma non tutto è

utile! “Tutto è lecito!”. Ma non tutto edifica. Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1Cor 10,23-24).

Paolo ci esorta a verificare se il nostro modo di vivere la libertà tenga sempre conto del “limite” costituito

dall’amore! A tal proposito, troviamo nella Lettera ai Galati una formidabile norma di vita cristiana, con cui

confrontarci sempre: «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per

vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua

pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,13-14).

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Martedì 5 maggio – Messa a Tarso, chiesa “San Paolo”

La meditazione odierna si pone a conclusione del nostro pellegrinaggio in Turchia sulle orme di san Paolo; prima

di salutare questa terra, che è stata più volte meta dei viaggi missionari dell’Apostolo e che ha dato tanto al

Cristianesimo dei primi secoli, sentiamo l’esigenza di soffermarci ancora su qualche aspetto del messaggio

paolino per farne tesoro anche dopo il nostro rientro e la ripresa delle nostre attività quotidiane. I momenti di

“addio” sono occasioni privilegiate nei rapporti umani, poiché fanno emergere quanto di più nobile ciascuno porta

dentro: per questo, quasi a voler raccogliere una sorta di “testamento spirituale” di Paolo, rifletteremo su una

pagina molto intensa degli Atti degli Apostoli, cioè il discorso tenuto agli anziani di Efeso presso Mileto (At

20,17-38). Sebbene rivolto, come si è detto, agli “anziani” della comunità, quindi a coloro che ne sono guide

spirituali, pastori e “sorveglianti” (epískopoi, da cui “vescovi”), questo discorso può essere interpretato, più

ampiamente, come un “discorso alla Chiesa” e contiene, pertanto, preziose indicazioni sul modo di esercitare – sia

pure in forme diverse – quell’apostolato che deve essere segno distintivo di ogni battezzato. «Da Milèto [Paolo]

mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: “Voi sapete come mi

sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore

con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei”» (vv. 17-19). Questi

primi versetti mettono in luce la dimensione del servizio: esplicitamente, l’Apostolo parla del servizio al Signore,

ma è evidente che esso implica la disponibilità a servire i fratelli , come lo stesso Paolo ricorda altrove: «Pur

essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti» (1Cor 9,19). Il servizio, inoltre, deve essere accompagnato

dall’umiltà (v. 19: «ho servito il Signore con tutta umiltà»): l’affermazione che un servo debba essere umile

potrebbe apparire superflua, tuttavia l’esperienza della vita ecclesiale ci mostra, purtroppo, che anche l’esercizio

di un ministero può essere accompagnato da boria e superbia! Infine, l’Apostolo ricorda «le lacrime» e «le prove»

che hanno accompagnato l’annuncio del Vangelo: in una precedente meditazione, abbiamo già avuto modo di

osservare come anche la tribolazione – apparente ostacolo al ministero – possa divenire occasione e strumento di

un apostolato impreziosito dalla partecipazione alla passione di Cristo.

Ripercorrendo gli eventi trascorsi, Paolo afferma ancora: «Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva

essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di

convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù» (vv. 20-21). Qui emergono altri aspetti del ministero: in

primo luogo, esso non deve mai essere caratterizzato dal “minimalismo”, dalla preoccupazione di compiere solo

quanto sia strettamente necessario, ma deve tendere a tutto ciò che può “essere utile” ai destinatari dell’annuncio;

un apostolato generoso sa essere anche “creativo”, individuando strumenti nuovi perché la Parola sia accolta nel

cuore degli uomini e porti frutto. Inoltre l’apostolato (ed è questa, come sappiamo, una delle caratteristiche

distintive del ministero paolino) deve tenere presente la destinazione universale dell’annuncio («Giudei e Greci»),

senza chiusure ed esclusioni.

Dopo aver rievocato il passato, Paolo volge lo sguardo al presente, carico di incertezze: «Ed ecco ora, avvinto

dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni

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città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché

conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al

messaggio della grazia di Dio» (vv. 22-24). Molto incisiva è l’espressione con la quale l’Apostolo delinea la

propria condizione: «avvinto dallo Spirito»; egli, che con grande fierezza ha sostenuto il valore della “libertà”

cristiana, non esita a definirsi “avvinto”, ossia “legato” dallo Spirito Santo, come altrove amerà chiamarsi

“prigioniero di Cristo” (Ef 3,1) o “prigioniero nel Signore» (Ef 4,1), titoli che esprimono molto più della

condizione giuridica di prigionia! Eppure, l’essere avvinto dallo Spirito non è in antitesi con la libertà personale:

la totale appartenenza a Dio, al contrario, fa sentire Paolo privo di vincoli rispetto a tutto ciò che è contingente.

Tale libertà interiore si manifesta, poi, nella disponibilità al piano di Dio. Quando egli afferma: «io vado a

Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» torna alla memoria, quasi per assonanza, la descrizione che la

Lettera agli Ebrei fa di Abramo: «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Abramo non conosceva la meta del

proprio cammino, Paolo la conosce («vado a Gerusalemme»), ma la condizione di incertezza è altrettanto

profonda, poiché riguarda gli eventi che lo coinvolgeranno personalmente. Tuttavia, come non fu ingenuo il

partire di Abramo, poiché motivato dalla fiducia nel Dio che non abbandona, così non è insensata la prontezza di

Paolo ad andare incontro a quelle «catene e tribolazioni» che lo attendono in ogni luogo: egli, infatti, sa che nella

lotta non sarà solo, e che la Parola, in tal modo, continuerà a diffondersi; l’Apostolo dichiara di avere, come unica

preoccupazione, quella di condurre a termine la propria “corsa” e il servizio che gli è stato affidato. La metafora

della corsa per indicare la vita cristiana e, in particolare, il ministero apostolico, non è insolita nel linguaggio

paolino: la troviamo nella Prima Lettera ai Corinzi – «Io corro, ma non come chi è senza mèta» (9,26a) – e,

soprattutto, nella Seconda Lettera a Timoteo, in un passo dal sapore molto simile a quello del discorso agli anziani

di Efeso: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le

vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la

corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti

coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2Tm 4,6-8). Il discorso di Paolo a Mileto si fa poi più

esplicito e toccante: «Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando

il regno di Dio» (v. 25). Le parole tradiscono l’emozione di chi le pronunzia, ma anche la maturità affettiva di chi

è capace di un distacco certo penoso, ma necessario per abbracciare orizzonti più ampi! Anche in questo

momento, però, Paolo non perde di vista la chiarezza dei contenuti: «Dichiaro solennemente oggi davanti a voi

che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di

annunziarvi tutta la volontà di Dio» (vv. 26-27). Sembrano qui risuonare i passi dell’Antico Testamento in cui si

dichiara che il profeta che avrà annunziato fedelmente la Parola, benché non ascoltato, non sarà colpevole della

rovina degli Israeliti (cfr. Ez 3,18-19). Non può sfuggire l’accento posto da Paolo sul fatto che egli abbia

annunziato «tutta la volontà di Dio», cioè da vero ambasciatore, senza diminuzioni o meschini “adattamenti”, ma

integralmente. Ciò serve da monito per la Chiesa in ogni tempo: mai una malintesa “carità” dovrà condurla ad

alterare il Vangelo con il pretesto di renderlo più accetto e gradito agli uomini; piuttosto, essa dovrà ricordare che

l’annunzio della Verità è, in se stesso, autentico gesto di carità! Prima di congedarsi dagli anziani, l’Apostolo li

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esorta a pascere con generosità la Chiesa, e a vigilare non solo sugli attacchi “esterni”, ma anche sulle insidie alla

fede e alla comunione che possono sorgere dall’interno della comunità cristiana; infine, pone se stesso come

modello di gratuità nell’esercizio del ministero pastorale: «Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di

nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In

tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del

Signore Gesù, che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!”» (vv. 33-35). Queste parole – con il loro forte

richiamo alla generosità e a un ministero disinteressato, che sappia «soccorrere i deboli» gustando la gioia del

“dare” – suonano anche per noi come un invito a vivere più profondamente la condivisione dei beni, spirituali e

materiali, di cui disponiamo. Gli anziani di Efeso erano addolorati perché non avrebbero più visto il volto di Paolo

(cfr. v. 38); noi sappiamo che, una volta tornati alla vita quotidiana, potremo ancora intravedere il volto

dell’Apostolo nelle sue lettere e, soprattutto, continueremo a incontrare il volto di Cristo, i cui lineamenti

emergono dalle Scritture e, al tempo stesso, risplendono sul volto dei “deboli” che Paolo ci invita a servire. Sarà

questo, credo, il frutto più autentico e duraturo del nostro pellegrinaggio, anche quando le immagini e i ricordi dei

luoghi saranno offuscati dal tempo.