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1 2008: Anno Paolino: secondo Millennio dalla nascita San Paolo da Saulo a Paolo: apostolo delle genti Catechesi parrocchiale per giovani e adulti appunti di padre Lucio Boldrin con la grata collaborazione di Suor Maria Gloria Riva, don Piero Re e don Gabriele Mangiarotti parrocchia Ss. Trinitaa villa chigi Anno Pastorale 2008 -2009 PDF created with pdfFactory trial version www.pdffactory.com

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2008: Anno Paolino: secondo Millennio dalla nascita San Paolo

da Saulo a Paolo: apostolo delle genti

Catechesi parrocchiale per giovani e adulti

appunti di padre Lucio Boldrin

con la grata collaborazione di Suor Maria Gloria Riva, don Piero Re e don Gabriele Mangiarotti

parrocchia Ss. Trinita’ a villa chigi

Anno Pastorale 2008 -2009

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Tremilacinquecento chilometri per giungere fino a Roma, che si aggiungono ai 2.000 del primo viaggio, ai 5.000 del secondo ed ai 6.000 del terzo, percorsi a piedi o in una barca sospinta dal vento, per un totale di circa 16.500: anche questi dati dicono la passione dell’annuncio del Vangelo che mosse - è il caso di dirlo - l’apostolo Paolo.

L’annuncio di Benedetto XVI dell’indizione dell’Anno Paolino, per commemorare il bimillenario della nascita di Paolo di Tarso, è un invito ad accogliere la testimonianza dell’apostolo che ha ricevuto la rivelazione del «mistero» di Dio.

Con questo termine Paolo ha voluto indicare non tanto l’incomprensibilità di Dio, quanto il suo preveniente disegno, il progetto da Lui pensato e desiderato prima ancora della creazione del mondo. «Ci ha predestinati» (alcuni esegeti traducono l’espressione con ‘pro-destinati’), dice Paolo: prima del creare, prima dell’esistenza della materia e delle galassie, prima degli oceani e delle vette dei monti, Dio ha voluto gli uomini e li ha pensati perché giungessero alla comunione con Cristo.

Solo l’uomo conosce i propri pensieri, disegni e desideri, ed è lui l’unico a poter raccontare tali segreti gelosamente custoditi a chi ama, senza che nessuno possa violarne l’intimità; a maggior ragione, dice la prima lettera ai Corinzi, il disegno di Dio non poteva essere compreso dall’uomo, finché Lui stesso non l’avesse rivelato. È il «mistero» ormai conosciuto, ormai donato e realizzato, ormai presente: ricapitolare tutto in Cristo. E il Concilio Vaticano II ne ha ripreso le espressioni dicendo: «Piacque a Dio rivelare se stesso».

Paolo esprime così il primato di Dio e della sua grazia in tutte le sue lettere, ma, nella maniera più compiuta, proprio nella lettera scritta ai Romani, ai nostri antenati e padri nella fede.

Alcuni autori moderni hanno voluto invertire l’evidenza storica, facendo di Gesù un qualsiasi rabbino del suo tempo ed in Paolo il vero fondatore del cristianesimo. Il Papa ha voluto subito riportare la figura di Paolo alla sua concretezza storica, affermando nella celebrazione dei primi vespri della solennità dei Santi Pietro e Paolo nella basilica ostiense: «Quando sulla via di Damasco Paolo cadde a terra abbagliato dalla luce divina, passò senza esitazione dalla parte del Crocifisso e lo seguì senza ripensamenti. Visse e lavorò per Cristo; per Lui soffrì e morì».

Se è vero che per capire Paolo, non possiamo prescindere dal suo essere stato, in origine, fariseo, appartenente alle scuole rabbiniche ed, insieme, profondamente aperto all’ellenismo - perché tale era il giudaismo del tempo - l’evento che ben più profondamente di tutto questo lo caratterizzò fu l’incontro con il Risorto. Senza Damasco, Paolo è incomprensibile. Potremmo dire che non fu Paolo l’inventore del cristianesimo, bensì Cristo a rifondare la vita di Paolo.

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La proposta di un anno che abbia come riferimento l’apostolo Paolo ci invita poi alla continua rimeditazione della tradizione della Chiesa, poiché il «noi» della Chiesa non è mai semplicemente sincronico, ma abbraccia tutte le generazioni credenti e le unisce alla Chiesa apostolica, che è nostra madre. Roma è la Chiesa madre di tutti non perché faccia nascere fisicamente tutti i cristiani, ma perché garantisce del rapporto di ogni credente con l’unica tradizione che genera alla fede.

Come scrisse l’allora teologo Joseph Ratzinger: «La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la storia».

Benedetto XVI ha posto l’attenzione anche sulla prospettiva ecumenica che dovrà caratterizzare l’Anno Paolino. Se l’evangelista Marco, come è certo, ha inventato il genere letterario “vangelo”, possiamo ben dire che Paolo ha inventato un nuovo genere, di “epistola”. Le lettere che conosciamo dall’antichità greca e romana sono dei brevissimi biglietti con rapide informazioni rivolte a singoli destinatari oppure dei trattati filosofici nei quali la suddivisione in lettere, mai spedite concretamente, è un espediente letterario per scandirne i differenti capitoli. Paolo espresse il suo «assillo» per tutte le Chiese, inviando i suoi scritti, perché fossero letti e accolti.

La novità delle sue lettere, che univano la concretezza delle situazioni affrontate e l’ampiezza delle spiegazioni teologiche, derivava da quella realtà nuova che era la Chiesa di Cristo che si diffondeva in ogni città e regione. La vita e la predicazione viva di Paolo, espresse nelle sue epistole, rimandano continuamente all’origine dell’unità che non può essere persa, pena la perdita dell’identità stessa: l’unico Padre, l’unico Cristo, l’unico Spirito.

Così, nella fede della Chiesa, primato e collegialità non si oppongono mai, ma anzi si richiamano vicendevolmente. Proprio la tradizione dell’abbraccio di Pietro e Paolo, presso la Piramide Cestia, prima del loro martirio, con la conferma reciproca delle rispettive missioni - abbraccio rappresentato in tante testimonianze iconografiche paleocristiane - è stata evocata dal Santo Padre nell’annunciare l’ecumenicità che caratterizzerà l’anno paolino.

Le iniziative che saranno programmate per il 2008/2009 sicuramente coinvolgeranno differenti luoghi geografici, da Damasco all’Arabia (le regioni nabatee?) e ad Antiochia, da Tarso a Gerusalemme, dalle regioni dell’Anatolia alle città della Grecia, dalle isole del Mediterraneo all’Italia (Siria, Giordania, Turchia, Grecia, Israele, Palestina, Libano, Cipro, Malta, Italia, Spagna?…) ma la città di Roma sarà un punto di riferimento a motivo della testimonianza suprema, a motivo del martirio.

Luca, autore degli Atti, che venne fisicamente a Roma, come ci ricordano le cosiddette «sezioni-noi» degli Atti - cioè quelle parti nelle

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quali si usa la prima persona plurale «partimmo», «giungemmo» - ci racconta che fu il Signore Gesù in persona, apparendo a Paolo, a pronunciare per lui il nome della città eterna: «Di notte venne accanto a Paolo il Signore e gli disse: Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma» (At 23,11).

§ Per cercare di comprendere maggiormente Paolo affronteremo la figura

dell’apostolo delle genti sotto vari aspetti, no solo per una questione culturale ma soprattutto, per un cammino di fede che ci porti sulla via Damasco e, lasciandoci incontrare da Cristo, continuare il nostro cammino di conversione che metta nel nostro cuore la stessa passione di Paolo nell’annunciare Cristo

§ Paolo di Tarso, Apostolo delle Genti § Paolo di Tarso: le Fonti § Saulo di Tarso: Carta d'Identità § La formazione di Saulo § Saulo, il persecutore dei Nazareni § Paolo, apostolo delle genti § L'incontro converte § Paolo, chiamato ad andare ai pagani § Il lavoro missionario di Paolo § I tre grandi viaggi di Paolo § Il secondo viaggio di Paolo § Il terzo viaggio di Paolo § Testimone prigioniero § Fino al martirio § Annuncio paolino: il mistero rivelato § Cristo al centro del mistero § Il Cristo crocifisso e il Cristo Signore § Il Cristo risorto e il suo ritorno glorioso § L'uomo nuovo § L'uomo nuovo - la giustificazione § La tensione morale della vita cristiana § Corporeità e virtù in san Paolo § L'annuncio della Speranza § L'inno alla carità § Mistero della Chiesa, corpo e sposa di Cristo Risorto § Lo Spirito che rende con-corporei a Cristo § La chiesa degli Apostoli § La Chiesa: sposa bella e fedele di Cristo § La salvezza aperta ai pagani § La salvezza di Israele, suo popolo § Annuncio paolino: lo stile pastorale § La missione come testimonianza § Condividere per annunciare § L'annuncio ai Figli di Israele § L'annuncio alle genti § Attraverso la sofferenza § Le sofferenze da parte dei Cristiani § Le sofferenze per i Giudei della Diaspora § Soffrire con un perché § Autorità e paternità in san Paolo § Paolo e i collaboratori

§ Commenti patristici: Il cristiano è un altro Cristo § Commenti patristici: Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

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§ Commenti patristici: Il nostro cuore si è aperto per voi § Bruegel: la conversione di san Paolo § Saulo di Tarso secondo Caravaggio § L'Apostolo delle genti in un rame di Elsheimer § L'ultimo Paolo secondo Rembrandt § La vita di Paolo nello sguardo di Beccafumi

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Paolo di Tarso, Apostolo delle Genti

Il primo, dopo l’Unico - introduzione È molto significativo che il prefazio ambrosiano della memoria liturgica del 29 giugno unisca Pietro e Paolo «in gioiosa fraternità», perché «con doni diversi hanno edificato l’unica Chiesa... e condividono la stessa corona di gloria», quella del martirio. Le due lampade, le due colonne, hanno dato «alla Chiesa le primizie della fede cristiana» (1° Orazione), Già s. Agostino motivava tale accostamento: «Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli. Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione» (Discorso 295, 7s: PL 1352). A sua volta, papa Leone Magno ribadirà la loro inseparabilità e reciproca integrazione: «Dei loro meriti e delle loro virtù, superiori a quanto si possa dire, nulla dobbiamo pensare che li opponga, nulla che li divida, perché l’elezione li ha resi pari, la fatica simili e la fine uguali» (In natali apostoli 69, 6-7). Ancora papa Leone ricorderà che, fin dai primi secoli, Pietro e Paolo vennero considerati i fondatori della Chiesa di Roma, come a Romolo e Remo si faceva risalire la fondazione della città: «Sono questi i tuoi santi padri, i tuoi veri pastori, che per farti degna del regno dei cieli, hanno edificato molto più bene e più felicemente di coloro che si adoperarono per gettare le prime fondamenta delle tue mura» (Omelie, 82. 7). (Analoghe espressioni in Giovanni Crisostomo, Commento a Rom., 32). Come quella di Pietro, infatti, la vicenda di Paolo fa corpo unico con la storia del cristianesimo nascente. La comprensione di esso è in larga parte decisa dalla comprensione dell’iniziativa di Paolo e delle reazioni che ha provocato. Nei 2000 anni che ci separano dal “tredicesimo apostolo”, i molti profili che di lui si son tracciati mettono tutti in risalto l’eccezionale figura del “primo, dopo l’Unico”; ma documentano anche la sconcertante possibilità di darne valutazioni contrastanti. Chi lo esalta come possente genio teologico che coglie per primo l’intero progetto salvifico centrato in Cristo (nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini); come l’instancabile missionario dell’Annuncio a tutti i popoli, già nell’arco della prima generazione cristiana (cf. la seconda parte degli Atti degli Apostoli); come il maestro della “sana dottrina” pastorale (nelle lettere a Timoteo e a Tito); come il mistico ispiratore del cristianesimo quale religione della carità e della verginità; come il glorioso martire a Roma (Clemente Romano, Ignazio d’Antiochia); come superiore a molti angeli ed arcangeli (G. Crisostomo, Panegirico, 7, 3) e come incarnazione dello Spirito Santo (l’eretico spagnolo Migezio, sec. VIII); come il “vaso di elezione” (D. Alighieri, Inferno. 2, 28; riferendosi a At 9,15); come il predicatore più audace di ogni tempo (M. Lutero, Tischreden 2, 277). Anche le biografie di divulgazione ricorrono a titoli risonanti: Il conquistatore di Cristo (D. Rops, 1951), La spada santa (J. Dobrawczynski, 1957), Il leone di Dio (T. Caldwell, 1970). Fino ai teologi che ne fanno il vero (o secondo) fondatore del cristianesimo (W. Wrede, Paulus, 1904).

Chi lo avversa accanitamente, facendone l’antagonista di Pietro e del particolarismo dei primi cristiani a Gerusalemme (F.C. Baur, 1860); il portatore di un falso evangelo, di una “cattiva novella” (“disvangelista”, così lo bollerà F. Nietzsche, Anticristo, 1890); il primo eretico della storia cristiana (gli ebioniti - per i quali Cristo è soltanto un uomo - e i fedeli alle prescrizioni giudaiche). Verso la fine del secondo secolo, Ireneo di Lione ne difenderà la figura e l’insegnamento, scagionandolo dal sospetto di essere gnostico o seguace di Marcione. È rimasto comunque sconosciuto in non pochi scritti cristiani delle origini, come i vangeli sinottici, l’opera giovannea ed altri ancora.

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Paolo di Tarso: le Fonti

Le fonti documentarie alle quali attingere notizie di Paolo fanno di lui la figura più nota, chiara e viva nella Chiesa delle origini. I biblisti più recenti ne distinguono di tre tipi. Le 7 Lettere autentiche (1 Tessalonicesi, la e 2a Corinti, ai Filippesi, a Filemone, ai Galati, ai Romani) sono le più interessanti e utili: sono scritte da lui personalmente negli anni 50 del 1° secolo, riflettono maggiormente la propria personalità, umana e teologica oltre che letteraria. Le 6 Lettere di tradizione paolina (2a Tessalonicesi, ai Colossesi, agli Efesini, la e 2a Timoteo, a Tito), attribuite a varie figure di discepoli posteriori, il cui pensiero però rispecchiava fedelmente il pensiero del maestro, come si usava nell’antichità orientale e greca. La mancanza di paternità diretta è motivata da ragioni stilistiche, da alcune diverse concezioni riguardanti soprattutto Cristo e la Chiesa, dalla non armonica successione degli avvenimenti biografici. Gli Atti degli Apostoli, che a partire dal cap. 13 sono in pratica gli Atti di Paolo, dalla «conversione» sulla strada di Damasco fino al suo arrivo a Roma come prigioniero. Anche qui qualche discrepanza - di pensiero e di successione di fatti - va attribuita alla redazione di Luca, che ha scritto solo negli anni 80 e non sempre fu compagno di viaggio dell’apostolo. Non si può far credito ai numerosi scritti apocrifi recanti il nome di Paolo. I più importanti sono: gli Atti di Paolo, risalenti alla fine del 2° secolo, che narrano lunghe peripezie in varie città, da Damasco a Roma; l’Apocalisse di Paolo, databile tra il 3° e il 4° secolo, che descrive l’attuale condizione dei defunti nell’aldilà (ad essa si è forse ispirato Dante, Inferno, 2, 28-30); un’altra Apocalisse di Paolo, risalente al 2°secolo, è stata rinvenuta 50 anni fa nei manoscritti copti di Nag Hammadi. Tacciono del tutto gli scrittori giudaici e greco-romani dell’epoca (Giuseppe Flavio, Filone d’Alessandria, manoscritti di Qumran). Sono però utili per conoscere gli usi ebraici e la società pagana che Paolo voleva condurre alla fede in Cristo.

Saulo di Tarso: Carta d'Identità

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«Sono giudeo, nato a Tarso in Cilicia, cittadino di una città che non è senza fama» (At 21, 29; cf At 22, 3), situata tra l’Anatolia e la Siria, nell’attuale Turchia centro-meridionale. Allora Tarso era capitale della provincia romana della Cilicia, centro culturale-sociale-politico molto ambizioso e dalle connotazioni religiose in parte orientali e in parte ellenistiche. La sua famiglia è ebrea della tribù di Beniamino (cf. Rom 11,1) e appartiene alla locale colonia della ”dispersione d’Israele” (diàspora), sempre molto impegnata nel fare ”proseliti” (convertiti all’ebraismo, osservanti e circoncisi) e ”timorati di Dio” (monoteisti e osservanti, ma non circoncisi) Quando? Agli inizi dell’era cristiana, tra il 7 e il 10 d. C., calcolando che Paolo stesso si dichiarava «vecchio» nel biglietto scritto a Filemone (v. 9) verso il 63 d. C., ed era «un giovane» (At 7, 58) quando venne lapidato Stefano, circa il 35-36 d. C.

Il nome ebraico Saul (invocato, chiamato), come quello del primo re d’Israele (cf At 13, 21), è testimoniato negli Atti fino ad At 13,9. Poi lascia il posto al nome romano Paolo (”piccolo”, ”poco”). In realtà, i giudei della diàspora portavano spesso due nomi, giudaico e greco.

Il ruvido mestiere di lavoratore del cuoio per costruire tende o altri oggetti (cf At 18, 3), gli è stato probabilmente trasmesso dal padre. L’apprese tra i 13 o i 15 anni, giusto il detto rabbinico: «Chiunque non insegna a suo figlio un lavoro, gli insegna ad essere ladro» (Tos. Qidd. 1, 11). Paolo parlerà spesso del suo lavoro manuale, «notte e giorno»: «Vi ricordate, fratelli, l’arduo lavoro e la fatica nostra» (1Tess 2, 9; cf anche 2Tes 3, 8; 1Cor 4, 12; 2Cor 11, 27). Questo gli permetterà di non gravare sulle sue Chiese per provvedere ai bisogni economici personali e dei collaboratori (cf At 20, 34; 1Tes 2, 9; 1Cor 4, 12; 9, 7-15; 2Cor 12, 13-14). Il ritratto fisico è tracciato nell’apocrifo Atti di Paolo e di Tecla, testimonianza della pietà popolare alla fine del 2° secolo: «Era un uomo di bassa statura, la testa calva e le gambe storte, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte, infatti, aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo». Risalgono al 4° secolo i ritratti iconografici a noi giunti: vi è espressa l’intenzione di rappresentare il filosofo cristiano, dotandolo di barba. Come scrisse s. Agostino: «La barba è segno dei forti, la barba indica i giovani, gli strenui, le persone attive, gli uomini vivaci (Enar. in Ps. 132). Per quanto riguarda il suo temperamento, oggi gli psicologi lo classificherebbero come un ”passionale”, un emotivo attivo secondario, cioè il carattere più completo.

L’ambiente in cui cresce è quello tipicamente urbano. Gesù usa immagini tratte prevalentemente dalla natura, dalla vita di provincia e dal mondo agricolo: il fiore del campo, il seminatore e la semente, il pastore e le pecore, la pesca e la rete, la vigna e i vignaioli, ecc. Paolo preferirà usare paragoni caratteristici di un cittadino della Tarso di allora: lo stadio (cf 1Cor 9, 24-27; Fil 3,4; 2Tim 4, 7ss),il teatro (cf 1Cor 4,9; Rom 1, 32), i tribunali, l’edilizia, l’artigianato, il commercio (cf Ef 1, 14; 2Cor 1, 22; 2, 17; 5, 5), la navigazione (cf 1Tim 1, 19), la vita militare (cf 1Tes 5, 8; Ef 6, 10ss; Fim 2; 1Cor 9,7; 14, 8; 2Cor 2, 14; 10, 3; Fil 2, 25; Col 2, 15). Sposato o celibe? Stando agli Atti e alla Lettere, di risposte certe non se ne possono dare. Negli ambienti rabbinici nei quali era stato educato si citava il detto: «Chi non si cura della procreazione è come uno che sparge sangue» (rabbi Eliezer, 90 d. C. circa). Ma non mancavano i celibi tra gli Esseni e altri rabbi ricordati nel Talmud babilonese e persino nel mondo greco (cf Epitteto, Diatr. 3, 22; 69 e 81).

Paolo, nei primi anni 50, affermerà di non avvalersi del diritto degli apostoli di mettere a carico della comunità anche la «moglie (donna) cristiana» (1Cor 9, 5). Poco prima aveva esortato i Corinti a vivere liberi dal vincolo matrimoniale, come lui stesso era libero (cf 1Cor 7, 8). Perché mai sposato, perché vedovo o perché separato, al fine di meglio dedicarsi alla sua missione di evangelizzatore?

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La formazione di Saulo

Alla formazione di Paolo hanno concorso tre fattori che spiegheranno e favoriranno anche tutta la sua opera missionaria. Dal punto di vista religioso, Saulo appartiene alla stretta osservanza giudaica appresa nella diàspora e a Gerusalemme. Lui stesso fornisce i dati certificanti «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge…irreprensibile secondo la ”giustizia” che si ottiene mediante la legge» (Fil 3, 5s). Una originaria appartenenza che rivendicherà con fierezza, quando i giudeo-cristiani di Corinto tentano di minare la sua autorità: «Sono ebrei? Anch’io. Sono israeliti? Anch’io, Sono discendenti di Abramo? Anch’io» (2Cor 11, 22; cf Rom 11, 2). Non la rinnegherà mai, anzi ne vanterà i meriti (cf Rom 9, 3-5). Altrettanto fiero Paolo sarà nel rievocare il suo passato di fervente aderente al giudaismo farisaico e rabbinico, al quale era stato introdotto fin dall’adolescenza trascorsa nel centro spirituale di Gerusalemme: «Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi» (At 22,3; cf anche Gal 1, 13s; At 26, 5-7). Sotto il profilo culturale e linguistico, Paolo deve non poco anche all’ambiente greco ellenistico. A Tarso – città dove convivevano razze e religioni diverse – frequenta la scuola elementare giudaica, nella quale però impara a parlare correntemente il greco e soprattutto a leggere la Bibbia in lingua greca, con la quale dimostrerà familiarità. Fin dalla sua prima adolescenza, assorbe la grecità di allora, che trasparirà specificamente nelle sue lettere: la conoscenza naturale di Dio (cf Rom 2, 27; 3, 8); il tema della filosofia stoica riguardante l’autosufficienza dell’uomo (cf Fil 4, 11s: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione: ad essere povero o ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà o alla fame, all’abbondanza o all’indigenza»); il metodo della diatriba, che pone domande e vi risponde (cf Rom 2, 27 - 3, 8); un certo vocabolario nel definire la natura dell’uomo (cf 2Cor 4, 15 - 5, 9: uomo esteriore e interiore, corpo terrestre e celeste); il concetto di coscienza (Rom 2, 15: «Quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza»; cf 13, 5); la conoscenza dei giochi nello stadio (cf 1Cor 9, 24-27); il concetto di ritorno alla fine dei tempi applicato al Signore (cf 1Tes 2, 19; 3, 13); perfino la citazione di un proverbio attribuito al poeta Menandro (1Cor 15, 33: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi»). Sotto il profilo amministrativo-politico, Saulo era civis romanus, fatto raro ai suoi tempi (su 60 milioni di abitanti dell’impero di allora, solo 4 erano ”cittadini romani”; solo nel 212 Caracalla la estenderà a tutti). Il privilegio della cittadinanza romana gli era stata trasmessa dal padre, che se l’era procurata non si sa per quali meriti. Essa comportava diritti civili e giuridici: pubblico processo quando si era accusati di un crimine; esenzione di pene ignominiose, come la crocifissione, l’esecuzione sommaria e il linciaggio; diritto di essere giudicati soltanto dal tribunale imperiale di Roma, nel caso di processi capitali. Paolo non esiterà ad avvalersene: «Potete voi flagellare un cittadino romano non ancora giudicato?» (At 22, 23-29; cf anche At 16, 37-40).

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Saulo, il persecutore dei Nazareni

Trasferitosi da adolescente a Gerusalemme, dove già risiedeva una sua sorella sposata e con un figlio (cf At 23, 16), Saulo si mise alla scuola dell’ottimo rabbino Gamaliele il Vecchio (cf At 22,3), «stimato presso il popolo» (At 5, 34), del quale si scriverà che «con la sua morte cessò l’onore della Legge e sparirono la purità e l’astinenza» (Mishnàh, Sot. 9, 15). Con lui Saulo conobbe bene la Legge scritta integrata dalla Legge orale, basata su minuziose e varie applicazioni alla vita quotidiana. Non abbiamo indizi di qualche contatto diretto con Gesù di Nazareth, crocifisso attorno all’anno 30, anche se non si esclude che Saulo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell’anno. Il suo primo contatto con la persona di Gesù avvenne tramite la testimonianza dei cristiani di Gerusalemme; non però con tutta la comunità, bensì soltanto con il gruppo dei giudeo-ellenisti di Stefano e compagni. Ad un fariseo «zelante» (Fil 3,6) come lui, era insopportabile sentire quegli eretici deviazionisti del movimento pro Gesù «pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio» (At 6,1): un nuovo ”cammino” che poneva al centro non più la Legge di Dio, ma la persona di Gesù, crocifisso e risorto, dal quale proveniva anche la remissione dei peccati. Il passaggio dalla polemica verbale all’azione punitiva (anche nei confronti dei cristiani giudeo-ellenisti di Damasco, Tarso, Antiochia) sarà così descritto da lui stesso: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1, 13s). La sua divenne una persecuzione sempre più furente e devastante: «In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture e a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 11; cf anche At 8, 3; 9, 10-21). In preda a fanatismo, arrivava a flagellare e a verberare i cristiani (cf At 22, 4s. 19; 26, 11), infliggendo loro quelle stesse pene che lui stesso subirà dopo la conversione (cf 2Cor 11, 24s). A distanza di anni, proprio perché aveva perseguitato la Chiesa di Dio, si riterrà «l’infimo degli apostoli» (! Cor 15, 9). In questo contesto, Saulo svolge la sua parte nella persecuzione nella quale il diacono Stefano muore martire (cf At 6, 8 - 7, 60). I particolari sono di Luca: «Proruppero in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane chiamato Saulo. E così lapidarono Stefano mentre pregava e diceva ”Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: ”Signore, non imputar loro questo peccato”. Detto questo morì. Saulo era fra coloro che approvavano la sua uccisione» (At 7, 59; 8,1). E nella «violenta persecuzione » (At 8,1) che segue «Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (At 8,3). Più che un persecutore, Saulo sembra personificare la persecuzione. Poco dopo lo vediamo impegnato ad estirpare la mala erba cristiana spuntata anche fuori Gerusalemme. Al Sommo Sacerdote i Romani riconoscevano forse una certa giurisdizione anche su tutte le comunità giudaiche fuori dalla Palestina, compreso il diritto di estradizione: «Sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della dottrina di Cristo che avesse trovati» (At 9, 1s) Ma sulla via di Damasco - dove gli ebrei occupavano un intiero quartiere - l’attendeva l’agguato di Dio.

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Paolo, apostolo delle genti

La via di Damasco Ciò che accadde verso mezzogiorno di un giorno imprecisato tra il 33 e il 35 d. C. cambiò radicalmente la vicenda personale di Saulo e determinò una svolta decisiva nella vita della comunità cristiana delle origini. Tanto che, negli Atti degli Apostoli, dal primo storico della Chiesa questo stesso avvenimento viene riportato ben tre volte, sia pure con qualche differenza nei particolari. Vale la pena rileggere queste narrazioni, collocate in circostanze e tempi diversi, ma vibranti di un’unica eccezionale testimonianza. Il primo racconto (At 9, 1-9) è in terza persona, steso com’è dal narratore s. Luca, che espone i fatti seguiti al martirio di Stefano, con dovizia di dettagli; senza però precisare la calvacatura usata e quindi la ”caduta da cavallo”, così frequente nell’iconografia paolina. Il secondo racconto (At 22, 6-21) è in prima persona, messo com’è sulla bocca dello stesso Paolo, che – tornato a Gerusalemme 20 anni più tardi, al termine dei viaggi apostolici – viene arrestato; prima di essere imprigionato nella fortezza, ottiene dal tribuno romano di parlare in propria difesa alla folla dei giudei che lo vuole morto, perché ha insegnato a non osservare la legge mosaica e ha profanato il tempio. Il terzo racconto (At 26, 12-23) è il più ricco di particolari e ancora in prima persona, da parte di Paolo incarcerato a Cesarea Marittima, in attesa di essere tradotto a Roma. In occasione della visita del re Agrippa e della sorella Berenice, il governatore Festo glielo presenta in pubblica riunione; lo senta pure lui e lo aiuti a stendere la motivazione che deve accompagnare lo strano prigioniero che – come civis romanus - si è appellato ad un tribunale della capitale imperiale. Il secondo genere di testimonianza è quella diretta, a 20 anni e più dell’accaduto, in 3 testi delle sue Lettere (1Cor 15, 8-10; Gal 1, 15s; Fil 3, 3-13; ed anche 1Tim 1, 12s). È lo stesso protagonista che ne parla (non si accenna alla via di Damasco) e nessuno meglio di lui può dirci l’esperienza fatta nell’incontro nel quale si è sentito ”impugnato”, ”afferrato”,”conquistato da Cristo” (Fil 3, 12); una esperienza di conversione dal giudaismo più acceso a Cristo come unico mediatore di salvezza e rivelatore del vero volto di Dio; e nello stesso tempo esperienza di vocazione a testimoniare anche agli esclusi pagani l’evento di Gesù che compie le antiche promesse fatte al popolo di Israele.

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L'incontro converte

Sulla via di Damasco avviene la conversione: Saulo diviene Paolo, un uomo nuovo. Fino ad allora, il persecutore accanito si era imbattuto con gente che viveva in totale riferimento a Gesù di Nazareth, per il quale era disposta a morire, perché ritenuto il Messia Salvatore. A lui però non era ancora stato dato di vedere e udire Cristo di persona, né vivo né redivivo. Sulla via di Damasco, invece, accade ciò che amici e nemici erano ben lontani dal prevedere; una sorta di agguato, poi riconosciuto come tale da Paolo stesso: «Io, che sono stato afferrato da Gesù Cristo» (Fil 3, 12). Quando ormai Damasco è vicina, verso mezzogiorno, il divino irrompe nella storia di un fervente fariseo, investito da una luce abbagliante e dal risuonare di una voce dall’alto; non diversamente dalle manifestazioni di Dio a Mosè, di fronte al roveto ardente (cf Es 3) e sul monte Sinai (cf Es 19). Questo è il tempo è il modo con cui a Paolo accade il primo incontro con la persona di Cristo. Esperienza rinnovata 3 anni dopo nell’estasi nel tempio (cf At 22, 17-21) e in un altro rapimento fino al «terzo cielo» (2Cor 12, 1-4). Una esperienza che fa di lui un credente e alla quale potrà a ragione e autorevolmente rifarsi - da polemista e apologeta di se stesso - ogni volta che gli verrà contestata la sua legittimità di apostolo e il diritto di recare l’annuncio ai pagani da lui liberati dai condizionamenti giudaici: «Non sono forse apostolo? Non ho forse avuto la visione di Gesù, nostro Signore?» (1Cor 9, 1s; cf anche 15, 8-10; Gal 1, 1. 11-17; Fil 3, 7-9). Quando Paolo stesso ne parlerà nelle Lettere, questa esperienza d’incontro con il Risorto sarà ritenuta non soltanto una ”visione” (cf 1Cor 9, 1), ma una ”illuminazione” (cf 2Cor 4, 6) e soprattutto una ”rivelazione” e ”vocazione” (cf Gal 1, 15s). Di quanto accade nel cuore umano, quando incontra il mistero di Dio, poco o tanto da noi rimane imperscrutabile. Confortati tuttavia da tutte queste testimonianze, di tale evento possiamo determinare qualche elemento. In questa esperienza di conversione a Saulo è data innanzitutto la conoscenza della vera identità di Gesù, nello stesso tempo autore e oggetto della ”rivelazione”: Gesù di Nazareth, morto in croce, ora è vivo; ovunque presente e operante, gli ha parlato, lasciandolo tramortito. La sua è una conoscenza di sé ”nuova”, tutta da attribuirsi alla iniziativa gratuita di Dio. Ora Paolo capisce che Dio l’ha anticipato, Cristo l’ha conquistato, i giorni luminosi e le tenebrose notti della sua esistenza sono tutti grazia. Ora scopre di essere stato scelto fin dal seno materno (cf Gal 1, 15s), non diversamente da Geremia (cf 1. 5) e dallo stesso anonimo «Servo di Dio» (Is 49, 1). D’ora in poi, Paolo non si riterrà mai un uomo che si è fatto da sé, bensì un prodigio suscitato dal Risorto che va ricreando la storia: «Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9); «È apparso anche a me come al feto abortito…Sono il più piccolo degli apostoli, io che non sono degno di essere chiamato apostolo… Ma alla grazia di Dio devo quello che sono e la sua grazia a mio riguardo non è stata inefficace. Al contrario, più di tutti loro ho duramente lavorato. Non io però, ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15, 8-10); «Il Vangelo da me predicato non è a misura dell’uomo. Perché neanche a me è stato trasmesso o insegnato da alcun uomo. L’ho invece ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11s). Tutto ciò rappresenta un enorme stravolgimento della sua farisaica fiducia nel valore unico dell’osservanza della Legge antica, che scrivendo ai Romani e ai Galati dichiarerà definitivamente superata. Quanto gli è accaduto non è stato lo sviluppo logico di riflessioni o di lunga ascesi morale, ma il frutto di un imprevedibile intervento della grazia divina. È ciò che lo persuade di essere ormai anch’egli «apostolo», ma «per vocazione» (Rom 1, 1; 1Cor 1, 1) o «per volontà di Dio» (2Cor 1, 1; Ef, 1,1; Col 1, 1). È una conoscenza che lo trasforma, perché – riconoscendo in Gesù il vero Cristo Salvatore egli percepisce coscientemente anche la vera identità del proprio io, che si realizza soltanto conformandosi a quella di Cristo.

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Cristo gli ha aperto gli occhi e i suoi criteri di valutazione sono stati rovesciati: «Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21); «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui: non come una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quello che deriva dalla fede in Cristo» (Fil 3, 7-9). La conversione di Paolo non è soltanto morale (un peccatore che ritrova la via del bene) o religiosa (un ateo che viene alla fede in Dio), ma conversione alla persona di Cristo come chiave di volta del destino umano, incontrando il quale si cambia integralmente tutto il modo di giudicare e di vivere. Più specificamente, qui Saulo passa dal giudaismo al cristianesimo, come. C. Barth riassume: «La vetta su cui mi ergevo è un abisso, la sicurezza in cui vivevo è perdizione, la luce di cui godevo è tenebra». Il primo incontro di Paolo con Cristo risorto coincide con il primo incontro con la Chiesa, la cui caratteristica più qualificante è proprio la misteriosa connessione con Cristo. In tutti e tre i racconti degli Atti, ritroviamo il drammatico e sorprendente dialogo nel quale Gesù afferma di identificarsi con i cristiani: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?... Chi sei, o Signore?...Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 4s; 22, 8; 26, 14). Viene già qui rivelato, all’accanito cacciatore di donne e uomini cristiani di Damasco, che chi tocca i cristiani tocca lo stesso Gesù Nazareno: il Risorto rimane in vitale rapporto con la Chiesa, come il Capo e le membra del suo nuovo Corpo. L’aveva già detto Gesù: «Chi accoglie voi accoglie Me, e chi accoglie Me accoglie Colui che Mi ha mandato» (Mt 10, 40). Il seguito del racconto conferma che ormai Cristo parla e agisce tramite la Chiesa, che ne prosegue la presenza salvifica. Infatti, alla domanda: «Che devo fare, Signore?», Cristo risponde di recarsi a Damasco. Qui, dopo tre giorni di tramortimento, Anania gli si presenterà come un fratello mandato dallo stesso Gesù che gli è apparso sulla via, per ridargli la vista, per colmarlo di Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani, per rimettergli i peccati nel lavacro battesimale (cf At 22, 10-16; 9, 10-19).

Paolo chiamato ad andare ai pagani

Con l’eccezionale chiamata alla fede in Cristo, il neoconvertito Paolo riceve anche il mandato missionario, che da persecutore lo rende testimone. Glielo comunica per primo proprio Anania, al quale Cristo l’ha indirizzato: «Alzati, ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare» (At 9, 6; 22, 10). Gli verrà confermata, tre anni dopo, durante l’estasi avuta nel tempio di Gerusalemme (cf At 22, 17-21). * Il mandato che gli viene assegnato viene specificato come missione alle genti pagane. È il Signore stesso a dirlo ad Anania: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinnanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele» (At 9, 15). A sua volta, Anania lo fa sapere a Paolo, «predestinato … a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca»: «Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto ed udito» (At 22, 14). E nell’estasi: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21). Nella testimonianza che darà davanti ad Agrippa, il suo mandato è già messo in bocca a Cristo stesso sulla via di Damasco, che lo sollecita a non opporre resistenza alcuna al disegno di Dio che lo riguarda: «Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo… Ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26, 16-18).\ * Come per gli altri apostoli – e per ogni cristiano, fin dal battesimo – anche per Paolo la vocazione è dunque inseparabile e contestuale alla missione: l’agire è connesso all’essere e così la vita ritrova unità. È ampiamente giustificata la sua autopresentazione: «Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti» (Gal 1, 1; cf 1, 11s; cf Rom 1, 1; 1Cor 1,1).

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Così, la conversione provocata dall’incontro con il Risorto non si riduce ad una esperienza sconvolgente, ma privatistica: «L’uomo greco non aveva alcun Dio che lo prendesse a suo servizio e lo mandasse come suo inviato. Solo l’uomo giudeo è consapevole che una rivelazione contiene una missione» (L. Baeck, Vita di s. Paolo). Accade al fariseo Saulo ciò che accadde a Mosè (cf Es 3, 20) e ai profeti (cf Is 6, 8s; Ger 1, 4-19). Senza frapporre indugi, il vigore e lo zelo del fariseo d’ora in avanti saranno posti al servizio dell’annuncio di Cristo, con dedizione totale: «È per me una necessità il farlo. Guai a me, se non evangelizzassi» (1Cor 9, 16). Al termine della riflessione su quanto avvenne sulla via di Damasco, comprendiamo perché la liturgia della Chiesa abbia dedicato una festa particolare alla Conversione di s. Paolo, apostolo, il 25 gennaio di ogni anno.

Il lavoro missionario di Paolo

L’attività missionaria, cui Paolo dedicherà i più che 25 anni che gli restano da vivere, contava dei precedenti che in qualche modo gli avevano preparato la strada. Nello stesso ambito pagano, i predicatori stoico-cinici erano soliti uscire dal chiuso delle scuole e contattare la gente sulle piazze, con intenzioni più o meno disinteressate e con alterni successi. Anche nell’ambito giudaico, tramite le sinagoghe, non mancavano coloro che – coscienti dei valori dell’ebraismo, quali il monoteismo e l’eccezionale fede di Abramo – erano animati da uno zelo fin eccessivo, dal quale già aveva messo in guardia Gesù: « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito» (Mt 23, 15). Perfino nell’ambito della Chiesa primitiva, i primi credenti di lingua aramaica avevano suscitato comunità cristiane in Giudea e Galilea (cf At 8, 1; 9, 31). I giudei cristiani di lingua greca, dopo il martirio del loro capo Stefano, avevano portato il primo messaggio cristiano in Samaria con la predicazione del diacono Filippo (cf At 8, 5-8) e soprattutto nella Siria: con l’autorevole apporto di Barnaba (cf At 11, 19-24), a Damasco, a Tarso e in particolare ad Antiochia, erano già sorte comunità nelle quali – con la stessa fede in Cristo morto e risorto – convivevano ex giudei e coloro che non si consideravano vincolati al riposo sabbatitco, alla circoncisione, all’astinenza da cibi contaminati (i cosiddetti ”timorati di Dio”). a) Da subito nelle sinagoghe Non appena gli tornarono le forze, il neoconvertito si mise a predicare nelle sinagoghe: destando generale meraviglia, va’ proclamando Gesù di Nazareth come Figlio di Dio, cioè il Cristo (cf At 9, 19-22). Poco tempo dopo, si reca nel regno arabico dei Nabatei (forse una zona presso il Mar Morto, dove si sono rifugiate comunità essene, non conformiste, ”elleniste”), sempre per annunciare Cristo Salvatore (cf Gal 1, 15-17). Tre anni dopo, torna a Damasco (cf Gal 1, 17), da dove fugge nottetempo, calato dalle mura in un canestro, per sottrarsi ad una congiura che lo voleva morto (cf At 9, 23-25; 2Cor 11, 32s). Compie una prima fugace visita a Gerusalemme (cf At 9, 26-29), dove trova Giacomo e Pietro, con il quale si confronta per 15 giorni (cf Gal 1, 18-24). Alla sua predicazione reagiscono i giudei di lingua greca, tanto che i cristiani ritengono meglio condurlo a Cesarea, donde partisse per Tarso. Da Tarso, tre anni dopo, andrà a riprenderlo Barnaba, per introdurlo nella vita della Chiesa di Antiochia, allora 3a città dell’impero, con 500.000 abitanti, sede del governatore romano. I due stanno insieme per un anno, incrementando il numero dei convertiti, che proprio lì per la prima volta vengono chiamati ”cristiani” (At 11, 25s).

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Torna poi a Gerusalemme e consegna al Tempio il ricavato di una colletta, in segno di unità e continuità con l’ebraismo. Siamo nel 43 d.C. e secondo alcuni è l’anno in cui va posto il ”Concilio di Gerusalemme”. La principale difficoltà incontrata da Paolo, agli inizi della sua predicazione, sarà sempre il pregiudizio e la diffidenza degli stessi cristiani che l’avevano subìto come accanito persecutore, e il rifiuto dei giudei irritati dal suo tradimento della religione dei padri e dal superamento netto delle osservanze richieste dalla Legge.

I tre grandi viaggi di Paolo

Primo viaggio «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21), si era sentito ripetere dal Signore durante l’estasi nel tempio. La vocazione specifica cui Paolo si ritenne chiamato fu quella di portare il primo annuncio di Cristo Salvatore oltre le frontiere già esistenti (eccetto il caso di Roma, cf Rom 1, 15). Fondando nuove Chiese, intendeva porre – tra i popoli e le province – segni viventi della signoria di Cristo, dalla quale niente e nessuno può considerarsi escluso. Utilizzando tradizioni locali, s. Luca descrive la ”corsa” della Parola di Dio nel mondo ad opera di Paolo, servendosi del genere letterario dei ”viaggi”, allora in uso. Luogo di partenza e ritorno è sempre Antiochia di Siria e non manca mai la visita finale a Gerusalemme. * Il primo viaggio (At 13 e 14) durerà circa 4 anni, tra il 45 e il 49 d. C.. È compiuto in compagnia di Barnaba, che resta ancora il vero protagonista; entrambi sono stati scelti e inviati da una manifestazione particolare dello Spirito alla comunità di Antiochia in preghiera (cf At 13, 3). I due missionari percorrono tutta l’isola di Cipro (patria di Barnaba), salpano da Pafos per approdare a Perge, a sud-est dell’Anatolia, dove il collaboratore Marco (forse nipote di Barnaba) li lascia per tornare a Gerusalemme. Forse ritenendosi incapace di sostenere i ritmi frenetici della missione; più probabilmente perché non riusciva ancora ad approvare la decisa svolta di Paolo nel superare la lentezza dei giudeo-cristiani ad abbandonare le prescrizioni antiche. Giungono ad Antiochia di Pisidia, in Asia Minore, l’attuale Turchia centro-occidentale. Qui Paolo prende la parola in una riunione di sabato in sinagoga, per pronunciare una sorta di discorso inaugurale e ben accolto, dove si ritrovano tutti i temi della sua predicazione ai giudei: riassunto della storia di Israele, che si è compiuta in Cristo crocifisso e risorto, Colui che libera anche dalla Legge (cf At 13, 16-43). Il sabato seguente però è duramente contestato dai giudei e allora lui annuncia che si rivolgerà ai pagani. Partono per Iconio, ma da lì viene costretto a partire per Listri. Qui guarisce un paralitico e la folla scambia il maestoso Barnaba per il padre degli dei Giove, e il più irrequieto Paolo per Mercurio, che degli dei era il portavoce; si vuole offrire in loro onore un sacrificio pagano, cui a stento riescono a sottrarsi (cf At 14, 8-18). Tuttavia, per istigazione di giudei giunti da Antiochia, Paolo viene lapidato. Sempre in compagnia di Barnaba, si rifugia a Derbe, poi sono di ritorno a Listri, a Iconio e ad Antiochia; si inoltrano nella Pisidia e raggiungono Perge in Panfilia, scendendo poi ad Attalia. Da qui fanno vela per Antiochia di Siria, donde erano partiti, e riferiscono che, per mezzo loro, Dio aveva aperto ai pagani la porta della fede. Le medesime cose sono mandati a testimoniare a Gerusalemme, da dove faranno ritorno portando la incoraggiante notizia che il primo Concilio aveva approvato la predicazione ai pagani (cf At 15, 1-35).

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Il secondo viaggio di Paolo

Il secondo viaggio (At 15, 36-18, 22) durerà circa 3 anni, tra il 49 e il 52 d. C.. Sul punto di ripartire, i due apostoli si separano: Paolo si rifiuta di portare con sé Marco, che salpa con Barnaba alla volta di Cipro e altrove (forse anche in Italia settentrionale). Invece Saulo, insieme a Sila, torna in Asia Minore, a vedere come stanno le Chiese fondate nel primo viaggio. Ma, lungo questo secondo itinerario, l’Apostolo delle genti avrà modo di incontrare un altro mondo, quello greco-romano. A Listri si aggrega Timoteo, di padre greco e che sarà tanto caro a Paolo. Docili allo Spirito, dopo aver attraversato la Frigia ed evangelizzato la Galazia, rinunciano ad entrare nella provincia di Asia e della Bitinia, costeggiano la Misia e scendono a Troade, nel nord-ovest della attuale Turchia. Qui Paolo ha la visione notturna del Macedone che lo supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!». Così Paolo si sente chiamato a mettere piede sul suolo d’Europa (cf At 16, 9s). Quindi si dirigono verso Samotracia e Neapoli; di qui a Filippi, colonia romana ormai città latina del primo distretto della provincia macedone. Battezzano Lidia, commerciante di porpora incontrata durante una riunione di preghiera lungo il fiume, e ne accettano l’ospitaltà. Ma vengono bastonati e incarcerati, in seguito alla denuncia fatta da una schiava indovina (e dei suoi padroni), i cui guadagni la loro predicazione aveva messo in pericolo. Nottetempo, li libera dalle catene un terremoto. Temendo la punizione da parte dei magistrati, il disperato carceriere tenta il suicidio; ma Paolo lo dissuade e lo battezza con tutta la famiglia. Saputo poi che Paolo e Sila sono cittadini romani, le autorità li rimettono in libertà (cf At 16, 11-40). Lì crescerà una bella comunità cristiana, a cui l’Apostolo invierà da un’altra prigione la lettera della gioia e dell’affetto, quella appunto ai Filippesi. Da qui giungono a Tessalonica, dove convertono non pochi Greci. Colti da gelosia, i giudei li denunciano presso le autorità pagane, coinvolgendo pure Giasone, che li aveva ospitati. I missionari sono fatti partire di notte per Berea, centro portuale della Macedonia. Qui si ripete ciò che era accaduto a Tessalonica: conversioni ancor più numerose e ostilità fomentate da fanatici giunti da Tessalonica. Paolo allora viene accompagnato ad Atene, dove attende a lungo la nave che porta Sila e Timoteo. Per quanto devastata dai romani nel 146 a. C., Atene era pur sempre la capitale della sapienza, dell’arte e della democrazia, anche senza lo splendore dei secoli V e IV a. C.. Paolo non perde tempo: ogni giorno discute con i pagani in sinagoga e con i passanti sulle piazze. I filosofi epicurei e stoici, incuriositi, lo invitano sull’Areopago, perché questo ciarlatano si spieghi meglio. È qui che Luca mette in bocca a Paolo il magistrale annuncio di Cristo Risorto ai pensatori politeisti di Atene (cf At 17, 11-33). Se ne parlerà più avanti. Lo scarso successo non scoraggia Paolo, che percorre i 50 Km che lo portano a Corinto, capitale della provincia romana dell’Acaia, ancora più cosmopolita e corrotta di Atene. Nella numerosa comunità giudaica del luogo, trova ospitalità presso i coniugi cristiani Aquila e Priscilla, provenienti da Roma, da dove nel 49-50 d. C. l’imperatore Claudio aveva allontanato tutti i Giudei. Sono anch’essi fabbricanti di tende e Paolo può lavorare con loro (cf At 18, 1-3). Sopraggiunti Sila e Timoteo, danno inizio alla predicazione, rifiutata dai giudei, ma accolta dal capo della

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sinagoga Crispo e famiglia; la accolgono pure i pagani ben disposti, tra i quali un certo Tizio Giusto. Un’altra visione lo incoraggia a «non tacere, perché Io ho un popolo numeroso in questa città» (At 18, 10). Da qui scrive le due lettere ai Tessalonicesi. Così Paolo si ferma un anno e mezzo, tra l’inverno del 50 e l’estate del 52 d. C.. Verso la fine del soggiorno a Corinto, i giudei riescono ancora a trascinarlo in tribunale, ma il pro-console Gallione lo lascia libero, rifiutandosi di trattare le loro questioni religiose; ne va di mezzo lo stesso capo sinagoga Sostene, addirittura percosso dalla sua gente (cf At 18, 12-17). Quindi, in compagnia di Aquila e Priscilla, s’imbarca per la Siria e giunge di nuovo a Efeso, da cui riparte troppo presto per Cesarea. Ha quindi modo di «salutare la Chiesa di Gerusalemme» per poi raggiungere Antiochia. Ben presto, però, riparte per confermare nella fede «tutti i discepoli della Galazia e della Frigia» (cf At 18, 18-22).

Secondo viaggio

Il terzo viaggio di Paolo

Il terzo viaggio (At 18, 23 - 21,16) dura 5 anni, dal 52/53 al 57 d. C.. Con i mezzi di allora, l’Apostolo percorrerà 2500/3000 Km, ma l’itinerario non è sicuro. Dapprima riattraversa la Galazia e la Frigia per ”confermare nella fede ” (At 18, 23) le chiese fondate nel 1° e 2° viaggio. Poi la tappa più importante - 2 anni e 3 mesi – fu quella di Efeso, capitale della provincia romana di Asia, 300/400mila abitanti, teatro principale di 25.000 posti, crocevia di molte carovaniere; il tempio di Artemide–Diana era considerato una delle 7 meraviglie del mondo (cf At 19, 27) e vi fiorivano magia e superstizione. Infatti, nel timore che le conversioni cristiane danneggiassero il commercio degli idoli, l’orefice Demetrio monterà la sommossa dei fabbricanti e dei mercanti; la calma fu riportata a fatica, e con la consueta motivazione da parte dell’autorità romana, preoccupata soltanto di sedare disordini (cf At 19, 24-41). Ad Efeso Paolo battezza ”nel nome del Signore Gesù”, e li conferma con l’imposizione delle mani, 12 discepoli che avevano ricevuto soltanto il battesimo penitenziale di Giovanni Battista, senza mai aver sentito parlare di Spirito Santo (cf At 19, 1-7). Servendosi della collaborazione di molti compagni (tra i quali Timoteo, Epafra, Erasto, Gaio, Aristarco e Tito), Paolo coordina l’evangelizzazione di «tutti gli abitanti della provincia di Asia» (At 19, 10), la parte cioè di cui Efeso era il centro, comprendente le 7 città citate in Ap 1, 11. Opera anche guarigioni prodigiose; lo imitano in questo degli esorcisti ambulanti giudei, ma senza esito; anzi, si convertono anche molte persone che avevano esercitato arti magiche (cf At 19, 11-20). Dopo essersi forse recato ancora a Corinto nei 3 mesi invernali (per stroncare estremismi giudaizzanti), tornato ad Efeso, Paolo riparte, intenzionato ad attraversare la Macedonia e raggiungere la Grecia. Tre mesi dopo, il solito complotto giudaico lo costringe a tornare ad Antiochia di Siria senza attraversare la Macedonia. Preceduto e accompagnato dai suoi collaboratori, salpa da Filippi e in 5 giorni giunge a Troade. Durante una prolungata assemblea eucaristica serale, nel primo giorno della settimana che vi trascorse, ridona la vita al ragazzino Eutico, che – vinto dal sonno – era caduto da una finestra situata al 3° piano (cf At 20, 7-12). In seguito, la compagnia di s. Paolo – che aveva fatto vela per Asso, dove aveva imbarcato l’apostolo che vi si era recato a piedi – tocca Mitilene e Samo e giunge a Mileto. Qui Paolo sollecita a raggiungerlo i principali «anziani delle Chiese» da lui fondate. A loro rivolge il terzo dei grandi discorsi ricordati negli Atti (in Atti 13, la

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sintesi della predicazione ai giudei; in Atti 17, la sintesi di quella ai pagani). Lo si può ritenere il suo testamento pastorale, redatto da s. Luca che era presente: ricorda il suo ministero in Asia (At 20, 18-20) e presagisce la sua morte (vv 22-27); raccomanda vigilanza (vv 28-30), disinteresse e carità (vv 33-35). Una testimonianza che destò commozione in tutti e che ci consegna un suo splendido profilo di padre autorevole (cf At 20, 17-38). Siamo nell’anno 58 d. C. e Paolo ha fretta di essere a Gerusalemme per la Pentecoste. Ogni giorno un nuovo porto: Cos, Rodi, Patara. Su un’altra nave giunge a Tiro; la settimana dopo, parte per Tolemaide, il giorno dopo per Cesarea. Tutti lo sconsigliano di salire a Gerusalemme, perfino un profeta di nome Agabo giunto dalla Giudea. Ma Paolo si mostra irremovibile: « Io sono pronto non soltanto ad essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore». «Smettemmo di insistere: sia fatta la volontà del Signore!» (cf At 21, 13s). A Gerusalemme viene accolto e ospitato da Mnasone di Cipro, discepolo della prima ora; fa visita a Giacomo e agli anziani, consegna il ricavato di una nuova colletta; Giacomo gli consiglia di recarsi al tempio, per assolvere a un voto e per tranquillizzare i tradizionalisti. È qui che viene riconosciuto dai giudei della provincia di Asia; questi sollevano un violento tumulto nei suoi confronti, per sedare il quale interviene dalla torre Antonia il tribuno romano, che non trova di meglio che incarcerarlo nella fortezza. Prima però gli concede di difendersi dalla folla inferocita con un discorso in ebraico; e viene a sapere che questo prigioniero è cittadino romano (cf At 21, 15-22, 29). È ormai cominciata la ”passio Pauli” (At 21-28), che con quella di Gesù avrà più di una somiglianza.

Terzo viaggio

Testimone prigioniero

La Parola non si lascia incatenare (cf 2Tim 2,9), neppure quando Paolo è costretto all’inattività del carcere. Parlano per lui le catene portate per la causa di Cristo, come scriverà ai Filippesi: «Voglio farvi conoscere, fratelli, che quanto mi è capitato ha contribuito piuttosto al progresso del Vangelo. È diventato così notorio a quelli del palazzo del governatore e a tutti gli altri che io sono prigioniero per Cristo» (Fil 1, 12s). Il giorno dopo l’arresto, il tribuno – per saperne di più sul suo conto – porta Paolo in sinedrio. Con un abile intervento, Paolo semina divisione tra i sadducei e farisei a proposito della risurrezione. Ricondotto in fortezza, il nipote lo avvisa che 40 giudei hanno giurato di ucciderlo. Informato anch’egli del complotto, il tribuno Claudio Lisa pensa bene di inviarlo – sotto scorta e di notte – a Felice, governatore in Cesarea (cf At 22, 30-23, 35). Passano 5 giorni e Felice ritiene di mettere a confronto il prigioniero con il sommo sacerdote Anania, arrivato da Gerusalemme con alcuni anziani e l’avvocato Tertullo. Efficace come sempre l’autodifesa, cui però non segue la scarcerazione. Insieme alla moglie giudea Drusilla, Felice si procura una serie d’incontri privati, ma senza esiti rilevanti. Anzi, per due anni trattiene il prigioniero in una sorta di libertà vigilata: non voleva inimicarsi le autorità religiose di Gerusalemme e sperava di ricevere denaro dagli amici di Paolo (cf At 24, 1-27). A Felice succede il governatore Festo, che riserva a Paolo analogo trattamento del predecessore. Si reca a Gerusalemme per conoscere le accuse sollevate dal sinedrio, che desidererebbe si riconducesse il prigioniero in città, per poterlo eliminare durante il trasporto. Indice una assemblea a Cesarea, ove Paolo può difendersi e – al fine di non subire processo a Gerusalemme – appellarsi al tribunale di Cesare, in quel tempo Nerone. Convoca una pubblica udienza alla presenza dell’incuriosito re Agrippa, passato a salutarlo,. Paolo coglie l’occasione di narrare ancora tutta la sua vicenda e anche Agrippa ammette di non trovare capi d’accusa che meritino pena di morte o catene (cf At 25-26). Non resta che tradurre il prigioniero a Roma, visto che si è appellato a Cesare. Il viaggio di trasferimento in Italia – 2500 Km in linea d’aria, avvenuto dal settembre del 59/60 ai primi

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mesi dell’inverno successivo - fu alquanto avventuroso ed è descritto con tanti particolari marinareschi in Atti 27 e 28. Il drappello di prigionieri di cui Paolo fa parte è comandato dal centurione Giulio della coorte Augusta. I venti contrari e il sopraggiungere dell’inverno rallentano la navigazione. Un terribile uragano scuote per 3 giorni la nave, che va alla deriva: il carico è buttato in acqua, per 14 giorni non c’è tempo neppure per mangiare; la nave si arena sulla riva dell’isola di Malta e tutti i 276 imbarcati – chi a nuoto, chi su tavole – riescono a mettersi in salvo. Anche in tali tragiche circostanze, Paolo era intervenuto autorevolmente almeno 5 volte, con esortazioni incoraggianti e avvalorate da una visione, con consigli di tecnica marinara, con la preghiera di ”ringraziamento” (l’Eucaristia?) prima di rifocillarsi; sempre guidato dalla preoccupazione di salvare la vita di marinai e prigionieri (cf At 27, 9-44). Accolti dagli indigeni ”con rara umanità”, Paolo viene morso da una vipera aizzata dal fuoco acceso per asciugarsi dalla pioggia. Non producendosi gonfiore alcuno, gli indigeni lo scambiano per un dio. Publio, il ”primo” dell’isola, ospita tutti per tre giorni; Paolo guarisce suo padre ed altri malati; ne beneficiano tutti i naufraghi, colmati di onori. Dopo tre mesi, ripartono riforniti di tutto il necessario per proseguire il viaggio (cf At 28, 1-11). Approdano a Siracusa e poi a Reggio, quindi a Pozzuoli, allora città di ben 65.000 abitanti e porto di Roma; alcuni fratelli li trattengono per una settimana. Dopo di che, probabilmente servendosi della via Appia, si avvicinano a Roma, città con abbondanza di dei, tutti i simulacri dei quali Augusto aveva collocato in un solo tempio, il Pantheon, e che allora contava circa 1 milione di abitanti, con circa 50.000 ebrei e 13 sinagoghe. Gli vengono incontro dei fratelli che già lo conoscevano, se non altro per aver loro scritto la più importante delle sue lettere tra il 55 e il 58, stando a Corinto. Si sta realizzando il suo progetto di confrontarsi anche con i cristiani della capitale dell’impero, «perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo» (Rom 1, 8). Nella lettera aveva promesso: «Per quanto sta in me, sono pronto a predicare il vangelo anche a voi di Roma» (Rom 1, 15). Anche la visione avuta a Gerusalemme l’aveva incoraggiato: «Tu devi rendermi testimonianza anche a Roma» (At 23, 11). Siamo attorno al marzo del 61 e il prigioniero Paolo è tenuto in ”custodia libera”, una blanda cattività che gli consentiva di abitare in una casa, vigilata da un pretoriano, e di svolgere di fatto l’attività di un uomo libero (cf At 28, 12-16). Son passati appena 3 giorni dall’arrivo in città e già Paolo convoca alcuni notabili giudei, per raccontare la sua vicenda e precisare loro che «è a causa della speranza d’Israele che io sono legato a questa catena » (At 28, 20). Molti di più convengono dove alloggia, in un altro giorno, interamente occupato da Paolo alla sua difesa e a proporre loro la conversione a Cristo. Alcuni aderiscono, altri dal ”cuore indurito” se ne vanno in discordia tra loro. Perciò Paolo, anche stavolta purtroppo, è quanto mai risoluto a rivolgere la salvezza di Dio ai pagani (cf At 28, 17-29). Così si conclude la narrazione di Luca: «Paolo trascorre due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunciando il regno di Dio e insegnando loro le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28, 30).

Fino al martirio

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Da altre fonti sappiamo che, al termine dei 2 anni di ”custodia libera”, Paolo venne assolto e addirittura prosciolto. Nessuno, infatti, si era presentato a confermare le accuse (da farsi entro 9 mesi per i prigionieri italici, entro 18 mesi se provenienti d’oltre mare). Da Roma avrebbe scritto le lettere ai Colossesi, agli Efesini e ai Filippesi – dette le lettere della cattività –, la 2° a Timoteo e il biglietto a Filemone. Liberato che fu, poté forse realizzare il suo desiderio di spingersi in Spagna, estremo confine dell’occidente (cf Rom 15, 22-24). La missione rimase senza frutto ed egli pensò di ritornare ad Efeso e in Macedonia. È certo che nel 66/67 è di nuovo a Roma e stavolta costretto in ”custodia publica”, forma di prigionia dura, insieme anche ai delinquenti peggiori, all’interno di un pretorio romano (cf Fil 7. 13. 22). L’arresto è forse avvenuto a Troade e all’improvviso, se in seguito pregherà il prediletto Timoteo di recuperargli mantello di viaggio, pergamene e libri, rimasti nella casa di un certo Carpo (cf 2Tim 4, 13). Ormai le forze gli vengono a mancare, non sa nascondere la delusione perché nella prima udienza è stato lasciato solo a difendersi. Soltanto il fedelissimo Luca gli è rimasto accanto, mentre gli avversari sono tornati in forza, tanto che si trova ancora in catene. E a Timoteo fa qualche nome: «Alessandro, il ramaio, mi ha arrecato molto male. Il Signore gli renderà conto secondo le sue opere. Anche tu guardati da costui, perché ha molto avversato le nostre parole» (2Tim 4, 14s). La Lettera ai Corinti di papa Clemente Romano (96 d. C.), con numerose altre fonti posteriori, ci testimoniano che l’Apostolo delle genti – alla fine degli anni 60 (verso il 68), sotto Nerone – subisce il martirio per decapitazione: quella di un ”civis romanus” doveva essere eseguita fuori città e quella di Paolo avviene sulla via Ostiense a 3 miglia dalle mura, presso le Acque Salvie, dove oggi sorge l’Abbazia delle Tre Fontane. Così leggiamo: «Per la gelosia e la discordia, Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza…Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo esser giunto fino agli estremi confini dell’Occidente, sostenne il martirio davanti ai governatori; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di perseveranza» (Ai Corinti, 5). All’indomito testimone di Cristo la morte non era giunta inaspettata, come aveva confidato ancora a Timoteo: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere versato in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tim 4, 4s); «Per me vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21). Gli restava soltanto un dubbio: che il suo lavoro missionario fosse ancora di qualche utilità per sostenere la fede delle comunità cristiane che aveva disseminato in tutte le regioni del mondo allora conosciute (cf Fil 1, 21-26), esclusa Alessandria d’Egitto. A s. Paolo fuori le mura: Paolo è qui! Dopo la decapitazione alle Acque Salvie, Paolo venne sepolto sempre sulla via Ostiense, secondo la tradizione nella tomba della Matrona Lucilla. Durante la persecuzione di Valeriano (257-258) il corpo venne traslato, insieme a quello di Pietro, nelle catacombe di s. Sebastiano, lungo la via Appia Antica. Nel IV secolo, ottenuta da Costantino la libertà religiosa e sotto papa Silvestro, le spoglie di Pietro tornarono in Vaticano, mentre quelle di Paolo vennero rideposte nell’antico cimitero sulla via Ostiense. Nel 320 Costantino costruì le due prime basiliche apostoliche sui sepolcri di Pietro e di Paolo, in modo che le reliquie dei co-fondatori della Chiesa restassero il fulcro dei riti e della devozione; vennero consacrate entrambe il 18 novembre del 324 (della chiesa edificata sulla tomba di s. Paolo non è rimasto nulla). Nel 390. gli imperatori Teodosio, Valentiniano II e Graziano chiesero di ampliare la basilica, che venne significativamente ricostruita sul modello e più grande della basilica costantiniana di s. Pietro. Ai tempi di Valentiniano II (386) avvenne il posizionamento del sarcofago, contenitore di reliquie, il contatto con le quali era possibile attraverso una feritoia di 10 centimetri (serviva a ”mettere in comunicazione con l’altare” ed a introdurre ”brandea”, pezzi di tessuto che divenivano reliquie a loro volta). La sontuosa basilica costantiniana fu completata da Teodosio, da Onorio I e dalla sorella Galla Placidia. Leone Magno ne ricostruì la navata destra, crollata nel terremoto del 433. L’edificio subirà l’incursione dei longobardi, dei saraceni e nel 1500 dei lanzichenecchi. Verrà fedelmente ricostruita nel 1854, dopo che il furioso incendio del 15/16 luglio 1823 l’aveva disintegrata. In tutti questi secoli, su due lastre di marmo risalenti al IV secolo, - in piano, sotto l’altare papale, a circa 40 centimetri dal sarcofago - i pellegrini hanno potuto leggere l’inequivocabile scritta: PAULO APOSTOLO MART(yri). I lavori per sopraelevare la pavimentazione del presbiterio e per edificare altari fissi (l’ultimo fu quello di Gregorio Magno, attorno al 600) hanno mirato a uniformare l’altare della basilica paolina a quello di s. Pietro: al ciborio di Arnolfo di Cambio corrisponde quello del Bernini. I pellegrini, cattolici e non, dell’Anno Santo 2000 chiesero agli archeologi di indagare per meglio poter venerare le reliquie del formidabile annunciatore di Cristo. Gli scavi del 2002 e 2003 porteranno al sarcofago a forma di

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tetto risalente al 390. Basterebbe ora introdurre, dalla feritoia chiusa sul fondo da un sottile strato di malta, una microtelecamera per portare alla luce imprevedibili nuove scoperte. Circa 2500 pellegrini ogni giorno varcano oggi la soglia di S. Paolo fuori le mura, per rinnovare la memoria di Paolo. Si arriva all’altare della ”Confessione”, accompagnati da una artistica catechesi visiva sui co-fondatori della Chiesa e dell’intera sua storia: all’esterno, sui battenti murati della Porta Santa sono narrati 12 episodi della vita di Pietro e Paolo; all’interno, sull’antico portale bizantino, 54 pannelli bronzei raccontano la vita di Gesù e degli apostoli; 36 affreschi ottocenteschi sostituiscono il ciclo duecentesco delle storie di s. Paolo di Pietro Cavallini; lungo il perimetro delle navate del transetto, 294 medaglioni a mosaico ritraggono le serie dei papi da Pietro a Benedetto XVI (18 sono ancora vuoti). Gli archeologi che proseguono l’esplorazione del sottosuolo vanno scoprendo – sotto e nei dintorni del sepolcro di Paolo – una necropoli pagana, come attorno alla tomba di Pietro sulla collina del Vaticano. Basilica di san Paolo fuori le mura

Annuncio paolino: il mistero rivelato

Introduzione Sulla scorta del racconto degli Atti e degli insegnamenti dati nelle sue Lettere, e da quanto l’apostolo ha compiuto, scritto e detto, ci è possibile enucleare la struttura portante del messaggio che Paolo è andato annunciando; in seguito, metteremo in rilievo le modalità costanti che hanno caratterizzato la sua opera di evangelizzazione. Con Paolo si può dire che la fede professata dai cristiani dei tempi apostolici incomincia anche ad essere ”pensata”, a lungo e laboriosamente. Con lui si possono registrare i primi passi della teologia, cioè quel ”discorso sul divino” che la ragione – illuminata dalla fede – va facendo per comprendere organicamente e trasmettere fedelmente la verità rivelata. Paolo non è stato certo un teologo di professione, intento ad elaborare con rigore critico un sistema del sapere cristiano. Anzi, l’uso improvvido di qualche sua folgorante intuizione ed espressione, magari un po’ oscura e isolata dall’intero contesto della sua visione cristiana, è stato fin dai primi tempi all’origine di fraintendimenti non piccoli, come già osservava Pietro: «Nelle lettere che il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data, … ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2Pt 3, 15s). Di lui dirà s. Gerolamo che «non si preoccupa più di tanto delle parole, quando aveva messo al sicuro il significato». Sovente la sua non è una esposizione accademica, affidata al concatenarsi di idee chiare e distinte, ma intende provocare reazioni e adesioni. La sua primaria preoccupazione resta sempre la cura delle Chiese anni 50 da lui fondate, spesso rispondendo da lontano a problemi sorti in sua assenza. Tuttavia, sia pure da teologo occasionale, Paolo affronta e svolge temi, usa e precisa termini, con una profondità e capacità di sintesi fino allora sconosciute. Ciò è particolarmente

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evidente nella Lettera ai Romani (1-11), nella prima parte di altre grandi Lettere (Gal 3-4; Col 1-3, 4; Efesini 1-2), dove troviamo anche i grandi inni (Col 1, 12-20; Ef 1, 3-14. 20-23; Fil 2, 5-11). Nella profondità e ricchezza dell’impianto dottrinale e nello splendido vigore della testimonianza, l’annuncio paolino costituisce senza dubbio alcuno un momento stimolante, privilegiato e irripetibile nella storia dell’evangelizzazione, tanto da restare – ovunque e sempre – un modello di riferimento del quale nessun evangelizzatore può fare a meno. Considerata la particolare indole dei testi paolini, ogni schema espositivo non può che risultare inadeguato. Qui si è ritenuto seguire comunque un ordine:

• il posto assegnato a Cristo (Cristo al centro del mistero) • la novità del credente (l’uomo nuovo) • la natura sacramentale della Chiesa (Mistero della Chiesa Corpo e Sposa del Risorto)

Si lascerà il più ampio spazio alla stessa parola dell’apostolo.

Cristo al centro del mistero

Paolo – «l’infimo tra tutti i santi» - è più che mai convinto di essere «diventato ministro per il dono della grazia di Dio», perché fosse manifestato anche a tutti i pagani un eterno «mistero, non manifestato agli uomini delle precedenti generazioni», ma che «al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito» (Ef 3, 3-11; cf Col 1, 26s). È un ”proposito”, un ”progetto” che si va realizzando dagli inizi della storia della salvezza, è stato «attuato in Cristo nostro Signore» (Ef 3, 11; Rm 8, 28s; 2Tim 1,9; 1Cor 2, 6-16), prosegue nella vita della Chiesa e si manifesterà pienamente alla fine dei tempi. Nel suo epistolario, il nome menzionato più spesso dopo quello di Dio (più di 500 volte) è quello di Cristo (380 volte). È chiarissimo in lui che il valore fondante e insostituibile è la fede in Cristo: «L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Gal 2, 16; cf Rom 3, 28. 34). Ed è proprio questa anche la sua esperienza personale: «Questa vita che io vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20). Paolo sa che gli «è stata concessa la grazia di annunciare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef. 3,8), nella «larghezza, lunghezza, altezza e profondità» (Ef 3, 18) del suo mistero: il vero Adamo, in grazia del quale su tutti gli uomini è stata riversata in abbondanza la vita nuova (cf Rom 5, 12-20). Nell’unico piano di salvezza (cf Ef 1, 9-12) concepito fin dall’eternità dalla sapienza amorevole del Padre, Cristo Gesù – morto e risorto – detiene l’assoluto primato e la centralità. La sua è una singolarità incomparabile: Egli è il principio unificante e vivificante (cf Col 1, 17s), dal quale scaturisce ogni realtà creata; con Lui il tempo raggiunge la sua pienezza (cf Gal 4,4); «in Lui tutte le promesse di Dio sono diventate si» (cf 2 Cor 1, 19s) e «in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2, 8); Gesù glorioso ha ricevuto il nome che «sta sopra tutti i nomi» (Fil 2,9) e tutto in Lui sarà ricapitolato alla fine dei tempi (cf Ef 1,10). A tale riguardo, il più esemplare dei tre inni cristologici è quello contenuto nella Lettera ai Colossesi (cf ”Letture”, 4, pp. 47-52). Lo stesso Gesù - «nato da una donna» (Gal 4,4), morto in croce e risorto il terzo giorno – preesiste dall’eternità: precede l’opera della creazione e partecipa all’azione divina che trae dal nulla ogni creatura, terrestre e cosmica; di esse è l’unico Signore, «in tutto il primeggiante» (Col 1, 18). L’universo intero e tutta la vicenda degli uomini trovano in Lui origine, modello e scopo del loro esistere; da Lui dipende il loro permanere nell’esistenza. Egli è «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15) e – nell’ordine della creazione - «in Lui sono state create tutte le cose» (Col 1,16), «tutte sussistono in Lui» (Col 1,17; cf 1Cor 8, 6) e «in Lui piacque a Dio di far abitare ogni pienezza» (Col 1,19). E – nell’ordine della redenzione e della grazia – in Lui ogni realtà è stata riconciliata al Padre (cf Col 1,20), per opera sua «abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col 1, 14; cf anche Gal 3, 13; Rom 5, 6-11; ecc.).

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Il Cristo crocifisso e il Cristo Signore

Paolo non indugia a descrivere i misteri della vita nascosta a Nazareth, né quelli della predicazione e dei segni miracolosi della vita pubblica; concentra il messaggio cristiano sul Signore pasquale, Gesù Crocifisso e Risorto, le due facce dell’identica medaglia: «Egli è morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione» (Rom 4, 25). Nella sintesi ”spaziale” dell’opera redentiva che Paolo ha tracciato nella lettera ai Filippesi, croce e risurrezione rappresentano il punto più illuminante la logica seguita da tutta la vita dell’unico Gesù: annientamento del Dio glorioso, che si fa uomo obbediente fino alla morte, e esaltazione del ”Signore” al di sopra di ogni realtà creata (cf Fil 2, 6-11). Al cristiano il compito di corrispondere a questo evento salvifico: «L’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5, 14s). Si direbbe, anzi, che attribuisca una certa prevalenza al mistero di Gesù morto in croce, rivelazione dell’amore del Padre, confermato dalla risurrezione. Il mistero della croce, infatti, condensa tutto il sapere di Paolo su Cristo: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2). Numerose sono le espressioni che evidenziano il valore salvifico della croce: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15, 3) e «colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato a nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5, 21), «riconciliati con lui per mezzo della morte del Figlio suo» (Rom 5, 10). Ma Paolo, con dolore, constaterà che «molti…si comportano come nemici della croce» (Fil 3, 18). Ed è mistero che non va taciuto. Scrivendo ai Corinti, Paolo se la prende sia con quanti cercano di attenuare lo scandalo della croce, per conciliare la gratuità della salvezza con la necessità delle opere; sia con quanti sorvolano sulla crocifissione, inaccettabile dalla concezione giudaica e pagana della divinità, per porre l’accento sulla risurrezione. Nell’annuncio paolino e nella sapienza cristiana, invece, morte e risurrezione devono restare scandalosamente inseparabili, «per non rendere vana la croce di Cristo» (1Cor 1, 17): «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo Crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1, 22-25; cf Gal 5, 11; 2Cor 12, 10; 13, 4). La croce dalla quale Cristo non scende è, infatti, la più chiara forma di rivelazione dell’amore del Dio cristiano, prima ancora che strumento doloroso di redenzione. È questa «morte del Signore» che viene annunciata ogni volta che, nella celebrazione eucaristica, si mangia il Corpo dato e si beve il calice del Sangue della nuova alleanza (cf 1Cor 11, 23-28). «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti» (2Cor 5, 14); «Dio dimostra il suo amore per noi, perchè mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,8). Per l’efficacia della predicazione della croce, l’apostolo può portare la testimonianza personale. Agli ”stolti Galati”, «agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo Crocifisso» (Gal 3,1) e che sono tornati alla maledizione della legge, così che per loro «Cristo è morto invano» (Gal 2,21), dirà: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20); «Quanto a me, invece, non vi sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).

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Il Cristo risorto e il suo ritorno glorioso

Ovviamente, l’annuncio paolino di Cristo Risorto non è per nulla messo in ombra, in posizione marginale. Al re Agrippa, il procuratore Festo riassume il motivo per cui il suo singolare prigioniero ha destato il tumulto nel tempio unicamente nella questione «riguardante un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita» (At 25, 19). Paolo presenta la risurrezione di Cristo come una verità sperimentata nella tradizione apostolica (alla quale egli stesso attinge), e documentata da innumerevoli testimonianze da lui puntigliosamente elencate (cf 1 Cor 15, 3-8). È l’avvenimento che qualifica la nuova religione cristiana, che Paolo non può tacere, anche sopportando il ridicolo da parte di rappresentanti della sapienza pagana (cf At 17, 31s). Paolo annuncia Gesù come «il primogenito dei risorti» (Col 1, 18), come l’unico che ha sconfitto definitivamente la morte: «Cristo risuscitato dai morti non muore più, la morte non ha più poteri su di lui» (Rom 6, 9). Quella di Cristo è anche la vittoria di tutta la famiglia umana sulla sua ”ultima nemica”, la morte (cf 1Cor 15, 26). E, con la consueta incisività, ricorda che senza Cristo crocifisso e veramente risorto, l’intera esistenza umana e cristiana non riuscirebbe a scampare dalla colpa e dalla morte: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (1Cor 15, 17-19). Ne deriverà che – essendo Gesù di Nazareth, morto e risorto, il cuore e il centro, la chiave di volta, del disegno del Padre – non c’è angolo di realtà che non abbia rapporto con Lui. Ovunque si trovi, poco o tanto che sia, tutto ciò che è vero – giusto – bello da Lui proviene e di Lui è partecipe. Soltanto in connessione con Lui, ogni realtà può essere ultimamente conosciuta e se ne può misurare il valore. Senza di Lui – a tutti necessario e sufficiente – non c’è che l’assurdità della insignificanza e il venir meno di tutte le speranze. Del ritorno di Cristo, giudice e Signore, Paolo parla già nelle due lettere ai Tessalonicesi, le prime da lui scritte, da Corinto nell’inverno del 50-51 (cf 1Tes 4, 13 - 5, 11; 2Tes 2, 1-12). E lo fa nei termini e con le immagini della tradizione apocalittica giudaica e del cristianesimo primitivo (ladro, voce, tromba, angeli, nubi, fuoco), insistendo per un verso sulla imminenza imprevedibile di questa venuta, al punto da dare l’impressione che egli e i lettori la vedranno nella loro vita (cf 1Tes 4, 17) e quindi richiedendo più che mai la massima vigilanza nella perseveranza e sobrietà (cf 1Tes 5, 1-11. 25; Ef 5, 15-20); per altro verso (cf 2Tes 2, 1-12), calmando i suoi fedeli agitati da tale prospettiva, confusi da discorsi e scritti allarmanti, tentati di «vivere disordinatamente e senza far nulla» (2Tes 3, 12s). Tra i segni riconoscibili che precederanno il ritorno del Signore, alla fine dei tempi, parla della apostasia di coloro che si lasciano distogliere dall’amore alla verità della fede (cf 1Tim 4, 1: 2Tim 3, 1; 4, 3s, ecc). Sarà provocata da un personaggio che porta tre nomi e si presenta come il grande nemico di Dio: è «l’uomo dell’empietà», «il figlio della perdizione», «l’avversario» (chiamato «Anticristo» in Gv 2, 18; 4, 3; 2Gv 7). Esso è lo strumento di satana, che già tanto opera nel «mistero dell’iniquità» (2Tes 2,7), il male; e, quanto all’ostacolo «che impedisce adesso la sua manifestazione» (2Tes 2,6), è incerto se sia l’impero romano o la predicazione del vangelo. Cristo risorto «verrà a giudicare i vivi e i morti» (2Tim 4,1), ritornerà «un giorno a giudicare la terra con giustizia» (At 17, 31), dice Paolo agli Ateniesi. Ed ai Romani e Corinti, che si giudicano tra fratelli, chiede di rimettersi tutti al giudizio finale, nel quale «ciascuno renderà conto a Dio di se stesso» (Rom 14, 12; cf 2Cor 5, 10; 1Cor 4, 5; Rom 2, 16), a secondo di come avrà costruito sul «fondamento …che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3, 11). Colui che ritornerà alla fine dei tempi è il «Cristo Signore». « Per questo Cristo è ritornato alla vita, per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rom 14, 9). Ascendendo al cielo e sedendo alla destra del Padre, anche l’umanità di Gesù partecipa della potenza e signoria di Dio. La signoria di Cristo è «al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione», perché il Padre «tutto ha sottomesso ai suoi piedi» (Ef 1, 21s; cf Fil 3, 21), «per riempire tutte le cose» (Ef 4, 10). Cristo è il Signore del cosmo e della storia, che in Lui trovano compimento, «ricapitolazione»: così che sia definitivamente «Cristo tutto in tutti» (Col 3, 11), perché «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15, 28); tramite Cristo, «colui che detiene il primato su tutte le cose» (Col 1,18) e nel

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quale abita «ogni pienezza» (Col 1, 19; cf Ef 2, 23). Così sarà realizzato «nella pienezza dei tempi, il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). Ogni altro valore è «ombra delle cose che verranno, ma la realtà è Cristo» (Col 2, 17), il corpo del Risorto è la realtà essenziale e definitiva, il germe del nuovo universo.

L'uomo nuovo

«Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5, 17). L’avvenimento di Cristo, Nuovo Adamo, morto e risorto, attua la ri-creazione dell’uomo, che già era stato creato in Cristo e poi era stato coinvolto nella caduta del vecchio Adamo. Con Cristo e il suo Spirito, l’uomo antico (discendente del vecchio Adamo) che è ”terrestre”, provenendo dalla terra, lascia il posto ad una «nuova umanità» (Ef 2, 15), che è ”spirituale”, perché viene dal cielo ed è capace di partecipare alla stessa vita trinitaria di Dio (cf Rom 5,12-21; 1Cor 15, 45-50). «Ciò che conta è l’essere nuova creatura» (Gal 6,15). L’opera della salvezza in Cristo è descritta da Paolo in pagine di forte intensità teologica, soprattutto nella lettera ai Romani (cf 1, 16 - 8, 39). La tracciamo in breve, precisando il significato dei termini da lui usati. Nella concezione che Paolo ha della creatura umana prima di Cristo e a prescindere da esso (cf Rom 1, 16 - 3, 20), la carne (sarx) assume un significato negativo: sta ad indicare l’ uomo in quanto debole e incline al male; è l’area del male che si annida nelle coscienze, è la sorgente oscura e deleteria che insidia irrimediabilmente il bene, come la zizzania soffoca il buon grano (cf Mt 13, 24-30); il peccato (hamartía) è quasi sempre inteso come il male compiuto da noi, che incrementa la ”carne” e si manifesta nelle azioni inique, fino a quelle dettate dalla ragione impazzita e contro natura. Per questo, i pagani ed ebrei sono in balia di sè stessi e delle loro infamie (cf Rom 1, 24, 26. 28; Gal 5, 9-21; Ef 4, 17); la Legge (nómos) è da osservare in quanto dono di Dio; essa segnala il peccato alla coscienza dell’uomo, quando dei doni di Dio fa un uso perverso; l’uomo, infatti, presume di potersi salvare soltanto in forza delle opere compiute obbedendo alla Legge, senza intervento alcuno della grazia dall’alto. Con Cristo si compie il tempo dell’attesa di vera redenzione, con Lui il Padre manifesta ed attua il suo disegno di misericordia per tutti, pagani o israeliti che siano (cf Rom 3, 21 – 8, 39). La grazia (cháris) è l’amore di Dio, «che si fa trovare anche da quelli che non lo cercano» (Rom 10, 20). «Quando ancora eravamo peccatori» (Rom 5,6; cf 1Tim 1, 15s), Cristo riscatta l’uomo con il suo sangue, liberandolo dal peccato (1Cor 1,30; Col 1, 14; Ef 1, 7) e dalla schiavitù della Legge (cf Gal 3,13; 4, 5). La fede (pístis) rappresenta la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio, accogliendo la salvezza offerta: «L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per la fede in Gesù Cristo» (Gal 2, 16; cf Rom 3, 22-26); «Prima che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi a chiave nella prigionia della Legge» (Gal 3,23). Lo Spirito (pnéuma), infuso nel cuore di chi ha accolto con fede la grazia divina, è lo stesso respiro, la stessa vita di Dio: «Lo Spirito di Dio abita in noi,…risiede in noi» (Rom 8, 9. 11). Ma in Paolo, lo Spirito non è più soltanto lo ”Spirito di Dio ”, ”l’alito di vita” (Gn 2, 7) del Primo Testamento, che crea il mondo e fa dell’uomo la sua immagine e somiglianza (cf Gn 1, 2; 41, 38; Es 31, 3; 1Cor 2, 11s; ecc.), lo ”Spirito santo” genericamente inteso (cf Is 63, 10. 11; Sal 51, 13). Questo è già presente negli scritti del Giudaismo, del rabbinismo o dei manoscritti di Qumràn. Invece lo ”Spirito di Cristo” (Rom 8, 1), lo ”Spirito del Figlio” (Gal 4, 6), lo ”Spirito di Gesù Cristo” (Fil 1, 19) è lo ”Spirito vivificante” (1Cor 15, 45) del Crocifisso Risorto, che ci rende non soltanto ”immagine”, ma ”figli” di Dio.

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L'uomo nuovo - la giustificazione

Lo Spirito di Cristo non è dunque soltanto il Maestro interiore, una garanzia delle promesse fatte, ma costituisce il fermento che trasforma il ”vecchio uomo” in figlio di Dio: «Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio… Avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!...Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi» (Rom 8, 14-16; cf Gal 4, 4-7; Tito 3, 5-7). Determinante rilievo assume lo Spirito del Padre e del Figlio, effuso a Pentecoste, in quell’esplicito rapporto con Dio che è la preghiera del cristiano. Senza di Esso, non ci sarebbe vera preghiera: «Nessuno può dire ”Gesù è Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Sempre desto nella parte più segreta del nostro essere, lo Spirito supplisce alle nostre carenze e offre al Padre l’adorazione a Lui dovuta, insieme alle nostre aspirazioni più profonde: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare; ma lo Spirito stesso intercede per noi con insistenza, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rom 8, 26s). La giustificazione (dikaiosýne) è il frutto di tutta la vicenda redentiva: dalla universale e irrimediabile condizione di ignoranza e corruzione in cui versava l’umanità decaduta, la grazia di Dio misericordioso – con l’effusione dello Spirito di Cristo morto e risorto – ci ha resi giusti, ”creatura nuova”. In una misura che va oltre ogni attesa: «Laddove il peccato è abbondato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom 5, 20). Dunque la giustificazione non è soltanto liberazione dal peccato e dalla morte o possibilità di un miglioramento morale. Con il perdono ci viene data una nuova appartenenza, diventiamo di un altro ”Kúrios”, del Signore Gesù. Essa è una rinascita di tutto l’essere, una santificazione che conferisce all’uomo un nuovo statuto interiore, da cui le opere giuste fluiranno come frutto della salvezza ricevuta: «Secondo la verità che è in Gesù, dovete deporre l’uomo vecchio… Dovete rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4, 21-24; cf Col 3, 9). Tale rinascita, conseguente alla fede di chi si lascia abbracciare dalla misericordia divina, è accompagnata e visibilmente espressa dal rito efficace del battesimo: «Tutti voi, infatti, siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 26s). L’immersione nell’acqua del fonte seppellisce il peccatore nella morte di Cristo (cf Col 2, 12), da dove esce mediante la risurrezione con Lui (cf Rom 6, 2-5). È così divenuto creatura nuova e purificata (cf Ef 5, 26; 1Cor 6, 11) «nel lavacro di rigenerazione» (Tito 3,5) e da Cristo illuminata (cf Ef 4, 14). La ”cristificazione” potrebbe essere il termine più appropriato e comprensivo di quanto la giustificazione dona all’uomo nuovo, purificato e santificato dalla fede e dal battesimo. La concezione che Paolo ha dell’uomo nuovo è caratterizzata da una componente ”mistica”, in quanto comporta una mutua compenetrazione tra Cristo e il cristiano, una intima immedesimazione di noi con Cristo e di Cristo con noi. È tipico soprattutto di Paolo affermare che i cristiani sono ”in Cristo Gesù” (Rom 6, 3.4. 5-11; 8, 1.2.39; 12, 5; 16, 3.7.10; 1Cor 1, 2.3 ecc). Altre volte egli inverte i termini e scrive che ”Cristo è in voi/noi” (Rom 8,10; 2Cor 13,5) o ”in me” (Gal 3, 20). Fino a qualificare le nostre sofferenze come ”sofferenze di Cristo in noi” (2Cor 1, 5), così che noi «portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4, 10). L’essere ”di, in, con, per” Cristo fu innanzitutto la personale esperienza di Paolo, fin dall’incontro sulla via di Damasco: «Per me vivere è il Cristo» (Fil 1, 21), «Non son più io che vivo, ma il Cristo che vive in me» (Gal 2,

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20), e da lui attinge ogni conoscenza ed energia. (Si veda il commento di Gregorio di Nissa, a p. 43) E questo è già vero anche per ogni credente battezzato, «quelli che sono in Cristo Gesù» (Rom 8, 1); «quelli che sono di Cristo» (1Cor 15, 23). Cristo diventa il soggetto più profondo di tutte le azioni vitali del cristiano, che ”appartiene” ormai a Cristo, perché «ha lo Spirito di Cristo» (Rom 8, 9); «E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione» (Rom 8, 10). Il rapporto del cristiano con Cristo, del quale porta il nome, non è dunque parziale e di superficie: «In Lui vivete, radicati ed edificati in Lui» (Col 2,6; cf Ef 3,18). Perciò «ciascuno guardi come costruisce; poiché nessuno può porre un’altra base oltre a quella che già esiste: il Cristo Gesù» (1Cor 3, 10). È Lui la pietra angolare che dà a tutta la costruzione ecclesiale solidità e consistenza (cf Ef 2, 20). Nessun istante o azione è concepibile al di fuori di Lui: «Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore: Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore» (Rom 14, 8). Questa realtà inedita – l’essere con il Cristo – è frequentemente espressa da Paolo con termini da lui appositamente coniati. Già dal momento della creazione l’uomo è stato conosciuto e destinato da Dio ad essere conforme all’immagine del Figlio suo (cf Col 1,15), chiamato ad essere in Lui giustificato e glorificato (cf Rom 8, 28s). Ora, con la fede e il battesimo, il cristiano è con-crocifisso e con-sepolto, con-vivificato e con-risuscitato (cf Rom 6, 3-11; Col 2,12), con Lui soffre e regnerà nella gloria (cf Rom 6,5; Fil 3, 10. 21; Col 3,1; 2Tim 2,11).

La tensione morale della vita cristiana

La tensione morale della vita cristiana – tra la carne e lo Spirito (cf Rom 5,5; 7,5) – è pure rilevante nel vangelo di Paolo. Cristo risorto ha vinto il tempo ed è al di là del prima e del poi; e il cristiano è stato «fatto rivivere in Cristo,…con Lui risuscitato e intronizzato nei cieli» (Ef 2,5). Tuttavia, finchè si trova in questo mondo, il cristiano vive simultaneamente in una duplice condizione: quella temporanea, propria della realtà mondana, «visibile e provvisoria», e per la quale «l’uomo esteriore» è sottoposto all’usura del tempo, come tutte le cose; e quella propria della grazia, «invisibile ed eterna», per la quale «l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno» (cf 2Cor 4, 16-18). Ne deriva che, finché il corpo del credente battezzato non abbia «rivestito l’immortalità» (1Cor 15, 54), il peccato può ancora trovare nel corpo «mortale» (sede della concupiscenza) il mezzo per continuare a nuocere. Paolo stesso non esita a confessare la drammatica lacerazione da lui personalmente avvertita: «Trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male si insedia accanto a me» (Rom 7, 21). Così come lo richiamerà ai Galati: «La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5, 17). Si rende allora nuovamente decisivo l’irrompere dell’azione della grazia: «Me sventurato, chi mi strapperà da questo corpo di mortale? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rom 7, 24s). Se è vero che già rifulge nei nostri cuori quella gloria di Dio che rifulge sul volto di Cristo, è pure vero che «noi portiamo questo tesoro nei vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4, 6s). E tuttavia è proprio «quando sono debole, che sono forte» (2Cor 12, 10); alla preghiera che lo liberasse dalla «spina della carne», il Signore aveva risposto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 7-9). Infatti, «la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1, 25). Dunque, «morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rom 6,11), sopravvive in noi, «a causa della debolezza della nostra carne» (Rom 6, 19), la possibilità di peccare ancora. E però «il peccato non dominerà più su di voi, perché non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia» (Rom 6, 12-14). Ai Galati – tentati di annullare il vangelo della grazia di Cristo, ridando alle opere della Legge la capacità di giustificare - Paolo dirà: «Siete stati chiamati a libertà» (Gal 5, 1); e ai Corinti: «Dove è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà» (2Cor 3, 14). Per resistere al male ed essere capaci di bene, non resta che liberare la vecchia libertà nell’obbedienza allo Spirito: «Camminate secondo lo Spirito» (Gal 5, 16). «Se vi lasciate guidare dallo Spirito» (Gal 5, 18), se ne

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raccoglieranno i frutti: «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 21; cf Rom 6, 15; 8, 24; Fil 1, 9s). Paolo non è certo un maestro di ascesi che eleva a ideale le mezze misure. Ogni cristiano è chiamato nientemeno che alla conformazione a Cristo, «giungendo allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4, 13; cf Col 1, 28) e senza escludere il desiderio di un premio finale meritato. Non vengono sottovalutate le difficoltà interne, esterne e diaboliche, ma sempre si confida nell’immancabile aiuto della grazia di Cristo: «In realtà, noi viviamo nella carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze» (2Cor 10,4); «Attingerete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza» (Ef 6,10; cf Ef 3, 20; Gal 3,5; Col 1, 29; Fil 2. 13; 1Tes 2, 13); «Tutto posso in Colui che è la mia forza» (Fil 4, 13). «Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 9-11). Anche se la vigilanza non potrà mai mancare (cf 1Tes 5, 5-6). La tensione morale che caratterizza la condizione del cristiano è sovente da lui rappresentata come un «camminare in una vita nuova» (Rom 6,4; cf Gal 5, 16), una navigazione (cf 2Tim 4,6), un combattimento spirituale con armi adeguate ad una «buona battaglia» (2Tim 4,7; cf 1Tim 1,18; Ef 6, 11-19; 1Tes 5, 8), una gara sportiva: corsa (cf Fil 3, 12-14; Gal 5, 7; 1Cor 9, 24s) o incontro di pugilato (cf 1Cor 9, 26s). A preservare il cristiano dal moralismo è la coscienza della presenza di Cristo: «Nessuno vi condanni più in fatto di cibo o bevanda o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future: la realtà invece è Cristo» (Col 2, 16).

Corporeità e virtù in san Paolo

Il corpo – è il caso di osservare - nella visione paolina non è né neutro né negativo, come riteneva una certa cultura greca. È portatore di dignità ed è costitutivo dell’uomo, non meno dello spirito. E insieme allo spirito compone l’uomo come immagine di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?...Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo!» (1Cor 6, 19s). La corporeità trova nella sessualità un mezzo per esprimersi e comunicare, sempre in una significativa parità di diritti fra uomo e donna, anche se molte espressioni paoline risentono delle culture maschiliste giudaica e greca (cf Ef 5, 22). Per Paolo, il matrimonio non solo è legittimo, ma è «grande mistero», perché nell’unione dei coniugi si attua il mistero salvifico dell’amore di Cristo capo e sposo, per la Chiesa suo corpo e sposa (cf Ef 5, 21-33). Tuttavia – in un contesto di erotismo esasperato - l’apostolo è portato concretamente a valutazioni a prima vista rigoriste e pessimiste, quali: meglio non sposarsi, a meno di bruciare (cf 1Cor 7, 1s. 8s); l’astensione dai rapporti coniugali, per dedicarsi alla preghiera (cf 1Cor 7, 5); la verginità esaltata a scapito della coniugalità con le sue tribolazioni (cf 1Cor 7, 25-27). Ciò non toglie che per Paolo matrimonio e verginità siano entrambi vocazioni di origine divina, carismi (cf 1Cor 7,7). La verginità è preferibile ed è consigliata come segno provocatorio che anticipa lo stato finale e definitivo dell’umanità risorta (che sarà «senza mogli né mariti»: Mt 22, 20) e che testimonia una libera e totale dedizione a Cristo e al servizio del prossimo: ideale di carità, cui deve tendere e che avvalora anche la condizione degli sposati (cf 1Cor 7, 29-35). Le tre virtù – che poi la tradizione cristiana chiamerà ”virtù teologali” – sono le disposizioni e forze interiori, che orientano e plasmano tutta la vita dell’uomo nuovo; sono le nuove facoltà di chi si è incontrato e convertito a Cristo e ora – docile allo Spirito – liberamente e progressivamente conforma a Lui intelligenza e volontà, pensieri e azioni, rapporti e sentimenti. A volte, Paolo le nomina tutte insieme: «Abbiamo ricevuto notizie della vostra fede in Cristo Gesù, e della carità

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che avete verso tutti i santi (i battezzati), in vista della speranza che vi attende nei cieli» (Col 1,3; cf 1Cor 13,13; Ef 1, 15-18). Sono inseparabili e da esse scaturiscono – come sorgenti – i singoli atti di fede, speranza, carità. La «obbedienza della fede» (Rom 1, 5; 16, 26) è l’assenso totale che la libertà umana dà a Dio che in Cristo si dona tutto all’uomo. Abramo è «il padre di tutti i credenti» (Rom 8, 11. 18) e Paolo ne tesse l’elogio (cf Rom 4, 16-22); insieme al battesimo la fede è l’unica causa di giustificazione (cf Rom 3-6; Gal 3); la conoscenza di fede deve diventare ”sapienza” (cf Ef 1, 17s), crescendo nell’età (cf 1Cor 13, 11), fino alla visione perfetta (cf 1Cor 13, 12). Da quella nuova creatura che è il cristiano, scaturisce un nuovo principio di conoscenza: «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 16), «Siamo in Cristo Gesù, che per noi è sapienza» (1Cor 1,30). Ai Corinti Paolo insegna che esistono due ben diverse sapienze: quella del mondo e quella del cristiano (cf 1Cor 1, 17; 2, 16). «La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio», è «vana» (1Cor 3, 19s, Ef 5, 6) e Dio la disperde e l’annienta (cf 1Cor 1, 19-21); non può che ritenere follia la parola della croce (cf 1Cor 1, 18) e non arriva a conoscere Dio, se rimane chiusa nella sua orgogliosa autosufficienza (cf 1Cor 1, 20). È questa infatti la sapienza dell’uomo naturale, che si attiene unicamente alle risorse della sua natura (cf il «corpo psichico», 1Cor 15, 44). La sapienza del cristiano, invece, proviene dallo Spirito di Dio (cf 1Cor 2, 10-13); è pienamente presente in Cristo nel quale si possono trovare «tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2, 3); con il dono di questa nuova sapienza, l’uomo ”spirituale” può conoscere i profondi segreti di Dio (cf 1Cor 2, 10s),«che Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1Cor 2, 9); non c’è allora da stupirsi se questa sapienza, con un linguaggio insegnato dallo Spirito, esprime «cose spirituali in termini spirituali » (1Cor 2, 13); anzi, con essa «giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» (1Cor 2, 15), che non sia anch’esso ”uomo spirituale”.

L'annuncio della Speranza

Le espressioni paoline suggeriscono ai credenti ciò che oggi chiamiamo “inculturazione“ dell’annuncio della fede (vedi a p. 33), ma anche di “generare cultura“ cristianamente ispirata. Per un verso, l’apostolo esorta a discernere e ad accogliere tutti i valori etici universali: «Tutto ciò che c’è di vero, nobile, giusto, puro, amabile, lodevole, virtuoso e onorato, sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8); nulla è estraneo, profano all’interesse e al vaglio del credente, perché «tutte le cose sono vostre. Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3, 22s); «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Tes 5, 21). Nessun momento o attività è estraneo alla radicale novità del credente: «Sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con Lui» (1Tes 5, 10) e «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rom 4, 7s). Per altro verso, traccia la linea di demarcazione tra il bene e ciò che non lo è: «Astenetevi da ogni specie di male» (1Tes 5, 21). E mette in guardia – in un corretto dialogo – dal rischio di lasciarsi contaminare da categorie ideologiche: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rom 12, 1); «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia, con i vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2, 8); «Non lasciatevi legare al giogo degli infedeli: Quale rapporto tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre?...» (2Cor 6, 14). La buona speranza è la virtù che rinnova la volontà e rafforza il desiderio di felicità nella vita eterna. Diversa dalle piccole speranze in beni immediati e dalle astratte utopie, non consente facili ottimismi o amari pessimismi, non coincide con gli eroici stoicismi. Essa trova solido fondamento in Cristo, morto e risorto: «Cristo Gesù, nostra speranza» (1Tim 1, 1); «lo stesso Signore nostro Gesù Cristo,…che ci ha dato una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene» (2Tes 2, 16). E, perché gli inquieti Tessalonicesi non si affliggessero «come gli altri che non hanno speranza» (1Tes 4, 13), li conferma nella fede in Cristo morto e risuscitato, che radunerà insieme con Lui, sia quelli «sopravvissuti sino alla venuta del Signore», sia «quanti si sono assopiti nella morte» (cf 1 Tes 4, 13-18). Ai Corinti – influenzati dalla cultura greca, per la quale la salvezza è soltanto liberazione dal corpo e dal mondo – dirà che Cristo risorto è il primo cittadino e insieme l’artefice di una umanità, nuova anche nel corpo: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile,…glorioso,…pieno di forza,…spirituale» (1Cor 15, 35-44). Infatti, l’uomo che proviene da Adamo è

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di terra, mentre quello che proviene da Cristo è dal cielo (cf 1Cor 15, 45-52). Quindi «la nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3, 20s). Noi cristiani dunque, scrive ai Romani, «teniamo viva la nostra speranza» (Rom 15, 4), affidandoci al «Dio della perseveranza e della consolazione» (v 5; cf 2 Cor 1, 2s); una consolazione che in noi abbonda per mezzo di Cristo (cf 2Cor 1, 4) e con il «conforto dello Spirito Santo» (At 9, 31); il quale ci rende capaci di darne anche agli altri (cf 1Tes 4, 18). Lo Spirito è una generosa caparra che Dio ci ha dato come anticipo e insieme come garanzia della nostra eredità futura (cf 2Cor 1, 22; 5, 5; Ef 1, 13s). Il cristiano protende tutto il suo sguardo sul futuro ritorno del Signore, ma deve guardarsi dalla pigrizia e dal disimpegno che distraggono dalle responsabilità storiche. «La nostra cittadinanza è nei cieli» (2Cor 5,1), scrive Paolo, e «mi protendo nella corsa per afferrarlo, io che sono già stato afferrato dal Cristo» (Fil 3,12). Ma l’attesa cristiana è vigilante nell’operosità: «Si, voi tutti siete figli della luce e figli del giorno…perciò non dobbiamo dormire come gli altri, ma stare svegli e lucidi di mente, …mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo che è speranza della salvezza» (1Tes 5, 5-8). Ai Corinti porterà l’esempio personale di atleta che corre nello stadio e tira di pugilato (cf 1Cor 9, 24-27), in attesa che «il Signore, giusto giudice, gli consegni la corona di giustizia» (2Tim 4, 7s). È una speranza sorretta dalla incrollabile certezza che Dio ci vuole salvare in Cristo e che per noi e in noi intercede lo Spirito stesso: «Nella speranza noi siamo stati salvati» (Rom 8, 24); «Attendiamo con perseveranza» (v 25), perché «lo Spirito soccorre alla nostra debolezza…e intercede con insistenza per noi» (v. 26); nel disegno di salvezza in Cristo, «primogenito fra molti fratelli», siamo stati «chiamati, giustificati e anche glorificati» (vv 28-30). «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (v. 31); il Dio che non ha risparmiato suo Figlio, tutto ci donerà. Nulla e nessuno «ci potrà mai separare dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (vv 32-39). «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze, perché sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude» (Rom 5, 3s). Le avvisaglie della nascita del nuovo mondo per i figli di Dio sono già presenti nel travaglio della storia (cf Rom 8, 18-25). Con la speranza di chi cammina tra un “già compiuto” e un “non ancora”, il cristiano rivive così il mistero pasquale di Cristo: «Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 1s). Il mondo di quaggiù è l’“uomo vecchio”, la “carne”, il “peccato”, che il cristiano ha sepolto nel fonte battesimale (cf Rom 6, 2-7). Il mondo di lassù, invece, è l’ “uomo nuovo”, lo “spirito”, la “grazia” è quanto il battesimo ha reso presente in noi: è il mistero di Cristo stesso, un tesoro che è già in noi, anche se in vasi fragili, e si manifesterà soltanto alla fine dei tempi, quando Cristo sarà «tutto in tutti» (Col 3, 11). Le “cose di lassù” hanno già fatto irruzione nella terra, ma «il significato dell’universo non sta nell’ universo» (L. J. Wittgenstein).

L'inno alla carità

La carità, la più grande, è la virtù con la quale lo Spirito rinnova la facoltà di amare, rinvigorendola e assimilandola sempre più alla dinamica dello stesso amore che Cristo ha per il Padre e per il prossimo. Non è riducibile alle opere di elemosina o ai buoni sentimenti del filantropo, tanto meno l’amore cristiano è assimilabile all’erotismo. Proviene, tramite lo Spirito di Cristo, dalla «grazia, misericordia e pace» (1Tim 1, 2) di Dio Padre: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom 5, 5). Il segno più chiaro e strumento più efficace di tale carità (agàpe) è la Croce: «Non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rom 8, 32). Anche per Paolo, dunque, vale già l’espressione agostiniana: “Se vedi la carità, vedi la Trinità” (De Trinitate, VIII, 8, 12), citata da papa Benedetto XVI nella Deus caritas est (n. 19): lo Spirito ci rende personalmente partecipi dei rapporti che intercorrono tra il Padre e il Figlio. E chi è “fervente nello Spirito” non renderà “a nessuno male per male” (Rom 12, 11. 17).

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Lo Spirito di Dio-Amore dimora in noi fin dal battesimo (cf 1Cor 2, 16; cf Rom 5,5; Gal 5, 21) e ricevendo l’Eucaristia diventiamo sempre più un solo pane, un solo corpo (cf 1Cor 10,17; 12, 27); si riceverebbe la propria condanna, se si partecipasse alla Cena del Signore con in cuore la divisione tra fratelli e con l’indifferenza per i loro bisogni (cf 1Cor 11, 17-34). Il primo frutto dello Spirito è l’amore (cf Gal 5, 22) ed è generatore di comunione all’interno della comunità cristiana (cf 2Cor 13, 13). L’unico Spirito dona a ciascuno i carismi e ministeri diversi, ma sempre per la utilità comune delle membra di uno stesso corpo, quello di Cristo (cf 1Cor 12, 1-31). Proprio trattando dei doni distribuiti liberamente dallo Spirito, Paolo scioglie il celeberrimo inno alla carità (1Cor 13, 1-13), la «via migliore di tutte» (1Cor 12,31), delle tre la «virtù più grande» (1 Cor 13,13), il «vincolo della perfezione» (Col 3, 14). Con la forza dolce della sua prosa ritmata, l’apostolo mette in luce in primo luogo il primato detenuto dalla carità sulle virtù umane e religiose (vv 1-3): cultura e doti mistiche; gli stessi tre doni come la profezia, la scienza («gnosis»), la fede che trasporta anche le montagne; perfino lo spogliarsi dei propri beni e l’eroismo di chi sacrifica la vita del corpo; tutto ciò, senza la carità, è decisamente vuoto del nulla, rimbombo di un gong, zero assoluto, vano spettacolo. In secondo luogo (vv 4-7), l’inno descrive, elenca le opere che della carità sono frutto e segno, il corteo delle buone qualità che accompagnano l’amore autentico: apertura di cuore, bontà, umiltà, disinteresse, rispetto, perdono, pazienza; capacità di valorizzare l’altro e di infondere fiducia, di sopportazione dell’altro. Da ultimo (vv 8-12), Paolo assicura che «la carità non avrà mai fine» (v. 8), mentre le altre virtù svaniranno con la raggiunta conoscenza perfetta, «faccia a faccia», di Dio. Parlando della carità, (come in tutta la Scrittura, eccetto due volte nel Vecchio Testamento), Paolo usa il termine “agàpe“ e non quello di “eros“. Soprattutto a partire dalla cultura illuminista, si suole contrapporre il primo al secondo: “Agàpe” indicherebbe l’amore gratuito e offerto dall’alto, con il quale Dio ama l’uomo, la dedizione all’altro totalmente disinteressata e sofferta; “Eros” indicherebbe il desiderio/passione bramosi e possessivi, tesi alla propria esclusiva soddisfazione. Anche i medievali avevano distinto (e rischiato di contrapporre) l’amore di benevolenza e di dilezione dall’amore di concupiscenza. Paolo stesso confessa di avvertire drammaticamente il contrasto interiore tra la libertà non ancora liberata e la libertà liberata dalla grazia (cf Rom 7, 24s). Invece, nell’enciclica Deus caritas est (nn. 3-12), Benedetto XVI fa scoprire nell’amore biblicamente ben inteso, differenza e unità tra “eros” e “agàpe”, la giusta unità nell’unica realtà dell’amore. “Eros” e “agàpe”, l’amore ascendente e quello discendente, non sono mai completamente scindibili: nel vero amore umano, come in quello divino. Nella natura creata dell’uomo, spirito e materia si compenetrano sempre e profondamente (cf Gen 2, 23s). L’eros umano, all’inizio prevalentemente possessivo, se accoglie l’agàpe di Dio, è aiutato a purificarsi, passando anche da rinunce; e non perché da queste sia avvelenato e soffocato, ma per elevarsi, divenendo sempre più cura dell’altro, vita vissuta per l’altro. Fino all’estasi mistica nell’incontro con Dio, soltanto nel quale il cuore umano può trovare pace piena e definitiva: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6, 17). Ed anche l’amore con cui Dio ci ama (sempre “agàpe”) non è mai del tutto esente da “eros”. Il Dio biblico ha vera compassione del suo popolo e di ogni uomo (cf Os 11, 8s; Cantico dei Cantici, ecc). Soprattutto sulla croce del Figlio, l’Amore incarnato di Dio. La carità del cristiano è dunque la forma e costituisce il valore di ogni virtù, la buona sostanza dell’essere comunionale, senza della quale ogni bene cessa di essere tale (cf 1Cor 13, 1-3). E tutti i membri della Chiesa - il corpo di Cristo «ben scompaginato e connesso», «secondo l’energia propria di ogni membro» - «vivendo secondo la verità nella carità» «riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (cf Ef 4, 15s). Da qui le sue insistenti esortazioni intonate a questa essenziale virtù: «Ricercate la carità» (1Cor 14, 1), «vivete in pace tra voi…non spegnete lo Spirito» (1Tes 5, 12-19), «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno» (Rom 12, 10), «salutate i fratelli con il bacio santo» (2Tess 3, 27); «Se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri, perdonatevi scambievolmente. Come il Signore ci ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3, 13). Da quanto Paolo insegna sulla centralità di Cristo e del suo rapporto con il cristiano, consegue che nella vita quotidiana sono due gli atteggiamenti, tra loro inscindibili, che non ci devono abbandonare. Da una parte occorre coltivare l’umiltà e la riconoscenza di aver tutto ricevuto dalla sua grazia, vigilare perché nessun altro “idolo” sostituisca Cristo cui tutto è dovuto, affinché dalla libertà acquisita non si ricada nell’umiliante schiavitù. D’altra parte, occorre alimentare la gioia e la fiducia di chi “è in lui”, radicalmente gli appartiene. Si tratta di seguire l’esortazione di Paolo: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1) e rimanere sulla roccia più stabile e sicura che si possa immaginare: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rom 8, 31). Nessuno «potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8, 39); «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4, 13).

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Mistero della Chiesa, corpo e sposa di Cristo Risorto

Nella visone paolina della salvezza, la natura e la funzione della Chiesa riveste importanza di tutto rilievo: è la modalità che Cristo ha scelto per proseguire, dopo Pentecoste, la sua opera di redentore nel tempo e nello spazio; è l‘organismo vitale in cui lo Spirito inserisce e fa crescere l‘uomo nuovo; di norma, è la vita della Chiesa, la testimonianza dei credenti, a suscitare l‘interesse o almeno l‘interrogativo su Gesù, per accoglierlo o rifiutarlo. Nella esperienza personale di Paolo, il tema della Chiesa è posto addirittura a partire dalla sua conversione, quando la voce del Risorto identifica con se stesso i cristiani che Saulo va a perseguitare a Damasco (cf At 9, 4s); e a quella comunità ecclesiale rimanda, perché sia iniziato alla nuova vita ricolmata dallo Spirito (cf At 9, 10-19; 22, 10-16). Paolo si era convertito nel contempo a Cristo e alla Chiesa. Per questo il suo comportamento persecutorio nel confronto dei cristiani sarà da lui giudicato come il peggior crimine (cf 1Cor 15,9; Gal 1, 13; Fil 3,6). Tutto l‘insegnamento seguente confermerà la persuasione di come sia impossibile ormai separare Cristo Risorto dalla sua Chiesa, dove è presente e continua ad agire «l‘uomo Cristo Gesù, il solo mediatore tra Dio e gli uomini» (1Tim 2,5); costituendo con Lui quella comunione vitale nello Spirito, che s. Agostino chiamerà il “Cristo totale” (Tract. in Joh. 21, 8). Nelle “Grandi Lettere” (Galati, Corinzi, Romani), le due immagini principali preferite da Paolo per illustrare «questo mistero grande, in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (Ef 5, 31) sono quella del corpo e quella della sposa, mai adeguatamente distinti, essendo anch‘essi «non più due, ma una sola carne» (Gn 2, 24). Nella sua identità più profonda, la Chiesa è il “nuovo” Corpo di Cristo, suo Capo (cf 1Cor 6, 15-17; 10, 16s; 12, 12-27; Rom 12, 4s; Ef 1, 18-23; 4, 12; 5, 23-28; Col 1, 15-18. 24; 3, 11, ecc). Nessun altro autore cristiano del 1° secolo definirà la Chiesa come “corpo di Cristo”. La rilevanza e la frequenza dell‘immagine del corpo alla quale Paolo ricorre per presentare il mistero ecclesiale non consente di considerarla marginale. Anche se nel magistero paolino non sempre è distinguibile ciò che è proprio del corpo di Gesù Crocifisso, del corpo Eucaristico e del corpo ecclesiale: organici e vitali i nessi reciproci, anche se non totalmente sovrapponibili. Il significato del rapporto Cristo-Chiesa, secondo Paolo, risulterà più chiaro tenendo presente la funzione che la cultura semita e greca attribuivano al corpo nei confronti dell‘io vivente dell‘essere umano: il corpo è la componente che lo situa in un luogo e in tempo preciso, gli dona visibilità riconoscibile e gli consente di esprimersi, di comunicare e di operare incisivamente nella realtà che lo circonda. Paolo utilizza l‘apologo classico che paragonava la società ad un corpo solidale, nonostante le sue membra siano distinte (cf 1Cor 12, 12-27). Ma natura e caratteristiche del Corpo “mistico” di Cristo non sono semplicemente riducibili ad una metafora di Paolo; appartengono invece alla sua visione di fede, che – con realismo accentuato nelle lettere della cattività – identifica sempre più il mistero del Corpo di Cristo con lo stesso mistero della Chiesa (cf Ef 1, 22s; 3, 20s; 5, 23; Col 1, 18-24).

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Lo Spirito che rende con-corporei a Cristo

Lo Spirito ci rende “con-corporali” a Cristo (cf Ef 3, 6) Nei corpi dei cristiani abita lo stesso Spirito che ha risuscitato il corpo di Cristo (cf Rom 1,4; 8, 9-11); a cominciare dal battesimo, ricevuto «in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12, 13; cf Rom 6, 3s).La radice più profonda di tale sorprendente designazione è il Sacramento del suo Corpo, l‘Eucaristia, dove Cristo ci dà il suo Corpo e ci fa il suo Corpo: «Poiché c‘è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo» (1Cor 10, 17); mangiare la cena del Signore è mettersi «in comunione con il corpo e il sangue di Cristo» (cf 1Cor 10, 16s). I nostri stessi corpi non vanno profanati, perché «i vostri corpi sono membra di Cristo» (cf 1Cor 6, 15s). Sempre «in un solo corpo», quello di Cristo morto e risorto, avviene anche la riconciliazione – con Dio e tra di loro – tra il popolo d‘Israele e quello pagano (cf Ef 2, 11-18; Col 1, 22). Di questo Corpo del Risorto, personificato nella Chiesa, Cristo è il Capo, fonte e garanzia di unità e maturazione dei suoi membri, «al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4, 12), «cercando di crescere in ogni cosa verso di Lui, che è il capo, Cristo» (v. 15). Egli, infatti, è «costituito in tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose» (Ef 1, 22s; cf Col 1, 18-20; 2, 19). Ed è proprio come Capo della Chiesa, che Cristo Signore va realizzando la sua Signoria anche su tutto l‘universo (cf Ef 1, 23; Col 1, 19s). La comunione di vita con il Capo del Corpo della Chiesa non è quindi un fatto che si realizza solo a solo con Lui (come Plotino concepiva l‘unione dell‘uomo con Dio), ma è comunione con tutti coloro che la fede e il battesimo hanno, in virtù del suo Spirito, incorporato a Cristo: «Noi tutti siamo un solo corpo in Cristo, siamo membri gli uni degli altri» (Rom 12,5, cf Ef 4, 25). Perciò nella esperienza di Chiesa già si attua il passaggio, dalla dispersione e dalla frammentazione, all‘unità e all‘armonia tra genti provenienti da disparate culture e religioni, di ceti sociali in conflitto, connotata da sessi diversi: «Non c‘è più né giudeo né greco; non c‘è più né schiavo né libero; non c‘è più né maschio né femmina: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28; cf Rom 10, 12; 1Cor 12, 13; Col 3, 11). È; più che un‘appartenenza della Chiesa a Cristo, ma una forma di immedesimazione e di equiparazione, quasi una estensione della personale presenza di Cristo nel mondo. Non è unità di tipo soltanto psicologico ma – diremmo noi - ontologica; è realtà sociale del tutto inedita e inclassificabile. Appartiene al mistero della novità cristiana, che è data e cresce nello Spirito. Per Paolo la comunità cristiana è la lettera di Cristo, scritta da Lui, «non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3, 2s). La comunità – che trova in lui il padre «che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1Cor 4, 15) – supera l‘alleanza scritta sulle tavole mosaiche (cf Es 24,12) e realizza quella promessa con Ezechiele (cf 31,12) e a Geremia (cf 31, 37). Essa costituisce il germe, profezia e sacramento del Regno, che alla fine dei tempi si manifesterà in tutto il suo splendore e definitività. Non è unità esclusiva ed escludente, perché tutte le genti possono accedere al nuovo popolo di Dio (cf Ef 3, 6-9); e non è uniformante, perché lo stesso Spirito del Padre e del Figlio, con libertà e fantasia, ha distribuito a ciascuno diversi carismi, ministeri, funzioni e operazioni, nei quali l‘unico Spirito «opera tutto in tutti » e «per l‘utilità comune» (1Cor 12,4-11; e Ef 4, 4-6). È; importante che i carismi non diventino motivo di lacerazione: «È; forse diviso il Cristo?» (1Cor 1, 13). Paolo insegna che è necessario “conservare l‘unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace: un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati” (Ef 4, 3s). È; questa una unità che non appiattisce la vita ecclesiale in un unico modo di operare, ma concede spazio al dinamismo imprevedibile delle manifestazioni carismatiche, fonte di energie vitali sempre nuove: «Non spegnete lo Spirito!» (1Tes 5, 19). Ma «tutto si faccia per l‘edificazione» (1Cor 14, 26), senza ristagni, senza fughe e senza strappi nel tessuto ecclesiale.

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La chiesa degli Apostoli

Già ai tempi di Paolo, l‘unica Chiesa vive nelle Chiese locali, anche in quelle da lui stesso fondate, in regioni tra loro lontane e con caratteristiche diverse. Al loro interno emergono già i primi elementi di organicità: con gli “apostoli” collaborano i “vescovi” (chiamati anche “presbiteri, anziani”), incaricati di vigilare e assistere le comunità dei “santi, battezzati” (cf Fil 1,1; Tito 1,5), assistiti dai “diaconi” (cf Fil 1,1; 1Tim 3, 1-13). A questo proposito, alle immagini del corpo si aggiungono quelle del tempio e della costruzione: la pietra angolare è Cristo, a fondamento i profeti e gli apostoli; è sempre Cristo-Capo a garantire consistenza e crescita coerente, nutrimento, articolazioni e legamenti (cf 1Cor 3, 16; Ef 2, 20; 4, 11; Col 2, 19). Per quanto riguarda la già emergente funzione autoritativa di Pietro nella Chiesa apostolica, anche l‘autorevolissimo Paolo gli riconosce una posizione speciale: a tre anni dalla conversione, va «a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me» (Gal 1,17); e dopo tre anni ci ritorna, «per consultare Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni» (v. 18). Nella Chiesa madre, insieme a Giacomo fratello di Gesù e Giovanni figlio di Zebedeo, Pietro costituiva allora le «colonne», una specie di troika di «persone ragguardevoli». Con loro, dopo 14 anni (attorno al 49), Paolo concorda la decisione che riconosce la sua missione ai pagani non circoncisi, «per non correre il rischio di correre o di avere corso invano» (cf Gal 2, 1-10). Esponendo ai Corinti il credo predicato da lui, riconosce a Pietro il privilegio di essere stato il primo dei Dodici ad aver visto il Risorto (cf 1Cor 15, 3-5). Tutto ciò non impedirà a Paolo di «opporsi a viso aperto, perché (Pietro) era evidentemente nel torto» (Gal 2,11) nella fiera disputa di Antiochia circa la condivisione della mensa fra cristiani provenienti dall‘ebraismo e dal paganesimo (cf Gal 2, 11-14). Il comportamento ambiguo di Pietro, infatti, poteva trascinare, proprio per la sua riconosciuta autorità, altri leaders cristiani., Barnaba compreso. L‘obbedienza e la comunione, nell‘unità della verità di fede, sono dunque compatibili con la critica a comportamenti non edificanti dei singoli, anche se preminenti nelle Chiese. Del resto, Paolo – apostolo per vocazione – non mancherà di ritenersi uguale agli altri apostoli (cf 1Cor 9, 5; Gal 2, 6-9), ai quali ricorderà di non dovere a loro il suo vangelo (cf Gal 1, 1. 17. 19); anche a lui - «l‘infimo degli apostoli» (1Cor 15, 9) – è stata infatti affidata la missione di essere testimone del Risorto (cf At 26, 16).

La Chiesa: sposa bella e fedele di Cristo

L’altra immagine, privilegiata da Paolo per descrivere il mistero di Cristo ormai inseparabile dalla sua Chiesa, è quella nuziale: la Chiesa è la sposa bella e fedele di Cristo sposo, che per lei dà continuamente tutto se

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stesso. Il tema dell’alleanza nuziale per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo che Egli si è scelto ricorre in tutto il Primo Testamento (cf Osea 1-3; Is 54 e 62; Ger 2 e 3; Ez 16 e 23; Mal 2, 13-17; Rut, Tobia, Cantico). Di questo patto Paolo rimarcherà la fedeltà assoluta di Dio: «Anche se noi manchiamo di fedeltà, egli però rimane fedele» (2Tim 2, 13): «Senza pentimenti sono i doni e la chiamata di Dio» (Rom 11, 29; 1,9). Altrettanto presente, nelle Scritture del Secondo Testamento, il tema di Cristo sposo, soprattutto nelle parabole del Regno (cf Mt 22, 2; 25, 1; Lc 12, 38). Nessuna meraviglia, dunque, che anche Paolo ricorra all’immagine sponsale per illustrare il rapporto tra Cristo e la comunità cristiana: «Provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2Cor 11, 2). Su questo tema, il testo più citato è quello di Ef 5, 21-33. L’apostolo sta dando agli sposi consigli di reciproca sottomissione, indicando come esempio l’amore che Cristo ha per la Chiesa e viceversa. Il «mistero» che la famiglia vive in modo peculiare e «sacramentale» tra le mura domestiche, è lo stesso che è vissuto in tutta la realtà ecclesiale: «Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (v. 32). E l’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa è riconoscibile da ciò che l’Uno compie per l’Altra. Cristo dona tutto se stesso per lei - sua carne -, purificandola e santificandola con il lavacro battesimale e la Parola, amandola come il proprio corpo, da lui nutrito (Eucaristia, banchetto nuziale) e curata (sotto la guida del Buon Pastore). La Chiesa - resa tutta gloriosa e senza macchia - lo riama con la sottomissione libera e grata, come le membra di un corpo rispetto la loro testa. Un mistero, quello ecclesiale, che Paolo vede significativamente già adombrato nel rapporto uomo-donna, Adamo-Eva, figure di Cristo nuovo Adamo e della Chiesa nuova Eva, «che formeranno una carne sola» (Gn 2,24). Le immagini del corpo e della sposa mettono in gioco il mistero del rapporto di comunione: quello verticale, tra Gesù Cristo e tutti noi; ma anche quello orizzontale, tra tutti coloro che si distinguono nel mondo per il fatto di «invocare il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (1Cor 1, 2). E Paolo ricorda ai Corinti che la loro unità, nella fedeltà ai propri carismi, sarebbe la testimonianza più efficace per i non cristiani che proclamerebbero “che veramente Dio è fra noi” (cf 1Cor 14, 24s). In questo rapporto sponsale, la Chiesa non svolge unicamente una funzione passiva: tutta e sempre salvata, restando in totale dipendenza dall’azione dello Spirito di Cristo, essa esercita attivamente la funzione di Madre. È; la “nuova Eva”, che - insieme allo Sposo “nuovo Adamo” -genera e dilata la comunità cristiana, divenendo anch’essa in qualche modo salvante, comprincipio di diffusione della vita nuova. Quest’ultimo aspetto prende risalto in tante espressioni usate da Paolo per dire in quale rapporto - paterno/materno e come co-operatore di Cristo - egli personalmente si è posto nei confronti delle comunità da lui fondate (vedi pp. 38s). La funzione attiva della maternità della Chiesa è particolarmente evidente nell’esercizio ecclesiale del ministero della riconciliazione: «È; stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (2Cor 5, 18-20). «Noi siamo i collaboratori di Dio» (1Cor 3, 9), «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (4,1). Anche il suo è ormai ministero della Nuova Alleanza, investito della luce divina, che non resta più velato (come in Mosé disceso dal Sinai), ma - a viso scoperto - riflette come uno specchio la gloria del Signore (cf 2Cor 3, 7-18). E questa collaborazione è vissuta da Paolo come partecipazione paterna/materna alla fecondità della potenza dello Spirito: «Miei figli diletti, anche se aveste migliaia di precettori in Cristo, non avete però molti padri, perché nel Cristo Gesù per mezzo del Vangelo io vi ho generato» (1Cor 4,15). «Miei figli, per i quali soffro di nuovo i dolori del parto, fino a quando il Cristo sia formato in voi» (Gal 4, 19); «Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci» (1Cor 3, 2; cf 1Tess 2, 7). Nel dare notizia agli altri degli esiti apostolici dei suoi viaggi, farà constatare ciò che l’azione di Dio ha compiuto «per mezzo loro» (At 14, 27; 15, 4-12), anche se l’opera compiuta non può essere attribuita unicamente all’azione dell’inviato, strumento sempre tanto debole (cf 1Cor 15, 20; 2Cor 4, 7; 12, 9s; Fil 4, 13; Col 1, 29; Ef 3, 7).

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La salvezza aperta ai pagani

La salvezza dei fuori casa. Tra i consigli pastorali che Paolo dà a Timoteo, si legge «Voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tim 3,15), ove è custodito il «deposito della fede» (cf 1Tim 6, 20; 2 Tim 1, 14). Sorge subito la domanda sul destino eterno di chi non abita entro le mura domestiche ecclesiali. In particolare: come Paolo pensava si potessero salvare i pagani, che anche lui non avrebbe mai potuto raggiungere; e gli israeliti, che non avevano riconosciuto in Gesù il loro Messia? Se «nel mistero nascosto da secoli» (Col 1, 26), l’unica e necessaria salvezza viene soltanto da Cristo e la comunione cristiana è a Lui unita inscindibilmente nella profondità del suo essere come il corpo al capo (cf Ef 1, 22s), è possibile salvarsi oltre i confini visibili istituzionali della Chiesa? Va premesso qualche certezza paolina: il Padre «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tim 2,4); solo Dio può giudicare le coscienze soggettive di chi ignora il vangelo senza colpa e cerca sinceramente la verità; e l’esperto conoscitore delle Scritture non ignorava poi che le vie e i pensieri del Signore sono illimitati e per lo più restano a noi ignoti (cf Is 55, 8s). Ciò non vieta di indagare su una questione di tale portata, per far propri qualche pensiero e via dello Spirito che soffia dove vuole (cf Gv 3,8), e così unirci allo stupore degli angeli, che contemplano da ora il mistero della Chiesa nel disegno della «multiforme sapienza di Dio» (cf Ef 3, 10). Il problema della salvezza dei pagani, va innanzitutto collocato all’interno del disegno di salvezza incentrato su Cristo Creatore e Redentore, capo della Chiesa suo Corpo (cf Col 1, 12-20; Ef 1, 3-23); nessuno mai è stato ed è totalmente estraneo all’azione dello Spirito di Cristo, del quale ogni uomo creato è sempre - lo sappia o meno - immagine palpitante, anche se appena abbozzata e sfigurata dal peccato, ma anelante intrinsecamente a farsi consapevole e perfetta. Nella lettera ai Romani è descritto ciò che di fatto però è avvenuto nella storia dei pagani (cf Rom 1, 18-32): stoltezza dell’intelletto che non sa arrivare a Dio tramite i segni della creazione, perversione brutale dei costumi, idolatria (cf At 17, 26-29). Da qui - «dopo la tolleranza…nel tempo della divina pazienza» (Rom 3, 25s) - la necessità della giustificazione che proviene dalla fede in Cristo Signore e dalla sua grazia (cf Rom 3, 21-26 e At 17, 30s)). E tutta l’opera di evangelizzazione di Paolo, rivolta specificamente ai pagani, è testimonianza della premura che tutta la Chiesa deve avere nell’annunciare anche ad essi ciò a cui naturalmente aspirano - conformarsi a Cristo, a immagine del quale sono stati creati - e che Cristo è venuto a portare: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annuncio» (At 17, 23). Lo spinge l’amore di Cristo: «Egli è morto per tutti, perche quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5, 14s). «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Gl 3,5). Ma prima deve credere in lui, avendone sentito parlare da chi lo annuncia per un mandato ricevuto (cf Rom 10, 13s).

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La salvezza di Israele, suo popolo

Il problema della salvezza d’Israele ha lacerato Paolo: « Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua» (Rom 9,1). Gli riesce difficile lasciare che sopravviva in lui l’amore per «i miei consanguinei secondo la carne» (v. 2), tanto privilegiati dal Signore, e la lucida amarezza per il rifiuto che gran parte di loro ha opposto alla salvezza in Cristo. Degli Israeliti egli riconosce anzitutto il valore della tradizione religiosa (cf Rom 9,4): «possiedono l’adozione a figli» (Es 4, 22; Deut 7, 6), «la gloria» di Dio (Es 24, 26) che dimora in mezzo al popolo (Es 25,8; Deut 4, 7); «le alleanze» con Abramo (Es 15, 1-17; 17, 3), con Giacobbe-Israele (Gn 32, 29), con Mosé (Es 24, 7s), «la legislazione» che esprime la volontà di Dio, «il culto» reso al solo vero Dio, «le promesse» messianiche (2Sam 7, 1), l’esemplare storia dei «patriarchi», il fatto che «da essi proviene il Cristo secondo la carne». Tuttavia Paolo non esita a ritenerli «inescusabili» (Rom 2, 1), perché hanno disobbedito alla Legge e l’hanno ritenuta non bisognosa della «giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Rom 3, 22), visto che «il termine della legge è Cristo» (Rom 10,4). Per quanto riguarda il futuro, «il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza» (Rom 10,4). Paolo constata che «l’indurimento » del cuore «di una parte di essi » (Rom 11, 25) ha coinciso con l’annuncio ai pagani: alcuni rami della «santa radice» d’Israele sono stati tagliati e al loro posto sono stati innestati i pagani (cf Rom 11, 16-19). Ma verrà tempo in cui gli israeliti «potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo buono» (v. 24). Infatti, «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (v. 29). Davvero «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (v. 32). L’autore della Lettera agli Ebrei dopo aver elencato la lunga serie dei padri che avevano creduto, osserverà: “Eppure tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la speranza: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi ottenessero la perfezione senza di noi” (11, 39s). E raccomanderà ai cristiani di perseverare, “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (12, 2). Della Chiesa santa fanno parte i peccatori. A ragione, dunque, Paolo, iniziando o concludendo le lettere alle sue Chiese – presenza e mistero salvifico nella storia – era solito riconoscere in essa la stessa vita trinitaria e augurare che crescessero sempre più in essa: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2Cor 13, 13; cf anche Rom 1, 7, ecc.). Sono le stesse parole con le quali ancor oggi i cristiani vengono accolti nell’assemblea eucaristica, perché riconoscano il mistero ecclesiale di cui sono parte e segno. Sicuramente a Paolo erano realisticamente note anche le “macchie” e le “rughe” (cf Ef 5, 27) della Chiesa storica, nella quale però già vive la misteriosa bellezza della Sposa e del Corpo di Cristo, che soltanto alla fine dei tempi si incontrerà con il suo Signore (cf Ap 22, 17) resa finalmente «tutta gloriosa,… santa e immacolata» (Ef 5, 27). È; proprio questa Chiesa reale che Paolo ha amato ed esortato ad amare, come «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5, 25). Al suo sguardo di fede profonda non è sfuggita la santità già ad essa donata dall’amore di Cristo, anche se ancora velata e appesantita dagli errori dei peccatori che ne fanno parte. Per questo ad essa ha offerto il suo incondizionato servizio per edificarla e purificarla.

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Annuncio paolino: lo stile pastorale

Nell’atto di trasmettere la fede nell’evento cristiano, contenuti e metodo non possono che intrecciarsi e fondersi. Per un verso, infatti, il maestro che insegna vive in prima persona della Parola pronunciata; per altro verso, l’annuncio verbale del testimone evangelizzatore tende per sua natura al cambiamento di vita da parte dell’ascoltatore che non opponga durezza di cuore. Osserviamo ancora che, nell’esperienza apostolica di Paolo, la progressiva conversione personale e l’esercizio della missione non si possono immaginare in rigida successione cronologica; quasi ci fosse un tempo in cui si cura esclusivamente la propria perfezione e ci si prepara all’apostolato, cui segua il tempo dell’azione missionaria; la testimonianza paolina insegna che si cresce come cristiani, facendo insieme esperienza spirituale e annuncio al mondo. Dopo aver esposto una sintesi dei contenuti insegnati nella predicazione di Paolo, mettiamo ora in evidenza qualche tratto del suo stile pastorale, del suo metodo apostolico. Tramite la testimonianza «Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22, 15). Così Anania precisa a Paolo la sua nuova vocazione, richiamandolo all’esperienza dell’incontro fatto sulla via di Damasco, quando gli era stato dato di «vedere il Giusto e di ascoltare una parola dalla sua stessa voce» (At 22, 14). A questa esperienza di incontro diretto con Cristo risorto, Paolo farà riferimento ogni volta che sarà costretto a legittimare il suo lavoro di apostolo. Egli non si ritiene soltanto l’informatore che reca notizie religiose non ancora note; non vuole passare per il teorico competente e professionale di una nuova dottrina. Parola e vita (la sua), pensiero e attività, sentimenti personali e responsabilità delle Chiese, formano un tutto inscindibile. Più che maestro è testimone, è maestro perché testimone (cf Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n 41). Come testimone, Paolo ha ben presente di essere strumento di cui un Altro si è voluto servire. Il suo annuncio evangelico «non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con lo Spirito Santo e con profonda convinzione» (1Tes 1, 5); «Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Tes 2, 13); è «come se Dio esortasse per mezzo nostro» (2Cor 5, 20). Egli insegna e scongiura in nome di Altro da sé: «Io in persona, Paolo, vi esorto per la clemenza e la bontà di Dio» (2Cor 10, 1); «Vi esorto, o fratelli, in nome della misericordia di Dio» (Rom 12, 1), o «in nome di nostro Signore Gesù Cristo» (1Cor 1, 10). E molte volte chiamerà Dio stesso a testimoniare la verità delle sue parole e del suo affetto (cf 1Tes 2, 5. 10; 2Cor 1, 23; Rom 1, 9; Fil 1, 8). Paolo non si presenta come prigioniero del dubbio, compiacendosi in perplessità raffinate, ma con autorevolezza avvincente, motivata e difesa. «La sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2Cor 10,10) dicevano di lui gli avversari di Cristo. Lo ammetterà lui stesso: «Sono un profano nell’arte del parlare» (2Cor 11, 6). Non è dunque da attribuire ad

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accorgimenti retorici e a furbizie apologetiche l’efficacia del suo annuncio, ma soprattutto al coinvolgimento personale, proprio di chi si è dedicato totalmente a Cristo, dal quale nulla potrà mai separarlo (cf Rom 8, 38s). La temperie del suo parlare e del suo sguardo (oltre che i prodigi che a volte l’accompagnano) gli giocheranno brutti scherzi: a Listri, la gente lo scambierà per Hermes, il Mercurio dei latini, portavoce degli dei, «perché era lui il più eloquente» (At 14, 12). Se l’idea di “franchezza”, di “sicurezza” (“parresia”) qualifica tutta la predicazione apostolica (cf At 4, 13. 22. 31), essa ritorna con particolare insistenza quando si tratta di Paolo, negli Atti (cf At 9, 27s; 14, 3; 19, 8; 26, 26; 28, 31) come nell’epistolario (cf 1Tes 2, 2; 2Cor 3, 12; 7, 4; Fil 1, 20; Ef 3, 12; 6, 19s). «E se anche sono un profano nell’arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come vi abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a tutti» (2Cor 11, 6). Pur riconoscendo l’autorità dei Dodici e di Pietro, non esita a difendere la propria autorevolezza nei confronti di certi «super-apostoli» (2Cor 11, 5; 12, 11), che altro non sono che «falsi apostoli» (2Cor 11, 10).

La missione come testimonianza

Paolo sa bene che non vi è che un solo «vangelo» (cf Gal 1, 6-8; 2Cor 11, 4), predicato da tutti gli Apostoli (cf 1Cor 15, 11), al servizio del quale Dio ha scelto anche lui (cf Rom 1, 1; 1Cor 1, 17; Gal 1, 15s). Eppure può parlare di un «suo» vangelo (cf Rom 3, 16; 2Cor 4,3), consapevole com‘è che il suo annuncio risuona già senza vincoli culturali, sociali, antropologici (cf Gal 3, 28); e questa universalità non rappresenta un accessorio secondario e rimandabile del messaggio cristiano, ma appartiene alla stessa «verità del vangelo» (Gal 2, 5. 14). «Schiavo di Cristo,…scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rom 1,1), non si concepisce se non in funzione della missione ricevuta: «Infatti, annunziare il vangelo non costituisce per me un motivo di vanto. Su di me incombe la forza del destino: guai a me se non annunciassi il vangelo!» (1Cor 9, 16). Se non lo facesse, si sentirebbe in colpa: «Io sono debitore ai greci e ai barbari, ai sapienti e agli incolti» (Rom 1, 14). Da questa convinzione trae energia missionaria: «Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rom 1,16). Anzi, per esso soffre (cf Col 1, 26), lotta (Col 1, 29 e 2, 1), anche nella prigionia (cf Col 4, 3. 10. 18). Dalla medesima convinzione – essere stato scelto se non per la prima evangelizzazione (cf 1Cor 1, 17) –, ormai ridotto in catene, trarrà la ragione di tutta la sua felicità: «Sono stato posto per la difesa del Vangelo…perché in ogni maniera Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene» (Fil 1, 16. 18). Si può dunque affermare che per Paolo la missione è essenzialmente definita come testimonianza, cioè: soltanto la vita di chi vive di Cristo è resa capace di generare la Vita in altre sue membra. Ne abbiamo nuova conferma in alcune espressioni giustamente rimaste famose: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno» (Fil 1, 21) e «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Nel compito che svolge è in gioco anche la certezza del suo personale destino: «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9, 23); «So, infatti, che tutto questo servirà alla mia salvezza,…secondo la mia ardente attesa e sperando che in nulla sarò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (Fil 1, 19s). L‘annuncio evangelico può allora venir proposto da lui come imitazione, contagio vitale: «Fatevi miei imitatori!» (1Cor 4, 16); «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1). Se questa provocazione è raccolta, accadrà che anche «voi, infatti, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3). Infatti «Cristo è la nostra vita» (Col 3, 4). La testimonianza, come modalità imprescindibile per l‘efficacia della missione, riguarda pure la Chiesa come tale. La diffusione della vita di fede è assicurata dalla stessa vita dei cristiani che – quando è conforme al vangelo – diviene la forma più vera della Parola di Dio.

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Così scrive ai Tessalonicesi: «Siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la Parola con la gioia dello Spirito santo,…così da diventare modello a tutti i credenti… Infatti, la Parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell‘Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne. Sono loro, infatti, a parlare di noi» (1Tes 1, 5-9). E ai cristiani della Chiesa di Corinto dirà che sono una lettera vivente, la sua e di Cristo (cf 2Cor 3, 2s).

Condividere per annunciare

Prefiggendosi di recare l’annuncio evangelico ai più lontani - geograficamente e culturalmente, giudei o pagani che siano - il missionario Paolo ha cura innanzitutto di accostarli, immergendosi nella loro condizione e situazione, facendosi il più possibile “come loro”, ma sempre per proporre meglio Cristo Gesù Salvatore. È; questo, del resto, la modalità seguita da Cristo con l’Incarnazione: «Nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge» (Gal 4, 4); «Pur essendo di natura divina, … spogliò se stesso, … divenendo simile agli uomini» (cf Fil 2, 6-8) Fino a che punto e con quanta generosità, lo ricorderà ai Corinti: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero,… Giudeo con i Giudei,… come uno che è sotto la legge… Con coloro che non hanno la legge sono diventato come uno che è senza legge,… pur essendo io nella legge di Cristo. Mi sono fatto debole con i deboli per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo, per diventare partecipe con loro» (1Cor 9, 19-23; cf 2Cor 11, 29). Una non trascurabile conferma di questo stile apostolico ci è data dalla costante preoccupazione di non gravare economicamente sulle comunità fondate. Egli ne avrebbe diritto: «E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? O chi fa pascolare un gregge, senza cibarsi del latte del gregge?» (1Cor 9, 7-18; cf 2Cor 11, 7-10; 12, 14; Gal 6, 6; 1Tes 2, 9; 2Tes 3, 8s). Tuttavia, «ci affatichiamo con le nostre mani» (1Cor 4, 12), esercitando il mestiere di fabbricatori di tende, come farà nel laboratorio di Aquila, del quale era ospite (cf At 18, 3). Lo ricorderà perfino nel suo testamento spirituale: «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20, 33s). Questo totale disinteresse, al servizio della libertà della Parola, gli impedì di accettare aiuto alcuno, eccetto che dai filippesi (cf Fil 4, 10-19; 2Cor 11, 8s; At 16, 15) e lo spinse a raccomandare anche ai suoi collaboratori e fedeli di lavorare per provvedere alle proprie necessità (cf 1Tes 4, 11s; 2Tes 3, 10-12) e a quelle dei bisognosi (cf At 20, 25; Ef 4, 28). Il desiderio di farsi tutto a tutti lo rende attento alle modalità di approccio e alla gradualità con cui proporre i contenuti stessi, pur non sottacendo mai la novità evangelica. Si direbbe che il missionario Paolo sia già attento alla necessità di “inculturazione” del messaggio. Ciò traspare sia quando si rivolge ai Giudei nella sinagoga (prima tappa di annuncio, ogni volta che raggiunge una nuova città), sia quando si imbatte sulle piazze con i pagani (dai quali va subito in cerca, dopo il rifiuto dei primi).

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L'annuncio ai Figli di Israele

Nell’annuncio ai Figli di Israele, è ovvio che l’insegnamento del ex rabbino Saulo - per più di quindici anni istruito ai piedi di Gamaliele nell’esatta osservanza della Legge dei padri (cf At 22, 3) - sia molto tributario all’ebraismo, dal quale del resto il cristianesimo non può prescindere, essendo la seconda Alleanza che compie la prima. Molti temi toccati si ritrovano nell’insegnamento rabbinico del tempo: fine dei tempi, Adamo (cf Rom 5, 12), ecc.. Rabbinico è il procedimento - simile al metodo di Socrate e alla diatriba degli stoici - che, in un dialogo immaginario, introduce interrogativi e dubbi che portano a spiegazioni più decisive (chiaro esempio in Rom 3 e 4). Frequente l’interpretazione delle Scritture mediante i midrashim: sulla giustificazione di Abramo (cf Gal 3 e Rom 4), su Sara e Agar (cf Gal 4), sul velo di Mosé (cf 2Cor 3, 7ss), su «la pietra era Cristo» (1Cor 10) e soprattutto sulla promessa fatta ad Abramo (cf Rom 9 e 11). Circa i contenuti della predicazione agli «uomini d’Israele», s. Luca ce ne fornisce una sintesi, mettendoli in bocca all’apostolo, che ha accettato l’invito dei capi della sinagoga di Antiochia di Pisidia, dopo la lettura della Legge e dei Profeti nella riunione del sabato (cf At 13, 16-41). Dapprima (vv 16-25), riassume la storia del popolo d’Israele, a partire dalla scelta dei patriarchi e dall’esodo, proseguendo con il cammino nel deserto e la conquista della terra di Canaan, i tempi dei Giudici e dei Re, fino a Davide, dalla cui discendenza «secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù» (v. 23). Questa rilettura dell’Antica Alleanza come preparazione della venuta di Cristo ricalca quella di Stefano (cf At 7, 1-53), con un cenno finale alla testimonianza del Battista: «Viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di sciogliere i sandali» (v. 25). In seguito (vv. 26-39), alla «stirpe di Abramo» viene annunciata la «parola di salvezza», la «buona novella»: Dio compie la promessa giustificandoci in Cristo morto e risorto, rifiutato da coloro che conoscevano le profezie, testimoniato dai discepoli. Qui si riconoscono gli stessi argomenti di Pietro (cf At 3, 12-26), tranne la giustificazione attraverso la fede. Il discorso termina (vv. 40s) con un monito severo: «Guardate dunque che non avvenga su di voi ciò che è detto nei Profeti: Mirate, beffardi, stupite e nascondetevi, poiché un’opera si compie ai nostri giorni, un’opera che non credereste, se vi fosse raccontata (Ab 1, 5)». Quanto agli esiti di tale annuncio, sappiamo purtroppo quali fossero di solito: dopo una prima entusiasta accoglienza e interesse ad approfondire (cf At 13, 42s; 17, 4. 11), non soltanto veniva opposto il rifiuto, ma seguiva la denuncia alle autorità romane, che spesso imprigionavano, percuotevano e espellevano, unicamente preoccupate dell’ordine pubblico e per sedare tumulti (cf At 13, 50; 14, 2-5. 19; 17, 5. 13; 18, 12, ecc.).

L'annuncio alle genti

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Nell’annuncio alle genti. Paolo non era estraneo alla cultura ellenista (vedi a p.4). Nel discorso sull’areopago di Atene (At 17, 22-31; cf At 14, 15-18, ad Antiochia di Pisidia) ritroviamo in sintesi l’incontro-scontro della sapienza cristiana con quella pagana, un modello di “inculturazione della fede”. Il missionario Paolo sa che non si può annunciare una verità nuova e vitale, senza partire da un terreno comune, una pietra di paragone, un linguaggio comprensibile dall’interlocutore, in qualche modo preparato e predisposto ad accoglierla come risposta ad una sua avvertita esigenza ed attesa. Per questo, inizia lodando la eccellente religiosità loro e di ogni uomo, naturale ricercatore di Dio «non lontano da ciascuno di noi», che siamo «progenie di Lui»; e si complimenta per l’altare dedicato «al Dio ignoto», prova della loro apertura a riconoscere anche qualche altra eventuale divinità rimasta ancora da loro sconosciuta. Ma non rinuncia a muovere la sua critica al politeismo e alla pretesa di ridurre la trascendente divinità di Dio a simulacri (prodotti «ad arte e con ingegno umano», e collocati «in templi fatti dalla mano dell’uomo»). Non esita a proporre un solo Dio creatore «che ha fatto il mondo e tutto ciò che vi si trova», e che dà «a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa». Cose tutte in contrasto con tutta la filosofia antica, per la quale il cosmo è Dio, esiste dall’eternità, tutt’al più può aver bisogno di un “demiurgo” che lo ordini; per la quale gli astri sono divinità separate e imperiture, sia pure in divenire ciclico, nell’ eterno ritorno di un tempo che si morde la coda. E soprattutto Paolo non tace l’annuncio più nuovo e decisivo, «quello che voi onorate senza conoscerlo»: l’avvenimento di Cristo, un uomo designato da Dio, con il quale hanno termine «i tempi dell’ignoranza»; che va accolto da tutti con profondo ravvedimento; a cui è riservato il compito di giudice universale; la cui missione di Salvatore è garantita dal fatto che è risorto dai morti. Proprio la dottrina giudeo-cristiana della risurrezione dai morti gli attira più di altro la derisione del filosofo greco, che al massimo era giunto all’idea dell’anima immortale, che si libera dalla materialità del corpo, nella quale era caduta per sua disgrazia. La fede biblico-cristiana implica invece la salvezza della totalità dell’uomo e anche della materia, nei «nuovi cieli e della nuova terra»; ed esclude la teoria orfica della trasmigrazione delle anime, della loro preesistenza e ricaduta in corpi malvagi. Su questo lo scontro tra le due sapienze è totale. Tuttavia, anche stavolta si realizza il «per guadagnare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22): «Paolo uscì di mezzo a loro. Alcuni però s’unirono a lui: fra questi Dionigi l’Aeropagita, una donna chiamata Damaride e altri con loro» (At 17, 34). Era nato il “piccolo gregge” di Atene.

Attraverso la sofferenza

«Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». Sono le parole del Signore, che incoraggia Anania ad andare nella casa dove stava lo «strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele» (At 9, 16). Paolo non tarderà a verificare sulla propria pelle la necessità che anche l’apostolo passi per la via della croce: «Il nostro Dio ci infuse coraggio nell’annunciare per voi il vangelo di Dio tra molte lotte» (1Tes 2, 2); «Siamo stati oppressi oltre misura, al di là delle nostre forze, da disperare persino della vita» (2Cor 1, 9); «Siamo diventati come la spazzatura del mondo, i rifiuti dell’umanità» (1Cor 4, 13). I guai che ha passato Paolo sono proprio tanti: di natura fisica e morale, provenienti dai pagani, dai figli d’Israele, dagli stessi cristiani. Costretto a una infuocata difesa del suo operato, stende per i Corinti un elenco impressionante di fatiche e di prigionie, di avversità personali e di rischi mortali: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i 39 colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumane e di briganti, pericoli dai miei connazionali e dai pagani, pericoli nelle città, nei deserti e nei mari, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità» (2Cor 11, 23-27; cf 2Cor 6, 5). Riguardo alle fatiche fisiche connesse al continuo spostarsi cui si sottopose, da un calcolo approssimativo delle

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distanza superate, si arriva a più di 1000 Km nel primo viaggio missionario, intorno ai 1400 Km nel secondo, a circa 1700 Km nel terzo. A questi vanno aggiunti quelli dei viaggi precedenti e seguenti: lungo percorsi non sempre ben tracciati, con i mezzi di navigazione e locomozione che lasciavano ampio spazio al cammino. Paolo accenna a una imprecisabile «malattia del corpo», per la quale i Galati non provarono ripugnanza (cf Gal 4, 13); e di una altrettanto misteriosa «spina nella carne», quasi uno schiaffo di satana «perché io non vada in superbia»; e le sue preghiere non valsero ad esserne liberato (cf 2Cor 12, 7s). Numerose le ipotesi fatte su questo male fisico - probabilmente gli alti e bassi di una epilessia, sia pure non grave—doloroso e ricorrente, attribuito allora a forze malefiche; chi ne era colpito andava evitato accuratamente; certo ne scapitava la sua immagine pubblica. Sempre scrivendo ai Galati userà - quanto realisticamente? - l’espressione:«Porto nel mio corpo le stimmate di Gesù» (Gal 6, 17). La stessa normale cura pastorale delle giovani Chiese da lui fondate era fonte incessante di sofferta responsabilità: «Il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2Cor 11, 28). In contesti culturali e morali ancora così segnati dal paganesimo, le comunità erano anche soggette a divisioni interne (cf 1Cor 1, 10-16), turbate da scandali morali (cf 1Cor 5), incapaci di vera correzione fraterna (cf 1Cor 6), incerte nel giudizio su varie questioni teologiche e morali che comportava la novità cristiana: osservanze giudaiche (cf 1Cor 8), matrimonio e verginità (cf 1Cor 7), ordine nelle assemblee liturgiche (cf 1Cor 11), istituzione e carismi (cf 1Cor 12. 14), fine dei tempi e risurrezione (cf 1Cor 15).

Le sofferenze da parte dei Cristiani

Da parte degli stessi cristiani della Chiesa primitiva, Paolo – credente della seconda ora e con un passato di persecutore dei nazzareni – non venne risparmiato da riserve, sospetti e rifiuti. Ciò che traspare dalle sue lettere corregge l’immagine troppo dolce e pacata della prima comunità cristiana descritta dagli Atti (cf At 2, 42-48; 4, 32-35). Tra Paolo e i suoi rivali, negli anni 40 e 50, si giunge agli insulti verbali, a polemiche senza esclusioni di colpi, in un clima a dir poco avvelenato, nel quale è accusato di duplicità, incoerenza, illegittimità. Si assiste ad una sorta di tiro concentrato, proveniente dai giudeo-cristiani (i pochi, ma tenaci, residenti a Gerusalemme ed i molti disseminati nella diàspora del mondo ellenico), ma sembra anche da gente che si è lasciata influenzare da eccessi carismatici e trionfalismi, e anche di presunzioni e intellettualismi già di tipo gnostico. Erano per lo più predicatori itineranti – uno si chiamava Apollo, pur bravo e amico (cf 1Cor 1, 12) – di passaggio nelle Chiese fondate da lui ad Efeso, a Corinto e in Galazia; o addirittura infiltrati provenienti da Gerusalemme. Rivali diversi, con obiezioni varie e che rimangono senza nome, visto che abbiamo loro notizie soltanto dalla puntuale difesa di Paolo, particolarmente nella 1ae 2a lettera ai Corinti, in quella ai Galati, ai Filippesi (cf cap. 3) con un accenno anche in quella ai Romani (cf 16, 17-20). Tutti d’accordo nel contestargli la pretesa di autentico apostolo (a differenza degli apostoli di Gerusalemme), poi si differenziavano nella critica ai contenuti da lui predicati: poco rispettosi delle prescrizioni etiche e rituali che la Legge esigeva, non accompagnati da carismi taumaturgici e visionari, non abbastanza incentrati sul trionfo del Risorto, ecc. Come reagisce a tutto questo? Innanzitutto, non nascondendo una profonda amarezza: Nella “lettera delle lacrime” leggiamo: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e con il cuore angosciato, tra molte lacrime» (2Cor 2, 4); «Da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori al di dentro» (2Cor 7, 5). In secondo luogo, rispondendo colpo su colpo, convinto che la difesa di se stesso e del suo insegnamento sia battersi per «la verità del vangelo» (Gal 2, 5. 14). Cosa non affatto semplice. Teniamo presente che quello era ancora il tempo della prima comunicazione dell’Annuncio e le categorie e i termini teologici non potevano ancora essere definiti e condivisi. Perché l’operazione riuscisse c’era bisogno di assistenza divina. Portata ormai a temine la sua missione in Anatolia e

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in Grecia, è vicina la sua partenza per Roma, non senza prima visitare la Chiesa di Gerusalemme, cui consegnare la generosa colletta donata dalle sue Chiese. E qui Paolo sollecita confidenzialmente la solidarietà dei cristiani di Roma nel difendersi non solo dai Giudei, ma anche dai cristiani di stretta osservanza giudaica: «Vi esorto, fratelli, a lottare con me nella preghiera che rivolgete per me a Dio, perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea, e il mio servizio a Gerusalemme torni gradito a quella comunità» (Rom 15, 30s). E a Timoteo: «Voglio che gli uomini preghino ovunque si trovino, alzando al cielo le mani pure senza ira e senza contese» (1Tim 2, 8), soprattutto nei riguardi dei “nemici della croce” (cf Fil 3, 18). Impossibile, però, ignorare gli eccessi nei quali il messaggero Paolo – a volte sanguigno e non portato a sfumature – cade nel portare e difendere il messaggio evangelico. Certamente i suoi rivali non erano teneri e ben disposti a comprendere la sua posizione teologica e missionaria. Ma le sue ingiurie e anatemi nei loro confronti sono altrettanto disdicevoli. Qualche esempio: «Costoro sono falsi apostoli, operai fraudolenti, travestiti da apostoli di Cristo. Niente di strano: lo stesso Satana si traveste da angelo luminoso: perciò non è gran cosa, se i suoi servitori si travestono da servitori della “giustizia”. La loro fine sarà conforme alle loro opere» (2Cor 11, 13-15; cf Gal 1, 9); «Che vadano a farsi castrare quelli che vi sobillano!» (Gal 5, 12); «Attenti ai cani! Attenti ai cattivi operai! Attenti ai fanatici della circoncisione!» (Fil 3, 2). Molto preferibili le espressioni che ci assicurano un Paolo che le rivalità non se le procura ad arte,. Il contrario è vero: «Io mi sforzo di piacere a tutti e in tutto, senza cercare l’utile mio, ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1Cor 10, 33). Accanto a questo Paolo scompostamente reattivo, c’è però quello che scrive: « Chi è debole senza che io sia debole? Chi insidiato, senza che io m’infiammi?» (2Cor 11, 29).

e sofferenze per i Giudei della Diaspora

Più numerose e spesso violente le sofferenze a lui causate dai giudei di Gerusalemme e della diàspora, nelle cui sinagoghe Paolo programmaticamente entrava di sabato, appena giunto in un nuovo centro abitato. Perché la Parola non è accolta dai primi destinatari del Vangelo? Chi ripercorre il suo itinerario missionario si rende conto della puntuale opposizione incontrata dalla sua predicazione agli ex correligionari locali. A cominciare dalla fuga rocambolesca da Damasco (cf At 9, 23-25; 2Cor 11, 32s), scacciato da Antiochia di Pisidia e da Iconio (cf At 13, 50; 14, 5s), preso a sassate a Listra (cf At 14, 19); battuto e imprigionato a Filippi (cf At 16, 23s), aggredito da facinorosi e scacciato da Tessalonica e da Berea.(cf At 16, 16; 17, 5-9. 13s), denunciato ai Romani a Corinto (cf At 18, 12-17). Il periodo più drammatico fu il triennio efesino: «Contro le belve di Efeso» (1Cor 15, 32) rischiò la vita: imprigionato, spera di evitare una sentenza capitale (cf 2Cor 1, 8-10; Fil 1, 23-26). Sappiamo poi che furono i giudei provenienti dalla diàspora a sobillare quelli di Gerusalemme, procurando l’intervento romano per sottrarre Paolo al tentativo di linciaggio (cf At 21, 28ss; 22, 22-29); il trasferimento nel carcere di Cesarea si renderà necessario per sottrarlo a 40 fanatici decisi a sopprimerlo con un colpo di mano (cf At 23, 12-35) Quanto alla persecuzione subita dalle autorità romane, sopravviene sempre in seguito a richiesta di facinorosi giudei del luogo e dei loro capi gelosi; ed è motivata unicamente da ragioni di ordine pubblico. Soltanto ad Efeso, saranno gli argentieri pagani – temendo il calo delle vendite dei tempietti di Artemide – a sobillare la città contro i compagni di Paolo, per altro ben difesi dal cancelliere romano (cf At 19, 23-41). Secondo il diritto romano, i governatori esigono il confronto accusato-accusatori e concedono a Paolo il diritto di difesa. Se gli negano la libertà è soltanto per compiacere le autorità giudaiche (cf At 24, 27; 25, 9). Solo Felice sperò di riscuotere i soldi di un baratto, ma poi manca poco che si lasci convertire (cf At 24, 22-26). In genere il prigioniero viene trattato con riguardo, rinunciando Roma a giudicare in materia di indole religiosa. Essendosi appellato a Cesare, il cittadino romano Paolo sarà accompagnato nell’Urbe, dove subisce due tipi di prigionia, la seconda molto più dura della prima; seguirà la sentenza capitale che lo renderà testimone fino all’effusione del sangue.

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Soffrire con un perché

Paolo si rende conto che anche le sue comunità erano partecipi del suo dolore e delle sue persecuzioni (cf 1Tes 2, 14; 3, 2-5; 2Cor 1, 3s). A loro fa anzitutto constatare che nessuna avversità avrà mai il potere di sopraffare la presenza cristiana: «Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi» (2Cor 4, 8s; cf 1Cor 4, 8-11). Li esorta a resistere, a non lasciarsi mai intimidire, ad essere fieri nel dare testimonianza, anche se incompresi: «Ora è il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!... Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6, 2-10). Osa chiedere loro di imitarlo nel vincere il male ricevuto con il bene dato: «Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo» (1Cor 4, 12). Ai Romani consiglierà di “non rendere a nessuno male per male…Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (12, 17-21). Già si è detto quale posto Paolo riservi alla sapienza e potenza che proviene dal mistero della Croce (vedi p. 17) e dalla speranza (vedi pp. 23s). Paolo sa fornire una profonda ragione teologica al dolore innocente che non risparmia il cristiano: è l’imitazione di Cristo Crocifisso, che ci chiama a morire con Lui per risorgere con Lui, partecipando attivamente al mistero redentivo della sua Pasqua: «E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8, 17; cf Fil 3, 10s). Della sofferenza mette in luce la misteriosa fecondità apostolica: «A causa del mio vangelo, io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata. Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù… Certa è questa parola. Se moriamo con Lui, vivremo anche per Lui» (2Tim 2, 9-11). Una partecipazione alla Croce cui è chiamata tutta la Chiesa, corpo di Cristo, che ne è anche prima beneficiaria: « Perciò sono lieto nelle sofferenze per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1, 24). Nel discorso di addio ai capi della Chiesa di Efeso, ha ancora ben chiaro anche che le «catene e tribolazioni» che l’attendono a Gerusalemme fanno parte del «servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» (cf At 20, 22-24); le sue sofferenze sono per l’opera di Cristo (cf 2Tim 1, 9-12) e per la Chiesa (cf 2Tim 2, 8-10; Col 1, 24s). Fanno parte della sua amorevole testimonianza a Cristo (cf il commento di s. Giovanni Crisostomo, a p. 43). Ed è così che l’apostolo - senza morbosità autopunitive o volontarismi stoici – arriva a testimoniare una tipica originalità della speranza vissuta nella comunione cristiana, la gioia della consolazione nel dolore: «Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per al vostra consolazione… Come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione» (2Cor 1, 4-7); «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2Cor 7, 4). Arriverà «a vantarsi ben volentieri delle sue debolezze, perché dimora in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni e nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12, 9s); «nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (Fil 1, 20).

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Autorità e paternità in san Paolo

Proprio rivolgendosi ai Corinti, che insieme ai Galati gli avevano procurato dispiaceri a non finire, Paolo assicura: «Siete nel nostro cuore per morire insieme e insieme vivere» (2Cor 7,3); «Fateci posto nei vostri cuori» (2Cor 7,2). (Sulla carità pastorale di Paolo si veda il commento di s. Giovanni Crisostomo a p. 44s) Sappiamo quante volte e con quale vigore fu costretto a giustificare la sua autorità di “tredicesimo apostolo”. I suoi interventi – da vicino o da lontano che fossero – non soltanto erano chiarificatori di temi teologici ancor oggi complessi, ma anche vigorosi, perché venissero posti in atto provvedimenti disciplinari. Tuttavia, si può dire che nei suoi riguardi non si pone il dilemma autorità carismatica/potere giuridico. La carità pastorale può benissimo ricorrere ai rimproveri. Senza rancore vendicativo, ma per salvare i diritti della verità (prima carità che il pastore deve al suo gregge) e in vista del vero bene di chi li riceve. I dovuti rimproveri non mancheranno, anche se preceduti, all’inizio di ogni lettera, dal ringraziamento per i doni pure presenti. Manderà più volte Tito a Corinto per richiamare la comunità alla doverosa obbedienza (cf 2Cor 9, 13; 7, 6ss). Avendo cura di mettere ben in chiaro che «non abbiamo alcun potere contro la verità, l’abbiamo solo a favore della verità» (2Cor 13, 8); «Non è vero che vogliamo spadroneggiare su di voi nella sfera della vostra fede. Siamo invece collaboratori per la vostra gioia» (2Cor 1, 24). I Galati l’avevano accolto «come un angelo di Dio, come Cristo Gesù». Ed ecco lo sconcerto di Paolo: «Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità?» (Gal 4, 14-16). Ai Tessalonicesi potrà garantire di aver svolto opere di evangelizzazione, «non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori» (1Tes 2, 4); si è astenuto dall’adulazione, con personale disinteresse e – pur potendolo fare – senza far pesare «la nostra autorità di apostoli» (vv 5s), perché i suoi provvedimenti hanno loro procurato non «la tristezza del mondo, che produce la morte», ma «la tristezza secondo Dio, che produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza» (2Cor 7, 9s); e li assicura che l’affetto – il suo e di Tito – è cresciuto, «per come tutti gli avete obbedito e come l’avete accolto con timore e trepidazione. Mi rallegro, perché posso contare totalmente su di voi» (2Cor 7, 15s).

Paolo e i collaboratori

Gratitudine e fiducia sono da lui riservate ai molti collaboratori, dei quali volle e dovette servirsi. I collaboratori (che l’accompagnavano e che lasciava a vigilare sulle comunità che sorgevano e che avrebbe rivisitato (cf At 14, 21-23; 15, 36; 16, 5)) furono di indubbia utilità per realizzare il suo progetto di prima evangelizzazione; esso non si limitava alle città dell’Anatolia e della Grecia, ma doveva estendersi a tutto l’Occidente conosciuto (cf Rom 1, 13-15). Di fatto, la sua è stata missione esclusivamente urbana. Soltanto le città erano raggiungibili – per mare e lungo le famose strade romane – e soltanto in città si parlava greco. Le grandi città – come Antiochia, Efeso e Corinto – furono scelte come centri missionari, dai quali irradiare l’Annuncio che suscitava comunità nei dintorni. E sappiamo che Paolo preferì località non ancora raggiunte da altri: «Mi sono però fatto un punto d’onore di annunciare il vangelo solo là dove il nome di Cristo non era

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ancora invocato. E questo per non costruire su fondamenta gettate da altri» (Rom 15, 20; cf 2Cor 10, 12-18). Per Paolo, già nella prima generazione cristiana, nessun popolo doveva restare estraneo all’annuncio evangelico, che avrebbe costituito il fattore decisivo di una nuova umanità, capace di vivere senza le discriminazioni socio-culturali che contrapponevano greci e barbari, pagani e giudei. Dei molti collaboratori gli Atti e l’epistolario conservano i nomi (cf At 19, 29; Fim 23; Col 4, 10, ecc.). Non tutti hanno resistito ai ritmi estenuanti del suo lavoro apostolico, altri lo hanno lasciato proprio nei momenti in cui ne avrebbe maggiormente desiderato il sostegno (cf 2Tim 4, 9-11; Col 4, 7-17). A due di essi – Timoteo e Tito – la tradizione paolina ci ha conservato le lettere che li aiutano a svolgere bene il compito pastorale loro assegnato. Per tutti ebbe parole di riconoscenza, di affetto, di incoraggiamento: «a Tito, mio vero figlio nella fede comune» (Tito 1, 4), a «Luca, il caro medico» (Col 4, 14). Le sue sono lettere ardenti, lasciano trasparire un rapporto paterno-materno-fraterno. Con i suoi collaboratori e con i singoli fedeli, spesso singolarmente salutati al termine delle lettere (cf Rom 16, 1-16; 1Cor 16, 19s; Col 4, 10-18; 2Tim 4, 19-22; ecc.): «Salutate tutti i fratelli con il bacio santo» (1Tes 5, 26; 2Cor 13, 12). Tale rapporto, colmo di tenerezza è ben espresso rivolgendosi ai Filippesi: «Vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo. Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù» (Fil 1, 7s). Sono sentimenti autentici, che richiedono corrispondenza filiale. «Il nostro cuore si è tutto aperto per voi: non siete davvero allo stretto in noi» (2Cor 6, 12); «Io parlo come a figli: rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore» (2Cor 6, 11-13). Già abbiamo ricordato come Paolo vivesse paternamente e maternamente la sua funzione di generatore della fede nei suoi figli (cf 1Cor 4, 14s; Gal 4, 19). Paolo è totalmente partecipe delle vicende dei Tessalonicesi e si sente «consolato dall’angoscia e tribolazione in cui eravamo per la vostra fede; ora, sì, ci sentiamo rivivere, se rimanete saldi nella fede» (1Tes 3, 8); e confida di nutrire per loro affettuosa nostalgia: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari… (1Tes 2, 7s. 10.20). Ugualmente ai Filippesi: «Miei fratelli, diletti e desiderati, mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Senza trascurare consigli assai premurosi per Timoteo, «mio vero figlio nella fede» (1Tim 1, 2): «Smetti di bere soltanto acqua e prendi un po’ di vino per il tuo stomaco e per le tue frequenti indisposizioni» (1Tim 5, 23); «Nessuno disprezzi la tua giovane età» (1Tim 4, 12). Esemplare della carità pastorale e persino commovente il modo con cui Paolo, ormai «anziano e in catene» (v. 9), rimanda al suo ricco amico Filemone uno schiavo fuggito dalla sua casa: «Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore» (Fim 10). Con questo delizioso biglietto – la lettera a Filemone consta di soli 25 versetti – Paolo esce di scena.

Commenti patristici: Il cristiano è un altro Cristo

di Gregorio di Nissa, L’ideale perfetto del cristiano (PG 46, 254s) Paolo ha conosciuto chi è Cristo molto più a fondo di tutti e con la sua condotta ha detto chiaramente come deve essere colui che da Cristo ha preso il suo nome. Lo ha imitato con tanta accuratezza da mostrare chiaramente in se stesso i lineamenti di Cristo e trasformare i sentimenti del proprio cuore in quelli del cuore di Cristo, tanto da non sembrare più lui a parlare. Paolo parlava, ma era Cristo che parlava in lui. Sentiamo dalla sua stessa bocca come avesse chiara coscienza di questa sua prerogativa: «Voi volete una prova di colui che parla in me, Cristo» (2 Cor 13, 3) e ancora: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20). Egli ci ha mostrato quale forza abbia questo nome di Cristo, quando ha detto che è la forza e la sapienza di Dio, quando lo ha chiamato pace e luce inaccessibile, nella quale abita Dio, espiazione e redenzione, e grande sacerdote, e Pasqua, e propiziazione delle anime, splendore della gloria e immagine della sostanza divina, creatore dei secoli, cibo e bevanda spirituale, pietra e acqua, fondamento della fede, pietra angolare, immagine del Dio invisibile, e sommo Dio, capo del corpo della Chiesa, principio della nuova creazione, primizia di coloro

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che si sono addormentati, esemplare dei risorti e primogenito fra molti fratelli, mediatore tra Dio e gli uomini, Figlio unigenito coronato di onore e di gloria, signore della gloria e principio di ogni cosa, re di giustizia, e inoltre re della pace, re di tutti i re, che ha il possesso di un regno non limitato da alcun confine. Lo ha designato con queste e simili denominazioni, tanto numerose che non è facile contarle. Se tutte queste espressioni si raffrontassero fra loro e si cogliesse il significato di ognuna di esse ci mostrerebbero la forza mirabile del nome di Cristo e della sua maestà, che non può essere spiegata con parole. Ci svelerebbero però solo quanto può essere compreso dal nostro cuore e dalla nostra intelligenza. La bontà del Signore nostro, dunque, ci ha resi partecipi di questo nome che è il primo e più grande e più divino fra tutti, e noi, fregiati del nome di Cristo, ci diciamo « cristiani ». Ne consegue necessariamente che tutti i concetti compresi in questo vocabolo, si possono ugualmente vedere espressi in qualche modo nel nome che portiamo noi. E, perché allora non sembri che ci chiamiamo falsamente «cristiani», è necessario che la nostra vita ne offra conferma e testimonianza.

Commenti patristici: Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

di s. Giovanni Crisostomo, Panegirico di s. Paolo (PG 50, 477-480) Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante, lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: «Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro» (Fil 3, 13). Vedendo che la morte era ormai imminente invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me » (Fil 2, 18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12, 10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: «Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi» (2 Cor 2, 14). Per questo, animato dal suo zelo dì apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo cosi avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa. Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato, però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro. II più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena; il più grande e il più insopportabile dei supplizi. II godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro e ogni altro bene. All’ infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini, quando si trattava di sopportarli per Cristo.

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Commenti patristici: Il nostro cuore si è aperto per voi

di s. Giovanni Crisostomo, Omelia sulla 2a lettera ai Corinti, 13, 1-2 (PG 61, 49s) «Il nostro cuore si è tutto aperto per voi» (2 Cor 6, 11). Come il calore, così la carità ha la prerogativa di dilatare, è, infatti, una virtù ardente e impetuosa. Essa apriva la bocca e dilatava il cuore di Paolo. E non vi era nessun cuore più grande del cuore di Paolo. Egli come ogni persona che ama, abbracciava con amore tanto profondo tutti i fedeli che nessuno ne era escluso o messo da parte. E non ci meravigli questo suo amore verso i credenti, dal momento che il suo amore si estendeva anche ai non credenti. Non disse infatti: «Amo soltanto con la bocca, ma anche il cuore canta all’unisono nell’amore con la bocca, perciò parlo con fiducia, con tutto il cuore e con tutta la mente». Non dice: «vi amo», ma usa un’espressione assai più significativa: «La nostra bocca si è aperta e il nostro cuore si è dilatato» cioè vi porto tutti nell’intimo del cuore, in un abbraccio universale. Chi è amato, infatti, si muove a suo piacimento nell’intimo del cuore che lo ama. Per questo l’Apostolo afferma: «Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori invece che siete allo stretto. Io parlo come a figli: rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore!» (2 Cor 6, 12-13). Nota il rimprovero, addolcito dall’amore, caratteristica delle persone che amano. Non dice loro che non lo amano, ma fa capire che non gli vogliono bene come lui a loro. Non vuole rimproverarli, se non dolcemente. Si scorge dappertutto, nelle singole lettere la presenza di questo suo vivissimo amore per i fedeli. Scrive ai Romani: Bramo vedervi e spesso mi son proposto di venire da voi. Spero di poter in qualche modo venir a trovarvi (cfr. Rm I, 10-11). Ai Galati manda a dire: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore» (Gal 4, 19). Agli Efesini: «Per questo motivo piego le ginocchia davanti al Padre per voi!» (Ef 3, 14). Ai Tessalonicesi aggiunge: «Qual è la mia speranza o la mia gioia o la mia corona di gloria? Non siete forse voi?» (1 Tes 2, 19). Asserisce così di portarli nel cuore, anche se incatenato. Scrive inoltre ai Colossesi: «Voglio che sappiate quale lotta io sostengo per voi, anche per coloro che non mi conoscono di vista, perché trovino consolazione i vostri cuori» (Col 2, 1), e ai Tessalonicesi: «Come una nutrice, che cura i suoi bambini cosi avremmo voluto, per il grande affetto per voi darvi non solo il Vangelo, ma anche la vita» (1 Tes 2,7-8). Non vuole che si angustino per lui. Però non desidera essere solo lui ad amare, ma anche essere riamato da loro, per attirare maggiormente i loro animi. E gioisce di questo loro atteggiamento. Assicura infatti:«È; venuto Tito e ci ha fatto conoscere il vostro desiderio, il vostro pianto, il vostro amore per me» (cf 2Cor 7,7).

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SAN PAOLO VISTO ATTRAVERSO L’ARTE

Bruegel: la conversione di san Paolo

Il tema, caro all’iconografia italiana del 500 e del 600 (basti pensare all’affresco di Michelangelo e alla tela del Caravaggio), viene interpretato dall’artista olandese Brueghel il vecchio, in maniera originalissima e, per certi versi, straordinariamente attuale. Nell’ anno in cui dipinge la tavola, il 1567, l’esercito del Duca di Alba attraversava le Alpi per sedare le rivolte dei fiamminghi (in atto a causa della lotta fra cattolici e protestanti e della lotta iconoclasta). L’evento storico si trasforma per Brueghel in una riflessione sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al mistero di una storia Altra, quella di Dio, significata appunto dalla conversione di Paolo. Il paesaggio alpino, che Brueghel aveva potuto osservare da vicino nel corso di un suo viaggio in Italia, appare qui minaccioso. Rocce e alberi appuntiti sembrano lance rivolte verso un cielo assente e coperto da spesse nubi. Solo all’estrema sinistra della tela - a significare il ricordo di un passato lontano e colmo di pace - si apre lo scorcio di una distesa pianeggiante e serena sotto una volta azzurrina. Il panorama di Brueghel descrive la storia di una umanità che ha perduto le sue radici. A sinistra, infatti, si dirada la presenza degli uomini e l’esercito si inerpica su per un dirupo, dimentico della sicurezza pianeggiante che lo accoglieva. Più che l’esperienza di Saulo-Paolo, qui emerge la condizione spirituale e storica dell’uomo del 500, così drammaticamente vicina alla nostra. Dimentico delle proprie radici anche l’uomo moderno s’inerpica per cammini improbabili, incurante delle minacce che si addensano all’orizzonte. La parte destra della tavola di Brueghel brulica di soldati e cavalieri che maggiormente si addensano laddove il cammino, invece di aprirsi un varco, pare chiudersi definitivamente senza offrire sbocco alcuno. Nessuno si cura del pericolo, anzi, un cavaliere in giallo sbarra la strada del ritorno, attirando la nostra attenzione. La sua tunica, più luminosa del giallo delle rocce dice, nel colore, il tradimento, la gelosia, l’ira, i vizi che allontano l’uomo dal cammino della virtù e, dunque, della pace. Paradossalmente tuttavia è proprio grazie a questo uomo che siamo condotti a notare un altro soldato, l’unico rivolto verso di noi, un cavaliere che ornato di un curioso pennacchio indica qualcosa. Comprendiamo solo così quanto il titolo ci sconcertasse. Dov’è infatti l’attesa caduta da cavallo di Saulo? Dov’è la luce folgorante che ci mostrerà la tela caravaggesca della Cappella Cerasi in Roma? È là sembra rispondere il soldato in blu (colore del mistero e dell’inconoscibile). È là in mezzo al corteo, anzi là dove più fitta sembra essere la mischia.

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Vediamo allora un piccolissimo Saulo, vestito di un blu irradiato di luce, che stramazza a terra aprendosi un varco improvviso tra la folla di lance e cavalli. Non è l’evento sfolgorante che sconvolge il panorama religioso dell’epoca, ma è un evento tra i tanti, quasi un incidente di percorso dentro una marcia anonima che continua inarrestabile il suo cammino. Eppure questo evento ha cambiato la storia della Chiesa e persino la storia del mondo religioso di allora. Brueghel ci induce a riflettere. La Chiesa obbedisce sempre alla dinamica del seme. Sono gli eventi piccoli, seminati nel solco di un cammino quotidiano, accidentato, pieno di rischi a dare frutti duraturi, a far maturare l’intera massa per il Cielo. Le rocce appuntite, la nube minacciosa che penetra all’orizzonte chiudendo il varco al corteo di soldati, preannuncia all’Apostolo delle genti la sofferenza che per questa conversione egli dovrà sopportare. Il varco che si apre attorno a lui durante la caduta, esprime il vuoto drammatico che ormai lo separerà dal suo popolo. Gli eventi di grazia, è vero, sono spesso piccoli e seminati nel solco della storia più anonima, pur tuttavia richiedono l’adesione di anime grandi. È quanto il papa si auspica dall’anno paolino appena iniziato: L’azione della Chiesa è credibile ed efficace solo nella misura in cui coloro che ne fanno parte sono disposti a pagare di persona la loro fedeltà a Cristo, in ogni situazione. Dove manca tale disponibilità, viene meno l’argomento decisivo della verità da cui la Chiesa stessa dipende. Cari fratelli e sorelle, come agli inizi, anche oggi Cristo ha bisogno di apostoli pronti a sacrificare se stessi. Ha bisogno di testimoni e di martiri come San Paolo.

Saulo di Tarso secondo Caravaggio

IL 24 settembre 1600 Caravaggio promette a Monsignor Tiberio Cerasi, suo grande estimatore, due quadri: la conversione di Paolo e il martirio di Pietro. Quando Caravaggio riesce a ultimare le due opere Mons. Cerasi è già morto e lui cambia idea. Vende i due dipinti a un altro prelato, il card Sannesio, e ne realizza altri due quelli che ancora oggi possiamo vedere nella cappella Cerasi.

Un suo malevolo biografo Giovanni Baglione teorizza un rifiuto della committenza (l’Ospedale della Consolazione) dei due lavori, ma l’informazione pare proprio inesatta. Nella cappella Cerasi, realizzata dal Maderno vi è un pala d’altare del Carracci, una Vergine Assunta le cui braccia levate al Cielo sembrano voler coinvolgere il fedele visitatore. Le ultime due tele di Caravaggio la Conversione e la Crocifissione di Pietro sono in grande sintonia con questo gesto della Vergine: Paolo tiene le braccia levate verso la luce che lo investe, Pietro apre le braccia sulla Croce e si rivolge all’altare, quasi per un’accorata supplica al Cristo. Nella prima versione della Conversione di Saulo, oggi nella Collezione privata Oldescalchi, l’impostazione è più articolata e teatrale, c’è una maggior abbondanza di personaggi e i rimandi al luogo che doveva contenere le opere meno espliciti. Dunque deve essere stato un ripensamento dello stesso artista.

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Nella Conversione della Cappella Cerasi l’evento è tutto interiore e investe Saulo rovesciando la prospettiva della sua vita.

Caravaggio lo dipinge accuratamente vestito, un abbigliamento dove nulla è lasciato al caso. Lo dipinge con abbondanza di rosso. Ci consegna perciò in pochi tratti un fedele ritratto di quest’uomo, tutto d’un pezzo sempre all’altezza della situazione, sicuro di essere nel giusto, passionale e portato agli eccessi: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio come oggi siete tutti voi» (At 22, 3).

Saulo è vinto da qualcosa di inaspettato, nella sua violenza dolcissimo e suadente. Forse nessuno ha descritto così bene il momento dell’incontro con Cristo come Miguel Manara:

Chi sei tu dunque, terribile biancore che mi parli? Cigno tu m’accechi. Cigno siimi dolce! Bel cigno, stendi la tua ala su di me. Non colpirmi. Vedi io sono piccolo piccolissimo. Giglio, giglio! Tu non sei nato, giglio, nel giardino della terra. Come sei bello che forma hai! Quand’ero un bimbo amavo i fiori. Ma i fiori non erano come te. Oh fammi tornare bambino! Perché non posso coglierti con queste grosse mani e in te c’è della rugiada come farei per non farla cadere? Ora cade: tu piangi. Non piangere, bel giglio. Mi strazia il cuore.

Caravaggio non ci permette di vedere il bel cigno che si profila nella luce, ma ci descrive il momento come un fatto tutto interiore che stampa sul volto di un giovanissimo Saulo un’aurea di pace. L’evento è tanto interiore da essere collocato addirittura dentro una stalla e non fuori sulla via, come le fonti sembrano suggerire. Saulo cade ponendosi nella stessa direzione di chi osserva, volta le spalle al pubblico e ciò che del volto vediamo è solo lo scorcio possibile grazie alla caduta. Saulo è il primo di molti. Indubbiamente la sua cosiddetta conversione fu un evento cardine della prima cristianità. Noi, cristiani provenienti dai goim, cioè dai gentili, dai non ebrei, siamo nel Mistero grazie a Lui. Saulo è la porta al Mistero di quella luce. Per questo Caravaggio ci impedisce di vedere ciò che Paolo vede. Noi dobbiamo vedere lui e lui solo. La fede ha una partenza fuori di noi: è un fatto, è una oggettività che sfida la soggettività dell’uomo. Niente di astratto, nessuna deduzione, nessuna proiezione; già dall’origine è l’incontro con qualcosa fuori di noi che suscita speranza (cfr Carron Esercizi Spirituali alla Fraternità 2008 pag 13).

Di fronte a un tale incontro Saulo resta lì, vinto dalla luce, con le braccia aperte. Il persecutore assume la posizione del Perseguitato. Gli dice infatti Gesù : «Saulo, Saulo perchè mi perseguiti?». Allarga Saulo le braccia come se stesse per essere crocifisso. Allarga le braccia per comprendere il mistero di una comunione assoluta fra Cristo e la Chiesa.

Gesù, infatti, dicendogli: perchè mi perseguiti? Lo istruisce immediatamente sulla assoluta unità tra se stesso, il Capo, e i suoi, i cristiani, il Corpo. Qui Saulo cambia mentalità, questa è la sua conversione. Non la conversione da un credo falso a un credo vero, non dall’idolatria alla conoscenza del vero Dio. Saulo era già nell’alleanza, Saulo già credeva e serviva Dio con zelo. Ciò che Saulo deve cambiare è il modo, la prospettiva dalla quale guardare quella verità in cui credeva fin dalla giovinezza. Potremmo dire che Saulo era già nel desiderio di Dio, ma ha dovuto pervenire alla fede reale dentro il riconoscimento di una presenza, la quale coincideva con il suo più vero desiderio.

Così Caravaggio pone il cavallo di traverso, lungo tutta la tela, posto per sbarrargli il cammino. Per dirgli:«Ciò che credi c’è ma non è come tu lo credi. Ti supera grandemente».

Il cavallo, che dolcemente solleva la zampa per non ferire Saulo, è pieno di consapevolezza. Come il giumento del profeta Balaam di Beor che vedeva l’angelo del Signore meglio del suo padrone e si arrestava laddove il profeta voleva rovinosamente andare, così il cavallo di Saulo si pone ad ostacolo verso una direzione rovinosa. La luce che investe Saulo è soprannaturale e fioca, proviene dall’angolo destro del quadro e s’incunea dolcemente tra Saulo e il cavallo. Non c’è nulla di violento, anzi la potenza della luce la si percepisce unicamente dal corpo del giumento totalmente illuminato.

Saulo è costretto così a ribaltare le prospettive, lui che sulle strada di Damasco credeva di dar gloria a Dio, viene sorpreso dalla realtà - tanto vera da essere percepita da un animale -, eppure tanto misteriosa da poter essere vista solo con gli occhi dell’anima.

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Non ci è dato di intuire l’esito di quella caduta . Sappiamo dal testo biblico che nemmeno Saulo poté fare a meno della Chiesa. Il Signore che si era compiaciuto di rivelarsi a lui direttamente non volle educare Saulo direttamente, ma si servì di Anania, un discepolo a noi ignoto se non per questo atto di grande carità. Anche per Saulo, anche per un’esperienza straordinaria di Dio come la sua, la fede resta un gesto umano che deve nascere in modo umano.

Caravaggio dice tutto questo nella grande umiltà che l’opera sprigiona, umiltà nel volto di Saulo già colmo della calma della fede. Umiltà negli occhi chiusi e nelle braccia spalancate denuncia di una cecità bisognosa della compagnia di un altro. Umiltà nel palafreniere che regge le redini del cavallo del quale si scorge la mente e una gamba e un piede ben illuminati.

Saulo si è imbattuto in una presenza che non è rimasta astrazione: nel profilo di questo servo piace riconosce la povertà fiduciosa di una compagnia, quella della Chiesa che aiutò Saulo a diventare Paolo, a cambiare direzione e modo di pensare, indirizzando il passo sulle orme di Colui che un tempo perseguitato sarebbe diventato la ragione stessa del suo martirio.

L'Apostolo delle genti in un rame di Elsheimer

Questo dipinto di Adam Elsheimer è piccolissimo. Misura poco più del palmo di una mano d’uomo (17 x 21) è un dipinto a olio realizzato su rame.

Elsheimer maturò la sua formazione dapprima in patria, in Germania e poi in Italia,a Venezia. Con Elsheimer la natura e il paesaggio, normalmente promessi al decorativo, iniziarono ad essere protagonisti e ad assumere un ruolo predominante nell’opera.

Questo quadretto raffigura due episodi narrati negli Atti degli Apostoli. L’opera benché di carattere miniaturistico lascia emergere a tutto tondo la vita di Paolo, Apostolo delle genti.

Egli, in un brano memorabile rivolto ai Corinti (2 Cor 11, 24-28), confessa il suo assillo per le chiese vissuto dentro a peripezie di ogni genere: Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese.

Tutto questo è rappresentato da Adam nell’incerta luce di un notturno in cui le forze della natura sembrano essersi scatenate contro la Chiesa di Dio e i suoi apostoli. È noto che l’Apostolo nel 60 d. C salpò con altre 275 persone per recarsi a Roma, ma l’imbarcazione fu sorpresa da una tempesta che obbligò Paolo e i suoi compagni a riparare su un isola, l’isola di Malta dove vi rimase per 3 mesi (Atti cap 27-28). Il naufragio avvenne di giorno, ma l’artista tedesco lo rilegge, appunto, dentro un suggestivo notturno che non è pura (ed oltre a tutto erronea) annotazione cronologica, bensì evocazione del dramma che visse Paolo come Apostolo ed evangelizzatore delle genti.

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Cielo e paesaggio occupano la parte maggiore del dipinto. Nell’oscurità della notte, bagliori di luce lasciano intravedere il dramma. Flutti minacciosi si abbattono sulla costa e un pino sulla destra, scosso dal vento rivela un tronco a forma di croce.

Si annuncia così la natura pasquale dell’evento: nulla è casuale per chi crede, ma ogni evento è permesso o predisposto dalla provvidenza divina per la nostra e altrui salvezza.

Sull’estrema destra della tavoletta si vedono i superstiti appendere abiti inzuppati d’acqua a un filo e quindi, asciugarsi al fuoco.

Dentro a questo gesto apparentemente naturale si legge la necessità per l’apostolo di spogliarsi del proprio habitus, del proprio costume, per testimoniare Cristo là dove viene mandato aderendo pienamente alla realtà del luogo senza precomprensioni o schemi devianti.

Fu questa una delle esperienze di Paolo, specialmente in Grecia laddove pensò di citare i poeti locali per entrare in dialogo con le persone, accorgendosi poi che quegli stessi versi da Lui evocati venivano compresi dagli uditori in modo diverso e lontano dalla verità per la quale Paolo citava e interpretava questi autori. Da quel momento Paolo si radicò in una sola cosa Cristo e questi crocifisso. Paolo comprese cioè che la sofferenza, accanto all’amore, è quel linguaggio universale che tutti possono intendere al di là e al di sopra di ogni lingua, religione e cultura.

La croce e la nudità sono perciò gli elementi predominanti nella parte destra dell’opera di Elsheimer Una catena di macchie di colore rosso, il colore appunto dell’amore, collegano la donna che stende i panni ad asciugare, al fuoco di sinistra dove troviamo finalmente l’apostolo Paolo.

Con l’unico ausilio del bagliore del falò scorgiamo Paolo mentre si scrolla dal dito un serpente che sta cadendo nel fuoco.

L’episodio è narrato dagli Atti: Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: “Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere”. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio (Atti 28,1-6).

Siamo ricondotti anche qui all’ambiguità del segno. La vipera fu in un primo tempo per quegli isolani il segno di un destino schiacciante che condannava Paolo alla morte a causa di una colpevolezza certa. Colui che era scampato al naufragio non poté scampare alla morte a causa del morso di un rettile velenoso. Ma Paolo non morì ed ecco che la vipera divenne ulteriore prova dell’innocenza dell’apostolo.

La fede, ci insegna Elsheimer, vince ogni tribolazione: i flutti del mare, ancora ingombri dei resti della nave allo sfascio, s’infrangono come d’incanto davanti a questa piccola folla di uomini rischiarata da un fuoco che non è più semplicemente il fuoco del bivacco, ma è la fiamma della fede che contagia.

Gli abitanti di fronte al “segno della vipera” credettero che Paolo fosse un dio. Non pervennero alla conoscenza del vero senso del segno, cioè la vittoria di Cristo sulle forze del male e della morte, se non in virtù della testimonianza di Paolo. Il segno è, per sua natura, debole perchè il segno chiede la nostra libertà. Don Giussani diceva che la nostra libertà si gioca nell’interpretazione del segno.

Il segno della vipera ha rimandato ad altro, per i maltesi ha rimandato a Paolo, è Paolo stato pienamente apostolo, cioè inviato, per non aver trattenuto costoso a sé ma per averli rimandati a quell’Unico, a quell’Altro che solo è Signore della vita e della morte.

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Rimanendo presso quegli uomini tre mesi egli dimostrò che la testimonianza è il compito della vita e che la missione è annuncio di un Altro. Senza questo anche il miracolo sarebbe rimasto lettera morta. Chi lo crederà – scriverà Paolo nelle sue lettere - senza che nessuno ascolti? E chi potrà ascoltare senza che alcuno lo annunci? E chi lo annuncerà senza la grazia della predicazione?

A noi- diceva don Giussani - è stata data la grazia di credere. Il nostro compito è testimoniare quello che ci è stato dato, perchè questa é la carità più grande che possiamo avere con tutti i nostri amici e con coloro che incontriamo sulla strada del vivere (cfr Carron Esercizi Spirituali alla Fraternità 2008 pag 40). Anche per Paolo questa fu la carità più grande: la missione, l’urgenza di rendere evidente la Presenza di Cristo che libera e salva in tutte le circostanze affinché l’uomo creda.

Bagliori di luce, simili a quelli del falò sulla spiaggia si ritrovano all’Orizzonte proprio laddove le nubi lasciano trapelare raggi di luce, essi vanno a illuminare la croce. Proprio sotto flutti minacciosi lambiscono la riva dove uomini stanno mettendo in salvo i pochi resti della nave. È la croce ad essere segno di questa carità più grande, quella che ha spinto Gesù a dare la vita. Ma senza qualcuno che lo testimoni, senza il piccolo giudeo calvo persecutore ed ora Apostolo del Cristo crocifisso, anche la croce resterebbe un segno incomprensibile.

L'ultimo Paolo secondo Rembrandt

Rembrandt ci introduce di colpo e in modo sorprendente nella stanza di Paolo. Forse è la casa del suo domicilio coatto a Roma, prima del martirio. Non sappiamo con certezza. Certo è che Paolo è vecchio, le sue lettere e i suoi scritti sono ammassati su un tavolo in primo piano. Un tavolo che siamo obbligati ad osservare noi, occasionali visitatori dello studio paolino. Rembrandt vuole farci incontrare come prima cosa gli scritti dell’Apostolo sapendo che solo attraverso la lettura attenta delle lettere paoline e la comprensione dell’interpretazione paolina del Mistero di Cristo dentro le Scritture, è possibile conoscere la statuaria grandezza di Saulo di Tarso.

Paolo, insomma, non può che essere capito alla luce della comunità cristiana. Egli fu il grande esegeta del mistero della Chiesa, l’aver udito Cristo identificarsi con i discepoli perseguitati lo rese profeta del mistero del Corpo Mistico.

La Chiesa è perciò il metodo con cui Cristo si comunica nel tempo e nello spazio, analogamente al fatto che Cristo è il metodo con cui Dio ha scelto di comunicarsi agli uomini per la loro salvezza(cfr Carron, Esercizi Spirituali alla Fraternità 2008, pag. 29).

Qui Rembrandt coglie Paolo seduto, seguendo il fascino che tale posa esercitava sui luministi caravaggeschi del secondo decennio del seicento. Seduto e solo: lontane le folle che lo acclamavano, lontani i discepoli e le chiese da lui fondate, lontane persino le continue persecuzioni. Qui Paolo è solo col Mistero del suo destino. Dopo i libri, appese al muro si notano due spade, ricordo della sua antica lotta contro la “setta” cristiana, ma anche annuncio del martirio a lui prossimo. Paolo, cittadino romano, non morirà crocifisso o sbranato dalle fiere come i forestieri, lui morirà decapitato come il grande Precursore di Cristo, il Battista. Somiglianze fra san Paolo e san Giovanni Battista, del resto, non mancano: una certa rudezza di carattere e soprattutto lo spirito anticipatore e profetico Paolo fu il grande precursore della cristianità, colui che aprì definitivamente le porte dell’alleanza in Cristo ai goim, ai gentili senza che si sottoponessero alle pratiche della legge mosaica. Tutto questo bagaglio di grandi ideali e di grandi tensioni grava sul capo dell’ormai anziano apostolo, proprio come le due spade appese al muro.

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Sotto, egli medita assorto, pare assopito, ma solo per l’occhio distratto. Se guardato a lungo e a fondo ci rivela l’oggetto della sua meditazione: Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d'aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede (Fil 1, 23-25).

La capacità di Rembrandt di rendere questa doppia tensione, l’amore a Cristo e l’amore alla Chiesa, così caratteristica di Paolo è straordinaria.

Dal lato sinistro del quadro piove una luce artificiale intensa. È quella che illumina il volto, il pensiero, quella che cade sulla spalla destra, ma lascia in ombra il braccio destro di Paolo. Impugna ancora la penna, ma appare ormai stanco. È il servo inutile che pur senza aver esaurito il mistero del Maestro sa di aver fatto tutto, almeno tutto quello che era in suo potere di fare. È ormai giunto il tempo di sciogliere le vele e approdare al porto della comunione piena e totale con Cristo, il dolce cigno della via di Damasco.

Alla destra del quadro, da una finestra nascosta, entra la luce solare. È questa luce che lascia in ombra i libri e le pergamene, ma inonda le spade e il braccio sinistro. Eccolo lì quel braccio straordinario (che forse solo ora notiamo), colto nell’atto di appoggiarsi al tavolo e far leva su di esso per balzare in piedi e partire. È il braccio del missionario, di Paolo instancabile fondatore delle chiese

Due luci due tensioni, due braccia due amori: il desiderio di essere con Cristo e il desiderio di nuove missioni, di nuove anime da salvare. Egli potrebbe dire con Jacopone da Todi: Cristo me trae tutto tant’è bello! Eppure egli è anche tutto per l’opera di un Altro.

Questa è la grandezza e la forza del messaggio paolino. Non la diatriba infinita fra fede e opere, ma le opere della fede e l’ardente desiderio dell’Eternità, dell’unione con Cristo che rende più certo e più caro il presente.

La vita di Paolo nello sguardo di Beccafumi

Nel 1515 al ventinovenne senese Domenico Beccafumi (1486-1551) venne commissionata una pala per la chiesa di san Paolo. Dopo la distruzione della stessa, la pala venne trasferita prima nella Cattedrale e successivamente Museo dell’Opera.

Domenico, considerato il più grande esponente del manierismo senese, quando dipinse questa tavola era reduce da un soggiorno romano, dove visse dal 1510 al 1512. A Roma, non solo ebbe modo di ammirare la pittura di Raffaello e Michelangelo, ma conobbe probabilmente da vicino i luoghi che videro la predicazione, la prigionia e il martirio dell’Apostolo delle genti.

La grande pala (cm 230 x 150), intitolata San Paolo in trono, presenta appunto l’apostolo in posizione centrale collocato sopra una sorta trono ligneo addossato a una colonna.

Paolo è un nome di origine latina che significa piccolo di statura e piccolo doveva esserlo per davvero visto che, per fuggire da Damasco, venne calato dalle mura dentro una cesta (cfr 2 Cor 11, 32-33).

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Se anche il movimento dell’apostolo è tutto rivolto al libro che tiene fra le mani, colpisce il piede destro, colto quasi nell’atto di scendere dall’alto trono per riprendere la missione fra le genti.

Basterebbe questo per comprendere quanto in una sola tavola il Beccafumi sia riuscito a condensare tutte le caratteristiche del poliedrico Paolo.

Seguendo il movimento del piede di Paolo lo sguardo si orienta in modo naturale verso quello che è il punto di partenza del percorso che l’artista senese traccia sulle orme di Paolo.

Vediamo infatti, sul lato sinistro, in primo piano, l’allora Saulo a terra, con i piedi - certo non a caso - rivolti verso lo spettatore. Beccafumi ci invita così a considerare l’inizio del cammino spirituale dell’apostolo. Il manto rosso di Saulo è illuminato dalla luce che irrompe dall’alto. Egli ha gli occhi chiusi, segno evidente della cecità da cui sarà afflitto, ma nello stesso tempo ha la posa di chi, colto dal sonno, sogna misteri arcani. Il contenuto della visione di Saulo è significato in alto dove, fra le nubi, in mezzo a uno squarcio di luce dorata - la stessa che bagna le vesti di Saulo - Gesù parla all’apostolo.

Alle spalle di Saulo ci sono i soldati che lo hanno accompagnato sulla via diritta i quali, secondo il dettato biblico, vedono la luce, ma non la visione.

Contrasta la tranquillità che avvolge Saulo con la scomposta agitazione di alcuni dei suoi uomini. S’indovina pertanto che quella caduta e quella cecità furono per Saulo strumenti per un nuovo cammino e una nuova visione delle cose.

Forse per dar forza maggiore a questa verità Domenico Beccafumi non dipinge alcun cavallo. L’attenta osservazione della Parola, del resto, rivela che, contrariamente alla fortuna iconografica di questo animale, nessuno dei racconti della conversione di Saulo parla di cavalcatura.

Sulla via di Damasco Saulo diventa Paolo. Il nome del primo grande re di Israele, che sopravanzava di una spalla ogni suo coetaneo, lascia il posto al piccolo Paolo. Piccolo di statura, ma certo gigantesco nello spirito. La vita apostolica dell’uomo di Tarso viene sintetizzata in modo straordinario e semplice dal manierista senese. Sullo sfondo, proprio dietro al carnefice che impugna la spada per martirizzare Paolo, s’intravvede un paesaggio apparentemente decorativo ornamentale. In realtà si tratta di un’invenzione simbolica dell’artista che vuole esprimere la predicazione e l’esperienza apostolica di Paolo.

Notiamo infatti per la prima volta il cielo nuvoloso e un vento gagliardo che scuote vigorosamente un albero all’orizzonte. Accanto all’albero una donna anziana, anch’essa scossa dal vento, cammina faticosamente, ma con grande tenacia. Più sotto due bimbi si abbracciano, guardando smarriti verso il luogo del martirio di Paolo, accanto a loro un piccolo cane.

Il quadretto è altamente simbolico e rimanda ad alcuni passi delle lettere di Paolo.

Nella lettera agli Efesini, ad esempio egli paragona le dottrine contrarie a Cristo a venti inquieti: È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo.

Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore (Ef 4, 11-14). I bimbi del dipinto sono allora il segno di quanti, minacciati dai venti di dottrina, perdono la rotta e rischiano di cadere nell’infedeltà. Il cane accanto a loro è proprio il segno di questa fedeltà minacciata. La donna sullo sfondo, è anziana nella fede (presbitero, del resto aveva questo significato) e cammina decisa incurante del vento gagliardo. Ancora nella Prima ai Corinzi ad esempio al capitolo 14 chiede di non comportarsi più da

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bambini nei giudizi; - e di essere piuttosto - come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi. (1 Cor 14, 20)

Il contesto in cui Paolo pronuncia queste parole è quello di alcuni che si lasciavano ingannare da pretese ispirazioni spirituali. Questo getta luce anche sulle figure che stanno apparentemente guardando il martirio di Paolo, ma che appaiono subito come uomini dotti e una donna particolarmente sensuale.

L’uomo in primo piano, veste un manto viola, il colore della sapienza, ma anche della penitenza, della volontà di cambiare, della conversione (il viola è il colore liturgico usato in Quaresima). Il suo volto esprime il dolore per la morte di Paolo, inoltre indica con una mano la donna che sale la china sferzata dal vento e con l’altra i bambini impauriti di fronte al martirio. Quest’uomo, dunque, sembra incarnare tutti quei discepoli che del maestro raccolgono e vivono la preziosa eredità; che accettano di convertirsi, di cambiare vivendo appunto la condizione dei bambini nella malizia e quella dei presbiteri nella fortezza di fronte alle avversità della vita. Esattamente come la donna sullo sfondo.

Di fianco a lui un uomo corrucciato di cui si scorge solo il profilo e che indossa un cappuccio verde. Il contrasto con il berretto rosso del personaggio in primo piano è forte e voluto. Indica che i due sono in opposizione. Il verde poi è, da un lato il colore della vita, ma dall’altro anche quello dell’invidia. Costui, dunque, e la donna che sbuca da dietro i due, elegante e dal viso ben curato. raffigurano coloro ai quali Paolo rivolge il monito: non lasciarsi fuorviare dalla malizia che acceca e dal lievito vecchio dell’invidia che impedisce una vera religiosità. Davanti al gruppo il carnefice sta rinfoderando la spada. Ha eseguito la sua condanna. Paolo giace a terra esangue. Il capo, come il piede nella prima scena, giace accanto al trono e nella caduta rimane rivolto verso i discepoli. Un particolare che testimonia l’attaccamento paterno di Paolo alle chiese, il suo assillo quotidiano, che non lo ha mai abbandonato, neppure nel momento supremo della morte. Anche le mani, incrociate e legate dietro la schiena e messe a mo di coppa sembrano voler proteggere i due bambini impauriti, anch’essi simbolo dei discepoli di Paolo.

Sul trono di legno, quasi come una cattedra, Paolo siede indossando il manto rosso, segno del martirio. Nella prima scena, quella di sinistra, Paolo aveva l’abito blu e il manto rosato, perché inondato di luce. Gli stessi identici colori di cui vestiva Gesù, a dire che lì avvenne l’incontro e la decisione della sequela. A destra, nella scena del martirio, il manto rosso è semi coperto dal corpo: il martirio è consumato, resta il blu della notte del dolore e della dimensione ormai spirituale di Paolo. Il suo spirito non è più in quel corpo il suo spirito vive. Ed eccolo di fatto in trono coronato del rosso del martirio, anche la spada che regge con la mano destra è attributo che indica il modo con cui rese testimonianza a Gesù. Ma pure nella gloria l’indomito Paolo non dimentica il suo ruolo di fondatore di chiese. Egli, invece di guardare i suoi devoti fissa lo sguardo nel libro che ha tra le mani. Quel libro sono le sue lettere e sono la vera eredità che egli lascia alla Chiesa perché nella voce di Paolo risplende solo la voce di Dio. «Parola di Dio» il popolo risponde alla lettura dell’epistolario paolino. Egli è così, con Pietro e gli altri apostoli, una delle colonne della Chiesa. Non per nulla il Beccafumi addossa il suo trono a una colonna. Dalla colonna però si diparte un arco che rivela la presenza di Maria. Mai Paolo parlò esplicitamente della Madre, si dice per la grande venerazione che nutriva per lei tanto da sentirsi indegno di solo nominarla. In un solo caso parlò di Maria, per affermare la verità dell’incarnazione e cioè quando disse di Gesù che era, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare quelli che stanno sotto la legge. La Madonna stessa lo accoglie nella gloria come, appunto la Madre di Colui che è la fonte del nostro riscatto. Dietro il manto di Maria sbucano due personaggi, uno tiene fra le mani il crocifisso e ha le piaghe del crocifisso, potrebbe essere Pietro che subì il martirio, si dice nello stesso giorno di Paolo e l’altro, seminascosto potrebbe essere Giacomo il maggiore, il primo fra gli apostoli a dare la vita per Cristo.

All’orizzonte, nascosta fra le nubi, si scorge una città evanescente, forse la Gerusalemme celeste che scende come sposa dal Cielo incontro a chi, come Paolo, si è adoperato dando tutto di sé per edificarla sulla terra. Si chiude così, con questo sguardo all’orizzonte e agli astanti l’itinerario paolino che Domenico Beccafumi, in una sola tavola ha saputo così sapientemente riassumere nelle sue linee fondamentali.

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I discepoli particolare

Madonna e santi particolare

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore,

sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza,

e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l'amore,

non sarei nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze

e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l'amore, niente mi gioverebbe. L'amore è paziente, è benigno l'amore;

non è invidioso l'amore, non si vanta, non si gonfia,

non manca di rispetto, non cerca il suo interesse,

non si adira, non tiene conto del male ricevuto,

non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.

Tutto copre, tutto crede, tutto spera,

tutto sopporta. L'amore non avrà mai fine". ( 1 ai Corinzi cap. 13.)

Anno Santo di San Paolo

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