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A.S. 2007-08 LICEO CLASSICO “DI RUDINÌ” NOTO - III sez A - PERCORSO CLASSICO GRECO DISPENSA prof Paolo Randazzo PAOLO DI TARSO, LETTERA AI ROMANI CRONOLOGIA DI LUDERMANN - 30 = presunta morte di Gesù. - 33 = conversione di Paolo a Damasco. - 36 = Prima visita di Paolo a Gerusalemme. - 37 – 41 = Viaggio con Barnaba in Siria, in Cilicia, Galazia del sud, a Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto. - 50 = Seconda visita di Paolo a Gerusalemme per il Primo Concilio - 51 = Visita a Corinto e incontro col proconsole Gallione. - 53 – 55 = Permanenza a Efeso, in Macedonia e a Corinto. . 55 Terza visita a Gerusalemme per portare la colletta; arresto di Paolo e cambio del procuratore della Giudea (da Antonio Felice a Porcio Festo) - 56 – 58 = Arrivo di Paolo a Roma, prigionia di due anni e probabile martirio. Le lettere considerate autentiche da tutti gli studiosi si porrebbero tra il 41 e il 58 nel seguente ordine: I Ai Tessalonicesi, I Ai Corinzi, Ai Galati, II Ai Corinzi, Ai Romani, Ai Filippesi, A Filemone PAOLO, LE SUE LETTERE E QUELLE DEGLI ALTRI APOSTOLI Di Alceste Santini 1

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A.S. 2007-08 LICEO CLASSICO “DI RUDINÌ” NOTO - III sez A -

PERCORSO CLASSICO GRECO

DISPENSA prof Paolo Randazzo

PAOLO DI TARSO, LETTERA AI ROMANI

CRONOLOGIA DI LUDERMANN

- 30 = presunta morte di Gesù.

- 33 = conversione di Paolo a Damasco.

- 36 = Prima visita di Paolo a Gerusalemme.

- 37 – 41 = Viaggio con Barnaba in Siria, in Cilicia, Galazia del sud, a Filippi, Tessalonica,

Atene e Corinto.

- 50 = Seconda visita di Paolo a Gerusalemme per il Primo Concilio

- 51 = Visita a Corinto e incontro col proconsole Gallione.

- 53 – 55 = Permanenza a Efeso, in Macedonia e a Corinto.

. 55 Terza visita a Gerusalemme per portare la colletta; arresto di Paolo e cambio del

procuratore della Giudea (da Antonio Felice a Porcio Festo)

- 56 – 58 = Arrivo di Paolo a Roma, prigionia di due anni e probabile martirio.

Le lettere considerate autentiche da tutti gli studiosi si porrebbero tra il 41 e il 58 nel

seguente ordine: I Ai Tessalonicesi, I Ai Corinzi, Ai Galati, II Ai Corinzi, Ai Romani, Ai

Filippesi, A Filemone

PAOLO, LE SUE LETTERE E QUELLE DEGLI ALTRI APOSTOLIDi Alceste Santini

Le Lettere o epistole degli apostoli che fanno parte del Nuovo Testamento sono 21 di

cui 14 scritte da Paolo di Tarso, una da Giacomo, due da Pietro, tre da Giovanni e una da

Giuda, fratello di Giacomo, da non confondere con il Giuda Iscariota che tradì Gesù. Gli

apostoli, facendo propria questa forma letteraria, hanno seguito una consuetudine praticata

durante l'impero romano di scrivere delle lettere su carta di papiro e di carattere pubblico sia

da parte dell'imperatore che di letterati o di semplici cittadini. Quelle scritte dagli apostoli,

almeno la gran parte di esse, sono, però, molto più lunghe rispetto, per esempio, a quelle di

Seneca o di Cicerone. E, soprattutto, quelle di Paolo sono sempre dettate dalle circostanze

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o dal bisogno di chiarire rispetto agli attacchi di cui viene fatto bersaglio, questioni dottrinarie

e morali alle comunità cristiane a cui, in modo particolare, si rivolge perché all'interno di

esse l'insegnamento di Gesù non era sempre interpretato in modo corretto ed univoco. Ed è

chiaro che le sue tesi hanno finito per assumere valore dottrinario per tutta la Chiesa. È

quello che i Pontefici hanno continuato a fare con le loro encicliche e con le lettere

apostoliche. Senza voler sminuire l'importanza di una Lettera rispetto ad un'altra, non c'è

dubbio che assumono un rilievo peculiare quelle redatte da Paolo di Tarso. Infatti, questi,

rispetto agli altri apostoli, emerge per la sua vasta cultura generale e biblica, per il suo

temperamento piuttosto focoso e battagliero, per la sua esperienza religiosa singolare per la

sua capacità di parlare schietto ma anche di saper adattare il suo linguaggio alle situazioni e

di ricercare un onorevole compromesso con i pubblici poteri. Pietro, Giovanni, ossia i primi

discepoli di Gesù, hanno cominciato a scoprire interiormente e lentamente la fede ricevuta

dal loro Maestro, come i cristiani di oggi che vengono battezzati dopo la nascita per un atto

che scaturisce da un certo ambiente familiare e si trovano a scoprire il fattore religioso

entrato nella loro formazione attraverso l'esperienza quotidiana nel confronto con gli altri

nella società civile in cui vivono. Paolo invece è un convertito perché solo da adulto dice di

essere stato come "afferrato" da Gesù sulla via di Damasco, senza averlo conosciuto

personalmente. Era, infatti, nato giudeo sia per pane materna che paterna (venne circonciso

otto giorni dopo la nascita come la tradizione imponeva) ed aveva ricevuto una cultura di

impronta ebraica ed ellenistica tanto che nella sua giovinezza era stato un avversario e,

persino, un persecutore dei. cristiani. È dal momento della conversione, avvenuta nel 34,

che Paolo vive la sua passione per Gesù e le sue lettere sono uno documento

indispensabile per seguire l'evoluzione di quella scoperta che aveva sconvolto la sua vita,

della sua concezione religiosa eminentemente cristocentrica perché tutto vede in rapporto al

Cristo, Figlio di DIO, redentore e unico mediatore fra Dio e gli uomini.

Nato intorno all'anno 15 a Tarso, capitale della Cilicia in Asia Minore e crocevia di

civiltà diverse, il futuro apostolo era stato chiamato Saul, un nome giudaico che ricordava re

Saul che si era distinto nella lotta contro gli Idumei, il popolo da cui veniva la dinastia di

Erode che in quel tempo regnava sulla Giudea e su parte della Palestina. La scelta di un

nome come Saul, che non era causale nel mondo semitico, indicava l'appartenenza di Paolo

alla tribù di Beniamino. Era, inoltre, nato cittadino romano ossia con quei particolari diritti e

la dignità del civis che i poteri pubblici erano obbligati in tutto l'impero a far rispettare. Una

sorta di salvacondotto che gli servirà anche dopo che, convertitosi al cristianesimo ed

assunto il nome greco di Paulos e, poi, quello romano di Paolo, ebbe a scontrarsi più volte

con la giustizia dell'impero.

Aveva frequentato l'università della città di Tarso, che allora contava circa trecentomila

abitanti, dove Cicerone aveva fatto il governatore della Cilicia, dove Giulio Cesare fu accolto

da trionfatore e dove Antonio incontrò, come scrive Plutarco, l'affascinante e fatale

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Cleopatra regina d'Egitto. Perciò, Paolo, che parlava, oltre l’aramaico e l'ebraico appresi in

famiglia, correntemente il greco con la pronuncia attica e conosceva pure il latino essendo

un obbligo per tutti i cittadini romani esprimersi in questa lingua, si rivolse con queste parole

ad un tribuno romano: "Io sono un giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo

senza importanza". A Gerusalemme andò a studiare da rabbino e suo padre lo fece

ammettere alla scuola più ellenizzata e liberale dei maestri di quel tempo, Gamaliele,

considerato un grande rabbi che esercitava sull'assemblea del Sinedrio, di cui era membro,

una enorme influenza. Così, Saul perfezionò la lingua ebraica per leggere i libri del Vecchio

Testamento, e l'aramaico per potersi servire dei targum ossia dell'interpretazione dei libri

sacri in lingua volgare e leggere libri importanti come quelli di Daniele e di Esdra e il

Testamento dei Dodici Patriarchi che certamente li ispirarono. Inoltre, il giovane Saul aveva

ricevuto anche una formazione da giurista, che gli servì quando lo processarono più tardi a

Gerusalemme ed abilmente fece appello a Cesare per essere giudicato a Roma e sottrarsi

così alla giustizia di tribunali periferici poco sicuri. Infatti, più tardi a Roma, dove era arrivato

da Malta nella primavera del 58 in seguito ad un avventuroso viaggio fino a Pozzuoli

proseguendo poi a piedi per la capitale dell'impero, fu assolto e restituito pienamente alla

libertà nel 63 dopo due anni di carcere. Aveva anche appreso, com'era d'uso, nozioni di

medicina, che aveva messo in pratica nell'aiutare i medici a contenere un'epidemia di

dissenteria quando, in seguito ad una violenta tempesta, la nave che lo portava a Roma si

era infranta nelle coste di Malta e, cosi, aveva potuto guadagnarsi vitto e alloggio.

Questi sono soltanto alcuni degli episodi che arricchiscono la vita di questo

personaggio, davvero straordinario nella storia del cristianesimo, su cui si sono costruite

anche delle leggende e racconti verosimili secondo cui da Roma si sarebbe recato in

Spagna e, poi, ripercorrendo a ritroso la rotta che aveva fatto verso Occidente come

indicano le lettere a Tito e a Timoteo, avrebbe concluso la sua vita in Asia. Ma alle sue

aperture mentali aveva influito pure quella esperienza di relazioni internazionali (aveva

parenti in Cilicia, in Macedonia, a Gerusalemme come a Roma) acquisita sin da giovane,

ossia da quando, rabbino e sposato, aveva esercitato il mestiere di famiglia,,il tessitore di

tende, nel periodo in cui la città di Tarso era uno dei punti più importanti del commercio

internazionale trovandosi all'incrocio fra il mondo semitico, l'altopiano anatolico, le città

greche e le isole e, al di là di esse, verso l'Egitto e l'Europa fino a Roma. Era cresciuto e si

era formato, quindi, in un ambiente familiare e culturale dagli orizzonti mondiali e con un

grande desiderio di sapere. Ecco perché, durante i suoi viaggi, si portava dietro pergamene

e papiri su cui scriveva le sue annotazioni quotidiane di circa trenta righe, come facevano gli

intellettuali del tempo, e conservava gli schemi e gli appunti dei suoi discorsi e interventi per

essere in grado, quando le circostanze lo richiedevano, di citare i passaggi ritenuti più

importanti e necessari. È con questo vasto bagaglio culturale, religioso e metodologico, che

Paolo intraprende la sua predicazione ai pagani ed i suoi viaggi missionari per le vie del

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mondo tanto da essere, poi, definito "l'apostolo delle genti". Gli si è riconosciuto di essere

stato un punto di unione tra il cristianesimo ed il mondo greco-romano e per aver diffuso il

Vangelo nei vasti territori dell'impero romano fino a Roma lasciando in eredità alla Chiesa

un insegnamento prezioso ed un metodo di dialogo con le diverse culture. Ecco perché

abbiamo voluto tracciare, sta pure a grandi linee anche per stimolare la lettura delle sue

lettere, un breve profilo di questo personaggio dotato di un forte e moderno senso della

comunicazione, che soffrì molto per aver dovuto fronteggiare non pochi contrasti ed accuse

all'interno delle prime comunità, cristiane e dovendosi misurare pure con i poteri pubblici.

Rimane, perciò, una delle più forti ed inconfondibili personalità della Chiesa e della storia,

un uomo molto amato ma anche contrastato.

* * *

COME LEGGERE LA LETTERA AI ROMANI

Di Romano Penna

C’è un doppio, fondamentale consiglio da dare a chi si accinge alla lettura di questo

scritto: prepararsi a qualcosa di impegnativo e poi non scoraggiarsi! Se questo vale in

generale per tutte le lettere di Paolo, tanto più è vero per questa lettera in particolare. Ma

una cosa è certa: la pazienza sarà abbondantemente premiata, perché ci si accorgerà che

ne valeva davvero la pena. Infatti, siamo davanti allo scritto più importante dell’Apostolo,

quello in cui egli impegna maggiormente se stesso nell’interpretazione di ciò che significa

l’evangelo per l’uomo, per ogni uomo.

D’altronde, la lettera ai Romani ha avuto nella storia della Chiesa e della teologia

cristiana un influsso non minore di quello che hanno avuto, poniamo, Platone o Aristotele

sulla filosofia occidentale. Quindi, chi non si stancherà di misurarsi con l’argomentazione qui

dispiegata da Paolo meriterà la promessa che leggiamo nell’Apocalisse: «Al vincitore che

persevera fino alla fine… darò autorità sopra le nazioni» (Ap 2,26); oppure, il che è lo

stesso, verificherà di persona quanto siano vere le parole di Lutero nel suo commento: «Fu

come se per me si aprissero le porte del paradiso».

Le circostanze della composizione

Se la lettera ai Romani è importante per noi, bisogna dire che prima lo è stata già per

Paolo stesso. Infatti, quando egli la scrive si trova in un momento significativo e delicato

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della sua biografia apostolica. È ormai verso la fine del suo terzo viaggio missionario e sta

soggiornando a Corinto (probabilmente al termine dell’anno 54 o all’inizio del 55), appena a

un quarto di secolo dopo la morte di Gesù e dopo aver scritto già un certo blocco di lettere,

cioè: almeno una ai cristiani di Tessalonica, due a quelli di Corinto, una a quelli di Filippi,

una a Filemone (un cristiano della città di Colosse, nell’entroterra di Efeso), e una ai cristiani

della Galazia.

Soprattutto ciò che si verificò nelle Chiese di quest’ultima regione aveva rappresentato

per lui un’esperienza drammatica: l’infiltrazione di alcuni predicatori cristiani ma giudaizzanti

aveva rischiato di imporre ai Galati un’ermeneutica dell’evangelo assai diversa, se non

contraria a quella da lui predicata. Essi infatti pretendevano di coniugare l’adesione a Cristo

con la necessità di osservare la legge mosaica, sicché per essere giusti davanti a Dio non

sarebbe bastata la fede ma si doveva contare anche sulle opere religiose e morali compiute

dall’uomo. Nella lettera indirizzata appunto a quelle Chiese, Paolo aveva affrontato di petto

la questione trattandola in termini molto forti, energici nei toni e radicali nella sostanza. Egli

vi aveva difeso a spada tratta «la verità dell’evangelo» (Gal 2,14), cioè la libertà del cristiano

da ogni vincolo esterno che non sia la pura grazia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo e

accolta con nient’altro che non sia la fede.

Inoltre, quando scrive ai romani, Paolo si trova di fronte a un’altra sfida, che questa volta

egli fa a se stesso. Le regioni e le città fino ad allora interessate dalla sua attività

evangelizzatrice, tenendo conto anche del racconto fattoci da Luca negli Atti, erano state

davvero molte: in Siria, la città di Antiochia; a Cipro, quelle di Salamina e Pafo; in Anatolia,

alcune città delle zone centro-meridionali della Panfilia (Perge), della Pisidia (Antiochia,

Iconio) e della Licaonia (Listra, Derbe), e in più la zona anatolica centro-settentrionale della

Galazia; in Asia, la costa dell’Egeo (Efeso, Colosse); in Grecia, la Macedonia (Filippi,

Tessalonica) e l’Acaia (Atene, Corinto). In ciascuna di queste località aveva suscitato delle

Chiese, cioè dei gruppi (anche se piccoli) di credenti in Cristo provenienti sia dal giudaismo

sia dal paganesimo.

Detto all’ingrosso e con le sue parole, egli ha ormai predicato l’evangelo «da

Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria» (Rm 15,19), e a questo punto pensa di non avere più

un sufficiente campo d’azione in quelle regioni (cf. Rm 15,23a). Da tempo egli coltivava già

l’idea di recarsi finalmente a Roma (cf. Rm 1,13; 15,23b), capitale dell’impero; e poiché

questa per un uomo dell’Oriente è comunque una città occidentale, Paolo progetta

addirittura di spingersi fino all’estremo Occidente dell’area mediterranea, puntando verso la

Spagna (cf. Rm 15,24.28).

Sappiamo, dunque che verso la metà degli anni ’50 Paolo non era ancora stato di

persona a Roma; quindi la Chiesa romana in quanto tale non aveva ancora avuto contatti

concreti con lui. Resta però il fatto che egli, non solo aveva notizia della fede dei romani (cf.

Rm 1,8; 16,19a), ma in più doveva avere tra loro qualche punto d’appoggio, come risulta da

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almeno un paio di indizi: uno è l’interessante serie di ben 24 persone salutate per nome al

termine dello scritto (cf. Rm 16,3-15: un lungo elenco non riscontrabile in nessun’altra

lettera); un altro è l’accorata richiesta di un sostegno nella preghiera in vista del suo

imminente viaggio verso Gerusalemme, dove egli prevede che le cose non sarebbero

andate bene per lui (cf. Rm 15,30-32), come effettivamente avvenne (cf. At 21,17-39).

Certo non sappiamo se la Chiesa di Roma da parte sua avesse il desiderio che egli vi

si recasse a farle visita. Comunque, i cristiani della capitale dovevano non solo aver sentito

parlare di lui, ma anche essere venuti a conoscenza di qualche sua tesi audace, come

quella dell’assoluta preminenza della grazia di Dio nei confronti di ogni comportamento

morale dell’uomo: mentre in alcuni ciò aveva suscitato un’adesione fin troppo entusiasta

spinta fino al travisamento (cf. Rm 3,8), nella maggior parte dei romani aveva suscitato

un’opposizione molto netta (cf. Rm 16,17-18).

L’intento formale dello scritto

In ogni caso, la nostra lettera secondo le intenzioni del mittente avrebbe dovuto

fungere da auto-presentazione e da credenziale. L’estensione e il contenuto del testo

epistolare pongono però un problema di rilievo. Infatti, sapendo che la lettera è composta di

ben 7.100 parole1[1], è inevitabile dedurne che non abbiamo a che fare con un elaborato

qualsiasi. Se già il breve biglietto a Filemone (di sole 335 parole) coniuga il caso personale

dello schiavo Onesimo con la questione più generale della schiavitù dal punto di vista

cristiano, tanto più una lettera così ampia come la nostra non è assolutamente riducibile a

questioni di basso profilo.

In effetti, Paolo non ha scritto né soltanto per presentare la propria carta d’identità, né

soltanto per rintuzzare eventuali accuse, né soltanto per raccomandarsi al supporto dei

romani e tanto meno soltanto per condividere con loro un patrimonio ideale dato già per

scontato. Nella lettera, infatti, i toni amichevoli si trovano solo nella sua cornice (cioè:

all’inizio in Rm 1,1-14; e alla fine in Rm 15,14-16,27); d’altra parte, l’allocuzione diretta ai

destinatari con il «voi» della seconda persona plurale, dagli effetti coinvolgenti, si trova

raramente nel corpo del testo (cf. Rm 1,8-15; 6,1-7,6; 8,9-11.13; 11,13); è invece più

frequente nei capitoli dedicati all’esortazione morale (Rm 12,1-15,13), di cui perciò intere

sezioni molto importanti sono prive (cf. Rm 1,18-5,21; 7,7-8,8.14-39; quasi interamente i cc.

9-11); la stessa interpellazione diretta dei destinatari con l’appellativo di «fratelli», tenuto

conto dell’estensione del discorso, è ancora più rara (cf. Rm 7,1; 10,1; 11,25; 12,1; 15,14;

16,17).

Evidentemente Paolo ha intenzione di trattare delle questioni che vanno molto al di là

della situazione propria dei suoi lettori immediati e che investono le componenti

fondamentali dell’identità cristiana in quanto tale. La lettera perciò si avvicina al genere che

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oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita,

volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò

che da anni andava annunciando in giro per il mondo: si tratta di spiegare non tanto il

contenuto dell’evangelo, che è già chiaro per tutti (cioè: l’identità personale di Cristo come

figlio di Dio e la sua morte-risurrezione per i nostri peccati), quanto piuttosto come vada

concepito l’impatto antropologico di questo annuncio (cioè: che cosa significhi per l’uomo un

evento del genere).

Questo, finora, non lo aveva ancora fatto; o meglio, lo aveva fatto solo parzialmente

nella lettera ai Galati. Ma là, come abbiamo accennato, il tono del discorso era molto

polemico, motivato com’era sia dall’attacco frontale infertogli da alcuni intrusi giudaizzanti,

sia dal fatto che i destinatari della lettera erano cristiani suscitati e quasi generati da lui (cf.

Gal 4,19), il che gli permetteva di esprimersi con una certa libertà di linguaggio (cf. Gal 1,6;

3,1; 5,12). La nostra lettera, invece, è indirizzata a dei lettori che Paolo per lo più non

conosce personalmente e con i quali perciò è – per così dire – obbligato a impiegare toni di

maggiore urbanità e comunque pacati, pur senza rinunciare per nulla ai capisaldi del suo

pensiero.

È questo dato contingente, insieme alle circostanze accennate più sopra, che gli offre

l’occasione di ripensare, ma anche lo induce a farlo, quale sia la portata dell’evangelo a

proposito di ciò che esso stimola e produce nell’uomo. Non che egli offra una

sistematizzazione del proprio pensiero. Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore,

e altrettanto egli non sa costruire la propria argomentazione sulla base della ferrea logica

aristotelica, benché provenga dalla diaspora di lingua greca e non sia affatto digiuno delle

regole che presiedono alla composizione di un discorso.

Anche dopo l’evento della strada di Damasco, la sua matrice semitico-ebraica è

rimasta intatta, e soprattutto è rimasto intatto il suo temperamento generoso e passionale,

che lo portano all’accumulazione dei concetti, all’iperbole, all’antitesi, e persino

all’anacoluto, con cui una frase viene interrotta per passare senza preavviso a un altro

soggetto grammaticale (cf. Rm 2,18-20.21; 5,12; 8,3). D’altra parte, l’annuncio evangelico

non è rinchiudibile negli schemi della logica umana; esso non è dimostrabile, ma semmai

persuasibile, e ciò del resto è conforme all’antica arte retorica dei discorsi, che appunto

tendeva non tanto a dimostrare quanto a convincere; e ciò avviene servendosi di tecniche

retorico-espositive particolari.

In effetti, si vede bene che il linguaggio di cui Paolo dispone dal punto di vista lessicale e

sintattico non è sufficiente a contenere il messaggio che deve trasmettere, e, viceversa, si

percepisce altrettanto bene che in ultima analisi l’annuncio evangelico e la riflessione su di

esso eccedono enormemente le possibilità di quel che è possibile dirne. C’è una sfasatura

tra la parola e il concetto e, se si eccettua il codice linguistico proprio dell’Apocalisse di

Giovanni, solo Paolo (o almeno Paolo più di altri) all’interno delle origini cristiane dimostra

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quanto sproporzionato sia il rapporto tra il messaggio e il linguaggio. Il pensiero deborda lo

scritto, il quale non è un argine bastevole per incanalarne la forza straripante.

Il fatto è che Paolo non espone le cose didatticamente, come potrebbe fare un freddo

cattedratico, che separa la propria scienza dalla propria umanità. È ben diverso dire che due

più due fanno quattro e dire che in Gesù Cristo Dio ha amato tutti gli uomini, me compreso,

fino a definirlo un «Dio per noi» (Rm 8,31). Ecco, Paolo è coinvolto in ciò che dice e scrive,

perché ne va della vita e del senso che ad essa può derivarne dall’evangelo, sicché in gioco

non c’è solo una visione oggettiva delle cose, ma una profonda compromissione soggettiva

ed esistenziale.

L’effettiva posta in gioco

Prima di incontrare personalmente i cristiani di Roma, dunque, Paolo espone loro il

proprio pensiero sulla natura e sulle implicanze dell’evangelo, così che essi sappiano bene

che cosa pensa colui del quale avrebbero dovuto poi fare la conoscenza. L’Apostolo però sa

che a Roma la fede cristiana è vissuta secondo un’interpretazione che non è la sua.

Ciò sarà significativamente confermato nel sec. IV dal primo commentatore romano della

lettera paolina, noto sotto lo pseudonimo di Ambrosiaster (vissuto al tempo di papa

Damaso, 366-384):

I romani… pur non vedendo né segni né miracoli né alcuno degli apostoli, avevano

accolto la fede in Cristo sebbene in un senso falsato: infatti non avevano sentito

annunciare il mistero della croce di Cristo… L’Apostolo impiega tutte le sue energie

per toglierli dalla legge, perché «la legge e i profeti vanno fino a Giovanni», e per

fissarli nella sola fede in Cristo (in sola fide Christi), e quasi contro la legge difende il

vangelo, non distruggendo la legge, ma anteponendo il cristianesimo (Prologo al suo

commento).

Come si vede da questa testimonianza, che esprime l’autocoscienza propria della

stessa Chiesa romana, sono in gioco i grandi concetti di legge e di fede, tra i quali la croce

di Cristo fa da relais e nello stesso tempo da spartiacque. I cristiani di Roma, infatti, erano in

realtà pressoché tutti giudeo-cristiani, cioè facevano coesistere l’adesione a Cristo con

l’osservanza della Torà, sicché la morte di Cristo poteva significare al massimo l’abolizione

dei sacrifici templari (cf. Rm 3,25) ma non l’accantonamento dei vari precetti legali

(classificati successivamente dai rabbini in numero di 613).

Da parte sua, invece, Paolo distingue nettamente i due termini: come accennato, egli

aveva già fatto questa operazione nella lettera ai Galati, ma ora riprende quella tematica e

la sviluppa più ampiamente. Perciò è assolutamente importante rendersi conto di come

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proceda l’esposizione del suo pensiero e come esso vada a strutturare il quadro generale

della lettera e segnatamente il suo corpo centrale (cioè Rm 1,16-15,13.

L’articolazione della lettera

La prima, fondamentale osservazione riguarda l’organizzazione bipartita dell’intera

argomentazione. L’indizio più importante del passaggio da una parte espositiva a un’altra è

l’uso del verbo «esortare» in Rm 12,1, mai impiegato nelle pagine precedenti: con esso

Paolo passa decisamente a un discorso di genere morale, cioè alla richiesta di una condotta

etica che viene dettagliata fino a Rm 15,13 con ammonimenti vari, di carattere sia generale

(incentrati comunque tutti sulla necessità dell’agàpe/amore vicendevole) sia particolari

(come il rapporto all’esterno con le autorità politiche [Rm 13,1-7] e all’interno con coloro che,

essendo deboli nella fede, praticano astinenze da cibi e bevande [Rm 14,1-15,13]).

A questo indizio se ne aggiunge un altro complementare, quello della dossologia con

cui si conclude la sezione precedente in Rm 11,33-36: abbiamo qui una sorta di inno, che

canta l’insondabilità della sapienza di Dio e che per le sue movenze celebrative rappresenta

l’apice di quanto esposto prima.

Perciò l’ultima sezione epistolare, che si apre con uno stacco ben marcato (Rm 12,1:

«Vi esorto, dunque, fratelli»), si presenta come una deduzione di comportamenti vissuti da

intendersi come conseguenza di tutto ciò che l’Apostolo ha precedentemente esposto da

Rm 1,16 fino a Rm 11,36. Ciò che appare sorprendente è il patente sbilanciamento

quantitativo tra le due parti: ai 71 versetti di quest’ultimo segmento epistolare si oppongono i

ben 300 del segmento precedente!

Se dunque la lettera si divide in due parti, risulta evidente che la prima è la più

importante, poiché è qui che si trovano i princìpi e le basi della condotta cristiana. Appare

quindi chiaro che a Paolo interessa di più (e non solo prima) fare un discorso sui fondamenti

che non sulle sue sovrastrutture, sulle radici che non sull’albero, sull’essere che non

sull’agire, in una parola sulle componenti pre-morali della condotta cristiana. Ecco, la lettera

ai Romani ci insegna proprio questo: a non anteporre il dover fare al dover essere. Paolo sa

che, se si chiariscono bene gli elementi portanti, allora la vita cristiana crescerà da sola

producendo naturalmente frutti omogenei alle sue premesse costitutive.

Ebbene, detto in breve, la sezione Rm 1,16-11,36 si può strutturare nel modo

seguente.

Tutto si apre con un’enunciazione di principio, che definisce l’annuncio cristiano nei suoi

elementi formali (Rm 1,16-17).

Seguono tre ampie sotto-sezioni, che ricamano su questo tema e trattano

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a) della situazione di tutti gli uomini, giudei e gentili, accomunati davanti a Dio sia nel

peccato (Rm 1,18-3,20) sia nella giustificazione per fede (Rm 3,21-5,21);

b) della nuova esistenza dei battezzati in Cristo e nello Spirito; qui alle categorie giuridiche

della sezione precedente (giustizia, assoluzione) subentrano altre di tipo mistico

(comunione, filiazione): Rm 6,1-8,39;

c) dell’incredulità di Israele di fronte all’evangelo e della persistente fedeltà di Dio alla

propria promessa di salvezza: Rm 9,1-11,36.

Come si vede, il quadro è ampio e ricco. Non resta che immergervisi, sapendo che

limitarsi a guardarlo ne pregiudica l’esatta comprensione, poiché ciascuno di noi ne fa

comunque parte integrante.

* * *

BRANI DELLA LETTERA AI ROMANI

Cap 5: La giustificazione 1 - 11

Dikaiwqšntej oân ™k p…stewj e„r»nhn œcomen prÕj tÕn qeÕn di¦ toà kur…ou ¹mîn 'Ihsoà Cristoà, di' oá kaˆ t¾n prosagwg¾n ™sc»kamen [tÍ p…stei] e„j t¾n c£rin taÚthn ™n Î ˜st»kamen,

kaˆ kaucèmeqa ™p' ™lp…di tÁj dÒxhj toà qeoà. oÙ mÒnon dš, ¢ll¦ kaˆ kaucèmeqa ™n ta‹j ql…yesin, e„dÒtej Óti ¹ ql‹yij Øpomon¾n katerg£zetai, ¹ d � Øpomon¾ dokim»n, ¹ d dokim¾ ™lp…da� ·¹ d ™lpˆj oÙ� kataiscÚnei, Óti ¹ ¢g£ph toà qeoà ™kkšcutai ™n ta‹j kard…aij ¹mîn di¦ pneÚmatoj ¡g…ou toà doqšntoj ¹m‹n, œti g¦r CristÕj Ôntwn ¹mîn ¢sqenîn œti kat¦ kairÕn Øpr ¢sebîn ¢pšqanen.

mÒlij g¦r Øpr dika…ou tij ¢poqane‹tai· Øpr g¦r toà ¢gaqoà t£ca tij kaˆ tolm´ ¢poqane‹n· sun…sthsin d t¾n ˜autoà ¢g£phn e„j ¹m©j Ð qeÕj Óti œti ¡martwlîn Ôntwn ¹mîn CristÕj Øpr ¹mîn ¢pšqanen. pollù oân m©llon dikaiwqšntej nàn ™n tù a†mati

10

aÙtoà swqhsÒmeqa di' aÙtoà ¢pÕ tÁj ÑrgÁj. e„ g¦r ™cqroˆ Ôntej kathll£ghmen tù qeù di¦ toà qan£tou toà uƒoà aÙtoà,

pollù m©llon katallagšntej swqhsÒmeqa ™n tÍ zwÍ aÙtoà· oÙ mÒnon dš, ¢ll¦ kaˆ kaucèmenoi ™n tù qeù di¦ toà kur…ou ¹mîn 'Ihsoà Cristoà, di' oá nàn t¾n katallag¾n ™l£bomen.

Iustificati igitur ex fide pacem habeamus ad Deum per Dominum nostrum Iesum Christum

per quem et accessum habemus fide in gratiam istam in qua stamus et gloriamur in spe

gloriae filiorum Dei non solum autem sed et gloriamur in tribulationibus scientes quod

tribulatio patientiam operat patientia autem probationem probatio vero spem spes autem

non confundit quia caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus

est nobis ut quid enim Christus cum adhuc infirmi essemus secundum tempus pro impiis

mortuus e vix enim pro iusto quis moritur nam pro bono forsitan quis et audeat mo

commendat autem suam caritatem Deus in nos quoniam cum adhuc peccatores essemus

Christus pro nobis mortuus est multo igitur magis iustificati nunc in sanguine ipsius salvi

erimus ab ira per ipsum si enim cum inimici essemus reconciliati sumus Deo per mortem Filii

eius multo magis reconciliati salvi erimus in vita ipsi non solum autem sed et gloriamur in

Deo per Dominum nostrum Iesum Christum per quem nunc reconciliationem accepimus.

Cap 5: La giustificazione 15 - 21

'All' oÙc æj tÕ par£ptwma, oÛtwj kaˆ tÕ c£risma· e„ g¦r tù toà ˜nÕj paraptèmati oƒ polloˆ ¢pšqanon, pollù m©llon ¹ c£rij toà qeoà kaˆ ¹ dwre¦ ™n c£riti tÍ toà ˜nÕj ¢nqrèpou 'Ihsoà Cristoà e„j toÝj polloÝj ™per…sseusen. kaˆ oÙc æj di' ˜nÕj ¡mart»santoj tÕ dèrhma· tÕ mn g¦r kr…ma ™x ˜nÕj e„j kat£krima� , tÕ d � c£risma ™k pollîn paraptwm£twn e„j dika…wma. e„ g¦r tù toà ˜nÕj paraptèmati Ð q£natoj ™bas…leusen di¦ toà ˜nÒj, pollù m©llon oƒ t¾n perisse…an tÁj c£ritoj kaˆ tÁj dwre©j tÁj dikaiosÚnhj lamb£nontej ™n zwÍ basileÚsousin di¦ toà ˜nÕj 'Ihsoà Cristoà. ”Ara oân æj di' ˜nÕj paraptèmatoj e„j p£ntaj ¢nqrèpouj e„j kat£krima, oÛtwj kaˆ di' ˜nÕj dikaièmatoj e„j p£ntaj ¢nqrèpouj e„j dika…wsin zwÁj· ésper g¦r di¦ tÁj parakoÁj

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toà ˜nÕj ¢nqrèpou ¡martwloˆ katest£qhsan oƒ pollo…, oÛtwj kaˆ di¦ tÁj ØpakoÁj toà ˜nÕj d…kaioi katastaq»sontai oƒ pollo….

nÒmoj d pareisÁlqen †na pleon£sV tÕ par£ptwma� · oá d � ™pleÒnasen ¹ ¡mart…a, Øpeper…sseusen ¹ c£rij, †na ésper ™bas…leusen ¹ ¡mart…a ™n tù qan£tJ, oÛtwj kaˆ ¹ c£rij basileÚsV di¦ dikaiosÚnhj e„j zw¾n a„ènion di¦ 'Ihsoà Cristoà toà Kur…ou ¹mîn.

Sed non sicut delictum ita et donum si enim unius delicto multi mortui sunt multo magis

gratia Dei et donum in gratiam unius hominis Iesu Christi in plures abundavit et non sicut per

unum peccantem ita et donum nam iudicium ex uno in condemnationem gratia autem ex

multis delictis in iustificationem si enim in unius delicto mors regnavit per unum multo magis

abundantiam gratiae et donationis et iustitiae accipientes in vita regnabunt per unum Iesum

Christum igitur sicut per unius delictum in omnes homines in condemnationem sic et per

unius iustitiam in omnes homines in iustificationem vitae sicut enim per inoboedientiam

unius hominis peccatores constituti sunt multi ita et per unius oboeditionem iusti

constituentur multi lex autem subintravit ut abundaret delictum ubi autem abundavit delictum

superabundavit gratia ut sicut regnavit peccatum in morte ita et gratia regnet per iustitiam in

vitam aeternam per Iesum Christum Dominum nostrum

Cap 7: La legge provoca trasgressioni 1 - 25

T… oân ™roàmen; Ð nÒmoj ¡mart…a; m¾ gšnoito· ¢ll¦ t¾n ¡mart…an oÙk œgnwn e„ m¾ di¦ nÒmou, t»n te g¦r ™piqum…an oÙk Édein e„ m¾ Ð nÒmoj œlegen, OÙk ™piqum»seij. ¢form¾n d laboàsa ¹ ¡mart…a di¦ tÁj ™ntolÁj kateirg£sato ™n� ™moˆ p©san ™piqum…an· cwrˆj g¦r nÒmou ¡mart…a nekr£.

™gë d œzwn cwrˆj nÒmou potš� · ™lqoÚshj d tÁj ™ntolÁj ¹� ¡mart…a ¢nšzhsen, ™gë d ¢pšqanon� , kaˆ eØršqh moi ¹ ™ntol¾ ¹ e„j zw¾n aÛth e„j q£naton· ¹ g¦r ¡mart…a ¢form¾n laboàsa di¦ tÁj ™ntolÁj ™xhp£thsšn me kaˆ di' aÙtÁj ¢pškteinen. éste Ð mn nÒmoj ¤gioj� , kaˆ ¹ ™ntol¾ ¡g…a kaˆ dika…a kaˆ ¢gaq». TÕ

12

oân ¢gaqÕn ™moˆ ™gšneto q£natoj; m¾ gšnoito· ¢ll¦ ¹ ¡mart…a, †na fanÍ ¡mart…a, di¦ toà ¢gaqoà moi katergazomšnh q£naton· †na gšnhtai kaq' Øperbol¾n ¡martwlÕj ¹ ¡mart…a di¦ tÁj ™ntolÁj.O‡damen g¦r Óti Ð nÒmoj pneumatikÒj ™stin· ™gë d s£rkinÒj� e„mi, pepramšnoj ØpÕ t¾n ¡mart…an. Ö g¦r katerg£zomai oÙ ginèskw· oÙ g¦r Ö qšlw toàto pr£ssw, ¢ll' Ö misî toàto poiî. e„ d � Ö oÙ qšlw toàto poiî, sÚmfhmi tù nÒmJ Óti kalÒj. nunˆ d oÙkšti� ™gë katerg£zomai aÙtÕ ¢ll¦ ¹ o„koàsa ™n ™moˆ ¡mart…a. oda� g¦r Óti oÙk o„ke‹ ™n ™mo…, toàt' œstin ™n tÍ sark… mou,

¢gaqÒn· tÕ g¦r qšlein par£keita… moi, tÕ d katerg£zesqai tÕ� kalÕn oÜ· oÙ g¦r Ö qšlw poiî ¢gaqÒn, ¢ll¦ Ö oÙ qšlw kakÕn toàto pr£ssw. e„ d Ö oÙ qšlw � [™gë] toàto poiî, oÙkšti ™gë katerg£zomai aÙtÕ ¢ll¦ ¹ o„koàsa ™n ™moˆ ¡mart…a. EØr…skw ¥ra tÕn nÒmon tù qšlonti ™moˆ poie‹n tÕ kalÕn Óti ™moˆ tÕ kakÕn par£keitai· sun»domai g¦r tù nÒmJ toà qeoà kat¦ tÕn œsw ¥nqrwpon, blšpw d ›teron nÒmon ™n to‹j mšles…n mou� ¢ntistrateuÒmenon tù nÒmJ toà noÒj mou kaˆ a„cmalwt…zont£ me ™n tù nÒmJ tÁj ¡mart…aj tù Ônti ™n to‹j mšles…n mou.

tala…pwroj ™gë ¥nqrwpoj· t…j me ·Úsetai ™k toà sèmatoj toà qan£tou toÚtou; c£rij d tù qeù di¦ 'Ihsoà Cristoà toà kur…ou� ¹mîn. ¥ra oân aÙtÕj ™gë tù mn no douleÚw nÒmJ qeoà, tÍ d sarkˆ nÒmJ ¡mart…aj.

Quid ergo dicemus lex peccatum est absit sed peccatum non cognovi nisi per legem nam

concupiscentiam nesciebam nisi lex diceret non concupisc occasione autem accepta

peccatum per mandatum operatum est in me omnem concupiscentiam sine lege enim

peccatum mortuum erat ego autem vivebam sine lege aliquando sed cum venisset

mandatum peccatum revixit ego autem mortuus sum et inventum est mihi mandatum quod

erat ad vitam hoc esse ad mortem nam peccatum occasione accepta per mandatum seduxit

me et per illud occidit itaque lex quidem sancta et mandatum sanctum et iustum et bonum

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quod ergo bonum est mihi factum est mors absit sed peccatum ut appareat peccatum per

bonum mihi operatum est mortem ut fiat supra modum peccans peccatum per mandatum

scimus enim quod lex spiritalis est ego autem carnalis sum venundatus sub peccato quod

enim operor non intellego non enim quod volo hoc ago sed quod odi illud facio si autem

quod nolo illud facio consentio legi quoniam bona nunc autem iam non ego operor illud sed

quod habitat in me peccatum scio enim quia non habitat in me hoc est in carne mea bonum

nam velle adiacet mihi perficere autem bonum non invento non enim quod volo bonum hoc

facio sed quod nolo malum hoc ago si autem quod nolo illud facio non ego operor illud sed

quod habitat in me peccatum invenio igitur legem volenti mihi facere bonum quoniam mihi

malum adiacet condelector enim legi Dei secundum interiorem hominem video autem aliam

legem in membris meis repugnantem legi mentis meae et captivantem me in lege peccati

quae est in membris meis infelix ego homo quis me liberabit de corpore mortis huius gratia

Dei per Iesum Christum Dominum nostrum igitur ego ipse mente servio legi Dei carne autem

legi peccati

Cap. 8 l’opera dello Spirito santo 26 - 39

`WsaÚtwj d kaˆ tÕ pneàma sunantilamb£netai tÍ ¢sqene…v ¹mîn· tÕ g¦r t… proseuxèmeqa kaqÕ de‹ oÙk o‡damen, ¢ll¦ aÙtÕ tÕ pneàma Øperentugc£nei stenagmo‹j ¢lal»toij· Ð d � ™raunîn t¦j kard…aj oden t… tÕ frÒnhma toà pneÚmatoj� , Óti kat¦ qeÕn ™ntugc£nei Øpr ¡g…wn� . o‡damen d Óti to‹j ¢gapîsin� tÕn qeÕn p£nta sunerge‹ e„j ¢gaqÒn, to‹j kat¦ prÒqesin klhto‹j oâsin. Óti oÞj prošgnw, kaˆ proèrisen summÒrfouj tÁj e„kÒnoj toà uƒoà aÙtoà, e„j tÕ enai aÙtÕn prwtÒtokon ™n pollo‹j� ¢delfo‹j oÞj d proèrisen� , toÚtouj kaˆ ™k£lesen· kaˆ oÞj ™k£lesen, toÚtouj kaˆ ™dika…wsen· oÞj d ™dika…wsen� ,

toÚtouj kaˆ ™dÒxasen.

T… oân ™roàmen prÕj taàta; e„ Ð qeÕj Øpr ¹mîn� , t…j kaq' ¹mîn; Ój ge toà „d…ou uƒoà oÙk ™fe…sato, ¢ll¦ Øpr ¹mîn p£ntwn� paršdwken aÙtÒn, pîj oÙcˆ kaˆ sÝn aÙtù t¦ p£nta ¹m‹n car…setai; t…j ™gkalšsei kat¦ ™klektîn qeoà; qeÕj Ð dikaiîn· t…j Ð katakrinîn; CristÕj ['Ihsoàj] Ð ¢poqanèn, m©llon d ™gerqe…j� , Öj

14

ka… ™stin ™n dexi´ toà qeoà, Öj kaˆ ™ntugc£nei Øpr ¹mîn� . t…j ¹m©j cwr…sei ¢pÕ tÁj ¢g£phj toà Cristoà; ql‹yij À stenocwr…a À diwgmÕj À limÕj À gumnÒthj À k…ndunoj À m£caira; kaqëj gšgraptai Óti “Eneken soà qanatoÚmeqa Ólhn t¾n ¹mšran,

™log…sqhmen æj prÒbata sfagÁj. ¢ll' ™n toÚtoij p©sin Øpernikîmen di¦ toà ¢gap»santoj ¹m©j. pšpeismai g¦r Óti oÜte q£natoj oÜte zw¾ oÜte ¥ggeloi oÜte ¢rcaˆ oÜte ™nestîta oÜte mšllonta oÜte dun£meij oÜte Ûywma oÜte b£qoj oÜte tij kt…sij ˜tšra dun»setai ¹m©j cwr…sai ¢pÕ tÁj ¢g£phj toà qeoà tÁj ™n Cristù 'Ihsoà tù kur…J ¹mîn.

Similiter autem et Spiritus adiuvat infirmitatem nostram; nam quid oremus sicut oportet

nescimus; sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus. Qui autem

scrutatur corda scit quid desideret Spiritus, quia secundum Deum postulat pro sanctis.

Scimus autem quoniam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum his qui secundum

propositum vocati sunt sancti. Nam quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imaginis

Filii eius ut sit ipse primogenitus in multis fratribus. Quos autem praedestinavit, hos et

vocavit; et quos vocavit, hos et iustificavit; quos autem iustificavit, illos et glorificavit.

Quid ergo dicemus ad haec? si Deus pro nobis, quis contra nos? Qui etiam proprio Filio suo

non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum, quo modo non etiam cum illo omnia nobis

donabit? Quis accusabit adversus electos Dei? Deus qui iustificat? Quis est qui condemnet?

Christus Iesus qui mortuus est, immo qui et resurrexit, qui est ad dexteram Dei, qui etiam

interpellat pro nobis? Quis ergo nos separabit a caritate Christi? Tribulatio? an angustia? an

persecutio? an fames? an nuditas? an periculum? an gladius? sicut scriptum est

Quia propter te mortificamur tota die

aestimati sumus ut oves occisionis.

Sed in his omnibus superamus propter eum, qui dilexit nos. Certus sum enim quia neque

mors neque vita, neque angeli neque principatus neque virtutes, neque instantia neque

15

futura, neque fortitudo, neque altitudo neque profundum neque creatura alia poterit nos

separare a caritate Dei, quae est in Christo Iesu Domino nostro

Incontro con Padre Adriano Minardo: “Paolo e il problema della giustificazione”

“SE CRISTO SUPERA LA LEGGE CHE VALORE CONTINUA AD AVERE LA LEGGE PER

ISRAELE, PER I CRISTIANI E PER NOI?”

Il tema trattato da San Paolo nella Lettera ai Romani è quello della giustificazione,

tema che viene trattato con toni più polemici nella Lettera ai Galati, nella quale San Paolo si

batte contro l’ideologia d’Israele.

San Paolo nacque qualche anno dopo la nascita di Gesù a Tarso in Cilicia. In seguito

si trasferisce a Gerusalemme dove incontrerà il rabbino Gamaiele. A Roma parteciperà

anche al complotto contro Stefano martire. Convertitosi al cristianesimo Paolo annunciò il

cristianesimo oltre la Palestina;noti sono i suoi numerosi viaggi funzionali a questo scopo.

Andò ad Efeso,poi ad Atene,a Corinto,in seguito tornò a Gerusalemme dove venne

condannato e imprigionato dai Giudei, ma essendo cittadino romano poté appellarsi

direttamente all’imperatore per essere giudicato secondo la legge romana (si può trovarne

riscontro negli Atti degli Apostoli).Così arriva a Roma dove subirà il martirio (la datazione di

tale evento è ancora controversa,si ipotizzano il 61 e il 67 d.c.). Nel suo viaggio verso Roma

Paolo toccò i porti di Malta,di Siracusa e di Pozzuoli.

San Paolo scrive la Lettera ai Romani intorno al 54 d.c. mentre si trovava a Corinto.

Ricordiamo che San Paolo scrisse circa tredici lettere, delle quali due sono indubbie. La

Lettera ai Romani risponde ad una domanda precisa ed ha la funzione di lettera

preparatoria visto che è indirizzata alla comunità dei Giudei presenti a Roma che Paolo non

conosce. In altre lettere Paolo tratterà temi come quelli della riconciliazione e della

pace,mentre in questa lettera il tema è quello della giustificazione.

16

Difatti all’inizio dal cristianesimo Gesù si pone come novità e perciò la sua dottrina

deve farsi conoscere da tutti. Per tale ragione Paolo rivolge la sua lettera ai Giudei

rispondendo così a questioni molto dibattute tra Giudei e Cristiani:

- i Giudei devono abbandonare la loro Legge(la Torah) oppure no?

- coloro che sono fedeli, ma non ebrei, devono o no essere circoncisi?

Alla seconda domanda Paolo risponde dicendo che non è necessario che un pagano venga

circonciso,difatti la circoncisione è un elemento esterno e non necessario per il

conseguimento della salvezza.

La prima questione invece risulta molto più dibattuta. I Giudei non volevano convertirsi

al cristianesimo non ritenendo necessaria la figura di Gesù per raggiungere la salvezza:

nella loro cultura infatti l’unico elemento necessario a tale fine era la Torah. Nella loro ottica

Gesù era sì un salvatore, ma non il loro.

Paolo nella Lettera ai Romani deve così dimostrare che la circoncisione non è

necessaria e che la sola Torah non basta per la salvezza,il tutto deve essere ricondotto alla

diversa concezione di giustizia dei Giudei e di Paolo. Per il Giudeo è giusto chi segue la

Legge, per Paolo invece Dio è giusto perché è rimasto fedele alle sue promesse inviando

Cristo e riesce a rendere ragione al comportamento dell’uomo, ma l’uomo in realtà, pur

seguendo la Torah,non può considerarsi intimamente giusto perché il suo cuore è malvagio.

Le opere considerate esternamente giuste da chi segue la Legge possono essere viziate

internamente dal nostro sentimento; Gesù stesso lottò contro questo carattere delle opere.

Di conseguenza la Legge non giustifica l’uomo dinanzi a Dio.

Dio non è indifferente al male che l’uomo commette, per questa ragione

Paolo,apportandola come argomento,sfrutta “l’ira di Dio” per sottolineare il fatto che l’ultimo

giudizio spetta sempre a Dio.

Per rendere giusto l’uomo era necessario che qualcuno si assumesse tutte le colpe

dell’uomo,tale fu il ruolo di Gesù,che con la sua venuta ha quindi reso giusto l’uomo

redimendolo dal peccato. Dio,primo fra i giusti,rende giusto l’uomo.

Quest’ultimo concetto è stato indiscusso dall’inizio del I sec d.c. fino al XV sec. Nel XVI

sec fu Martin Lutero a dare una forte scossa a questo impianto dottrinale. Per la prima volta

il cristianesimo si scontra con la categoria aristotelica della storia. Il pensiero di Lutero ha

origine dalla stessa lettura delle Lettere paoline che colpisce la sua spiccata sensibilità,egli

infatti dimostrò la sua immane paura dell’ira di Dio e ne trovò riscontro in San Paolo. In una

notte di temporale,difatti,lesse il versetto 17 del Cap I della Lettera ai Romani,”il giusto vivrà

per fede”, questa frase gli fece capire che le opere buone non servivano per raggiungere la

salvezza che ha già conquistato Gesù con il suo sacrificio,ma si rende anche conto che

Gesù non rende l’uomo giusto intrinsecamente,ma si limita a coprire i peccati. La

giustificazione protestante è così solo formale e non inerisce la persona. Lutero si era

accorto che la natura dell’uomo era corrotta,ma per il cattolicesimo la natura dell’uomo non

17

è corrotta in quanto la visione antropologica cristiana è positiva:è la Grazia che coopera

insieme alle opere buone per la salvezza. Le opere buone non sono una causa strumentale

ma cooperano con la Grazia che ha una funzione preventiva. Fu appunto questa la risposta

che il Concilio di Trento diede a Lutero. Oggi grazie al dialogo ecumenico il tema della

giustificazione non interessa più i teologi.

Dopo queste argomentazioni la risposta alla domanda iniziale è molto semplice:per

Israele la Legge è come la Magna Charta dell’alleanza con Dio, che non può esistere senza

la Torah,per gli ebrei, difatti la Legge è essenziale;per i cristiani l’osservanza della Legge di

per sé non è una cosa negativa,ma la Legge può dire solo cosa si deve fare,ma non

salva;per noi la Legge oggi ha lo stesso valore che ha per i cristiani.

* * *

Paolo e la cultura ebraica

Per quanto riguarda questa problematica citiamo i punti di vista del biblista Paolo Sacchi e

dello teologo e filosofo ebreo Taubner come descritto e spiegato dalla studiosa Donatella Di

Cesare.

Paolo e il fondamento della morale cristiana

Vorrei provare a mostrare come può essere nato in Paolo un problema e come cercò

di risolverlo: il discorso risulterà più complesso, perché non si fonda su uguaglianze

statiche, ma sulla ricerca di una dinamica, che faccia risaltare il problema adducendo vari

referenti mentali che aiutarono Paolo a risolverlo.

Si legge nel vangelo di Marco che Gesù, in quanto Figlio dell'Uomo, cioè giudice

supremo in luogo di Dio e in funzione della sua giustizia, aveva anche il potere di perdonare,

evidentemente proprio perché giudice assoluto. E' l'episodio della guarigione del paralitico

che si trova nella prima parte del vangelo (Marco, 2, 1-12). Il fatto è noto: Gesù, vedendo la

pistis (fede, come è tradotto normalmente, o meglio, in questo caso, fiducia) di coloro che gli

hanno portato il paralitico e forse anche del paralitico stesso, dice rivolto al paralitico: "Sono

rimessi i tuoi peccati". Il perdono non dipende da una richiesta, nemmeno implicita, che

presupporrebbe il pentimento. E' atto assolutamente gratuito.

A Paolo un comportamento di Gesù di questo genere creò problemi, o meglio, li creò

negli animi dei suoi ascoltatori ebrei, che non poterono non porli a Paolo, la cui risposta fu

complessa, segno che il problema era difficile a risolversi in termini razionali anche da parte

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sua. Ciò è documentabile non agli inizi della sua predicazione, ma fra gli anni 54 e 57, anni

probabili della composizione delle Epistole ai Corinzi e di quella ai Romani. Non è tanto la

parola pistis , che egli intende ormai come fede , che fa difficoltà a Paolo e ai suoi ascoltatori,

ma il rapporto, anomalo per la maggior parte degli ebrei, che si viene ad instaurare fra

comportamento umano e retribuzione divina. Paolo deve reinterpretare le scritture e la loro

tradizione interpretativa, per potervi iscrivere anche il comportamento e il pensiero di Gesù.

Per trovare il senso del presente, deve rifarsi al passato scritturistico: niente di più ebraico.

Scrive Paolo in Romani, 3, 21 sgg.: "Ora, dunque, indipendentemente dalla Legge si è

manifestata la giustizia di Dio, cui la Legge stessa e i profeti (cioè la scrittura nel suo

insieme, intesa come testo profetico) rendono testimonianza: giustizia di Dio che si ottiene

mediante la fede in Gesù Cristo, a disposizione di tutti coloro che credono - senza

distinzione (cioè fra ebrei e pagani), perché tutti (lo ha già detto prima, al v. 12 ed ora

riprende le conclusioni già enucleate) hanno peccato, cosicché tutti sono privi della gloria di

Dio, ma giustificati gratuitamente dalla grazia di lui, per mezzo della redenzione che avviene

per mezzo di Gesù Cristo".

Ho insistito più volte che il concetto di giustificazione è in quest'epoca pangiudaico,

perché è ormai coscienza comune che il giusto oggetto delle cure di Dio, di cui spesso

parlano le scritture, né esiste, né può esistere. Anche gli esseni credevano in una

giustificazione più o meno per fede, i farisei in una giustificazione per mezzo delle opere

(cioè, detto semplicemente, una certa quantità di opere buone cancellava una certa quantità

di opere cattive). Nel I secolo pertanto il problema non era "chi è il giusto che si salva", ma

"chi può essere considerato giusto da Dio, così da essere salvato".

Il problema, dunque, di Paolo non era la giustificazione in quanto tale, né le sue

condizioni. Anche su questo punto non aveva dubbi: era la fede nel Cristo. Il problema di

Paolo era un altro. Come è possibile predicare una morale di vita (e Paolo certamente la

predicava) e dichiarare contemporaneamente che questa era indifferente rispetto alla

salvezza? Qualcuno, infatti, che aveva ascoltato la predicazione di Paolo, lo aveva

interpretato nel senso che egli avesse abolito ogni morale, se non addirittura che avesse

consigliato di compiere quanto più male possibile. Lo racconta egli stesso in Romani, 3, 8:

"Perché non dovremmo fare il male, affinché venga il bene, come alcuni...ci calunniano,

dicendo che lo affermiamo?".

Predicare una vita attiva nel bene e contemporaneamente dichiarare inutili alla

salvezza le opere doveva produrre un certo smarrimento in mezzo ai credenti, specie se

provenienti dalle file del farisaismo. Ma non doveva essere migliore nemmeno la condizione

spirituale di coloro che venivano dall'essenismo. Sapevano che la salvezza era per fede, ma

19

nel loro predeterminismo, consideravano la Legge come lo specchio voluto da Dio in cui

l'uomo poteva cogliere, diciamo così nel suo esame di coscienza, il suo procedere sulla via

della salvezza. La Legge era valida, perché voluta da Dio e i suoi eletti non potevano che

praticarla. Ma Paolo era radicale nell'annunciare il superamento della Legge stessa, il cui

valore era duplice: storicamente era il pedagogo che ci aveva condotti al Cristo;

filosoficamente era il mezzo attraverso il quale il male che è tale già prima della legge e,

quindi, indipendentemente da questa, diventa trasgressione (Romani, 7, 13). E' per questo,

come è noto, che la Legge, per Paolo, non può portare alla salvezza.

Di questa difficoltà derivante dai contorni nettissimi della teologia paolina della

salvezza per fede c'è eco anche in Pietro. Dovevano essere situazioni spirituali come quelle

descritte sopra che fecero sospirare il buon Pietro con queste parole (Seconda epistola di

Pietro, 3, 16): "Le sue (di Paolo) lettere contengono passi difficili a comprendersi, il

significato dei quali...viene sconvolto dagli ignoranti e dai deboli, a loro perdizione". Questa

menzione dei "deboli" sembra proprio alludere al problema morale.

Paolo avverte la necessità di legare la vita attiva dell'uomo cristiano a quella unità che

è l'uomo destinato alla salvezza o alla perdizione. E il problema gli nasce certamente

dall'esperienza della predicazione, dai contatti umani che ne seguivano. In 6, 12 della Prima

epistola ai Corinzi c'è una frase che ha sempre fatto difficoltà ai commentatori e che talora

viene stampata fra virgolette, come pensiero di Paolo travisato, sia pure appartenente alla

sua predicazione o addirittura come pensiero di qualche avversario. In definitiva, non

sarebbe pensiero di Paolo, o almeno non pensiero di Paolo da porre in questo contesto.

Credo invece che si tratti non solo di pensiero paolino, ma di pensiero paolino che sviluppa

il discorso in cui è inserito. Solo che per capirlo va calato nei referenti mentali degli ebrei del

tempo. Si legge, dunque, in questo versetto: "Tutto mi è permesso, ma non tutto giova".

Conseguenza del superamento della Legge (il pedagogo che ci ha portati al Cristo) è

proprio il fatto che non ha più un senso parlare di "è lecito" e di "non è lecito" ed è da frasi

come questa che può essere nata la diceria che Paolo aveva abolito la morale. Ma anche

Paolo si accorgeva col passare degli anni che alla sua predicazione morale mancava una

base unitaria, ché per gli ebrei, per tutti gli ebrei, l'unico fondamento della morale era la

Legge. E' vero che Paolo, e prima di lui l'autore del Documento di Damasco, avevano

scoperto quel concetto che, in termini moderni, potrebbe essere definito della "morale

naturale". Ma nella Prima Epistola ai Corinzi Paolo non si mette su questa strada, cerca

qualcosa di più concreto, di più comprensibile ai suoi connazionali.

Se è vero che, superata la Legge, tutto diventa lecito, resta tuttavia il fatto che non

tutto giova. Cerchiamo ora di individuare i referenti mentali di Paolo e degli ebrei dell'epoca

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che possono chiarire questo punto. Ma prima guardiamo come si sviluppa il discorso di

Paolo fino al punto in cui ha inserito la frase discussa "Tutto mi è lecito...". Paolo stava

facendo un'aspra rampogna contro chi commetteva ingiustizia. Non si facciano illusioni i

cristiani (dunque, qualcuno se le faceva) : fornicatori, idolatri, adulteri,..., ladri, avari,

ubriaconi, maldicenti, rapinatori non erediteranno il regno di Dio. Paolo prosegue ricordando

che il cristiano è un giustificato. E' a questo punto che viene fuori la frase "Tutto mi è

permesso". E' come se dicesse: E' vero che la giustificazione è indipendente dalle opere,

ma non per questo siete liberi di commettere il male, perché il male è fra le cose che non

giovano.

Quest'affermazione piuttosto oscura per chi ha letto Machiavelli e non solo per quello,

era invece chiarissima per un ebreo del tempo. Una categoria del giudaismo (spesso

discussa, ma generalmente accettata da tutti gli ebrei di tutti i tempi) è quella del

puro/impuro. Senza volerne qui ripercorrere la storia fin dalle origini, possiamo dire che il

concetto di impuro al tempo di Gesù era quanto mai vasto. L'impurità era una realtà (una

cosa) negativa per l'uomo che era legata sia ad alcune cose (come il sangue, gli animali che

strisciano, il cadavere) sia alla vita sessuale (l'atto sessuale contamina sempre

indipendentemente dalla sua liceità), sia o ciò che oggi chiamiamo vita morale, perché

anche il peccato contamina, cioè depotenzia e, in definitiva, distrugge l'uomo. Il sesso era

considerato una fonte di impurità molto grave. Si noti come Paolo nell'elenco delle colpe che

i cristiani devono evitare cominci proprio dalla fornicazione. Era un modo comune di

ragionare di allora. Già i Settanta avevano invertito l'ordine del quinto e del sesto

comandamento. La logica classica era "Non togliere la vita, non rubare la donna, non rubare

le cose". Adesso la logica è "Non contaminare (il sesto comandamento ha così allargato e

cambiato il suo valore originario), non uccidere, non rubare". Norme di purità

particolarmente severe riguardavano soprattutto coloro che erano addetti al culto nel

tempio.

Ed ecco come prosegue il discorso di Paolo. "Non sapete che i vostri corpi sono

membra di Cristo?" E ancora e più chiaramente: "Non sapete che il vostro corpo è tempio

dello Spirito Santo?". In questo passo Paolo fa il tentativo di fondare la morale cristiana sul

modo con cui ci si deve comportare al tempio, in quanto il cristiano, in un certo senso, è

sempre nel tempio. L'affermazione è tutt'altro che audace per un ebreo del I secolo: anche

gli esseni da tempo consideravano la loro comunità sostitutiva del tempio; ogni esseno era

una pietra del tempio puro, che sostituiva quello contaminato di Gerusalemme. Come si

vede, motivi per opporsi gli uni agli altri agli ebrei non mancavano, ma si trattava di scontri

che presupponevano sempre idee e problemi ebraici. Paolo non fa eccezione a questa

regola.

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Paolo si deve bene essere reso conto che questa via non risolveva il problema, perché

i contenuti della purità erano stati modificati da Gesù. Così Paolo, quando riprese la

metafora del tempio nella Seconda Lettera ai Corinzi (cap. 6, 16) per indicare l'insieme di

coloro che credono nel Cristo ("Noi siamo il tempio del Dio vivente") allargò il discorso ad

una forma di ascesi, per cui il cristiano è chiamato "a purificarsi da ogni macchia della carne

e dello spirito" (7, 1). La vita cristiana deve procedere come vita di separazione dai pagani o

almeno dai loro vizi, ma il versetto biblico citato da Paolo a conferma della sua tesi è quello

che è: (6, 17) "Uscite di mezzo a quelli e separatevene e non toccate nulla di impuro" (Isaia,

52, 11, riadattato da Paolo).

Ma se questa via di ascesi è essenzialmente negativa (separazione dai vizi dei pagani,

con l'espressione equivalente e quanto mai significativa "non toccate nulla di impuro"),

Paolo cerca di battere anche un'altra via con motivazioni opposte, positive e non negative.

Penso al famoso cap. 13 della Prima Epistola ai Corinzi, che è tutto un inno all'Amore.

Quest' Amore (con la A maiuscola) di cui parla Paolo non va confuso con l'amore per il

prossimo, perché anche se un uomo desse tutti i suoi beni ai poveri, non ne trarrebbe alcun

giovamento: è la stessa logica che ha guidato il ragionamento di Paolo della Seconda ai

Corinzi: è vero che tutto è lecito, ma è altrettanto vero che non tutto giova: sia chiaro,

nemmeno dare il suo ai poveri giova: dunque, non è un problema semplicemente di amore

per il prossimo. E Paolo sta cercando di indicare che cosa sia quello che giova. Lo sfondo

concettuale, l'insieme dei referenti mentali che giustificano le conclusioni vanno ricostruiti

dal discorso stesso, perché Paolo non li indica mai chiaramente: forse non era in grado egli

stesso di verbalizzarli.

Quest'Amore che Paolo ha in mente è affine alle virtù umane e a quelle caratteristiche

cristiane quali la fede e la speranza, ma si distingue da queste per un motivo fondamentale:

mentre tutte le virtù sono destinate a scomparire, legate come sono a questa vita effimera

nel corpo, l'Amore non può scomparire mai (13, 8): in altri termini, è eterno. L'Amore, perciò,

è qualcosa che appartiene già alla sfera del divino. Chi vive nell'Amore è talmente legato a

Dio, che non può agire se non secondo la Sua volontà.

Quest'idea che sembra così paolina (anche se qualcuno ne ha messa in dubbio

l'autenticità) e così nuova, è nuova solo nel senso che in Paolo si radica nella fede nel

Cristo e non altrimenti, ma qualcosa di molto simile si può ritrovare anche presso gli esseni.

Vorrei avvicinare al passo paolino uno tratto dalla Regola della Comunità, 4, 3, passo che

appartiene secondo recenti studi alla fase più tarda dell'essenismo: siamo pertanto in

un'epoca non molto anteriore a quella in cui visse Paolo.

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"(Lo spirito del bene o di verità) illumina il cuore dell'uomo e stende davanti a lui tutte le vie

della giustizia vera, fa sì che il suo cuore tema i giudizi di Dio; (e questa via di vera giustizia

è costituita da) umiltà (ruah `anawah), pazienza ('orek 'appaym), amore abbondante (rob

rahamim), Bene eterno o cosmico (tob `olamim), intelletto (sekel), intelligenza (binah),

somma sapienza (hokmat geburah)."

In questo elenco abbiamo tre virtù pratiche e tre dianoetiche, disposte in climax ascendente:

umiltà, pazienza, amore e intelletto, intelligenza, sapienza somma. Cerniera fra le due serie

di virtù umane è il tob `olamim, che le trascende: non è più umano, ma cosmico o eterno. Il

primo gradino umano è formato da umiltà e intelletto, il secondo da pazienza e intelligenza,

il terzo da amore e somma sapienza. La linea di una ascesi è tracciata con la massima

chiarezza.

Chi è salito fino al terzo gradino raggiunge il tob `olamim, che in qualche modo lo eterna. E'

la sfera del divino che penetra nell'uomo. Nell'apocalittica del Libro dei Vigilanti l'uomo

portava in sé un'anima immortale destinata a vivere nelle caverne dei beati o in quelle dei

dannati, ma anima e corpo sono come separati fra di loro: l'uomo giusto, o comunque degno

della salvezza, attende di penetrare nel mondo dello spirito. Nell'essenismo avviene il

rovescio: la sfera dello spirito e del divino penetra nell'uomo già in questa vita. Non fa

stupore pertanto che nei testi essenici non si parli mai in maniera esplicita dell'immortalità

dell'anima, che sarebbe problema destinato a restare sub iudice, se non avessimo

l'affermazione esplicita di Giuseppe Flavio. In realtà, l'esseno raggiunge l'eterno e se ne

lascia compenetrare già in questa vita.

Vengono adesso pubblicati alcuni frammenti di un'opera intitolata dagli editori Regola della

liturgia dell'olocausto del sabato, che doveva contenere tredici inni da recitarsi in occasione

dei tredici sabati della prima stagione dell'anno. Si tratta di una liturgia degli angeli alla quale

partecipano anche gli esseni. L'esseno vive già in questa vita nel tempio eterno degli angeli

e di Dio.

Questo che abbiamo detto adesso è essenismo e non cristianesimo, ma un rapporto fra il

pensiero di Paolo e quello di Qumran esiste ed è ben marcato.

Ritornando a Paolo, è chiaro che una volta che l'uomo ha raggiunto l'Amore si trova in una

situazione simile a quella di chi ha raggiunto il Bene eterno. L'espressione essenica è più

oggettiva di quella di Paolo. Paolo sembra far coincidere nell'Amore ciò che gli esseni

tenevano separato come amore e come Bene eterno, dove il primo è passo obbligato per

raggiungere il secondo. In Paolo l'Amore riassume in sé, per sua natura, anche l'amore con

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la a minuscola, ma l'Amore di Paolo ha lo stesso carattere di eternità del Bene eterno

essenico.

A questo punto il problema del "lecito" e del "non lecito" è manifestamente superato: Dio è

nello stesso tempo fonte dell'essere e del comportamento dell'individuo. Non c'è più frattura

fra ciò che noi chiamiamo l'essere e il dover essere.

Guardiamo un caso di novità in Paolo, in cui si coglie bene sia il suo distacco

dall'essenismo, sia la sua innegabile maggiore vicinanza al pensiero essenico che a quello

farisaico. Esiste una lunga tradizione di pensiero che è partita dalla prima apocalittica,

secondo la quale la natura del mondo e dell'uomo è stata sciupata da un peccato

commesso fuori di essa: il peccato angelico. L'essenismo riprese l'idea modificandola nel

senso che il peccato angelico non fu peccato libero, in quanto Satana fu creato tale da Dio,

per "odiarlo", come dice la Regola della Comunità (4, 1); ma l'idea che la natura sia stata

sciupata da questo fatto, sia pure diversamente valutato, fu anche essenica. Anzi

l'essenismo la radicalizzò vedendo nell'uomo solo una struttura di peccato, peccatore in

questo senso fino dal seno materno. L'assenza di questa concezione della natura sciupata

nel farisaismo crea uno scarto robustissimo fra le due correnti, o meglio: fra farisaismo e

sadduceismo da un lato, e tutte le altre correnti dall'altro.

Ora noi vediamo che Paolo non conosce il peccato angelico, pur conoscendo Satana, con

funzioni di tentatore, ma non molto marcate, perché del diavolo Paolo. Per Paolo la natura

umana è sì sciupata, ma a causa del peccato di Adamo e la differenza non è piccola, anche

se la categoria paolina si iscrive perfettamente nel pensiero ebraico e solo in quello. E'

chiaro che il peccato di Adamo ha la stessa funzione, nel pensiero di Paolo, che

nell'apocalittica e nell'essenismo aveva il peccato angelico, ma il fatto di aver scelto un mito

diverso per spiegare la stessa cosa ha la sua importanza: il peccato ha la sua origine nella

sfera umana. "Per colpa di uno la condanna si è riversata su tutti" (Romani, 5, 18).

Ed è interessante notare che la concezione paolina fu ripresa anche in ambienti apocalittici,

se il Quarto Libro di Ezra (inizi del II sec. d.C.) l'accoglie, la sviluppa e la radicalizza, fino ad

arrivare ad una concezione molto pessimistica del destino umano: l'uomo è libero e quindi

pienamente responsabile delle sue azioni, ma è anche sottoposto alla legge (3, 19-20; 9,

31-32), che finisce sempre col tradire; il suo destino non può essere che la dannazione

eterna. Sarebbe stato meglio che la terra non avesse mai prodotto Adamo.

Se l'esigenza di unificare la Legge o comunque di trovarne il denominatore comune è tipica

del cristianesimo e si ritrova in qualche testo apocalittico, come già abbiamo visto, non fu

estranea nemmeno al farisaismo, anche se questa esigenza ebbe nel farisaismo e nel

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cristianesimo due esiti completamente diversi. Nel cristianesimo prevalse la tendenza a

unificare la Legge sotto l'indice del comandamento supremo ("Chi ama il prossimo, adempie

alla Legge [Romani, 13, 8]); nel farisaismo posteriore al 70 d.C. (nel Formative Judaism e

poi alle origini del rabbinismo vero e proprio) prevalse una tendenza speculativa. La Legge

venne identificata con la Sapienza che era stata creata prima delle cose (cfr. Proverbi, 8,

22). La Legge, dunque, fu creata prima delle cose (cfr. Targum frammentario di Genesi, 1,

1; Bereshit Rabba 1, 4 e 24, 4). Essa rappresenta pertanto il piano di Dio creatore ed è di

fatto la struttura portante dell'universo, che può sussistere solo in quanto è un ordine e, in

definitiva, la proiezione fisica della Legge. Penetrare i significati della Legge significa

penetrare i segreti del cosmo. Come il cosmo si presenta, pur nella sua unità, sotto

numerosi aspetti, così la Legge ha una sua unità intrinseca che si rifrange nella molteplicità

dei comandamenti.

Dunque, il problema della libertà di scelta, che è legato alla concezione della natura umana,

se integra o in qualche modo sciupata, divise il farisaismo e il sadduceismo dal

cristianesimo e dall'essenismo. La libertà di scelta per il fariseo era assoluta e tale fu

ribadita anche nel giudaismo della Mishnah. Al contrario essa era assente o molto ridotta

nell'essenismo e in ogni caso sentita come condizionata dal cristianesimo. In questo campo

il cristianesimo sembra soprattutto erede dell'apocalittica che affermava

contemporaneamente la corruzione della natura umana e la libertà di scelta assoluta.

Penso che Giuseppe Flavio, il quale ci ha lasciato un quadro delle principali sette religiose

del suo tempo avesse sostanzialmente ragione ad assumere come criterio fondamentale di

distinzione il modo con cui si ponevano davanti al problema della libertà di scelta. Certo,

Giuseppe Flavio parla solo di farisei, sadducei ed esseni. Non parla né dell'apocalittica, né

del cristianesimo, ma non è difficile inserire anche questi movimenti in questo schema. Si

veda il riassunto che Giuseppe Flavio fa in Antiquitates Iudaicae, 13, 171-173 della più

ampia esposizione già fatta nel Bellum Iudaicum, 2, 119-166.

Questa carrellata finale ha voluto aggiungere qualche altro elemento al quadro del tempo

delle origini cristiane allo scopo di rafforzare la mia tesi di fondo che il cristianesimo fu, alle

sue origini, un movimento giudaico in mezzo agli altri numerosi.

La vena anarchica di Jacob Taubesdi Donatella Di Cesare

«Il tempo incalza», perché ha un termine, una fine. Quando al termine della storia, il

tempo «principe della morte» sarà sottomesso, farà il suo ingresso il tempo della fine . Sarà

arrivato il Messia. L'impazienza messianica , antico paradigma ebraico, nuovo paradigma

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della tarda modernità, guida tutta la ricerca di Jacob Taubes, a cominciare dal suo unico

libro Escatologia occidentale (Garzanti, 1997), una ermeneutica della storia narrata come un

testo, a sua volta interpretato a partire dal testo della Torah, della Bibbia ebraica. Filosofo,

teologo, esegeta, Taubes sfugge ad ogni classificazione; resta però un rabbino, saldamente

ancorato all'ebraismo ortodosso. Nella sua apertura al cristianesimo così come nei confronti

estremi con Heidegger e con Schmitt, il rabbino-filosofo mantiene il punto di vista ebraico.

Quel che spinge Taubes a rintracciare nella storia dell'occidente l'idea messianica è

l'esigenza di chi è sopravvissuto all'ultima apocalisse, lo sterminio degli ebrei. Reagire

all'annientamento significa delineare un processo escatologico che si svolge nella storia, ma

è anti-storico, dove la Shoah diviene necessaria. Questa è la sfida lanciata da Taubes dove

è contenuta già la risposta che promette un compimento della teologia politica: il

messianismo. Ma la questione si amplia - e si amplierà anche nel percorso di Taubes.

Come pensare infatti il messianismo ebraico post Christum, dopo la cristianità e il suo

apparente risolversi in secolarizzazione?

Mentre riconduce la storia escatologica dell'occidente alle sue radici ebraiche, Taubes

riannoda con il filo del pensiero apocalittico ebraismo e cristianesimo, pur tenendoli ben

distinti. Ma legge il cristianesimo delle origini attraverso l'ebraismo. Per Taubes, che si

definisce dall'inizio un «apocalittico della rivoluzione», la parola originaria è la «estraneità»

che nel vocabolario gnostico rinvia alla frattura tra uomo e mondo, Dio e mondo. Uomo e

Dio sono così accomunati dalla loro estraniazione al mondo. La estraniazione si traduce

nell'erranza che segna il passaggio dalla natura alla storia, dal mondo pagano al mondo

ebraico-cristiano. È nel popolo di Israele, «luogo storico dell'apocalittica rivoluzionaria», che

l'erranza si manifesta per la prima volta assumendo quella forma teologico-politica che con

un termine greco viene detta «teocrazia».

Il tema, toccato già nell'Escatologia, è affrontato da Taubes soprattutto negli ultimi anni

a partire dal seminario intitolato Teologia politica come problema ermeneutico. Usato per la

prima volta da Flavio Giuseppe, quando descrive la rivolta degli zeloti, dei gruppi di

resistenza ebraica contro l'Impero romano, il termine «teocrazia» viene rilanciato nella

modernità da Spinoza. Fenomeno fondamentale della teologia politica, la teocrazia è «un

immediato dominio di Dio che esclude ogni forma di dominio dell'uomo sull'uomo», fino al

rifiuto di ogni guida politica. Viene così alla luce la vena anarchica del pensiero di Taubes.

Il patto di alleanza con Dio esclude ogni altro patto o vincolo terreno e fa di Israele una

comunità politica senza autorità, una società che non si costituisce attraverso uno stato. «La

teocrazia si basa sull'animo sostanzialmente anarchico di Israele». Qui Taubes segue

un'antica linea interpretativa che nel novecento passa per Gustav Landauer e Martin Buber.

Pone però l'accento sull'originaria estraneità a se stesso del popolo ebraico, stirpe nomade

destinata a restare deterritorializzata - come direbbe Deleuze - popolo «non-popolo» il cui

diritto, a differenza del diritto romano, vieta la proprietà privata, «popolo senza spazio» e

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perciò «popolo del tempo», il cui unico luogo è il non-luogo del deserto in cui si rivela «il Dio

universale che guida la storia del mondo». Questo Dio straniero ed escatologico è un Dio

sovversivo perché «contesta il mondo in sé e annuncia quello nuovo».

Il pericolo però della spinta sovversiva e rivoluzionaria è quello di affondare nel vuoto

nulla oppure di differire il suo télos , il suo fine, nel futuro. In breve: la spinta apocalittica

rischia di mostrare solo la sua tragicità se privata dell'idea messianica. Soltanto se

quest'ultima regge, può delinearsi la «nuova alleanza» che è il vero télos della rivoluzione.

Di qui l'interesse di Taubes per le prime comunità cristiane che si oppongono al potere

imperiale e l'attenzione per le due figure capaci di rivelare l'essenza dell'escatologia: Gesù

di Nazareth e soprattutto Paolo di Tarso. Ma la lettura che Taubes fa di queste due figure è

una lettura ebraica.

«Gesù non va considerato come l'iniziatore di qualcosa di nuovo, ma come un

fenomeno dell'ondata apocalittica in Israele». Il suo annuncio del Regno va inteso «secondo

l'espressione ebraica»: importante non è che cosa il Regno sia, ma il fatto che è vicino, che

anzi forse c'è già. Anticipando quello che sarà un importante filone di ricerca Taubes guarda

dunque al Cristo storico. Gesù di Nazareth, ebreo, carpentiere itinerante, del ramo

impoverito della stirpe di David, chiede al popolo un atto politico decisivo per il Regno di Dio

seppure non violento: se tutta l'ecumene è sottomessa all'Impero, al popolo libero di Israele

non resta che l'esodo nel deserto. Ma la profezia di Cristo non è adempiuta. La delusione

nelle comunità ebraico-cristiane è immensa. È qui che entra in scena Paolo, Saul di Tarso,

per predicare che «nonostante il ritardo della parusia il nuovo eone è già cominciato». Così

mantiene la tensione messianica tra il già e il non-ancora - tensione che va definitivamente

perduta con l'escatologia individuale di Agostino e il riconoscimento della Chiesa come

impero. Si comprende allora perché la figura di Paolo assuma per Taubes un significato

particolare che si sviluppa e si precisa nella sua riflessione fino al seminario di Heidelberg

pubblicato postumo con il titolo La teologia politica di San Paolo (Adelphi, 1997).

Mentre l' Imperium si espande ineluttabilmente, Paolo riesce a farsi carico

dell'estraneità dal mondo delle masse spingendole a un «epocale raccoglimento»,

condizione alternativa al potere imperiale. Allontanarsi dall'Impero è seguire il Messia .

Contro la versione cattolica che fa di Paolo un normalizzatore e soprattutto il fondatore di

una nuova religione, Taubes lo interpreta come un eversore, esponente radicale del

messianismo ebraico.

Ma è questa interpretazione che produce lo scontro con Scholem, uno scontro che

investe il concetto stesso di messianismo. La questione si incentra sulla Legge ebraica,

sulla Halakhah. Per parte sua Taubes ribadisce la validità della Legge condivisibile da tutti

nella «sobrietà quotidiana della giustizia» - e rilancia la sfida ebraica contro l'arbitrio

dell'amore. Paolo - e questo è il punto - non ha inteso per nulla negare la Legge; piuttosto

ha voluto ripensare il rapporto tra Legge e fede. L'attualità di questo ripensamento per la

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politica è stata sottolineata da Giorgio Agamben: un sistema irrigidito che pretende di

normare tutto è il segno di una perdita di senso della legge (Il tempo che resta. Un

commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000). Scholem fraintende il gesto

antinomico di Paolo ricondotto a una crisi della tradizione; così la redenzione ebraica

sarebbe un evento pubblico, quella cristiana un evento spirituale. Deriva anche da qui il

messianismo che Scholem propone: il prezzo che il popolo ebraico ha dovuto pagare per

l'idea messianica sarebbe «una vita vissuta nel differimento», un rinvio dunque della venuta

del Messia - rinvio che tende a trattenere, a conservare, e che indebolisce l'ebraismo.

Perciò Taubes si affretta ad abbattere quella barriera dell'interiorità che Scholem ha eretto

tra ebraismo e cristianesimo - ma occorre dire che critiche in tal senso sono state mosse a

Scholem anche dal noto cabbalista Moshe Idel.

La «trasgressione» di Paolo non vuole essere una negazione, ma un compimento

della Legge perché se il Messia è venuto, la Legge è compiuta. È questa la via di Damasco,

l'eresia che l'ebraismo ovviamente non può seguire. Ma è un'eresia ebraica, come eresie

ebraiche sono quelle di Gesù di Nazareth o di Shabbatai Zvi, il falso Messia dell'età

moderna. Per Taubes non si tratta tuttavia di riportare a casa un eretico, quanto piuttosto di

giungere attraverso Paolo e la sua «interiorizzazione» del messianismo a una auto-

comprensione più complessa dell'ebraismo post Christum .

«La Lettera ai Romani - scrive Taubes nel seminario di Heidelberg - è una teologia

politica perché è una dichiarazione di guerra politica » contro l'Impero. Quando la profezia

viene meno, la speranza della redenzione vacilla, la grandezza di Paolo sta nel fronteggiare

interiormente la crisi e di farne l'epicentro stesso della vita messianica. Ciò che allontana

Taubes da Scholem al tempo stesso lo avvicina al modo in cui Benjamin intende la teologia,

ossia come messianismo, pensando la redenzione non nel futuro, ma in ogni istante in cui si

raccoglie e si riscatta anche il passato. «La comunità messianica non è priva di storia ; tutto

il passato spinge verso un adesso ; esiste in un permanente stato di eccezione ». Qui Taubes

non esita a confrontarsi con Carl Schmitt - di cui conosceva bene i trascorsi nazisti. Davvero

sovrano - aveva detto Schmitt - non è chi definisce la norma, ma «chi decide sullo stato di

eccezione». La differenza tuttavia è che per Schmitt teologia e politica si identificano e il

potere si autolegittima: nella sua interpretazione di Paolo la forza che ritarda la venuta

dell'anticristo è l'Impero. Al contrario per Paolo interpretato da Taubes la forza

antimessianica è l'Impero contestato nella sua illegittimità. Sovrano è solo il Messia , perché

solo il Messia può compiere la legge e perciò sospenderla. La teologia in Taubes non si

identifica per nulla con la politica; proprio il loro divergere può accelerare «l'avvento del

regno messianico».

Nel ripensare radicalmente teologia politica e filosofia della storia Taubes sa dare

risposte alle questioni urgenti della fine della sovranità e della fine della storia. E lo fa

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seguendo il punto di fuga dal pensiero apocalittico che la tradizione ebraica ha sempre

indicato: il messianismo.

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