Passioni politiche del Manzoni in famiglia in Corriere...

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CORRIERE DELLA- SERA Giovedì 13 luglio 1961 PASSIONI POLITICHE DEL MANZONI IN FAMIGLIA Con monotona ripetizione, quasi tutte le biografie del Manzoni a proposito delle sue convinzioni patriottiche e uni- tarie, ricordano l'episodio del- l'incontro col Mazzini, a Unità nazionale raggiunta. Dice il Mazzini: « Io e lei abbiamo sempre avuto fede nell'indipen- denza d'Italia compiuta e assi- curata nell'Unità ›. Risponde il Manzoni in tono scherzoso (e direi che questo è il segno del- l'autenticità del racconto) che anche il Torti, freddoloso co- m'era, cominciava al primo fre- sco di settembre a dire: vuol nevicare. E così a ottobre e no- vembre, finchè un bel giorno, a gennaio o febbraio, nevicava davvero. E il Torti: « O non l'avevo detto, io, che doveva ne- vicare... ». L'aneddoto è per lo più ri- portato con la chiosa ammira- tiva sulla « modestia » del Man- zoni. Ma l'esempio non mi con- vince. Nessuno riuscirà a per- suadermi dell'umiltà del Manzo- ni — di cui, anzi, in questo mio scritte sono messe in luce al- cune prove contrarie — mentre sotto la maschera del sottilissi- mo sorriso, nascondeva spesso una critica, sia pure con la ca- rità e il rispetto dovuti alla per- sonalità altrui, reagendo, per istinto di misura, a ogni enfasi per quanto riguardava i senti- naenti fondamentali che teneva chiusi gelosamente in petto. Tali erano stati sempre i suoi convincimenti sui destini d'Italia. Ma di atteggiarsi ora a veggente e profeta non era nel suo carat- tere e nel suo stile; di vantarsi mettendosi alla pari del grande agitatore genovese, sullo stesso piano dell'uomo d'azione, lui che dall'azione rifuggiva, questo non era storicamente esatto. Ciascu- no dei due (pensava probabil- mente il Manzoni), aveva opera- to con diversa coscienza e egua- le amore per la stessa causa. Ma se per solidarietà patria il Man- zoni non avrebbe osato esprime- re la menoma critica al Mazzi- ni, troppo diversi erano i mezzi, i metodi, gli spiriti per poterli confondere in una unica esal- tazione profetica. Tutte cose sottilissime, che il sapiente acuto sorriso, nel ricor- do del Torti, metteva al loro giusto posto, mentre riconosce- va il fatale destino (o la Prov- videnza), che aveva legato indis- solubilmente nella storia uomini così diversi e contrastanti quali erano l'agitatore settario e il poeta cattolico. Solidarietà, che, d'altronde, il Manzoni stesso ri- conferma nel suo consueto to- no: « Io e ,Mazzini abbiam avu- to sempre fede nell'Indipenden- za d'Italia, compiuta e assicu- rata con l'unità. In questa uni- tà era così grande la mia fede, che le ho fatto il più grande dei sacrifizi, quello di scrivere scien- temente un brutto verso: Liberi non sarem se non siam uni ». Mentre, d'altra parte, il Mazzi- ni si • inchinava reverente alla grandezza del Manzoni, ricono- scendo ciò che azionisti e laicisti non ammettevano volentieri: il valore e il significato dell'appor- to alla causa nazionale di una altissima vita e di una pura co- scienza religiosa come la sua: < Manzoni è un affetto per noi, il suo nome si confonde con quan- to di bello e di grande santifi- ca in Italia la giovine scuola ». cg 3 Ma per capire a fondo come nell'autore dei Promessi sposi questa convinzione dell'Unità si fosse mutata nell'ultima fase del Risorgimento in passione, debbo ricorrere a reminiscenze perso- nali di conversazioni con una delle donne più squisite e di in- telligenza manzoniana davvero, che ebbi la ventura di conoscere nei miei anni giovanili: Matilde Schiff Giorgini, figlia di Vittoria Manzoni e che dei segreti della casa del gran nonno fu l'ulti- ma vestale. Dell'avo aveva ere- ditato la straordinaria acutezza di mente, il sottile giudizio su uomini e cose, non senza quel tal sorriso e certe libertà del pensiero, che (diceva un illustre amico) le provenivano da qual- che piccolo demonio sfuggito al- la conversione di Alessandro. Della madre aveva le grazie del- la bontà, del padre — Giam- battista Giorgini — la lucidità della ragione, la socratica sag- gezza e l'arguzia toscana. Con lei, a Pisa, a quei tempi, parlavamo spesso delle « questio- ni » e dei problemi della for- mazione dello Stato italiano — della libertà e della Chiesa — che avevano agitato la genera- zione di suo padre e di come erano stati dibattuti dal Manzo- ni stesso. Ed erano allora per me vere e proprie rivelazioni. Oggi ritorno a quei ricordi, ria- prendo il volume Manzoni in- timo pubblicato nel 1923 da Mi- chele Scherillo e Giuseppe Gal- lavresi, e che contiene il tesoro delle corrispondenze familiari, che Matilde Schiff era stata in- dotta, da Domenico Bulfaretti per il primo, a concedere. Ma riesaminando quei documenti e confrontandoli con altri scritti, sento dentro di me la sua voce ohe me li commenta. E ricordo particolarmente al- cune osservazioni singolarissime della nipote, sul nonno, che, nella fase finale della libera- zione d'Italia, parve aver mu- tato carattere. Questo genio chiuso e severo, meditativo, scrupoloso nei giudizi su uomi- ni e idee, non ebbe più rite- gni nell' esaltazione patriottica. Basti, a esempio, nelle memorie di Vittoria, la descrizione di quando ai primi di giugno del '60, accompagnato dal genero Giorgini, era andato a Torino a prestar giuramento in Sena- to. «Tornò di là più infervo- rato che mai d'amor patrio e quando in settembre arrivarono le notizie della spedizione di Romagna, papà non stava più in sè dalla contentezza: piange- va, rideva, batteva le mani, gri- dando ripetutamente: viva Ga- ribaldi! viva Garibaldi! Nessu- no l'aveva mai visto prima, nè lo rivide mai più dopo, in tale stato di gioiosa eccitazione ». Fra Manzoni e Garibaldi vi era una zona di separazione spi- rituale, data la diversità di for- mazione, di esperienza e le ru- vide ostilità anticlericali del- l'eroe dei due mondi, ma non c'era ragionamento che valesse, se 11 patriota e il poeta pren- devano il sopravvento sopra le divergenze e le considerazioni del politico moderato. Il mito del combattente per la libertà lo esaltava. Quando, infatti, nel marzo del '62 Garibaldi venne a Mi- lano per eccitare gli animi al- l'invasione degli Stati Pontifici e chiese di esser ricevuto dal Manzoni, questi gli andò incon- tro a braccia aperte. Egli, che aveva ammirato la spedizione dei « mille valorosi, condotti, come a una festa, da un valo- rosissimo », non poteva che esclamare: « Se io mi sento un nulla di fronte a uno qualun- que di quei mille, or che cosa sono dinanzi al loro generale! ». Parole che ci disturbano quasi, per eccesso, in bocca dell'au- stero vecchio, che vorremmo più armonico con la sua età anche nei più nobili degli en- tusiasmi. « Ma Manzoni è Man- zoni » diceva Matilde, — pieno di sorprese, talvolta sconcertante come i geni, e mosso fino alla fine da passioni politiche e poe- tiche, segrete e discordi, che solo nell'intimità si svelavano. E poi l'ispirazione eroica vi- brava giovanilmente in lui. No- nostante le dottrine di pace e di perdono, di giustizia e di amore, di cui si era penetrato col cristianesimo, egli sentiva come pochi la guerra. Di fronte alle gesta di Garibaldi, come di fronte a quelle di Napoleone nel « Cinque maggio » si ride- stava prepotente in lui la poe- sia della guerra. Singolari, anche nel confron- to dei suoi familiari, i decisi atteggiamenti del Manzoni cir- ca « la questione romana ». Su questo argomento i suoi gene- ri — liberali e assai meno im- pegnati religiosamente di lui — avevano le loro esitazioni. Il suocero non ne aveva alcuna. Felici i sicuri — scriveva Gior- gini, — essi vedono le cose dal- la parte dove ci batte la luce; così, vedendoci chiaro, cammi- nano dritto per la loro strada». Tale contrasto si era rivelato in pieno a proposito del trasferi- mento della capitale a Firenze nel dicembre del '64. Amici, congiunti, tutti erano contrari che il celebre uomo andasse a dare il suo voto in Senato, a Torino, per una deliberazione, che significava chiaramente l'in- camminarsi sulla via di Roma. Il 17 dicembre in una lettera pubblicata dal Cantù il deputa- to Giacomo Lacaita scriveva al Panizzi, a Londra, i particolari di questa specie di congiura do- mestica, perchè il Manzoni non si dovesse muovere da Milano. Donna Costanza Arconati e la Collegno avevano insistito pregando il Giorgini di far cam- biare rotta al suocero. Massi- mo D'Azeglio aveva scritto una lunga lettera al prevosto Ratti di San Fedele usando ogni argo- mento per persuadere il Manzo- ni a non dare il peso del suo voto a quella deliberazione. Il Ratti aveva personalmente con- segnato la lettera al Manzoni, il quale, partito da Milano quel- la stessa mattina, se l'era por- tata seco a Torino e, lettala. per tutta risposta se l'era mes- sa in tasca. A Torino le acco- glienze ricevute in casa degli Arconati, di cui era ospite, era- no state fredde e a fargli ono- re non eran venuti nè il D'Aze- glio, nè lo Sclopis, nè il San Martino, nè il Revel. Anzi, a votazione avvenuta, fu egli stes- so a recarsi col Giorgini a far visita al D'Azeglio, il quale, co- me nulla fosse avvenuto, per circa un'ora non gli parlò d'al- tro che di tavolini giranti, di spiriti e simili cose. Nè se ne adontò il Manzoni — fermo come una quercia nel suo convincimento. Egli aveva in testa più fitto che mai il chiodo di Roma», scriveva il Giorgini alla moglie il 5 dicem- bre. Roma, Roma! E l'acuto intelletto del padre di Matilde spiegava le ragioni vere e pro- fonde di questa ostinata posi- zione politica che aveva color ghibellino. Egli « è sempre pie- no di fiducia che in Roma ci potremo andare col pieno con- senso della coscienza cattolica. Non spera nulla da Pio IX, ma spera molto dal Papato e so- gna ancora, come lo sognava quando scrisse l'Adelchi, un Pa- pa 're delle preci'. Attende dal Papato cose grandi ». Ancora una volta il poeta e il creden- te prendevano il sopravvento sulla politica della maggior par- te dei suoi amici. Nelle brevi memorie la figlia Vittoria serive: « Papà aveva sperato che sarebbe stato pos- sibile di andare a Roma d'ac- cordo con l'opinione cattolica (che è espressione alquanto scu- ra), ma l'idea di Roma capita- le d'Italia fu sempre, dal '60 in poi, appena il Cavour l'eb- be affacciate a mezza bocca, la sua ardente aspirazione ». Quanto alla perdita del potere temporale, che aveva turbato il suo grande amico, il Rosmini, in lui s'era formata la coscien- za che dovesse anzi essere una misura provvidenziale per la Chiesa: la Chiesa sublimata « non avendo altra forza che quella di Gesù Cristo » come la intravvedeva nei secoli venturi il poeta della Pentecoste. « Era nel giusto papà?» — si chie- deva la figlia Vittoria di fron- te a tale sicurezza. Ma quel grande tormentato di suo pa- dre, che i problemi se li era rimuginati dentro in un inter- minabile monologo durato gran parte della sua vita, era ormai arrivato a delle conclusioni sem- plicistiche, elementari, per quan- to riguardava la politica e i destini d'Italia e in una lette- ra del '66, dopo la morte di D' Azeglio, avvenuta in «mo- menti tristissimi » conchiudeva che le ragioni di questi pas- seranno, « mentre io mi figu- ro sempre l'Italia come una palla di bronzo, che, se un arrabbiato riuscisse a buttarla dalla finestra, arriverebbe a ter- ra tutta d'un pezzo». Però, dopo il '70, su questo argomento in famiglia non par- lò più. Tacque, meditando. Tommaso Gallarati-Scotti

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CORRIERE DELLA- SERA

Giovedì 13 luglio 1961

PASSIONI POLITICHE DEL MANZONI IN FAMIGLIA

Con monotona ripetizione, quasi tutte le biografie del Manzoni a proposito delle sue convinzioni patriottiche e uni-tarie, ricordano l'episodio del-l'incontro col Mazzini, a Unità nazionale raggiunta. Dice il Mazzini: « Io e lei abbiamo sempre avuto fede nell'indipen-denza d'Italia compiuta e assi-curata nell'Unità ›. Risponde il Manzoni in tono scherzoso (e direi che questo è il segno del-l'autenticità del racconto) che anche il Torti, freddoloso co-m'era, cominciava al primo fre-sco di settembre a dire: vuol nevicare. E così a ottobre e no-vembre, finchè un bel giorno, a gennaio o febbraio, nevicava davvero. E il Torti: « O non l'avevo detto, io, che doveva ne-vicare... ».

L'aneddoto è per lo più ri-portato con la chiosa ammira-tiva sulla « modestia » del Man-zoni. Ma l'esempio non mi con-vince. Nessuno riuscirà a per-suadermi dell'umiltà del Manzo-ni — di cui, anzi, in questo mio scritte sono messe in luce al-cune prove contrarie — mentre sotto la maschera del sottilissi-mo sorriso, nascondeva spesso una critica, sia pure con la ca-rità e il rispetto dovuti alla per-sonalità altrui, reagendo, per istinto di misura, a ogni enfasi per quanto riguardava i senti-naenti fondamentali che teneva chiusi gelosamente in petto.

Tali erano stati sempre i suoi convincimenti sui destini d'Italia. Ma di atteggiarsi ora a veggente e profeta non era nel suo carat-tere e nel suo stile; di vantarsi mettendosi alla pari del grande agitatore genovese, sullo stesso piano dell'uomo d'azione, lui che dall'azione rifuggiva, questo non era storicamente esatto. Ciascu-no dei due (pensava probabil-mente il Manzoni), aveva opera-to con diversa coscienza e egua-le amore per la stessa causa. Ma se per solidarietà patria il Man-zoni non avrebbe osato esprime-re la menoma critica al Mazzi-ni, troppo diversi erano i mezzi, i metodi, gli spiriti per poterli confondere in una unica esal-tazione profetica.

Tutte cose sottilissime, che il sapiente acuto sorriso, nel ricor-do del Torti, metteva al loro giusto posto, mentre riconosce-va il fatale destino (o la Prov-videnza), che aveva legato indis-solubilmente nella storia uomini così diversi e contrastanti quali erano l'agitatore settario e il poeta cattolico. Solidarietà, che, d'altronde, il Manzoni stesso ri-conferma nel suo consueto to-no: « Io e ,Mazzini abbiam avu-to sempre fede nell'Indipenden-za d'Italia, compiuta e assicu-rata con l'unità. In questa uni-tà era così grande la mia fede, che le ho fatto il più grande dei sacrifizi, quello di scrivere scien-temente un brutto verso: Liberi non sarem se non siam uni ». Mentre, d'altra parte, il Mazzi-ni si • inchinava reverente alla grandezza del Manzoni, ricono-scendo ciò che azionisti e laicisti non ammettevano volentieri: il valore e il significato dell'appor-to alla causa nazionale di una altissima vita e di una pura co-scienza religiosa come la sua: < Manzoni è un affetto per noi, il suo nome si confonde con quan-to di bello e di grande santifi-ca in Italia la giovine scuola ».

cg3

Ma per capire a fondo come nell'autore dei Promessi sposi questa convinzione dell'Unità si fosse mutata nell'ultima fase del Risorgimento in passione, debbo ricorrere a reminiscenze perso-nali di conversazioni con una delle donne più squisite e di in-telligenza manzoniana davvero, che ebbi la ventura di conoscere nei miei anni giovanili: Matilde Schiff Giorgini, figlia di Vittoria Manzoni e che dei segreti della casa del gran nonno fu l'ulti-ma vestale. Dell'avo aveva ere-ditato la straordinaria acutezza di mente, il sottile giudizio su uomini e cose, non senza quel tal sorriso e certe libertà del pensiero, che (diceva un illustre amico) le provenivano da qual-che piccolo demonio sfuggito al-la conversione di Alessandro. Della madre aveva le grazie del-la bontà, del padre — Giam-battista Giorgini — la lucidità della ragione, la socratica sag-gezza e l'arguzia toscana.

Con lei, a Pisa, a quei tempi, parlavamo spesso delle « questio-ni » e dei problemi della for-mazione dello Stato italiano — della libertà e della Chiesa — che avevano agitato la genera-zione di suo padre e di come erano stati dibattuti dal Manzo-ni stesso. Ed erano allora per me vere e proprie rivelazioni. Oggi ritorno a quei ricordi, ria-prendo il volume Manzoni in-timo pubblicato nel 1923 da Mi-chele Scherillo e Giuseppe Gal-lavresi, e che contiene il tesoro delle corrispondenze familiari, che Matilde Schiff era stata in-dotta, da Domenico Bulfaretti per il primo, a concedere. Ma riesaminando quei documenti e confrontandoli con altri scritti, sento dentro di me la sua voce ohe me li commenta.

E ricordo particolarmente al-cune osservazioni singolarissime della nipote, sul nonno, che, nella fase finale della libera-zione d'Italia, parve aver mu-tato carattere. Questo genio chiuso e severo, meditativo, scrupoloso nei giudizi su uomi-ni e idee, non ebbe più rite- gni nell' esaltazione patriottica. Basti, a esempio, nelle memorie di Vittoria, la descrizione di quando ai primi di giugno del '60, accompagnato dal genero Giorgini, era andato a Torino a prestar giuramento in Sena-to. «Tornò di là più infervo-rato che mai d'amor patrio e quando in settembre arrivarono le notizie della spedizione di Romagna, papà non stava più in sè dalla contentezza: piange-va, rideva, batteva le mani, gri-dando ripetutamente: viva Ga-ribaldi! viva Garibaldi! Nessu-no l'aveva mai visto prima, nè lo rivide mai più dopo, in tale stato di gioiosa eccitazione ».

Fra Manzoni e Garibaldi vi era una zona di separazione spi-rituale, data la diversità di for-mazione, di esperienza e le ru-vide ostilità anticlericali del-l'eroe dei due mondi, ma non

c'era ragionamento che valesse, se 11 patriota e il poeta pren-devano il sopravvento sopra le divergenze e le considerazioni del politico moderato. Il mito del combattente per la libertà lo esaltava.

Quando, infatti, nel marzo del '62 Garibaldi venne a Mi-lano per eccitare gli animi al-l'invasione degli Stati Pontifici e chiese di esser ricevuto dal Manzoni, questi gli andò incon-tro a braccia aperte. Egli, che aveva ammirato la spedizione dei « mille valorosi, condotti, come a una festa, da un valo-rosissimo », non poteva che esclamare: « Se io mi sento un nulla di fronte a uno qualun-que di quei mille, or che cosa sono dinanzi al loro generale! ». Parole che ci disturbano quasi, per eccesso, in bocca dell'au-stero vecchio, che vorremmo più armonico con la sua età anche nei più nobili degli en-tusiasmi. « Ma Manzoni è Man-zoni » diceva Matilde, — pieno di sorprese, talvolta sconcertante come i geni, e mosso fino alla fine da passioni politiche e poe-tiche, segrete e discordi, che solo nell'intimità si svelavano.

E poi l'ispirazione eroica vi-brava giovanilmente in lui. No-nostante le dottrine di pace e di perdono, di giustizia e di amore, di cui si era penetrato col cristianesimo, egli sentiva come pochi la guerra. Di fronte alle gesta di Garibaldi, come di fronte a quelle di Napoleone nel « Cinque maggio » si ride-stava prepotente in lui la poe-sia della guerra.

Singolari, anche nel confron-to dei suoi familiari, i decisi atteggiamenti del Manzoni cir-ca « la questione romana ». Su questo argomento i suoi gene-ri — liberali e assai meno im-pegnati religiosamente di lui — avevano le loro esitazioni. Il suocero non ne aveva alcuna.

Felici i sicuri — scriveva Gior-gini, — essi vedono le cose dal-la parte dove ci batte la luce; così, vedendoci chiaro, cammi-nano dritto per la loro strada». Tale contrasto si era rivelato in pieno a proposito del trasferi-mento della capitale a Firenze nel dicembre del '64. Amici, congiunti, tutti erano contrari che il celebre uomo andasse a dare il suo voto in Senato, a Torino, per una deliberazione, che significava chiaramente l'in-camminarsi sulla via di Roma. Il 17 dicembre in una lettera pubblicata dal Cantù il deputa-to Giacomo Lacaita scriveva al Panizzi, a Londra, i particolari di questa specie di congiura do-mestica, perchè il Manzoni non si dovesse muovere da Milano.

Donna Costanza Arconati e la Collegno avevano insistito pregando il Giorgini di far cam-biare rotta al suocero. Massi-mo D'Azeglio aveva scritto una lunga lettera al prevosto Ratti di San Fedele usando ogni argo-mento per persuadere il Manzo-ni a non dare il peso del suo voto a quella deliberazione. Il Ratti aveva personalmente con-segnato la lettera al Manzoni, il quale, partito da Milano quel-la stessa mattina, se l'era por-tata seco a Torino e, lettala. per tutta risposta se l'era mes-sa in tasca. A Torino le acco-glienze ricevute in casa degli Arconati, di cui era ospite, era-no state fredde e a fargli ono-re non eran venuti nè il D'Aze-glio, nè lo Sclopis, nè il San Martino, nè il Revel. Anzi, a votazione avvenuta, fu egli stes-so a recarsi col Giorgini a far visita al D'Azeglio, il quale, co-me nulla fosse avvenuto, per circa un'ora non gli parlò d'al-tro che di tavolini giranti, di spiriti e simili cose.

Nè se ne adontò il Manzoni — fermo come una quercia nel suo convincimento. Egli aveva

in testa più fitto che mai il chiodo di Roma», scriveva il Giorgini alla moglie il 5 dicem-bre. Roma, Roma! E l'acuto intelletto del padre di Matilde spiegava le ragioni vere e pro-fonde di questa ostinata posi-zione politica che aveva color ghibellino. Egli « è sempre pie-no di fiducia che in Roma ci potremo andare col pieno con-senso della coscienza cattolica. Non spera nulla da Pio IX, ma spera molto dal Papato e so-gna ancora, come lo sognava quando scrisse l'Adelchi, un Pa-pa 're delle preci'. Attende dal Papato cose grandi ». Ancora una volta il poeta e il creden-te prendevano il sopravvento sulla politica della maggior par-te dei suoi amici.

Nelle brevi memorie la figlia Vittoria serive: « Papà aveva sperato che sarebbe stato pos-sibile di andare a Roma d'ac-cordo con l'opinione cattolica (che è espressione alquanto scu-ra), ma l'idea di Roma capita-le d'Italia fu sempre, dal '60 in poi, appena il Cavour l'eb-be affacciate a mezza bocca, la sua ardente aspirazione ». Quanto alla perdita del potere temporale, che aveva turbato il suo grande amico, il Rosmini, in lui s'era formata la coscien-za che dovesse anzi essere una misura provvidenziale per la Chiesa: la Chiesa sublimata « non avendo altra forza che quella di Gesù Cristo » come la intravvedeva nei secoli venturi il poeta della Pentecoste. « Era nel giusto papà?» — si chie-deva la figlia Vittoria di fron-te a tale sicurezza. Ma quel grande tormentato di suo pa-dre, che i problemi se li era rimuginati dentro in un inter-minabile monologo durato gran parte della sua vita, era ormai arrivato a delle conclusioni sem-plicistiche, elementari, per quan-to riguardava la politica e i destini d'Italia e in una lette-ra del '66, dopo la morte di D' Azeglio, avvenuta in «mo-menti tristissimi » conchiudeva che le ragioni di questi pas-seranno, « mentre io mi figu-ro sempre l'Italia come una palla di bronzo, che, se un arrabbiato riuscisse a buttarla dalla finestra, arriverebbe a ter-ra tutta d'un pezzo».

Però, dopo il '70, su questo argomento in famiglia non par-lò più. Tacque, meditando.

Tommaso Gallarati-Scotti