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I .cONSOB, UN DOSSIER SEGRETO • MANAGER A NOLO • RISCHIO VERDE PER L'INDUSTRIA UMERO 5 - MAGGIO 1990 L 7.000 OR - 1' .7 1J ITALIA

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I .cONSOB, UN DOSSIER SEGRETO • MANAGER A NOLO • RISCHIO VERDE PER L'INDUSTRIA UMERO 5 - MAGGIO 1990 L 7.000

OR-1' .71J ITALIA

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di Valerio Castronovo

FINANZA & AFFARI

QUANDO LO STATO SI FECE BANCHIERE Per salvarle dalla crisi del '29 nacque l'Iri. Doveva essere un ricovero temporaneo: Comit, Credit

e Bancoroma non ne sono più uscite. Ora che il mercato le reclama, ecco la vera storia delle Bin.

i I dLeAl ,L36E»G, GcoEsipiiiù importante dopo il testo E ministro del Tesoro Gui-

do Carli ha commentato il passaggio alla Camera della riforma delle banche pub-

bliche, che consente una loro sia pur parziale priva-tizzazione (sino al 49% del capitale azionario). In effetti, negli ultimi cinquant'anni il sistema bancario italiano non aveva conosciuto alcuna sostanziale modifica nei suoi assetti proprietari.

Per comprendere i motivi che determinarono il passaggio delle principali banche sotto il con-trollo dello Stato e che hanno poi consentito tanta longevità alle norme stabilite dalla leg-ge del 1936, occorre risalire a quella sorta di spartiacque nella storia economica del nostro paese rappresentato dalla grande depressione degli anni Trenta. La crisi mondiale del 1929 provocò infatti in Italia il dissesto delle mag-giori aziende di credito che, sviluppatesi sul modello tedesco delle "banche miste" di de-posito e di investimento, risultavano a quel-l'epoca esposte fino al collo a causa di un rapporto eccessivamente squilibrato fra di-sponibilità a breve e immobilizzi a lungo termine, dovuto ai prestiti accordati alle im-prese operanti nei settori a più alta intensità di capitale nonché alle partecipazioni aziona-rie via via assunte in portafoglio.

Questo intreccio di rapporti tra banca e industria, da elemento anomalo era divenuto

dai primi del '900 un tratto fondamentale del sistema italiano. In mancanza di un mercato finanziario tale da corrispondere alle esigenze delle imprese, Banca commerciale, Credito italiano e Banco di Roma avevano finito per supplire alla cronica carenza di capitali di rischio. Neppure la caduta nel 1921 della Banca italiana di sconto (provocata dall'impossibilità dell'Ansaldo di rimborsare i prestiti ottenuti durante la guerra) era servita di lezione.

Così, quando sopraggiunse la crisi del 1929 e il sistema industriale andò ad arenarsi nelle secche della recessione, le banche si trovarono in mano dei titoli sempre più svalutati e una massa di crediti praticamente inesigibili. «La fisiologica simbiosi fra banca e industria s'era tramutata», per dirla con

Raffele Mattioli, che era allora segretario del Consi-glio d'amministrazione della Comit, «in una mostruo-sa fratellanza siamese».

Si apri così, per gli istituti di credito sull'orlo della bancarotta il capitolo delle sistemazioni e degli smo-bilizzi pubblici che si sarebbe concluso nel 1933 con il loro trasferimento sotto le insegne dell'Iri. L'opera-zione di salvataggio, tentata con la creazione nel novembre 1931 dell'Istituto mobiliare italiano, non bastò infatti a turare le falle. I prestiti ipotecari rimborsabili in dieci anni che l'Imi avrebbe dovuto concedere alle imprese più pericolanti non potevano rappresentare un'alternativa di pari consistenza al credito fornito fino allora dalle banche, e da queste scaricato per le esigenze più immediate di liquidità sulla Banca d'Italia: giunta così a esporsi per una cifra corrispondente a più della metà della intera circola-zione monetaria.

Occorreva inoltre risolvère il problema della salva-guardia dei depositi bancari, che correvano il perico-lo di andare in fumo per l'enorme cumulo di perdite che ormai stavano annientando i tre principali istituti di credito. Di fronte agli sviluppi sempre più inquie-tanti della crisi si cominciò nel secondo semestre del 1932 a mettere a punto, in gran segretezza, un progetto di intervento che rimuovesse definitivamen-te i rischi dei risparmiatori tagliando il cordone ombelicale fra banche e industrie.

Protagonisti di questa operazione, che sfociò nella creazione nel gennaio 1933 dell'Iri, furono da un lato Alberto Beneduce e Donato Menichella, e dall'altro Raffaele Mattioli chiamato ad affiancare in questa circostanza l'amministratore delegato della Commer-ciale Giuseppe Toeplitz. Beneduce, già collaboratore di Francesco Saverio Nitti nell'organizzazione dell'I-stituto nazionale delle assicurazioni, era stato nel dopoguerra presidente della Commissione finanze e tesoro e poi ministro del Lavoro nel governo Bono-mi. Proprio per questa sua esperienza Mussolini lo aveva chiamato nel 1925, nonostante le riserve di alcuni alti papaveri del regime, a presiedere l'Istituto di credito per opere di pubblica utilità.

Menichella, già liquidatore della Banca italiana di sconto e direttore generale della Società finanziaria italiana (una holding del Credito italiano), condivide-

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99 Con la crisi, le ban-che si trovarono in mano una massa di crediti pra-ticamente inesigibili. E il loro salvataggio da parte dello Stato partì nella se-conda metà del '32. 99

Wall Street, 14 ottobre del 1929: scoppia la paura per il Grande Crollo della Borsa. Inizia allora la crisi anche per il sistema bancario italiano, troppo pesantemente scoperto. La soluzione che viene adottata è la creazione dell'Iri.

va con Benéduce la tesi che la crisi economica non fosse dovuta soltanto a difficoltà congiunturali, ma anche alla commistione fra credito industriale e credito ordinario. Quanto a Mattioli, nell'ottobre 1931 era stato l'autore di una proposta di soluzione per conto della Banca commerciale che era piaciuta al Duce, in quanto recava come titolo uno slogan ("Per la regolamentazione dell'economia italiana") congeniale ai propositi dirigistici con cui il governo fascista pensava di poter tenere sotto controllo, insieme agli effetti dirompenti della crisi, anche i maggiori potentati del capitalismo italiano.

In realtà l'obiettivo di Mattioli era di mettere in moto un intervento pubblico che scongiurasse il ' crollo della Comit sotto una massa di "sofferenze" azionarie industriali e di passività che stavano per toccare l'imponente somma di cinque miliardi. Si trattava perciò di lusingare Mussolini per convincerlo a non fare di testa sua, ma a lasciarsi guidare per mano da quanti negli ambienti dell'alta banca cercavano di salvare il salvabile con l'aiu-to dello Stato senza tuttavia sottostare a eccessive inge-renze, esterne.

«Fu così», ricorderà più tardi Mattioli con l'arguzia che gli era propria, «che Benito si trovò fra le mani un progetto di salvataggio bancario quasi perfetto in

ogni sua parte. Certo Toeplitz soffri nell'illustrarglie-lo perché, se accettato, avrebbe segnato la fine di quella Comit che egli aveva visto nascere; ma non c'era altro da fare, se si voleva salvare la Commercia-le, che affidarla temporaneamente allo Stato».

Sia Beneduce che Menichella che Mattioli ritene-vano perciò che l'intervento dello Stato avrebbe dovuto limitarsi al tempo necessario per rimettere in sesto le cose e non avrebbe dovuto dar luogo comun-que a forme di gestione diretta degli istituti bancari. Dalla diagnosi delle malattie del sistema finanziario che rischiavano in primo luogo di ricadere sulle spalle dei risparmiatori, e non tanto da una precisa vocazio-ne statalista, prese così avvio il progetto dell'Iri. Il nuovo istituto avrebbe dovuto sanare la piaga ende-mica delle anticipazioni e dei riscontri sempre più elevati a favore delle banche e porre fine alla prassi non

meno ricorrente dei salvatag-gi industriali a carico dello Stato e a fondo perduto.

Quanto agli orientamenti di Mussolini, essi si allinea-rono inizialmente a quelli espressi dai massimi espo-nenti della finanza italiana. Ciò che più lo preoccupava, e che affrettò il varo dell'Iri, era il fatto che un crollo delle banche avrebbe getta-to sul lastrico anzitutto i ceti risparmiatori piccolo-bor-ghesi fra cui il regime racco-glieva i maggiori consensi.

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FINANZA & AFFARI

Raffaele Mattioli, alla guida della Banca commerciale italiana (sotto) fino al 1972. L'istituto venne fondato a Milano nel 1894 con capitali tedeschi e ceduto all'Iri nel 1933.

Era assolutamente estraneo alle finalità da lui assegnate all'Iri qualsiasi proposito di nazionalizza-zione. L'Iri avrebbe dovuto, senza sconvolgere i principi dell'economia di mercato, porre rimedio alle necessità più urgenti imposte dalla crisi economica.

Su queste basi l'Iri, presieduto da Beneduce e diretto da Menichella, provvide in primo luogo a riportare le banche alle loro normali funzioni, senza più esposizioni creditorie a lungo termine verso le aziende industriali e soprattutto senza più responsa-bilità di gestioni extrabancarie. «Il capitale», affermò il ministro delle Finanze Guido Jung in una riunione con Mattioli nel dicembre 1933, «non deve essere più finanziato dai depositi. Ciò per tutte le banche».

In tal modo, insieme alla Comit, al Credito e al

Banco di Roma, passarono sotto il controllo dell'Iri numerose imprese industriali legate a filo doppio con le banche o sul punto di chiudere i battenti. L'operazione di salvataggio fu talmente vasta e capillare che l'Iri si trovò proiettato nei settori dove più rilevante era la presenza di società anonime, più grande la dimensione media aziendale e maggiore il rapporto capitale-pro-dotto. Ma l'Iri, da ente provvisorio, non sarebbe divenuto nel giugno 1937 un'istituzione permanente se non fossero sopraggiunte una serie di circostanze a estenderne i compiti sul versante della gestione indu-striale. Lo smobilizzo delle aziende uscite dalle sue cure incontrò infatti parecchie difficoltà, sia per i nuovi indirizzi autarchici imposti dal Regime, sia per la scarsa propensione degli operatori privati ad accollarsi il carico di alcuni settori di base a reddito differito.

Fu così che lo Stato fini per trovarsi fra le mani circa un quarto dell'intero capitale azionario indu-striale, ossia una quota senza paragone con quella di altri paesi occidentali in cui gli effetti della "grande crisi" avevano portato governi e amministrazioni pubbliche ad assumersi responsabilità che non aveva-no mai avuto in passato.

Quanto al ruolo centrale che lo Stato venne acqui-sendo nell'intermediazione finanziaria, esso fu il risultato di un complesso incrocio di particolari inte-

ressi politici e di finalità economico- sociali di carattere più generale. Da un lato Mussolini ritenne opportuno, scampato il pericolo, di non correre più il rischio di mettere a repentaglio, in-sieme alle fortune delle banche, anche quelle della dittatura tornando ad affi-dare il controllo dei flussi creditizi ai "gros bonnéts" della finanza laica che oltretutto non erano mai stati in odore di santità presso il Regime per alcuni loro atteggiamenti critici — se non di vera e propria fronda. Da un altro lato, e certamente con un peso assai più

/ determinante, influirono sull'avvento

"Stato banchiere" gli orienta-menti di Beneduce e Menichella che collimavano del resto con quelli del ministro Jung. «Le idee direttrici di

carattere organizzativo», aveva affermato costui, «sono queste: l'Italia può portare il peso di poche organizzazioni bancarie a carattere nazionale. Lo Stato non può disinteressarsi e se ne deve occupare in modo permanente. Ciò non deve impressionare per-ché nessuno sogna una nazionalizzazione. Invece bisogna stabilire i limiti dell'iniziativa privata e si deve tener conto dell'interdipendenza fra interessi bancari e interessi collettivi».

Furono queste le premesse della riforma bancaria del 1936. Si trattava, da una parte, di sollevare le banche dai rischi del finanziamento industriale e di creare i presupposti per un esercizio del credito ordinario distinto da quello del credito mobiliare; dall'altra, di garantire la vigilanza sul mercato finanziario al fine di

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99 Mattioli nel 1931 era stato l'autore di una pro-posta per la nuova rego-lamentazione dell'econo-mia italiana che era pia-ciuta al Duce. Ma i suoi obiettivi erano altri. 99

Qui accanto, Alberto Beneduce a bordo del transatlantico "Conte di Savoia" nel 1934. A sinistra, la sede centrale del Credito italiano a Milano e, sotto,

g il Banco di Roma negli anni trenta.

tutelare i risparmiatori. Fu così che la legge del 1936— a differenza di quella del 1926 che lasciava le banche arbitre di impiegare come meglio credevano i depositi — disciplinò anche l'erogazione del credito e conferì alla Banca d'Italia funzioni di controllo globale nei confron-ti di tutti gli istituti di credito.

Il nuovo ordinamento non fu pèrciò il risultato di una riforma volta a statalizzare il sistema bancario. La Comit, il Credito italiano e il Banco di Roma assunsero la denominazione di "banche di interesse nazionale" e passarono sotto la mano pubblica ma senza per questo venire nazionalizzate. •

Si spiega pertanto come la riforma bancaria del 1936 abbia potuto sopravvivere per tanti anni. Da un lato, infatti, la preminenza della difesa del risparmio su ogni altra finalità non rispondeva soltanto a motivi di interesse pubblico, ma anche a ragioni di ordine politico: in particolare alla preoccupazione di salvaguar-dare il ceto medio risparmia-tore, e in quanto tali esse ven-nero fatte proprie anche dai governi postfascisti. Dall'al-tro, la legge del 1936, inten-dendo coniugare il principio della stabilità con quello del-l'efficienza operativa delle banche, diede luogo in sede di attuazione ad un singolare dosaggio tra poteri di control-lo dell'azionista pubblico e responsabilità autonome del management professionale.

D'altronde i vincoli posti dalla legge del 1936 non impedirono che all'indomani della guerra si giunges-se a una soluzione tale da ristabilire in qualche modo un collegamento tra credito ordinario e credito mobi-liare. Protagonista di tale iniziativa, destinata nel 1946 a sfociare nella fondazione di Mediobanca, fu lo stesso Raffaele Mattioli, che era stato il primo ideato-re dell'Iri e che fin d'allora aveva concepito l'idea di un ente per i finanziamenti a medio termine.

Lo scopo di Mattioli era, questa volta, dare mag-giore ossigeno al sistema produttivo in fase di rico-struzione e di offrire al capitale straniero uno stru-mento finanziario idoneo per eventuali operazioni sul mercato italiano. Fu così che le tre banche, unite le proprie forze per sottoscrivere il capitale del nuovo ente e messe a disposizione di Mediobanca le proprie strutture per la raccolta del risparmio, si trovarono a

supplire a una lacuna della legge del 1936 provvedendo — sia pur indirettamente — all'erogazione del credito a medio termine.

Mediobanca sarebbe poi diventata il "salotto buono" del capitalismo italiano, per iniziativa di Enrico Cuccia, a quel tempo condirettore centrale della Comit e oggi tra i principali fautori di una riprivatizzazione dei "gioielli" del patrimonio bancario dell'Iri. Ma questa è un'altra storia.

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