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Archeologia del détournement 0.1 A favore della dialettica (o della trialettica, per chi si ricorda della sua fugace esistenza), "Noi che desideriamo senza fine" (Nous qui désirons sans fin) di R. Vaneigem si deve leggere: "Noi che siamo ostaggi del desiderio senza fine del capitale". 0.2 Le mitologie del desiderio e della creatività (il feticismo secondo il vecchio gergo marx-freudiano) costituiscono delle evidenti rappresentazioni residuali. Sono state destinate da tempo a essere soltanto derisorie. 0.3 La critica radicale ha anticipato di poco la pubblicizzazione spettacolare della macchina desiderante, effettivamente gli obiettivi presunti della critica radicale sono stati subito realizzati dallo spettacolo della nihilazione. Lo stesso vale per una nefasta ma consueta attitudine artistica di alcuni, in una situazione in cui il détournement è nell'abc della comunicazione corrente. 0.4 La critica deve prendere atto che la mitografia del soggetto si è definitivamente esaurita. Essa deve smettere di avere paura di quella normalità, da cui è talmente attratta da sognarne la miseria. Noi che siamo ostaggi del desiderio senza fine del capitale Il rovesciamento di prospettiva che la critica ha detto di volere praticare, ignorandone spesso le conseguenze, finisce, se attuato, con il rendere del tutto trascurabili e superflue le proposizioni di partenza. Questo, che segue, è un tentativo, grezzo senz'altro, di riportare alla luce alcuni reperti archeologici del desiderio secondo Raoul Vaneigem. 1. La maturità del desiderio si libra nella maturità dello spettacolo. 2. Le bare si sono consumate sul riso del vivente. 3. Penetrati dal piacere di esistere voi siete voi stessi.

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Archeologia del détournement

0.1 A favore della dialettica (o della trialettica, per chi si ricorda della sua fugace esistenza), "Noi che desideriamo senza fine" (Nous qui désirons sans fin) di R. Vaneigem si deve leggere: "Noi che siamo ostaggi del desiderio senza fine del capitale". 0.2 Le mitologie del desiderio e della creatività (il feticismo secondo il vecchio gergo marx-freudiano) costituiscono delle evidenti rappresentazioni residuali. Sono state destinate da tempo a essere soltanto derisorie. 0.3 La critica radicale ha anticipato di poco la pubblicizzazione spettacolare della macchina desiderante, effettivamente gli obiettivi presunti della critica radicale sono stati subito realizzati dallo spettacolo della nihilazione. Lo stesso vale per una nefasta ma consueta attitudine artistica di alcuni, in una situazione in cui il détournement è nell'abc della comunicazione corrente. 0.4 La critica deve prendere atto che la mitografia del soggetto si è definitivamente esaurita. Essa deve smettere di avere paura di quella normalità, da cui è talmente attratta da sognarne la miseria.

Noi che siamo ostaggi del desiderio senza fine del capitale

Il rovesciamento di prospettiva che la critica ha detto di volere praticare, ignorandone spesso le conseguenze, finisce, se attuato, con il rendere del tutto trascurabili e superflue le proposizioni di partenza. Questo, che segue, è un tentativo, grezzo senz'altro, di riportare alla luce alcuni reperti archeologici del desiderio secondo Raoul Vaneigem. 1. La maturità del desiderio si libra nella maturità dello spettacolo.2. Le bare si sono consumate sul riso del vivente. 3. Penetrati dal piacere di esistere voi siete voi stessi.

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4. Gli schiavi non sono più, i padroni dappertutto. Essi non ignorano che non hanno più niente da esigere da se stessi, se non che gli altri lo dimentichino per un istante.5. La qualità della merce soddisfa perfettamente la qualità della vita. Il godimento è l'effetto di un'economia altamente sofisticata.6. Felice colui che, al di qua di ogni sentimento di riuscita e d'insuccesso, con presunzione e con disprezzo di sé, snoda il filo labirintico dell'esistenza confessandosi: ho desiderato dal fondo del cuore che sia così.7. L'appropriazione altrui restituisce al vivente ciò che il godimento finiva per togliergli: il diritto di negare la reciprocità.8. La creazione è un godimento che si scambia e non si dona.9. L'individuo che è convinto di compiere il suo destino umano attraverso la realizzazione, armoniosa e no, dei desideri che gli sono stati attribuiti fonda il progetto del capitale totale.10. Impareremo a mercanteggiare imparando a vivere, fondando sulla relazione di scambio il gusto e la passione dell'appropriazione di sé e degli altri.11. Tutta l'arte del desiderio consiste nell'affinarsi grazie all'insoddisfazione senza cadere nell'insaziabile.12. Il peggiore effetto del lavoro è produrre un tempo che lavora contro di noi; c'è nella natura mercantile del piacere abbastanza potenza per restituire al mondo la cosienza del lavoro della vita.13. Una società dà la misura della sua ignominia quando si vergogna di applaudire l'astuzia del predatore. 14. L'economia ha la preminenza sulla vita, mentre allo stesso tempo ama esibire il contrario, da questa pratica individuale e collettiva è nata l'autentica internazionale del genere umano.

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15. Non c'è nulla che possa nuocere a un essere umano quanto se stesso, come è dimostrato dall'ingenuità di Etienne de la Boétie, che gli fa scrivere: "Siate risoluti a non servire più ed eccovi liberi". 16. Decidersi a vivere come se non si dovesse mai morire non è una sfida all'impossibile, ma è il reale che non nasconde più il possibile. 17. La dipendenza altrui è la misura del piacere.18. La ragione economica si beffa delle ragioni del desiderio accordandovisi.19. Essere troppo poco lucidi per rimproverarsi: ecco dove finalmente l’ideale e il reale si sono ritrovati.20. Per la maggior parte dei nostri desideri c'è già qualcuno pronto al lavoro per farceli desiderare come se fossero davvero nostri.21. Tutto è parodistico nella libertà di consumo, soprattutto il "tu non puoi tutto perché qualcosa devi a tutti".22. La gratuità è un sogno corrotto, una fantasticheria, della società della nihilazione.23. Il miglior modo di togliere soddisfazione al desiderio è di sperare in essa.24. L'economia, che ha trasformato il lavoro in una disoccupazione attiva, per cui al lavoro sembra ovunque che non si faccia niente della propria vita, mostra agli illusi la via opposta, quella più redditizia. La nuova economia dispone senza dubbio del potere di aumentare il rifiuto del lavoro a vantaggio di uno spirito di iniziativa e creatività più adatti alla produzione e al mercato odierni.25. Una formidabile tecnologia omicida non resta senza impiego., perché la potente proliferazione del consumabile deve assorbire anche quella formidabile degli eserciti. La

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globalizzazione del libero scambio ha diffuso l'idea della pace come competizione di mercato.26. Nel grande consenso al profitto la ricerca della qualità della vita è più competitiva che mai. Ma l'affinamento dei desideri dei consumatori spesso non ha portato ad altro che alla diffusione del male di vivere il benessere spettacolare.27. L'assenza di un'altra verità, di un'altra necessità che non sia il denaro, non impedisce che il demone della gratuità sia fatto filtrare ovunque come antidoto illusorio, perché l'unico divieto deve avere le sue licenze, deve sperimentare la sua fine.28. L'essenziale non deve bastare all'esistenza di molti, mentre deve mancare ancora a lungo perché i primi si sentano garantiti. Ma l'importante è che i conti tornino: l'unica restrizione al progresso del benessere è che non intralci la psicologia del profitto.29. La merce di qualità deve soddisfare le esigenze di una vita che rifiuta di essere mercanteggiata per meglio essere sottomessa alle leggi dello spettacolo. La qualità della vita è misurabile, e la sua diffusione è naturalmente e potenzialmente distruttiva, come lo erano le fasi precedenti dello sviluppo del capitale, che non ha mai smesso di correre e di saltare di fronte agli ostacoli.30. Il godimento è il prodotto di questa economia, come la democrazia è figlia dell'imposizione del libero scambio a quelli che non sono in grado di sfruttarne i vantaggi. Dove la merce ha seminato la sua tirannia è finita per spuntare la "sua" libertà. Sicuro e insoddisfatto è colui che è dominato dalla sorte della nihilazione.

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Il Brumaio del nostro scontento(prima ed ultima parte)

A science of discontentFranck Herbert's Dune seriesMuad'dib's Imperial Reign generated more historians than any other era in human history.Frank Herbert, Dune Messiah

PREMESSA.Che non si dica che la disposizione degli argomenti è nuova; tuttavia ciò che resta ci rende meritevoli di quel pensare male che attesta come merito il non aver nulla da dichiarare a discarico.Le brevi abitudini sono il make up con cui l'esperienza finge di ringiovanire i suoi difetti. D'altronde la vittoria, che non ci spetta se non come un anticipo di cui è esclusa la riscossione, arride a coloro che amano il disordine senza crearlo.

Il desiderio imita se stesso, il desiderio è una catena, la trasgressione è la serratura.Il risentimento è un sentimento privilegiato, il suo primato è glorificato ogni giorno instancabilmente( si tratta della fatica dello spettacolo). La mimesi desiderante precede il sorgere del suo oggetto, dice Girard, e sopravvive alla sua scomparsa, quindi il risentimento non è comprensibile se non a partire dalla mimesi desiderante. La regola esposta dallo scrittore del capro espiatorio è che il desiderio più desidera la differenza più genera identità. Per cui si può dire che in ogni desiderio si ode (l'odio parla la nostra lingua, cioè tutte) una doppia ingiunzione contraddittoria: imitami, non imitarmi. Dunque, se alla fine,

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come capita (l'incompreso capita, è il caput mortuum), rimangono solo doppi contrapposti, la minima casualità provoca la fissazione di tutti gli odi reciproci su uno solo dei doppi. La mimesi frammenta tutto all'infinito ma lo riunifica in un solo momento - persistendo la generale indifferenziazione, il prodotto del desiderio. Girard esibisce la perversione della mitografia della differenza nell'Anti-Edipo, della quale macchina solo la frase sulla stupidità della trasgressione potrebbe ambire a disegnare il nuovo profilo dell'analisi, cioè della critica post-freudiana.

L'eroe che segue il proprio cuore dove va a finire? L'ovvietà della risposta non è intesa con la stessa prontezza di cui la pratica ci rende testimoni. Il nostro individualismo richiede di essere fedeli alle nostre opinioni, sebbene i disturbi alimentari ci dicano del destino del desiderio più di quanto si immagini.

Gli innesti genetici hanno cambiato la vita, le trasformazioni sono imperiose. Eppure trasformare il mondo e cambiare la vita erano gli obiettivi del nostro passato prossimo. La storia ci asseconda.

Davanti a questa povertà tematica non si può, di solito, fare altro che dare un'occhiata distratta, ma né in dieci minuti, né in dieci giorni, ci è stato concesso di trovare una risposta vertiginosa, assicurandosi qualche padronanza sinottica, come è solito fare chi gioca a scacchi. Dunque nessun omaggio a un vuoto così grande e inquieto. La risposta che, come ogni speranza, ridà il respiro, lasciando per il resto tutto in sospeso, ecco ciò che si vorrebbe leggere.

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Includere, escludere: è la malia del capitale, il suo vortice fascinoso e violento. Come si ama pericolosamente il gioco d'azzardo, il capitale, nella furia della nihilazione, accoglie e rigetta senza mai uscire dalla propria disposizione fondamentale. La sua intimità con la nostra follia non finisce di stupire le generazioni che credono di criticarne le mosse, carpendone lo sguardo fuggitivo.

Come è stato detto, i labirinti urbani moderni, per quanto mortali, non introducono che alla necessità delle frontiere e delle divisioni. Non sono ammesse repliche: non ci si trova che dove ci si deve perdere, ma nel labirinto i confini garantiscono l'apparenza dell'ordine, cioè la sua essenza, e consentono di dare credito alla finzione.

Conrad aveva visto giusto nel cuore della tenebra: il significato di un episodio non è nascosto dentro di esso, ma lo circonda, come la foschia generata dal calore, come uno di quegli aloni nebulosi resi visibili dalla luce della luna, altrimenti la faccenda si fa intollerabile, come lo stesso scrittore sapeva benissimo.

Il metodo: mi sforzo di far sì che quelle che io considero delle nuove premesse teoriche e pratiche non chiudano in anticipo la problematica che svolgono, e rese confuse da ogni interferenza affrettata, come oggi si insegna, mantengano una forma tale che le squalifichi, sebbene non sempre sia possibile. Un modo di riferirsi allegro alle facilità filosofiche e soprattutto un'arte ellittica dell'anfibologia . A cosa serve d'altro la vivacità dell'ellissi? La disseminazione, direbbe Derrida, afferma la sostituzione infinita, e la sostituzione ci sostituisce. L'ingenuità è il gioco di parola.

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(...) Mais, en y pensant soigneusement, je me ressouviens d'avoir été souvent trompé, lorsque je dormais, par de semblables illusions. Et m'arrêtant sur cette pensée, je vois si manifestement qu'il n'y a point d'indices concluants, ni de marques assez certaines par où l'on puisse distinguer nettement la veille d'avec le sommeil, que j'en suis étonné; et mon étonnement est tel, qu'il est presque capable de me persuader que je dors. Le parole di Descartes, come quelle di Calderòn, sulla vita che è sogno, ci dicono allo stesso modo che, nel mondo, il teatro, cioè lo spettacolo prima della società dello spettacolo, premeva sullo sviluppo dei mezzi di produzione per imporre ovunque le sue condizioni all'addomesticamento.

Nato sociale il progetto che abbiamo ereditato, esso non rimargina le sue ferite se si riduce a individuale e si rassegna all'autenticità che l'ipocrisia gli consente. Il riserbo appare giustificato dalla verosimiglianza.

Reticenza e preterizione. Nelle prese di coscienza dei nostri contemporanei ogni peggiore tradizione dello spettacolo non tarda a imporsi con l'ovvietà di una natura, non più seconda. Una simile ovvietà non viene simulata dalla loro frettolosa indifferenza, ma viene dichiarata come una conquista. Il pregio della comprensione si comprime nelle minuscole pieghe dell'ellissi.

L'audacia deve essere del tutto involontaria, fino al punto di sembrare tale.

Deve esistere un solo tono, falso naturalmente, ma la falsità è intima e consolatoria, per essere inconfondibile, come il tono

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che la esprime, perché la correlazione tra spettacolo e mondo deve poter essere dimostrata ogni minuto. La TV parlava come il mondo perché il mondo parlava come la TV. Ma la TV parlava pure come la famiglia, sebbene essa non ci sia più, perché il mondo ha sempre parlato come la famiglia e la famiglia come il mondo. La falsità c'è, poiché non è inconfondibile, ma il suo tono non si sbilancia.

Hans Mayer dubita che si possa credere all'autenticità, nonostante il fasto letterario, l’infanzia berlinese di W. Benjamin non è il vissuto dello scrittore berlinese ma una parafrasi di Proust. Ci si può fidare o no? Si poteva credere ai Caraibi o alla Malesia di Salgari? Le due domande non sono strettamente connesse, ma le passioni che trasportano sì.

Gli aspetti irrilevanti di una questione potrebbero non esserlo più, dico: irrilevanti. Ma potrebbero essere davvero insignificanti. Non esiste un metodo sicuro, ma delle pretese e degli stili, ed entrambi conducono con sé numerosi errori. Alcuni errori sono utili, altri no, perché la critica ragiona per partito preso, sebbene ci siano delle ragioni necessarie e talvolta sufficienti.

Girard afferma che la mimesi è per sua natura percettiva, e coglie immediatamente la più piccola discrepanza tra le parole e le azioni dei suoi mediatori: se tra le une e le altre vi è uno scarto, si ispirerà sempre a ciò che il modello fa, non a quello che dice. Dunque c'è un'economia politica mimetica. La teoria mimetica pretende, secondo Girard, di divenire la teoria di tutto ciò che mette in relazione gli individui tra di loro, spiegare il teatro dell'invidia come recita il sottotitolo del volume dedicato a Shakespeare.

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Sergio Luzzatto dice che merita far parlare ai quadri di David il loro inimitabile linguaggio, ora più che mai contraddittorio, eppure ricchissimo.Di questo personaggio si nota “un decoro tacitamente espresso nella stagione del ripiegamento, piuttosto che sbandierato nell'età dell'impegno”. Ma infine l'attenzione si sofferma sullo sguardo e l'autore si chiede, lasciando in sospeso la risposta, se in esso sia concentrata severità o disperazione, sebbene il mistero che vi si addensi sia velato di stanchezza.Le parole attribuite a Talleyrand danno una definizione idealistica ma soddisfacente: questi sopravvissuti, sottratti a ogni discendenza, hanno fisionomie che spiccano solitarie: la loro inutilità è maestosa, la sapienza che forse non hanno e che certamente non vogliono trasmettere ci guarda in silenzio come ogni ricordo che accetta di distruggersi.La bellezza degli epitaffi è tutta compresa nelle straordinarie convergenze che consentono, negate ai viventi.

Si ha un bel dire che la paura non dovrebbe sottomettere i nostri gusti; non ho dubbi ad ammettere che la condiscendenza offuschi la ricettività, ma la paura, sebbene sia il più pervasivo sentimento, non distrugge affatto la comprensione del testo o il piacere della lettura; anzi mi ricordo ancora la paura struggente e la ripugnanza che mi facevano fingere di avversare i libri di Wells. Ma era un modo, il più sicuro, di conservarne il piacere. Si può dire quel che si vuole, ma leggere serve a prepararsi a essere morti, come si direbbe in Mentre morivo di Faulkner, e a questa preparazione mi induceva Wells, quando ero bambino.

Da ormai due secoli, gli Stati Uniti hanno la fissazione di Dio e delle pistole. In queste parole di Harold Bloom la pratica

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considerazione che i due argomenti debbano essere trattati in modo congiunto subisce una canonizzazione letteraria. Sarà per questo motivo che Bloom segue le tracce della balena bianca nel deserto di Meridiano di sangue.Ma si tratta di retorica, Lisia diceva contro Eratostene: “... e questi crimini sono così atroci, che persino la finzione, se me ne permettessi l'uso, non potrebbe aggiungervi niente; e anche limitandomi alla pura verità, ancora non avrei né abbastanza tempo, né abbastanza forza per dire tutto”.

Come ragionava Marx e come ragiona l'opposizione alla globalizzazione: Ai nostri giorni il sistema protezionistico è conservatore, mentre il sistema del libro scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo tra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio. In questo modo si esprimeva il teorico di Treviri. L'opposizione alla globalizzazione è un'opposizione conservatrice, ma il comunismo marxista era una teoria della catastrofe e della catarsi.

Ricorda Long John Silver, all'inizio della sua storia, quella scritta da Larsson: ... Scoppiai in una risata che perfino alle mie orecchie parve provenire dagli inferi, o dall'altro lato della fossa, se preferite. Risi fino alle lacrime. Si dice che una bella risata allunghi la vita. Chissà. Ma allora, che io sia dannato, si deve ridere finché c'è tempo.

L'enigma del ricordo di copertura appassionò Freud, il quale si chiese come mai venga represso proprio l'elemento

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significativo e conservato l'elemento indifferente. Il ricordo di copertura rappresentava impressioni e pensieri relativi a epoche successive, ma reprimeva, o meglio spostava l'immagine mnestica originaria. Un'allucinazione che poneva in rilievo l'insignificante. L'occulto non è l'insignificante, ma lo diventa: vivido, sgargiante, promettente.

“Doveva essersi appena addormentato quando si risvegliò. In un primo momento gli parve di essere caduto fuori da se stesso. Si accorse di giacere in un letto. Non trasportabile! Pensò Bloch. Una mostruosità! Si percepì come se fosse improvvisamente degenerato. Non andava più bene; per quanto immobile giacesse, era tutto un affannoso affaccendarsi; tanto nitido e vistoso giaceva lì, da non poter scantonare su nessuna immagine che fosse paragonabile con lui. Il suo modo di essere lì faceva di lui qualcosa di lascivo, di osceno, di sconveniente, qualcosa di assolutamente scandaloso; sotterrare! Pensò Bloch, vietare, rimuovere! Ebbe la sgradevole impressione di tastarsi, ma si accorse poi che la sua coscienza di sé era così intensa da farsi sentire come un senso di testamento sull'intera superficie corporea; come se la coscienza, come se i pensieri fossero diventati maneschi, aggressivi, fossero passati a vie di fatto contro di lui. Disarmato, incapace di difendersi giaceva lì; l'interno schifosamente rivoltato contro l'esterno; non estraneo, solo odiosamente diverso. Era stata una scossa, e con una scossa era divenuto innaturale, era stato strappato via dal contesto. Giaceva lì, impossibile, così reale; senza più paragoni. La sua coscienza di sé era così forte, che aveva una paura mortale. Sudava. Una moneta cadde per terra e rotolò sotto il letto; Bloch tese le orecchie: un paragone? Poi si era addormentato. Peter Handke - Prima del calcio di rigore - Die Angst des Tormanns beim Elfmeter.

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La lunga citazione di Handke mostra più di qualche affinità con le sensazioni, spesso rovesciate come in un calco, di Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi di Kafka. Si tratta di un ubriaco, Josef Bloch, cioè di una versione idealista dell'insetto kafkiano. Il breve romanzo di Handke è una pratica dimostrazione di ciò di cui siamo debitori verso Kafka, del Castello e del Processo, per esempio. Bloch è colpevole di un omicidio incomprensibile, mentre dei personaggi di Kafka si dice, non che non siano colpevoli, ma che siano incomprensibilmente accusati.

Giacomo Contri scrive che la perversione è coscienza in servizio permanente effettivo e aggiunge che aveva ragione Freud a dire che se ci fosse moralità, non sarebbe la coscienza a farle da sede. Il superio, osceno e feroce ordina di godere, dopo aver reso impossibile la soddisfazione, per cui l'ordine detto simbolico è il regime dei godimenti forzati, compulsivi e dubbi. L'espressione francese plus de jouir è, non solo la contrazione di il n'y a plus de jouir, ma anche indice di un eccesso , di un plusvalore, di un plusgodere.

L'illuminismo pensato da Swift critica il suo futuro (e ciò che doveva passare perché fingesse di inorridire del proprio immaginario superamento). La razionalità è sempre mostruosa, per quanto ci si arrenda con rassegnazione, e non sorpresi, ad essa. Swift sa di non mentire quando finge di credere che l'utile sia nell'interesse dei pochi e non rappresenti un principio imparziale e scientifico.

Scrive Cees Noteboom, in Le montagne dei Paesi Bassi, che basta aver vissuto un po' e si sa che la vita più lunga è consapevole del dolore dell'enumerazione e lo evita. Sono

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sempre poche le cose che determinano un'esistenza. Questa considerazione si completa con un'altra dello stesso autore per cui ognuno ha il diritto di pensare quel che vuole, e ogni forma di errore è lecita purché non si coinvolga qualcun altro. “I seduttori sono odiati. Da cosa dipende? Gli olandesi non si frequentano, si confrontano. Fissano i loro occhi luminosi in quelli dell'altro, e ne soppesano l'anima. Non ci sono nascondigli. Nemmeno le loro case lo sono. Tengono aperte le tende, e la considerano una virtù”. Che spreco di trasparenza.

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Note senza teoria

Forse non è abbastanza noto in che misura la teoria rifiuti la musica e la musica la ricambi. La musica della filosofia, genere che amavamo, le ha perse per strada, nei tempi rapidi di una politica spietata di banalizzazione, la nihilazione, e si ritrova a ragionare non di una teoria utopica che non c'è, ma di una teoria che semplicemente non ci sarà più, se non come inganno. riflessione. La musica della filosofia auspica una riflessione sulla musica leggera nello stesso momento che le nega un'essenza, senza di cui però non si ha riflessione. Si vuole che non si rifletta su di essa per dire poi che su di essa si può riflettere. Almeno si conceda alla musica leggera una sociologia. Se per Adorno, dice Manlio Sgalambro, l'ultima volta che la musica leggera ha incontrato quella seria è stato durante il "Flauto magico", è vero però che un secolo intero non ha esaurito la leggerezza della musica leggera. Gli insulti con i quali è stata esposta la gnoseologia della musica leggera sono la dimostrazione che la teoria aveva temuto la musica leggera, e temuto gli interminabili avanzi del sempre uguale. L'insulto è insomma ciò che la teoria aveva voluto che la canzone le rimandasse. Un'esistenza non ingannata dalla sociologia della musica potrebbe essere ritmata dalla musica rock, quanto l'io musicale del primo quarto del secolo scorso lo è stato dalla cosiddetta Krisis? 1.Il cambiamento di funzione della teoria trova la sua determinazione nella musica rock. Il compito della teoria si adempie oggi nella musica cosiddetta leggera che, più che fungere da materiale per una nuova Philosophie der Neuen Musik, se ne ripropone il compito. Ma il rock non è l'erede

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della musica dodecafonica perché suona e non dissuona, dato che non è mai stato onesto.2.La batteria non è il tuono, il rumore del cielo, ma il ritmo infero del lavoro meccanico, un dio guerriero ha parlato agli uomini con la batteria. Il dio della produzione capitale spara direttamente contro il cielo.3.La musica di tutti i giorni non è musica e neppure leggera, galli e arlecchini sono muti. Chi ci canta è il rumore del mondo. La canzone è vinta dalla struttura che la porta, non prefigura nessun altro tempo, perché si dà a questo mondo così com'è.4.La canzone espone la teoria al pericolo di finire prima ancora di cominciare. I suoi tre minuti possono essere un contributo a una dottrina del tempo, di cui essa si vuole sbarazzare con la tenacia di un sistema di cui è parte. La canzone è la più breve opera dello spirito di un tempo che non deve dimenticare il ringraziamento al godimento che essa genera. Nella musica della filosofia la canzone non ha scoperto che la sua natura è persuasiva, la canzone come istituzione oratoria incorona l'ordine del presente. Essa vuole non far capire con altri mezzi.5.Il canto è l'animalità felice della gabbia. Ma, nelle condizioni attuali, dalla musica si pretende il godimento che si è pagato. In un trattato di etica di questo tempo, la canzone ha un posto di riguardo.6.Che le relazioni umane siano modellate dalle canzoni è un fatto notevolmente trascurato. La prassi della teoria è la canzone.7.

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Se la canzone della teoria aspira ad essere un capitolo dell'estetica di questi tempi, sottoporla a giudizio serve per riconoscere i tratti della tortura che è. Se la canzone della teoria preferisce l'etica è perché l'orecchio è il giudice delle nostre azioni. Il cantante comunque non ha bisogno di argomenti.8.La canzone deve divertire e il riso che concede quest'epoca deve essere maggiore di qualunque l'abbia preceduta. Goethe va riscritto: "Accanto alla cosa più terribile, c'è la gioia, c'è il rimedio". La canzone è democratica, non chiede di essere capita né lo vuole, ma soprattutto non vuole che le si presti troppa attenzione.9.La canzone non manda via il mondo, ma ne accoglie lo spirito vendendolo. Il divertimento della canzone è l'aggressione alla teoria, giacché l'individualità è un peso inutile, la canzone ce ne libera, con leggerezza. 10.La canzone non è seria ma è sul serio, così come si può dire che i giovani teppisti sono neoplatonici senza saperlo.11.La canzone deve finire, e deve finire presto. Questo imperativo ne richiama un altro altrettanto imperioso e di ordine generale. La stupidità della canzone è quella dello spettatore. Nella stupidità l'ordine del mondo si lascia contemplare soddisfatto di una simile conquista.12.Certamente i filosofi finiscono con il trovare in se stessi ogni cosa, come scrive Sgalambro, e pure i loro sbagli. E, poco più in là, cento miliardi di morti non valgono uno scopo.13.

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Non c'è più distanza qualsiasi tra i suonatori e i suonati, naturalmente le anime che si sputano sono tutto ciò che si può sputare. L'energia che esplode nei concerti è superiore alle sue cause, se la causa fosse la star, ma questa è sullo sfondo. Smarrirsi sembra un atto di libertà, se non fosse un lavoro socialmente incoraggiato. 14.La musica della filosofia non ci sarà, ma ci sarà la sociologia della musica, perché la realtà si farà leggere dalla musica, dalla canzone.15.La nihilazione parla nelle canzoni. Niente dolore che non sia falso, idem con il resto.16.Kant, nella "Critica della ragione pura" scriveva, e Sgalambro cita questa frase perché l'agonia del sistema solare deve essere considerata come un problema presente, che "in effetti la cosa non potrà mai contenere nella sua realtà effettiva più di quello che è contenuto nella sua possibilità completa", questo per suggerire che il pessimismo, a cui è ridotta la filosofia odierna, può dilazionare la sua agonia nel divertimento. 17.Se considerassimo che il divertimento fosse ancora una condanna saremmo rimasti indietro nell'analisi della situazione, la massimizzazione del profitto imponeva una legge sul godimento, ma ciò che era un bene di consumo ora è un gadget.18.La musica leggera non risponde a nessun bisogno, ma non per questo nessuno ne alleggerisce la necessità, d'altronde neanche i desideri sono necessari al consumo. Le intenzioni del consumatore non hanno mai contato nulla, ma proprio per questo egli gode. La democraticità della musica è questo.

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19.La canzone obbedisce all'obbligo di far finta, niente deve finire, tutto deve aggiungersi. Niente entropia, ma eterno presente come accumulo indefinito. Le canzoni devono essere meglio del sempre uguale, meglio dell'eterno ritorno. La musica della filosofia è un relitto del passato.20.La canzone è la teoria che questo mondo distribuisce ai suoi addetti.

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Il nero dorso del tempo

Javier Marias, Nera schiena del tempo. Niente è mai indubbio, dice J. Marias. “Duriamo meno delle nostre intenzioni”. L'autore si spiega subito: “Lasciamo troppe cose messe in movimento e la loro inerzia così debole ci sopravvive”. Comunque, è anche vero che “ognuno dimentica sempre troppi istanti, perfino ore o giorni e mesi e anni ...”. C'è una estrema insicurezza nella parola perché, pure la più rozza, è imprecisa e metaforica, e analogamente ogni lettura altera il testo, sebbene di solito non lo riscriva. Ogni posterità - l'autore senz'altro ama le grandi questioni della letteratura, che solleva senza imbarazzo - dato che perdiamo tutto perché tutto rimane tranne noi, è un oltraggio ed è un oltraggio anche ogni ricordo, se potessimo accorgercene dopo morti.Per questo i libri servono a ricordare, e a rassicurarci sulla certezza del fatto che dimenticheremo. Superati questi primi ostacoli e, volendo ancora leggere, Marias conferma un sospetto di lungo periodo, che esista “una fiduciosa e ingiustificabile tendenza a credere ciò che gli autori affermano a proposito dei loro libri”.Ma l'autore non recede dal coraggio dimostrato nell'affrontare temi ardui e polverosi e scrive dunque che sono troppi quelli che sono nati e sono trascorsi in silenzio e troppo pochi quelli di cui si conserva memoria. In particolare è difficile difendersi per via negativa, dimostrando di non aver commesso, di non aver agito, compiuto, detto, partecipato o assistito a qualcosa. La calunnia è intrinseca allo scrivere.

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Da certi luoghi squallidi, dice lo scrittore, “è difficile cambiare i destini una volta che sono cominciati, se non si sa che sono destini”. Ma voleva ingannare il lettore, nessun destino è un destino prima di esserlo, e nessun corridoio mal pulito è peggiore di un incrocio greco.Ciò che ci viene attribuito in una finzione non può essere rettificato, aggiustato, compensato, variato, dice Marias, eppure cosa sono i libri se non riscritture di libri precedenti? Una vita mortale non sa resistere alla menzogna di un testo, ma un altro testo può modificarla. Dunque c'è rimedio.Puntualizzare è di fondamentale importanza, “a volte ci si deve cautelare contro le burle, là dove non le si accetta, e si sa sempre dove”; non sempre, non sempre, dove sarebbero le sorprese allora?Neppure ci si può sorprendere del fatto che “l'autore è trascurabile”. Non può non esserlo, essendo invece il più accidentale degli esseri che si avvicendano nelle letture.Anche a me che scrivo è toccato scoprire come Conrad avesse ragione a dire che dopo i venticinque anni passa la linea d'ombra, invece Marias, che ripete le parole del polacco, dice che erano decisivi “nella sua epoca”, intendendo l'età di Conrad (e dopo non più?). Quelli che ci precedono diventano allora tutti antidiluviani, dice ancora, ma, per fortuna, non crede a quest'ultima frase: “ci sono sempre oblii e periodi cancellati e io li conosco”.Quando la cosa avviene, quasi tutti quanti si rendono conto più o meno della propria imminente e immanente cessazione; quando, finalmente o meno, si è arrivati o quasi al punto in cui sta per verificarsi, cioè diventare vera, la cosa che sappiamo ogni giorno essere probabile. In alcuni rari casi il tempo non agisce civilmente, allora ci sarà il taglio sicuro e pulito, aggiunge, senza preavviso. Nello stesso capitolo, tra parentesi,

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l'autore scrive che “fa sempre piacere saltare delle pagine e non è possibile quasi mai”, così nessuno può escludere che ci sia un parallelo esplicito.Di un misterioso ed intimo autore - John Gawsworth -, Marias ha cercato l'opera omnia, la quale presenta una singolarità, non spiacevole: dei sei volumi, manca - non fu mai pubblicato - quello di cui è presente il solo titolo, Farewell to Youth.Più avanti nella commemorazione, l'autore si chiede dove siano andati i libri che Gawsworth sapeva scegliere in mezzo a scaffali caotici e polverosi. Saranno tornati al mondo paziente e taciturno dei libri usati, da cui escono soltanto temporaneamente.Chi scrive di Gawsworth temeva che gli sarebbe toccata la stessa sorte, e, perché regga il senso del discorso, Gawsorth provò, pubblicando alcune antologie dell'orrore, di salvare dall'oblio alcuni scrittori, finendo per assimilarsi a loro, prevedendo il percorso simile, ma finge, o cerca veramente, di attenuare la sensazione che le cose e le persone effettivamente si cerchino e si trovino, dicendo di non attribuire grande importanza alle coincidenze e alla perpetua attività del caso.La morte inattesa di qualcuno che conosciamo ci spinge, dice Marias, a barare con i ricordi, “gettiamo su quella situazione una luce che non le appartiene, non è sua ma del finale, la morte illumina con il suo fulgore trattenuto ciò che è venuto prima, che di per sé era in ombra o nel grigio e non aveva importanza né l'intenzione né la speranza né l'animo di lasciare traccia di nessun genere e già andava svanendo, dopo il suo verificarsi”. Eppure anche questo non è propriamente vero se dall'alba dei tempi ogni gesto, anche il più ordinario, deve riflettersi nell'anima come se fosse l'ultimo, non dico tutti, non dico sempre, ma ordinariamente sì, la loro essenza deve volatilizzarsi.

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Continua l'autore, ammettendo che è difficile opporsi a perpetuare una leggenda, tanto più se si è contribuito ad estenderla, perciò sarebbe meschino rifiutare di impersonarla, sebbene io credo che si possa benissimo fare a meno di incoraggiare una impersonificazione. Essa rimarrà senz'altro ancora nella mente dei più, nonostante gli sforzi opposti, ma in modo sfuggente, controluce. Perché il perdurare dei volumi a stampa sui loro autori dovrebbe essere incongruo, ironico e molto ingiusto, e non invece congruo, letterale e molto giusto? Comunque neppure i libri durano molto. Temere che un giorno essi ritornino sul mercato, temere la loro circolazione, significa piangere il diritto a una proprietà indistruttibile sulle cose. Canetti scrisse Auto da fé, per una ossessione, e per quel caso clinico, in quel romanzo, la biblioteca salì in cielo, cioè andò in fumo.“Soltanto la gente molto meschina sente gelosia per i morti”. Dopo questa frase e quel che segue mi rendo conto, lo sapevo ma non ci volevo pensare, che alle cose è, semplicemente, delegata la simbolica rappresentanza di un essere, vi è impigliata una dimostrazione di affetto, ma a questa delega infelice mi pare, o mi parve, giusto rifiutarsi. Sono pronto da parecchio tempo a riconoscere di avere torto e di avere avuto torto effettivamente, in modo dimostrato. Ciò che rimane di solito, finché la memoria non viene inghiottita anch'essa, è un'immagine, anche quando non c'è una foto, e forse, certamente, dei sogni.I bambini, dice l'autore, vivono nel presente, in un presente eterno, e non sanno che cosa sia un minuto o un'ora o un giorno, non capiscono che il tempo consiste nel fatto che passa e si perde, nel suo passaggio e nella sua perdita. Ma l'autore pensa, a volte, che “tutti gli ieri palpitino sotto la terra come se rifiutassero di scomparire del tutto”, e nella pagina seguente scrive: “dura tutto troppo o non c'è modo di farla finita con

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niente”. In altro contesto compare una domanda preoccupata: “qualunque lunatico può credere quel che vuole, no?”

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Le Précis (Cioran)

Necessaria est methodus ad rerum veritatem investigandam.

Cioran è uno scrittore antidepressivo (per un eccesso contrario, la gaiezza del disilluso), a conferma dello sforzo durato tutta la vita di apparire più decadente che deprimente a dispetto di ciò di cui ha parlato (in francese piuttosto che in rumeno: nel nichilismo vi è una questione di stile). Applicare il détournement su questi testi non è facile ma derisorio sì, perché essi, a loro volta, sono frutto dell'adozione seriale di quel metodo.

Quindi, invertendo la direttrice di senso di un qualunque testo di Cioran, si rischia l'impasse nell'ottusità, il premio di consolazione del subrealismo di una simulazione della dialettica.

Talvolta ho ritenuto preferibile lasciare il testo così come si presenta. Dove è stato modificato, e che cosa? Cioran ha scritto molti libri, in Italia pubblicati da Adelphi. Leggetelo!

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1. Spiegare un testo significa deriderlo, la storia della filosofia è la storia del disprezzo della filosofia.

2. Se della psichiatria l'unica cosa interessante sono i discorsi dei matti, dei libri di critica lo sono le citazioni, di solito sbagliate.

3. L'importante non è leggere, ma circondarsi di aneddoti sugli scrittori di cui non si è letta una riga, così si impara di più sul loro conto.

4. La stupidità aiuta. Essere ottusi è la migliore protezione dai rischi della libertà.

5. Per leggere bisogna odiare ciò che è scritto nei libri, contrastare la loro forza nociva; ciò aiuta a capirli e a sopravvivere al veleno che contengono.

6. Nella lettura è preferibile, tra tutti, lo stile della portinaia.

7. Fallire è un desiderio riuscito.

8. La quantità di finzione nel tragico deve crescere proporzionalmente, perché un pensatore sia preso sul serio oggi.

9. Il timore del ridicolo, se non è superato d'un balzo, fa rimanere al di qua delle proprie possibilità.

10. Il nemico è quello che mi somiglia di più.

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11. Salvaguardare l'insignificante è il pregio che di solito accordiamo a un libro.

12. È cosa banale dire che oggi un'opera d'arte è insieme brutta e impossibile.

13. Se qualunque verità può essere sostituita da un'altra, lo stesso non si può dire della speranza.

14. Dopo i vent'anni, se va bene, non si fa che verificare quel poco che si è capito.

15. Scrivere è disobbedire alla volontà di dire ciò che si ha da dire.

16. Che ogni soluzione peggiori la situazione precedente può essere considerato consolatorio riguardo al peggio.

17. In ogni volontà vi è uno stimare.

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Considerazioni su due epoche

Nel campo della teoria nessun seguace. (Detto imitando Kierkegaard)

Non solo nel mondo degli affari, ma anche in quello delle idee, il nostro tempo sta attuando un'autentica liquidazione: Tutto si ottiene a un prezzo talmente vile, che viene da chiedersi se alla fine ci sarà ancora qualcuno disposto a offrire. Ogni mercante della speculazione che l'importante corso della filosofia moderna mette in evidenza, ogni libero docente, assistente, studente, non si accontenta di fermarsi a dubitare di tutto, ma va oltre. Forse sarebbe avventato e inopportuno chiedere loro dove in fondo se ne stanno andando, ma è cortesia e modestia il considerare come una cosa troppo risoluta il fatto che essi abbiano dubitato di tutto, poiché altrimenti sarebbe anche un discorso strano quello che essi vanno oltre. Kierkegaard - Prefazione a Timore e tremore.

1.

L'epoca della rivoluzione era essenzialmente appassionata; per cui ha avuto essenzialmente forma. Anche la manifestazione più violenta di una passione vera ha ricevuto la sua forma dalla manifestazione stessa. L'epoca della rivoluzione era essenzialmente appassionata; per cui ha avuto a che vedere essenzialmente con la cultura. L'energia dell'interiorità è stata infatti l'unica misura sulla cui base si è potuto dire, in altri tempi, che un proletario animato essenzialmente da audace risolutezza era essenzialmente colto. L'epoca della rivoluzione era essenzialmente appassionata; per

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cui è potuta essere violenta, licenziosa, selvaggia, senza riguardi ad altro che se stessa, ma, pur nutrendo delle non disinteressate mire esteriori, essendo rivolta essenzialmente all'interno, non è stata e mai sarà mai abbastanza rozza da essere sobria. Mentre l'ordine esistente si marchia ufficialmente della falsità come garanzia di realtà, non ci si stupisce della violenza, dell'ingovernabilità e della sregolatezza di cui si occupa la tecnica della direzione dei movimenti di massa; ma se non c'è alcuna autonomia soggettiva avremo, in determinate circostanze, solo la brutale rozzezza della gregarietà soddisfatta, nelle stesse proporzioni che in una qualunque condizione ordinaria. Giacché nessuno ha qualcosa in proprio e neanche in gruppo, e nessuno ricorda più i ditirambi dell'insurrezione che adunavano le masse, surrogato della gioia sono diventate da tempo le ciance e le dicerie dello spettacolo, l'importanza illusoria dei rapporti sociali e la fredda invidia. Nessuna ironia che la rapidità del trasporto e l'urgenza della comunicazione attuali siano in rapporto diretto alla loro banalizzazione! Se la logica della falsa coscienza non può conoscere se stessa, sono le leggi del pensiero dominante, il punto di vista esclusivo dell'attualità, ciò che viene riconosciuto da tutti. Il delirio si ricostituisce nella posizione stessa che pretende di combatterlo. La critica dello spettacolo deve saper aspettare, mentre la falsità è un momento di se stessa. L'epoca della rivoluzione era essenzialmente appassionata. La sua presenza esigeva segretezza, ma con la sua assenza abbiamo subito meno una disdicevole ingenuità che una fastidiosa assenza di carattere. L'epoca della rivoluzione era essenzialmente appassionata, e in questo senso ha conosciuto l'immediatezza, anche se provvisoriamente. Sul piano del rovesciamento di prospettiva il singolo doveva finire con il tradire se stesso. L'immediatezza dell'epoca rivoluzionaria è stata un ripristino dello stato

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naturale in opposizione a una positività indiscutibile e inaccessibile. Ma l'assenza di forma è assenza di contenuto. Bisogna ricordarlo specialmente ai nostri giorni, quando nulla ha importanza vera e tutto ha il sigillo dell'urgenza. L'epoca della rivoluzione era essenzialmente appassionata; per questo è stata essenzialmente rivelazione delle metamorfosi e dei tradimenti di una critica congetturale sulle reali volontà dell'epoca. L'impeto della passione ne ha segnalato la presenza, la traccia dell'azione ha marcato gli errori, bisognava decidere, ma ciò a sua volta è stata la salvezza dell'ordine dell'irrealismo dominante, giacché l'oggettivazione del dominio sa ricondurre ogni decisione nello spettacolo. Lo spettacolo non chiede altro che un'estrema determinazione ai suoi servitori. L'epoca del nichilismo spettacolare è stata un'epoca rivoluzionaria e lo sarà ancora.

2.Se avessimo tabelle sul consumo di materia grigia da generazione a generazione come le abbiamo per il consumo di qualunque altra merce, ci stupiremmo a vederne la quantità mostruosa che viene consumata attualmente. Se dell'epoca rivoluzionaria diciamo che si perde, dell'attuale dobbiamo dire che non si vuole disperdere, ciò sta alla base del tergiversare di un'epoca che non vuole essere dissolta dalla sua stessa fretta. Contrariamente all'epoca rivoluzionaria che era attiva, la nostra è l'epoca degli avvisi, l'epoca dei comunicati vari - sembra che non succeda niente, però segue immediatamente il comunicato in cui si smentisce il sospetto che tutto stia cambiando. Un'insurrezione oggi sarebbe la cosa più inimmaginabile di tutte. L'epoca attuale dello spettacolo con le sue brevi fiammate d'entusiasmo seguite da un'indolenza altrettanto destinata ad essere consumata rapidamente, ha molta attinenza con il comico, ma chi comprende il comico vede agevolmente che il comico non sta affatto dove s'immagina l'epoca attuale, ma sta

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proprio nel fatto che un'epoca simile voglia ancora essere spiritosa. Spassionata com'è non sa cosa farsene del sentimento e dell'interiorità, anche se finge talvolta di rimpiangerne la primordialità. Se è sicurissimo che l'irretito nello spettacolo può nutrire le stesse buone intenzioni dell'appassionatamente risoluto, all'inverso chi si travia nella passione può avere le stesse attenuanti di chi è larvatamente consapevole di lasciarsi ingannare dalla sua ragionevolezza, mentre l'errore non diverrà mai noto. Il dolo dialettico interpola privatamente una variante segreta: non c'è ambiguità laddove sembra che ci sia.Moralità è carattere, dunque il carattere è ciò che rimane inciso, ma anche l'immoralità, in quanto energia, è carattere. Nell'ambiguità dell'inganno spettacolare non c'è né l'uno né l'altro. La rivolta della passione è elementare, in un'epoca appassionata l'entusiasmo è il principio unificante, in un'epoca spassionata l'invidia diviene il principio unificante in negativo. Più lo spettacolo prevale, più l'invidia diviene pericolosa perché non ha carattere sufficiente a cogliere il proprio significato. L'invidia si erige a principio della mancanza di carattere. L'invidia della mancanza di carattere non capisce che l'eccellenza è eccellenza, non sa di riconoscerla seppure negativamente. L'invidia diffusa non è che il livellamento della società spettacolare. La realizzazione più aberrantemente logica del nichilismo spettacolare è il livellamento quale sintesi negativa della reciprocità negativa fra gli individui. Il principio della socialità è il fattore corrosivo e corrompente in cui il regime dello spettacolo ha rovesciato il concetto di comunismo. Il principio di associazione, la comunità, la socialità, al giorno d'oggi, non sono affermativi ma negativi. La corruzione morale dell'autocrazia democratica e il declino dei tempi rivoluzionari sono stati descritti spesso, ma il declino di un'epoca spassionata come quella attuale è qualcosa che non sarà di sicuro meno funesto, seppure, grazie all'ambiguità dello

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spettacolo, non meno vistoso dei precedenti, ma sicuramente meno compreso.

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La democracy di Graham Greene

La liberté, qu'est ce que c'est la liberté?

Gli americani, a sentire loro, sono gente tranquilla. The Quiet American, quello del romanzo di Graham Greene, era deciso a fare del bene, non a una persona in particolare ma a un paese, a un continente, a un mondo intero. Nel romanzo di Greene si possono rinvenire non meno di tre idee, e poiché si tratta di una quantità considerevole, forse eccessiva per qualunque persona dotata d'ingegno, potrebbe non essere inutile provare a individuarne almeno un terzo (mentre prosegue martellante l'offensiva per l'istruzione delle masse). La dichiarazione più cinica (ma il nichilismo è posticcio) del narratore appare come un epitaffio che anticipa la conclusione: uccidere un uomo significa fargli un favore impagabile. Ma questa diventa una sorta di legge naturale quando egli osserva che certe volte si amano i nemici e certe volte si odiano gli amici. Il narratore sfoggia una sicurezza, in contrasto apparente con quanto gli viene da riflettere, che gli permette di affermare:

1. L'implacabilità del bene americano è associata al suo infantilismo;

2. Sarebbe meglio, invece, se gli americani accettassero il fatto che nessun essere umano può capire un altro;

3. L'amore fondato sul dollaro è fatto di buone intenzioni, coscienza pura, e che gli altri vadano pure all'inferno.

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Eppure, americani ed europei, a parziale smentita delle precedenti affermazioni, o siamo conservatori liberali o socialisti liberali, ma tutti con la coscienza a posto. Ma l'americano, per il narratore, apparteneva a un universo psicologico di grande semplicità in cui si parlava di Democracy e di Honor senza la u che si trova sulle iscrizioni delle vecchie tombe. L'ipocrita narratore dice di essere nichilista ma sa che per saper mentire è necessaria una tradizione e un'esperienza. Stiamo provvedendo ai parenti delle vittime dice l'americano tranquillo: sono solo vittime di guerra; è un peccato, ma non si può sempre colpire il bersaglio. Comunque sono morti per la causa (...) in un certo senso si potrebbe dire che sono morti per la Democracy. Il narratore, nelle ultime righe del romanzo, si mostra soddisfatto, finalmente. Da quando (l'americano tranquillo) era morto mi andava tutto bene, ma avrei voluto che ci fosse almeno qualcuno a cui poter dire che mi dispiaceva. La libertà è libertà di tradimento.

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Sdegnosa confessione sul nero umore

La prefazione potrebbe avere per titolo: Per esempio: leggi gli aforismi di Lichtemberg (così passerà il tempo e non penserai! Detto di Omar Wisyam che ha letto l'Antologia di André Breton)).

Il timore più grande superato; l'unico motivo di rammarico, meno l'accusa di imparzialità, avrebbe potuto essere tutt'al più quello di non esserci dimostrati abbastanza difficili nell'unico atteggiamento idoneo per un compito di tal fatta. Le prove eliminatorie del torneo eliminano lo humour, meno la stupidità, l'ironia scettica e la facezia senza peso, mentre si devono sottolineare l'influenza del sentimentalismo dall'aria eternamente braccata (all'acqua di rose) e di una certa fantasia di corto respiro, la cui impresa insiste inutilmente nel voler sottoporre lo spirito ai suoi artifici caduchi. Di ogni frase, di cui è modificato il senso, è preferibile una assoluta reticenza, in cui si esaurisce il suo traité du style, né al di qua della rivolta assoluta dell'adolescenza, né al di là della rivolta interiore dell'età adulta.

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Falsi obiettivi

1.La democrazia è l'arte di dire - bel cagnolino - perché hai il sasso in mano, o la frase di Mae West sul semplice sorriso e la pistola.

2.Poiché i partiti non rappresentano più gli elettori, il loro compito, il loro “impegno”, è quello di cambiarli.

3.Per dire la verità bisogna sempre sbagliare misura.

4.Il pessimista sa che è vero che il migliore dei mondi possibili non potrebbe essere peggiore.

5.C'è un modo per far credere tutto: far credere di non voler dire che c'è.

6.La parte del torto è l'unica rimasta per dire la verità.

7.Discutere con un idiota è il miglior modo di salvare le

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apparenze.

8.Il futuro deve essere vendibile. Ciò spiega tutto.

9.Dobbiamo pensare. Per questo qualcuno deve sparare.

10.Pubblico si nasce, si diventa e si muore. Purché non sembri noioso.

11.Salvo complicazioni tutto deve cambiare in fretta.

Fobie

1.Quando la monaca Chiyono studiava lo Zen con Bukko di Engaku, per molto tempo non riuscì a raggiungere i frutti della meditazione. Finalmente, in una notte di luna, stava portando dell'acqua in un vecchio secchio tenuto insieme con una cordicella di bambù. Il bambù si ruppe e il fondo del secchio cadde, e in quel momento Chiyono si sentì, per quello che era, una schiava. Qualunque decisione avrebbe preso avrebbe

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confermato quella schiavitù. Se fosse fuggita lo sarebbe stata ancora, lo stesso se fosse rimasta; perché il bambù stava per rompersi, dunque adesso niente più acqua nel secchio, niente luna nell'acqua. Non poteva più rimanere, però, questo lo sapeva.

2.Un signore pregò Takuan, un insegnante di Zen, di suggerirgli come potesse trascorrere il tempo. Le giornate gli sembravano molto lunghe, mentre assolveva le proprie funzioni e se ne stava seduto e impettito a ricevere l'omaggio della gente. Takuan tracciò pochi segni e li diede all'uomo. “Lo sapessi, te lo direi, ma non lo so”.

3.“Se nella mia mente non c'è nulla, che cosa devo fare?”.Joshu rispose: “Buttalo via”.“Ma se non c'è nulla, che cosa devo fare?” insistette l'allievo.“Attua ciò di cui non sei capace”.

4.Una sera, mentre Shichiri stava recitando i sutra, entrò un ladro con una spada affilata e gli ordinò di dargli il denaro se non voleva essere ucciso. Shichiri gli disse: “Non mi disturbare. Il denaro lo troverai in quel cassetto”. Poi si rimise a recitare. Poco dopo si interruppe e gridò: “Non prendermelo tutto. Domani me ne serve un po' per pagare le tasse”. L'intruso

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aveva arraffato quasi tutto il denaro e stava per andarsene. “Ringrazia quando ricevi un regalo” soggiunse Shichiri. L'uomo gli rispose che non poteva ringraziarlo, perché quello avrebbe smesso di essere un furto, lui l'avrebbe corrotto e ne sarebbe diventato complice, inoltre sarebbe rimasto il debito per un altro furto. Dunque evitarono di parlarsi ancora.

5.Camminando per un mercato, Banzan colse un dialogo tra un macellaio e un suo cliente. “Dammi il miglior pezzo di carne che hai” disse il cliente. “Nella mia bottega tutto è il migliore” ribatté il macellaio. “Qui non trovi un pezzo di carne che non sia il migliore”. Queste parole fanno riflettere, in effetti. Non bisogna avere paura di ammetterlo.

6.Soyen Shaku, il primo insegnante di Zen ad andare in America, disse: “Il mio cuore bruciava come il fuoco, ma i miei occhi non sono freddi come ceneri morte”. Egli stabilì le seguenti norme, che difese dal mettere in pratica. Non badare a quello che dici, e qualunque cosa tu dica, non metterla in pratica. Quando si presenta un'occasione lasciala scappare, ma prima di agire non pensare due volte, ché il timore ti segue. Non guardare al futuro né al passato. Il cuore tenero di un bambino non sopporterebbe l'atteggiamento intrepido di un eroe. Il tuo ultimo sonno sia come gli altri, non appena ti svegli, rallenta le tue reazioni, perché davanti a te ci sono le tue scarpe.

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7.Jiun, un maestro di Shingon, era un rinomato studioso di sanscrito dell'era Tokugawa. Da giovane faceva conferenze ai suoi confratelli studenti. Sua madre lo seppe e gli scrisse una lettera. “Poiché dedichi il tuo tempo a meditare, hai imparato che la vera realizzazione di sé non esiste, ma la dismisura sì, più delle conferenze però, perché l'amarezza non è improbabile, quanto la banalità della cosa”.

8.La poesia mancava di un verso rispetto al numero di quelli tradizionali, e il discepolo disse: “Maestro, ci manca un verso”. “Questo non è lo splendore, dato che ciò che viene se ne va, ma se non fosse andato via non saprei farlo ritornare, dunque non è il caso di aspettare”.

9.Nel suo ultimo giorno di vita Tanzan non si dimenticò di scrivere sessanta cartoline postali, su cui non c'era scritto che stava per andarsene da questo mondo, tuttavia le riempì di tenaci insulti. Perché perdere quell'occasione?La passione delle conclusioni

La critica “rivoluzionaria” si è nutrita di conclusioni, cioè di aspirazioni, confuse per quanto bene

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conosciute, più contraddittorie di qualunque ambizione, ma con cui hanno in comune quella spregiudicatezza che ora è quasi impossibile negare a chiunque. Un esempio della passione della conclusione si trova in Vecchi e giovani di Luigi Pirandello: Ebbene, signori miei, che concluderemo noi? Siamo uomini, e venuti qua per questo. Ma vi leggo negli occhi. Voi non avete nessuna voglia di concludere, pur non essendo eterni! Voi avete viaggiato. Molti tra voi seguiteranno il viaggio fino a Reggio Emilia. Qua a Roma, chi ci viene per la prima volta, ha da vedere tante cose; e il tempo stringe. Scusatemi, se parlo così: sapete che vedo per minuto, e parlo come vedo. Ho poca fiducia nelle conclusioni degli uomini, i quali tutti, a un certo punto, guardandosi dietro, considerando le opere e i giorni loro, scuotono amaramente il capo e riconoscono: “si, ci siamo arricchiti”, oppure: “sì, abbiamo fatto questo o quest'altro, - ma che abbiamo infine concluso?”. Veramente, a dir proprio, non si conclude mai nulla, perché siamo tutti nella natura eterna. Ma ciò non toglie che oggi noi qua, dato il momento, non dobbiamo venire a una qualsiasi, magari illusoria, conclusione. Io vi dico che questa s'impone, perché altrimenti ci verranno da sé, senza la vostra guida illuminata e il vostro consenso, gli operai delle città, delle campagne, delle zolfare. E sarà cieco scompiglio, tumulto feroce, quello che potrebbe essere invece movimento ordinato, premeditato, sicuro. Le conseguenze? Signori, usa prevederle chi non è nato a fare. Credete voi che ci sia ragione d'agire? Avvisiamo

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ai modi e ai mezzi. Tutta la Sicilia è ora senza milizie. Tre, quattro compagnie di fantaccini vi fan la comparsa dei gendarmi offenbachiani, oggi qua, domani là, dove il bisogno li chiama. E contro di essi, come voi dite, un intero, compatto esercito di lavoratori. Non c'è neanche bisogno d'armarlo; basterà disarmare quei pochi e si resta padroni del campo. No? Dite di no? Aspettate!...

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La vera storia di Long John Silver

Bjön Larsson - La vera storia del pirata Long John Silver – Iperborea.Saper scrivere non è una garanzia contro la stupidità” - parola di Long John Silver - “uomo libero, gentiluomo di ventura e nemico dell'umanità”.

La storia comincia dove l'avrebbe fatta iniziare qualunque lettore, cioè dal taglio della gamba. Quando Long John riappare sul ponte della nave, tutti tacciono e, uno, dal soprannome di Pendaglio, cade addirittura in acqua dallo spavento per la vista del redivivo. “Risi fino alle lacrime. Si dice che una bella risata allunghi la vita. Chissà”. Il secondo pensiero è, seppure troppo tardi, quello di conservare l'osso della gamba amputata. John, il mozzo, racconta com'è andato lo scontro, per confermare o meno i sospetti del pirata. Silver dà un consiglio al ragazzo: “Impara a raccontare storie. Impara a inventare e a mentire. Te la caverai sempre. Restare muto e non avere risposte è la cosa peggiore che possa capitare a un uomo. Sempre che tu voglia diventare un uomo, si capisce. Altrimenti non importa”. Il pirata si serve del ragazzo, ma forse lui riuscirà a imparare. Bisogna spiegare tante cose, per esempio, la bandiera rossa, che viene issata prima della battaglia, vuol dire “che spetta a chi vince decidere se gli altri dovranno vivere o morire”. Bisogna sapere tante cose, per esempio che le noci di cocco possono uccidere (uno dei nostri ne aveva preso una in testa ed era morto sul colpo), “per la gran gioia di tutti”. Infatti “qualcuno doveva morire”, o altrimenti la vita non valeva la pena.

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Perché Silver fu soprannominato barbecue? Il francese Deval gli aveva sparato di spalle e lo aveva colpito alla gamba, e Silver lo ripagò facendogli tagliare una gamba dal dottore, e mettendola poi al fuoco, barbe-au-cul, come dicono i francesi.Quando prende a raccontare dall'inizio la sua vita, Silver ricorda brevemente suo padre e dice: “Se c'è una cosa di cui si potrebbe fare a meno a questo mondo sono i padri, a partire da dio padre in persona e a tutti i supponenti di quella specie”. Il suo, in particolare, non sapendo distinguere tra destra e sinistra, prese la strada sbagliata e volò in mare. Sua madre seppe invece fare del suo meglio, per sé. Bisogna dire che la memoria del padre riceve una riabilitazione post-mortem; da contrabbandiere a contrabbandiere arriva, in un'occasione impensabile, l'eco di una insospettata ammirazione. Di regola i genitori sono misteriosi, lo confessa anche England, chiamato così perché non dimenticasse mai chi erano gli oppressori della sua terra - ma si finisce per imitarli.Il primo incontro decisivo per John, cacciato dal rettore della scuola, fu in una taverna di Glasgow, nel quartiere di Greenock. In quel posto offrì da bere al capitano Barlow e questi gli parlò delle sue avventure. “Il solo pensiero di poter vivere libero, e tuttavia vivere, faceva battere più forte il mio cuore”, ricorda John, “perché, imparai in seguito, se c'è qualcosa che dà senso alla vita, è senz'altro il fatto di non essere soggetto ad alcuna legge, di non avere mani e piedi legati. Non importa il tipo di fune o chi ha stretto il nodo, è la corda il male”. Subito dopo John fa un'altra grande scoperta (si tratta decisamente di un tipo sveglio), ed è questa: non bisogna mai prendere niente per oro colato, soprattutto non gli uomini, e ancor meno se stessi.Dopo dieci anni di imbarchi con il capitano Wilkinson, Silver aveva imparato (o credeva, il che è lo stesso) tutto l'essenziale nei rapporti umani: “sapere quello che si dice (le rare volte che si parla), non perdere più tempo a rivoltare il senso delle frasi

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altrui, non vantarsi della propria istruzione, non dire più quello che si pensa, ma quello che gli altri desiderano ascoltare, non andare a cercare padroni con il senso della giustizia”.A spese di chi e di quanti è vissuto Silver? “Si direbbe che io abbia dissanguato un po' tutti”, a voler essere onesti, dice mentre riflette sulla situazione in cui si accorse di vivere alla giornata, proprio lui che era sicuro di essere superiore agli altri perché sapeva di essere vivo, mentre gli altri non se ne curavano affatto.Che differenza tra lui e i pirati! La scopre subito Daniel Defoe, che incontra all'Angel Pub. I pirati, che passavano il tempo a sognare il bottino, quando lo avevano, non sapevano più cosa fare di se stessi. “Che peso poteva avere uno della mia risma, nella confusione della vita?” si chiede Long John, e per scoprirlo, e insieme scoprire la morte per impiccagione, si reca a Londra. “Se imparai qualcosa, fu quanto poco uno come me sapesse di come vanno le cose a questo mondo. Non avevamo alcuna idea delle somme incredibili che venivano investite, rischiate, vinte e perse”.Comunque, in tutt'altra situazione, Long John Silver insegna a un giovane mozzo che non fa bene a nessuno mettersi troppo nei panni degli altri.La vita non è un gioco, perché i giochi hanno delle regole. Ma quando si tratta di vita e di morte, non ci sono regole che tengano, a questo mondo. E in questi casi non basta barare, come fanno i più, cioè gli intellettuali. Troppo spesso ormai la soluzione preferita è quella di rovesciare con un calcio lo sgabello su cui si è saliti, sebbene non sempre ci si dimentichi di controllare se si è per caso infilata la testa in un cappio che pende dal soffittoDunque, i bucanieri. “Liberi quanto miserabili”, diceva Silver, essi vivevano come se il tempo si fosse fermato. Erano dei

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nostalgici. Si aggrappavano alle loro vecchie abitudini e ai loro rituali, la maggior parte dei quali, a dire il vero, era tutt'altro che riprovevole. Tutto veniva spartito equamente, e ciò che era spartito veniva messo in comune. I cognomi non esistevano più e si chiamavano per nome e soprannome, perché non volevano che potesse pesare nel bene e nel male conoscere la loro identità e la loro origine. Erano cacciatori e cuochi, ma ciò non poteva bastare per rendere sopportabili le loro debolezze. Più in generale, tutti gli aspetti positivi dei filibustieri erano pareggiati dalla loro avidità, dalla loro crudeltà e dalle loro turpi abitudini, se non dalla loro volubilità, quindi per farne dei personaggi letterari che potessero piacere al pubblico, bisognava inventare qualcosa, come sapeva fare il Daniel Defoe descritto da Larsson in questa storia, mentre nella più prosaica realtà gli impiegati della Compagnia dei Mari del Sud erano stati capaci di alleggerire le casse della loro Compagnia, più di quanto sarebbero riusciti a fare tutti i pirati in dieci anni di attività. Il vero difetto dei pirati, di questo era convinto Silver, era la loro incapacità di prevedere, anzi la confusione che regnava tra vita e morte, sebbene fosse proprio l'esistenza della forca a rendere desiderabile una vita allegra e breve. Moltissimi finivano sulla forca per niente, ma per niente ci sarebbero finiti lo stesso, forse, mentre nessun impiegato corrotto sarebbe mai stato impiccato. L'immagine appropriata per quelle esistenze confuse si trova nella nebbia perenne di chiacchiere e di fantasie in cui vagavano, “potevamo litigare per giorni e giorni su quello che sarebbe potuto succedere”, ricorda Long John, detto anche Barbecue, d'altronde questa è la controparte per chi si infischia del domani, e si è del tutto dimenticato di ieri.

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La schiavitù e la critica della rivoluzione in Simone Weil

Nota sulle Réflexions sur les causes de la liberté et de l'oppression sociale.Il testo di Simone Weil, la cui stesura risale al 1934, è necessariamente invecchiato, ma per qualche aspetto conserva una sua validità che non è stata intaccata dallo sviluppo della società spettacolare. Quando esordisce, scrivendo che ci si può chiedere se esista un ambito della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell'attività e della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali viviamo, non possiamo che essere d'accordo con lei, tranne il fatto che le ragioni che adduce a prova della sua affermazione sono smentite dalla realtà del consumatore medio delle democrazie occidentali. Ma la riflessione di Simone Weil si dirige subito sulla critica del termine rivoluzione; una critica che giungeva allora quanto mai opportuna, e, come quasi sempre accade, non abbastanza ascoltata dai rivoluzionari che sono venuti dopo: la rivoluzione come menzogna, come una delle numerose menzogne suscitate dal regime capitalista nel suo sviluppo.Una delle dimostrazioni della giustezza di quest'analisi è data dalla considerazione che la classe operaia ha dato le sue prove di forza soltanto quando ha servito cause diverse dalla rivoluzione operaia.Il marxismo è estremamente lacunoso per Simone Weil, soprattutto perché Marx omette di spiegare perché

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l'oppressione è invincibile finché è utile, perché gli oppressi in rivolta non sono mai riusciti a fondare una società non oppressiva, sia sulla base delle forze produttive della loro epoca, sia anche a prezzo di una regressione economica che difficilmente avrebbe potuto accrescere la loro miseria, e infine egli lascia del tutto in ombra i principi generali del meccanismo mediante il quale una forma determinata di oppressione viene sostituita da un'altra.I rapporti di dominio e di sottomissione tra gli esseri umani costituiscono sempre uno squilibrio senza rimedio e che si aggrava perpetuamente, proprio perché non c'è mai potere, ma soltanto corsa al potere, e questa corsa è senza termine, senza limite, senza misura, e non c'è neppure limite né misura agli sforzi che essa esige. Ai procedimenti della corsa al potere si sottomettono gli uomini con la stessa vertigine, da sempre. Non c'è interesse personale che prevalga, perché sarebbe un principio d'azione, ma la storia, che è storia dell'asservimento, rende gli uomini vittime degli strumenti di dominio che essi stessi hanno fabbricato. La rivolta, considerata nell'insieme, finisce per essere un'aggravante del male, perché costringe i padroni a far pesare il loro potere in modo sempre più greve.Ciò che normalmente si intende per rivoluzione, scrive Simone Weil, non solo è un fenomeno sconosciuto nella storia, ma è anche, se lo si considera più da vicino, qualcosa di inconcepibile. La storia presenta delle lente trasformazioni di regimi in cui gli avvenimenti sanguinosi (le rivoluzioni) svolgono un ruolo molto secondario, e possono anche non essere presenti.Se la rivoluzione è una mistificazione, la condizione

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generalizzata di schiavitù è invece reale. Dalla schiavitù primitiva verso la natura si è passati alla schiavitù verso la società. Si tratta di una schiavitù determinata dal gioco stesso della vita collettiva: un gioco cieco che da solo determina le gerarchie sociali.

Riassumendo: la società meno cattiva è quella in cui la maggior parte degli uomini si trova per lo più obbligata a pensare mentre agisce, ha le maggiori possibilità di controllo sull'insieme della vita collettiva e possiede la maggio indipendenza.Per un profilo della vita sociale contemporanea, Simone Weil scrive che mai, come ora, l'individuo è stato così completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare. Quindi i termini di oppressori e oppressi, la nozione di classe, tutto ciò ha perso significato. Dinanzi alla complessità crescente dei meccanismi sociali il pensiero ha sempre meno la possibilità di afferrare qualcosa, ciò vuol dire che la quantità è diventata qualità, come diceva Hegel. Il livello di asservimento degli esseri umani è misurabile da un criterio puramente esteriore, qualunque sia l'ambito in questione: questo criterio è quello dell'efficacia, a condizione di intendere con ciò la capacità di ottenere successi a vuoto.A schiavi irresponsabili si affiancano dirigenti essi stessi ampiamente irresponsabili, e nell'estensione straordinaria dei settori produttivo e commerciale il primato della conquista orienta il capitalismo verso la distruzione.

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Infine quando il caos e la distruzione avranno raggiunto il limite a partire dal quale il funzionamento stesso dell'organizzazione economica e sociale sarà diventato materialmente impossibile, la nostra società perirà; e l'umanità, tornata a un livello di vita più o meno primitivo e a una vita sociale dispersa in collettività molto più piccole, ripartirà su una strada nuova che ci è assolutamente impossibile prevedere. Comunque, a chiudere la questione della rivoluzione, mai sinora nella storia un regime di schiavitù è caduto sotto i colpi degli schiavi.La società attuale non fornisce, come mezzi d'azione, altro che macchine per schiacciare l'umanità e la speranza di un dispotismo illuminato appare agli occhi di Simone Weil come un'idea del tutto assurda.Le Riflessioni di Simone Weil, che riflettono straordinariamente il periodo storico nel quale sono maturate, mentre segnalano che la schiavitù non è mai cessata, anticipano la certezza che lo spettacolo, che subentrerà al termine della seconda guerra mondiale, porterà la complessità dei meccanismi sociali a livelli ancora più elevati e con essi all'impossibilità di padroneggiare la sua dinamica, anche sapendo in partenza che l'esito di questo processo sarà distruttivo, nichilizzatore.La schiavitù è compatibile con il termine moltitudine, impiegato per recidere la tradizione socialista del popolo e del proletariato?

Sembrerebbe di no, ma quando Paolo Virno scrive in

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Grammatica della moltitudine che il tempo di lavoro è solo una componente, e non necessariamente la più rilevante del tempo di produzione, intendendo con questo l'unità indissolubile di lavoro e non-lavoro, a me suggerisce l'idea che la schiavitù sia attuale anche nel cosiddetto post-fordismo. Quella che Virno chiama intellettualità di massa, e la definisce scrivendo che la sua identità deve essere reperita sul piano delle forme di vita, di consumo culturale, di usi linguistici sembra, in modo appropriato, ma svalutando le conseguenze della sua analisi, appartenere all'ambito delle nuove forme integrate di schiavitù nel sistema di dominio spettacolare, quello che lo stesso autore chiama il comunismo del capitale, cioè l'essere comune del capitale a tutta l'umanità, la Gemeinwesen della schiavitù.Il sistema spettacolare, costruito sulla circolazione nichilistica di immagini e di opinioni, che non ha mai dato il tempo di riflettere, tanto meno ha potuto consentire la libertà di fermare questa circolazione insensata che può essere soltanto soggetta ad incremento ulteriore (d'altronde ogni critica rafforza la sua natura parossistica e spettacolare).I cattivi sentimenti descritti da Virno: cinismo e opportunismo, che è lecito immaginare come segno distintivo della moltitudine, sono sentimenti propriamente distintivi della condizione di schiavitù, dato che rinunciano fin dal principio alla ricerca di un fondamento intersoggettivo e alla rivendicazione di un criterio condiviso di valutazione, essendo manifestazioni in una realtà che presenta un alto grado di indeterminismo. Anche la chiacchiera e la curiosità, le manifestazioni della vita

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inautentica citate da Martin Heidegger in Essere e Tempo, contribuiscono a determinare la nozione di schiavitù contemporanea, e proprio perché l'infondatezza della chiacchiera riecheggia il rumore di fondo della comunicazione spettacolare. Ma la chiacchiera non è più un'esperienza povera, ma la produzione sociale più determinante dello spettacolo. Agli schiavi è chiesto di assorbire e di partecipare alla comunicazione, cioè appropriarsi della cosa senza comprendere nulla. Allo stesso modo la curiosità per Heidegger e la riproducibilità tecnica per Benjamin hanno abolito le distanze per annullare ogni prospettiva in una prossimità indifferenziata.Il curioso è perennemente distratto: ciò vale tanto per Heidegger quanto per Benjamin. Se il pubblico è un esaminatore distratto perché l'atteggiamento valutativo comune non implica l'attenzione, la situazione che obbliga alla svalutazione dell'apprendimento intellettuale implica e sottintende una sottomissione reale. Il consumatore medio non pensa riferendosi a se stesso in termini di schiavitù, tutt'altro, ma è pronto a riconoscere che gli altri sono schiavi. Se egli dice di essere libero di pensare a se stesso e di vivere per se stesso, come mai prima d'ora, eppure si rende conto che in genere la sua vita non gli appartiene, e che gli manca il tempo come non appartiene e manca a tutti gli altri. Gore Vidal ha scritto che dieci minuti al giorno, o forse alla settimana, rappresenta il tempo massimo concesso, dagli anni cinquanta ad oggi, ai consumatori delle democrazie occidentali perché pensino ai problemi mondiali.La schiavitù è una evergreen.

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Il turno dei mongoli:

Il romanzo orientale di Kafka

1.

Kafka, scrittore di racconti, si è accostato spesso alla loro forma più esemplare di apologhi. Di essi, generalmente inediti durante la vita dell'autore, Un messaggio dell'Imperatore - pubblicato in Il medico di campagna (1919) - perturbante frammento del più esteso Durante la costruzione della muraglia cinese (1917), è il più conosciuto in una costellazione narrativa poco visibile la cui cornice comune è l'Oriente, lo scenario letterario della lontananza e dell'inverosimile. Tuttavia la Cina di Kafka è uno spazio tanto poco esotico almeno quanto, analogamente, sia indeterminato lo spazio del Processo. Ad avvertire delle terre lontane non è il cupo addensarsi delle nubi di Kubin, ma un gesto inavvertito o l'ombra di questo, un lieve vacillare dell'aria. Il colpo contro il portone racchiude e, grazie alla sua brevità, mostra, colto in una forma estrema, uno dei nuclei tematici di Kafka. La centralità di questo racconto è marcata dallo svolgimento drammatico della vicenda che riecheggia lo sviluppo ineluttabile della Metamorfosi, la sua stessa ripida discesa. Il racconto è costituito di poche righe, nel susseguirsi delle sorprese per le apparenti conseguenze di un gesto, neppure compiuto, fino allo sgomento e alla rassegnazione. La storia

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possiede una spietatezza che ha i tratti propri dell'incubo, al carattere del quale si deve comunque risalire per spiegare un particolare altrimenti superfluo. I due viandanti non conoscono il villaggio, che deve essere vicinissimo al loro, giacché la sorella del protagonista vi si reca per cambiarsi d'abito. Questo villaggio, con le sue regole, si apre al viandante come si spalanca un abisso, un baratro o, come in un altro racconto (Un sogno), una gran buca dalle pareti scoscese, la cui impenetrabile profondità lo accoglie, mentre in alto si compone il suo nome nella grafia del destino, con grandi svolazzi. Verso la materialità inesplicabile del sogno corre il racconto nell'immagine della cella: grandi pietre per pavimento, scure, parete grigia, nuda, non so dove un anello di ferro murato e nel muro qualcosa tra il pagliericcio e la tavola operatoria. L'enorme vastità dell'impero, resa in Un messaggio dell'Imperatore dalla sequenza del messaggero, prigioniero di interminabili corridoi e cortili, i quali altrettanto lo proteggono, senza l'ombra di voler misurarsi con la metafisica che grava in La muraglia cinese, introduce alla borgata della Supplica respinta. Lo sguardo di Kafka al sottobosco dello psicologico e del sociale è simile a quello di Benjamin: uno sguardo raggelato dallo humour a un mondo intermedio, come il secondo lo definì. Qui da noi non si è avuto da secoli nessun mutamento politico provocato dai cittadini stessi. Nella capitale si sono susseguiti i sovrani, intere dinastie si estinsero o furono destituite e nuove sono subentrate, anzi nel secolo scorso la capitale stessa fu distrutta e ne venne fondata un'altra molto più lontano, poi anche questa fu distrutta e la precedente ricostruita, ma tutto

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ciò non ha influito per nulla sulla nostra borgata. Questo passo della Supplica respinta si intona a un altro, tratto dalla Muraglia cinese, in cui si parla di un mendicante che, giunto in una casa in un giorno di festa, ne viene cacciato fuori a spintoni, quando il sacerdote legge due pagine di un manifesto dei ribelli che il mendicante gli aveva consegnato, ma, infine, solo perché (in apparenza) il linguaggio in cui era scritto, il dialetto della provincia vicina, conteneva espressioni, per chi lo stava leggendo, antiquate. E quantunque - così mi pare di ricordare - una vita orribile parlasse per bocca del medico un linguaggio inconfutabile, tutti scossero la testa ridendo e non vollero sentire altro. Il compito di Kafka è stato quello di scrivere della vita orribile rendendo naturale l'onirico, cioè il punto di vista di chi scuote la testa e ride, dandogli la dignità di un a priori. Chi non è contento tra i sudditi nel popolo dell'Imperatore? Sono pressappoco i giovani tra i diciassette e i vent'anni. Dunque giovanotti che non possono intuire neanche lontanamente la portata dell'idea più insignificante, figurarsi quella di un'idea rivoluzionaria. E proprio tra loro s'insinua e serpeggia il malcontento.

2.

Da chi doveva proteggere la grande muraglia? Dai popoli del Nord. Io sono oriundo della Cina Sud-orientale. Nessun popolo settentrionale ci può minacciare. Di loro leggiamo nei libri dei vecchi, le crudeltà che commettono secondo la loro

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natura ci fanno sospirare nelle nostre pacifiche verande. Nei quadri realistici dei nostri artisti vediamo quelle facce di dannati, le bocche spalancate, le mascelle armate di gran denti aguzzi, gli occhi stretti che pare stiano lì a spiare la preda che la bocca maciullerà e sbranerà... Di quei popoli orientali non sappiamo altro - non li abbiamo mai visti e se non ci allontaniamo dal nostro villaggio non li vedremo mai, neanche se in groppa ai loro cavalli selvaggi si lanciassero direttamente verso di noi - troppo grande è il paese e non li lascerebbe avvicinarsi, disorientati si smarrirebbero nell'aria. La possibilità, tanto remota da impaurire solo i bambini, dell'invasione dei popoli dal Nord nella Muraglia cinese, si vendica rovesciandosi nel già accaduto in un racconto dello stesso 1917, pubblicato nella raccolta Il medico di campagna. Un vecchio foglio annuncia che i nomadi si erano da tempo accampati nella piazza antistante il palazzo imperiale. Giunti inesplicabilmente, essi tuttavia ci sono. Essi che non parlano, ma gracchiano come cornacchie, passano il tempo ad affilare le spade, ad aguzzare le frecce, a esercitarsi a cavallo. L'Oriente di Kafka, in tempo di guerra, fa le smorfie col suo volto più orrido ed espressionista quando, per un'imprevidenza del macellaio della città, ai nomadi viene consegnato un bue vivo - era già subentrato un gran silenzio, quando mi arrischiai ad uscire; come bevitori intorno a una botte i nomadi se ne stavano stanchi intorno ai resti del bue. Un parente di Europa.

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3.Nell'arco che in questi frammenti si delinea, immaginiamo la parabola di un potere assoluto che inspiegabilmente si sgretola. Tuttavia le tappe che qui si sono riunite si profilano come ritratti singolari, immobili, avulsi da una successione di capitoli parziali. La sobrietà di Kafka gli impedisce i toni dell'esaltazione surrealistica del 1925. In quella breve e accesa stagione Antonin Artaud lanciava come parola d'ordine: E' il turno dei mongoli di prendere il nostro posto! Sfidava l'inquietudine istrionica di Celine, un po' più intento a recitare come capo popolo, tesaurizzando i guadagni dei diritti d'autore in lingotti d'oro, al punto di guidare i francesi a farsi europei sotto la bandiera del nazismo. Adorno scriveva che, con la liquidazione del sogno ottenuta mediante la sua onnipresenza, il narratore Kafka aveva spinto l'impulso espressionistico fino agli estremi dei lirici più radicali. La sua opera - dice - ha un tono di estrema sinistra, chi la abbassi al livello dell'universale umano, la falsifica già in un senso conformistico.

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La democrazia americana è la poesia americana

Il dibattito sulla democrazia nelle poesie dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters

Una vera democrazia dovrebbe essere quella che si realizza in un discorso di morti, come quello di Spoon River. L'uguaglianza del punto di vista è la giusta prospettiva della democrazia. Ciò che nel regime provvisorio dell'esistenza si è compiuto è pronto per essere giudicato da un'assemblea di uguali. I livellatori parlano chiaro. A tutti praticamente lo stesso tempo per dire ciò che riescono.

1.La lingua di Dorcas Gustine era una lingua senza disciplina, ma dei tanti che non possono dirlo, lei può mentire contenta. D'altronde in democrazia si dice che il silenzio avvelena l'anima. 2.A Nelly Clark spetta di difendere la verità dalla menzogna pubblica. Eppure non è detto che ciò che capita a otto anni debba pesare per sempre, almeno sotto il regime della democrazia.3.Rispettivamente dell'amore e dell'odio Louise Smith e Herbert Marshall parlano di quanto la felicità indebolisca l'uno e accresca l'altro. I diritti a due che diritti sono? Forse che non sono più tali?

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4.Mary McNeely, sei fortunata che la tua ripulsa sia da noi democratici tollerata! Infinito riposo, non è questa davvero la voce della democrazia!5.Daniel M'Cumber pratica ingenuamente una politica sessuale democratica. Ma non riconosce che la virtù è ciò che ha trovato e non ciò che ha perso.6.L'astio di Georgine Sand Miner fiorisce, e dell'astuzia parassita anche lei finisce per scoprire il valore sociale. Ciò che la rabbia divulga è patrimonio delle masse.7.Henry Layton sa che la rovina è un passo dietro e che le metà ostili sono le sole a darci vita.8.Nessuno sa cos'è falso se non sa cos'è vero, Seth Compton, e neppure il male è male, se nessuno mette in vendita a prezzi bassi ciò che si è scelto come bene. All'incanto la democrazia - questa era la tua aspirazione!9.Alla potenza della legge Felix Schmidt paga per non aver ceduto quando essa era distratta.10.La verità si fa scrivere raramente, ma i suoi difetti sono alla portata di tutti. Richard Bone con troppo scrupolo si opponeva alla loro divulgazione.11.Hiram Scates difende i valori della propaganda, ma chi non li

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apprezza, neppure può comprendere come la regola imponga la sua applicazione. 12.Il banchetto della democrazia è tuo, Edmund Pollard! non accettare il poco, perché ciò che ti viene offerto non conta quanto quello che ti è negato, così potrai rimpiangere il dubbio o no.13.Il segreto della proprietà è l'omicidio, nondimeno se Searcy Foote tiene nascosta una verità pubblica, una più efficace virtù gli tiene la mano.14.Mickey McGrew ride, e il suo riso si spande e s'innalza su tutto il resto nella vita, benché niente si celi agli altri.15.Il fuoco dell'anima, Jonathan Swift Somers, niente consuma che già non si sia appreso nel freddo. Se la vita non prendesse in giro i suoi interpreti, questo sarebbe assurdo.16.La tenacia è la virtù della menzogna e la sua debolezza la sua stessa facilità, questo sa chi deve negare l'evidenza, Hamilton Greene.17.L'omicidio è talvolta un'arte, ci dicono le cronache, che lo negano, e non inutilmente Rosie Roberts sprezzò la vittima.18.Non c'è amarezza che non cerchi di sopravvivere al dolore che l'annullerà, ma le basta spegnersi dentro la morte, così che il trapasso non sia solo che una speranza, Eugenia Todd.

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19. Il destino di ciò in cui si ripone la speranza d'essere apprezzati non deve preoccupare, reverendo Abner Peet, perché di regola anche se si sbaglia oggetto, si ottiene ciò che si voleva.20.Homer Clapp, gli stolti della vita sono la truppa della democrazia; che ciò sia indispensabile al trionfo dell'uguaglianza, tutti gli altri lo scopriranno da sé. 21.La democrazia rende la guerra alla portata di tutti, John Cabanis, e della libertà del rancore non si libereranno i nostri avversari.22.John Hancock Otis e Anthony Findlay, difendere la libertà dal potere sui forti non è un eccesso che si sconti con la bontà. La democrazia non è mai abbastanza spregiudicata.23.Whedon, essere nulla che duri, che verità! da non potere essere che sfruttata per esigere ascolto.24.A nessuno credere, nessuno piangere, George Trimble, neppure pretendere di dire nulla di più.25.Ciò che si compra quando è cosa che serve, o cosa di cui si ha bisogno, ci lascia; ma ci rimane ciò che non serve e ciò che non è che fastidio, Abel Melveny.26.La verità è ciò che ci aspetta, e non inquieta, ma la necessità chiede all'inaspettato di cambiare natura, Roger Heston, e di

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travolgerci d'un tratto.27.Thomas Rhodes può dire la sua fierezza di non essere nient'altro da ciò che è stato e trovare ciò che si è cercato, è trascurabile.28.Parlare serve a nascondere ciò che si pensa, perciò, se si è vivi a metà, la mezza morte che ci è impigliata non guarda negli occhi, non ne ha bisogno per sapere la verità, Paoline Barrett.29.Non lo conoscevo - a chi lo dici Butch Weldy -, pur sapendo che niente d'altro si poteva dire, giacché la colpa è un pegno posticipato.30.E' chiaro che ciò che costringe è duro da sopportare, e non sempre ci riesce (ad essere sopportato).31.La nausea non sempre è cura, spesso il rimorso del rimedio non dà sollievo al dolore della certezza. Harold Arnett, il disgusto è il più fallace dei sentimenti.32.La noia del persecutore non è l'angoscia della vittima, ma la sua speranza. La vittima talvolta sfugge alla gioia un attimo prima di morire, oppure mai, tanti sono i sistemi che ne accrescono le ansie, Robert Fulton Tanner.33.Il volto della felicità è terribile, ma il peso del mondo è leggero alla richiesta del suo sorriso, al perdono che i padri chiedono ai figli, Johnnie Sayre.

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34.Che sia meglio non sapere e cedere alla stupidità delle cose, Hamilton Greene, come le dispiega un'astuzia nascosta, è la noncuranza della menzogna, una grazia.35.Per Smith il dentista, il nemico della democrazia non crede all'ingenua verità, che deve essere difesa - l'ingenuità - perché sia venduta. 36.Le intenzioni nascondono la delusione, Harry Carey Goodhue, giacché le cause seguono gli effetti, in un mondo che dice di credere solo al vero (per poter mentire indisturbato).

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L'autenticità dell'ideologia tedesca

Il saggio dal titolo Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie (tradotto in italiano e pubblicato da Bollati Boringhieri) di Adorno non contiene questa frase: la menzogna ha il suono della verità, e la verità il suono della menzogna. Ogni affermazione, ogni notizia, ogni idea è modellata in anticipo dai centri dell'industria culturale, dato che si trova in Minima Moralia, ma offre delle riflessioni ad essa complementari. Il volume contiene un capitolo escluso della Dialettica negativa (Einaudi). L'esclusione fu motivata forse perché esso si presentava già completo, come struttura a sé stante (era stato concepito al tempo delle lezioni universitarie di Terminologia filosofica).

Qui sotto seguono delle citazioni dal testo, perché si possa ricondurne l'interesse verso le ulteriori riflessioni dell'autore:

Chi sa parlare in gergo non ha bisogno di dire ciò che pensa e nemmeno di pensarlo in maniera determinata: il gergo parla al posto suo e rende superfluo il pensare.

La riprovazione perpetua della reificazione che il gergo rappresenta è reificata.

L'ipocrisia diventa l'a priori.

Ciò che la pseudo-individualizzazione procura nell'industria culturale, il gergo lo procura tra coloro che la disprezzano.

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Il nichilismo diventa una farsa, un mero metodo, come una volta era già avvenuto per il dubbio cartesiano.

Nel mondo universalmente mediato tutto ciò di cui si ha un'esperienza originaria è culturalmente preformato. Chi vuole l'Altro deve partire dall'immanenza della cultura, per andare oltre essa.

In Heidegger il negativo, in quanto essenza, in modo più scoperto che altrove, si trasforma semplicemente e adialetticamente in positivo.

Heidegger si è entusiasmato della morte presumendo che essa sia ciò che è completamente sottratto al rapporto universale di scambio: non si accorge che essa resta prigioniera dello stesso cerchio fatale del rapporto di scambio da lui sublimato nel Si.

Ne deriva la massima suprema che le cose stanno così, che ci si deve piegare (positivisticamente: adattare); ne deriva l'ordine meschino di ubbidire a ciò che è.

Quanto più cresce l'irrilevanza sociale dell'individuo, tanto più diminuisce la sua capacità di osservare con distacco la propria impotenza; esso deve pavoneggiarsi da ipseità, così come la futilità di essa da autenticità, da Essere.

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Il Negativo

L'idea della Logica hegeliana dell'unità del particolare e dell'universale, che a volte gli diventa identità, si oppone a una

tale divisione del sostanziale dall'individualità non meno che alla coscienza immediata irretita: "La particolarità però è come

universalità in sé e per se stessa, non con un trapasso tale relazione immanente; essa è totalità in se stessa e semplice

determinatezza, sostanzialmente principio. Non ha altra determinatezza che quella posta dall'universale stesso, e ne

risulta conseguentemente. Il particolare è l'universale stesso, ma ne è la distinzione o relazione con un altro, il suo apparire

all'esterno; non c'è però alcun altro da cui il particolare sia distinto se non lo stesso universale. L'universale si determina,

per cui è esso stesso il particolare; la determinatezza è una distinzione; esso è distinto solo da se stesso". Allora il

particolare sarebbe immediatamente l'universale, poiché trova soltanto tramite questo ogni determinazione della sua

particolarità; senza di esso conclude Hegel, secondo un argomento che si ripete continuamente, il particolare non

sarebbe nulla. La storia moderna dello spirito, e non solo essa, fu il lavoro di Sisifo apologetico, di eliminare nel pensiero il

negativo dell'universale.

Spirito del mondo e storia naturale.Excursus su Hegel in Dialettica negativa di Adorno

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La dialettica negativa descritta da Adorno mantiene in vigore la dialettica sebbene la sottoponga al più forte contrappasso che la critica le abbia riservato. La conoscenza mira al particolare, ma nella forma della mediazione chi ci rimette è il particolare, e nella dialettica hegeliana la coscienza del particolare, la sua cosa “più vera”, secondo Adorno, finisce per eliminare il particolare. La socializzazione come fine della dialettica finisce per rovesciarsi nel suo contrario. Hegel e i suoi seguaci marxisti hanno squalificato l'eterogeneo come elemento caotico. Ciò che viene chiamato angoscia non è altro che claustrofobia, aveva ricordato Adorno. La dialettica negativa si arresta dove intuisce che “la posizione del pensiero nei confronti della felicità sarebbe la negazione di ogni falsa felicità”. Questa affermazione segna il limite dell'impostazione del problema da parte di Adorno. Il giovane Marx ricordava ai suoi futuri seguaci che noi conosciamo “un'unica scienza, la scienza della storia”, che tuttavia non è affatto una scienza. Non sarò io a concludere il discorso che porterà alla dismissione delle illusioni della dialettica. Nella Premessa alla Dialettica negativa Adorno spiegava che “quando Benjamin nel 1937 lesse quella parte della Metacritica della gnoseologia che l'autore aveva allora portata a termine - si tratta dell'ultimo capitolo di quel libro -, osservò che per giungere in modo rigoroso al filosofare concreto si doveva attraversare il deserto di ghiaccio dell'astrazione. Ora la Dialettica negativa traccia retrospettivamente tale via. Nella filosofia contemporanea la concretezza è stata ottenuta per lo più surrettiziamente. Per contro il testo prevalentemente astratto intende servire alla sua

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autenticità non meno che alla spiegazione del procedimento concreto dell'autore. Nei dibattiti estetici si parla di antidramma e di antieroe; analogamente la Dialettica negativa, che non tocca affatto temi estetici, potrebbe chiamarsi antisistema. Con mezzi della logica conseguenziale essa si sforza di avanzare, al posto del principio d'unità e del dominio totalitario del concetto sovraordinato, l'idea di ciò che sarebbe al di fuori del bando di tale unità. Da quando l'autore confidò nei propri impulsi intellettuali, sentì come proprio compito spezzare con la forza del soggetto l'inganno di una soggettività costitutiva; e non ha voluto rinviarlo ulteriormente”.In modo analogo si potrebbe dire che neppure l'antisistema smette di avere rapporti con il sistema, conservando nella condanna l'analogia col nemico da abbattere al quale rimandano inusitati legami. La triste verità è, da un punto di vista metapsicologico, una regressione. Le spontaneità dei singoli sono condannate alla pseudoattività, “potenzialmente alla stupidità” (Adorno).

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La negazione non dialettica della dialettica Anticipazioni del testo attraverso una lunga citazione:

"Se la filosofia fosse ciò che proclama la Fenomenologia hegeliana, la scienza dell'esperienza della coscienza, non potrebbe - come fa in crescendo Hegel - sbrigare in modo

sovrano l'esperienza individuale dell'universale affermantesi come quella di un inconciliatamente cattivo e passare

all'apologia del potere stando su un osservatorio presuntamente superiore. Il ricordo penoso del modo come,

per esempio, in commissioni, malgrado la buona volontà soggettiva dei membri, si afferma l'inferiore, rende talmente

evidente il predominio dell'universale, che per tale scacco non vale richiamarsi allo spirito del mondo. La opinione per tale

gruppo domina: come adattamento alla maggioranza del gruppo, o dei suoi membri piú influenti, piú spesso in forza di

quella al di là del gruppo in un'opinione autorevole piú comprensiva, specie quella approvata dai membri della

commissione? Lo spirito oggettivo della classe penetra ben oltre nei partecipanti la loro intelligenza individuale. La loro

voce ne è l'eco, sebbene essi stessi, magari soggettivamente difensori della libertà, non ne sentono nulla. Intrighi si hanno

solo in momenti critici, come criminalità manifesta. La commissione è un microcosmo del gruppo dei suoi membri,

sostanzialmente della totalità: ciò precostituisce le decisioni. Simili osservazioni presenti a tutti assomigliano ironicamente

a quelle della sociologia formale di tipo simmeliano. Però non hanno il loro contenuto nella socializzazione in quanto tale, in

vuote categorie come quella di gruppo. Piuttosto esse sono riflesso di un contenuto sociale, cosa su cui la sociologia formale, concordemente alla sua definizione, riflette solo

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controvoglia; la loro invarianza è soltanto memento di quanto poco si è mutato nella violenza dell'universale nel corso della

storia, in che misura essa è ancora preistoria. Lo spirito del gruppo formale è movimento riflesso indotto dal dominio

materiale. La sociología formale è legittimata dalla formalizzazione dei meccanismi sociali, l'equivalente del dominio sviluppantesi attraverso e oltre la ratio. Con ciò

concorda il fatto che le decisioni di tali organi collegiali - qualunque ne possa essere la natura - vengono prese

manifestamente per lo piú secondo punti di vista giuridico-formali. La formalizzazione non è qualcosa di piú neutrale in

confronto al rapporto di classe. Esso si riproduce tramite l'astrazíone, la gerarchia logica dei gradi di universalità. e precisamente tanto piú crudamente quanto piú rapporti di

dominio;sono indotti a mascherarsi dietro procedure democratiche. Hegel esercitò il culto del corso del mondo,

dopo la Fenomenologia e la Logica, al massimo nella Filosofia del diritto. Il mezzo, in cui il cattivo per la sua

oggettività ottiene ragione e si procura l'apparenza del buono, è in larga misura il diritto, che protegge sí positivamente la

riproduzione della vita, ma - nelle sue forme esi@tenti - mette in mostra senza attenuazione il suo elemento distruttivo, grazie al principio distruttivo della violenza. Mentre la società senza diritto, come nel Terzo Reich, divenne preda del puro arbitrio,

il diritto conserva nella società il terrore, pronta sempre a ricorrervi con l'aiuto del riferimento a una regolamentazione.

Hegel forní l'ideologia del diritto positivo, perché ce n'era urgente bisogno, nella società già visibilmente antagonistica.

Il diritto è il fenomeno originario di una razionalità irrazionale. In esso il principio formale di equivalenza diventa norma, tana dell'ineguaglianza dell'uguale, in cui scompaiono

le differenze: mito sopravvivente in mezzo a un'umanità solo apparentemente demitologizzata. Le norme giuridiche tagliano

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via ciò che non coprono, ogni esperienza non preformata dello specifico per amore di una sistematica senza fratture ed

elevano poi la razionalità strumentale a seconda realtà sui generis. Tutto l'ambito giuridico è una sfera definitoria. La sua

sistematica esige che non vi penetri nulla che si sottragga al suo circolo conchiuso, quod est in actís. Questa serra,

ideologica in sé, diventa reale potere tramite la sanzione del diritto come istanza di controllo sociale, e senza residui nel

mondo amministrato. Nelle dittature trapassa immediatamente in potere materiale, mediatamente esso è da sempre celato

dietro il diritto. Il fatto che il singolo subisca cosí facilmente un torto, quando l'antagonismo degli interessi lo spinge nella

sfera giuridica, non è colpa sua - come Hegel vorrebbe convincerlo - nel senso che sarebbe troppo accecato per

riconoscere il proprio interesse nella norma oggettiva del diritto e nei suoi garanti. La colpa è piuttosto degli elementi

costitutivi della stessa sfera del diritto. Invece resta oggettivamente vera la descrizione che Hegel schizza come

una presunta incapacità soggettiva: «Che il diritto e l'eticità e il mondo reale del diritto e dell'ethos si intendono col pensiero,

che, mediante concetti, si dà la forma della razionalità, cioè universalità e determinatezza: questo fatto, cioè la legge, è la cosa che quel sentimento, il quale riserba a sé il libito; quella

coscienza, che pone il diritto nella convinzione soggettiva, riguarda fondamentalmente come la piú ostile a sé. La forma

del diritto, in quanto obbligo e in quanto legge, è sentita da quella come lettera morta e fredda e come una pastoia;

giacché in essa non riconosce se stessa, non si riconosce quindi libera in essa, perché la legge è la ragione della cosa e

questa non concede al sentimento di esaltarsi alla propria singolarità» (HEGEL, Werke cit., vol. 7, pp. 28 sg.). Il fatto

che la coscienza soggettiva «a ragione» consideri l'eticità oggettiva come ciò che vi è di piú ostile, è un lapsus filosofico

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che è sfuggito alla penna di Hegel. Sta comunicando quello che nello stesso momento contesta. Se la coscienza individuale considera effettivamente come ostile il «mondo reale del diritto

e dell'etico», perché in esso non si riconosce, non si dovrebbe passarci sopra in modo conciliante. Infatti la dialettica

hegeliana afferma che essa non vi si può affatto comportarsi diversamente, non vi si può riconoscere. Cosí egli ammette che

la conciliazione, la cui dimostrazione era contenuto della sua filosofia, non ha avuto luogo. Se l'ordinamento giuridico non

fosse oggettivamente estraneo ed esteriore al soggetto, l'antagonismo che per Hegel è inevitabile si potrebbe

appianare con una migliore comprensione. Ma Hegel ha conosciuto troppo fondamentalmente la sua inappianabilità

per poter confidare in essa. Da ciò nasce il paradosso che egli proclama e smentisce insieme la conciliazione di coscienza e

norma giuridica.Ogni dottrina del diritto naturale sviluppata materialmente,

positiva conduce ad antinomie, la sua idea conserva però criticamente la non verità del diritto positivo. Oggi esso è la coscienza reificata ritradotta nella realtà e qui potenziante il

dominio. Già per la sua mera forma, prima del contenuto e della giustizia di classe, esso esprime dominio, la differenza

beante degli interessi singoli rispetto al tutto in cui si raccolgono astrattamente. Il sistema dei concetti artificiali,

che la giurisprudenza giunta a maturazione inserisce davanti al processo vitale della società, si decide in partenza - con la

sussunzione di ogni singolo sotto la categoria - a favore dell'ordine, che è imitato nel sistema classificatorio. A suo onore immortale Aristotele ha anticipato questo contro la

astratta norma giuridica nella dottrina dell'equità. Ma quando píú elaborati in modo conseguente diventano i sistemi di

diritto, tanto piú diventano incapaci di assorbire ciò che ha la sua essenza nel rifiutare l'assorbimento. Il sistema razionale

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del diritto riesce ad abbassare regolarmente la pretesa di equità, in cui era inteso il correttivo dell'ingiustizia nel diritto, a protezionismo, inequo privilegio. La tendenza in tal senso è universale, consona con il processo economico, che riduce gli interessi singoli al denominatore generale di una totalità, che

resta negativa, poiché essa si allontana dagli interessi singoli, di cui pure dovrebbe essere composta, grazie alla sua astrazione costitutiva. L'universalità, che riproduce il

mantenimento della vita, la minaccia anche sempre di piú. La violenza dell'universale che si realizza non è identico con

l'essenza degli individui in sé, come pensava Hegel, ma anche sempre contrario ad essi. Essi non sono maschere, agenti del

valore, semplicemente in una presunta sfera articolare dell'economia. Anche dove s'illudono di essere sottratti al

primato dell'economia, fin dentro la loro psicologia, la maison tolérée dell'individuale inafferrato, essi reagiscono sotto la coazione dell'universale: quanto piú sono identici con esso,

tanto meno identici lo sono d'altra parte in quanto obbedienti senza difesa. Negli individui stessi si esprime il fatto che il

tutto, loro compresi, si mantiene solo tramite l'antagonismo. Infinite volte degli uomini, anche se coscienti e capaci della

critica all'universalità, vengono costretti da motivi irresistibili dell'autoconservazione ad azioni ed atteggiamenti, che aiutano

ciecamente l'universalità ad affermarsi, mentre per la loro coscienza gli si oppongono. Soltanto perché essi devono far

proprio ciò che gli è estraneo per sopravvivere, nasce l'apparenza di quella conciliazione, che la filosofia hegeliana trasfigura corrottamente in idea, mentre pure ha riconosciuto

incorruttibilmente il predominio dell'universale. Ciò che brilla, come fosse al di sopra degli antagonismi, è legato

all'irretimento universale. L'universale fa in modo che il particolare a lui sottomesso non gli sia migliore. Questo è il

nocciolo di ogni identità prodotta fino ad oggi. Guardare negli

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occhi il predominio dell'universale offende psicologicamente fino all'intollerabile il narcisismo di ogni singolo e quello di

una società organizzata democraticamente. Cogliere come non esistente, come illusione la seità, spingerebbe facilmente la

disperazione oggettiva di tutti a diventare soggettiva e toglierebbe loro la credenza innestatagli dalla società

individualistica, che cioè essi, i singoli, sono il sostanziale. Affinché l'interesse particolare funzionalmente determinato

riesca comunque a soddisfarsi nelle forme esistenti deve elevare se stesso a elemento primario; il singolo deve

scambiare ciò che per lui è immediato per illusione. Tale illusione soggettiva è prodotta oggettivamente: il tutto

funziona solo tramite il principio dell'autoconservazione individuale, con tutta la sua limitatezza. Esso costringe ogni

singolo a guardare solo se stesso, ostacola la sua comprensione dell'oggettività, e allora veramente comincia a fare del male. La coscienza nominalistica riflette un tutto, che

continua a vivere grazie alla particolarità e al suo blocco: ideologia in senso letterale, apparenza socialmente necessaria.

Il principio generale è quello dell'isolamento. Esso crede di essere l'indubbiamente certo, ammaliato perché non si renda

conto - a prezzo della sua esistenza - quanto esso sia un mediato. Per questo è cosí díffuso e popolare il nominalismo filosofico. Una esistenza strettamente individuale deve avere

precedenza sul proprio concetto; lo spirito, la coscienza di individui, deve essere solo in individui e non anche il

sovraindividuale, che in essi si sintetizza e tramite cui soltanto essi pensano. Le monadi si chiudono spasmodicamente alla

loro reale dipendenza dal genere come all'aspetto collettivo di tutte le forme e i contenuti della loro coscienza: le forme, che

sono esse stesse quell'universale, negato dal nominalismo, i contenuti, mentre invece l'individuo non riceve alcuna

esperienza, anche alcun cosiddetto materiale empirico, che

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-non sia stato già digerito e fornito dall'universale. Di fronte alla riflessione della critica della conoscenza sull'universale

nella coscienza individuale, ciò che non si fa consolare del male, del peccato e della morte dal riferimento all'universale,

ha anche ragione. In Hegel ciò è accennato dalla dottrina, apparentemente paradossale rispetto a quella della mediazione

universale, eppure ad essa grandiosamente legata, dell'immediato che si reinstalla universalmente. Ma il

nominalismo (diffuso come coscienza prescientifica ed oggi da tale posizione a sua volta imperante sulla scienza), che fa una

professione della propria ingenuità - nell'arsenale positivistico non manca l'orgoglio di essere ingenui e ne è l'eco la categoria

del «linguaggio quotidiano» -, non si preoccupa dei coefficienti storici nel rapporto tra universale e particolare.

Un vero primato del particolare sarebbe ottenibile solo modificando l'universale. Ma installarlo senz'altro come

esistente, è un'ideologia complementare. Essa maschera fino a che punto il particolare è diventato funzione dell'universale,

funzione che per la sua forma logica è anche sempre stato. Ciò a cui il nominalismo si attacca come fosse il suo possesso piú

sicuro è utopia: perciò esso odia il pensiero utopico, quello della differenza dall'esistente. L'attività scientifica dà ad

intendere che lo spirito oggettivo fondato da meccanismi di dominio altamente reali, spirito che nel frattempo programma

anche i contenuti di coscienza del suo esercito di riserva, risulti semplicemente dalla somma delle loro reazioni

soggettive. Ma queste sono ormai da tempo prodotti secondari di quella universalità, che esalta ottusamente gli uomini, per poter meglio nascondersi dietro di loro e meglio mettergli le

dande. Lo spirito del mondo stesso ha storto la concezione soggettivisticamente bloccata della scienza, che aspira al suo

sistema autarchico, empirico-razionale, invece di comprendere la società in sé oggettiva, imperante dall'alto. La ribellione, un

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tempo criticamente illuministica, contro la cosa in sé è diventata un sabotaggio della conoscenza, anche se perfino

nella piú immiserita formazione di concetti scientifici sopravvivono tracce della cosa stessa, a sua volta non meno

impoverita. Il rifiuto del capitolo kantiano sulle antinomie, di conoscere l'interno delle cose è l'ultima ratio del programma

baconiano. Esso aveva come indice storico della sua verità la ribellione contro la dogmatica scolastica. Ma il motivo si

rovescia, quando ciò che esso proibisce alla conoscenza è la sua condizione epistemologica e reale, quando il soggetto deve

riflettersi come momento dell'universale da conoscere, pur senza diventargli del tutto simile. P, assurdo impedirgli di conoscere dall'interno ciò in cui dimora e da cui trae fìn troppo del proprio interno. In questo senso l'idealismo di

Hegel fu piú realistico di Kant. Quando la formazione dei concetti scientifici viene a trovarsi in conflitto con il suo ideale

di fattualità, non meno che con la semplice ragione - di cui essa si vanta di essere l'esecutore antispeculativo -, il suo

apparato è diventato irrazionale. Il metodo reprime autoritariamente ciò che sarebbe suo compito conoscere. L'ideale conoscitivo positivistico di modelli logicamente inoppugnabili, in sé univoci e non contraddittori, non è

sostenibile a causa della contraddizione immanente dell'oggetto da conoscere, gli antagonismi dell'oggetto. Sono

quelli dell'universale e del particolare della società, e vengono negati dal metodo prima di ogni contenuto.

L'esperienza di quell'oggettività preordinata all'individuo e alla sua coscienza è l'esperienza dell'unità della società

totalmente socializzata. L'idea filosofica dell'assoluta identità le è strettamente apparentata in quanto non tollera nulla al di fuori di sé. Per quanto l'elevazione dell'unità a filosofia possa

averla ingannevolmente innalzata a costo del molteplice, il suo primato, considerato il summum bonum dalla tradizione

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filosofica affermatasi a partire dagli eleati, non è tale, ma certo un ens realissimum. L'unità possiede realmente qualcosa

della trascendenza che i filosofi esaltano in essa come idea. Mentre la società borghese dispiegata - e già il primitivo

pensiero unitario fu urbano, rudimentalmente borghese - si componeva di infinite spontaneità singole degli individui

autoconservantesi e orientati gli uni agli altri in questa loro autoconservazione, non prevaleva affatto quell'equilibrio tra

l'unità e gli individui, che i teoremi giustificativi danno per esistente. La non identità di unità e molteplice ha invece la

forma del primato dell'uno, come identità del sistema, che non lascia fuori nulla. L'unità non sarebbe diventata senza le

singole spontaneità ed era, in quanto loro sintesi, un secondario: il nominalismo lo ricordava. Ma poiché essa

s'intesse sempre piú spessamente per le necessità dell'autoconservazione dei molti o semplicemente a causa di rapporti di dominio irrazionali, che abusano di tali necessità

come pretesto, essa legò tutti i singoli se non volevano scomparire, li integrò, li risucchiò (per usare l'espressione

spenceriana) con la propria normatività anche contro il loro evidente interesse particolare. Ciò ha poi poco a poco posto

fine alla progressiva differenziazione, che Spencer poteva ancora illudersi che accompagnasse necessariamente

l'integrazione. Mentre come prima il tutto e l'uno si forma solo grazie alle particolarità che esso comprende, si forma senza

riguardi al di sopra di loro. Ciò che si realizza tramite l'unico e molteplice è l'interesse dei molti eppure non lo è: essi

possono farci sempre meno. La loro quintessenza è insieme il loro altro; la dialettica hegeliana volge obbedientemente lo

sguardo da tale dialettica. Nella misura in cui i singoli colgono in qualche modo il primato dell'unità su di loro, esso gli si rispecchia come l'essere in sé dell'universale, contro cui urtano effettivamente: gli è imposto fin nel piú intimo, anche

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quando se lo impongono. La frase greca che dice che la natura, come tale sempre modellata dall'universale, è un

destino per l'uomo, ha una verità che va oltre un determinismo caratterologico: l'universale, tramite il quale ogni singolo si

determina come unità della sua particolarizzazione, è derivato da ciò che gli è esterno e quindi anche talmente eteronomo per il singolo come soltanto un tempo ciò che i demoni dovrebbero

avergli imposto. L'ideologia dell'essere in sé dell'idea è cosí potente, poiché è la verità, ma quella negativa; diventa

ideologia nella sua riformulazione affermativa. Se mai gli uomini hanno compreso il primato dell'universale,

difficilmente possono evitare di trasfigurarlo in spirito, come l'elemento superiore, che devono placare. La coazione diventa

cosí senso. E non senza ragione: infatti l'astrattamente universale del tutto, che esercita la coazione, è apparentato

con l'universalità del pensiero, con lo spirito. Ciò gli permette nel suo portatore di riproiettarsi su quell'universalità, come

fosse realizzato in essa e avesse per sé la propria realtà. Nello spirito l'univocità dell'universale è diventata soggetto, e

l'universalità si afferma nella società solo con il mezzo dello spirito, l'operazione d'astrazione, che esso esegue in modo

altamente reale. Entrambi convergono nello scambio, qualcosa insieme di soggettivamente pensato e di oggettivamente valido,

in cui pure si oppongono inconciliate l'oggettività dell'universale e la determinazione concreta dei singoli

soggetti, proprio perché diventano commensurabili. Sotto il nome di spirito del mondo non si fa che affermare e

ipostatizzare lo spirito, per quello che in sé è sempre già stato; in esso - come comprese Durkheim, che perciò viene accusato

di metafisica - la società venera se stessa, la sua coazione come onnipotenza. La società può sentirsi confermata dallo

spirito del mondo poiché essa possiede effettivamente tutti gli attributi, che essa adora poi nello spirito. La sua venerazione

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mitica non è una pura mitologia concettuale: essa esprime il ringraziamento per il fatto che nelle fasi storiche piú

sviluppate tutti i singoli sono vissuti solo mediante quell'unità sociale' che non era riducibile a loro e che con il passare del

tempo sta diventando sempre piú il loro fato. Se oggi, senza che se ne accorgano, la loro esistenza gli viene letteralmente

assegnata a tempo determinato dai grandi monopoli e potenze, non fa che compiersi quel che il concetto enfatico di società

aveva già da sempre teleologicamente in sé. L'ideologia ipostatizzò lo spirito del mondo, perché esso era già

potenzialmente ipostatizzato. Ma il culto delle sue categorie, per esempio di quella fortemente formale, accettata perfino da

Nietzsche, di grandezza, rafforza nella coscienza soltanto la sua differenza da ogni singolo, come fosse ontologica; da ciò

deriva l'antagonismo e i prevedibili disastri.Non soltanto da oggi la ragione dello spirito del mondo è, di

fronte all'interesse potenziale generale dei singoli soggetti associantisi, da cui differisce, la non ragione. Si è criticato in

Hegel, e in tutti quelli che hanno appreso da lui, l'equiparazione di categorie da un lato logiche, dall'altro

sociali e di filosofia della storia : essa sarebbe quella punta dell'idealismo speculativo che deve spezzarsi di fronte alla

incostruibilità dell'empiria. Ma proprio tale costruzione era adeguata alla realtà. L'alternarsi della storia come il principio

d'equivalenza, sviluppantesi in totalità, del rapporto sociale tra i singoli soggetti si svolge secondo la logicità che

apparentemente solo Hegel con la sua interpretazione vi avrebbe aggiunto. Solo che questa logicità, il primato

dell'universale nella dialettica di universale e particolare, è index falsi. Non esiste tale identità, come non esiste la libertà,

l'individualità, tutto ciò che Hegel pone come identico con l'universale. Nella totalità dell'universale si esprime il suo

stesso fallimento. Ciò che non sopporta niente di particolare,

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si smaschera cosí come un dominante in senso particolare. La ragione universale che si afferma è già quella limitata. Essa

non è semplicemente unità entro la molteplicità, ma come posizione verso la realtà, è marchiata, unità su qualcosa;

perciò è nella sua forma pura in sé antagonistica. L'unità è scissione. L'irrazionalità della ratio realizzata particolarmente

entro la totalità storica non è esterna alla ratio, non deriva soltanto dalla sua applicazione. Al contrario è in essa

immanente. Confrontata ad una ragione piena, quella vigente si rivela già in sé, in base al suo principio, polarizzata e in

questo senso irrazionale. La razionalizzazione soggiace veramente alla dialettica: questa ha luogo nel suo stesso

concetto. Non si può ipostatizzare la ratio, come ogni altra categoria. Il trapasso dell'interesse all'autoconservazione degli

individui al genere si è coagulato spiritualmente nella sua forma insieme universale e antagonistica. Tale passaggio obbedisce ad una logica che la grande fìlosofia borghese

realizzò in momenti di volta della storia come Hobbes e Kant: senza la cessione dell'interesse all'autoconservazione al

genere, rappresentato nel pensiero borghese per lo piú dallo stato, l'individuo non riuscirebbe a mantenersi in vita in

rapporti sociali piú sviluppati. Ma tramite questo trasferimento necessario per gli individui la razionalità

universale si pone quasi inevitabilmente in contrasto con gli uomini particolari, che essa deve negare per diventare

universale, e che essa dà ad intendere di servire, e lo fa anche. Nell'universalità della ratio, che ratifica la debolezza di ogni

particolare, il suo essere costretto ad affidarsi al tutto, si dispiega la sua contraddizione con il particolare grazie al

processo d'astrazione, su cui si basa. La ragione onnidominante, instauratasi su un altro, restringe

necessariamente anche se stessa. Il principio di identità assoluta è in sé contraddittorio: perpetua la non-identità in

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quanto repressa e danneggiata. Un elemento di questa situazione è passato nello sforzo di Hegel di assorbire la non-

identità tramite la filosofia dell'identità, anzi di determinare l'identità per mezzo della non-identità. Ma egli travolge la

fattispecie affermando l'identico, ammettendo il non-identico come un negativo sia pur necessario, e disconoscendo la

negatività dell'universale. Gli manca la simpatia per l'utopía del particolare sotterrata sotto l'universalità, per quella non-

identità, che ci sarebbe soltanto quando una ragione realizzata avesse lasciato dietro di sé quella particolare dell'universale.

Egli avrebbe dovuto rispettare, invece che accusare e riprendere, la coscienza dell'ingiustizia, implicata nel concetto di universale, proprio per l'universalità dell'ingiustizia stessa. Quando all'inizio dell'epoca moderna il condottiere Franz von

Sickingen mortalmente ferito trovò le parole «niente è senza causa» per formulare il proprio destino, egli esprimeva con la

forza dell'epoca due cose: la necessità del corso del mondo sociale, che lo condannava alla scomparsa, e la negatività del

principio di un corso del mondo che si svolge secondo necessità. Esso è incompatibile assolutamente alla felicità anche del tutto. Il contenuto empirico della frase va oltre

quello ovvio della validità generale del principio causale. La coscienza del singolo percepisce vagamente in quel che gli

capita, l'interdipendenza universale. Il suo destino apparentemente isolato riflette il tutto. Ciò che un tempo era indicato dal nome mitologico di destino, non è meno mitico,

come demitologizzato, sotto la forma secolare di «logica delle cose». Essa viene marchiata sul singolo, segno della sua

particolarizzazione. Ciò ha motivato oggettivamente la costruzione hegeliana dello spirito del mondo. Da un lato

rende conto dell'emancipazione del soggetto; esso deve essersi separato dall'universalità per potersi percepire in sé e per sé. D'altra parte la connessione delle singole azioni sociali deve

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essersi annodato in una totalità senza soluzioni di continuità, che predetermina il singolare come mai era stato nell'epoca

feudale.Il concetto di storia universale, dalla cui validità la filosofia hegeliana è ispirata quanto quella kantiana da quella delle

scienze naturali, divenne tanto piú problematico, quanto piú il mondo unificato si approssimava ad un processo globale. Da un lato la scienza storica avanzante con metodo positivistico

ha disgregato la concezione di una totalità e di una continuità senza interruzioni. Rispetto ad essa la costruzione filosofica

aveva il dubbio vantaggio di una minore conoscenza dei dettagli, che voleva spacciare fin troppo facilmente per una

sovrana distanza; e veramente anche meno timore di dire qualcosa di essenziale, che si profìli soltanto dalla distanza. Dall'altro una fìlosofia sviluppata doveva cogliere l'accordo tra storia universale e ideologia (Cfr. BENJAMIN, Schriften

cit., vol. I, PP. 494 sgg.) e la vita sconvolta come discontinua. Hegel stesso aveva concepito la storia universale come unitaria solo grazie alle sue contraddizioni. Con la sua

riformulazione materialistica l'accento maggiore fu posto sulla comprensione della discontinuità di ciò che non era tenuto

insieme da alcuna unità consolatoria dello spirito e del concetto. Tuttavia bisogna pensare insieme storia universale e discontinuità. Cancellare quella come residuo di superstizione

metafisica, consoliderebbe la mera fattualità come l'unica cosa da conoscere e quindi da accettare, allo stesso modo della

sovranità precedente, che ordinava i dati nell'avanzata totale dello spirito uno, confermandoli come sue manifestazioni. La

storia universale si costruire e negare. Sarebbe cinico affermare dopo le catastrofi e nell'attesa delle future un piano

mondiale verso il miglioramento che si manifesti nella storia e la unifichi. Però non si deve negare perciò l'unità, che salda

insieme i momenti e fasi discontinui, caoticamente disgregati

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della storia, quella del dominio della natura, progrediente nel o sugli uomini ed infìne sulla natura inferiore. Non c'è una

storia universale che conduca dal selvaggio all'umanità, ma certo una che porta dalla fionda alla megabomba. Essa

termina nella minaccia totale dell'umanità organizzata contro gli uomini organizzati, la quintessenza della discontinuità.

Cosí Hegel viene terribilmente verificato e messo sulla testa. Se egli trasfigurava la totalità della sofferenza storica in

positività dell'assoluto che si realizza, l'uno e il tutto che si sviluppa con pause per prendere fiato fino ad oggi è

teleologicamente la sofferenza assoluta. La storia è l'unità di continuità e discontinuità. La società si mantiene in vita non malgrado il suo antagonismo, ma tramite esso; l'interesse al profitto, e quindi il rapporto di classe sono oggettivamente il

motore del processo produttivo, da cui dipende la vita di tutti e il cui primato ha il suo punto di fuga nella morte di tutti. Ciò

implica anche l'elemento conciliante nell'inconciliabile: poiché esso soltanto permette agli uomini di vivere; senza di esso non ci sarebbe nemmeno la possibilità di una vita trasformata. Ciò

che quella possibilità creò storicamente, può anche distruggere. Lo spirito del mondo, degno oggetto di

definizione, dovrebbe essere definito come catastrofe permanente. Sotto il principio d'identità che assoggetta tutto,

ciò che non si dissolve nell'identità e si sottrae alla razionalità pianificante nell'ambito dei mezzi diventa angoscioso,

rappresaglia per quel male che il non identico subisce da parte dell'identità. La storia potrebbe difficilmente essere

interpretata altrimenti, senza trasformarla magicamente in idea.

Non sono oziose delle speculazioni sul fatto se l'antagonismo sia stato ereditato all'origine della società umana, un

frammento di storia naturale prolungata, come principio homo bomini lupus, oppure sia diventano altro, e se - ammesso che

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sia derivato - abbia origine dalle necessità della sopravvivenza del genere e non invece per cosí dire contingente, dovuto ad

atti arcaici d'arbitrio di presa del potere. Allora la costruzione dello spirito del mondo crollerebbe. Lo storicamente

universale, la logica delle cose, che si raccoglie nella necessità della tendenza generale, sarebbe fondata sul casuale, il suo

estrinseco: avrebbe anche potuto non essere. Non soltanto Hegel, ma anche Marx e Engels, difficilmente cosí idealistici

come nel rapporto con la totalità, avrebbero respinto il dubbio sulla sua inevitabilità, che pure sorge spontaneo all'intenzione

di cambiare il mondo, come un attacco mortale al proprio sistema invece che a quello dominante. E' vero che Marx,

sospettoso verso ogni antropologia, si guarda dal porre l'antagonismo nell'essenza umana oppure nella preistoria, che

viene schizzata piuttosto secondo il topos dell'età dell'oro, insiste però tanto piú decisamente sulla sua necessità storica.

L'economia deve avere il primato sul dominio, che non può essere altro che derivato economicamente. E' praticamente

impossibile decidere la controversia ricorrendo ai fatti; essi si perdono nel vago della preistoria. Ma l'interesse per essa non

era certo un interesse per i fatti storici, cosí come quello al contratto sociale un tempo, che già Hobbes e Locke

diffìcilmente ritenevano che fosse stato compiuto realmente (il contratto sociale immaginario era cosí accetto ai pensatori

della prima epoca borghese, poiché come fondamento poneva la razionalità borghese, il rapporto di scambio, come a priori

giuridico-formale. Ma esso era immaginario quanto la ratio borghese stessa nella società reale impenetrabile).

Si trattava di divinizzare la storia anche nel caso degli hegeliani ateistici Marx e Engels. Il primato dell'economia

deve fondare con stringenza storica l'bappy end come ad essa immanente; il processo economico produrrebbe i rapporti di

dominio politico e li rovescerebbe fino alla liberazione

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necessaria dalla costrizione dell'economia. Tuttavia l'intransigenza della dottrina, specialmente in Engels, era a

sua volta appunto politica. Egli e Marx volevano la rivoluzione come rivoluzione dei rapporti economici nella società nel suo

complesso, nelle fondamenta della sua autoconservazione, non come mutamento delle regole del gioco del dominio, la sua

forma politica. La punta era rivolta contro gli anarchici. Ciò che indusse Marx ed Engels a tradurre per cosí dire perfìno il

peccato originario dell'umanità, la sua storia originaria, nell'economia politica, sebbene il suo concetto, incatenato alla totalità del rapporto di scambio sia un prodotto più tardo, era

l'aspettazione della rivoluzione immediatamente imminente. Poiché essi la volevano per il giorno dopo, per loro era della massima attualità battere le correnti di cui dovevano temere

che venissero battute come un tempo Spartaco e le rivolte contadine. Essi erano nemici dell'utopia per poterla realizzare. La loro immagine della rivoluzione modellò quella del mondo

precedente: il peso preponderante delle contraddizioni economiche nel capitalismo sembrava esigere la ma deduzione

dall'oggettività accumulata dell'elemento storicamente più forte a partire da tempi immemorabili. Essi non potevano

immaginare quel che si sarebbe mostrato nel fallimento della rivoluzione, anche là dove riuscí: il dominio riesce a

sopravvivere all'economia pianificata, che essi certo non avrebbero scambiato con il capitalismo di stato; un potenziale

che prolunga oltre la sua fase specifica la tendenza antagonistica, sviluppata da Marx e Engels, dell'economia

puntata contro la mera politica. Il fatto che il dominio duri a morire dopo la caduta di ciò che era l'oggetto principale della

critica dell'economia politica, fece trionfare senza sforzo l'ideologia che deduce il dominio sia da forme presuntamente

inevitabili di organizzazione sociale, per esempio la centralizzazione, sia da quelle della coscienza che astrae dal

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processo reale - la ratio - e quindi profetizza al dominio, ammettendolo apertamente o con lacrime di coccodrillo, un

futuro senza fine finché esista una società organizzata. Contro tutto ciò conserva la sua forza la critica della politica

feticizzata in un essere in sé oppure quella dello spirito gonfiato nella sua particolarità. Ma gli eventi del xx secolo

colpiscono l'idea della totalità storica come totalità dotata di necessità economica calcolabile. Solo se avesse potuto andare

diversamente: quando viene spezzata la totalità, apparenza socialmente necessaria come ipostasi dell'universale spremuto

dai singoli uomini, nella sua pretesa di assolutezza, la coscienza sociale critica ottiene la libertà del pensiero, che un giorno potrebbe essere diverso. La teoria riesce a smuovere il

peso enorme della necessità storica soltanto quando essa è riconosciuta come l'apparenza diventata realtà, e la

determinazione storica come metafisicamente casuale. Tale conoscenza viene repressa dalla metafisica storica. Alla

catastrofe che si profila all'orizzonte corrisponde piuttosto la supposizione di una catastrofe irrazionale agli inizi della

storia. Oggi la possibilità mancata del diverso si è ridotta a quella di sviare, malgrado tutto, la catastrofe.

Tuttavia Hegel, specialmente quello della filosofia del diritto e della storia, eleva a transcendenza l'oggettività

storica, cosí come è ormai divenuta: «Questa sostanza universale non è il mondano; questo vi si contrappone

impotentemente. Nessun individuo può oltrepassare tale sostanza; potrà distinguersi certamente da altri singoli

individui, ma non dallo spirito del popolo» (G. W. F. HEGEL, Die Vernunft in der Geschichte, 5' ed., Hamburg 1955, p. 60). Quindi il contrario del «mondano», ciò che l'identità impone

in modo non identico all'essente particolare, sarebbe sovramondano. Perfino una simile ideologia ha il suo grado di verità: anche il critico del proprio spirito del popolo è legato a

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ciò che gli è commensurabile, finché l'umanità è scissa in nazioni. La costellazione tra Karl Kraus e Vienna ne è il

modello maggiore nella storia recente, anche se per lo piú citato per diffamarlo. Ma in Hegel le cose non vanno cosí

dialetticamente, come sempre quando incontra qualche elemento che lo disturba. Egli continua dicendo che l'individuo «può essere piú intelligente di molti altri, ma non può superare

lo spirito del popolo. I dotati di spirito sono solo coloro che hanno consapevolezza dello spirito del popolo e sono capaci di orientarsi ad esso» (ibid., p. 60). Hegel descrive con rancore -

lo si può cogliere nella parola «acuto» - il rapporto restando molto al di sotto della propria concezione. «Orientarsi ad

esso» sarebbe alla lettera mero adattamento. Sottostando come a una coazione ad ammettere egli decifra l'identità affermativa

da lui insegnata come una frattura persistente e postula la subordinazione del più debole al piú forte. Eufemismi come quello dalla filosofia della storia, che nel corso della storia

"singoli individui sono stati offesi", si avvicinano senza volerlo alla coscienza dell'inconciliatezza, e lo strombettamento "nel dovere, l'individuo si redime a libertà sostanziale", del resto

patrimonio di tutto il pensiero tedesco idealistico, non è quasi piú distinguibile dalla sua parodia nella scena del dottore nel Woyzeck di Biichner. Hegel fa dire alla filosofia «che non c'è

potere che superi tanto la potenza del buono, di Dio, da impedirgli di far sí che Dio ottenga ragione, che la storia

universale non rappresenti che il piano della Provvidenza. Dio regge il mondo; il contenuto ad suo governo, l'adempimento del suo piano è la storia universale, comprenderla è compito della filosofia della storia universale, e il suo presupposto è

che l'ideale si realizza, che ha realtà solo ciò che corria~ all'idea». Si direbbe che sia stato astutamente all'opera lo

spirito del mondo quando Hegel, come per coronamento della sua predica edificante, in questo contesto scimmiotta (per

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usare una parola di Amold Schonberg), anticipandolo, Heidegger: «Infatti la ragione è l'intendere dell'opera divina». Il pensiero onnipotente deve dare le dimissioni e farsi suddito

come mero cogliere. Hegel mobilita concezioni greche al di qua dell'esperienza dell'individualità per indorare

I'eteronomia del sostanzialmente universale. In tali passi egli salta tutta la dialettica storica e proclama la forma antica

dell'eticità - che prima era quella della filosofia greca ufficiale e poi quella dei ginnasi tedeschi - senza esitare come quella

vera: «Infatti l'eticità dello stato non è quella morale, riflessa, in cui domina la propria convinzione; questa è piuttosto

accessibile al mondo moderno, mentre quella vera e antica è radicata nel fatto che ciascuno sta nel proprio dovere». Lo

spirito oggettivo si vendica su Hegel. Come oratore ufficiale dello spirito spartano egli anticipa di cento anni il gergo della proprietà con l'espressione «stare nel proprio dovere». Egli si abbassa a dispensare una consolazione decorativa a vittime,

senza toccare in nulla alla sostanzialità della situazione di cui sono vittima. Ciò che aleggia dietro le sue dichiarazioni

superiori era già prima denaro spicciolo nel tesoro domestico borghese di Schiller. Egli nella Campana fa prendere al padre di famiglia, sul luogo in cui è bruciata la sua casa, il bastone

del pellegrino, che pure è il bastone del mendicante, non solo, ma gli prescrive oltretutto di farlo allegramente; impone alla

nazione, che altrimenti non è degna di nulla, di aggiungere addirittura con gioia l'ultimo elemento del suo onore. Il terrore del sentirsi bene internalizza la contrainte sociale. Una simile

esagerazione non è un lusso poetico; il socialpedagogo idealistico deve esagerare, perché senza la prestazione

ulteriore e irrazionale dell'identificazione diventerebbe troppo flagrante che l'universale depreda il particolare di quel che gli

promette. Hegel associa la potenza dell'universale con il concetto estetico-formale di grandezza: «Questi sono i grandi

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di un popolo, guidano il popolo secondo lo spirito universale. Per noi allora scompaiono le individualità e per noi valgono solo come coloro che realizzano quel che vuole lo spirito del

popolo» (HEGEL, Die Vernunft in der Gescbicbte cit., p. 6o). La scomparsa delle individualità decretata con un gioco di

bussolotti, un negativo che la filosofia pretende di conoscere come positivo, senza che sia realmente trasformato, è

l'equivalente della frattura persistente. La violenza dello spirito del mondo sabota quel che Hegel esalta in un altro passo nell'individuo: «che esso sia conforme alla propria

sostanza, e lo sia tramite se stesso» (ibid., p. 95). Tuttavia la formulazione liquidatrice sfiora qualcosa di serio: lo spirito

del mondo è «lo spirito del mondo quale si esplica nella coscienza umana; gli uomini vi si rapportano come singoli al

tutto, che è la loro sostanza». Ciò liquida l'idea borghese dell'individuo, il nominalismo volgare. Ciò che si aggrappa a

se stesso come all'immediatamente certo e sostanziale, diventa appunto perciò agente dell'universale, l'identità una

rappresentazione ingannevole. In questo Hegel s'incontra con Schopenhauer, avendo su di lui il vantaggio di aver compreso che la dialettica di individuazione e universale non può essere risolta con la negazione astratta dell'individuale. Ma resta da obiettare non solo a Schopenhauer, ma anche a Hegel stesso, che l'individuo, manifestazione necessaria dell'essenza, della

tendenza oggettiva, ha a volta ragione contro di essa, in quanto la confronta con la sua esteriorità e fallibilità. Ciò è

implicato nella dottrina hegeliana della sostanzialità dell'individuo «tramite se stesso». Ma invece di svilupparla,

egli s'irrigidisce in una contrapposizione astratta di universale e particolare, che dovrebbe essere inconciliabile con il suo

metodo ( tra i positivisti Emile Durkbeim ha tenuto ferma la decisione hegeliana a favore dell'universale nella dottrina

dello spirito collettivo, anzi magari l'ha scavalcata, in quanto

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il suo schema non concede piú posto neppure in abstracto a una dialettica di universale e particolare. Nella sociologia

delle religioni primitive egli ha riconosciuto materialmente che ciò su cui insista il particolare, la sua particolare proprietà, gli

è assegnata dall'universale - Egli ha anche indicato l'inganno del particolare come mera mimesi sull'universale e la violenza che unicamente fa tale il particolare: « Il lutto (che si esprime

nel corso di certe cerimonie) non è un moto naturale della sensibilità privata, scossa da una perdita crudele; è un dovere imposto dal gruppo. Ci si lamenta, non semplicemente perché

si è tristi, ma perché si è tenuti a lamentare. P, un atteggiamento rituale che si è costretti ad assumere per

rispetto del costume, ma che è, in gran parte, indipendente dallo stato effettivo degli individui. Del resto, questo obbligo è

sanzionato da pene mitiche o sociali» - E. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique

en Australie, Paris 1960, p. 568).L'idea della Logica hegeliana dell'unità del particolare e

dell'universale, che a volte gli diventa identità, si oppone a una tale divisione del sostanziale dall'individualità non meno che

alla coscienza immediata irretita: "La particolarità però è come universalità in sé e per se stessa, non con un trapasso

tale relazione immanente; essa è totalità in se stessa e semplice determinatezza, sostanzialmente principio. Non ha altra

determinatezza che quella posta dall'universale stesso, e ne risulta conseguentemente. Il particolare è l'universale stesso,

ma ne è la distinzione o relazione con un altro, il suo apparire all'esterno; non c'è però alcun altro da cui il particolare sia

distinto se non lo stesso universale. L'universale si determina, per cui è esso stesso il particolare; la determinatezza è una

distinzione; esso è distinto solo da se stesso". Allora il particolare sarebbe immediatamente l'universale, poiché trova

soltanto tramite questo ogni determinazione della sua

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particolarità; senza di esso conclude Hegel, secondo un argomento che si ripete continuamente, il particolare non

sarebbe nulla. La storia moderna dello spirito, e non solo essa, fu il lavoro di Sisifo apologetico, di eliminare nel pensiero il

negativo dell'universale.""Spirito del mondo e storia naturale.Excursus su Hegel" in

Dialettica negativa di Adorno La dialettica negativa descritta da Adorno mantiene in vigore la dialettica sebbene la sottoponga al più forte contrappasso che la critica le abbia riservato. La conoscenza mira al particolare, ma nella forma della mediazione chi ci rimette è il particolare, e nella dialettica hegeliana la coscienza del particolare, la sua cosa “più vera”, secondo Adorno, finisce per eliminare il particolare. La socializzazione come fine della dialettica finisce per rovesciarsi nel suo contrario. Hegel e i suoi seguaci marxisti hanno squalificato l'eterogeneo come elemento caotico. Ciò che viene chiamato angoscia non è altro che claustrofobia, aveva ricordato Adorno. La dialettica negativa si arresta dove intuisce che “la posizione del pensiero nei confronti della felicità sarebbe la negazione di ogni falsa felicità”. Questa affermazione segna il limite dell'impostazione del problema da parte di Adorno. Il giovane Marx ricordava ai suoi futuri seguaci che noi conosciamo “un'unica scienza, la scienza della storia”, che tuttavia non è affatto una scienza. Non sarò io a concludere il discorso che porterà alla dismissione delle illusioni della dialettica. Nella Premessa alla Dialettica negativa Adorno scrisse: “Quando Benjamin nel 1 9 3 7 lesse quella parte della Metacritica della gnoseología che l'autore aveva allora portata a termine - si tratta dell'ultimo capitolo di quel libro -, osservò

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che per giungere in modo rigoroso al filosofare concreto si doveva attraversare il deserto di ghiaccio dell'astrazione. Ora la Dialettica negativa traccia retrospettivamente tale via. Nella filosofia contemporanea la concretezza è stata ottenuta per lo piú surrettiziamente. Per contro il testo prevalentemente astratto intende servire alla sua autenticità non meno che alla spiegazione del procedimento concreto dell'autore. Nei dibattiti estetici piú recenti si parla di antidramma e di antieroe; analogamente la Dialettica negativa, che non tocca affatto temi estetici, potrebbe chiamarsi antisistema. Con mezzi della logica conseguenziale essa si sforza di avanzare, al posto del principio d'unità e del dominio totalitario del concetto sovraordinato, l'idea di ciò che sarebbe al di fuori del bando di tale unità. Da quando l'autore confidò nei propri impulsi intellettuali, sentí come proprio compito spezzare con la forza del soggetto l'inganno di una soggettività costitutiva; e non ha voluto rinviarlo ulteriormente”.In modo analogo si potrebbe dire che neppure l'antisistema smette di avere rapporti con il sistema, conservando non solo nella condanna l'analogia col nemico da abbattere, magari, al quale rimandano svariati ed inusitati legami. La triste verità è, da un punto di vista metapsicologico, una regressione (non è detto che sia felice, tutt’altro). Le spontaneità dei singoli sono condannate alla pseudoattività, “potenzialmente alla stupidità” (Adorno). Ma tali siamo e rimarremo, pseudo attivi e, potenzialmente e/o attualmente, stupidi. Lo spettacolo rende stupidi.

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Lo spazio litterario

Lo spazio litterario, da litter, in inglese, cioè non letterario. Si potrebbe anche dire lettierario, quello a cui serve la lettiera. Lo spazio letterario è il titolo di un’opera di Maurice Blanchot. In questo frangente si riporta il litter di Jacques Lacan, come esempio. Da Problema dello stile e la concezione psichiatrica delle forme paranoiche dell'esistenza:Possiamo concepire l'esperienza vissuta paranoica e la concezione del mondo da essa generata, come una sintassi originale che contribuisce a sostenere la comunità umana attraverso legami di comprensione caratteristici. La conoscenza di questa sintassi ci sembra un'introduzione indispensabile alla comprensione dei valori simbolici dell'arte, e in modo tutto particolare ai problemi dello stile - e cioè delle virtù di convinzione e di comunione umana ad esso caratteristici, non meno che ai paradossi della sua genesi -, problemi sempre insolubili per qualsiasi antropologia che non si sia liberata del realismo ingenuo dell'oggetto.

Ultime pagine del Seminario sulle psicosi: Non dirò che il pur minimo gesto fatto per alleviare un male dia la possibilità di un male maggiore: esso comporta sempre un male maggiore. Lacan aggiunge: Ciò detto, la cosa non porterà lontano.

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La fenomenologia dello spirito è ben presente, come tutti sanno, nei Seminari di Lacan:Il padrone ha preso al servo il suo godimento, si è impossessato dell'oggetto del desiderio del servo, ma in ciò allo stesso tempo ha perso la sua umanità. Non era affatto l'oggetto del godimento a essere in causa, ma la rivalità in quanto tale. La sua umanità, a chi la deve? Unicamente al riconoscimento del servo. Solamente, poiché lui non riconosce il servo, questo riconoscimento non ha letteralmente alcun valore. Com'è abituale nell'evoluzione concreta delle cose, colui che ha trionfato e conquistato il godimento diviene completamente idiota, incapace di altro che di godere, mentre colui che ne è stato privato conserva tutta la sua umanità. Il servo riconosce il padrone, ha dunque la possibilità di essere riconosciuto da lui. E impegnerà la lotta attraverso i secoli per esserlo effettivamente.

La poesia:C'è poesia ogni volta che uno scritto ci introduce in un mondo diverso dal nostro, e, dandoci la presenza di un essere, di un certo rapporto fondamentale lo fa diventare ugualmente nostro. La poesia fa sì che non possiamo dubitare dell’autenticità dell'esperienza di san Giovanni della Croce, né di quella di Proust o di Gerard de Nerval. La poesia è creazione un soggetto che assume un nuovo ordine della relazione simbolica con il mondo.

La certezza:

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Sicuramente la certezza è la cosa più rara per il soggetto normale. Sul malinteso:...vi insegno che il fondamento stesso del discorso interumano è il malinteso. ...dirò che è con una esplicita intenzione, se non assolutamente deliberata, che io conduco questo discorso in modo tale da offrirvi l'occasione di non comprenderlo del tutto. Questo margine permette che voi stessi diciate di credere di seguirmi, cioè restiate in una posizione problematica, che vi lascia sempre la porta aperta a una rettificazione progressiva. In altri termini, se io mi arrangiassi in modo da essere molto facilmente compreso, talché abbiate la certezza che ci siete, ebbene, proprio in virtù delle mie premesse riguardo al discorso interumano, il malinteso sarebbe irrimediabile.

Sulla retorica:...ciò che si ritrova in fondo ai meccanismi freudiani sono quelle vecchie figure di retorica che, col tempo, hanno finito per perdere per noi il loro senso, ma che per secoli hanno suscitato un prodigioso interesse. La retorica, o arte dell'oratore, era una scienza e non soltanto un'arte.

Sull'io:...la teoria dell'io in Freud è fatta, al contrario, per mostrare che ciò che chiamiamo il nostro io è una certa immagine che abbiamo di noi, che ci dà un miraggio, di totalità indubbiamente.

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Dal Seminario sull'etica della psicoanalisi:...e vi ho sempre detto che è importante non capire per capire". Il fool è un semplice, un ritardato, ma dalla sua bocca escono delle verità, che non solo sono tollerate, ma messe in funzione, per il fatto che talvolta il fool è rivestito delle insegne del buffone. Quest'ombra felice, questa foolery di fondo, ecco che cosa faceva ai miei occhi il pregio dell'intellettuale di sinistra. Knave a un certo punto del suo impiego si traduce con valet (servitore), ma è qualcosa che va oltre. Non è il cinico, con quel che tale posizione comporta di eroico. In senso proprio, è ciò che Stendhal chiama le coquin fieffé (il furfante matricolato), ossia, dopotutto, il signor Tutti, ma un signor Tutti con più decisione. Ognuno sa come un certo modo di presentarsi che fa parte dell'ideologia dell'intellettuale di destra consista per l'appunto nel porsi per quel che effettivamente è, un Knave, in altri termini, nel non ritrarsi di fronte alle conseguenze di quel che si chiama realismo, cioè, quando è necessario, nel rivelarsi di essere una canaglia. Dopotutto, una canaglia vale uno stolto, quantomeno per il divertimento, se il risultato della costituzione delle canaglie in branco non fosse infallibilmente una stoltezza collettiva. ...per un curioso effetto di chiasmo, la foolery, che dà il suo stile individuale all'intellettuale di sinistra, finisce benissimo in una knavery di gruppo, in una canaglieria collettiva.

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Passaggio

Come scartare illuminismo, romanticismo e avanguardia di Elémire Zolla, articolo pubblicato in Verità segrete esposte in evidenza (Marsilio).

Da un'epoca si travalica in un'altra quando le idee, i sentimenti, le immagini ossessive o consolatrici più diffuse cominciano ad appassire. Che cosa vi si sostituisce? In che modo? Quali esempi propone Elémire Zolla?Per saperlo è necessario visitare i luoghi meno raccomandabili, gente che si sarebbe tentati di scartare come prossima alla follia. O semplicemente pericolosa. Per esempio, nella Francia rivoluzionaria settecentesca. Ad avere il coraggio e la pazienza necessari per esplorare i luoghi proibiti dal regime, si sarebbero scoperte le avvisaglie del futuro anti-illuminismo romantico. L'Illuminismo rivoluzionario opera una rimozione, ma nulla è impunemente rimosso. Reprimere con virtuosa mostra d'orrore è come cacciare sottoterra, nella tenebra, bulbi, fittoni, semenze. Ciò avrà occasione di crescere. Tra gli esempi di motti romantici, ce n'è uno in particolare: ciò che è sventurato e perseguitato è più romantico di ciò che ha dalla sua la forza e il sopravvento. Dunque il romanticismo si presenta come il salvataggio di ciò che l'industria schiaccia.

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Scrive Elémire Zolla: Il gusto di parteggiare per il perdente porta ad avventure incredibili e alla fine ripugnanti. Non soltanto gli oppressi dalla tracotanza dell'industria o dalla ragion di Stato attraggono come calamite la sensibilità romantica, ma anche gli inetti, i viziosi e infine gli abietti. Il romanticismo estremo ribalta interamente il sistema dei compensi e delle pene, cambia sistematicamente di segno tutte le valutazioni non solo della morale ma del gusto. Il vizio è sentito come fonte d'ispirazione veramente romantica dai più intimamente iniziati allo spirito dei tempi. Il romanticismo diventa alla fine gusto della putrefazione, esaltazione dei fermenti della morte, lode agli aborti dello spirito. Che il romantico diventi seguace, amante del partito della morte, dipende dal fatto che, secondo Zolla, la sua restaurazione fallisce. Gli ultimi stili romantici diventano il tramite di una volontà suicida, ma in generale i romantici si ingannano sulle loro fantasie. Le nostalgie di un passato migliore del presente sono delle bambinaggini. L'avanguardia si può definire come lo scioglimento dei significanti dai significati: essa è perfettamente adatta al mondo ormai privo di significato del tardo industrialismo, è anzi il corrispettivo inevitabile di un mondo ridotto a pura quotidianità. E. Zolla riprende la definizione di quotidianità: restrizione dell'orizzonte ed eliminazione dei significati. Chi vive del quotidiano nel quotidiano non saprebbe più infilare un

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sillogismo all'altro, la deduzione lo spossa, la sintesi lo urta, se gli si parla di vita interiore crede che si intenda il fantasticare della sua mente ignara di significati. Il quotidiano è riuscito a svuotare l'almanacco cristiano, che invano gli odiatori giacobini del Cristo-Sole avevano tentato di surrogare con insulsi mesi repubblicani, con bieche e sentimentali feste civili.Infatti il calendario del quotidiano, che ha espulso ogni diversità qualitativa fra i giorni salvo la differenza di temperatura, è un'opera di avanguardia, una successione di significanti privi di significati, un codice senza chiave. Per Elémire Zolla l' al di là della quotidianità è l'apoteosi dell'immondezzaio. L'avanguardia, cioè lo spettacolo inverte i motti romantici, p. e. il passato va oltraggiato a vantaggio del presente, a vantaggio ancora maggiore del futuro prossimo, ma un tale futuro, cui si rifiuta un rapporto con il passato, non può avere significati, pertanto perdono consistenza tutte le differenze storiche. A una domanda radicale di Elémire Zolla: Come può essere vero ciò che non rende, che non serve a niente? Una risposta: che l'uomo contempli, che abbia come fine di contemplare e consideri l'azione un sacrificio, questo è il male (per i funzionari dell'esistente).

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L'uomo romantico poteva volgersi, oltre che ai paesi esotici, al proprio passato. Ma oggi le tracce del passato europeo sono state estirpate. Il passato europeo resta inaccostabile. Per Elémire Zolla, la Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno, estremo grido del romanticismo filosofico, avrebbe dovuto fondarsi su una maggiore conoscenza e non su una ritorsione sentimentale.

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Knots du spectacle

I “Nodi” (“Knots”) di R.L. Laing hanno più di trent'anni. Pur conoscendoli, e avendoli a portata di mano, li ho ignorati a lungo; fino a quando non ho pensato che nei nodi, nei garbugli, nelle contraddizioni, nelle sconnessioni, nei circoli viziosi, nelle oscillazioni e nei vincoli fossero nascoste le raffigurazioni della reciprocità nella patologia sentimentale del rapporto tra lo spettatore (ma sempre più attore se non addirittura, a volte, autore richiesto dello spettacolo) e lo spettacolo, che pretende di regnare, ma sempre più è intrappolato da quella rete che suscita e subisce e che subisce e suscita. Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostrano che sanno e vogliono che li vediamo giocare fingono di infrangere le regole ma non ci puniranno. Dobbiamo giocare al loro gioco, e vedere che vediamo il gioco. Si stanno divertendo. Non sappiamo se ci divertiamo se loro non si divertono. Se fanno in modo che noi ci divertiamo, allora saremo sicuri di divertirci con loro. Far sì che ci divertiamo non è un divertimento. Si tratta di un duro lavoro. Vorremmo divertirci a scoprire perché non si divertono.Ma non siamo tenuti a divertirci nel cercare di capire perché non si divertono.Vi è del divertimento nel far sembrare che non ci divertiamo a scoprire perché non si divertono.Ma si divertono anche loro con noi, allo stesso modo. Loro non credono che in noi ci sia qualcosa che non va, perché in noi una delle cose che non va è il fatto che noi non crediamo che in noi ci sia qualcosa che non va, quindi devono aiutarci a

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farci rendere conto che se in noi c'è qualcosa che non va è in loro che qualcosa che non va.In loro c'è qualcosa che non va perché credono che in noi ci sia qualcosa che non va, per il fatto che cerchiamo di aiutarli a mostrarci che ci deve essere qualcosa che in loro non va. Loro non ci stanno perseguitando aiutandoci a vedere che non li incolpiamo facendoci aiutare, noi non ci rifiutiamo di vedere che in loro c'è qualcosa che non va perché vedano che in noi c'è qualcosa che non va. Noi gli siamo riconoscenti di non vedere che in noi c'è qualcosa che non va e di non vedere che in loro c'è qualcosa che non va. Se sono sfrontati ci rispettano e noi li amiamo con la stessa sfrontatetzza del loro non rispettarci. E' il modo più facile fare ciò che vogliamo perché non ci rispettano. Ci sentiamo bene perché loro ci vogliono bene, e ci sentiamo male perché non ci vogliono bene. Ci sentiamo male perché siamo cattivi e siamo cattivi perché non vi vogliono bene e non ci vogliono bene perché siamo cattivi; loro hanno la sensazione che sia colpa loro se noi siamo così crudeli da dubitare che ci vogliano bene, quando loro ci fanno sentire crudeli, a pensare che cerchino di farci sentire crudeli. Loro sono crudeli solo per essere gentili, perché abbiamo pensato che fossero crudeli a punirci quando abbiamo pensato che erano stati crudeli a punirci per aver pensato. Sono crudeli a farci sentire cattivi a pensare di essere crudeli a farci sentire crudeli col sentirci cattivi che loro possano essere così crudeli da pensare che non gli vogliamo bene, quando sanno che noi li adoriamo.

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Fino a che punto bisogna essere intelligenti per essere stupidi?E' male essere stupidi: bisogna essere intelligenti per essere così stupidi. E' male essere intelligenti, perché mostriamo quanto siamo stupidi a dire quanto erano stupidi. Si sono resi stupidi per vedere quanto eravamo stupidi a pensare che erano stupidi, perché non era male pensare che erano stupidi. E' noioso che loro temano di annoiarci interessandosi a noi. Cercando di essere interessanti, riescono molto noiosi. Temono di essere noiosi, cercano di essere interessanti nel non essere interessati, ma a loro interessa solo non essere noiosi. Non si interessano a noi, ma si interessano solo che noi ci interessiamo di loro. Loro non possono essere felici quando nel mondo c'è tanta sofferenza. Loro non possono essere felici se noi siamo infelici. Noi vogliamo essere felici. Loro non si sentono il diritto di essere felici. Noi vogliamo che loro siano felici. Loro vogliono che noi siamo felici. Loro si sentono colpevoli se noi siamo felici e colpevoli se noi non siamo felici. Tanto più distruggono, tanto più hanno paura di essere distrutti, tanto più hanno paura di distruggere, tanto più si distruggono; Non abbiamo mai ottenuto ciò che abbiamo voluto, abbiamo sempre ottenuto ciò che non abbiamo voluto. Ciò che vogliamo non l'otterremo. Quindi per ottenerlo non lo dobbiamo volere perché otterremo solo ciò che non vogliamo. Vogliamo ciò che non possiamo ottenere perché ciò che non possiamo ottenere è ciò che vogliamo.

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Abbiamo ciò che meritiamo, meritiamo ciò che abbiamo. Ce l'abbiamo quindi lo meritiamo. Lo meritiamo perché ce l'abbiamo. Eppure non mi spetta ciò che abbiamo, quindi tutto quello che abbiamo lo abbiamo rubato. Se ce l'abbiamo e non ci spetta dobbiamo averlo rubato, perché non ci spetta. Oppure ci è stato dato quale favore speciale da coloro a cui gli spetta così da volere la nostra riconoscenza per tutto quello che abbiamo, perché quello che abbiamo ci è stato dato, e non è stato rubato. Siamo cattivi a volere quello che non possiamo ottenere; non l'abbiamo ottenuto quindi siamo cattivi a volerlo. Se siamo cattivi a volerlo non saremo meno cattivi per averlo ottenuto. Siamo cattivi a sentirci cattivi, e cattivi a sentirci buoni, perché più si è cattivi meno cattivi ci si sente. Più uno ha più è bravo, perché è stato ricompensato per essere sembrato bravo. Per questo diventerà sempre più bravo col “fare” sempre di più. Tutto quello che abbiamo ci è stato dato ed è nostro. Se ce l'abbiamo, ci deve essere stato dato, quindi è nostro.Non ce l'abbiamo, ma possiamo ottenerlo, quindi, poiché ci è stata data la capacità di ottenerlo sarà nostro.Non è nostro, ma ci è stato dato e ce l'abbiamo, quindi siamo riconoscenti per quello che abbiamo, ma ci infastidisce essere riconoscenti, perché se ci è stato dato, non sempre è stato nostro. Quindi se non proviamo riconoscenza non ci sarà stato dato, quindi sarà nostro per sempre.

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Loro desiderano che noi li desideriamo. Noi desideriamo che lo ci desiderino. Per fare in modo che noi li desideriamo loro fanno mostra di desiderarci. Se non sappiamo di non sapere, pensiamo di sapere. Se non sappiamo di sapere pensiamo di non sapere.C'è qualcosa che non sappiamo che si presume che noi sappiamo. Non sappiamo che cos'è che non sappiamo e tuttavia presumono che noi potremmo sapere o sappiamo. Abbiamo la sensazione di apparire stupidi se sembriamo non sapere, non sapere che cos'è che non sappiamo.Quindi facciamo mostra di sapere, ma è snervante fare mostra di sapere quello che non sappiamo. Dovremmo fare mostra di sapere tutto. Riteniamo che loro sappiamo quello che si presume che noi sappiamo; ma loro non diranno mai che cosa dovremmo sapere. Sarà necessario che noi diciamo tutto, perché loro sanno quello che noi non sappiamo, ma non quello che noi non sappiamo di non sapere. Noi non riusciamo a vedere che cosa è ciò che non riusciamo a vedere. Loro riescono a vedere che c'è qualcosa che noi non riusciamo a vedere, anche se non sanno se tutto quello che non vogliono mostrare resta invisibile. Noi riusciamo a vedere di non riuscire a vedere, ma non riusciamo a vedere che cos'è. Loro verranno a sapere di sapere quello che noi non sappiamo di non sapere. Talvolta abbiamo la sensazione di idealizzarli, facendoli onniscienti e onnipotenti. Noi diciamo continuamente: “Voi pensate che noi sappiamo, ma non lo sappiamo”. Loro pensano che noi potremmo saperlo

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e che, se sapessimo, ci rifiuteremmo di dirlo. Ma loro riescono a vedere che noi riusciamo a vedere che c'è qualcosa che loro non riescono a vedere. Tanto più loro hanno paura di mostrare di avere paura, tanto più hanno paura. Così non si mostrano impauriti che noi non ci mostriamo impauriti, e cercano di farci paura non mostrandosi impauriti che noi non ci mostriamo impauriti, perché sanno che è molto pericoloso non avere paura quando si è di fronte a loro che sono pericolosi. Noi abbiamo paura e loro appaiono pericolosi. Si è dentro e poi fuori quello che si è stati dentro. Ci si sente vuoti perché non c'è nulla dentro di sé. Si cerca di fare entrare dentro di sé il dentro del fuori che un tempo si era dentro una volta che si cerca di entrare dentro quello che si era fuori.Ma non basta. Si cerca di portare il dentro di quello che si è fuori e di portare fuori il dentro. Ma non si porta dentro il fuori con il portare dentro il fuori. Il dentro del fuori è fuori e dentro non c'è nulla.

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Woivozeck

Woyzeck: La pistola è troppo cara.

Ebreo: Allora, la comprate o non la comprate, cosa c'è?

Woyzeck: Quanto costa il coltello?

Ebreo: È' bello affilato. Volete tagliarvi la gola. Non è così? Ve lo do a prezzo scontato, come a chiunque altro, potete avere la morte in offerta, ma non gratis. Che cosa c'è? Avrete una morte economica.

Woyzeck: Non servirà solo a tagliare il pane.

Ebreo: Due soldi.

Woyzeck: Sì! (Se ne va)

Ebreo: Sì! Come se fosse niente. E invece è denaro. Cane.

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L'ebreo, il mercante, sa cosa vende, sa a chi vende e conosce il valore del denaro. L'ebreo è compiutamente umano, poiché interpreta il valore d'uso e valuta il valore di scambio delle merci, in una società economicamente sviluppata. Woyzeck non sa nulla, ma sente senza saperlo spiegare e senza che agli altri ne importi qualcosa, che il rapporto con la natura si è rotto definitivamente, e che la natura è impazzita.

Il dottore invece dice: La natura! Woyzeck, l'uomo è libero, nell'uomo l'individualità si trasfigura nella libertà...

Il rimedio, la cura, il farmaco proposto a Woyzeck sono i piselli - Erbsen - nel dramma di Büchner ( i fagioli - Bohnen - nel Wozzeck di Berg).

Si manifesta una rivoluzione nella scienza - afferma il dottore: albumine, grassi, carboidrati, ossialdeidanidride nel Wozzeck (nel testo di Büchner: Urea, 0,10, cloruro d'ammonio, iperossidulo).

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Tre Tesi di Walter Benjamine

una lettera

VII

Ripensate al buio e al grande freddo in questavalle, che le grida straziano.

B. Brecht, L'opera da tre soldi

Agli storici desiderosi di penetrare nel cuore stesso di un'epoca trascorsa, Fustel de Coulanges raccomandò un giorno di fare come se non si sapesse niente di tutto ciò che è accaduto dopo di essa. Questo è esattamente il metodo opposto al quello del materialismo storico. Ciò equivaleva ad un feeling (Einfühlung) con una data epoca. Ha come origine la pigrizia di un cuore che rinuncia a cogliere l'immagine autentica del passato - un'immagine sfuggente e veloce come un lampo. Questa ignavia del cuore ha lungamente impegnato i teologi del Medioevo che trattavano di essa con il nome di accidia, come di uno dei sette peccati capitali, e riconoscendovi il fondamento della tristezza mortale. Flaubert sembra conoscerla bene per averla provata, lui che scrisse: Poche persone indovineranno quanto fu necessario essere triste per risuscitare Cartagine. Quella tristezza cederà a noi, forse, il suo segreto, alla luce della seguente questione: Chi è, in fin dei conti, colui con il quale si devono identificare i maestri dello storicismo? La risposta sarà, ineluttabilmente: il vincitore. Ora, coloro i quali, in un dato momento, detengono il potere sono gli eredi di tutti coloro che mai, in qualunque occasione, hanno

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mancato di vincere. Lo storico, identificandosi con il vincitore servirà irrimediabilmente gli interessi dei detentori attuali del potere. Ecco dunque che se ne è detto abbastanza per il materialista storico. Chiunque, fino ad oggi, avrà riportato la vittoria farà parte del grande corteo trionfale che cammina sopra coloro che giacciono schiacciati al suolo. Il bottino, come al solito è esposto in questo corteo, a nome dell'eredità culturale dell'umanità. Questa eredità troverà nella persona dello storico materialista un esperto in qualche modo distaccato. Lui, osservando la provenienza di questa eredità non potrà trattenere un brivido d'orrore. Giacché tutto ciò non è dovuto solamente al lavoro dei geni e dei grandi ricercatori ma anche alla servitù oscura dei loro contemporanei. Tutto ciò non testimonia la vittoria della cultura senza testimoniare, nello stesso tempo, quella della barbarie. Questa barbarie è rivelata in essa perfino nel modo in cui, nel corso delle epoche, questa eredità è caduta dalle mani di un vincitore a quelle del successivo. Lo storico materialista sarà portato piuttosto ad essere distaccato. Egli è tenuto a spazzolare contropelo il manto troppo lucido della storia.

VI

“Descrivere il passato tale e quale come è stato” ecco, dopo Ranke il compito dello storico. È una definizione del tutto chimerica. La conoscenza del passato assomiglia piuttosto all'atto con il quale ad un uomo, nel momento del pericolo, improvvisamente si presenti un ricordo che lo salvi. Il materialismo storico è impegnato a catturare un'immagine del passato come essa si presenta al soggetto, imprevista, e

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nell'istante stesso di un pericolo supremo. Pericolo che minaccia altrettanto i dati della tradizione che gli uomini ai quali sono destinati. Si presenta ad entrambi come uno solo e lo stesso: vale a dire come pericolo di reclutarli al servizio dell'oppressione. Ogni epoca deve, di nuovo, impegnarsi in questo rude compito: liberarsi dal conformismo di una tradizione mentre rischia di essere violata da esso. Ricordiamoci che il messia non viene solamente come il redentore, ma come il vincitore dell'Anticristo. Solo uno storico, che ha compreso che il nemico vittorioso non si arresta neanche davanti ai morti - solo questo storico - saprà attizzare nel cuore stesso degli avvenimenti passati la fiamma di una speranza. Intanto, finora, il nemico non ha cessato di trionfare.

V

L'immagine autentica del passato non appare che in un lampo. Immagine che non sorge che per eclissarsi immediatamente, nell'istante successivo. La verità, immobile, che non fa che attendere il ricercatore non corrisponde assolutamente a quel concetto di verità in fatto di storia. Esso si appoggia invece al verso di Dante che dice: è un'immagine unica, inalienabile del passato che svanisce con ogni attimo presente che non ha saputo riconoscersi osservato da essa.

Altra stesura da parte di Walter Benjamin:La vera immagine del passato sguscia via. Proprio in quanto immagine che sfugge, nell'attimo della sua comprensibilità, sul punto di non riapparire mai più, il passato è da bloccare. “La verità non ci può scappare” - queste parole di Gottfried Keller

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segnano, nell'immagine della storia offerta dallo storicismo, il punto in cui essa è trapassata dal materialismo storico, dato che è un'immagine non ripetibile del passato quella che ora sta per sparire con il presente che non si sia riconosciuto in essa.

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Una lettera di Walter Benjamin

Walter Benjamin a Gerhard Scholem del 12 giugno 1938.Argomento: il Kafka di Max Brod. Di questo libro Walter Benjamin rileva come la tesi dell'autore contraddica il suo stesso atteggiamento, per cui questo discredita la prima, che oltretutto non è esente da riserve. Per esempio, la confidenza e la bonomia dell'autore verso l'oggetto della sua biografia finisce con l'essere impietosa, come quella di chi ha avuto una ostentata intimità con un santo, perciò togliendo ogni autorità al contenuto del testo. Max Brod è insensibile, manca di contegno, dimostra una sorprendente mancanza di tatto, di senso dei limiti e delle distanze, e questa incapacità si fa addirittura particolarmente scandalosa, quando l'autore ricorda la volontà di Franz Kafka di distruggere tutta la sua eredità letteraria. Fortunatamente Benjamin non mette in dubbio che Kafka sapesse che ciò significava essere sicuri della salvezza delle proprie carte. Benjamin si limita a rimarcare il dilettantismo e la faciloneria di Brod, la sua inadeguatezza a misurare le tensioni che percorrevano la vita dell'amico, portandolo a nutrire un'istintiva diffidenza per tutte le interpretazioni che evadano da quella strada edificante su cui vorrebbe far incamminare i lettori.

I passi interessanti della lettera, secondo me, sono i seguenti: Intendo dire che per il singolo questa realtà [la nostra] è ormai quasi impossibile da percepire, e che il mondo di Kafka, tanto spesso così sereno e popolato di angeli, è il complemento esatto della sua epoca che si accinge a sopprimere grandi masse di abitanti di questo pianeta. L'esperienza corrispondente a quella del privato cittadino Kafka, da grandi

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masse verrà forse fatta solo in occasione di questa loro eliminazione.In Kafka non si parla più di saggezza. Restano solo i prodotti della sua disgregazione. Essi sono due: c'è da una parte la diceria delle cose vere (una sorta di giornale teologico sussurrato in cui si tratta del malfamato e dell'obsoleto); l'altro prodotto di questa diatesi è la follia, che certo si è giocata integralmente il contenuto proprio della saggezza, ma in compenso preserva la piacevolezza e la distensione di cui la diceria è sempre priva. La follia è l'essenza dei personaggi prediletti da Kafka; da don Chisciotte, agli assistenti, fino agli animali. (Essere animale per lui con ogni probabilità significava semplicemente aver rinunciato, per una sorta di pudore, alla figura e alla saggezza umana). Il cosiddetto fallimento è rimarcato alla fine di questa lettera: una volta certo del fallimento finale, a Franz Kafka, tutto, lungo il cammino, riuscì come in sogno. Sono parole vere anche per la storia di Walter Benjamin. Infine, a saldo, ciò che tutti sanno: l'opera di Kafka è contrassegnata rigidamente in senso negativo, quindi Benjamin inserisce tra parentesi una valutazione valida per tutto il secolo e non solo per il praghese: la sua caratterizzazione negativa sarà verosimilmente sempre più fruttuosa di quella positiva.

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Varianti:

Ogni disillusione è consentita purché preceda il sospetto che la riguarda

Banalità perniciose sul doppio dello spettacolo

Gut ist die Vergesslichkeit!Erwarte keine andere Antwort als die deine!

Il concetto di superamento è cattiva archeologia.Se l'immediatismo è sparizione del concetto, si tratta di perdita

pura, in altri termini di deterritorializzazione.Nella perdita non ci si trova, ammesso che lo si voglia.

Avvertenza: la prefazione potrebbe avere per titolo: l'antenna, la parabola (Lichtenberg, Breton).

I surrealisti, nell'Immacolata Concezione, avevano tentato, con un ricercato cattivo gusto, di sottoporre la teoria alla prova della simulazione di imbecillità. Il détournement dei situazionisti ha preteso di essere considerato una soluzione migliore, senza sforzarsi di dimostrarlo (solo i pubblicitari finora l'hanno preso sul serio). Dunque una teoria critica, che si rispetti, dovrebbe sottoporsi a una prova di simulazione, in base alla quale, alla fine, esibisca dei difetti minori di quelli che imputa disinvoltamente agli avversari.

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Il timore più grande superato; l'unico motivo di rammarico, mano l'accusa di imparzialità, avrebbe potuto essere tutt'al più quello di non essere stato abbastanza selettivo per un compito di tal fatta. Le prove eliminatorie del torneo eliminano lo humour, meno la stupidità, l'ironia scettica e la facezia senza peso, mentre si deve sottolineare l'influenza del sentimentalismo dall'aria eternamente braccata (all'acqua di rose) e di una certa fantasia di corto respiro, la cui impresa consiste, inutilmente, nel voler sottoporre allo spirito i suoi artifici caduchi. A proposito di ogni frase, di cui è modificato il senso, è preferibile un'assoluta reticenza, in cui si esaurisce il traité du style, né al di qua della rivolta assoluta dell'adolescenza, né al di là della rivolta interiore dell'età adulta.Da una concezione insospettabile a una concisione sospetta, l'ambizione di mantenere un'ispirazione si esercita ora a ridurre ulteriormente dei testi di Guy Debord che la realtà ha in parte sminuito. Alcuni concetti sono stati ripresi, altri deturnati, come meritavano che si facesse, altri ignorati.

Se il falso è la materia di questo tempo, si può dire che dove la disinformazione è nominata è sicuro che vi sia, ma non sempre dove è indicata, e che esiste sicuramente anche dove non la si nomina.

Il compito della teoria è di avere l'aria di dare una formulazione soddisfacente a una spiegazione.

Non appena questa teoria è divulgata, almeno un po' e in un momento di perturbazione del sonno pubblico, sebbene non compresa, il malcontento sarà aggravato semplicemente dalla vaga cognizione che esista una condanna teorica.

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L'importante è che la teoria risulti inammissibile, il consenso seguirà. Va notato che una verifica a posteriori di questo requisito non è assolutamente decisiva, dato che tutto, in qualsiasi momento, può essere falsificato.

Ci penserà la società a provvedere di somigliare alla critica che la anticipa. E lo sarà.

Problemi? È ben vero che ormai si può ottenere molto rapidamente al costo minore ciò che prima esigeva un tempo abbastanza lungo di lavoro qualificato. Il dubbio: perché comporre bene quello che qulcun altro si sforzerà di dimostrare che era già inutile scrivere, e che non sarà letto, se non dai propri avversari, è fugato dalla scoperta che il successo di una teoria esposta in un libro è dato, sommariamente, proprio dalle conseguenze di queste obiezioni. Questa è la sua abiezione.

Le intenzioni dell'autore dovrebbero apparire oscure, ma niente è più facile che accada esattamente così.

La teoria sbaglia nel particolare, ma se le sue osservazioni appaiono eccentriche, isolate, incomprensibili, errate, ciò non costituisce un problema, perché ciò che deve sovrastare l'errore è la sicurezza dell'autore nel far apparire assurda l'ipotesi di un compromesso con la società presente.

D'altronde lo stesso accade tra i difensori dell'ordine socio-economico esistente, e degli stati: la condotta minima è apparire impassibili per conservare il diritto e la dignità di restare nel centro tumultuoso di qualsiasi degradazione.

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Non vi sono assicurazioni sulla vittoria della rivoluzione perché nessun libro di critica si occupa minimamente di fornirne. Giacché scrivere di rivoluzione significa, in primis, non crederci affatto. Saranno i non lettori o gli avversari a doversi preoccuparsi delle effettive ripercussioni pratiche di una vittoria rivoluzionaria, per scongiurarla.

Ciascuno è figlio della propria passività (come la passività si fa il letto, così dorme).

Il sospetto, cioè la certezza, che di una rivoluzione si trami anche attraverso queste righe deve pur tuttavia rimanere, perché il gioco abbia luogo. Chi potrebbe fare a meno di credere a un esito meno radicalmente realista?

La fama di intenditore di queste cose precede ogni oltraggio, e aumenta considerevolmente il peso della critica, che potrà concedere al pubblico il vantaggio di omettere ciò che intende dimostrare.

Non ci si deve preoccupare di convincere nessuno, basterà il rigore dello stile a trasformarmi in moralista.

Creare il proprio oggetto di descrizione possiede un vantaggio: dopo che la società è andata incontro al suo modello si possono risparmiare forze. La propria professionalità appare indiscutibile, la convergenza ottenuta sarà la dimostrazione di una giustezza sulla quale chi dà gli ordini, oggi, non ha nulla da obiettare, dato che, molto armoniosamente, su tali pilastri poggia la sua stessa carriera. In fondo ciò che si comunica sono degli ordini, e coloro che li danno sono anche coloro che diranno ciò che ne pensano.

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La diffusione del segreto deve riapparire sotto forma del suo contrario, perché consegua il seguito che vuole raggiungere. Il solo fatto di essere indiscutibile ha dato alla falsità del verosimile una qualità del tutto nuova.

Dato che il falso indiscutibile ha ridotto l'ipotesi che il vero esista a una fantasia stravagante e indimostrabile, la nihilazione è come se fosse esistita da sempre. L'importante è organizzare l'ignoranza di ciò che succede e poi l'oblio di ciò che si è saputo.

L'ignoranza è prodotta solo per essere sfruttata, come il falso sostiene il falso.

Le condizioni nuove in cui vivono le nuove generazioni precisano ciò che è permesso più di ciò che non lo è, ma soprattutto addestrano a ciò che non è mai esistito perché sembri la soluzione preferibile con cui mascherare la legge del sempre-uguale.

Il governo della nihilazione detiene tutti i mezzi per falsificare l'insieme della produzione della percezione, e, per essere padrone incontrollato dei progetti che plasmano l'avvenire più lontano, si è addestrato con l'oblio organizzato el passato, cioè la sua nausea.

La disinformazione è strategica almeno quanto è impossibile il controllo se la manipolazione non è unificata.

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Le evidenze sono così flagranti che non hanno bisogno di essere spiegate, comunque le cose più importanti sono le meno nascoste, sebbene siano per ciò stesso le meno comprensibili.

L'avvenimento contemporaneo deve allontanarsi a una distanza favolosa.

Il dovere del funzionario è il suo piacere, non bisognerebbe dimenticarlo.

Ciò che è evidente non è più evidente. Le conseguenze pratiche di ciò sono immense.

A vantaggio della teoria va il fatto che non è più necessario spiegare nulla, perché la dimostrazione si prova dal fatto che gira in tondo, l'unica verifica sociale è la ripetizione di ciò che si vuole far sapere. Tutto può essere negato.

Tanti fatti vorrebbero edificare un fato. Sebbene si sia detto che una strategia non può essere basata su un deficit, nessuna perfezione può essere meno che fragile.

Il nemico della democrazia è il terrorismo, ma è soprattutto grazie ad esso che la democrazia trionfa come sistema insuperabile. La democrazia non vuole essere criticata. La sua è una perfezione ad oltranza.

Il dominio è tentato dall'idea di non avere più bisogno di pensare.

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D'altronde il compito della scienza è di giustificare ciò che si fa, non necessariamente prima che lo si sappia.

Poiché non c'è più posto per nessuna verifica, nonostante si sostenga di voler verificare qualunque cosa, tutto è diventato disinformazione, naturalmente quando l'informazione trabocca da ogni parte.

Una domanda intelligente non ha risposta: chi diavolo può comandare il mondo democratico?

Chi detiene l'incarico di gestire settori della società odierna sa che ciò che non si espande deve sparire. Ciò comporta che le leggi devono dormire nello stato di diritto. Si impara dagli avversari, come si voleva dimostrare.

Per dire la verità bisogna sempre sbagliare misura. La parte del torto è l'unica rimasta per dire la verità.

C'è un modo per far credere tutto: far credere di non volere dire che c'è.

Il futuro deve essere vendibile. Ciò spiega tutto. Pubblico si nasce, si diventa e si muore. Purché non sembri noioso.

Ognuno sa che il migliore dei mondi possibili non potrebbe essere peggiore, però, salvo complicazioni, deve apparire che tutto cambi in fretta.

Scrivere come un idiota è il migliore modo per salvare le apparenze.

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Appendice:1.Gli incroci del destino.In un intervista James G. Ballard dice che gli esseri umani non saranno mai soddisfatti solo dall'intrattenimento. Annuncia che tra vent'anni ci sarà una grossa rivolta contro il XX secolo, e che la sua paura peggiore è che le persone, nella disperazione, ripiegheranno sulle proprie psicopatologie come unica via di libertà e di autorealizzazione. La suburbanizzazione del pianeta produrrà un'enorme noia, i cui segnali sono già da tempo intorno a noi e soltanto atti di imprevedibile violenza daranno probabilmente alla gente un senso di libertà. Queste previsioni fanno pensare che le forme di espressione della banalità non saranno più grezze di quelle programmate da chi controlla i mezzi le faranno circolare. Il destino degli incroci (due volte la stessa incompetenza nella gestione della sicurezza sociale) è di essere bypassati, senza che qualcuno sia in grado di impedire a una progressione di slittare, sebbene la sua deriva fosse, già in partenza, la sua carriera, e il suo avvenire sia stato programmato con considerevole quanto indispensabile determinazione ad essere spregiudicato.

2.Secrecy of spectacle, si scrive a proposito di L. Bracken.I Commentaires sono pieni di warnings attinenti allo stare molto lontani dalle cosiddette e variegate armate rivoluzionarie. Debord sees a spy in everyone: ciò sarà sembrato in un primo momento, a qualcuno, il frutto di una degenerazione ossessiva, ma la tecnologia, in breve, complici l'imbecillità o l'interesse e il calcolo di parecchi, ha provveduto a distribuire dovunque e a chiunque i mezzi per realizzare il sogno di un'ossessione paranoide. La frase, così tradotta in

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inglese, “The spectacle has brought the secret to victory, and must always be more controlled by specialists in secrecy who, it is understood, are not officials who have, to different degrees, just freed themselves from the state; who are not officials”, andrebbe intesa nel senso che qualunque progetto è destinato a soccombere e qualunque azione messa in atto ad essere manipolata, ma la debolezza di una linea di pensiero non è diversa dalla sua forza.

3.L'oltraggiosa perfezione della democrazia.L'anonimo dell'opuscolo apparentemente (e volgarmente ritenuto) contro la democrazia ateniese, ne è uno strenuo difensore. Questa è la democrazia, perché parlarne diversamente? L'ipocrisia di Pericle con le parole di Tucidide è retorica imperialistica, cioè consapevole mistificazione che ingannevolmente nasconde proprio ciò che l'opuscolo denigratorio diffonde, sebbene controvoglia. Rifiutare l'asprezza di una menzione diretta è comunque tipica della democrazia, che della verità non sa cosa farsene, se non usarla talvolta come strumento di assoggettamento. “C'è chi si meraviglia che gli Ateniesi diano, in tutti i campi, più spazio alla canaglia, ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gente per bene: ma è proprio così che essi tutelano la democrazia. Giacché se stanno bene e si accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia, La canaglia capisce che la stupidità, la ribalderia, la complice benevolenza di costui (un qualunque ceffo che persegue il suo utile) giova di più della virtù, della saggezza e dell'ostilità della gente per bene”.Non si tratta di un basso ideale, ma questa è la veritiera difesa della democrazia. Il malgoverno è il principio del potere del

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popolo, questa l'invincibile fortuna della libertà. Un governo virtuoso finisce per essere necessariamente illiberale, meno nei risultati di quanto lo sia nei propositi. Il governo del popolo è di necessità altrettanto imperialista, perché può tollerare solo chi gli sia simile e, al tempo stesso, sottomesso, ma ha bisogno di nemici per mantenere quella dilapidazione che è la pubblica riconoscibilità del suo regime, ben sapendo che fatalmente chi comanda è odiato da chi è soggetto. Certo che la canaglia sa distinguere bene i cittadini, gli uni dagli altri, come in effetti sa prediligere quelli che le sono benevoli e utili. Sono i pessimi difensori della democrazia quelli che credono di difendere il regime della libertà con l'amministrazione rigorosa, e non con il contrario. La libertà va difesa dal rigore. Il vero buongoverno, in questi termini incontraddetti, è il governo peggiore. La mediocrità della democrazia risulterà perfettamente imbattibile per la pratica dell'astuzia e della spregiudicatezza nella forma politica. La vera apologia nega di esserlo, bisogna essere nemici della democrazia per difenderne la coerenza: “dal momento che hanno deciso così, voglio mostrare che difendono bene il loro sistema politico”. Dunque, non poteva essere uno scritto destinato a una larga circolazione, ma non poteva neppure essere dimenticato.

4.Misery.Già nel 1973, a tutti gli effetti, la questione appariva chiusa, sebbene non fosse del tutto chiaro a chi, come Daniel Denevert, aveva scritto Teoria della miseria, miseria della teoria: “L'effort théorique organisé, le plus avanccé depuis marx, accompli par lesInternationaux Situationnistes, a non seulement jeté ses derniers feux, il semble même vouloir se satisfaire d'une place parmi les curiosités au Musée de l'histoire révolutionnaire”. I risultati dello sforzo teorico-pratico hanno

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finito per conoscere un “renversement complet de leur sense, pour ne plus constituer qu'un verbiage culturel particulier, dans la pseudo-communication gé néralisée”. La comprensione della situazione, che sembra acquisita, è tuttavia contraddetta immediatamente dopo da velleità cristalline. I nove paragrafi successivi dimostrano largamente questa abiezione della volontà.La teoria si pesa come una merce, ma se non lo fosse, giacché afferma di non esserlo, spesso tende ad essere ancora più simile a ciò che dice di non essere. La teoria non ha fallito, come se questa fosse una possibilità e non si inscrivesse nella logica che regola questo mondo, per cui non poteva che riuscire nella misura in cui falliva. Il godimento della paura è il godimento principale, la solidarietà umana la vera insicurezza.Qualcuno ha scritto stolidamente che “la teoria deve essere compresa come l'intelligenza di una situazione storica e personale”; mi piacerebbe sapere come abbiano fatto le situazioni ad andare d'accordo, almeno per chi ha formulato questa bella frase, dato che, di solito, questi volonterosi riescono ad accontentare solo una o l'altra delle due parti.

5.Pubblicità.La complicità della gente è il tratto dominante dello spettacolo della nihilazione. La pubblicità della miseria, cioè permettere la sua visibilità, dovrebbe essere il compito della teoria. Rendere manifesta la vera miseria, tanto più radicale quanto più occulta, quando tutto indica il contrario, quando lo spettacolo dell'abbondanza, la gestione individuale e spettacolista dell'abbondanza la rendono invisibile è un compito impossibile, cioè ridicolo, nel lessico di G. Bataille. Secondo Voyer la

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pubblicità propriamente detta dovrebbe essere il comunismo, ma è più probabile che il comunismo sia stato pubblicizzato abbastanza dal tardo capitalismo, perché interessi ancora qualcuno.

6.Nichilismo e nihilazione.L'infelice esito della nozione di società dello spettacolo, in mano a direttori di reti e di networks e di ambiziosi programmisti televisivi e multimediali, era prevedibile già 25 anni fa, quando ad essa preferii quella di nihilazione, intendendo con essa il primo effetto della società attuale. Ciò non aveva niente a che vedere con il nichilismo nietzscheano che era sorretto dalla visione, ancora più disastrosa, dell'eterno ritorno e del superuomo.Sulla linea è il titolo di un volume in cui si confrontano sul nichilismo due testi di Jünger e Heidegger. Leggerlo serve a capire cosa non è la nihilazione.Alla fine dell'intervento di Jünger si trova scritto che se “l'accusa di nichilismo è oggi tra le più diffuse, tra quelle che più volentieri vengono rivolte all'avversario”, questo accade perché “è probabile che tutti abbiano ragione”. A partire da questa affermazione si comprende meglio la differenza tra nichilismo e nihilazione, che insiste sull'alone ideologico nel quale è inserito il primo termine, irricevibile al di fuori delle teorie decadenti.

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Il demone di Cioran e il non-sapere Avvertenza: Per riscrivere Cioran, da non so più (ovvio!) quale libro, bisogna avere incontrato il suo demone (lo sviamento dell'ovvio) ed averlo ignorato (il consueto non sapere).

La storia si ripete perché le illusioni di cui l'uomo è capace sono limitate, ma esse ritornano sempre nuove e sempre uguali, e in fin dei conti le tragedie nuove ringiovaniscono il decrepito sempre uguale.Montaigne e Rousseau hanno avuto destini diversi, ma ora annoiano entrambi, perché i tribuni li hanno abbandonati.I regimi marci ispirano a sbraitare, purtroppo non se ne approfitta mai abbastanza.Un buon motivo per voler uccidere qualcuno è confidargli un segreto.Spiegare un testo significa deriderlo, la storia della filosofia è la storia del disprezzo della filosofia.Ogni creazione, pure quella divina, è un incitamento all'invidia, ma a tutto c'è rimedio suggerisce l'invidioso.Se della psichiatria l'unica cosa interessante sono i discorsi dei matti, dei libri di critica lo sono le citazioni, di solito sbagliate.Ciò che si commenta serve al commentatore perché si noti la propria prevalenza.L'importante non è leggere, ma circondarsi di aneddoti sugli scrittori di non si è letta una riga, così si impara di più su di loro.Bisogna stare attenti ai timidi, hanno il coltello in mano.C'è sempre stato qualcuno che ha denigrato la vita, per fortuna.

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Compito dei filosofi è afflosciare le nazioni, invecchiarne lo spirito, che altrimenti non può che sfogare la propria esuberanza con la guerra.Invece che i diritti studentesse e studenti dovrebbero richiedere un elenco particolareggiato delle delusioni che gli spetteranno.Fatta una rivoluzione, il popolo può tornare a dormire placidamente, non ce ne saranno altre, e se qualcuno dovesse a tutti i costi riprovarcisi, non farà che cercare inutilmente di ripeterla.L'Europa termina a Vienna, dopo si trova una brutta copia infelice.Nella decadenza si apprezza maggiormente ciò che disgustava quando si era vigorosi.Catone il Censore temeva i greci a ragione. La loro filosofia era davvero corrotta.La stupidità aiuta. Essere ottusi è la migliore protezione dai rischi della libertà.Per leggere bisogna odiare ciò che è scritto nei libri, contrastare la loro forza nociva, ciò aiuta a capirli e a sopravvivere al veleno che contengono.Il superuomo è frutto d'ingenuità e di solitudine.Nella lettura è preferibile tra tutti lo stile della portinaia.Dire di tutto bene accompagnandolo con qualche ma non è un difetto della conversazione.Le malignità peggiori vengono da molto vicino.Alle società prospere non rimane altro che aspettare il proprio crollo.Quello della vendetta è un bisogno umano, gli squilibrati sono quelli che si vendicano troppo tardi.E' un'obnubilazione che ha del portentoso che ci fa fare le cose che facciamo.

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Un cattivo poeta che di solito legge solo poesia dovrebbe darsi alla botanica o alla geologia. Se le sue poesie migliorassero ci sarebbe comunque del vantaggio. Fallire è un desiderio riuscito.L'antidoto alla paura è il tedio, in questo caso il rimedio è più tenace del male.L'ingratitudine verso gli amici potrebbe essere contrastata dalla gratitudine verso i nemici.L'arte dovrà essere dimenticata, altrimenti non potrà mai più riprendersi.La quantità di finzione nel tragico deve crescere proporzionalmente perché un pensatore sia preso sul serio oggi.E' facile dire oggi che un'opera d'arte è insieme facile e impossibile.Quando un'opera d'arte disgusta si può dire d'essere vicini al livello di comprensione di chi l'ha eseguita.Il timore del ridicolo, se non è superato d'un balzo, fa rimanere al di qua delle proprie possibilità.Quanti incontri straordinari nei cimiteri di campagna!Il terribile, quando lo si incontra, fa mancare le parole, ma non gli inviati.Ogni rinuncia dà una maggiore presa sulla realtà.E' una fortuna che la cultura si perda, quante delusioni in meno!La convenienza a scrivere in un'altra lingua è il diritto all'errore, cioè a una intima proprietà di linguaggio.L'obiettività mi fa pensare ai becchini. Che l'idea di non ricordare più niente possa intridersi di felicità, è una scoperta.E' motivo di fierezza pensare di discendere da Traci e Bogomili.

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Il nemico è quello che mi somiglia di più.Avere delle idee è una conseguenza dello stile.Nei sentimenti più bassi che proviamo ciò che nascondiamo è più importante del resto, se è vero che la vergogna sopravvive al vanto.Salvaguardare l'insignificante è il pregio che di solito si accorda a un libro.La coscienza è ciò che ostacola la salvezza.Non pensare alla morte equivale a barare in un solitario.Se qualunque verità può essere sostituita lo stesso non si può dire della speranza.Riempire le ore è molto poco rispetto al sentirle passare.La grandezza di un popolo è inscindibile dal sentimento della penosità del nascere.Dopo i vent'anni, se va bene, non si fa che verificare ciò che si è già capito.Gli aspetti positivi della morte sono spesso sottovalutati.La libertà dei nati morti è inestinguibile.Scrivere è disobbedire alla volontà di dire ciò che si ha da dire.L'ingiustizia è un atto di riguardo.In ogni nascita c'è un'aggressione.Che ogni soluzione peggiori la situazione precedente può essere consolatorio riguardo al peggio.

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