Papa Goriot

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Honore de Balzac

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Honoré de Balzac

PAPA' GORIOT

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La signora Vauquer, nata de Conflans, è una vecchia donna

che, da quarant'anni, conduce a Parigi una pensione

familiare situata in via Neuve-Sainte-Geneviève, tra il

quartiere latino e il sobborgo Saint-Marceau. La pensione,

conosciuta sotto il nome di Casa Vauquer, accoglie senza

distinzione uomini e donne, giovani e vecchi, senza che la

maldicenza abbia mai potuto fare appunti alla moralità di

questa rispettabile casa. Ma è pur vero che da trent'anni

non ci si era mai veduta una persona giovane, e, se un

giovane vi dimora, è perché la sua famiglia deve

corrispondergli un ben magro mensile. Tuttavia, nel 1819,

epoca in cui questo dramma ha inizio, vi si trovava una

povera ragazza. Per quanto la parola dramma sia caduta in

discredito per il modo abusivo e ingiusto col quale è stata

prodigata in questi tempi di penosa letteratura, qui è

necessario adoperarla; questa storia non è drammatica nel

vero senso della parola, ma, al termine dell'opera, qualche

lacrima potrà esser versata "intra muros" ed "extra". Sarà

capita fuori di Parigi? E' permesso dubitarne. I particolari di

questa vicenda piena d'osservazioni e di colori locali

possono essere apprezzati solo fra le alture di Montmartre

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e quelle di Montrouge, in quella famosa valle di ruderi

fatiscenti e di ruscelli neri di melma; valle colma di

sofferenze reali, di gioie spesso false, e così

tremendamente agitate, che occorre non so che cosa di

eccessivo per produrvi una sensazione di qualche durata.

Tuttavia, ci si incontrano qua e là dolori che l'accumularsi

dei vizi e delle virtù rende grandi e solenni; di fronte a essi,

gli egoismi, gli interessi si arrestano e si fanno pietosi; ma

l'impressione che ne ricevono è come un frutto saporoso

presto divorato. Il carro della civiltà, simile a quello

dell'idolo di Jaggernat, obbligato a rallentare di ben poco la

corsa da un cuore meno degli altri facile a lasciarsi

stritolare e a cui ostacoli la ruota, lo ha presto infranto e

continua la sua marcia gloriosa.

Così farete voi, voi che tenete questo libro in una mano

bianca, voi che ve ne state sprofondato in una morbida

poltrona dicendovi:

Forse questo mi divertirà. Dopo aver letto le segrete

infelicità di papà Goriot, pranzerete con appetito,

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imputando la vostra insensibilità all'autore, tacciandolo

d'esagerazione, accusandolo di aver fatto della letteratura.

Ah!, sappiatelo: questo dramma non è né una invenzione

né un romanzo. "All-is-true", è così vero, che ognuno può

riconoscerne gli elementi presso di sé, forse nel suo stesso

cuore.

La casa in cui viene esercitata la pensione familiare è della

signora Vauquer. E' situata nel tratto basso della via

Neuve- Sainte-Geneviève, nel punto in cui il piano stradale

digrada verso la via dell'Arbalète con un pendio così brusco

e aspro, che i cavalli la salgono o la scendono di rado. Tal

circostanza è favorevole al silenzio che regna in queste

strade strette fra la cupola di Val-de-Grace e quella del

Panthéon, due monumenti che fanno mutare le condizioni

dell'atmosfera gettandovi toni gialli, tutto oscurando con le

tinte severe proiettate dalle loro cupole.

Là, il selciato è arido, i rigagnoli non hanno né melma né

acqua, l'erba cresce lungo i muri. L'uomo più spensierato vi

si rattrista come ogni altro passante, il rumore di una

carrozza è un avvenimento, le case sono tetre, le mura

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fanno pensare a una prigione. Un Parigino smarrito

vedrebbe là solo pensioni familiari o istituti, miseria e noia,

vecchiaia che muore, allegra gioventù costretta a lavorare.

Nessun quartiere di Parigi è, più di questo, orribile e,

diciamolo pure, più sconosciuto. La via Neuve-Sainte-

Geneviève, soprattutto, è come una cornice di bronzo, la

sola che convenga a questo racconto, per preparare la

comprensione del quale non saranno mai troppi i colori

foschi e le idee gravi; proprio come, di gradino in gradino,

la luce diminuisce e la voce della guida si fa cavernosa

quando il viaggiatore discende nelle Catacombe. Paragone

esatto! Chi deciderà che cosa è più orribile a vedersi: cuori

inariditi, o crani vuoti ?

La facciata della pensione dà su di un giardinetto, in modo

che la casa forma un angolo retto con la via Neuve-Sainte-

Geneviève, donde la vedete secondo il senso della

profondità. Lungo la facciata tra la casa e il giardino corre

un acciottolato a cunetta, largo una tesa, dinanzi al quale

c'è un viale cosparso di ghiaia, fiancheggiato da gerani, da

oleandri e da melograni piantati entro grandi vasi di

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maiolica blu e bianca. Si entra in questo viale da una porta

sormontata da una targa su cui è scritto: CASA VAUQUER e

sotto: "Pensione familiare per uomini, donne e altri".

Durante il giorno, un cancello di legno, munito di un

campanello dal suono stridente, lascia vedere, al termine

del breve selciato, sul muro opposto alla strada, un'arcata

dipinta in color marmo verde da un artigiano del quartiere.

Sotto la prospettiva simulata da tale pittore si leva una

statua che raffigura l'Amore. Guardando la vernice

screpolata che la ricopre, gli amatori di simboli ci

scoprirebbero forse un mito dell'amore parigino, che viene

curato a qualche passo da lì. Sotto lo zoccolo, la seguente

epigrafe mezzo cancellata ricorda il tempo a cui risale

questo oggetto ornamentale, testimone dell'entusiasmo

suscitato da Voltaire rientrato a Parigi nel 1777:

Chiunque tu sia, ecco il tuo maestro.

Lo è, lo fù, lo sarà.

Al cader della notte il cancello è sostituito da una porta. Il

giardinetto, largo quanto è lunga la facciata, rimane

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incassato tra il muro della strada e il muro divisorio della

casa vicina, lungo la quale pende un manto d'edera che la

nasconde interamente e richiama gli occhi dei passanti per

il suo effetto, in Parigi, pittoresco. Ognuna delle sue mura

è tappezzata di spalliere e di viti, i cui frutti gracili e

polverosi sono l'oggetto dei timori annuali della signora

Vauquer e delle sue conversazioni coi pensionanti. Lungo

ogni muro corre uno stretto viale che conduce a un luogo

ombroso di tigli, parola che la signora Vauquer, benché

nata de Conflans, pronuncia ostinatamente "tiglie"

malgrado i rilievi grammaticali dei suoi ospiti. Tra i due

viali laterali c'è un campo di carciofi, fiancheggiato da

alberi da frutto tagliati in forma di conocchia e orlato

d'acetosella, lattuga o prezzemolo.

Sotto i tigli c'è una tavola rotonda dipinta in verde, e

alcune sedie intorno. Li, durante le giornate canicolari, i

commensali abbastanza ricchi da permettersi di prendere il

caffè, vanno a gustarlo, sotto un caldo capace di far

schiudere le uova. La facciata, alta tre piani e sormontata

da soffitte, è costruita in pietra e tinteggiata in quel color

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giallo che conferisce un carattere ignobile a quasi tutte le

case di Parigi. Le cinque finestre d'ogni piano hanno piccoli

vetri e sono guarnite di persiane nessuna delle quali è a filo

con le altre, di modo che tutte le loro linee stonano

reciprocamente. La profondità della casa comporta due

finestre che, al pianterreno, sono ornate d'inferriate a

grata. Dietro l'edificio c'è un cortile largo circa venti piedi,

dove vivono in buon accordo maiali, galline, conigli, e in

fondo al quale sorge una tettoia per il deposito della legna.

Tra questa e la finestra della cucina sta sospesa la

dispensa, e sotto scolano le acque grasse dell'acquaio.

Sulla via Neuve- Sainte-Geneviève, il cortile ha una porta

stretta da cui la cuoca getta le immondizie di casa, pulendo

la sentina a forza d'acqua, per evitare una pestilenza.

Il pianterreno, naturalmente destinato all'esercizio della

pensione familiare, si compone di un primo vano che

prende luce dalle due finestre che danno sulla strada e in

cui si entra per una porta-finestra. Questa sala comunica

con quella da pranzo, separata dalla cucina dalla tromba di

una scala i gradini della quale sono di legno e di mattonelle

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colorate e lustrate. Nulla è più triste di questa sala,

ammobiliata con poltrone e seggiole foderate di stoffa di

crine a righe alternativamente opache e lucide. Al centro

c'è una tavola rotonda con un piano di marmo Sant'Anna

decorata da uno di quei vassoi di porcellana bianca filettata

d'oro mezzo cancellato, che oggi si trovano dappertutto.

La stanza, pavimentata piuttosto male, è rivestita di legno

ad altezza d'uomo. Il resto delle pareti è tappezzato con

una carta da parato sulla quale sono raffigurati i principali

fatti di Telemaco e i cui classici personaggi sono colorati. Il

pannello tra le finestre a grate presenta ai pensionati il

quadro del festino offerto al figlio d'Ulisse da Calipso. Da

quarant'anni tale pittura provoca i motteggi dei giovani

pensionanti, i quali si ritengono superiori alla loro posizione

dileggiando il pranzo cui le ristrettezze li condannano. Il

camino in pietra, con focolare sempre pulito, dimostrazione

che il fuoco vi si accende solo nelle grandi occasioni, ha per

ornamento due vasi pieni di fiori artificiali, stinti e pigiati, e

una pendola di marmo bluastro di pessimo gusto. In questa

prima sala si respira un cattivo odore indefinibile, che

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potrebbe esser chiamato "odor di pensione". Odore di

rinchiuso, di muffa, di rancido; mette freddo, è umido al

naso, penetra negli abiti; ha il tanfo di una sala dove si è

mangiato; puzza di servitù, di dispensa, di ospizio. Forse

potrebbe essere descritto se si trovasse un procedimento

per analizzare le quantità elementari e nauseabonde

immessevi dalle atmosfere catarrali e "sui generis" di

ciascun pensionante, giovane o vecchio. Eppure, malgrado

tali orrende volgarità, se paragonaste questa sala a quella

da pranzo, che le è attigua, trovereste la prima elegante e

profumata come uno spogliatoio per signora. La sala da

pranzo, dalla parete interamente rivestita di legno, fu tinta

un tempo d'un colore oggi indistinto, che forma un fondo

su cui l'unto ha impresso i suoi strati in modo da disegnarvi

figure bizzarre. Ai muri, credenze appiccicose sulle quali

sono disposte caraffe sbeccate, appannate, tondi di metallo

marezzato, pile di piatti di spessa porcellana, orlati di blu,

fabbricati a Tournai. In un angolo c'è una scatola a caselle

numerate che serve a tenere riposte le salviette, sporche e

macchiate di vino, di ciascun pensionante. Vi si trovano poi

quei mobili indistruttibili, ovunque proscritti, ma messi là

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come i resti della civiltà agli Incurabili. Vi vedrete un

barometro col cappuccino che esce fuori quando piove,

incisioni esecrabili da togliere l'appetito incorniciate in

legno nero verniciato a filetti d'oro, una pendola di

madreperla incrostata di rame, una stufa verde, lucerne

d'Argand dove la polvere si combina con l'olio, una lunga

tavola coperta d'incerata unta quanto basta perché un

allegro studente in medicina "esterno" ci scriva il proprio

nome servendosi del dito come di uno stilo, sedie zoppe,

miserevoli piccole stuoie di sparto che si disfa sempre e

non finisce mai, poi scaldini dai buchi rotti, dalle cerniere

sconnesse, dove il legno si carbonizza. Per spiegare quanto

questa mobilia è vecchia, screpolata, tarlata, tremolante,

logora, monca, orba, invalida, spirante, se ne dovrebbe

fare una descrizione che ritarderebbe troppo l'interesse di

questa storia e che i lettori che hanno fretta non

perdonerebbero. Il pavimento, rosso, è pieno di

avvallamenti prodotti dallo strofinio o dalle riverniciature.

Insomma, là regna la miseria senza poesia; una miseria

economa, concentrata, consunta. Se non è ancora

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infangata, è per lo meno macchiata; se non ha né buchi né

stracci, sta per andare in putrefazione.

Questa stanza è in tutto il suo splendore nel momento in

cui, verso le sette del mattino, il gatto della signora

Vauquer precede la sua padrona; salta sulle credenze, vi

annusa il latte contenuto in varie tazze coperte dal piattino,

e fa sentire il suo ronron mattinale. Subito dopo appare la

vedova, agghindata con la sua cuffia di tulle sotto la quale

pende un giro di capelli finti, in disordine; essa cammina

trascinando le sue pantofole raggrinzite.

Il viso vecchiotto, grassottello, dal mezzo del quale esce un

naso a becco di pappagallo, le piccole mani paffutelle, il

personale grassoccio come un "topo di chiesa", il seno

troppo pieno e ondeggiante, sono in armonia con la sala

che trasuda l'infelicità, dove s'è rannicchiata la

speculazione e di cui la signora Vauquer respira l'aria calda

e fetida senza esserne disgustata. Il viso fresco come una

prima gelata d'autunno, gli occhi pieni di rughe,

l'espressione dei quali passa dal sorriso prescritto alle

ballerine all'amaro cipiglio dell'esattore, insomma tutta la

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sua persona spiega la pensione come la pensione implica la

sua persona. Il bagno penale non può non avere

l'aguzzino, non potreste immaginarvi l'uno senza l'altro. La

pinguedine pallida di questa piccola donna è il prodotto di

questa vita, come il tifo è la conseguenza delle esalazioni

d'un ospedale. La sua sottana di lana a maglia, più lunga

della gonna ricavata da un abito vecchio e la cui

imbottitura esce dalle fenditure della stoffa scucita,

compendia il salotto, la sala da pranzo, il giardinetto,

annuncia la cucina e fa presentire i pensionanti. Quando lei

è là, lo spettacolo è completo. Di circa cinquant'anni, la

signora Vauquer somiglia a TUTTE LE DONNE CHE HANNO

SUBITO DISGRAZIE. Ha l'occhio vitreo, l'aria innocente di

una mezzana che fa la difficile per farsi pagare di più, ma

invece disposta a tutto per addolcire la sua sorte, a dar

nelle mani della giustizia Giorgio o Pichegru, se Giorgio o

Pichegru dovessero ancora essere arrestati. Tuttavia, è "in

fondo una buona donna", dicono i pensionanti, che la

ritengono una disgraziata, sentendola gemere e tossire

come loro. Chi era stato il signor Vauquer? Lei non dava

mai particolari sul defunto.

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In che modo aveva perduto i suoi averi? Con le disgrazie,

rispondeva. Si era mal comportato verso di lei, non le

aveva lasciato che gli occhi per piangere, quella casa per

vivere, e il diritto di non compatire nessuna sfortuna

perché, diceva lei, aveva sofferto tutto quel che è possibile

soffrire. Al sentir trotterellare la padrona, la grossa Silvia,

la cuoca, si affrettava a servire la colazione ai pensionanti

"interni".

Generalmente i pensionanti "esterni" si abbonavano solo al

pranzo, che costava trenta franchi al mese. All'epoca in cui

questa storia comincia, gli interni erano sette. Al primo

piano si trovavano i due migliori appartamenti della casa.

La signora Vauquer abitava quello più modesto, e l'altro

era occupato dalla signora Couture, vedova di un ufficiale

di commissariato della Repubblica francese.

Essa aveva con sé una giovinetta, Vittorina Taillefer, cui

faceva da madre. La pensione delle due ammontava a

milleottocento franchi. I due appartamenti del secondo

piano erano occupati l'uno da un vecchio di nome Poiret,

l'altro da un uomo di circa quarant'anni, che portava una

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parrucca nera, si tingeva i favoriti, diceva di essere stato

un negoziante, e si chiamava signor Vautrin. Il terzo piano

si componeva di quattro stanze, di cui due affittate, l'una a

una vecchia zitella chiamata signorina Michonneau, l'altra a

un antico fabbricante di vermicelli, di altre paste alimentari

e di amido, che si faceva chiamare familiarmente papà

Goriot. Le due altre stanze erano destinate agli uccelli di

passo, a quegli sfortunati studenti i quali, come papà

Goriot e la signorina Michonneau, potevano spendere

soltanto quarantacinque franchi al mese per il vitto e

l'alloggio; ma la signora Vauquer gradiva poco la loro

presenza e li accettava solo quando non trovava di meglio;

mangiavano troppo pane. In quel momento, l'una delle due

stanze era occupata da un giovane venuto dai dintorni

d'Angoulème a Parigi per compiere gli studi di legge, e la

cui numerosa famiglia si sobbarcava alle più dure privazioni

per mandargli milleduecento franchi l'anno. Eugenio de

Rastignac, così egli si chiamava, era uno di quei giovani

formati al lavoro dalla sfortuna, che si rendono conto delle

speranze riposte in loro dai genitori, e che si preparano

una buona sorte calcolando già l'importanza dei loro studi,

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e adattandoli in anticipo allo sviluppo futuro della società,

al fine di essere i primi a sfruttarla. Senza le sue

osservazioni originali e l'abilità con la quale seppe

presentarsi nei salotti dl Parigi, questo racconto non

sarebbe stato colorato coi toni esatti dovuti indubbiamente

al suo spirito sagace e al suo desiderio di penetrare nei

misteri di una situazione spaventevole accuratamente

nascosta così da coloro che l'avevano creata come da chi la

subiva Al di sopra del terzo piano c'erano un solaio per

stendere la biancheria e due soffitte, ove dormivano un

uomo di fatica, Cristoforo e la grossa Silvia, la cuoca. Oltre

i sette pensionanti interni, la signora Vauquer aveva, in

media ogni anno, otto studenti in legge o in medicina, e

due o tre clienti dimoranti nel quartiere, tutti abbonati

solamente al pranzo. La sala accoglieva a pranzo diciotto

persone, e poteva contenerne una ventina; ma, la mattina,

non vi si trovavano che sette ospiti, il cui insieme dava,

durante la colazione, l'aspetto di un pasto in famiglia.

Ognuno scendeva in pantofole, si permetteva osservazioni

confidenziali sul modo di vestire o sull'aria degli esterni, o

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sui fatti della sera precedente, esprimendosi con la

confidenza propria dell'intimità. I sette pensionanti erano i

beniamini della signora Vauquer, che distribuiva loro, con

una precisione da astronomo, le premure e i riguardi,

secondo la cifra della loro retta. Un identico motivo

affliggeva questi esseri riuniti dal caso. I due locatari del

secondo piano pagavano solo settantadue franchi al mese.

Un prezzo così conveniente che non si può trovar altro che

nel sobborgo Saint-Marceau, tra la Bourbe e la Salpêtrière,

e al quale soltanto la signora Couture faceva eccezione,

dice già che quei pensionanti dovevano essere sotto il peso

di disgrazie più o meno evidenti. Perciò lo spettacolo

desolante offerto dall'interno della casa si ripeteva negli

abiti dei suoi frequentatori tutti egualmente frusti. Gli

uomini portavano finanziere il cui colore era divenuto

problematico, calzature di quelle che si gettano all'angolo

dei paracarri nei quartieri eleganti; biancheria lisa, vestiti

ai quali non era rimasta che l'anima. Le donne avevano

abiti passati di moda, ritinti, stinti, vecchi merletti

rammendati, guanti lucidi per l'uso, collarini avvampati e

scialletti ragnati. Se tali erano gli abiti, quasi tutti

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mettevano in mostra corpi solidamente squadrati,

costituzioni che avevano resistito alle tempeste della vita,

facce fredde, dure, logore, come quelle degli scudi fuori

corso. Le bocche appassite erano armate di denti avidi. Tali

pensionanti facevano presentire drammi conclusi o in atto;

non quei drammi rappresentati alla luce della ribalta, fra

tele dipinte, ma drammi vivi e muti, drammi gelidi che

agitavano e riscaldavano il cuore, drammi ininterrotti.

La vecchia signorina Michonneau aveva sui suoi occhi

stanchi una sudicia visiera di taffetà verde, cerchiata con

un filo d'ottone che avrebbe spaventato l'angelo della

Pietà. Il suo scialle a frange magre e lacrimevoli sembrava

coprisse uno scheletro, tanto le forme che ne trasparivano

erano angolose. Quale acido aveva corroso le forme

femminili di questa creatura? Eppure doveva essere stata

graziosa e ben fatta. Era stato il vizio, il dolore, la

cupidigia? Aveva troppo amato, era stata una rigattiera, o

soltanto cortigiana? Espiava i trionfi di una giovinezza

insolente, dinanzi alla quale s'erano avventati i piaceri, con

una vecchiezza rifuggita dai passanti? Il suo sguardo

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bianco dava il freddo, il suo viso rattratto minacciava.

Aveva il verso aspro d'una cicala che grida nel suo

cespuglio all'approssimarsi dell'inverno. Diceva di aver

preso cura d'un vecchio signore malato di catarro alla

vescica e abbandonato dai figli che lo ritenevano povero. Il

vecchio le aveva lasciato un legato di mille franchi di

rendita vitalizia, periodicamente contestati dagli eredi, alle

calunnie dei quali si trovava esposta. Sebbene il gioco delle

passioni avesse devastato il suo viso, vi si trovavano

ancora alcune tracce di una bianchezza e di una finezza di

pelle le quali lasciavano supporre che il corpo conservasse

qualche resto di bellezza.

Il signor Poiret era una specie di essere meccanico. Nel

vederlo allungarsi come un'ombra grigia lungo un viale del

Jardin des Plantes, la testa coperta da un berretto floscio,

reggendo appena, in mano, il bastone dal pomo d'avorio,

lasciando svolazzare le falde sciupate della finanziera che

mal nascondeva i pantaloni quasi vuoti e le gambe

ricoperte da calze blu che tremolavano come quelle d'un

ebbro, mostrando il panciotto d'un bianco sporco e la gala

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di rozza mussolina spiegazzata che si univa

imperfettamente alla cravatta attorcigliata intorno a un

collo di tacchino, molti si domandavano se quell'ombra

cinese appartenesse o no alla razza audace dei figli di Jafet

sfarfalleggianti sul Boulevard Italien.

Quale lavoro aveva potuto rattrappirlo così? Quale passione

aveva reso color del bistro la sua faccia bulbosa che,

disegnata in caricatura, sarebbe sembrata fuori della

realtà? Che cosa mai egli era stato? Ma, forse, era stato

impiegato al ministero della giustizia, presso l'ufficio dove i

carnefici mandano i conti delle loro spese, le fatture dei veli

neri per i parricidi, della crusca per i cesti della ghigliottina,

della funicella per le mannaie.

Forse era stato ricevitore alla porta d'un mattatoio, o vice-

ispettore di sanità. Insomma, quest'uomo sembrava essere

stato uno degli asini del nostro grande mulino sociale, uno

di quei Ratons parigini che non conoscono neppure i loro

Bertrands, uno di quei perni su cui avevano girato gli

infortuni o le sozzure pubbliche, infine uno di quegli uomini

dei quali diciamo, al vederli: "Eppure sono necessari anche

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loro". La Parigi elegante ignora queste facce pallide per le

sofferenze morali o fisiche. Ma Parigi è un vero oceano.

Gettateci uno scandaglio, non ne conoscerete mai la

profondità. Percorretelo, descrivetelo; per quanta cura

poniate nel percorrerlo, nel descriverlo, per quanto

numerosi e interessati siano gli esploratori di questo mare,

vi si troverà sempre un luogo vergine, un antro

sconosciuto, fiori, perle, mostri, qualcosa d'inaudito,

d'obliato dai palombari letterari. La casa Vauquer è una di

queste mostruosità curiose.

Due figure vi formavano un contrasto sorprendente con il

resto dei pensionanti e degli abbonati. Sebbene la

signorina Vittorina Taillefer fosse di un pallore malsano

simile a quello delle giovinette clorotiche, e armonizzasse

con la sofferenza comune che costituiva lo sfondo del

quadro per una tristezza abituale, per il contegno

imbarazzato, per l'aspetto povero e gracile, tuttavia il suo

viso non era vecchio, le sue movenze e la sua voce erano

agili. Quella giovanile sventura somigliava a un arbusto

dalle foglie ingiallite, da poco piantato in un terreno

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inadatto. La fisionomia rossastra, i capelli d'un biondo

fulvo, la vita troppo sottile esprimevano quella grazia che i

poeti moderni trovavano nelle statuine del medioevo. Gli

occhi grigi e neri esprimevano una dolcezza e una

rassegnazione cristiane. I vestiti semplici, di poco prezzo,

rivelavano forme giovanili. Era graziosa per

giustapposizione. Felice, sarebbe stata incantevole; la

felicità è la poesia delle donne, come la toletta ne è il

belletto. Se la gioia d'un ballo avesse riflesso le sue tinte

rosee su quel pallido viso; se le dolcezze d'una vita

elegante avessero riempito, avessero invermigliato quelle

gote già lievemente scavate; se l'amore avesse rianimato

quegli occhi tristi, Vittorina avrebbe potuto gareggiare con

le più belle giovinette.

Le mancava ciò che crea una seconda volta la donna: le

gale e i biglietti amorosi. La sua storia avrebbe fornito il

soggetto di un libro. Il padre credeva di avere le sue buone

ragioni per non riconoscerla, si rifiutava di tenerla con sé,

le corrispondeva solo seicento franchi all'anno, e aveva

alterato il proprio patrimonio per poterlo trasmettere

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interamente al figlio. Parente lontana della madre di

Vittorina che era andata a morire di dispiacere presso di

lei, la signora Couture aveva cura dell'orfana come di una

sua figlia. Disgraziatamente, la vedova dell'ufficiale di

commissariato della Repubblica possedeva soltanto

l'assegno vedovile e la pensione; e poteva lasciare un

giorno la povera ragazza senza esperienza e senza risorse

di fortuna, in balìa del mondo. La buona donna conduceva

Vittorina alla messa tutte le domeniche, a confessarsi ogni

quindici giorni, per farne ad ogni modo una ragazza

devota. E aveva ragione. I sentimenti religiosi aprivano un

avvenire a questa figlia non riconosciuta che amava suo

padre, che ogni anno s'incamminava verso di lui per

recargli il perdono di sua madre; ma che ogni anno urtava

contro la porta della casa paterna, inesorabilmente chiusa.

Il fratello, suo unico mediatore, non era venuto a trovarla

neppure una volta in quattro anni, e non le inviava alcun

aiuto. Lei supplicava Iddio di aprire gli occhi a suo padre,

d'intenerire il cuore del fratello, e pregava per loro senza

incolparli. La signora Couture e la signora Vauquer non

trovavano parole sufficienti nel dizionario delle ingiurie per

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qualificare un tal barbaro modo di procedere. Quando

maledivano l'infame milionario, Vittorina pronunciava dolci

parole, simili al canto del colombo ferito, il cui grido di

dolore esprime ancor l'amore.

Eugenio de Rastignac aveva un viso tipicamente

meridionale, carnagione bianca, capelli neri, occhi blu. Il

suo garbo, i suoi modi, il suo contegno abituale

denotavano il figlio di una famiglia nobile, in cui la prima

educazione non aveva comportato che tradizioni di buon

gusto. Se teneva da conto gli abiti, se normalmente finiva

di consumare quelli dell'anno precedente, tuttavia poteva

uscire qualche volta vestito come un giovane elegante. Di

solito portava una vecchia finanziera, un brutto panciotto,

la brutta cravatta nera, sciupata, male annodata di tutti gli

studenti, un paio di pantaloni intonati col resto, e stivaletti

risuolati.

Tra questi due personaggi e gli altri, Vautrin, l'uomo di

quarant'anni, dai favoriti tinti, serviva di transizione. Era

uno di quei tipi a proposito dei quali il popolo dice: Ecco un

uomo in gamba! Aveva le spalle larghe, il busto ben

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sviluppato, i muscoli in mostra, le mani grosse, quadrate e

fortemente marcate alle falangi da ciuffetti di peli folti e di

un rosso acceso. La faccia, rigata da rughe premature,

presentava segni di durezza che smentivano le maniere

affabili e compiacenti. La sua voce baritonale, in armonia

con la sua grossolana gaiezza, non dispiaceva. Era gentile

e ridanciano. Se qualche serratura non andava,

rapidamente la smontava, la raccomodava, la oliava, la

limava e, dopo averla rimontata, diceva: "Questa mi

conosce".

Egli, del resto, conosceva tutto: le navi, il mare, la Francia,

l'estero, gli uomini, gli avvenimenti, le leggi, gli alberghi, e

le prigioni. Se c'era qualcuno che si lamentava troppo, gli

offriva subito i suoi servigi. Aveva prestato varie volte

denaro alla signora Vauquer e a qualche altro pensionante,

ma i debitori sarebbero morti piuttosto che non

restituirglielo, tanto, malgrado la sua aria di bonuomo,

incuteva timore per un certo sguardo profondo e risoluto. Il

modo con cui sprizzava un getto di saliva annunciava un

sangue freddo imperturbabile che non doveva farlo

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indietreggiare dinanzi a un delitto pur di uscire da una

posizione difficile. Come quello di un giudice severo, il suo

occhio sembrava andare in fondo a tutte le questioni, a

tutte le coscienze, a tutti i sentimenti. Le sue abitudini

consistevano nell'uscire dopo colazione, nel rientrare per il

pranzo, nello star fuori tutta la sera e nel tornare verso la

mezzanotte, con l'aiuto di una CHIAVE COMUNE affidatagli

dalla signora Vauquer.

Lui solo godeva d'un tale favore. Ma era anche lui che

meglio trattava la vedova, e la chiamava: mamma,

prendendola per la VITA, adulazione poco apprezzata! La

buona donna credeva che la cosa fosse ancora facile,

mentre invece dipendeva solo da Vautrin, il quale aveva le

braccia abbastanza lunghe per stringere quella pesante

circonferenza. Un aspetto del suo carattere consisteva nel

pagare generosamente quindici franchi al mese per il

"gloria" che prendeva alla fine del pranzo. Persone meno

superficiali di quanto non lo fossero quei giovani travolti dai

turbini della vita parigina, o quei vecchi indifferenti a ciò

che non li riguardasse direttamente, non si sarebbero

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fermate all'impressione dubbia che causava loro Vautrin.

Egli sapeva o indovinava le cose di coloro che gli erano

vicini, mentre nessuno poteva conoscere né i suoi pensieri

né le sue occupazioni. Sebbene avesse posto la sua

apparente bonomia, la sua costante compiacenza e la sua

allegria come una barricata tra gli altri e lui, spesso

lasciava trasparire la spaventevole profondità del suo

carattere. Spesso una battuta degna di Giovenale, con la

quale sembrava si compiacesse a beffare le leggi, a

sferzare l'alta società, a convincerla della propria

incongruenza, doveva far supporre che egli nutrisse un

rancore verso la condizione sociale e che ci fosse in fondo

alla sua vita un mistero accuratamente nascosto.

Attratta, forse inconsapevolmente, dalla forza dell'uno o

dalla avvenenza dell'altro, la signorina Taillefer distribuiva i

suoi sguardi furtivi, i suoi pensieri segreti, tra quel

quadragenario e il giovane studente; ma nessuno dei due

sembrava pensare a lei, quantunque da un giorno all'altro

il caso avrebbe potuto mutare la sua situazione e farla

diventare un ricco partito. Del resto nessuna di quelle

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persone si dava la pena di verificare se i guai addotti da

una di esse fossero veri o falsi. Ognuno aveva per l'altro

una indifferenza mista di diffidenza, risultante dalle

rispettive situazioni. Si sapevano impotenti a consolare le

loro pene, e tutti, nel raccontarsele, avevano vuotato la

coppa del compatimento. Simili a vecchi coniugi, non

avevano più niente da dirsi. Non restavano dunque tra loro

che i rapporti di una vita meccanica, il gioco di un

ingranaggio senza olio. Tutti dovevano tirar diritto per la

via dinanzi a un cieco, ascoltare senza emozione il racconto

di una disgrazia, e vedere nella morte la soluzione di un

problema di miseria che li rendeva freddi di fronte alla più

tremenda agonia. La più felice di queste anime desolate

era la signora Vauquer, che troneggiava in quel libero

ospizio. Per lei sola quel piccolo giardino, reso vasto come

una steppa dal silenzio e dal freddo, dal secco e dall'umido,

era un ridente boschetto. Per lei sola quella casa gialla e

tetra, che sapeva di verderame come un banco di negozio,

presentava qualche delizia. Quelle celle le appartenevano.

Essa nutriva quei galeotti condannati a pene perpetue,

esercitando su di essi una autorità rispettata. In quale altro

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posto quei poveri esseri avrebbero trovato, a Parigi, al

prezzo cui lei li dava, alimenti sani, sufficienti, e un

appartamento che essi erano padroni di far diventare, se

non elegante o comodo, almeno pulito e salubre? Se lei si

fosse permessa di commettere un'ingiustizia palese, la

vittima l'avrebbe sopportata senza lamentarsene.

Un aggregato simile doveva presentare e presentava in

piccolo gli elementi d'una società completa. Tra i diciotto

commensali si trovava, come nei collegi, come dappertutto,

una povera creatura abbandonata, una vittima su cui

fioccavano gli scherzi. Al principio del secondo anno,

questa figura divenne per Eugenio de Rastignac la più

saliente fra tutte quelle in mezzo a cui era condannato a

vivere ancora per due anni. Questo "Patirai" era l'antico

vermicellaio, papà Goriot, sul quale un pittore, come lo

storico, avrebbe fatto cadere tutta la luce del quadro. Per

quale motivo questo sprezzo semiastioso, questa

persecuzione mista di pietà, questa mancanza di rispetto

verso la sfortuna avevano colpito il più anziano

pensionante? Era stato forse lui a provocarli con alcune di

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quelle ridicolezze o di quelle bizzarrie che meno facilmente

si perdonano dei vizi? Tali quesiti riguardano da vicino non

poche ingiustizie sociali. Forse è proprio della natura

umana il far sopportar tutto a chi tutto soffre per vera

umiltà, per debolezza o per indifferenza. Non piace forse a

tutti noi di provare la nostra forza a spese di qualcuno o di

qualcosa?

L'essere più debole, il monello suona a tutte le porte

quando gela, o si arrampica per scrivere il suo nome su

d'un incontaminato monumento.

Papà Goriot, vecchio di sessantanove anni circa, si era

ritirato presso la signora Vauquer nel 1813, dopo aver

lasciato gli affari.

Aveva preso in un primo tempo l'appartamento occupato

dalla signora Couture, e pagava allora milleduecento

franchi di pensione; e, per lui, cinque luigi di più o di meno

erano una bagattella. La signora Vauquer aveva rimesso a

nuovo le tre camere dell'appartamento facendosi

corrispondere un anticipo che servì a pagare, si dice, un

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cattivo mobilio composto di tende in "calicò" giallo, di

poltrone in legno verniciato foderate di velluto d'Utrecht,

alcune verniciature a colla e carte da parati rifiutate dalle

osterie dei sobborghi. Forse la noncurante generosità nel

lasciarsi gabbare dimostrata da papà Goriot, che a

quell'epoca era rispettosamente chiamato signor Goriot, lo

fece prendere per un imbecille, senza nessuna pratica degli

affari. Goriot arrivò con un guardaroba ben fornito, il

corredo magnifico del negoziante che non si priva di nulla

ritirandosi dal commercio. La signora Vauquer aveva

ammirato diciotto sue camicie di mezza tela d'Olanda, la

cui finezza era tanto più notevole in quanto il vermicellaio

portava sulla gala fissa due spille unite da una catenina,

ognuna delle quali era montata con un grosso diamante.

Abitualmente vestito con un abito color blu chiaro, portava

ogni giorno un panciotto di picchè bianco sotto il quale

fluttuava il suo ventre a pera e prominente, che faceva

ballonzare una pesante catena d'oro guarnita di ciondoli. La

sua tabacchiera, anch'essa d'oro, conteneva un medaglione

pieno di capelli che lo rendevano in apparenza colpevole di

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qualche fortunata avventura. Quando la sua ospite l'accusò

di essere un "galentin", lasciò errare sulle labbra il gaio

sorriso del borghese lusingato nel suo debole. I suoi

"armaddi" (pronunciava questa parola al modo del popolo

minuto) furono riempiti dall'abbondante sua argenteria di

famiglia. Gli occhi della vedova si accesero quando l'aiutò

compiacentemente a cavare fuori e e mettere a posto i

ramaiuoli, i cucchiai da salsa, le posate, le oliere, le

salsiere, numerosi piatti, i servizi in argento dorato da

colazione, infine pezzi più o meno belli pesanti qualche

libbra, e di cui egli non voleva disfarsi. Quei regali gli

ricordavano le feste della sua vita domestica. "Questo",

disse alla signora Vauquer tenendo un piatto e una piccola

tazza il cui coperchio rappresentava due tortorelle che si

beccavano, "è il primo regalo fattomi da mia moglie

nell'anniversario del nostro matrimonio. Povera donna! Lo

aveva acquistato con le sue economie quand'era ancora

ragazza. Vedete, signora: preferirei dover grattare la terra

con le mie unghie piuttosto che separarmene. Grazie a Dio

potrò prendere in questa tazza il caffè tutte le mattine

durante il resto dei miei giorni.

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Non sono da compiangere; ho di che vivere agiatamente

per molto tempo". E poi la signora Vauquer aveva visto, col

suo occhio di gazza, alcuni titoli del debito pubblico che,

approssimativamente addizionati, potevano assicurare

all'ottimo Goriot una rendita di circa otto o diecimila

franchi. Da quel giorno, la signora Vauquer, nata de

Conflans, che aveva allora quarantotto anni effettivi ma

non ne accettava che trentanove, cominciò a nutrire

qualche idea. Sebbene il lacrimatoio degli occhi di Goriot

fosse rivoltato, gonfio, pendente, il che lo obbligava ad

asciugarseli di frequente, essa lo trovò di aspetto piacente

e perbene. Del resto i suoi polpacci carnosi, prominenti,

pronosticavano, quanto il suo lungo naso robusto, qualità

morali cui la vedova sembrava tenesse e confermate dalla

faccia lunare e ingenuamente sciocca del bonuomo.

Doveva essere un animale solidamente costruito, capace di

dissipare tutto il suo spirito in sentimento. I suoi capelli ad

ala di piccione, che il barbiere del Politecnico gli incipriava

tutte le mattine, disegnavano cinque punte sulla sua bassa

fronte e decoravano bene il suo viso. Quantunque un poco

grossolano, era così azzimato, prendeva così signorilmente

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il tabacco, lo aspirava da uomo così sicuro di avere sempre

la tabacchiera piena di macubino, che il giorno in cui il

signor Goriot prese stanza presso di lei, la signora Vauquer

si coricò quella sera crogiolandosi come una pernice nel

lardello, al fuoco del desiderio che la colse di abbandonare

il sudario di Vauquer per rinascere in Goriot. Maritarsi,

vendere la pensione, andar sotto braccio a quel fior fiore di

borghesia, diventare una signora distinta nel quartiere,

raccogliervi la questua pei poveri, fare gite domenicali a

Choisy, Soissy, Gentilly; andare a teatro come desiderava,

in palco, senza attendere i biglietti di favore che taluno dei

pensionanti le offriva nel mese di luglio; ella sognò tutto

l'Eldorado delle modeste famiglie parigine. Non aveva

confidato a nessuno di possedere quarantamila franchi

messi da parte soldo per soldo. Certamente si riteneva, dal

punto di vista della ricchezza, un partito conveniente.

"Quanto al resto, valgo bene il bonuomo" disse rivoltandosi

nel letto, come per dimostrare a se stessa delle grazie che

la grossa Silvia trovava ogni mattino modellate a fondo. Da

quel giorno, per circa tre mesi, la vedova Vauquer

approfittò del barbiere del signor Goriot, e fece qualche

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spesa per la toletta, con la scusa che era necessario dare

alla casa un certo decoro in armonia con le persone così

rispettabili che la frequentavano. Si preoccupò molto di

mutare i pensionanti, allegando la pretesa di non accettare

ormai che persone distinte sotto ogni riguardo. Se si

presentava un forestiero, gli vantava la preferenza che il

signor Goriot, uno dei commercianti più in vista e più

stimati di Parigi, le aveva accordato. Distribuì dei

cartoncini, in cima ai quali si leggeva:

"Casa Vauquer". "Era, diceva lo stampato, una delle più

antiche e più stimate pensioni borghesi del quartiere latino.

Con una vista piacevolissima sulla vallata dei Gobelins (la

si scorgeva dal terzo piano), e un GRAZIOSO giardino,

all'estremità del quale CORREVA UN VIALE di tigli". Vi si

parlava dell'aria buona e della tranquillità. Quel cartoncino

le procurò la contessa de l'Ambermesnil, una donna di

trentasei anni, che attendeva la fine della liquidazione e la

corresponsione d'una pensione spettantele quale vedova di

un generale morto "sui" campi di battaglia. La signora

Vauquer curò la tavola, fece accendere il fuoco nelle sale

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per circa sei mesi, e mantenne così bene le promesse

dell'avviso, da rimetterci del suo. Perciò la contessa diceva

alla signora Vauquer, chiamandola "cara amica", che le

avrebbe procurato la baronessa de Vaumerland e la vedova

del colonnello conte Picquoiseau, due amiche le quali

attendevano la scadenza del loro impegno in una pensione

situata al Marais, più cara della casa Vauquer. Le due

signore avrebbero goduto di una sistemazione economica

molto buona non appena gli Uffici del ministero della

Guerra avessero perfezionato le relative pratiche. "Ma", lei

diceva, "gli Uffici non la finiscono mai!". Le due vedove

salivano insieme dopo il pranzo nella camera della signora

Vauquer e vi facevano quattro chiacchiere sorseggiando

rosolio di ribes e sgranocchiando dolciumi riservati alla

bocca della padrona di casa. La signora de l'Ambermesnil

approvò le mire dell'albergatrice su Goriot, mire eccellenti

che lei, del resto aveva indovinato fin dal primo giorno; lo

trovava un uomo perfetto.

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- Ah!, mia cara signora, è un uomo sano come il mio occhio

- le diceva la vedova - un uomo ottimamente conservato, e

che può dare ancora molte soddisfazioni a una donna.

La contessa fece generosamente alcune osservazioni alla

signora Vauquer sul suo modo di vestirsi, non in armonia

con le sue pretese. - Bisogna che vi mettiate sul piede di

guerra - le disse.

Dopo molti calcoli, le due vedove si recarono insieme al

Palais- Royal, ove acquistarono, alle Galeries de Bois, un

cappello con piume e una cuffia. La contessa trascinò

l'amica al magazzino della Petite-Jeannette, dove scelsero

un vestito e una sciarpa.

Quando queste munizioni furono adoperate e la vedova fu

sotto le armi, rassomigliò in modo perfetto alla insegna del

"Boeuf à la mode" ("Bue alla moda"). Tuttavia, si trovò così

mutata in meglio da credersi in obbligo verso la contessa e,

quantunque poco generosa la pregò di accettare un

cappello da venti franchi. Per la verità, intendeva poi

chiederle il favore di sondare Goriot e di metterla in valore

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agli occhi di lui. La signora d'Ambermesnil si prestò assai

amichevolmente a tale manovra, e circuì il vecchio

vermicellaio col quale riuscì ad avere un colloquio; ma,

dopo averlo trovato pudibondo, per non dire refrattario, ai

tentativi che le suggerì il personale desiderio dl sedurlo per

proprio conto, uscì nauseata dalla sua grossolanità.

- Angelo mio - disse alla cara amica - da quell'uomo lì non

caverete fuori un bel nulla! E' ridicolmente diffidente, è uno

spilorcio, una bestia, uno stupido, e non vi procurerà che

dispiaceri.

Tra il signor Goriot e la signora de l'Ambermesnil

avvennero cose tali, che la contessa non volle neanche più

trovarsi con lui.

L'indomani lei se ne andò, dimenticando di pagare sei mesi

di pensione e lasciando un vestito smesso valutato cinque

franchi.

Per quante accurate ricerche la signora Vauquer facesse,

non poté avere nessuna informazione in Parigi sulla

contessa de l'Ambermesnil. Essa parlava spesso di quella

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deplorevole faccenda, pentendosi della sua troppa fiducia,

sebbene fosse più diffidente d'una gatta; ma rassomigliava

a tante persone che diffidano del loro prossimo e si danno

in balia del primo venuto. Fatto morale bizzarro, ma vero,

la cui radice si trova facilmente nel cuore umano. Forse

certuni non hanno più nulla da sperare dalle persone con le

quali vivono; dopo aver mostrato loro il vuoto della propria

anima, si sentono segretamente giudicati da esse con una

severità meritata; ma, provando un invincibile bisogno di

adulazione, che a essi manca, o divorati dal desiderio di

avere l'apparenza di possedere qualità che non hanno,

sperano di sorprendere la stima o il cuore degli estranei, a

rischio di perdere un giorno questo o quella. Infine,

esistono individui nati mercenari che non fanno mai del

bene ai loro amici o conoscenti, perché vi sarebbero

obbligati, mentre, rendendo un servizio a sconosciuti, ne

riscuotono un guadagno d'amor proprio; più la cerchia

degli affetti è vicina a loro, e meno amano; più si estende,

e più essi sono servizievoli. La signora Vauquer partecipava

senza dubbio di queste due nature, essenzialmente

meschine, false, esecrabili.

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- Se c'ero io - le diceva allora Vautrin - questo guaio non vi

sarebbe capitato! Vi avrei garbatamente smascherato

quell'imbrogliona. Le conosco bene, quelle "mascherine".

Come tutte le menti limitate, la signora Vauquer aveva

l'abitudine di non uscire dalla cerchia dei fatti e di non

giudicarne le cause. Soleva scaricare sugli altri i propri

errori. Dopo aver subìto quella perdita, essa considerò

l'onesto vermicellaio come la causa del suo infortunio e

cominciò da allora, diceva, a disilludersi sul conto di lui.

Quando ebbe riconosciuto l'inutilità dei suoi adescamenti e

delle sue spese di rappresentanza, non tardò a indovinarne

la ragione. Si accorse che il suo pensionante aveva già,

secondo il suo modo di esprimersi, i propri giretti. Infine

ebbe la dimostrazione che la sua speranza così vagamente

accarezzata era fondata su di una base chimerica, e che

non avrebbe mai cavato fuori un bel niente da quell'uomo

lì, secondo la frase energica della contessa, che sembrava

intendersene. Naturalmente, nell'avversione andò più

lontano di quanto non era andata nell'amicizia. Il suo odio

non fu dettato in ragione del suo amore, ma dalle speranze

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ingannate. Se il cuore umano trova riposo salendo le alture

dell'affetto, sosta di rado lungo la rapida china dei

sentimenti ispirati dall'odio. Ma, essendo il signor Goriot

suo pensionante, la vedova fu costretta a reprimere le

esplosioni dell'amor proprio ferito, a soffocare i sospiri

causatile da quel disinganno, e a ringoiare i desideri di

vendetta come un frate perseguitato dal proprio priore. Gli

spiriti meschini soddisfano i loro sentimenti, buoni o cattivi

che siano, con continue meschinità. La vedova usò la sua

malizia di donna nell'inventare sorde persecuzioni contro la

propria vittima.

Cominciò con l'abolire il superfluo introdotto nella

pensione.

"Niente più cetrioli, niente più acciughe, tutta roba per dar

nell'occhio!", disse a Silvia la mattina in cui decise di

ritornare al vecchio programma. Il signor Goriot era un

uomo frugale, e in lui la parsimonia, necessaria a quanti

fanno da sé la propria fortuna, aveva degenerato in

abitudine. Minestra, lesso e un piatto di legumi erano stati

e dovevano essere sempre il suo pranzo preferito. Fu

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perciò difficile alla signora Vauquer tormentare in questo

lato il pensionante, non potendone in nulla mortificare i

gusti. Delusa di aver incontrato un uomo inattaccabile,

cominciò a screditarlo, e fece condividere la propria

avversione per Goriot da parte degli altri pensionanti i

quali, per divertirsi, si prestarono alle sue vendette. Verso

la fine del primo anno la vedova era giunta a un tal grado

di sospetto, da chiedersi come mai il commerciante, che

disponeva dalle sette alle ottomila lire di rendita, che

possedeva un'argenteria superba e gioielli d'una bellezza

pari a quelli di una mantenuta, continuasse a star da lei,

pagandole una pensione così modica in proporzione ai suoi

mezzi. Durante la più gran parte di quel primo anno Goriot

aveva spesso pranzato fuori una o due volte alla

settimana; poi, insensibilmente, era arrivato a mangiar

fuori solo due volte al mese. Le piccole distrazioni galanti di

messer Goriot stavano troppo in relazione con gli interessi

della signora Vauquer perché questa non fosse scontenta

dell'esattezza progressiva con cui il suo pensionante

prendeva i pasti presso di lei. Quel cambiamento fu

attribuito tanto a una lenta diminuzione di fortuna quanto

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al desiderio di far dispetto alla ospite. Una delle più

detestabili abitudini di questi spiriti lillipuziani consiste

nell'attribuire agli altri le loro piccinerie. Disgraziatamente,

al termine del secondo anno, il signor Goriot giustificò le

chiacchiere di cui era l'oggetto chiedendo alla signora

Vauquer di passare al secondo piano e di ridurgli la retta a

novecento franchi. Ebbe bisogno d'una così stretta

economia, da non permettersi più di accendere il fuoco

durante l'inverno. La vedova Vauquer pretese di esser

pagata in anticipo; il signor Goriot acconsentì e da quel

giorno lei lo chiamò papà Goriot. Ognuno cercò allora

d'indovinare le cause di quella decadenza. Indagine

difficile. Come aveva detto la falsa contessa, papà Goriot

era un sornione, un taciturno. Secondo la logica delle

persone senza sale in zucca, tutte indiscrete perché non

sanno cosa dire, chi non parla delle proprie cose deve

combinarne delle brutte. Quel commerciante, prima così

per bene, divenne un briccone; quel damerino, una vecchia

canaglia. Ora, a parere di Vautrin, che andò a quell'epoca

ad abitare in casa Vauquer, papa Goriot era uno che

frequentava la borsa e che, secondo un modo di dire

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alquanto energico del gergo finanziario, "scroccava" sulla

Rendita dopo essersi rovinato. Ora, era uno di quei piccoli

giocatori che azzardano e guadagnano tutte le sere dieci

franchi al gioco. Ora, si faceva di lui una spia al servizio

dell'alta polizia; ma Vautrin sosteneva che non era

abbastanza furbo per "essere dei loro". Papà Goriot era poi

anche un avaro che prestava danaro a ingorda usura, uno

che puntava sempre sullo stesso numero aumentando di

volta in volta la posta. Se ne faceva tutto quel che il vizio,

l'infamia, l'impotenza generano di più misterioso. Tuttavia,

per quanto ignobili fossero il suo modo di agire o i suoi vizi,

l'avversione che egli ispirava non arrivava al punto da farlo

mettere alla porta: dopo tutto pagava la sua pensione. E

poi: era utile, e ognuno sfogava su di lui il proprio buon

umore o il proprio malumore con scherzi o sfuriate. Il

parere che sembrava più attendibile, e che fu

generalmente adottato, era quello espresso dalla signora

Vauquer. A sentir lei, quell'uomo così ben conservato, sano

come il suo occhio, e dal quale si potevano ancora avere

molte soddisfazioni, era un libertino dai gusti strani. Ecco

su quali fatti la vedova Vauquer fondava le sue calunnie.

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Qualche mese dopo la fuga della disastrosa contessa che

era riuscita a vivere per sei mesi alle sue spalle, una

mattina, prima di alzarsi, sentì lungo la scala il fruscio di un

abito di seta e il passettino d'una donna giovane e lieve

filare verso la camera di Goriot, la cui porta s'era

intelligentemente aperta.

Subito dopo la grossa Silvia corse a riferire alla padrona

che una ragazza, troppo bella per essere onesta;

"acconciata come una dea", dagli stivaletti di prunella

senz'ombra di fango, era scivolata come un'anguilla dalla

strada fino alla cucina e le aveva domandato dove fosse

l'appartamento del signor Goriot. La signora Vauquer e la

sua cuoca si misero a spiare e colsero molte parole

teneramente pronunciate durante la visita, che durò

qualche tempo. Quando il signor Goriot uscì insieme alla

"sua signora", la grossa Silvia afferrò subito la sporta, e

finse di andare al mercato per seguire la coppia degli

innamorati.

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-Signora - disse alla padrona tornando a casa - il signor

Goriot deve essere proprio ricco sfondato per tenerle su

quel piede.

Figuratevi che all'angolo dell'Estrapade c'era una superba

carrozza sulla quale LEI è salita.

Durante il pranzo la signora Vauquer andò a tirare una

tenda per impedire che Goriot fosse disturbato dal sole, un

raggio del quale gli offendeva gli occhi.

- Siete amato dalle belle, signor Goriot, il sole vi cerca!

disse alludendo alla visita che aveva ricevuto. Càspita,

avete buon gusto, era proprio carina.

- Era mia figlia - egli rispose con una specie d'orgoglio nel

quale i pensionanti vollero trovare la vanità d'un vecchio

che vuol salvare le apparenze.

Un mese dopo quella visita, il signor Goriot ne ricevette

un'altra. Sua figlia, che, la prima volta, era andata in

toletta da mattina, giunse nel pomeriggio vestita come per

andare in società. I pensionanti, intenti a chiacchierare in

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sala, videro una graziosa bionda, dalla vita sottile, carina, e

assai troppo distinta per essere la figlia d'un papà Goriot.

- E due! -. fece la grossa Silvia, che non la riconobbe.

Qualche giorno dopo, un'altra ragazza, alta e ben fatta,

bruna, dai capelli neri e dall'occhio vivace, chiese del signor

Goriot.

- E tre! - disse Silvia.

Questa seconda ragazza, che per la prima volta era

anch'essa andata a trovare suo padre di mattina, tornò,

qualche giorno dopo, di sera, in toletta da ballo e in

carrozza.

- E quattro! - fecero la signora Vauquer e la grossa Silvia,

le quali non riconobbero in quella gran dama alcuna traccia

della ragazza vestita semplicemente la mattina in cui fece

la prima visita.

Goriot pagava ancora milleduecento franchi di retta. La

signora Vauquer trovò del tutto naturale che un uomo ricco

avesse quattro o cinque amanti, e lo giudicò anche assai

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furbo nel farle passare per figlie sue. Non si scandalizzò

affatto che le facesse venire in casa Vauquer. Soltanto,

poiché queste visite le spiegavano l'indifferenza del

pensionante nei suoi riguardi, si permise, al principio del

secondo anno, di chiamarlo "vecchio mandrillo". Poi,

quando questi calò ai novecento franchi, gli chiese con

molta insolenza che cosa intendesse fare della sua casa,

vedendo discendere una di quelle signore. Papà Goriot le

rispose che quella signora era la sua figlia maggiore.

- Ma quante ne avete di figlie: trentasei ? - fece in tono

aspro la signora Vauquer.

- Non ne ho che due - replicò il pensionante con la dolcezza

d'un uomo andato in rovina e reso docile dalla miseria.

Verso la fine del terzo anno, papà Goriot ridusse ancora le

spese, passando al terzo piano e mettendosi a

quarantacinque franchi al mese di pensione. Abolì il

tabacco, licenziò il barbiere e non s'incipriò più. Quando

papà Goriot comparve la prima volta senza essere

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incipriato, la sua ospite si lasciò sfuggire un'esclamazione

di sorpresa vedendo il colore dei suoi capelli:

essi erano d'un grigio sporco e verdastro. Il suo viso, che

segreti dolori avevano insensibilmente reso più triste di

giorno in giorno, appariva il più desolato di tutti quelli che

guarnivano la tavola. Non vi fu allora più alcun dubbio.

Papà Goriot era un vecchio libertino, i cui occhi erano stati

preservati dal malefico effetto dei rimedi necessari alle sue

malattie soltanto per l'abilità di un medico. Il colore

disgustoso dei capelli derivava dagli stravizi e dalle droghe

prese per continuare a praticarli.

Lo stato fisico e morale del bonuomo dava ragione a quelle

ciarle.

Quando il suo corredo fu logoro, comprò calicò da

quattordici soldi la canna per sostituire la sua bella

biancheria. I diamanti, la tabacchiera d'oro, la catena, i

gioielli scomparvero a uno a uno. Non portava più il vestito

blu chiaro, tutto il suo ricco abbigliamento, e indossava,

estate e inverno, una finanziera di grosso panno marrone,

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un panciotto di pelo di capra, e pantaloni grigi di fustagno.

Diventò sempre più magro; i suoi polpacci divennero

flaccidi; il viso paffuto del borghese soddisfatto si riempì di

rughe, la fronte si corrugò, la mascella venne fuori.

Durante il quarto anno della sua dimora in via Neuve-

Sainte- Geneviève non era più riconoscibile. Il buon

vermicellaio di sessantadue anni, che non ne dimostrava

neppure quaranta, il grasso e grosso borghese dalla faccia

fresca e serena, il cui spiritoso modo di fare rallegrava i

passanti, che aveva qualcosa di giovanile quando

sorrideva, pareva adesso un settuagenario ebete,

vacillante e scialbo. I suoi occhi blu tanto vivaci assunsero

toni scuri e grigio-ferro, erano impalliditi, non lacrimavano

più, e il loro orlo rosso sembrava piangere sangue. Ad

alcuni faceva orrore, ad altri, pietà. Dei giovani studenti in

Medicina, avendo notato l'abbassamento del suo labbro

inferiore e misurato il vertice del suo angolo facciale, dopo

avere a lungo strapazzato il bonuomo senza cavarne fuori

nulla, lo dichiararono affetto da cretinismo. Una sera, dopo

il pranzo, avendogli la signora Vauquer detto in tono

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canzonatorio: "E allora!: com'è che le vostre figliuole non

vengono più a trovarvi?", mettendo così in dubbio la sua

paternità, papà Goriot trasalì come se l'ospite lo avesse

punto con un ferro.

- Vengono qualche volta - rispose con una voce

emozionata.

- Ah! Ah!, le vedete ancora qualche volta! esclamarono gli

studenti. - Bravo il papà Goriot!

Ma il vecchio non sentì i frizzi che la sua riposta aveva

procurato, era ricaduto in uno stato di meditazione preso,

da coloro che l'osservavano superficialmente, per un

torpore senile.

Se lo avessero ben conosciuto, forse si sarebbero

vivamente interessati al problema che presentava il suo

stato fisico e morale, ma nulla era più difficile. Quantunque

sarebbe stato facile sapere se Goriot aveva fatto realmente

il vermicellaio e qual era l'ammontare della sua ricchezza,

le persone anziane, la cui curiosità si destò sul suo conto,

non uscivano mai dal quartiere e vivevano attaccate alla

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pensione come le ostriche allo scoglio. Quanto alle altre

persone, gli allettamenti particolari della vita parigina

facevano loro dimenticare, uscendo dalla via Neuve-Sainte-

Geneviève, il povero vecchio che prendevano in giro.

Per mentalità ristrette e giovani spensierati la cruda

miseria di papà Goriot e il suo atteggiamento di stupido

erano incompatibili con una fortuna e una capacità quali

che siano. Quanto alle donne che egli chiamava sue figlie,

ognuno condivideva l'opinione della signora Vauquer, la

quale diceva, con la logica severa conferita dall'abitudine di

far tutte le supposizioni possibili alle vecchie che passano

la sera chiacchierando: "Se papà Goriot avesse figlie così

ricche come sembravano esserlo tutte quelle signore che

sono venute a trovarlo, non abiterebbe da me, al terzo

piano, a quarantacinque franchi al mese, e non andrebbe

vestito come un pezzente". Nulla poteva smentire queste

induzioni. Perciò, verso la fine del mese di novembre del

1819, epoca nella quale scoppiò questo dramma, ognuno

nella pensione aveva idee ben definite sul povero vecchio.

Egli non aveva mai avuto né figlie né moglie; l'abuso dei

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piaceri ne aveva fatto un lumacone, un mollusco

antropomorfo da classificare fra i "Berrettiferi", come

diceva un impiegato al Museo, uno dei clienti della tavola

della pensione a prezzo fisso; al confronto di Goriot, Poiret

era un'aquila, un gentleman; Poiret parlava, ragionava,

rispondeva. A dire il vero, non diceva niente, parlando

ragionando o rispondendo, giacché era solito ripetere in

altra forma quel che dicevano gli altri, ma prendeva parte

alla conversazione, era un essere vivo, pareva sensibile,

mentre papà Goriot, aggiungeva l'impiegato al Museo, era

sempre allo zero di Réaumur.

Eugenio de Rastignac era ritornato in quello stato d'animo

che devono aver conosciuto i giovani d'ingegno superiore,

o coloro cui una situazione difficile conferisce

momentaneamente le qualità degli uomini d'eccezione.

Durante il suo primo anno di permanenza in Parigi, il poco

studio richiesto per superare i primi esami presso la Facoltà

lo aveva lasciato libero di godere le delizie appariscenti

della Parigi mondana. Uno studente non dispone di molto

tempo se vuol conoscere il repertorio d'ogni teatro,

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studiare le uscite del labirinto parigino, sapere gli usi,

imparare la lingua e abituarsi ai piaceri particolari della

capitale; frugare negli angoli buoni e cattivi, seguire i Corsi

che lo divertono, inventariare le ricchezze dei musei. Uno

studente si appassiona di sciocchezze che gli sembrano

grandiose.

Ha il suo grand'uomo, un professore del Collège de France,

pagato per essere all'altezza del suo uditorio. Rialza la

cravatta, assume atteggiamenti fatali verso la dama delle

prime gallerie dell'Opéra-Comique. Attraverso queste

successive iniziazioni si spoglia della sua scorza, allarga

l'orizzonte della sua vita e finisce per conoscere la

sovrapposizione degli strati umani che compongono la

società. Se ha cominciato con l'ammirare gli equipaggi che

sfilano sotto un bel sole lungo gli Champs-Elysées, giunge

ben presto a invidiarli. Eugenio aveva già fatto questo

noviziato a sua propria insaputa, quando partì per le

vacanze, dopo aver conseguito la licenza per l'ammissione

al corso di Lettere e Diritto. Le illusioni dell'infanzia, le idee

di provincia erano scomparse. L'intelligenza modificata e

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l'ambizione esaltata gli fecero vedere chiaro nell'ambiente

del maniero paterno, in seno alla famiglia. Il padre, la

madre, i due fratelli, le due sorelle, e una zia la cui

ricchezza consisteva in pensioni vitalizie, vivevano sulla

piccola terra di Rastignac.

Questo possesso, che rendeva circa tremila franchi, era

sottoposto all'incertezza che governa il prodotto

tipicamente industriale della vigna e, tuttavia bisognava far

uscire ogni anno milleduecento franchi per lui. La vista di

tale costante ristrettezza che gli veniva generosamente

nascosta; il paragone che fu costretto a fare tra le sorelle,

che gli erano parse tanto belle quando era un fanciullo, e le

donne di Parigi, nelle quali aveva trovato il tipo d'una

bellezza a lungo vagheggiata; l'avvenire incerto della

numerosa famiglia che fondava le speranze su di lui; la

parsimoniosa cura con cui vide conservare i più modesti

prodotti; il vino di famiglia fatto con le vinacce; insomma,

una quantità di circostanze che è inutile elencare qui,

decuplicarono i suoi desideri di "parvenu" e gli acuirono la

brama di distinguersi. Come accade alle anime grandi, egli

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non volle essere debitore che del proprio merito. Ma il suo

temperamento era eminentemente meridionale: quando si

trattava di passare all'azione, le sue determinazioni

subivano quelle esitazioni che hanno i giovani allorché si

trovano in alto mare, senza sapere né dove dirigere le loro

forze, né sotto quale angolo far gonfiare le loro vele. Se,

da principio, volle gettarsi a corpo morto nel lavoro,

sedotto subito dopo dalla necessità di cercarsi delle

relazioni, capì quanto influsso hanno le donne nella vita

sociale, e decise di lanciarsi senz'altro nella società, per

conquistarvi delle protettrici: e potevano esse mancare a

un giovane ardente e spiritoso, il cui spirito e il cui ardore

erano sostenuti dal tratto elegante e da una specie di

bellezza nervosa, alla quale le donne cedono volentieri?

Tali idee lo presero in mezzo ai campi, durante le

passeggiate che faceva allegramente con le sorelle, le quali

lo trovarono assai cambiato. La zia, la signora de Marcillac,

che un tempo era stata ammessa a Corte, vi aveva

conosciuto la più alta aristocrazia. D'un tratto il giovane

ambizioso trovò, nei ricordi coi quali la zia lo aveva tanto

spesso cullato, gli elementi di molte conquiste sociali,

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importanti per lo meno quanto quelle che andava

conoscendo alla Scuola di Diritto; la interrogò sui rapporti

di parentela che potevano ancora essere riannodati. Dopo

avere scosso i rami dell'albero genealogico, la vecchia

donna ritenne che, di tutte le persone che avrebbero

potuto essere utili al nipote tra la razza egoista dei parenti

ricchi, la signora viscontessa de Beauséant sarebbe stata la

meno recalcitrante. Ella scrisse alla giovane donna una

lettera nel vecchio stile, e la consegnò a Eugenio,

dicendogli che, se gli fosse riuscito di spuntarla con la

viscontessa, questa gli avrebbe fatto ritrovare gli altri

parenti.

Qualche giorno dopo il suo arrivo, Rastignac inviò la lettera

della zia alla signora de Beauséant. La viscontessa rispose

con l'invito a un ballo per il giorno dopo.

Tale era la situazione generale della pensione borghese alla

fine del mese di novembre del 1819. Qualche giorno più

tardi Eugenio, dopo essere andato al ballo della signora de

Beauséant, rientrò verso le due di notte. Per riguadagnare

il tempo perduto, il coraggioso studente s'era ripromesso,

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mentre ballava, di lavorare fino al mattino. Avrebbe per la

prima volta vegliato in quel silenzioso quartiere, sotto il

fascino d'una falsa energia tratta dal vedere gli splendori

del mondo. Non aveva pranzato in casa Vauquer. I

pensionanti poterono quindi credere che sarebbe ritornato

dal ballo l'indomani mattina, essendo qualche volta

rientrato dalle feste del Prado o dai balli dell'Odéon, con le

calze di seta imbrattate di fango e gli scarpini malconci.

Prima di mettere i catenacci alla porta, Cristoforo l'aveva

aperta per dare una guardata sulla strada; Rastignac

sopraggiunse e poté salire alla sua camera senza far

rumore, seguito da Cristoforo che ne faceva molto. Eugenio

si spogliò, calzò le pantofole, indossò una brutta finanziera,

accese il fuoco di mattonelle di carbone, e si dispose

rapidamente allo studio, di guisa che Cristoforo coprì

ancora col rumore dei suoi scarponi i preparativi poco

rumorosi del giovanotto. Eugenio rimase pensoso qualche

istante prima d'immergersi nei tomi di Diritto. Aveva or ora

trovato nella signora viscontessa de Beauséant una delle

regine della moda parigina, la casa della quale era

considerata la più piacevole del faubourg Saint-Germain.

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Essa era, del resto, e per il suo nome e per la sua fortuna,

una delle sommità del mondo aristocratico.

Grazie alla zia de Marcillac, il povero studente era stato

bene accolto in quella casa, senza sapere l'importanza del

favore ricevuto. Essere ammesso in quei salotti dorati

equivaleva a un brevetto di alta nobiltà. Con l'apparire in

quella società, più impenetrabile d'ogni altra, egli aveva

acquistato il diritto d'essere ricevuto dappertutto.

Abbagliato da quella rumorosa riunione, scambiata appena

qualche parola con la viscontessa, Eugenio s'era

accontentato di individuare, tra la folla delle divinità

parigine che si affollavano in quell'eletto ricevimento, una

di quelle donne che un giovane deve a prima vista adorare.

La contessa Anastasia de Restaud, alta e ben formata,

passava per avere una delle più belle figure di Parigi.

Immaginate grandi occhi neri, una mano stupenda, un

piedino ben modellato, movimenti vivacissimi, una donna

che il marchese de Ronquerolles chiamava:

un purosangue. La finezza della nervatura non le toglieva

alcuna attrattiva; aveva forme piene e rotonde, senza con

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questo essere accusata della sia pur lieve grassezza. "Puro

sangue, donna di razza": queste locuzioni cominciavano a

sostituire gli angeli del cielo, le figure ossianiche, tutta la

vecchia mitologia amorosa condannata dal dandismo. Ma,

per Rastignac, la signora Anastasia de Restaud rappresentò

la donna desiderabile. Si era assicurato due giri nella lista

dei cavalieri scritta sul ventaglio, e le aveva potuto parlare

durante la prima contraddanza.

- E ora, dove potrò incontrarvi ancora, signora? le aveva

chiesto bruscamente con quella audacia appassionata che

piace tanto alle donne. - Mah! - lei rispose - al Bois, ai

"Bouffons", a casa mia, dove volete. - E l'avventuroso

meridionale s'era affrettato a entrare in confidenza con

quella deliziosa contessa, quanto un giovane può entrare in

confidenza con una donna durante una contraddanza e un

valzer. Presentandosi come cugino della signora de

Beauséant, fu invitato da quella donna che egli ritenne una

gran dama, e fu ammesso in casa sua. Quando gli rivolse

l'ultimo sorriso, Rastignac stimò doverosa la sua visita. Egli

aveva avuto la fortuna d'incontrare un uomo che non

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aveva dileggiato la sua ignoranza, difetto mortale in mezzo

agli illustri impertinenti dell'epoca: i Maulincourt, i

Ronquerolles, i Maximes de Trailles, i de Marsay, gli

Adjuda-Pinto, i Vandenésse, che si trovavano là, nella

gloria della loro fatuità e mescolati alle donne più eleganti:

lady Brandon, la duchessa de Langeais, la contessa de

Kargarouet, la signora de Sérizy, la duchessa di Carigliano,

la contessa Ferraud, la signora de Lanty, la marchesa

d'Aiglemont, la signora Firmiani, la marchesa de Listomère

e la marchesa d'Espard, la duchessa de Maufrigneuse e i

Grandlieu. Fortunatamente, dunque, l'ingenuo studente

s'era imbattuto nel marchese de Montriveau, l'amante della

duchessa de Langeais, un generale semplice come un

fanciullo, da cui seppe che la contessa de Restaud abitava

in via Helder. Essere giovane, aver sete di mondo, aver

fame d'una donna, e vedersi schiudere due case! Mettere il

piede nel faubourg Saint- Germain, in casa della

viscontessa de Beauséant, il ginocchio nella Chaussée-

d'Antin, in casa della contessa de Restaud!

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Immergersi con uno sguardo nella fuga dei salotti di Parigi,

e ritenersi un così bel giovane da trovarvi aiuto e

protezione in un cuore di donna! Sentirsi tanto ambizioso

da dare un superbo calcio alla corda tesa sulla quale

bisogna camminare, con la sicurezza del funambulo che

non cadrà, e aver trovato in una donna incantevole il

miglior bilanciere! Con questi pensieri e dinanzi a questa

donna che si ergeva sublime vicino a un fuoco di

mattonelle di carbone, tra il Codice e la miseria, chi non

avrebbe, come Eugenio, scandagliato l'avvenire con una

riflessione, chi non l'avrebbe arredato di successi ? La sua

immaginazione anticipava così vivacemente le gioie future,

che credeva di trovarsi già accanto alla signora de Restaud,

quando un sospiro simile a un "han" di San Giuseppe turbò

il silenzio della notte, risuonò nel cuore del giovane in

modo da fargli credere si trattasse del rantolo d'un

moribondo. Aprì pian piano l'uscio e, quando fu nel

corridoio, scorse una linea di luce tracciata sotto quello di

papà Goriot. Eugenio pensò che il suo vicino fosse stato

colto da un'indisposizione, avvicinò l'occhio alla serratura,

guardò nella camera, e vide il vecchio intento a un lavoro

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che gli sembrò troppo criminale per non credersi in dovere

di rendere un servigio alla società osservando bene quel

che stava macchinando nottetempo il sedicente

vermicellaio. Papà Goriot doveva aver fissato all'asse di

una tavola rovesciata un piatto e una specie di zuppiera

d'argento dorato e avvolgeva una specie di corda attorno a

questi oggetti riccamente lavorati stringendoli con una tale

forza, da torcerli per convertirli verosimilmente in lingotti.

"Càspita! che uomo!", si disse Rastignac nel vedere le

braccia nerborute del vecchio che, con l'aiuto di quella

corda, deformava in silenzio il metallo come una pasta.

"Che sia un ladro o un ricettatore che, per esercitare più al

sicuro il suo commercio, si finga sciocco, debole, e viva

come un povero?", si chiese Eugenio rialzandosi un

momento. Lo studente tornò a porre l'occhio alla serratura.

Papà Goriot, sciolta la corda, prese la massa d'argento, la

pose sulla tavola dopo avervi steso sopra il tappeto e su

questo rotolò il metallo per ridurlo a una sbarra:

operazione che eseguì con una facilità meravigliosa. "E'

dunque forte come lo era Augusto, re di Polonia?", si

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domandò Eugenio, quando la sbarra prese presso a poco la

forma rotonda. Papà Goriot guardò il suo lavoro con aria

triste, lacrime gli uscirono dagli occhi, spense il mòccolo

alla luce del quale aveva attorto quell'argento dorato, ed

Eugenio lo sentì andare a letto sospirando. "E' pazzo",

pensò lo studente.

- Povera figlia mia ! - disse ad alta voce papà Goriot.

A questa parola, Rastignac stimò prudente tacere su

quanto era accaduto e non condannare avventatamente il

vicino. Stava per rientrare nella propria camera, quando

sentì a un tratto un rumore difficile a definirsi e che doveva

essere causato da uomini in pantofole, i quali salivano la

scala. Eugenio tese l'orecchio e riconobbe effettivamente la

respirazione alternata di due uomini.

Senza aver avvertito né il cigolio dell'uscio né il passo degli

uomini, scorse a un tratto una debole luce al secondo

piano, nella camera del signor Vautrin. - Quanti misteri in

una pensione familiare! - disse fra sé e sé. Scese qualche

gradino, si mise ad ascoltare, e il suono dell'oro colpì il suo

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orecchio. La luce fu subito spenta, le due respirazioni si

fecero sentire nuovamente senza che l'uscio avesse

cigolato. Poi, man mano che i due uomini scendevano, il

rumore andò affievolendosi.

- Chi va là? - gridò la signora Vauquer, aprendo la finestra

della sua camera.

- Sono io che torno, mamma Vauquer - disse Vautrin con la

sua grossa voce.

"Strano! Cristoforo aveva pur messo i catenacci", pensò

Eugenio rientrando nella propria camera. "Bisogna stare

svegli per sapere bene quel che accade intorno, a Parigi".

Divagato per tali piccoli fatti dalla propria meditazione

ambiziosamente amorosa, si mise a studiare. Distratto dai

sospetti sortigli sul conto di papà Goriot, più distratto

ancora dall'immagine della signora de Restaud, che di

momento in momento appariva dinanzi a lui come la

messaggera d'un brillante avvenire, finì per andarsene a

letto e per dormire saporitamente. Su dieci notti promesse

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allo studio, i ragazzi ne dedicano sette al sonno. Bisogna

aver più di vent'anni per vegliare.

L'indomani mattina c'era a Parigi una di quelle nebbie che

l'avvolgono e l'oscurano in modo tale, che anche le persone

più precise s'ingannano sul tempo. Si manca agli

appuntamenti d'affari. Ognuno crede siano le otto, quando

suona mezzogiorno.

Erano le nove e mezza, e la signora Vauquer non si era

ancora levata. Cristoforo e la grossa Silvia, anche loro in

ritardo, prendevano tranquillamente il caffè, preparato con

i veli del latte destinato ai pensionanti e che Silvia faceva

bollire a lungo, affinché la signora Vauquer non si

accorgesse di questa decima illegalmente percepita.

- Silvia - disse Cristoforo inzuppando il primo crostino - il

signor Vautrin, che dopo tutto è un brav'uomo, anche

questa notte ha ricevuto due persone. Se la signora

domandasse, non bisogna dirle nulla.

- Vi ha dato qualche cosa?

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- Mi ha dato cento soldi come mesata; un modo per dire:

acqua in bocca.

- Tolto lui e la signora Couture, che non sono taccagni, gli

altri vorrebbero toglierci con la mano sinistra quel che ci

danno con la destra il primo dell'anno - disse Silvia.

- Per quel che ci danno ! - fece Cristoforo appena una

moneta, e da cento soldi. E' da due anni che papà Goriot si

pulisce le scarpe da sé. Quello spilorcio di Poiret fa a meno

del lustro e piuttosto se lo berrebbe che darlo alle sue

ciabatte. Quanto poi a quel povero diavolo dello studente,

mi dà quaranta soldi. Quaranta soldi non valgono neppure

le spazzole, e per giunta si vende pure gli abiti vecchi. Che

baracca! Però! fece Silvia bevendo a piccoli sorsi il caffè - il

nostro servizio è il migliore del quartiere:

qui si sta bene Ma, a proposito del grosso papà Vautrin,

Cristoforo, vi hanno detto qualche cosa?

- Sì. Ho incontrato giorni fa un signore per strada che mi

ha detto: - Abita da voi un signore grosso, coi favoriti tinti?

Io gli ho risposto: - No, signore, non se li tinge mica. Un

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allegrone come lui ha ben altro da fare. L'ho riferito al

signor Vautrin, e lui mi ha risposto: - Hai fatto bene,

ragazzo mio! Rispondi sempre così. Non c'è di peggio che

far conoscere le nostre debolezze. Per questo tante volte

vanno a monte i matrimoni.

- E a me, al mercato, hanno cercato d'infinocchiarmi per

farmi dire se lo vedevo quando si cambia la camicia.

Bell'affare! Ma, oh! - disse interrompendosi - ecco che

stanno suonando le dieci meno un quarto a Val-de-Grace, e

non si sente nessuno.

- Ma se sono usciti tutti! La signora Couture e la ragazza

sono andate a mangiare alle otto il buon Dio a Saint-

Etienne. Papà Goriot è uscito con un pacco. Lo studente

non tornerà che alle dieci, dopo la lezione. Li ho visti uscire

mentre pulivo le scale, e papà Goriot m'ha pure urtato col

suo pacco, duro come il ferro.

Che diavolo mai farà quel bonuomo? Gli altri lo prendono in

giro, ma tutto sommato è un brav'uomo, e vale più di tutti

loro. E' piuttosto tirchio, ma le signore da cui vado qualche

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volta per lui m'allungano mance vistose, e sono proprio

ben messe!

- Quelle che lui chiama figlie sue, eh? Saranno una

dozzina.

- Io sono stato soltanto da due, le stesse che sono venute

qui.

- Ecco che si sente la signora; e comincerà subito a

strillare; bisogna che vada. Badate al latte, Cristoforo, per

via del gatto.

Silvia salì dalla padrona.

- Ma come, Silvia: sono già le dieci meno un quarto, e mi

avete lasciato dormire fino adesso come una marmotta?

Una cosa simile non mi era mai capitata.

- E' colpa della nebbia, si taglia col coltello.

- Ma la colazione?

- Mah!, i pensionanti dovevano avere proprio il diavolo in

corpo; sono cascati tutti dal letto e sono già fuori.

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- Parla bene, Silvia - soggiunse la signora Vauquer- si dice

cader da letto.

- Signora mia, dirò come volete voi. Ma tant'è che voi

potete far colazione alle dieci. La Michonnette e il Poireau

non si sono mossi. Non ci sono che loro in casa, e dormono

come quei due sassi che sono.

- Ma Silvia, tu li metti tutt'e due insieme; come se...

- Come se, che? - riprese Silvia lasciandosi sfuggire una

grossa e stupida risata. - Insieme fanno il paio.

- E' curioso, Silvia: come mai il signor Vautrin stanotte è

potuto rientrare dopo che Cristoforo aveva messo i

catenacci?

- Proprio al contrario, signora. E' lui che ha sentito il signor

Vautrin, ed è sceso per aprirgli la porta. E così avete

creduto...

- Dammi il copribusto e va a preparare la colazione. Fa'

quel che è rimasto del montone, con le patate, e servi pere

cotte, di quelle che costano due centesimi l'una.

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Pochi istanti dopo, la signora Vauquer discese proprio nel

momento in cui il gatto aveva rovesciato con un colpo di

zampetta il piattino che copriva una tazza di latte, e lo

stava leccando in tutta fretta.

- Mistigrì! - gridò. Il gatto scappò, poi tornò per strofinarsi

alle sue gambe. - Sì, sì, fa il vigliacco, sfacciatello! le disse.

- Silvia! Silvia!

- Che c'è, signora?

- Guardate un po' cosa ha bevuto il gatto?

- La colpa è di quella bestia di Cristoforo, glielo avevo detto

di coprirlo. Dov'è andato? Ma non vi date pensiero,

signora; facciamo conto che quella era la colazione di papà

Goriot.

L'allungherò con l'acqua, e lui non se ne accorgerà

neppure. Non bada a niente, neanche a quel che mangia.

- Ma dove diamine è andato, il nostro caffettiere? - disse la

signora Vauquer mettendo a posto i piatti.

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- E chi lo sa? Quello traffica come cinquecento diavoli.

- Ho dormito troppo - disse la signora Vauquer.

- Ma così la signora è fresca come una rosa...

In quella il campanello si fece sentire, e Vautrin entrò in

sala cantando col suo vocione:

A lungo ho corso il mondo E ovunque mi hanno visto...

- Oh! Oh!, buon giorno, mamma Vauquer - disse scorgendo

l'ospite, che galantemente prese tra le sue braccia.

- Andiamo, smettetela.

- Chiamatemi impertinente! - riprese. - Andiamo, ditelo. Lo

volete dunque dire? Andiamo, vi aiuterò a mettere i piatti.

Ah!, io son gentile, non è vero?

Corteggiar la bruna e la bionda, Amare, sospirar...

- Ho visto poco fa una cosa singolare.

...alla ventura.

- Cosa? - domandò la vedova.

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- Papà Goriot alle otto e mezza stava in via Dauphine,

dall'orefice che compra argenteria e guarnizioni di metallo.

Gli ha venduto per una discreta somma un oggetto di

argento dorato, molto bene attorcigliato per uno che non è

del mestiere - Ma davvero ?

- Sicuro. Tornavo dall'aver accompagnato un amico in

procinto di partire con le Messaggerie reali; e ho atteso per

vedere quel che papà Goriot faceva: una cosa comica. E'

risalito per questo quartiere passando per la via dei Grès,

ed è entrato in casa d'un noto usuraio che si chiama

Gobseck, un autentico tipaccio, capace di giocare a domino

con le ossa di suo padre; un giudeo, un arabo, un greco,

uno zingaro, un uomo che sarebbe difficile derubare,

perché i suoi scudi li tiene in banca.

- Ma che diamine fa questo papà Goriot?

- Non fa, disfa - rispose Vautrin. - E' uno stupido, così

imbecille, da rovinarsi innamorandosi delle ragazze che...

- Eccolo - disse Silvia.

- Cristoforo! - gridò papà Goriot - accompagnami su.

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Cristoforo seguì papà Goriot e ridiscese subito dopo.

- Dove vai? - chiese mammà Vauquer al suo domestico.

- Vado a fare una commissione per il signor Goriot.

- E questo, cos'è - disse Vautrin strappando dalle mani di

Cristoforo una lettera sulla quale lesse: "Alla Signora

contessa Anastasia de Restaud". - E dove la porti?

- In via dell'Helder. Ho l'ordine di non consegnarla che alla

signora contessa.

- Che c'è dentro? - domandò Vautrin, mettendo la lettera

contro luce - un biglietto di banca? No. - Apri un poco la

busta. - Una cambiale all'ordine - esclamò. - Càspita! E'

galante, quel vecchio rimbambito. Va', furbacchione - disse

coprendo con la sua larga mano il capo di Cristoforo, che

fece girare su se stesso come un dado - rimedierai una

buona mancia. La tavola era stata intanto apparecchiata.

Silvia faceva bollire il latte. La signora Vauquer accendeva

la stufa aiutata da Vautrin che canterellava sempre:

A lungo ho corso il mondo E ovunque mi hanno visto..

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Quando tutto fu pronto, la signora Couture e la signorina

Taillefer rincasarono.

- Da dove venite, così di buon mattino, mia bella signora?

disse la signora Vauquer alla signora Couture.

- Siamo state a far le nostre devozioni a Saint-Etienne-du-

Mont; non dobbiamo andare oggi dal signor Taillefer?

Povera piccola, trema come una foglia - riprese la signora

Couture sedendosi dinanzi alla stufa, alla cui bocca

presentò le sue scarpe, che si misero a fumare.

- Scaldatevi, Vittorina - disse la signora Vauquer.

- E' bene, signorina, pregare il buon Dio d'intenerire il

cuore di vostro padre - disse Vautrin, avvicinando una

sedia all'orfana. Ma questo non basta. Ci vorrebbe un

amico che s'incaricasse di dire il fatto suo a quel brutto

tipo, a quel selvaggio che si dice abbia tre milioni e non vi

dà un soldo di dote. Una bella ragazza, oggi, ha bisogno di

dote.

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- Povera figliuola - disse la signora Vauquer. Ma, tesoro

mio, quel mostro di vostro padre se ne tira addosso, di

maledizioni, quante ne vuole!

A queste parole gli occhi di Vittorina s'inumidirono di

lacrime e la vedova non proseguì, a un cenno che le fece la

signora Couture - Basterebbe che lo vedessimo,

basterebbe che gli potessi parlare e dargli l'ultima lettera di

sua moglie riprese a dire la vedova dell'ufficiale di

Commissariato. - Non mi sono azzardata a mandargliela

per posta, riconoscerebbe la mia calligrafia...

- "O donne innocenti, disgraziate e perseguitate" esclamò

Vautrin interrompendo - siete dunque a questo punto? Di

qui a qualche giorno, penserò io alle vostre cose, e vedrete

che tutto andrà bene.

-Oh!, signore - disse Vittorina, dando uno sguardo umido e

insieme ardente a Vautrin, che non se ne commosse - se

conoscete un mezzo per arrivare a mio padre, ditegli che il

suo affetto e l'onore di mia madre mi sono più preziosi di

tutte le ricchezze del mondo. Se riuscirete a ottenere che

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egli mitighi la sua ostinazione, pregherò il buon Dio per voi.

Siate sicuro d'una riconoscenza...

- "A lungo ho corso il mondo" - cantò Vautrin con voce

ironica. In quel momento Goriot, la signorina Michonneau,

Poiret discesero, attratti forse dall'odore della salsa che

Silvia stava facendo per cucinare gli avanzi del montone.

Quando i sette commensali si misero a tavola augurandosi

il buon giorno, suonarono le dieci e si sentì dalla strada il

passo dello studente.

- Ah!, bene, signor Eugenio - disse Silvia - oggi farete

allora colazione con tutti gli altri.

Lo studente salutò i pensionanti e si mise a sedere accanto

a papà Goriot.

- Mi è capitata una strana avventura - disse servendosi una

abbondante porzione di montone e tagliandosi un pezzo di

pane che la signora Vauquer misurava sempre con l'occhio.

- Un'avventura! - fece Poiret.

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- Ebbene, perché ve ne meravigliereste, vecchio

parruccone? disse Vautrin a Poiret. - Il signore è proprio

fatto per averle.

La signorina Taillefer fece scivolare timidamente uno

sguardo sul giovane studente.

- Raccontateci la vostra avventura - disse la signora

Vauquer.

- Ieri mi trovavo al ballo della signora viscontessa de

Beauséant, una mia cugina che ha una magnifica casa, con

stanze tappezzate di seta, e che ci ha offerto insomma una

festa superba, dove mi sono divertito come un re...

- Attìno - disse Vautrin interrompendolo di netto.

- Signore - riprese vivacemente Eugenio - che volete dire

con questo?

- Dico "attìno", perché i reattini si divertono molto più dei

re.

-E' vero: io preferirei essere quest'uccellino senza pensieri,

piuttosto che un re, in quanto.. - fece Poiret, l'"idemista".

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- Breve - riprese lo studente tagliandogli la parola - ballo

con una delle più belle donne della festa, una contessa

incantevole, la più deliziosa creatura che abbia mai visto.

Aveva fiori di pesco tra i capelli, sul fianco il più bel

mazzolino di fiori naturali profumatissimi; ma, via!, avreste

dovuto vederla, è impossibile descrivere una donna

nell'animazione della danza.

Ebbene!, stamane ho incontrato la divina contessa, verso

le nove, a piedi, in via dei Grès. Oh!, il cuore mi ha dato un

balzo, credevo...

- Che lei venisse qui - disse Vautrin, lanciando uno sguardo

profondo allo studente. - Andava certamente da papà

Gobseck, un usuraio. Se frugate nei cuori delle donne, a

Parigi, vi troverete l'usuraio prima dell'amante. La vostra

contessa si chiama Anastasia de Restaud, e abita in via

dell'Helder. - A questo nome lo studente guardò fisso

Vautrin. Papà Goriot sollevò di scatto la testa, gettò sui due

interlocutori uno sguardo luminoso e pieno d'inquietudine,

che sorprese i pensionanti.

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- Cristoforo arriverà troppo tardi, e lei ci sarà andata - si

disse fra sé e sé dolorosamente Goriot.

- Ho indovinato - disse Vautrin curvandosi all'orecchio della

signora Vauquer.

Goriot mangiava macchinalmente senza sapere quel che

mangiava. Non era mai apparso così stupido e più assorto

come in quel momento.

- Chi diavolo, signor Vautrin, ha potuto dirvi il suo nome?

domandò Eugenio.

- Ah, ah!, ecco - rispose Vautrin. - Papà Goriot lo sapeva

bene, lui ! E perché non dovrei saperlo io?

- Il signor Goriot? - esclamò lo studente.

- Ah, dunque! - disse il povero vecchio. - Era proprio tanto

bella, ieri?

- Chi?

- La signora de Restaud.

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- Guardate il vecchio pezzente - disse la signora Vauquer a

Vautrin - come gli si accendono gli occhi.

- Che la mantenga lui? - disse sottovoce la signorina

Michonneau allo studente.

- Oh!, sì, era straordinariamente bella - riprese Eugenio,

che papà Goriot intanto guardava avidamente. - Se la

signora de Beauséant non fosse stata lì, la mia divina

contessa sarebbe stata la regina del ballo; i giovani non

ammiravano che lei, io ero il dodicesimo iscritto nella sua

lista, lei ballava tutte le contraddanze. Le altre signore

morivano d'invidia. Se c'è stata ieri una creatura felice,

quella era lei. E' proprio giusto dire che non c'è nulla di più

bello che fregata a vela, cavallo al galoppo e donna che

balla.

- Ieri all'apogeo della fortuna, da una duchessa disse

Vautrin;- stamane in fondo alla scala, da un usuraio: ecco

le Parigine. Se i loro mariti non possono mantenerle nel

lusso sfrenato, si vendono.

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Se non sanno vendersi, sventrerebbero la madre per

cercarvi di che brillare. Ne fanno di tutti i colori. Lo

sappiamo, lo sappiamo!

Il viso di papà Goriot, che s'era acceso come il sole di una

bella giornata ascoltando lo studente, divenne cupo alla

crudele osservazione di Vautrin.

- Ma dunque - disse la signora Vauquer - qual è la vostra

avventura? Le avete parlato? Le avete chiesto se voleva

imparare il Diritto?

- Lei non mi ha visto - rispose Eugenio. - Ma incontrare una

delle più graziose donne di Parigi in via dei Grès, alle nove,

una donna rientrata dal ballo alle due del mattino, non è

singolare? Solo a Parigi si hanno queste avventure.

- Però, ce ne sono di più strane ancora - esclamò Vautrin.

LasignorinaTaillefer aveva appena ascoltato questa

conversazione, tanto era preoccupata per il tentativo cui si

accingeva. La signora Couture le fece segno di alzarsi

perché si andasse a vestire. Quando le due uscirono, papà

Goriot le imitò.

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- Ebbene, avete visto? - disse la signora Vauquer a Vautrin

e agli altri pensionanti. - E' chiaro che s'è rovinato per

quelle donne.

- Non potrò mai credere - esclamò lo studente - che la

bella contessa de Restaud sia di papà Goriot.

- Ma - gli disse Vautrin interrompendolo - noi non ci

teniamo affatto a farvelo credere. Siete ancora troppo

giovane per conoscere bene Parigi; vedrete più in là che ci

s'incontrano quelli che noi chiamiamo: "sottanieri"... (A

queste parole, la signorina Michonneau guardò Vautrin con

un'aria d'intelligenza).

L'avreste detto un cavallo da parata che sente il suono

della tromba. Ah!, ah! - fece Vautrin interrompendosi per

gettarle uno sguardo profondo - non abbiamo avuto anche

noi le nostre passioncelle? (La vecchia zitella abbassò gli

occhi, come una suora che veda delle statue). Ebbene, -

egli riprese quei tipi sposano un'idea, e non la mollano.

Essi non hanno sete che d'una certa acqua presa a una

certa fontana, e spesso stagnante; per poterla bere,

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venderebbero pure le loro mogli, i loro figli, venderebbero

l'anima al diavolo. Per alcuni, la fontana è il gioco, la borsa,

una collezione di quadri o d'insetti, la musica; per altri, è

una donna che sa cucinar loro qualche ghiottoneria. A

questi potreste offrire tutte le donne della terra, essi se ne

infischiano, vogliono solo quella che soddisfa le loro

passioni.

Spesso questa donna non li ama affatto, li maltratta, vende

loro molto care poche briciole di appagamento; ebbene,

questi capi ameni non si stancano, e porterebbero l'ultima

coperta al Monte di Pietà per dar loro l'ultimo scudo. Papà

Goriot è uno di questi. La contessa lo sfrutta perché lui è

discreto, ed ecco il bel mondo!

Il pover'uomo non pensa che a lei. Fuori della sua

passione, voi lo vedete, è un bestione. Mettetelo su tale

terreno, il suo viso scintilla come un diamante. Non è

difficile indovinare il suo segreto. Egli ha portato

stamattina a far fondere l'argento dorato, e l'ho visto

entrare da papà Gobseck in via dei Grès.

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Seguitemi bene! Tornando, ha mandato dalla contessa

quello scemo di Cristoforo, che ci ha fatto vedere l'indirizzo

della lettera in cui era contenuta una cambiale all'ordine. E'

chiaro che, se la contessa andava anche lei dal vecchio

usuraio, la cosa doveva essere urgente. Papà Goriot ha

galantemente pagato per lei. Non è necessario faticare

molto per vederci chiaro. Ciò vi prova, mio giovane

studente, che mentre la vostra contessa rideva, ballava,

faceva la smorfiosa, lasciava dondolare i suoi fiori di pesco,

e stringeva la veste, era sulle spine, come si dice,

pensando alle cambiali protestate, o a quelle dell'amante.

- Mi fate venire una voglia matta di sapere la verità. Andrò

domani dalla signora de Restaud - esclamò Eugenio.

- Sì - disse Poiret - bisogna andare domani dalla signora de

Restaud.

- Ci troverete forse il bonuomo Goriot, a riscuotere il

premio delle sue galanterie.

- Ma - disse Eugenio con un'aria di disgusto - la vostra

Parigi è dunque proprio un pantano.

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- E un curioso pantano - riprese Vautrin. - Chi ci s'infanga

in vettura è una persona per bene, chi ci s'infanga a piedi è

un briccone. Se vi tocca portar via a qualcuno una cosa

qualsiasi, siete messo alla berlina sulla piazza del Palazzo

di Giustizia come una curiosità. Rubate un milione, e siete

mostrato a dito nei salotti come un esempio di virtù. Voi

pagate trenta milioni alla Gendarmeria e alla Giustizia per

tenere in piedi questa morale.

Che bella cosa!

- Come - esclamò la signora Vauquer - papà Goriot

avrebbe dato a fondere il suo servizio da colazione

d'argento dorato?

- Sul coperchio c'erano due tortorelle? - domando Eugenio.

- Proprio così.

- Ci teneva tanto! Piangeva, quando ha contorto la tazza e

il piattino. L'ho visto per caso - disse Eugenio.

- Ci teneva come alla sua vita - aggiunse la vedova.

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- Vedete quanto il bonuomo è innamorato - esclamò

Vautrin. Quella donna sa ben lusingarlo.

Lo studente risalì in camera. Vautrin uscì. Pochi istanti

dopo, la signora Couture e Vittorina montarono in una

vettura da piazza, che Silvia era andata a cercare per loro.

Poiret offrì il braccio alla signorina Michonneau e tutti e due

andarono a passeggio al Jardin des Plantes, approfittando

delle due belle ore della giornata.

- E allora, eccoli là quasi sposati - disse la grossa Silvia.

Escono oggi insieme per la prima volta. Sono tutti e due

così secchi che, se si urtano, sprizzeranno faville come un

acciarino.

- Attenzione allo scialle della signorina Michonneau - disse

ridendo la signora Vauquer - prenderà come un'esca.

Alle quattro del pomeriggio, Goriot, quando rientrò, vide,

alla luce di due lampade fumose, Vittorina con gli occhi

rossi. La signora Vauquer ascoltava il racconto della visita

infruttuosa fatta al signor Taillefer nella mattinata.

Annoiato di ricevere sua figlia e quella vecchia donna,

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Taillefer le aveva lasciate giungere fino a lui per spiegarsi

con loro.

- Mia cara signora - diceva la signora Couture alla signora

Vauquer - pensate che non ha neppure fatto sedere

Vittorina, che è rimasta sempre in piedi. A me ha poi detto,

senza andare in collera, con la massima freddezza, di

risparmiarci il disturbo di andare da lui; che la signorina,

senza chiamarla sua figlia, danneggiava se stessa

importunandolo così (una volta all'anno, il mostro !); che,

avendo sposato senza dote la madre di Vittorina, lei non

aveva nulla da pretendere; insomma, le cose più dure, da

far sciogliere in lacrime la povera piccola. Lei s'è gettata

allora ai piedi del padre, e gli ha detto coraggiosamente

che insisteva tanto solo per sua madre, e che gli avrebbe

obbedito, senza far commenti; ma che lo supplicava di

leggere il testamento della povera morta. Lei ha preso la

lettera e gliela ha presentata, con le più belle e più sentite

espressioni: non so dove le è andate a trovare, Dio gliele

dettava, perché la povera figliuola era così bene ispirata

che io, ascoltandola, piangevo come un vitello. Sapete che

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cosa faceva intanto quell'orrendo uomo? Si tagliava le

unghie; poi, ha preso la lettera che la povera signora

Taillefer aveva bagnato con le sue lacrime, e l'ha gettata al

fuoco dicendo: "Va bene!". Ha fatto il gesto di risollevare la

figlia, che gli stava prendendo le mani per baciarle, ma le

ha ritirate. Non è una scelleratezza? Quello scioccone del

figlio è entrato, e non ha neppure salutato la sorella .

- Ma questi sono proprio due mostri! - disse papà Goriot.

- E poi - soggiunse la signora Couture senza raccogliere

l'esclamazione del bonuomo - padre e figlio se ne sono

andati salutandomi e pregandomi di scusarli, perché

avevano affari urgenti. Ecco com'è andata la nostra visita.

Ma almeno ha veduto sua figlia. Non capisco come possa

non riconoscerla: gli somiglia come una goccia d'acqua.

I pensionanti, interni ed esterni, arrivarono gli uni dopo gli

altri augurandosi scambievolmente il buon giorno e

dicendosi quei nonnulla che esprimono, presso certi ceti

parigini, uno spirito lèpido in cui la stoltizia è l'ingrediente

principale, e il cui merito consiste particolarmente nel gesto

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che li accompagna o nel modo di pronunciarli. Questa

specie di gergo varia continuamente.

La facezia che ne è il principio non ha mai più di un mese

di vita. Un avvenimento politico, un processo in corte

d'Assise, una canzonetta, i frizzi di un attore, tutto serve

ad alimentare questo gioco dello spirito, che consiste

soprattutto a considerare le idee e le parole come volani e

a rimandarsele con le racchette.

La recente invenzione del Diorama, che portava l'illusione

dell'ottica a un grado più alto dei Panorami, aveva

introdotto in alcuni studi di pittori la facezia di parlare in

"rama", una specie di morbo che un giovane artista,

frequentatore della pensione Vauquer, vi aveva inoculato.

- Ebbene, signor Poiret - disse l'impiegato al Museo - come

va la vostra "saluterama"? - Poi, senza aspettare la

risposta: Signore voi siete addolorate - disse alla signora

Couture e a Vittorina.

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- Andiamo a "mangere" - esclamò Orazio Bianchon, uno

studente di medicina, amico di Rastignac; - il mio stomaco

è sceso "usque ad talones"..

- Fa un famoso "frettorama"! - disse Vautrin. Scansatevi

dunque, papà Goriot! Che diamine! ll vostro piede prende

tutta la bocca della stufa.

- Illustre signor Vautrin - disse Bianchon - perché dite

"frettorama"? C'è uno sbaglio, si dice "freddorama".

- No - disse l'impiegato al Museo - secondo la regola si

deve dire "frettorama": ho fretto ai piedi.

- Ah! Ah!

- Ecco sua eccellenza il marchese di Rastignac, dottore in

dirittorovescio - esclamò Bianchon afferrando Eugenio per

il collo e stringendolo in modo da quasi soffocarlo. - Ohé!,

voi altri, ohé! - La signorina Michonneau entrò pian piano,

salutò i commensali senza far parola, e andò a sedersi

vicino alle tre donne.

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- Quella mi fa battere sempre i denti, quella vecchia

cornacchia- disse a bassa voce Bianchon a Vautrin

indicandogli la signorina Michonneau. - Io che sto

studiando il sistema di Gall, riscontro in lei le bozze di

Giuda.

- Signore, l'avete conosciuta?

- E chi non la conosce? Parola mia d'onore, quella vecchia

zitella pallida mi fa l'effetto di quei lunghi vermi che

finiscono per consumare una trave.

- Ecco quel che è, giovanotto - disse il quadragenario

lisciandosi i favoriti.

E rosa, ella ha vissuto quanto vivon le rose, Quanto un

mattino.

- Ah! ah!, ecco una famosa "zupporama" - disse Poiret

vedendo Cristoforo che entrava portando rispettosamente

la zuppa.

- Vogliate perdonarmi, signore - disse la signora Vauquer -

ma non è che una zuppa di cavoli.

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I giovanotti scoppiarono a ridere.

- Toccato, Poiret!

- Poirrette toccato!

- Segnate due punti alla signora Vauquer - disse Vautrin.

- Ma avete visto che nebbia, stamattina? - disse

l'impiegato.

- Era - disse Bianchon - una nebbia frenetica, mai vista,

una nebbia lugubre, malinconica, verde, bolsa, una nebbia

Goriot.

- "Goriorama" - disse il pittore - perché non ci si vedeva

più in là di un palmo.

- Hé!, milord Gaoriotte, "loro star parlando di vui".

Seduto all'infimo posto della tavola, vicino alla porta

attraverso la quale passava il domestico, papà Goriot

sollevò la testa odorando, per una vecchia abitudine

commerciale che talvolta ricompariva, un pezzo di pane

che stava sotto la sua salvietta.

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- Ebbene ! - gli gridò aspramente la signora Vauquer, con

una voce che dominò il rumore dei cucchiai, delle scodelle

e delle voci - non è forse buono quel pane?

- Al contrario, signora - le rispose - è fatto con la farina di

Etampes, di prima qualità.

- Come lo capite? - gli domandò Eugenio.

- Dalla bianchezza, dal gusto.

- Dal gusto del naso, visto che l'odorate - disse la signora

Vauquer. - State diventando così economo, che finirete per

trovare il modo di nutrirvi fiutando l'aria della cucina.

- Prendete allora un brevetto d'invenzione esclamò

l'impiegato al Musco - e farete una bella fortuna.

- Ma no, lui fa così per persuadersi di essere stato

vermicellaio - disse il pittore.

- Il vostro naso, è dunque una storta - chiese l'impiegato al

Museo.

- Stor-cosa? - fece Bianchon.

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- Stor-tura.

- Stor-piamento.

- Stor-ione.

- Stor-nello.

- Stor-mo.

- Stor-dito.

- Stor-iella.

- Stor-norama.

Queste otto risposte partirono da tutte le parti della sala

con la rapidità d'un fuoco di fila, e fecero tanto più ridere in

quanto il povero papà Goriot guardava i commensali con

un'aria ingenua, come un uomo che cerca di capire una

lingua straniera.

- Stor? - domandò a Vautrin - che gli stava vicino.

- Stor-ta ai piedi, vecchio mio! - rispose Vautrin

incalcandogli il cappello con una pacca sulla testa da

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farglielo scendere fino agli occhi. Il povero vecchio,

stupefatto da quel brusco colpo rimase, per un momento,

immobile. Cristoforo portò via la scodella del bonuomo,

credendo avesse finito la minestra; in modo che, quando

Goriot, dopo essersi rialzato il cappello, riprese il cucchiaio,

lo batté sulla tavola. Tutti i commensali scoppiarono dal

ridere.

- Signore - disse il vecchio - voi siete un impertinente, e se

vi permettete di darmi un'altra volta simili incalcate...

- Ebbene!, e allora?, papà - disse Vautrin interrompendolo.

- Ebbene!, voi la pagherete cara un giorno o l'altro...

- All'inferno, non è vero? - disse il pittore - in

quell'angoletto nero dove si mettono i bambini cattivi!

- Ma, signorina - disse Vautrin a Vittorina - voi non

mangiate nulla. Il babbo si è mostrato recalcitrante?

- Un orrore - fece la signora Couture.

- Bisogna ricondurlo alla ragione - disse Vautrin.

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- Però - disse Rastignac, che era assai vicino a Bianchon -

la signorina potrebbe intentare un processo per gli

alimenti, perché non mangia affatto. Eh!, eh!, guardate

come papà Goriot sta osservando la signorina Vittorina.

Il vecchio non badava a mangiare per contemplare la

povera ragazza, dal cui volto traspariva un dolore vero, il

dolore della figlia non riconosciuta che ama suo padre.

- Mio caro - disse Eugenio a bassa voce - ci siamo

ingannati sul conto di papà Goriot. Non è né un imbecille,

né un uomo senza nervi. Applicagli il sistema Gall e dimmi

poi quel che ne pensi.

Gli ho visto questa notte contorcere un piatto d'argento

dorato come fosse stato di cera, e in questo momento

l'espressione del suo viso indica sentimenti fuori

dell'ordinario. La sua vita è così misteriosa che mi sembra

valga la pena d'essere studiata. Sì, Bianchon, tu hai un bel

ridere, ma io non scherzo.

- Quest'uomo è un caso clinico - disse Bianchon -

d'accordo, se accetta, lo anatomizzo.

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- No, palpagli la testa.

- Ah!, bravo, la sua stoltizia può esser contagiosa!

L'indomani Rastignac si vestì in modo assai elegante e si

recò, verso le tre del pomeriggio, dalla signora de Restaud,

abbandonandosi lungo la strada a quelle speranze

storditamente folli, che fanno la vita dei giovani così bella

d'emozioni; essi non calcolano allora né gli ostacoli né i

pericoli, vedono sempre il successo, poetizzano la loro

esistenza col solo gioco dell'immaginazione, e divengono

infelici o tristi per il fallimento di progetti animati solo dai

loro desideri sfrenati; se costoro non fossero ignari e

timidi, il mondo sociale sarebbe impossibile. Eugenio

camminava usando mille precauzioni per non infangarsi,

ma camminava pensando a quel che avrebbe detto alla

signora de Restaud; faceva provviste di spirito, inventava

le risposte di una conversazione immaginaria, preparava le

sue battute argute, le sue frasi alla Talleyrand, supponendo

piccole circostanze favorevoli alla dichiarazione d'amore su

cui fondava il proprio avvenire. Lo studente, tuttavia,

s'infangò, dovette farsi pulire gli stivaletti e spazzolare i

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pantaloni al Palais- Royal. "Se fossi ricco", disse fra sé e sé

cambiando una moneta da cento soldi che aveva portato

per qualche imprevisto, sarei andato in carrozza, e avrei

potuto pensare con agio ai casi miei!".

Finalmente giunse in via di Helder e chiese della contessa

de Restaud. Con la rabbia fredda di un uomo sicuro di

trionfare un giorno, subì l'occhiata sprezzante di coloro che

lo avevano visto attraversare il cortile a piedi, senza aver

sentito il rumore d'una carrozza alla porta. Quell'occhiata

fu per lui tanto più penosa in quanto s'era reso conto della

sua inferiorità entrando nel cortile, ove scalpitava un bel

cavallo riccamente attaccato a uno di quei carrozzini

sgargianti, ostentazioni del lusso di una vita dissipata e

sottintesi dell'abitudine a tutte le felicità parigine. Si mise

di cattivo umore. I cassetti aperti nel suo cervello, che

contava di trovare pieni di spirito, si chiusero; diventò

stupido. Aspettando la risposta della contessa, alla quale

un domestico annunciava i nomi dei visitatori, Eugenio si

appoggiò su di un piede solo dinanzi a una finestra

dell'anticamera, appoggiò il gomito sulla maniglia della

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finestra, e guardò macchinalmente nella corte. Il tempo

non gli passava mai, e già se ne sarebbe andato via, se

non avesse avuto quella tenacia meridionale che fa prodigi

quando segue la linea retta.

- Signore - disse il domestico - la signora è ora nel suo

salottino privato, molto occupata, e non mi ha neppure

risposto; ma, se il signore vuol passare in salotto, c'è già

qualcuno. - Pur ammirando lo spaventevole potere di

questa gente che, con una sola parola, accusa o giudica i

propri padroni, Rastignac aprì la porta da cui era uscito il

domestico certamente apposta per far credere a tali

domestici che egli conosceva bene i padroni di casa; ma

sbucò sventatamente in una stanza dove si trovavano lumi,

credenze, un apparecchio per riscaldare gli asciugamani del

bagno, e che conduceva a un corridoio oscuro e a una scala

segreta. Le risa soffocate che udì nell'anticamera portarono

al colmo la sua confusione.

- Signore, il salotto è da questa parte - gli disse il

domestico con quel falso rispetto che sembra uno scherno

di più.

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Eugenio tornò sui suoi passi con una tale precipitazione,

che urtò contro una vasca da bagno, ma resse fortemente

nella mano il cappello in modo da impedire che gli ci

cadesse dentro. In quel momento un uscio si aprì in fondo

al lungo corridoio illuminato da una piccola lampada, e

Rastignac sentì nello stesso tempo la voce della signora

Restaud, quella di Papà Goriot e il suono di un bacio.

Rientrò nella sala da pranzo, la traversò, seguì il domestico

e rientrò nel primo salotto, dove rimase fermo dinanzi alla

finestra, accorgendosi solo allora che dava nel cortile. Egli

voleva vedere se quel papà Goriot era realmente il suo

papà Goriot. Il cuore gli batteva in modo strano, si

rammentava delle spaventose riflessioni di Vautrin. Il

domestico attendeva Eugenio alla porta del salotto, ma da

questo uscì a un tratto un elegante giovane che disse con

impazienza: - Me ne vado, Maurizio. Direte alla signora

contessa che l'ho attesa per più di mezz'ora. - Questo

impertinente, il quale senza dubbio aveva diritto di esserlo,

canticchiò qualche gorgheggio all'italiana dirigendosi verso

la finestra dov'era Eugenio, sia per vedere la faccia dello

studente, sia per guardare in cortile.

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- Ma il signor conte farebbe meglio ad aspettare ancora un

istante, la signora ha finito - disse Maurizio ritornando in

anticamera.

In quel momento, papà Goriot sbucava vicino al portone

dall'uscita della scaletta. Il bonuomo tendeva l'ombrello e

si accingeva ad aprirlo, senza vedere che il portone era

stato aperto per far passare un giovane decorato, che

guidava un tilbury. Papà Goriot ebbe appena il tempo di

trarsi indietro per non essere schiacciato. La seta

dell'ombrello aveva spaventato il cavallo, che fece un

leggero scarto verso la gradinata. Il giovane voltò la testa

incollerito, guardò papà Goriot, e gli fece, prima che

uscisse, un saluto che mostrava la considerazione obbligata

che si concede agli usurai di cui si ha bisogno, o quel

rispetto necessario che esige un uomo bacato, di cui più

tardi si arrossisce. Papà Goriot rispose con un piccolo

saluto amichevole, pieno di bonomia. Tutto ciò accadde con

la rapidità d'un baleno.

Troppo assorto per accorgersi che non era solo, Eugenio

sentì a un tratto la voce della contessa.

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- Ah!, Massimo, voi ora ve ne andavate - disse con un tono

di rimprovero a cui s'univa un po' di stizza.

La contessa non aveva fatto attenzione all'arrivo del

tilbury.

Rastignac si volse di scatto e vide la contessa in una

civettuola vestaglia di cascemir bianco, a nastri rosa,

pettinata con una certa negligenza, come lo sono le

parigine al mattino; era profumata, aveva senza dubbio

fatto il bagno, e la sua bellezza, per così dire ammorbidita,

sembrava più voluttuosa; i suoi occhi erano umidi. L'occhio

dei giovani sa vedere tutto; il loro animo si unisce alle

irradiazioni della donna come una pianta aspira nell'aria le

sostanze che le sono necessarie; Eugenio sentì la

freschezza delle mani di quella donna senza aver bisogno

di toccarle. Egli vedeva, attraverso il cascemir, i toni rosa

del busto che la vestaglia, leggermente dischiusa, lasciava

a momenti scoperto, e sul quale il suo sguardo si stendeva.

L'espediente delle stecche non occorreva alla contessa,

bastava la sola cintura a marcarle la flessuosa vita, il suo

collo invitava all'amore, i suoi piedi eran graziosi nelle

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pantofoline. Quando Massimo prese quella mano per

baciarla, solo allora Eugenio si accorse di lui e la contessa,

di Eugenio.

- Ah!, siete voi, signor de Rastignac, sono lieta di vedervi

disse con un tono al quale sanno ubbidire le persone di

spirito. Massimo guardava alternativamente Eugenio e la

contessa in modo assai significativo per fare andare via

l'intruso.

- Suvvia, mia cara, spero che metterai questo stupidello

alla porta!

Questa frase era la traduzione chiara e intelligibile degli

sguardi del giovane impertinentemente fiero, che la

contessa aveva chiamato Massimo, e del quale lei

consultava il viso, con quell'intento sottomesso che rivela

tutti i segreti di una donna senza che essa se ne accorga.

Rastignac provò un odio violento per quel giovane. Innanzi

tutto i bei capelli biondi e ben pettinati di Massimo gli

fecero capire quanto i suoi fossero orribili. Poi Massimo

aveva stivaletti fini e puliti, mentre i suoi, malgrado

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l'attenzione che aveva messo nel camminare, erano

ricoperti d'un leggero strato di fango. Infine Massimo

indossava un soprabito che gli stringeva elegantemente i

fianchi e lo faceva somigliare a una graziosa donna, mentre

Eugenio portava, alle due e mezza, un abito nero. L'accorto

figlio della Charente sentì la superiorità che l'abbigliamento

conferiva a quel dandy, sottile e alto, dall'occhio chiaro, dal

colorito pallido, un di quegli uomini capaci di mandare in

rovina degli orfani. Senza attendere la risposta d'Eugenio,

la signora de Restaud corse come a volo spiegato nell'altro

salotto, facendo svolazzare i lembi della vestaglia che

s'avvolgevano e si dispiegavano, in modo da darle

l'apparenza d'una farfalla; e Massimo la seguì. Eugenio, su

tutte le furie, seguì Massimo e la contessa. I tre personaggi

si trovarono perciò di fronte all'altezza del caminetto, in

mezzo al salotto principale. Lo studente sapeva bene che

avrebbe dato impaccio all'odioso Massimo; ma, a rischio di

spiacere alla signora de Restaud, volle dare impaccio al

dandy. A un tratto, rammentandosi di aver visto il

giovanotto al ballo della signora de Beauséant, comprese

quel che rappresentasse Massimo per la signora de

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Restaud; e, con quell'audacia giovanile che fa commettere

grandi sciocchezze od ottenere grandi successi, si disse:

"Ecco il mio rivale, voglio trionfare su di lui".

Imprudente!, ignorava che il conte Massimo de Trailles era

solito farsi insultare, per poter poi tirare per primo e

uccidere l'avversario. Eugenio era un provetto cacciatore,

ma non aveva ancora abbattuto venti fantocci su ventidue

in un tiro a segno. Il giovane conte si gettò in una poltrona

vicino al fuoco, prese le molle, e smosse i tizzoni con una

mossa così violenta, così scontenta, che il bel volto

d'Anastasia espresse una subitanea afflizione. La giovane

donna si volse verso Eugenio e gli diede uno di quegli

sguardi freddamente interrogativi che dicono tanto chiaro:

"Perché non ve ne andate?", da far subito pronunciare alle

persone bene educate di quelle frasi che bisognerebbe

chiamare:

frasi d'uscita.

Eugenio assunse un'aria garbata e disse:

- Signora, avevo urgenza di vedervi per...

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S'interruppe senza aggiungere altro. Un uscio s'aprì. Il

signore del tilbury apparve, senza cappello, non salutò la

contessa, guardò preoccupato Eugenio, e stese la mano a

Massimo, dicendogli:

"Buon giorno", con un'espressione fraterna che sorprese

singolarmente Eugenio. I giovani di provincia non sanno

quanto sia dolce la vita a tre.

- Il signor de Restaud - disse la contessa allo studente,

presentandogli suo marito.

Eugenio s'inchinò profondamente.

- Signore - lei disse continuando e presentando Eugenio al

conte de Restaud - il signor de Rastignac, parente della

signora viscontessa de Beauséant dalla parte dei Marcillac,

e che ho avuto il piacere d'incontrare all'ultimo suo ballo.

"Parente della signora viscontessa de Beauséant dalla parte

dei Marcillac"! Queste parole, che la contessa pronunciò

quasi enfaticamente per quella specie d'orgoglio che prova

una padrona di casa nel dimostrare che da lei vengono solo

persone distinte, ebbero un effetto magico; il conte

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perdette il suo tono freddamente cerimonioso e salutò lo

studente.

- Molto lieto - disse - signore, di poter fare la vostra

conoscenza.

Lo stesso Massimo de Trailles diede a Eugenio uno sguardo

inquieto e smise subito la sua aria impertinente. Questo

colpo di bacchetta magica, dovuto al potente intervento di

un nome, aprì trenta caselle nel cervello del Meridionale, e

gli fece ritornare lo spirito che s'era preparato. Una

subitanea luce gli fece vedere chiaro nell'atmosfera dell'alta

società parigina, ancora tenebrosa per lui. La casa

Vauquer, papà Goriot, erano in quel momento ben lungi dal

suo pensiero.

- Credevo la famiglia dei Marcillac estinta! - disse il conte

de Restaud a Eugenio.

- Sì, signore - questi rispose. - Il mio prozio, il cavaliere de

Rastignac, sposò l'erede della famiglia de Marcillac. Egli

ebbe una sola figlia, che sposò il maresciallo de

Clarimbault, avo materno della signora de Beauséant. Noi

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siamo il ramo cadetto, ramo tanto più povero in quanto il

mio prozio, vice-ammiraglio, ha tutto per perduto al

servizio del re. Il governo rivoluzionario non ha voluto

ammettere i nostri crediti alla liquidazione della compagnia

delle Indie.

- Il vostro signor prozio non era forse il comandante del

"Vengeur" prima del 1789?

- Precisamente.

- Allora egli deve aver conosciuto mio nonno, che

comandava il "Warwick".

Massimo alzò lievemente le spalle guardando la signora de

Restaud, come per dirle: "Se si mette a parlare di marina

con quello lì, siamo perduti". Anastasia capì lo sguardo del

signor de Trailles.

Con quella ammirevole presenza di spirito che hanno le

donne sorrise dicendo: - Venite con me, Massimo, ho

qualcosa da chiedervi. Signori, vi lasceremo navigar di

conserva sul "Warwick" e sul "Vengeur".

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Si alzò e fece un segno d'ironico tradimento a Massimo,

che insieme a lei prese la strada del salottino. Non appena

la coppia "morganatica", graziosa espressione tedesca che

non ha equivalente in francese, raggiunse la porta, il conte

interruppe la conversazione con Eugenio.

- Anastasia!, ma restate qui, mia cara - esclamò con

malumore- sapete bene che...

- Torno, torno - disse lei interrompendolo - solo un

momento per dire a Massimo una cosa di cui voglio

incaricarlo.

Tornò subito. Come tutte le donne che, obbligate a

rispettare il carattere del marito per poter fare il loro

comodo, sanno fin dove possono arrivare per non perdere

una fiducia preziosa, e che a tale scopo non lo urtano nelle

piccole cose della vita, la contessa aveva capito dalle

inflessioni della voce del conte che non era prudente

trattenersi nel salottino. Questi contrattempi erano dovuti

alla presenza di Eugenio. Perciò la contessa indicò lo

studente con un'aria e un gesto pieni di dispetto a

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Massimo, il quale disse molto epigrammaticamente al

conte, a sua moglie e a Eugenio:

- Sentite, voi avete da parlare d'affari, non voglio

disturbarvi; arrivederci. - E uscì precipitosamente.

- Ma restate, Massimo! - gridò il conte.

- Venite a pranzo da noi - disse la contessa che, lasciando

ancora una volta Eugenio e il conte, seguì Massimo nel

primo salotto, ove rimasero insieme quel tanto da credere

che nel frattempo il signor de Restaud avrebbe liquidato

Eugenio.

Rastignac li sentiva ora scoppiar dal ridere, ora parlare, ora

tacere; ma il malizioso studente faceva intanto lo spiritoso

col signor de Restaud, lo adulava o lo imbarcava in

discussioni, per rivedere la contessa e sapere quali erano le

sue relazioni con papà Goriot. Quella donna,

evidentemente innamorata di Massimo, quella donna,

padrona di suo marito, legata segretamente al vecchio

vermicellaio, gli sembrava tutto un mistero. Egli voleva

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penetrare in tale mistero, sperando così di poter regnare

da sovrano su quella donna così squisitamente Parigina.

- Anastasia - disse il conte, chiamando di nuovo sua

moglie.

- Mio povero Massimo - disse lei al giovanotto - bisogna

rassegnarsi. A questa sera... - Spero, Nasia - le disse

all'orecchio - che darete l'ordine di non far più entrare quel

ragazzotto i cui occhi si accendevano come carboni quando

la vostra vestaglia s'apriva. Sarebbe capace di farvi delle

dichiarazioni d'amore, vi comprometterebbe, e mi

costringerebbe a ucciderlo.

- Siete pazzo, Massimo? - disse lei. - Questi studentelli non

sono forse, al contrario, eccellenti parafulmini? Troverò il

modo, tuttavia, di farlo prendere in uggia da Restaud.

Massimo scoppiò dal ridere e uscì, seguito dalla contessa,

che si affacciò alla finestra per vederlo salire in carrozza, e

far scalpitare il cavallo agitando la frusta. Tornò solo

quando il portone fu richiuso.

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- Ma sai, mia cara - le disse il conte quando rientrò - il

fondo dove risiede la famiglia del signore non è lontano da

Verteuil, sulla Charente. Il prozio del signore e mio nonno

si conoscevano.

- Felice di trovarmi fra conoscenti - disse la contessa

distratta.

- Più di quanto non lo crediate - disse a bassa voce

Eugenio.

- Come! - fece ella vivamente.

- Ma - riprese lo studente - ho visto or ora uscire da casa

vostra un signore col quale sono porta a porta, nella stessa

pensione:

papà Goriot.

A questo nome adorno della parola padre il conte che stava

attizzando il fuoco, gettò le molle nel fuoco, come se gli

avessero scottato le mani, e si alzò.

- Signore, avreste potuto anche dire: il signor Goriot -

esclamò.

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La contessa dapprima impallidì, vedendo lo scatto del

marito, poi arrossì, e rimase evidentemente imbarazzata;

poi, rispose con voce che volle render naturale, e con

un'aria falsamente disinvolta:

- E' impossibile conoscere persona cui noi si voglia più

bene...- S'interruppe, guardò il pianoforte, come se si

destasse in lei qualche capriccio, e disse: - Vi piace la

musica, signore?

- Molto - rispose Eugenio, divenuto rosso e mortificato

dalla idea confusa di aver commesso una grossa

sciocchezza.

- Cantate? - domandò lei andando verso il pianoforte, di cui

toccò vivacemente tutti i tasti dal do più basso al fa più

alto. Rrrrah !

- No, signora.

Il conte de Restaud camminava intanto in lungo e in largo.

- Peccato, vi siete privato di un gran mezzo di successo.

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- "Ca-a-ro, ca-a-a-ro, ca-a-a-a-ro, non dubitar" cantò la

contessa.

Pronunciando il nome di papà Goriot, Eugenio aveva dato

un colpo di bacchetta magica, ma con un risultato contrario

a quello che avevano ottenuto le parole: parente della

signora de Beauséant.

Egli si trovava nella situazione di un uomo introdotto a

titolo di favore in casa di un collezionista di curiosità, e

che, urtando per inavvertenza in un armadio pieno di

statuine, faccia cadere tre o quattro teste male incollate.

Avrebbe voluto sprofondarsi in un abisso. L'espressione del

volto della signora de Restaud era sgarbata, fredda, e i

suoi occhi divenuti indifferenti sfuggivano quelli dello

sfortunato studente.

- Signora - egli disse - voi avete da parlare col signor de

Restaud, vogliate gradire i miei omaggi, e permettermi...

- Quando verrete - fece precipitosamente la contessa

fermando Eugenio con un gesto - fareste sempre al signor

de Restaud e a me il più grande piacere.

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Eugenio s'inchinò profondamente alla coppia e uscì, seguito

dal signor de Restaud il quale, nonostante le insistenze

dell'ospite perché non si disturbasse, lo accompagnò fino

all'anticamera.

- Ogni volta che il signore si presenterà alla porta - disse il

conte a Maurizio - né la signora né io ci saremo mai per lui.

Quando Eugenio mise il piede sulla gradinata, si accorse

che pioveva. "Insomma, si disse, sono venuto qui a

commettere una balordaggine di cui ignoro la causa e le

conseguenze, per di più ci rimetterò l'abito e il cappello.

Farei meglio a restarmene nel mio cantuccio a sgobbare sul

Diritto, a non pensare ad altro che a diventare un severo

magistrato. Posso io andare in società se, per destreggiarsi

convenientemente, occorrono un mucchio di carrozzini,

stivaletti verniciati, attrezzi indispensabili, catene d'oro,

guanti di daino che costano sei franchi, da calzare la

mattina, e guanti gialli tutte le sere? Oh, vecchio buffo d'un

papà Goriot!".

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Quando si trovò sotto il portone, il cocchiere d'una vettura

da nolo, che tornava certamente dall'aver accompagnato

una coppia di sposi e che non chiedeva di meglio che

rubare al padrone qualche corsa di contrabbando, fece

segno a Eugenio, vedendolo senza ombrello, in abito nero,

panciotto bianco, guanti gialli e stivaletti lucidi. Eugenio era

in preda a una di quelle rabbie sorde che spingono un

giovane ad affondarsi sempre più nell'abisso in cui è

caduto, quasi sperando di trovarvi una fortunata via di

scampo. Acconsentì con un movimento della testa

all'offerta del cocchiere, e salì nella vettura ove alcuni

bocciuoli di fiori d'arancio e alcuni fili argentati attestavano

che c'erano stati degli sposi.

- Dove va il signore? - chiese il cocchiere, che s'era già

tolto i guanti bianchi.

- Diamine! - si disse Eugenio - dato che mi sono gettato

allo sbaraglio, che almeno mi serva a qualche cosa!

- Andiamo al palazzo de Beauséant - aggiunse ad alta

voce.

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- Quale? - domandò il cocchiere.

Parola sublime, che confuse Eugenio. Questo novello uomo

elegante non sapeva che esistevano due palazzi de

Beauséant, ignorava quanto era ricco in fatto di parenti,

che non si curavano di lui.

- Il visconte de Beauséant, in via...

- Di Grenelle - disse il cocchiere scuotendo la testa e

interrompendolo. - Ma c'è anche il palazzo del conte e del

marchese de Beauséant, in via Saint-Dominique - egli

aggiunse, rialzando il predellino.

- Lo so bene - rispose Eugenio con un tono secco. - Oggi

tutti mi prendono dunque in giro! - si disse gettando il

cappello sui cuscini del sedile anteriore. - Questa è una

scappata che mi costerà quanto il riscatto d'un re. Ma

almeno farò una visita alla mia sedicente cugina in piena

forma aristocratica. Papà Goriot mi costa già per lo meno

dieci franchi, il vecchio scellerato! In fede mia!, voglio

raccontare la mia avventura alla signora de Beauséant, e

forse la farò ridere. Lei saprà certamente il mistero dei

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legami criminosi tra quel vecchio topo senza coda e quella

bella donna. E' meglio piacere a mia cugina che andare a

battere contro quella donna immorale, che mi fa

l'impressione sia molto costosa. Se il solo nome della bella

viscontessa è già tanto potente, di quale importanza non

sarà la sua persona? Miriamo in alto. Quando si punta a

qualcosa che è in cielo, non bisogna forse mirare a Dio? -

Queste parole rappresentavano la formula breve di mille e

un pensieri tra i quali egli ondeggiava. Riebbe un poco di

calma e di fiducia vedendo cadere la pioggia. Disse fra sé e

sé che, se buttava due delle preziose monete da cento

soldi che gli rimanevano, esse sarebbero state

convenientemente impiegate nella conservazione dell'abito,

degli stivaletti e del cappello. Non fu senza una punta di

ilarità che udì il cocchiere gridare: "La porta, per favore!".

Un guardaportone in uniforme rosso-oro fece stridere sui

cardini il portone del palazzo, e Rastignac vide con una

dolce soddisfazione la sua vettura passare sotto l'androne,

fare il giro del cortile e fermarsi sotto la pensilina della

gradinata. Il cocchiere, dal pesante pastrano blu bordato di

rosso, corse ad abbassare il predellino. Scendendo dalla

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vettura, Eugenio sentì delle risa rattenute che provenivano

dal peristilio.

Tre o quattro domestici s'erano già fatti beffe di

quell'equipaggio da sposi popolari. Le loro risa illuminarono

lo studente proprio nel momento in cui confrontò quella

vettura con uno dei più eleganti "coupés" di Parigi,

attaccato a due vivaci cavalli che portavano rose agli

orecchi, che mordevano il freno e che un cocchiere

incipriato, elegante nella sua cravatta, teneva in briglia

come se fossero in procinto di prender la mano. Alla

Chaussée-d'Antin nel cortile del palazzo della signora de

Restaud aveva trovato il fine carrozzino del ventiseienne.

Nel faubourg Saint-Germain stazionava in lusso di un gran

signore, un equipaggio che a pagarlo non sarebbero bastati

trentamila franchi.

"Chi c'è dunque?", si domandò Eugenio cominciando a

capire con qualche ritardo che a Parigi poche dovevano

essere le donne non occupate, e che la conquista di una di

queste regine doveva costare più del sangue. "Diamine!

Anche mia cugina avrà certamente il suo Massimo".

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Salì la gradinata con la morte nell'anima. Al suo apparire la

porta a vetri s'aprì; i domestici erano seri come asini sotto

la striglia. La festa da ballo cui aveva preso parte s'era

svolta nei grandi appartamenti da ricevimento, situati al

pianterreno del palazzo de Beauséant. Non avendo avuto il

tempo, tra l'invito e il ballo, di far visita alla cugina, non

era ancora mai penetrato negli appartamenti della signora

de Beauséant; egli stava dunque per vedere per la prima

volta le meraviglie di quell'eleganza personale, che rivela

l'anima e le abitudini d'una donna di classe: studio tanto

più curioso in quanto il salotto della signora de Restaud gli

offriva un termine di paragone. La viscontessa lo avrebbe

ricevuto alle quattro e mezza. Cinque minuti prima, non

avrebbe potuto vedere sua cugina. Eugenio, che ignorava

affatto queste varie etichette parigine, fu condotto

attraverso uno scalone di marmo bianco, adorno di fiori,

dalla ringhiera dorata, dalla guida rossa, presso la signora

de Beauséant, della quale non conosceva la biografia

verbale, una cioè di quelle tante mutevoli storie che si

raccontano tutte le sere da un orecchio all'altro nei salotti

di Parigi.

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La viscontessa aveva da tre anni una relazione con uno dei

più famosi e più ricchi signori portoghesi: il marchese

d'Adjuda- Pinto. Era una di quelle relazioni innocenti, così

ricche d'attrattive per le persone in tal modo legate, da non

poter sopportare un terzo incomodo. Perciò lo stesso

visconte de Beauséant aveva dato il buon esempio al

pubblico, rispettando, per amore o per forza, tale unione

morganatica Le persone che, nei primi giorni di questa

amicizia, andarono a trovare la viscontessa alle due, vi

trovarono il marchese d'Adjuda-Pinto. La signora de

Beauséant, incapace di rifiutarsi di ricevere - il che non

sarebbe stato affatto conveniente - riceveva gli ospiti con

tanta freddezza e contemplava con tanta attenzione la

cornice del salotto, che ognuno capiva quanto l'annoiasse.

Quando si seppe in Parigi che si dava noia alla signora de

Beauséant andandola a trovare tra le due e le quattro, essa

poté godere la più completa solitudine. Andava ai

"Bouffons" o all'Opéra in compagnia del signor de

Beauséant e del signor d'Adjuda-Pinto; ma, da uomo di

mondo, il signor de Beauséant, dopo averveli

accompagnati, lasciava sempre soli la moglie e il

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Portoghese. Il signor d'Adjuda doveva sposarsi. Doveva

sposare una signorina de Rochefide. In tutta l'alta società

una sola persona ignorava questo matrimonio, e la persona

era la signora de Beauséant. Alcune sue amiche gliene

avevano, sì, parlato, ma vagamente, lei ne aveva riso,

ritenendo che gli amici volessero turbare una felicità

invidiata. Tuttavia le pubblicazioni stavano per esser fatte.

Sebbene fosse venuto per partecipare il proprio matrimonio

alla viscontessa, il bel Portoghese non aveva ancora osato

fargliene parola. Perché nulla senza dubbio è più difficile

che dar notizia a una donna di un simile ultimatum. Certi

uomini si trovano più a loro agio sul terreno, di fronte a un

uomo che attenta al loro cuore con una spada, che non

dinanzi a una donna la quale, dopo avere spacciato le

proprie elegie per due ore, sviene e chiede i sali. In quel

momento, dunque, il signor d'Adjuda-Pinto era sulle spine,

e voleva uscire, pensando che la signora de Beauséant

avrebbe saputo la notizia; le avrebbe scritto, e sarebbe

stato più comodo trattare il galante assassinio per

corrispondenza che non a viva voce. Quando il domestico

della viscontessa annunciò il signor Eugenio de Rastignac,

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questi fece trasalir di gioia il marchese d'Adjuda-Pinto.

Sappiatelo bene: donna innamorata è ancor più ingegnosa

a crearsi dei dubbi di quanto non sia abile a variare il

piacere. Quando è sul punto d'essere abbandonata,

indovina più facilmente il significato d'un gesto di quanto il

destriero di Virgilio non annusi i lontani corpuscoli

messaggeri d'amore.

Perciò siate certi che la signora de Beauséant colse quel

trasalimento involontario quasi impercettibile, ma

candidamente spaventevole. Eugenio non sapeva che non

ci si deve mai presentare a chicchessia in Parigi senza

essersi fatto prima raccontare dagli amici di casa la storia

del marito, della moglie o dei figli, per non commettere

nessuna di quelle balordaggini a proposito delle quali si

dice pittorescamente in Polonia: "Attaccate i buoi al carro

vostro"! certo per evitare il malpasso in cui vi

impantanereste. Se questi infortuni della conversazione

non hanno ancora un nome in Francia, è perché sono

considerati indubbiamente impossibili, data l'enorme

pubblicità che godono le maldicenze.

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Dopo essersi impantanato dalla signora de Restaud, che

non gli aveva lasciato neppure il tempo di attaccare i buoi

al suo carro, solo Eugenio poteva essere capace di

ricominciare il proprio mestiere di bovaro presentandosi in

casa della signora de Beauséant. Ma, se aveva orribilmente

infastidito la signora de Restaud e il signor de Trailles, ora

invece toglieva dall'imbarazzo il signor d'Adjuda. Addio -

stava dicendo il Portoghese affrettandosi a raggiungere

l'uscio, quando Eugenio entrò in un salottino civettuolo,

grigio e rosa, dove il lusso sembrava soltanto eleganza.

- Ma questa sera - disse la signora de Beauséant volgendo

la testa e dando uno sguardo al marchese - non si va ai

"Bouffons"?

- Non posso - gli rispose afferrando la maniglia dell'uscio.

La signora de Beauséant si alzò, lo richiamò vicino a sé,

senza porre la minima attenzione a Eugenio, il quale, in

piedi, stordito dagli scintillii d'una ricchezza meravigliosa,

credeva adesso alla realtà dei racconti arabi, e non sapeva

dove cacciarsi, trovandosi in presenza di quella donna

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senza esser notato da lei. La viscontessa aveva alzato

l'indice della sua mano destra, e con una graziosa mossa

indicava al marchese un posto dinanzi a lei. Ci fu in quel

gesto un così violento dispotismo di passione, che il

marchese lasciò la maniglia dell'uscio e tornò indietro.

Eugenio lo guardò con una punta d'invidia.

"Ecco", si disse, "l'uomo del coupé! Ma dunque è proprio

necessario avere cavalli focosi, livree e oro a profusione

per ottenere lo sguardo d'una Parigina?". Il demone del

lusso lo morse al cuore, la febbre del guadagno lo prese, la

sete dell'oro gli inaridì la gola. Egli non disponeva che di

centotrenta franchi a trimestre. Il padre, la madre, i

fratelli, le sorelle, la zia non spendevano, tutti insieme,

duecento franchi al mese. Tale rapido confronto tra la sua

situazione attuale, e la meta cui bisognava arrivare,

contribuirono a sbalordirlo.

- Perché - domandò la viscontessa ridendo - voi non potete

venire agli "Italiens"?

- Affari. Pranzo dall'ambasciatore d'Inghilterra.

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- Ma poi lo lascerete.

Quando un uomo inganna, è invincibilmente costretto ad

accumulare bugie su bugie. Il signor d'Adjuda disse allora

ridendo:

- Lo esigete?

- Sì, certo.

- Ecco quel che volevo farmi dire - rispose, dando uno di

quegli sguardi maliziosi che avrebbero rassicurato tutt'altra

donna.

Prese la mano della viscontessa, la baciò e uscì.

Eugenio si passò la mano sui capelli, e si torse per

salutare, credendo che la signora de Beauséant ora

avrebbe pensato a lui; ma a un tratto essa si slancia, si

precipita in galleria, corre alla finestra e guarda il signor

d'Adjuda che sale in carrozza: tende l'orecchio all'ordine, e

sente che il portiere ripete al cocchiere: "Dal signor de

Rochefide". Queste parole, e il modo col quale d'Adjuda si

tuffò nella carrozza furono il lampo e la folgore per quella

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donna, che rientrò in preda a mortali apprensioni. Le più

orribili catastrofi non sono che questo nel gran mondo. La

viscontessa tornò nella camera da letto, si sedette a un

tavolo, e prese un elegante foglio di carta.

"Dato che", scrisse, "voi pranzate dai Rochefide, e non

all'ambasciata inglese, mi dovete una spiegazione; vi

attendo".

Dopo aver raddrizzato qualche lettera, sfigurata dal

tremolio convulso della mano, appose un C che voleva

dire: Clara de Bourgogne, e suonò.

- Giacomo - disse al domestico che accorse - andate alle

sette e mezza dal signor de Rochefide, e lì domandate del

marchese d'Adjuda. Se il signor marchese è lì, fategli

pervenire questo biglietto senza chiedere risposta; se non

c'è, tornate e riportatemi la lettera.

- C'è qualcuno che attende la signora viscontessa in

salotto.

- Ah! è vero - disse lei spingendo la porta.

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Eugenio cominciava a trovarsi a disagio; finalmente la

viscontessa gli disse con un tono da emozionarlo fin nel

profondo del cuore:

- Scusatemi, signore, dovevo scrivere una parola, ma ora

sono tutta per voi. - Lei non sapeva quel che si dicesse,

giacché ecco quello che invece pensava: "Ah!, vuole

sposare la signorina de Rochefide. Ma è forse libero?

Questa sera il matrimonio andrà in fumo, o io... Ma domani

non se ne parlerà già più".

- Cugina,.. - rispose Eugenio.

- Eh? - fece la viscontessa, gettandogli uno sguardo la cui

impertinenza agghiacciò lo studente.

Eugenio comprese il valore di quella esclamazione. Da tre

ore aveva imparato tante cose, che s'era messo sul chi va

là.

- Signora - egli riprese a dire arrossendo. Esitò, poi disse

continuando: - Perdonate; ho tanto bisogno di protezione,

che un briciolo di parentela non avrebbe guastato nulla.

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La signora de Beauséant sorrise, ma tristemente; essa

sentiva già la sfortuna brontolare nella sua atmosfera.

- Se sapeste in che situazione si trova la mia famiglia - egli

disse continuando - forse sareste lieta di far la parte di una

di quelle fate favolose che si compiacevano di eliminare gli

ostacoli attorno ai loro figliocci.

- Ebbene!, cugino - disse ridendo - in che cosa posso

esservi utile?

- Ma come volete che lo sappia? Essere legato a voi da un

legame di parentela che si perde nell'ombra è già una

grande fortuna per me. Voi mi avete turbato, e io non so

più cosa volevo dirvi. Siete la sola persona che conosco a

Parigi. Ah!, ecco, volevo consultarvi pregandovi di

accogliermi come un povero fanciullo che vuol attaccarsi

alla vostra sottana, e che saprebbe morire per voi.

- Voi uccidereste qualcuno per me?

- Ne ucciderei due! - fece Eugenio.

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- Ragazzo !, sì, siete un ragazzo - lei disse reprimendo

qualche lacrima; - voi sareste capace di amare

sinceramente, voi!

- Oh! - egli fece scuotendo la testa.

La viscontessa s'interessò vivamente allo studente per

quella risposta da ambizioso. Il meridionale era alle sue

prime armi. Tra il salottino azzurro della signora de

Restaud e il salotto rosa della signora de Beauséant, aveva

fatto tre anni di quel "Diritto parigino" di cui non si parla

mai, sebbene costituisca un'alta giurisprudenza sociale che,

ben espressa e ben praticata, conduce a tutto.

- Ah!, ci sono - - disse Eugenio. - Avevo notato la signora

de Restaud al vostro ballo, e stamane mi sono recato da

lei.

- Le avrete procurato un bel fastidio - disse sorridendo la

signora de Beauséant.

- Eh?, sì, sono un ignorante e mi farò tanti nemici, se non

mi accorderete la vostra protezione. Credo sarà difficile

trovare a Parigi una donna giovane, bella, ricca, elegante,

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che non sia occupata, e a me ne occorre una che m'insegni

ciò che voi donne sapete così bene spiegare: la vita.

Troverò ovunque un signor de Trailles. Sono venuto perciò

da voi per chiedervi la soluzione di un enigma, e per

pregarvi di dirmi di quale natura sia la sciocchezza che io

ho commesso. Ho parlato di un padre...

- La signora duchessa de Langeais - disse Giacomo

tagliando la parola allo studente, che fece il gesto di un

uomo violentemente contrariato.

- Se volete avere successo nella vita - disse la viscontessa

d bassa voce - prima di tutto non dimostrate così

palesemente i vostri sentimenti. Eh!, buon giorno, mia

cara-riprese alzandosi, andando incontro alla duchessa e

stringendole le mani, con l'effusione carezzevole che

avrebbe potuto dimostrare a una sorella e alla quale la

duchessa rispose con le più graziose moine.

"Ecco due buone amiche", pensò Rastignac. "Avrò d'ora in

poi due protettrici; le due donne devono avere gli stessi

affetti, e anche questa s'interesserà di me".

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- A che debbo il piacere di vederti, mia cara Antonietta?

disse la signora de Beauséant.

- Ma, ho visto il signor d'Adjuda-Pinto entrare in casa del

signor de Rochefide, e allora ho pensato che vi avrei

trovata sola.

La signora de Beauséant non si morse le labbra, non

arrossì, il suo sguardo non mutò, la sua fronte parve

schiarirsi mentre la duchessa pronunciava quelle fatali

parole.

- Se avessi saputo che eravate occupata... - aggiunse la

duchessa volgendosi verso Eugenio.

- Il signore è il signor Eugenio de Rastignac, uno dei miei

cugini - disse la viscontessa. - Avete notizie del generale

Montriveau ?- ella fece. - Sérizy, m'ha detto ieri che non lo

si vedeva più; è stato forse da voi, oggi?

La duchessa, che si diceva fosse stata abbandonata dal

signor de Montriveau, per il quale nutriva una folle

passione, sentì nel cuore la punta di quella domanda, e

arrossì rispondendo:

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- Era all'Eliseo.

- In servizio - disse la signora de Beauséant.

- Clara, voi sapete certamente - riprese la duchessa

gettando fiotti di malignità dagli occhi - che domani si

faranno le pubblicazioni di matrimonio del signor d'Adjuda-

Pinto e della signorina Rochefide!

Il colpo era troppo forte: la viscontessa impallidì e rispose

ridendo:

- Una delle tante chiacchiere con le quali si divertono gli

sciocchi. Quale ragione avrebbe il signor d'Adjuda di

portare fra i Rochefide uno dei più bei nomi del Portogallo?

La nobiltà dei Rochefide è di ieri.

- Ma si dice che Berta avrà duecentomila lire di rendita.

- Il signor d'Adjuda è troppo ricco per fare questi calcoli.

- Ma, mia cara, la signorina de Rochefide è incantevole.

- Ah!

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- E poi, oggi pranza da loro, i patti sono conclusi. Mi

meraviglia molto che non ne sappiate nulla.

- Qual'è dunque la sciocchezza che avete commesso,

signore-disse la signora de Beauséant. - Questo povero

ragazzo si trova così da poco lanciato nel mondo, che nulla

comprende, mia cara Antonietta, di quanto diciamo. Siate

buona con lui, rimandiamo a domani la nostra

conversazione. Domani, vedete, tutto sarà certamente

ufficiale, e voi potrete essere ufficiosa a colpo sicuro.

La duchessa rivolse a Eugenio uno di quegli sguardi

impertinenti che avvolgono un uomo da cima a piedi, lo

schiacciano e lo riducono a zero.

- Signora, io, senza saperlo, ho immerso un pugnale nel

cuore della signora de Restaud. Senza saperlo, ecco il mio

errore - disse lo studente abbastanza ben servito dalla sua

intelligenza e che aveva compreso i mordenti epigrammi

nascosti sotto le frasi affettuose di quelle due donne. - Voi

continuate a trattare, temendole forse, le persone

consapevoli del male che vi fanno, mentre chi ferisce

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ignorando la profondità della ferita arrecata è considerato

uno sciocco, un incauto che non sa approfittar di nulla, e

tutti lo disprezzano.

La signora de Beauséant lanciò sullo studente uno di quegli

sguardi struggenti nei quali le grandi anime sanno mettere

riconoscenza e, insieme, dignità. Quello sguardo fu come

un balsamo che curò la piaga fatta al cuore dello studente

dall'occhiata da ufficiale-stimatore con la quale la duchessa

lo aveva valutato.

- Figuratevi - disse Eugenio continuando - che io m'ero già

venuto conquistando la simpatia del conte de Restaud;

giacché - aggiunse rivolgendosi alla duchessa con un'aria

umile e al tempo stesso maliziosa - devo dirvi, signora, che

io non sono ancora che un povero diavolo di studente,

tanto solo, tanto povero...

- Non dite questo, signor de Rastignac. Noi donne non

vogliamo mai quello che gli altri non vogliono.

- Oh! - fece Eugenio - io non ho che ventidue anni, e

bisogna sopportare le contrarietà della propria età. Del

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resto, io mi sto confessando; ed è impossibile

inginocchiarsi a un più prezioso confessionale: vi si

commettono i peccati di cui si è accusati poi nell'altro.

La duchessa assunse un tono freddo a un tal discorso

irreligioso, di cui condannò il cattivo gusto dicendo alla

viscontessa:

- Il signore viene...

La signora de Beauséant rise di cuore di suo cugino e della

duchessa.

- Viene solo adesso, mia cara, e cerca una istitutrice che gli

insegni il buon gusto.

- Signora duchessa - riprese Eugenio - non è forse naturale

di volersi iniziare ai segreti di quel che ci ammalia?

"Andiamo", disse a se stesso, "sono certo che sto dicendo

loro frasi da parrucchiere".

- Ma la signora de Restaud è, credo, l'allieva del signor de

Trailles - disse la duchessa.

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- Non ne sapevo nulla, signora - riprese a dire lo studente.

- E così io mi sono messo storditamente tra loro due.

Insomma, m'ero già alquanto affiatato col marito, mi

vedevo sopportato dalla moglie, quando mi è venuto in

mente di dir loro che conoscevo un uomo che avevo visto

proprio allora uscire da una scala segreta, e che aveva, in

fondo a un corridoio, baciato la contessa.

- Chi era? - domandarono le due donne.

- Un vecchio che vive con due luigi al mese, in fondo al

faubourg Saint-Marceau, come me, studente povero; un

vero disgraziato che tutti burlano e che chiamiamo papà

Goriot.

- Ma, bambino che siete - esclamò la viscontessa - la

signora de Restaud nasce Goriot.

- La figlia di un vermicellaio - riprese la duchessa - una

donnetta che si è fatta presentare a corte

contemporaneamente alla figlia d'un pasticciere. Ve ne

ricordate, Clara? Il re si mise a ridere, e disse in latino un

motto spiritoso sulla farina.

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Persone..., come disse?, persone...

- "Ejusdem farinae"- disse Eugenio.

- Proprio così - disse la duchessa.

- Ah!, è suo padre - riprese lo studente facendo un gesto

d'orrore.

- Ma sì; il bonuomo aveva due figlie, di cui va pazzo,

sebbene l'una e l'altra l'abbiano quasi rinnegato.

- La seconda - domandò la viscontessa guardando la

signora de Langeais - non è maritata a un banchiere, che

ha un cognome tedesco, un barone de Nucingen? Non si

chiama Delfina? Non è una bionda che ha un palco di fianco

all'Opéra, e frequenta anche i "Bouffons", e ride forte per

farsi notare?

La duchessa sorrise dicendo:

- Ma, mia cara, io proprio vi ammiro. Perché vi occupate

tanto di quella gente ? Bisognava proprio essere

innamorato pazzo, come lo era Restaud, per infarinarsi con

la signorina Anastasia. Oh!, non ci farà davvero un buon

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affare ! Lei è nelle mani del signor de Trailles, e lui la

manderà alla rovina.

- Hanno rinnegato il loro padre! - ripeteva Eugenio.

- Ebbene, sì, il loro padre, un padre - riprese a dire la

viscontessa - un buon padre che ha dato loro tutto; si dice

abbia dato a ciascuna cinque o seicentomila franchi per

renderle felici maritandole bene; ed egli s'è riservato da

otto a diecimila franchi di rendita per sé, credendo che le

figlie gli sarebbero rimaste figlie, e che si sarebbe creato

presso di loro due esistenze, due case dove sarebbe stato

adorato, vezzeggiato. E invece in due anni i generi l'hanno

bandito dal loro ambiente come l'ultimo dei miserabili... -

Qualche lacrima sgorgò dagli occhi di Eugenio: egli era

stato di recente ristorato dalle pure e sante emozioni della

famiglia; era ancora sotto il fascino delle convinzioni

giovanili; ed era quella la sua prima giornata nel campo di

battaglia della civiltà parigina. Le vere emozioni si

comunicano così facilmente, che per qualche minuto i tre si

guardarono in silenzio.

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- Eh! mio Dio - disse la signora de Langeais - sì, ciò sembra

orribile, eppure lo vediamo tutti i giorni. Non c'è una

ragione in tutto questo? Ditemi, cara, avete mai pensato

che cos'è un genero?

Un genero è un uomo per il quale noi alleveremo, voi od io,

una cara creaturina, cui saremo attaccate da mille legami,

che rappresenterà per diciassette anni la gioia della

famiglia, che ne sarà l'anima candida, direbbe Lamartine, e

ne diverrà la peste.

Quando quest'uomo ce l'avrà presa, comincerà con

l'afferrare il suo amore come un'ascia, per tagliare nel

cuore e nel vivo di quell'angelo tutti i sentimenti per i quali

era attaccata alla sua famiglia. Ieri, la nostra figlia era

tutta per noi, e noi eravamo tutto per lei; domani diventerà

la nostra nemica. Non vediamo questa tragedia compiersi

tutti i giorni? Qui, la nuora si comporta con estrema

impertinenza verso il suocero, che ha sacrificato tutto per

suo figlio. Là, un genero mette la suocera alla porta. Sento

chiedere che cosa ci sia di drammatico oggi nella società!

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Ma il dramma del genero è spaventoso, senza poi contare i

nostri matrimoni, diventati qualcosa di assai stupido.

Mi rendo perfettamente conto di ciò che è accaduto al

vecchio vermicellaio. Credo di ricordarmi che questo

Foriot...

- Goriot, signora.

- Sì, questo Moriot fu presidente di una sezione durante la

rivoluzione, ebbe parte nel segreto della famosa carestia, e

cominciò la sua fortuna col vendere a quei tempi la farina

ad un prezzo dieci volte superiore a quello che gli costava.

Ne ha avuta quanta ne ha voluta. L'amministratore di mia

nonna gliene ha venduta per somme enormi. Questo Goriot

faceva senza dubbio a mezzo, come tutta quella gente, col

Comitato di Salute Pubblica.

L'amministratore, ricordo, diceva a mia nonna che poteva

rimanere con tutta tranquillità a Grandvilliers, perché il suo

grano costituiva una eccellente tessera civica. Ebbene,

questo Loriot, che vendeva grano ai tagliatori di teste, non

ha avuto che una passione. Adora, dicono, le figlie. Ha

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fatto appollaiare la maggiore nella casa de Restaud, e ha

innestato l'altra al barone de Nucingen, un ricco banchiere

che fa il monarchico.

Comprenderete bene come, sotto l'impero, i due generi

non si siano troppo scandalizzati di avere quel vecchio

Novantatré presso di loro: la cosa poteva ancora andare

con Bonaparte. Ma quando sono tornati i Borboni, il

bonuomo ha dato fastidio al signor de Restaud, e ancor più

al banchiere. Le figlie, che forse amavano ancora il padre,

hanno voluto salvare capra e cavoli, il padre e il marito; e

hanno adottato il sistema di ricevere il Toriot quando in

casa non c'è nessuno; e hanno giustificato la cosa con

pretesti affettuosi: "Papà, venite, staremo meglio perché

saremo soli!" eccetera. Io, mia cara, credo che i sentimenti

sinceri abbiano occhi e intelligenza: il cuore di quel povero

Novantatré deve aver sanguinato. Ha capito che le figlie si

vergognavano di lui; che se esse amavano i loro mariti,

egli nuoceva ai suoi generi. Bisognava dunque sacrificarsi.

E si è sacrificato, perché è un padre: si è messo al bando

da se stesso. Vedendo le figlie contente, ha compreso

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d'aver fatto bene. Il padre e le figlie sono stati complici di

questo piccolo delitto. E' una cosa che accade dappertutto.

Questo papà Doriot non sarebbe stato forse come una

macchia di morchia nel salotto delle figlie? Ci si sarebbe

trovato a disagio, ci si sarebbe annoiato. Quel che è

accaduto a questo padre può capitare alla più bella donna

con l'uomo che amerà di più: se lei lo annoia col suo

amore, lui se ne va, e commette qualsiasi vigliaccheria pur

di sfuggirla. Tutti i sentimenti sono così. Il nostro cuore è

un tesoro, vuotatelo di colpo, siete rovinati. Noi non

perdoniamo a un sentimento d'essersi manifestato nella

sua interezza più di quanto non perdoniamo a un uomo di

non possedere un soldo di suo. Quel padre aveva dato

tutto. Aveva dato, per venti anni, le sue viscere, il suo

amore; aveva dato tutta la sua fortuna in un giorno.

Spremuto bene il limone, le figlie hanno gettato la buccia

all'angolo della strada.

- Il mondo è infame - disse la viscontessa sfilacciando il

suo scialle e senza alzare gli occhi, poiché era stata toccata

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nel vivo dalle parole che la signora de Langeais aveva

pronunciato proprio per lei, narrando questa storia.

- Infame?, no - riprese a dire la duchessa - va per il verso

suo, ecco tutto. Se ve ne parlo così, è per dimostrarvi che

non mi faccio ingannare dal mondo. La penso come voi -

disse premendo la propria mano su quella della

viscontessa. - Il mondo è un pantano, cerchiamo di

rimaner sulle alture. Si levò, baciò sulla fronte la signora

de Beauséant dicendole: - Siete proprio bella, in questo

momento, mia cara. Avete i più bei colori che abbia mai

visto. - Poi uscì dopo aver lievemente chinato la testa nel

guardare il cugino.

- Papà Goriot è sublime! - disse Eugenio rammentandosi di

averlo visto torcere nella notte il servizio d'argento dorato.

La signora de Beauséant non sentì, era pensierosa.

Trascorse qualche minuto di silenzio, e il povero studente,

per una specie di timido stupore, non osava né andarsene,

né rimanere, né parlare.

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- Il mondo è infame e cattivo - disse poi la viscontessa. -

Non appena ci capita una disgrazia, si trova subito un

amico pronto a venircela a dire, e a trafiggerci il cuore con

un pugnale facendocene ammirare l'impugnatura. E già il

sarcasmo, già le ironie! Ah!, ma io mi difenderò.. Erse la

testa da gran dama qual era, e baleni partirono dagli occhi

suoi fieri. - Ah! - fece quindi vedendo Eugenio - siete

ancora lì!

- Ancora - egli disse sommessamente.

- Ebbene, signor de Rastignac, trattate questo mondo

come merita.

Volete arrivare?, io vi aiuterò. Misurerete quanto è

profonda la corruzione femminile, misurerete l'ampiezza

della miserabile vanità degli uomini. Quantunque abbia già

letto bene in questo libro del mondo, c'erano pagine che

ancora non conoscevo. Ora so tutto. Più freddamente

calcolerete, più andrete avanti. Colpite senza pietà, e

sarete temuto. Considerate uomini e donne come cavalli di

posta, e lasciateli crepare a ogni cambio: arriverete così

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all'àpice delle vostre ambizioni. E, date retta a me: non

diverrete mai niente, in questa società, se non avrete una

donna che s'interesserà di voi. Deve essere giovane, ricca,

elegante. Ma se nutrite un sentimento sincero, tenetelo

nascosto come un tesoro; non lasciatelo mai scorgere,

altrimenti sarete perduto.

Non sareste più il carnefice, ma diverrete la vittima. Se

dovesse capitarvi di amare, mantenete gelosamente il

vostro segreto!

Svelatelo solo quando avrete ben saputo a chi aprirete il

vostro cuore. Per preservare in anticipo questo amore che

non esiste ancora, imparate a diffidare di questo mondo.

Ascoltatemi, Michele...(Essa sbagliava ingenuamente il

nome senza accorgersene). Esiste qualcosa di più

spaventoso ancora dell'abbandono del padre da parte delle

sue due figlie, che lo vorrebbero morto: ed è la rivalità

delle due sorelle tra loro.

Restaud è un aristocratico, sua moglie è stata ammessa e

presentata a corte; ma sua sorella, la sua ricca sorella, la

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bella signora Delfina de Nucingen, moglie d'un uomo

denaroso, muore dal dispiacere; la gelosia la divora, è

distante le mille miglia dalla sorella; sua sorella non è più

sua sorella; e due donne si rinnegano fra loro come

rinnegano il loro padre. Perciò, la signora de Nucingen

leccherebbe tutto il fango che c'è tra la via Saint-Lazare e

la via de Grenelle pur di entrare nel mio salotto.

Ha creduto che de Marsay le avrebbe fatto raggiungere lo

scopo, e si è resa la schiava di de Marsay, annoia de

Marsay. De Marsay si cura ben poco di lei. Se me la farete

conoscere, diverrete il suo beniamino, vi adorerà. Dopo,

amatela, se volete, altrimenti servitevi di lei. Io potrò

vederla una o due volte, in occasione d'un mio ricevimento,

quando ci sarà molta gente: ma non la riceverò mai di

mattina. La saluterò soltanto, e questo basterà.

Voi vi siete chiusa la porta della contessa per aver

pronunciato il nome di suo padre, Goriot. Sì, mio caro, se

andrete venti volte dalla signora de Restaud, venti volte vi

diranno che non è in casa. E' stato dato l'ordine di non farvi

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più entrare. Ebbene!, papà Goriot v'introduca in casa della

signora Delfina de Nucingen.

La bella signora de Nucingen sarà per voi un'insegna. Siete

l'uomo prescelto da lei; e le donne andranno pazze per voi.

Le sue rivali, le sue amiche, le sue migliori amiche,

vorranno togliervi a lei. Ci sono donne che desiderano

l'uomo già scelto da un'altra, come ci sono povere borghesi

che, mettendosi cappelli simili ai nostri, sperano con

questo di acquisire i nostri modi. Avrete successo. A Parigi

il successo è tutto, è la chiave del potere. Se le donne

trovano in voi spirito, talento, gli uomini lo crederanno,

purché non li disinganniate. Voi potrete allora osar tutto e

andare dovunque. Saprete allora che cosa è il mondo:

un'accolta di ingannati e di bricconi. Cercate di non essere

né tra gli uni né tra gli altri. Vi dò il mio nome come un filo

d'Arianna per entrare in questo labirinto. Non lo

compremettete - disse, curvando il collo e dando uno

sguardo da regina allo studente - restituitemelo bianco. E

adesso lasciatemi. Noi donne, abbiamo anche noi da

combattere le nostre battaglie.

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- Non vi occorre un uomo volenteroso per andare ad

appiccare il fuoco a una miccia? - chiese Eugenio

interrompendola.

- E allora? - disse lei.

Egli si batté sul cuore, sorrise al sorriso della cugina e uscì.

Erano le cinque. Eugenio aveva appetito, e temette di non

fare in tempo ad arrivare per l'ora di pranzo. Un tal timore

gli fece provare il piacere d'essere condotto rapidamente

attraverso Parigi. Questo piacere puramente macchinale gli

permise di abbandonarsi interamente ai suoi pensieri, che

lo assalivano.

Quando un giovane della sua età è fatto segno allo sprezzo

va in collera, si infuria, minaccia col pugno l'intera società,

vuol vendicarsi e non è sicuro neppure di se stesso.

Rastignac in quel momento era oppresso da queste parole:

"Vi siete chiusa la porta della contessa". Eppure ci andrò,

disse fra sé e sé, e se la signora de Beauséant ha ragione,

se c'è l'ordine di non farmi passare... io... Ia signora de

Restaud mi troverà in tutti i salotti dove va. Imparerò a

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tirare di scherma, a tirar di pistola, e le ucciderò il suo

Massimo! E i denari?, gli gridava la coscienza, dove li

troverai? A un tratto la ricchezza messa in mostra nella

casa della contessa brillò dinanzi ai suoi occhi.

Aveva veduto là il lusso di cui una signorina Goriot doveva

essere innamorata: mobili dorati, oggetti di valore posti in

evidenza, il lusso non intelligente dell'arricchito, lo

sperpero della mantenuta. Questa affascinante immagine,

fu subito schiacciata dalla grandiosità del palazzo de

Beauséant. La sua immaginazione, trasposta nelle alte

regioni della società parigina, gli ispirò mille cattivi

pensieri, allargandogli la mente e la coscienza.

Vide il mondo com'è: le leggi e la morale impotente dei

ricchi, e vide nella fortuna la "ultima ratio mundi". "Vautrin

ha ragione, la fortuna è la virtù!" si disse.

Giunto in via Neuve-Sainte-Geneviève, salì rapidamente in

camera sua, scese per dare dieci franchi al cocchiere, ed

entrò in quella sala da pranzo nauseabonda ove scorse,

come bestie alla mangiatoia, i diciotto commensali in atto

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di pascersi. Lo spettacolo di quelle miserie e l'aspetto della

sala gli riuscirono orribili. Il passaggio era troppo brusco, il

contrasto troppo completo per non sviluppare oltre misura

in lui il sentimento dell'ambizione. Da un lato, le fresche e

incantevoli immagini dell'ambiente sociale più elegante,

figure giovani, vive, inquadrate nelle meraviglie dell'arte e

del lusso, teste appassionate, piene di poesia; dall'altro

lato sinistri quadri orlati di fango, e facce dove le passioni

non avevan lasciato che le loro corde e il loro meccanismo.

Gli insegnamenti che la collera di una donna abbandonata

aveva strappato alla signora de Beauséant, le sue capziose

profferte gli tornarono alla memoria, e la miseria le

commentò.

Rastignac risolse di aprire due trincee parallele per

giungere alla fortuna, di basarsi sulla scienza e sull'amore,

d'essere un sapiente dottore e un uomo alla moda. Era

ancora molto ragazzo!

Queste due linee sono due asintoti che non possono mai

incontrarsi.

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- Siete molto cupo, signor marchese - gli disse Vautrin,

dandogli uno di quegli sguardi coi quali quell'uomo

sembrava iniziarsi ai misteri più segreti del cuore.

- Io non sono disposto a sopportare gli scherzi di chi mi

chiama:

signor marchese - egli rispose. - Qui, per essere veramente

marchesi, bisogna avere centomila franchi di rendita, e

quando si vive in Casa Vauquer, non si è precisamente il

favorito della Fortuna.

Vautrin guardò Rastignac con un'aria paterna e sprezzante,

come se avesse detto: Marmocchio!, di te farei un solo

boccone! Poi rispose: - Siete di cattivo umore, forse perché

non vi è andata bene con la bella contessa de Restaud.

- Mi ha chiuso la sua porta per averle detto che suo padre

mangiava alla nostra tavola - esclamò Rastignac.

Tutti i convitati si guardarono tra loro. Papà Goriot abbassò

gli occhi, e si volse per asciugarseli.

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- Mi avete mandato un po' di tabacco nell'occhio - disse al

vicino.

- Chi molesterà papà Goriot dovrà d'ora in poi fare i conti

con me - rispose Eugenio, guardando il vicino del vecchio

vermicellaio - egli vale più di tutti noi. Non parlo delle

signore - aggiunse volgendosi verso la signorina Taillefer.

Questa frase fu un epilogo; Eugenio l'aveva pronunciata

con un'aria che impose il silenzio ai commensali. Solo

Vautrin gli disse motteggiando:

- Per prendere papà Goriot sotto la vostra protezione e

diventare il suo gerente responsabile, bisogna saper tenere

bene una spada in mano e tirar bene di pistola.

- E così farò - disse Eugenio.

- Avete dunque iniziato le ostilità oggi?

- Forse - rispose Rastignac. - Ma io non rendo conto dei

fatti miei a nessuno, dato che non cerco d'indovinare quelli

che gli altri fanno la notte.

Vautrin guardò Rastignac di traverso.

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- Ragazzo mio, quando non si vuol essere ingannati dal

gioco delle marionette, bisogna entrare senz'altro nella

baracca, e non contentarsi di guardare attraverso i buchi

della tenda. E basta con le chiacchiere - aggiunse vedendo

Eugenio prossimo alla stizza. - Avremo fra noi una breve

conversazione quando vorrete.

Il pranzo divenne cupo e freddo. Papà Goriot, assorto nel

profondo dolore causatogli dalla frase dello studente, non

comprese che le disposizioni degli animi erano cambiate a

suo riguardo, e che un giovane in grado d'imporre un basta

alla persecuzione aveva preso le sue difese:

- Il signor Goriot - disse la signora Vauquer a bassa voce -

sarebbe dunque il padre d'una contessa?

- E d'una baronessa - replicò Rastignac.

- Non può far altro - disse Bianchon a Rastignac: - gli ho

misurato la testa: non ha che una bozza, quella della

paternità, sarà un "Padre Eterno".

Eugenio era troppo imbronciato perché la facezia di

Bianchon potesse farlo ridere. Egli voleva approfittare dei

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consigli della signora de Beauséant, e si domandava dove e

come si sarebbe procurato il denaro. Divenne pensieroso

alla visione delle savane del mondo che passavano dinanzi

ai suoi occhi deserte e spopolate; e tutti lo lasciarono solo

nella sala da pranzo, quando il pranzo ebbe termine.

- Avete dunque visto mia figlia? - gli chiese Goriot

commosso.

Destato dalla sua meditazione dal bonuomo, Eugenio gli

prese la mano, e guardandolo con una specie

d'intenerimento:- Voi siete un bravo e degno uomo - gli

rispose. - Parleremo delle vostre figlie più tardi. - Si alzò

senza voler ascoltare papà Goriot, si ritirò nella propria

camera e scrisse alla madre questa lettera:

"Mia cara madre, vedi se non hai una terza mammella da

spremere per me. Mi trovo in una situazione tale, da far

presto fortuna. Ho bisogno di milleduecento franchi, e mi

occorrono a ogni costo. Non dire nulla di ciò a mio padre;

egli forse vi si opporrebbe, e, se non avessi questo denaro,

cadrei in preda a una disperazione che mi indurrebbe a

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bruciarmi le cervella. Ti spiegherò le ragioni della mia

richiesta non appena ti vedrò, giacché dovrei scriverti dei

volumi per farti comprendere la condizione nella quale mi

trovo. Non ho giocato, mia buona madre, non ho debiti;

ma se tieni a conservarmi la vita che m'hai dato, devi

trovarmi questa somma.

In breve, frequento la casa della viscontessa de Beauséant,

che mi ha preso sotto la sua protezione. Devo andare in

società, e non ho un soldo per procurarmi un paio di guanti

puliti. Potrei mangiare soltanto pane, non bere che acqua,

e, se occorre, digiunare; ma non posso fare a meno degli

utensili coi quali in questo paese si zappa la vigna. Si tratta

di fare la mia strada o di restare nel fango. So tutte le

speranze che voi riponete in me, e voglio realizzarle

prontamente. Mia buona madre, vendi qualcuno dei tuoi

vecchi gioielli, e presto te ne darò in cambio degli altri.

Conosco abbastanza la situazione della nostra famiglia per

saper apprezzare simili sacrifici, e devi credere che io non

ti domando di farli invano, altrimenti sarei un mostro. Devi

vedere nella mia preghiera soltanto il grido d'una imperiosa

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necessità. Il nostro avvenire è tutto in questo aiuto, col

quale devo aprire la campagna; poiché questa vita di Parigi

è un combattimento continuo. Se, per completare la

somma, non c'è altra risorsa che quella di vendere i

merletti di mia zia, dille che gliene manderò di più belli",

eccetera.

Scrisse a ciascuna delle sorelle chiedendo le loro economie,

e, per strappargliele senza che parlassero in famiglia del

sacrificio che non avrebbero mancato di fare per lui con

piacere, seppe commuovere la loro sensibilità toccando le

corde dell'onore, così ben tese e così risuonanti nei giovani

cuori. Quando ebbe scritto queste lettere, provò, tuttavia,

una trepidazione involontaria; palpitava, trasaliva. Il

giovane ambizioso conosceva la nobiltà immacolata di

quelle anime sepolte nella solitudine, sapeva quali pene

avrebbe causato alle sue due sorelle e anche quali

sarebbero state le loro gioie, con quale piacere si

sarebbero intrattenute a parlare segretamente del loro

adorato fratello, in fondo alla vigna. La sua coscienza si

levò, luminosa, e gliele fece apparire mentre contavano in

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segreto il loro piccolo tesoro: egli le vide mentre usavano

la furberia delle giovinette per mandargli in incognito quel

denaro, commettendo un primo inganno per essere

sublimi. "Il cuore d'una sorella è un diamante di purezza,

un abisso di tenerezza!" egli si disse. Si vergognava

d'avere scritto. Come sarebbero stati efficaci i loro voti,

quanto puro sarebbe stato lo slancio delle loro anime verso

il cielo! Con quale piacere si sarebbero sacrificate! Quale

dolore avrebbe provato sua madre, se non fosse riuscita a

inviare l'intera somma!

Quei bei sentimenti, quegli enormi sacrifici gli sarebbero

serviti di scalino per arrivare a Delfina de Nucingen. Alcune

lacrime, ultimi grani d'incenso bruciati sul sacro altare della

famiglia, gli uscirono dagli occhi. Si mise a camminare in

preda a un'agitazione piena di disperazione. Papà Goriot,

vedendolo in quello stato dall'uscio della propria camera

rimasto socchiuso, entrò e gli disse:

- Che cosa avete, signore?

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- Ah, mio buon vicino, io sono ancora figlio e fratello, come

voi siete padre. Avete ragione di temere per la contessa

Anastasia; essa è nelle mani di un certo signor Massimo de

Trailles, che la manderà alla rovina.

Papà Goriot si ritirò balbettando alcune parole di cui

Eugenio non afferrò il senso. L'indomani, Rastignac andò a

portare le sue lettere alla posta. Esitò fino all'ultimo

istante, ma poi le lasciò cadere nella cassetta dicendo:

Riuscirò!; la parola del giocatore, del grande condottiero,

parola fatalista che manda in rovina più uomini di quanti ne

salvi. Qualche giorno dopo, Eugenio andò dalla signora de

Restaud, ma non fu ricevuto. Tre volte vi tornò, tre volte

ancora trovò la porta chiusa, quantunque si presentasse in

ore in cui il conte Massimo de Trailles non vi si trovava. La

viscontessa aveva avuto ragione. Lo studente non studiò

più. Si presentava alla lezione per rispondere all'appello e,

dopo aver attestato la sua presenza, se ne andava. Aveva

fatto il ragionamento che fa la maggior parte degli

studenti. Si sarebbe riservato di studiare al momento di

passare gli esami; aveva deciso di cumulare l'iscrizione del

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secondo e del terzo anno, e poi di studiare il Diritto

seriamente e tutto insieme all'ultimo momento. In questo

modo aveva quindici mesi per navigare a suo agio

nell'oceano di Parigi, per dedicarsi alla tratta delle donne o

per pescarvi la sua fortuna. Durante quella settimana, vide

due volte la signora de Beauséant, dalla quale andava solo

quando usciva la vettura del marchese d'Adjuda. Per

qualche giorno ancora l'illustre donna, la più poetica figura

del faubourg Saint- Germain, rimase vittoriosa, e fece

sospendere il matrimonio della signorina de Rochefide col

marchese d'Adjuda-Pinto. Ma quegli ultimi giorni, che la

paura di perdere la propria felicità rese più ardenti di tutti,

dovevano far precipitare la catastrofe. Il marchese

d'Adjuda, d'accordo coi Rochefide, aveva considerato il

dissenso e la riconciliazione come una circostanza

favorevole, essi speravano che la signora de Beauséant si

sarebbe abituata all'idea di quel matrimonio e avrebbe

finito per sacrificare le sue mattine a un avvenire previsto

nella vita degli uomini.

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Malgrado le più sante promesse rinnovate ogni giorno, il

signor D'Adjuda recitava dunque la commedia, e la

viscontessa gradiva di essere ingannata. - Invece di saltare

nobilmente dalla finestra, ruzzolava per le scale - diceva la

duchessa de Langeais, la sua migliore amica. Tuttavia,

quelle ultime luci brillarono abbastanza a lungo perché la

viscontessa rimanesse a Parigi e aiutasse il suo giovane

parente, per il quale nutriva una specie di affetto

superstizioso. Eugenio s'era dimostrato con lei pieno di

devozione e di sensibilità in una circostanza in cui le donne

non vedono né pietà né consolazione sincera in nessuno

sguardo. Se allora un uomo dice loro dolci parole, le dice

per interesse.

Desiderando conoscere perfettamente il suo scacchiere

prima di tentare l'abbordaggio della casa de Nucingen,

Rastignac volle mettersi al corrente della vita anteriore di

papà Goriot, e raccolse notizie sicure, il cui riassunto è

questo.

Giovanni-Gioacchino Goriot era, prima della rivoluzione, un

semplice operaio vermicellaio, abile, parsimonioso e tanto

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intraprendente da acquistare il fondo del suo padrone che il

caso volle vittima dei primi moti del 1789. Aveva preso

stanza in via de la Jussienne, nei pressi della Halle-aux-

Blés, e aveva avuto il grossolano buon senso di accettare

la presidenza della sua sezione, per far difendere il proprio

commercio dai personaggi più influenti di quella pericolosa

epoca. Tale saggezza era stata l'origine della sua fortuna

che cominciò durante la carestia, falsa o vera, in seguito

alla quale il grano raggiunse a Parigi un prezzo enorme. Il

popolo si ammazzava dinanzi alla porta dei fornai, mentre

alcuni andavano a cercare senza chiasso le paste

alimentari dai droghieri. Durante quell'anno il cittadino

Goriot mise insieme un capitale che più tardi gli servì a

esercitare il suo commercio, con tutta la superiorità che dà

a chi la possiede una forte disponibilità di denaro. Gli capitò

quel che accade a tutti gli uomini la cui capacità è solo

relativa. La sua mediocrità lo salvò. Del resto, poiché la sua

fortuna fu conosciuta quando non era più un pericolo esser

ricchi, non provocò l'invidia di nessuno. Il commercio del

grano sembrava aver assorbito tutta la sua intelligenza. Se

si trattava di grani, di farine, di granaglie, di riconoscere le

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loro qualità, le provenienze, di curare la loro

conservazione, di prevederne il corso del prezzo, di

profetare l'abbondanza o la penuria dei raccolti, di

procurarsi i cereali a buon mercato, di approvvigionarsene

in Sicilia, in Ucraina, Goriot non aveva l'uguale. A vederlo

trattare i suoi affari, discutere delle leggi sull'esportazione,

sull'importazione dei grani, studiarne lo spirito, coglierne i

difetti, lo si sarebbe ritenuto capace d'essere un ministro.

Paziente, attivo, energico, costante, sollecito nelle

spedizioni della merce, aveva un occhio d'aquila, preveniva

tutto, prevedeva tutto, sapeva tutto, nascondeva tutto;

diplomatico per concepire, soldato per marciare. Fuori della

sua specialità, della sua semplice e oscura bottega, sulla

soglia della quale rimaneva nelle ore d'ozio, le spalle

appoggiate allo stipite, tornava a essere l'operaio stupido e

grossolano, l'uomo che si addormentava durante uno

spettacolo a teatro, uno di quei Dolibans parigini, forti solo

in stupidaggini. Queste nature si rassomigliano quasi tutte.

Nel cuore di quasi tutte troverete un sentimento sublime.

Due sentimenti esclusivi avevano riempito il cuore del

vermicellaio, ne avevano assorbito l'umore, come il

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commercio del grano assorbiva tutta la sua intelligenza. La

moglie, figlia unica di un ricco fattore della Brie, fu per lui

oggetto d'una ammirazione religiosa, d'un amore

sconfinato. Goriot aveva ammirato in lei una natura fragile

e forte, semplice e graziosa, che contrastava

profondamente con la sua. Se c'è un sentimento innato nel

cuore dell'uomo, non è esso l'orgoglio della protezione

esercitata ogni momento a favore di un essere debole?

Aggiungeteci l'amore, quella riconoscenza viva di tutte le

anime schiette per il fondamento dei loro piaceri, e

comprenderete una quantità di bizzarrie morali. Dopo sette

anni di felicità senza nubi, Goriot, disgraziatamente per lui,

perdette sua moglie:

questa cominciava a dominarlo, fuori della sfera dei

sentimenti.

Forse sarebbe riuscita a coltivare quella natura inerte,

forse sarebbe riuscita a seminarvi l'intelligenza delle cose

del mondo e della vita. In tale situazione, il sentimento

della paternità si sviluppò in Goriot fino alla

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irragionevolezza. Egli riversò il suo affetto, tradito dalla

morte, sulle due figlie, che, da principio, soddisfecero

appieno tutti i suoi sentimenti. Per quanto brillanti fossero

le proposte fattegli da negozianti o da fattori desiderosi di

dargli le loro figlie, volle rimanere vedovo. Il suocero, il

solo uomo per il quale aveva avuto simpatia, pretendeva di

sapere con certezza che Goriot aveva giurato di non

commettere alcuna infedeltà verso la moglie, anche dopo

morta. La gente della Halle, incapace di capire questa

sublime follia, ci rideva su, e appioppò a Goriot qualche

grottesco soprannome. Il primo che, bevendo il vino a

coronamento d'un affare combinato, si permise di

pronunciarlo, ebbe dal vermicellaio un pugno sulla spalla

che lo stese a terra, facendogli battere la testa contro un

paracarro della via Oblin. L'affetto sconsiderato, l'amore

ombroso e delicato che Goriot nutriva per le figlie era così

conosciuto, che un giorno uno dei suoi concorrenti,

volendolo fare allontanare dal mercato per restare arbitro

dei prezzi, gli disse che Delfina era stata investita da un

carrozzino. Il vermicellaio, pallido e smorto, lasciò subito la

Halle. Stette male parecchi giorni in seguito alla reazione

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dei sentimenti contrari provocata in lui da quella falsa

notizia. Se non assestò questa volta il suo colpo mortale

sulla spalla di quell'uomo, lo cacciò tuttavia dalla Halle e lo

costrinse, in una circostanza critica, a dichiarare fallimento.

L'educazione che diede alle due figlie fu, naturalmente,

anch'essa irragionevole. Godendo di una rendita di più di

sessantamila lire, e non spendendo che appena

milleduecento franchi per sé, la felicità di Goriot stava tutta

nel soddisfare i capricci delle figlie; i migliori insegnanti

furono incaricati di dotarle di quelle capacità che denotano

una buona educazione; ebbero una damigella di

compagnia; fortunatamente per loro, fu una donna di

spirito e di gusto; montavano a cavallo, avevano carrozza,

vivevano come avrebbero vissuto le amanti d'un vecchio

signore ricco; bastava che esprimessero i più costosi

desideri per vedere il padre affrettarsi a soddisfarli; e non

chiedeva che una carezza in cambio dei suoi doni. Goriot

collocava le figlie nell'ordine degli angeli, e,

necessariamente, al di sopra di sé, il pover'uomo! Amava

perfino il male che quelle gli arrecavano.

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Quando le figlie furono in età da marito, le lasciò libere di

sceglierselo secondo i propri i gusti; ognuna avrebbe avuto

in dote la metà della sostanza del padre. Corteggiata per la

sua bellezza dal conte de Restaud, Anastasia aveva

tendenze aristocratiche che la condussero a lasciare la casa

paterna per lanciarsi nelle alte sfere sociali. Delfina amava

il denaro; sposò Nucingen, banchiere d'origine tedesca che

divenne barone del Sacro Impero. Goriot rimase

vermicellaio. Le figlie e i generi si offesero presto di

vedergli continuare quel commercio, sebbene questo fosse

per lui tutta la sua vita. Dopo aver subìto per cinque anni

le loro insistenze, acconsentì di ritirarsi a vivere coi

prodotti dei suoi fondi e i guadagni procuratigli dall'azienda

negli ultimi anni; un capitale che la signora Vauquer,

presso la quale era andato a stabilirsi, aveva stimato

fruttare dalle otto alle diecimila lire di rendita. Egli si

ridusse in quella pensione per il dolore provato nel vedere

le due figlie costrette dai loro mariti a rifiutare non solo di

prenderlo con loro, ma anche di riceverlo alla luce del sole.

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Questo era tutto quel che sapeva un certo signor Muret sul

conto di papà Goriot, del quale aveva acquistato i fondi. Le

supposizioni che Rastignac aveva sentito fare dalla

duchessa de Langeais erano, così, confermate. E qui finisce

l'esposizione di questa oscura, ma tremenda tragedia

parigina.

Verso la fine di quella prima settimana del mese di

dicembre, Rastignac ricevette due lettere: una di sua

madre, un'altra della sorella maggiore. Quelle calligrafie

così ben conosciute lo fecero al tempo stesso esultare di

gioia e tremar di paura. Quei due fragili fogli di carta

contenevano una sentenza di vita o di morte per le sue

speranze. Se provava un po' di timore ricordando le

ristrettezze dei suoi genitori, aveva tuttavia sperimentato

troppo bene la loro predilezione per non temere di aver

succhiato le loro ultime gocce di sangue. La lettera della

madre era così concepita:

"Mio caro figliolo, t'invio quel che mi hai chiesto. Fai buon

uso di questo denaro; non potrei, quand'anche si trattasse

di salvarti la vita, trovare una seconda volta una somma

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così importante senza che tuo padre ne fosse informato: e

ciò turberebbe l'armonia della nostra famiglia. Per

procurartela, dovrebbe accendere ipoteche sulla nostra

terra. Mi è impossibile dar giudizi di merito su progetti che

non conosco: ma di che natura dunque essi sono, per farti

temere di confidarmeli? Una spiegazione non richiedeva poi

dei volumi, a noi madri basta una parola, ed essa mi

avrebbe risparmiato le angosce dell'incertezza. Non potrei

nasconderti l'impressione dolorosa che mi ha causato la tua

lettera. Mio caro figlio, qual è dunque il sentimento che ti

ha costretto a gettare nel mio cuore un tale timore? Devi

avere molto sofferto, scrivendomi, perché ho molto sofferto

leggendoti. Quale carriera vuoi dunque abbracciare? La tua

vita, la tua felicità sarebbero forse destinate a farti

comparire quel che non sei, a frequentare un ambiente

dove non sapresti andare senza fare spese che non puoi

sostenere, senza perdere un tempo prezioso per i tuoi

studi? Mio buon Eugenio, credi al cuore di tua madre: le vie

tortuose non conducono a niente di grande. La pazienza e

la rassegnazione debbono essere le virtù dei giovani che si

trovano nella tua posizione. Non ti rimprovero, non vorrei

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aggiungere al nostro invio alcuna amarezza. Le mie parole

sono quelle di una madre fiduciosa quanto previdente. Se

tu sai quali sono i tuoi obblighi, io so, da parte mia, come il

tuo cuore sia puro, come le tue intenzioni siano ottime. E

perciò posso dirti senza tema: Va', mio diletto, cammina!

Tremo perché sono madre; ma ogni tuo passo sarà

teneramente accompagnato dai nostri voti e dalle nostre

benedizioni. Sii prudente, caro figliolo. Devi essere saggio

come un uomo maturo, il destino di cinque persone a te

care è posto nella tua ragionevolezza. Sì, tutte le nostre

fortune sono in te, come la tua felicità è la nostra. Noi tutti

preghiamo Dio di secondarti nelle tue imprese. Tua zia

Marcillac è stata, in questa circostanza, d'una bontà

inaudita: è arrivata perfino a comprendere quel che mi

dicevi a proposito dei tuoi guanti. Ma lei ha un debole per il

primogenito, diceva scherzosamente. Eugenio mio, sii

affezionato molto a tua zia; ti dirò quel che ha fatto per te

solo quando le cose ti saranno andate bene, altrimenti il

suo denaro ti brucerebbe le dita. Voi ragazzi non sapete

quanto sia doloroso sacrificare cari ricordi. Ma che cosa non

si sacrificherebbe per voi? La zia m'incarica di dirti che ti

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bacia in fronte e che vorrebbe comunicarti con questo

bacio la forza d'essere spesso felice. La buona ed

eccellente donna ti avrebbe scritto se non avesse la gotta

alle dita. Tuo padre sta bene. Il raccolto del 1819

oltrepassa le nostre speranze. Addio, figlio caro, non ti dirò

nulla delle sorelle: Laura ti ha scritto. Lascio a lei il piacere

di chiacchierare sui piccoli fatti di casa.

Voglia il cielo che tu riesca! Oh, sì, riesci, Eugenio mio, tu

mi hai fatto conoscere un dolore troppo forte perché io

possa sopportarlo una seconda volta. Ho saputo che cosa

vuol dire essere poveri quando ho desiderato la ricchezza

per poterla donare a mio figlio. E ora, addio. Non lasciarci

senza notizie e abbi il bacio che t'invia tua madre".

Quando Eugenio ebbe terminato di leggere questa lettera,

era in lacrime; pensava a papà Goriot che aveva contorto il

suo argento dorato e l'aveva venduto per poter pagare la

cambiale della figlia. "Tua madre ha contorto i suoi

gioielli!", egli diceva fra sé e sé. "Tua zia ha certamente

pianto nel vendere uno dei suoi ricordi! Con quale diritto

malediresti tu Anastasia? Tu non fai che imitare, per

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l'egoismo del tuo avvenire, ciò che lei ha fatto per il suo

amante! Chi vale di più: lei o te?". Lo studente si sentì le

viscere róse da un senso di calore intollerabile. Voleva

rinunciare alla società, non voleva prendere quel denaro.

Provò quei nobili e bei rimorsi segreti il cui merito

raramente è apprezzato dagli uomini quando giudicano i

loro simili, ma che fanno spesso assolvere dagli angeli del

cielo il criminale condannato dai giuristi della terra.

Rastignac aprì la lettera della sorella, le cui espressioni

innocentemente graziose gli rinfrancarono il cuore.

"La lettera è arrivata assai a proposito, caro fratello. Agata

e io volevamo spendere il nostro denaro in tanti modi

diversi, che non sapevamo più a quale acquisto deciderci.

Hai fatto come il domestico del re di Spagna, quando

rovesciò gli orologi del padrone: ci hai messe d'accordo!

Veramente, eravamo sempre in contrasto intorno a quello

dei nostri desideri al quale avremmo dato la preferenza, e

non avevamo indovinato, mio buon Eugenio, l'impiego che

li avrebbe compresi tutti. Agata ha saltato dalla gioia.

Insomma, siamo state come due pazze per tutta la

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giornata, a "tali insegne" (stile della zia) che mammà ci

diceva con la sua aria severa: Ma che diamine avete,

signorine? Se ci avessero sgridato un pochino, ne saremmo

state, credo, ancor più contente.

Una donna deve provare molto piacere nel soffrire per colui

che ama! Io sola ero distratta e triste pur in mezzo alla mia

gioia.

Sarò senza dubbio una cattiva moglie, sono troppo

spendereccia. Mi ero comprata due cinte, un punteruolo

tanto carino per far gli occhielli ai miei busti, e altre

sciocchezze, e così avevo meno denaro della grossa Agata,

che è parsimoniosa e ammucchia gli scudi come una gazza.

Lei aveva duecento franchi! Io, mio povero amico, ho

soltanto cinquanta scudi. Sono dunque ben punita, e vorrei

buttare la cinta nel pozzo, tanto mi sarà sempre penoso

portarla. Ti ho derubato. Agata è stata proprio carina. Mi

ha detto: "Mandiamogli trecentocinquanta franchi fra tutte

e due!".

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Ma non posso trattenermi dal raccontarti come le cose

sono andate.

Sai come abbiamo fatto per obbedire ai tuoi ordini?

Abbiamo preso il nostro glorioso denaro, siamo andate

tutte e due a passeggio e, una volta arrivate alla strada

maestra, siamo corse a Ruffec e abbiamo consegnato la

somma al signor Grimbert, gerente delle Messaggerie reali!

Eravamo, al ritorno, leggere come rondini.

"Sarà il piacere che ci rende così?" , mi ha detto Agata. Ci

siamo dette mille cose che però non vi ripeterò, signor

Parigino, in quanto si parlava troppo di voi. Oh!, caro

fratello, ti vogliamo tanto bene: ecco detto tutto in due

parole. Quanto al segreto, piccole volpi come noi due,

secondo la zia, sono capaci di tutto:

anche di tener acqua in bocca... Mamma è andata in gran

mistero ad Angouleme con la zia, e tutte e due hanno

mantenuto il silenzio sull'alta politica del loro viaggio, che

ha avuto luogo dopo lunghe conferenze dalle quali tanto

noi che il signor barone siamo stati tenuti lontani. Grandi

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congetture occupano gli spiriti dello Stato di Rastignac.

L'abito di mussolina con fiori a traforo che le infanti stanno

ricamando per sua maestà la regina procede nel più

profondo segreto. Sono rimaste da fare soltanto due parti.

E' stato deciso che non si costruirà più il muro dalla parte

di Verteuil e invece ci si metterà una siepe. Il popolino ci

perderà in frutta e spalliere, ma in compenso i forestieri ci

guadagneranno una bella vista. Se l'erede presunto avesse

bisogno di fazzoletti, è avvertito che la signora vedova de

Marcillac, frugando nei suoi scrigni e nei suoi bauli,

conosciuti sotto i nomi di Pompei e di Ercolano, ha scoperto

una pezza di bella tela d'Olanda, che non ricordava di

avere; le principesse Agata e Laura pongono agli ordini

dell'erede il loro filo, il loro ago, e mani sempre un poco

troppo rosse. I due principi cadetti don Enrico e don

Gabriele hanno conservato la funesta abitudine

d'impinzarsi di mosto cotto, di far inquietare le sorelle, di

non voler imparare nulla, di divertirsi a dar la caccia ai nidi,

di far chiasso e di tagliare, contro le leggi dello Stato, rami

di vinco per farne frustini. Il nunzio del papa, volgarmente

chiamato signor curato, minaccia di scomunicarli se

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continueranno a trascurare i santi canoni della grammatica

per i bellicosi cannoni di sambuco. Addio, caro fratello, mai

lettera ha recato, più di questa, tanti voti formulati per la

tua felicità, né tanto soddisfatto amore. Chissà quante cose

avrai da raccontarci al tuo ritorno! E dovrai dire tutto a me,

che sono la maggiore. La zia ci ha lasciato capire che tu

riscuoti dei successi in società.

"Si parla di una dama e si tace sul resto".

Tra noi ci s'intende! Dillo pure francamente, Eugenio, se

invece dei fazzoletti preferisci che ti facciamo delle camicie.

Rispondimi presto in proposito. Se ti occorresse presto

qualche bella camicia ben cucita saremo felici di metterci

subito al lavoro; e se ci fossero a Parigi fatture che non

conoscessimo, mandaci un modello, specialmente per i

polsini. Addio, addio! Ti bacio in fronte sul lato sinistro,

sulla tempia di mia esclusiva proprietà. Lascio l'altra pagina

per Agata, che m'ha promesso di non leggere nulla di quel

che ti ho scritto. Ma, per essere più sicura, rimarrò vicino a

lei mentre ti scriverà. Tua sorella che ti ama.

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Laura de Rastignac".

"Oh!, sì", disse fra sé e sé Eugenio, "la fortuna a ogni

costo.

Dei tesori non compenserebbero questo sacrificio. Vorrei

apportare loro tutte le felicità insieme. Millecinquecento

franchi!", aggiunse dopo una pausa. "Ogni moneta dovrà

colpire nel segno!

Laura ha ragione. Perdinci!, ho soltanto camicie di tela

ordinaria. Per la felicità di un altro, una giovinetta diventa

furba quanto un ladro. Innocente per sé e previdente per

me, è come l'angelo del cielo che perdona gli errori della

terra senza comprenderli".

Il mondo era suo! Già il suo sarto era stato da lui

chiamato, saggiato, conquistato. Vedendo il signor de

Trailles, Rastignac aveva valutato l'importanza dei sarti

nella vita dei giovani.

Ahimè!, non ci sono mezzi termini: un sarto è o un nemico

mortale, o un amico procuratoci dal conto pagato. Quello di

Eugenio era un uomo consapevole della paternità della sua

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industria, e si considerava come un anello di congiunzione

tra il presente e l'avvenire dei giovani. Perciò Rastignac,

riconoscente, fece la fortuna di quest'uomo con una di

quelle battute per le quali più tardi divenne celebre. "Un

suo paio di pantaloni ha fatto concludere matrimoni da

ventimila lire di rendita".

Millecinquecento franchi e abiti a piacere! In quel momento

il povero Meridionale non ebbe più dubbi, e scese a far

colazione con quell'aria indefinibile che conferisce a un

giovane il possesso d'una somma qualsiasi. Quando il

denaro scivola entro la tasca d'uno studente, si erge contro

di lui una colonna immaginaria su cui egli si appoggia.

Cammina più spedito, sente di avere un punto d'appoggio

per la sua leva, ha lo sguardo ampio, diretto, ha i

movimenti agili; il giorno prima, umile e timido, si

lascerebbe picchiare; l'indomani picchierebbe anche un

primo ministro. Si producono in lui fenomeni inauditi: vuole

tutto e può tutto, desidera a casaccio, è gaio, generoso,

espansivo. Insomma, l'uccello dianzi implume, ora vola ad

ali spiegate. Lo studente squattrinato addenta una briciola

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di piacere come un cane ruba un osso superando mille

pericoli, lo stritola, ne succhia il midollo, e ancora corre;

ma il giovane che fa tintinnare nel taschino poche fuggevoli

monete d'oro pregusta i propri godimenti, li particolarizza,

se ne compiace, si dondola nel cielo, non sa più cosa

significhi la parola: "miseria". Parigi è tutta sua. Età in cui

tutto è lucente, tutto scintilla e fiammeggia! Età di forza

gioiosa di cui nessuno approfitta, né l'uomo né la donna !

Età di debiti e di vivi timori che centuplicano ogni piacere!

Chi non ha frequentato la riva sinistra della Senna, tra la

via Saint-Jacques e la via dei Saints-Pères, non sa nulla

della vita umana!

"Ah!, se le donne parigine sapessero!", si diceva Rastignac

divorando le pere cotte a un soldo l'una, fatte servire dalla

signora Vauquer, "verrebbero a farsi amare qui". In quel

momento un fattorino delle Messaggerie reali si presentò

nella sala da pranzo, dopo aver suonato al cancello. Chiese

del signor Eugenio de Rastignac, cui porse due sacchetti da

ritirare, e un registro da firmare. Rastignac fu allora

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sferzato come da un colpo di frusta, dallo sguardo profondo

lanciatogli da Vautrin.

- Ora potrete di che pagare le lezioni di scherma e gli

esercizi di tiro - gli disse quell'uomo.

- Sono arrivate le caravelle - gli disse la signora Vauquer

guardando i sacchetti.

La signorina Michonneau temeva di fermare lo sguardo sul

denaro, nella tema di palesare la sua bramosia.

- Avete una madre molto buona - disse la signora Couture.

- Il signore deve avere una madre molto buona - ripeté

Poiret.

- Sì, la mamma s'è svenata - disse Vautrin. - Potrete ora

farne di tutti i colori, andare in società, pescarvi doti, e

ballare con le contesse che hanno guarnizioni di fior di

pesco tra i capelli. Ma date retta a me, giovanotto,

frequentate il tiro a segno.

Vautrin fece il gesto di un uomo che mira al suo avversario.

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Rastignac voleva dare la mancia al fattorino, ma non si

trovò nulla in tasca. Vautrin frugò nella sua, e gettò venti

soldi all'uomo.

- Avete buon credito - riprese guardando lo studente.

Rastignac dovette ringraziarlo sebbene, dopo le parole

aspramente scambiatesi il giorno in cui era tornato dalla

sua visita alla signora de Beauséant,quell'uomo

glifossedivenuto insopportabile. Durante quegli otto giorni

Eugenio e Vautrin erano rimasti silenziosi uno di fronte

all'altro, e si osservavano scambievolmente. Lo studente si

chiedeva invano il perché. Senza dubbio le idee si

proiettano in ragione diretta della forza con cui vengono

concepite, e vanno a colpire là dove il cervello le invia, per

una legge matematica paragonabile a quella che guida i

proiettili quando escono dal mortaio. Gli effetti sono

diversi. Ci sono nature deboli, nelle quali le idee si

conficcano e le devastano, ma ci sono anche nature

fortemente protette, crani dai bastioni di bronzo su cui le

volontà degli altri si appiattiscono e cadono come palle

dinanzi a una muraglia; ci sono poi ancora nature flosce e

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bambagiose nelle quali le idee altrui vengono a morire

come pallottole che si attutiscono nella terra molle delle

ridotte. Rastignac aveva una di quelle teste piene di

polvere che saltano in aria al minimo urto. Era troppo

vivacemente giovane per non offrire il bersaglio a tali idee,

per non subire il contagio di tali sentimenti, di cui tanti

bizzarri fenomeni ci colpiscono a nostra insaputa. La sua

visione morale aveva la gittata lucida dei suoi occhi di

lince. Ognuno dei suoi doppi sensi aveva quella lunghezza

misteriosa, quella flessibilità d'andata e ritorno che ci

sorprende nelle persone superiori, spadaccini abili nel

trovare il punto debole di tutte le corazze. Da un mese, per

altro, s'erano sviluppati in Eugenio tanti pregi quanti difetti.

I difetti gli erano stati imposti dalla società mondana e dal

proposito di realizzare i suoi sempre crescenti desideri. Tra

i pregi c'era quella vivacità meridionale che fa tirar diritto

lungo le difficoltà per risolverle, e che non consente a un

uomo d'oltre Loira di indugiare in una incertezza qualsiasi;

pregio che la gente del Nord considera un difetto: secondo

essa, se fu l'origine della fortuna di Murat, fu anche la

causa della sua morte.

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Bisognerebbe concludere che, quando un meridionale

riesce ad accoppiare la furberia del Nord all'audacia

dell'oltre Loira, egli è completo e rimane re di Svezia.

Rastignac non poteva dunque restare a lungo sotto il fuoco

delle batterie di Vautrin senza sapere se quest'uomo era un

amico o un nemico.

Di momento in momento gli sembrava che quel singolare

personaggio penetrasse sempre più nel segreto delle sue

passioni, e gli leggesse nel cuore, mentre in colui tutto

rimaneva così ben nascosto, da sembrare dotato della

profondità immobile d'una sfinge che sa, vede tutto, e non

dice nulla. Sentendosi le tasche piene, si ribellò.

- Fatemi il favore di attendere - disse a Vautrin che s'era

alzato per uscire, dopo aver assaporato gli ultimi sorsi di

caffè.

- Perché? - rispose il quarantenne calzandosi il cappello a

larghe tese e prendendo un bastone di ferro col quale

faceva spesso mulinelli da uomo che non avrebbe temuto

d'essere assalito da quattro malfattori.

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- Voglio pagare il mio debito - riprese Rastignac,

sciogliendo rapidamente un sacchetto e contando

centoquaranta franchi alla signora Vauquer. - Conti chiari

amici cari - disse alla vedova.

Siamo pari fino a San Silvestro. Cambiatemi, per favore,

questi cento soldi.

- Amici cari conti chiari - ripeté Poiret guardando Vautrin.

- Ecco i venti soldi - disse Rastignac tendendo una moneta

alla sfinge in parrucca. Si direbbe che avete paura di

dovermi qualcosa! - esclamò Vautrin ficcando uno sguardo

divinatorio nell'animo del giovane, cui fece uno di quei

sorrisi beffardi e alla Diogene per i quali Eugenio era stato

mille volte sul punto di litigare.

- Ma..., sì - rispose lo studente, che teneva i due sacchetti

in mano e s'era alzato per salire in camera sua.

Vautrin usciva dalla porta che dava nel salotto, e lo

studente si disponeva ad andarsene per la porta che

conduceva sul pianerottolo.

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- Ma lo sapete, signor marchese de Rastignacorama, che

quel che mi dite non è perfettamente gentile? - disse allora

Vautrin, sbattendo la porta del salotto e andando verso lo

studente, che lo guardò freddamente.

Rastignac chiuse la porta della sala da pranzo, conducendo

con sé Vautrin, ai piedi della scala, nel vano che separava

la sala da pranzo dalla cucina, dov'era una porta che dava

nel giardino, sormontata da una grande finestra guarnita di

sbarre di ferro. Là, lo studente disse dinanzi a Silvia che

sbucò dalla cucina:

- Signor Vautrin, io non sono marchese, e non mi chiamo

Rastignacorama.

- Adesso si battono - disse la signorina Michonneau con

aria indifferente.

- Si battono - ripeté Poiret.

- Ma no - rispose la signora Vauquer, accarezzando la sua

pila di scudi.

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- Ma non vedete che se ne vanno sotto i tigli? - esclamò la

signorina Vittorina, levandosi per guardare nel giardino. -

Quel povero giovane, però, ha ragione.

- Andiamocene su, mia cara piccola - disse la signora

Couture sono affari che non ci riguardano.

Quando la signora Couture e Vittorina si alzarono,

incontrarono sulla porta, la grossa Silvia che sbarrò loro il

passo.

- Che cosa succede? - chiese. - Il signor Vautrin ha detto al

signor Eugenio: "Spieghiamoci!". Poi, l'ha preso per un

braccio, ed eccoli là che camminano tra i nostri carciofi.

In quel momento Vautrin apparve.

- Signora Vauquer - disse sorridendo - non abbiate timore

di nulla, vado a provare le mie pistole sotto i tigli.

- Oh, signore - fece Vittorina congiungendo le mani -

perché volete uccidere il signor Eugenio?

Vautrin fece due passi indietro e guardò Vittorina.

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- Ecco un'altra storia - egli esclamò con una voce beffarda

che fece arrossire la povera ragazza. - E' tanto grazioso,

non è vero?, quel giovanotto - egli riprese. - Mi fate venire

un'idea.

Farò la felicità di voi due, mia bella figliola.

La signora Couture aveva preso la sua pupilla per un

braccio e l'aveva portata via, dicendole all'orecchio:

- Ma Vittorina, stamattina siete proprio incredibile!

- Non voglio che si tirino di pistola in casa mia - disse la

signora Vauquer. - Così mi spaventate tutto il vicinato e

farete accorrere la polizia.

- Andiamo, calma, mammà Vauquer - rispose Vautrin. - Là,

là, va bene, andremo al tiro. - Raggiunse Rastignac e,

presolo confidenzialmente sotto braccio, gli disse: -

Quando vi avessi provato che a trentacinque passi metto

cinque volte di seguito la mia pallottola in un asso di

picche, non per questo vi perdereste di coraggio. Avete

l'aria d'essere alquanto rabbiosetto e vi fareste ammazzare

come un imbecille.

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- Voi indietreggiate - disse Eugenio.

- Non mi provocate - rispose Vautrin. - Non fa freddo,

questa mattina, andiamo a sederci laggiù - aggiunse

indicando le sedie verniciate di verde. - Là nessuno ci

sentirà. Ho da parlarvi.

Siete un bravo ragazzo e non vi voglio male. Vi voglio

bene, parola di Tromp... (per mille fulmini!) parola di

Vautrin. Per quale ragione vi voglio bene, ve lo spiegherò.

Intanto sappiate che vi conosco come se vi avessi fatto io,

e ve lo proverò.

Appoggiate lì i vostri sacchetti - riprese, indicandogli la

tavola rotonda.

Rastignac posò il denaro sulla tavola e si sedette in preda a

una curiosità acuita in lui al più alto grado dal subitaneo

cambiamento verificatosi nei modi di quell'uomo, il quale,

dopo aver parlato di ucciderlo, si atteggiava a suo

protettore.

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- Voi vorreste sapere chi sono, quel che ho fatto, o quel

che faccio - riprese Vautrin. - Siete troppo curioso, figliolo

mio.

Suvvia, un po' di calma. Ne sentirete ben altre! Ho avuto

molte disgrazie. Prima statemi a sentire, e poi replicherete.

Ecco la mia vita passata, in tre parole. Chi sono? Vautrin.

Che faccio?

Quel che mi pare. Andiamo avanti. Volete conoscere il mio

carattere? Sono buono con chi mi fa del bene o con chi ha

un cuore che parla al mio. A loro è permesso tutto:

possono prendermi a calci negli stinchi senza che io dica

loro: "Bada!". Ma, perdio!

sono cattivo come il diavolo con chi mi molesta o non mi va

a genio. Ed è bene sappiate che l'uccidere un uomo mi

preoccupa tanto così! - disse sputando. - Cerco tuttavia di

ucciderlo bene e quando è assolutamente necessario. Sono

quel che voi chiamate un artista. Ho letto le "Memorie" di

Benvenuto Cellini, così come mi vedete, e per di più in

italiano! Ho imparato da quell'uomo, un uomo risoluto, a

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imitare la Provvidenza, che ci fa morire a casaccio, e ad

amare il bello ovunque esso si trovi. Non è, del resto

giocare una bella partita il trovarsi solo contro tutti e aver

fortuna? Ho ben riflettuto alla costituzione attuale del

vostro disordine sociale. Ragazzo mio, il duello è un gioco

da bambini, una sciocchezza. Quando di due uomini vivi

uno deve scomparire, bisogna essere degli imbecilli per

rimettersi al caso.

Il duello! Testa o croce!, ecco tutto. Io metto cinque

pallottole di seguito in un asso di picche, in modo che ogni

nuova pallottola ricalchi la precedente, e a trentacinque

passi per di più! Quando si è dotati di questa piccola

capacità, ci si può ritener certi di buttare giù il proprio

avversario. Ebbene!, ho tirato su di un uomo a venti passi

e non l'ho colpito. Quel birbone non aveva mai maneggiato

una pistola in vita sua. Guardate! - disse lo straordinario

uomo sbottonandosi il panciotto e mettendo in mostra il

petto villoso come la schiena di un orso, ma il cui pelo

fulvo incuteva una specie di disgusto misto a spavento - lo

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sbarbatello mi ha bruciacchiato il pelo - aggiunse mettendo

il dito di Rastignac su di un forellino che aveva in petto.

- Ma allora ero un ragazzo, avevo la vostra età: ventun

anni.

Credevo ancora in qualcosa, all'amore d'una donna: un

mucchio di sciocchezze in cui state per impelagarvi. Ci

saremmo battuti, non è vero? Avreste potuto uccidermi.

Supponete di avermi steso a terra; dove sareste voi?

Bisognerebbe fuggire, andare in Svizzera, mangiarsi i soldi

di papà, che non ne ha molti. Io voglio lumeggiarvi la

posizione in cui siete; ma lo farò con la superiorità di un

uomo che, dopo aver esaminato le cose di questo basso

mondo, ha visto che le soluzioni da adottare sono due: o

una stupida obbedienza, o la ribellione. Io non obbedisco a

niente, è chiaro? Sapete che cosa vi occorre, con l'andazzo

da voi preso? Un milione, e alla svelta; senza il quale, con

la vostra testolina, potete pure andare bighellonando fra le

reti di Saint-Cloud per vedere se esiste un Essere

Supremo. Il milione ve lo darò io. - Fece una pausa

guardando Eugenio. - Ah, ah!, ora fate un miglior viso a

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papà Vautrin! Sentendo queste mie parole, mi siete

sembrato simile a una ragazza cui si dica: "A questa sera!",

e che fa toletta gongolando come un gatto quando beve il

latte. Alla buon'ora. Suvvia! A noi! Ed ecco il vostro conto,

giovanotto.

Abbiamo laggiù papà, mamma, prozia, due sorelle (diciotto

e diciassette anni), due fratellini (quindici e dieci anni):

questo è il ruolino dell'equipaggio. La zia educa le sorelle.

Il curato dà lezione di latino ai fratelli. La famiglia mangia

più castagne lesse che pane bianco, papà tiene da conto i

suoi pantaloni, mamma ha appena un vestito per l'inverno

e uno per l'estate, le sorelle fanno alla meglio. So tutto,

conosco il Mezzogiorno. Le cose devono andar così in casa

vostra, se vi mandano milleduecento franchi all'anno, e

dato che la vostra terrina non rende che tremila franchi.

Abbiamo una cuoca e un domestico, bisogna conservare il

decoro, papà è barone. Quanto a noi, siamo ambiziosi;

abbiamo per parenti i Beauséant e andiamo a piedi,

vogliamo la ricchezza e non abbiamo un soldo, mangiamo

la sbobba di mamma Vauquer e ci piacciono i bei pranzi del

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faubourg Saint- Germain, dormiamo su di un giaciglio e

vorremmo avere un palazzo.

Non biasimo i vostri desideri. Avere dell'ambizione,

cuoricino mio, non è da tutti. Chiedete alle donne quali

uomini preferiscono: gli ambiziosi. Gli ambiziosi hanno le

reni più resistenti, il sangue più ricco di ferro, il cuore più

caldo, degli altri uomini. E la donna è così felice e così bella

nelle ore in cui è forte, che preferisce a tutti gli uomini

quello che ha una forza enorme, a costo d'essere spezzata

da lui. Sto facendo l'inventario dei vostri desideri per farvi

una domanda. La domanda è questa. Abbiamo una fame

da lupi, i nostri dentini sono aguzzi:

come faremo a riempire la pentola? Prima di tutto

dobbiamo mangiare il codice; non è divertente, e non

serve a nulla!, ma è necessario mangiarlo. Sia pur così. Ci

facciamo avvocato per diventare presidente d'una corte

d'assise, e condannare ai lavori forzati poveri diavoli

migliori di noi, con un: L. F. sulla spalla, per assicurare ai

ricchi sonni tranquilli. Non è divertente, e poi è cosa lunga.

Prima, due anni di attesa a Parigi, passandoli a guardare,

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ma senza toccare, le chicche di cui siamo ghiotti. E' noioso

desiderare sempre e non soddisfarsi mai.

Se foste pallido e della natura dei molluschi non avreste

nulla da temere, ma abbiamo il sangue febbrile dei leoni e

un appetito, da far venti sciocchezze al giorno. Ma voi

soccomberete a un simile supplizio, il più orribile che si sia

immaginato nell'inferno del buon Dio. Ammettiamo che

siate giudizioso, che beviate latte e scriviate elegie;

bisognerà cominciare, generoso come siete, dopo tante

noie e privazioni da far diventare arrabbiato un cane, col

diventare sostituto di qualche briccone, in una misera

cittadina dove il governo vi darà mille franchi di stipendio,

come si butta il pancotto al cane del macellaio. Abbaia

appresso ai ladri, difende i ricchi, fa ghigliottinare la gente

di fegato. Molto obbligato! Se non avrete qualcuno che vi

protegge, ammuffirete nel vostro tribunale di provincia.

Verso i trent'anni sarete giudice a milleduecento franchi

l'anno, se nel frattempo non avrete gettato la toga alle

ortiche. Quando avrete raggiunto la quarantina, sposerete

la figlia di qualche mugnaio, ricco di circa seimila lire di

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rendita. Grazie! Se avrete protezioni, sarete procuratore

del re a trent'anni, con mille scudi di stipendio, e sposerete

la figlia del Sindaco. Se commetterete qualcuna di quelle

piccole bassezze politiche, come ad esempio quella di

leggere su di un bollettino Villèle invece di Manuel (c'è la

rima e perciò la coscienza è a posto), sarete, a

quarant'anni, procuratore generale, e potrete anche

diventare deputato. Tenete conto, mio caro ragazzo, che

intanto avremo fatto qualche strappo alla nostra coscienza,

avremo avuto vent'anni di fastidi, di miserie nascoste, e

che le nostre sorelle saranno rimaste zitelle. Ho inoltre

l'onore di farvi osservare che in Francia i procuratori

generali sono in tutto venti, mentre ad aspirare a quel

grado siete in ventimila, fra cui ci sono dei tipi capaci

anche di vendersi la famiglia pur di salire un gradino. Se

questo mestiere non è di vostro gradimento, vediamo

qualche altra cosa. Il barone di Rastignac vuol fare

l'avvocato? Oh, che bella cosa! Bisogna patire dieci anni,

spendere mille franchi al mese, avere una biblioteca, uno

studio, andare in società, baciare la toga di un avvocato

anziano per avere qualche causa, e spazzare il palazzo di

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giustizia con la lingua. Se un tale mestiere vi conducesse in

porto, non direi di no; ma trovatemi a Parigi cinque

avvocati che, a cinquant'anni, guadagnino più di

cinquemila franchi all'anno!

Ah, no!, piuttosto che avvilirmi così, preferirei fare il

corsaro.

D'altra parte: dove trovare gli scudi? Tutto ciò non è

allegro.

Abbiamo una soluzione nella dote d'una donna. Volete

sposarvi?

Sarà come mettervi una pietra al collo; e poi, se vi

ammoglierete per ragioni d'interesse, dove vanno a finire il

nostro senso dell'onore, la nostra nobiltà? Tanto varrebbe

cominciare fin da oggi con la vostra ribellione alle

convenzioni umane. Non sarebbe nulla raggomitolarsi come

un serpente dinanzi a una donna, leccare i piedi della

madre, far bassezze tali da disgustare una scrofa, puah !,

se almeno trovaste la felicità. Ma, invece, sarete sfortunato

come le pietre delle fogne, con in più una moglie sposata

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per quei motivi. Ma allora è meglio lottare con gli uomini

che con la propria moglie. Ecco il crocicchio della vita,

giovanotto: scegliete. Voi avete già scelto: siete andato dal

nostro cugino Beauséant, e vi avete fiutato il lusso. Siete

andato dalla signora de Restaud, la figlia di papà Goriot, e

vi avete fiutato la parigina. Quel giorno, siete ritornato qui

con una parola scritta in fronte, e che io ho saputo ben

leggere:

ARRIVARE!, arrivare a ogni costo. Bravo!, mi sono detto,

ecco un uomo audace, che mi va a genio. Vi è occorso

denaro. Dove prenderlo? Avete salassato le sorelle. Tutti i

fratelli "scroccano" più o meno dalle sorelle. I vostri

millecinquecento franchi strappati, Dio sa come !, a un

paese dove ci sono più castagne che monete da cento

soldi, partiranno come soldati che vanno a far bottino. E

dopo, che farete? Lavorerete? Il lavoro, inteso come lo

intendete in questo momento, procura, in vecchiaia, un

alloggio in casa di mamma Vauquer ai giovani tipo Poiret.

Una rapida fortuna è il problema che si pongono in questo

istante cinquantamila giovani che si trovano tutti nella

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vostra situazione. Voi rappresentate una sola unità di quel

numero. Da ciò potrete immaginare gli sforzi che dovrete

compiere e l'accanimento della lotta. Dovrete sbranarvi

reciprocamente come ragni entro un vaso, dato che non ci

sono cinquantamila buoni posti. Sapete come qui ci si fa

strada? Col lampo del genio o con l'accortezza della

corruzione. Bisogna penetrare in questa massa d'uomini

come una palla di cannone, o infiltrarvisi come la peste.

L'onestà non serve a nulla. Ci si piega sotto il potere del

genio, lo si odia; si cerca di calunniarlo, perché esso

prende ma non dà; ma ci si piega a lui, se persiste; in una

parola, lo si adora in ginocchio quando non lo si è potuto

seppellire sotto il fango. Di corruzione ce n'è tanta, il

talento è raro. Perciò, la corruzione è l'arma della

mediocrità che abbonda, e voi ne sentirete ovunque la

punta. Vedrete donne i cui mariti hanno in tutto seimila

franchi di stipendio, e che ne spendono più di diecimila per

la loro toletta. Vedrete impiegati a milleduecento franchi

acquistare terre. Vedrete donne prostituirsi per andare

nella carrozza del figlio d'un pari di Francia, che può

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correre a Longchamp sulla pista principale. Avete visto quel

povero babbeo di papà Goriot costretto a pagare la

cambiale firmata da sua figlia, il cui marito ha

cinquantamila lire di rendita. Vi sfido a far due passi in

Parigi senza imbattervi in intrighi infernali. Scommetterei la

mia testa contro un piede di questa insalata che

incapperete in un vespaio presso la prima donna che vi

piacerà, anche se ricca, bella e giovane. Hanno tutte a che

fare con le leggi, in guerra coi mariti per qualunque cosa.

Non la finirei più se dovessi spiegarvi i mercimoni che

fanno per gli amanti, per le mode, per i figli, per la casa o

per la loro vanità; raramente per la virtù, siatene certo. E

così, l'uomo onesto è il nemico comune. Ma cosa credete

che sia l'uomo onesto? A Parigi, l'uomo onesto è colui che

tace, e si rifiuta di condividere un tal sistema di vita. Non vi

parlo di quei poveri iloti che ovunque sgobbano senza esser

mai ricompensati del loro lavoro, e che io chiamo la

confraternita delle ciabatte del buon Dio. Certo, là è la virtù

in tutto il fiore della sua sciocchezza, ma là è anche la

miseria. Vedo da qui la smorfia di questa brava gente, se

Iddio ci giocasse il brutto tiro di assentarsi al momento del

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giudizio universale. Se dunque volete far presto fortuna,

bisogna essere già ricco o sembrarlo.

Per arricchire, si tratta qui di giocare grossi colpi; se no, il

gioco è da spilorcio, e... servitor vostro! Se nelle cento

carriere che potete intraprendere, s'incontrano dieci uomini

che riescono rapidamente, il pubblico li chiama ladri.

Traete le vostre conclusioni. Ecco la vita così com'è. Non è

più bella della cucina, puzza quanto questa e bisogna

imbrattarsi le mani se si vuol mangiare bene; sappiate

tuttavia lavarvi bene la faccia; qui è tutta la morale

dell'epoca nostra.

Se vi parlo così del mondo, esso me ne ha dato il diritto, lo

conosco bene. Credete che lo biasimi? Per niente. E' stato

sempre così. I moralisti non lo cambieranno mai. L'uomo è

imperfetto. E', talvolta, più o meno ipocrita, e gli ingenui

dicono allora che egli è o non è morigerato. Non accuso i

ricchi in favore del popolo: l'uomo è lo stesso in alto, in

basso, al centro. Per ogni milione di questo alto bestiame si

trovano dieci persone risolute che si mettono al di sopra di

tutto, anche alle leggi, io sono di queste. Se voi siete un

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uomo superiore, marciate diritto e a testa alta. Ma dovrete

lottare contro l'invidia, la calunnia, la mediocrità, contro

tutti! Napoleone ha avuto un ministro della guerra che si

chiamava Aubry, e che per poco non lo spediva in colonia.

Misurate bene le vostre possibilità. Guardate se potrete

alzarvi ogni mattino con una volontà più forte di quella che

avevate il giorno prima. In tali congiunture, vi farò una

proposta che nessuno rifiuterebbe. Ascoltatemi bene. Io,

vedete, ho un'idea. La mia idea è di andare a vivere la vita

patriarcale in un grande possedimento, di centomila jugeri,

per esempio, negli Stati Uniti, nel Sud. Voglio farvi il

colonizzatore, avere sotto di me schiavi, guadagnare

qualche milioncino vendendo i miei buoi, il mio tabacco, la

mia legna, vivendo come un sovrano, facendo quel che

voglio, conducendo un'esistenza che non si concepisce qui,

dove ci si rannicchia in una tana di gesso. Io sono un

grande poeta. Le mie poesie, io non le scrivo; esse

consistono in azioni e in sentimenti. Posseggo, in questo

momento, cinquantamila franchi, coi quali potrei comprare

appena quaranta negri. Ho bisogno di duecentomila

franchi, perché voglio duecento negri, al fine di soddisfare

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il mio gusto per la vita patriarcale. I negri, vedete, sono dei

bambini venuti al mondo or ora, di cui si fa ciò che si

vuole, senza che un ficcanaso di procuratore del re venga a

chiedervene conto. Con un tal capitale nero, in capo a dieci

anni possiederò tre o quattro milioni. Se riesco, nessuno mi

domanderà:

Chi sei? Io sarò il signor Quattro Milioni, cittadino degli

Stati Uniti. Avrò cinquant'anni, non sarò ancora marcio, mi

divertirò a mio modo. In due parole: se vi procuro una dote

di un milione, mi darete duecentomila franchi? E' il venti

per cento di commissione; eh!; troppo? Vi farete amare

dalla vostra mogliettina. Una volta ammogliato, vi

mostrerete preoccupato, pentito, triste per quindici giorni.

Una notte, dopo qualche sdolcinatura, confesserete a

vostra moglie, fra due baci, di aver duecentomila franchi di

debito, dicendole: "Amor mio!". Questa commedia viene

recitata tutti i giorni dai giovani più distinti. Una giovane

non rifiuta mai il suo denaro a chi le prende il cuore.

Credete forse di rimetterci? No. Troverete la maniera di

riguadagnare i duecentomila franchi in un qualche affare.

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Col vostro denaro e con la vostra intelligenza, metterete

insieme una fortuna tanto considerevole quanto potete

desiderarla. Ergo, avrete fatto, in soli sei mesi, la vostra

felicità, quella di un'amabile donna e quella del vostro papà

Vautrin, senza contare quella della vostra famiglia che

d'inverno si soffia sulle dita per mancanza di legna.

Non vi meravigliate né di ciò che vi propongo né di ciò che

vi chiedo ! Su sessanta bei matrimoni celebrati a Parigi, ce

ne sono quarantasette che danno luogo a simili

mercanteggiamenti. La camera dei Notari ha costretto il

signor...

- Che cosa devo fare? - chiese avidamente Rastignac

interrompendo Vautrin.

- Quasi nulla - questi rispose lasciandosi sfuggire un moto

di gioia, simile alla sorda espressione d'un pescatore che

senta esservi un pesce all'estremità della lenza. -

Ascoltatemi bene! Il cuore d'una povera figlia sfortunata e

miserevole è la spugna più avida di riempirsi d'amore, una

spugna secca che si dilata non appena vi cada dentro una

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gocciola di sentimento. Fare la corte a una giovane sola,

sconfortata e povera, senza che essa supponga la ricchezza

che un giorno le dovrà arrivare!, caspita!, è come avere

buon gioco, come conoscere i numeri del lotto, come

giocare in borsa sulla rendita avendo prima avuto le

opportune notizie. In tal modo costruite su palafitte un

matrimonio indistruttibile. Se a questa ragazza piovono

milioni, lei ve li getterà ai piedi, come se fossero sassi.

"Prendi, amor mio! Prendi Adolfo! Alfredo!

Prendi, Eugenio", dirà, se Adolfo Alfredo Eugenio hanno

avuto il buon senso di sacrificarsi per lei. Intendo per

sacrificarsi vendere un abito vecchio per andare a

mangiare insieme al Cadran- Bleu i crostini coi funghi; da

lì, la sera, all'Ambigu-Comique, impegnare l'orologio al

Monte di Pietà per regalarle uno scialle.

E non vi parlo poi degli scarabocchi d'amore, né di quelle

sciocchezzuole cui tengono tanto le donne, come, ad

esempio, di spargere gocce d'acqua sulla carta da lettere a

mo' di lagrime quando si è lontani da loro; ma mi sembra

che già conosciate perfettamente il gergo del cuore Parigi,

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vedete, è come una foresta del Nuovo Mondo, nella quale

si muovono venti tribù selvagge, gli Illinois, gli Uroni, i

quali vivono con quanto prodotto dalle differenti classi

sociali; voi siete un cacciatore di milioni. Per prenderli

usate trappole, vischio, richiami. Ci sono vari modi di

cacciare. Alcuni vanno a caccia della dote, altri della

liquidazione; alcuni pescano coscienze; altri vendono i loro

associati con mani e piedi legati. Chi torna col carniere ben

pieno è salutato, festeggiato, ricevuto nella buona società.

Rendiamo giustizia a questo suolo ospitale, voi avete da

fare con la città più compiacente del mondo. Se le fiere

aristocrazie di tutte le altre capitali d'Europa si rifiutano di

ammettere nei loro ranghi un milionario scellerato, Parigi

gli tende le braccia, accorre alle sue feste, accetta i suoi

pranzi e trinca con la sua infamia.

- Ma dove trovarla, la ragazza? - disse Eugenio.

- Ma se l'avete davanti a voi!

- Chi, la signorina Vittorina?

- Già, proprio lei!

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- Eh, come?

- Lei vi ama già, la vostra piccola baronessa de Rastignac!

- Ma se non ha un soldo! - riprese Eugenio meravigliato.

- Ah!, qui vi volevo. Ancora due parole - disse Vautrin - e

tutto sarà chiarito. Il papà Taillefer è un vecchio briccone, e

si dice abbia assassinato un suo amico durante la

rivoluzione. E' uno di quegli uomini arditi, indipendenti

nelle loro opinioni. E' un banchiere, principale socio della

ditta Federico Taillefer e compagni. Ha un figlio unico, cui

vuol lasciare tutta la sua sostanza, a detrimento di

Vittorina. Io non posso approvare simili ingiustizie. Sono

come Don Chisciotte, mi piace prendere la difesa del

debole contro il forte. Se la volontà di Dio fosse di

riprendersi il figlio, Taillefer riprenderebbe con sé la figlia;

egli vorrebbe un erede qualsiasi, sciocchezza suggerita

dalla stessa umana natura, e d'altra parte non può più

avere figli, lo so. Vittorina è dolce e bellina, e farà presto a

conquistare suo padre. Lo farà girare su se stesso come

una trottola, con lo spago del sentimento! Sarà troppo

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sensibile al vostro amore per dimenticarvi; e voi la

sposerete. Io m'incarico di assumere la parte della

Provvidenza, farò volere il buon Dio. Ho un amico, per il

quale a suo tempo mi sono molto prestato, un colonnello

dell'armata della Loira, da poco passato nella guardia reale.

Egli segue i miei consigli, ed è divenuto ultra-realista: non

è uno di quegli imbecilli che tengono alle loro opinioni. Se

vi posso dare un altro consiglio, mio caro, è di non tenere

né alle vostre opinioni né alle vostre parole. Quando ve le

chiederanno, vendetele. Un uomo che si vanta di non

mutar mai opinione è un uomo che s'impone di camminare

sempre in linea retta, un ingenuo che crede all'infallibilità.

Non ci sono principi, ci sono soltanto accadimenti; non ci

sono leggi, ci sono soltanto circostanze: l'uomo superiore

sposa gli accadimenti e le circostanze per dirigerli. Se ci

fossero principi e leggi stabili, i popoli non li cambierebbero

come noi la camicia. L'uomo non ha il dovere d'essere più

saggio di tutta una nazione. L'uomo che ha reso il minor

numero di servigi alla Francia è un feticcio venerato per

aver sempre visto rosso; è buono tutt'al più per esser

messo al Conservatorio, fra le macchine, con l'etichetta: La

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Fayette. Invece il principe [Talleyrand] contro cui tutti

scagliarono una pietra, e che disprezza abbastanza

l'umanità da sputarle in viso tanti giuramenti quanti ne

chiede, ha impedito lo smembramento della Francia al

congresso di Vienna: gli si dovrebbero offrire corone, gli si

getta addosso fango. Oh!, so bene come vanno le cose, io!

E posseggo i segreti di molta gente.

Basta. Avrò un'opinione incrollabile il giorno in cui avrò

trovato tre teste d'accordo sull'uso d'un principio, e

attenderò a lungo!

Non si trovano in tribunale tre giudici che interpretino in

modo eguale un articolo di legge. Ma torno al mio uomo.

Rimetterebbe Gesù Cristo in croce, se glielo chiedessi.

Basterà una sola parola del suo papà Vautrin perché egli

cerchi di attaccar lite con quel briccone che non manda

neppure cento soldi alla sua povera sorella, e... - A questo

punto Vautrin si alzò, si mise in guardia, fece la mossa d'un

maestro di scherma quando porta la gamba destra in

avanti e lascia al suo posto il piede sinistro. - E, all'ombra -

egli aggiunse.

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- Orrore! - disse Eugenio. - Voi volete scherzare, signor

Vautrin?

- Là, là, calma - riprese quell'uomo. - Non fate il bambino:

tuttavia, se vi diverte, corrucciatevi, adiratevi! Dite pure

che sono un infame, uno scellerato, un briccone, un

bandito, ma non chiamatemi né imbroglione né spia!

Andiamo, su, sparate la vostra bordata! Vi perdono, è così

naturale alla vostra età! Anch'io sono stato così. Soltanto,

riflettete. Un giorno o l'altro potrete far di peggio. Andrete

a fare il galletto da qualche bella donna, e vi farete dare

dei soldi. Ci avete pensato? - chiese Vautrin; - giacché

come riuscirete, se non trarrete profitto dal vostro amore?

La virtù, mio caro studente, è inscindibile: o è o non è.

Si dice che basta far penitenza dei propri peccati. Un altro

bel sistema, in virtù del quale si è assolti da un delitto con

un atto di contrizione! Sedurre una donna per arrivare a

porvi su un certo piuolo della scala sociale, mettere

zizzania tra i figli di una famiglia, insomma tutte le infamie

che si commettono sotto la cappa di un camino o altrimenti

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a scopo di piacere o per interesse personale, credete voi

che siano atti di fede, di speranza e di carità? Perché due

mesi di prigione al dandy che, in una notte, toglie a un

ragazzo la metà della sua fortuna, e perché la galera al

povero diavolo che ruba un biglietto da mille franchi, con le

circostanze aggravanti? Ecco quello che sono le vostre

leggi. Non c'è un articolo che non arrivi all'assurdo. L'uomo

in guanti e in parole gialli ha commesso assassini in cui non

si versa sangue, ma se ne dà; l'assassino ha aperto una

porta con un grimaldello:

entrambe son cose notturne! Tra quel che vi propongo e

quel che farete un giorno, non c'è che il sangue in meno.

Voi credete in qualcosa di stabile in quel mondo? Ma

disprezzate gli uomini, e cercate le maglie per dove si può

passare attraverso la rete del Codice. Il segreto delle

grandi fortune senza ragioni apparenti sta in un delitto,

dimenticato perché pulitamente compiuto.

- Basta, signore, non voglio sentir altro, mi fareste dubitare

di me stesso. Ora il sentimento è tutta la mia scienza.

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- Come volete, mio bel ragazzo. Vi credevo più forte - disse

Vautrin - non vi dirò più nulla. Un'ultima parola, però. - E,

guardando fisso lo studente: - Voi conoscete il mio segreto

- gli disse.

- Un giovane che vi dice di no saprà presto dimenticarlo.

- Avete ben detto, ciò mi fa piacere. Un altro, vedrete, sarà

meno scrupoloso. Ricordatevi di quanto voglio fare per voi.

Vi dò quindici giorni. Prendere o lasciare.

"Che logica di ferro ha costui!", si disse Rastignac, vedendo

Vautrin andarsene tranquillamente, col suo bastone sotto il

braccio. "Egli mi ha detto crudelmente quel che la signora

de Beauséant mi diceva salvando la forma. Costui mi

lacerava il cuore con artigli d'acciaio. Perché voglio andare

dalla signora de Nucingen? Egli ha indovinato le mie idee

non appena le ho concepite. In due parole, questo brigante

mi ha detto più cose sulla virtù di quante non me ne

abbiano dette gli altri uomini e i libri. Se la virtù non

ammette capitolazione, ho dunque derubato le mie

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sorelle?", disse gettando il sacchetto sul tavolo. Si sedette,

e rimase lì assorto in una sbalordita meditazione.

"Restar fedele alla virtù, martirio sublime. Oh!, tutti

credono alla virtù; ma chi è virtuoso? I popoli venerano la

libertà come un idolo; ma dov'è sulla terra un popolo

libero? La mia giovinezza è ancora azzurra come un cielo

senza nuvole: voler essere grande o ricco, non significa

risolversi a mentire, a piegarsi, ad abbassarsi, a

raddrizzarsi, ad adulare, a dissimulare? Non è un

consentire a diventare il servo di coloro che hanno mentito,

che si sono piegati, abbassati? Prima d'esser loro complice,

bisogna servirli. Ebbene, no. Io voglio lavorare nobilmente,

santamente; voglio lavorare giorno e notte, dover la mia

fortuna solo al mio lavoro. Sarà la più lenta delle fortune,

ma ogni giorno la mia testa riposerà su di un guanciale

senza un cattivo pensiero. Che cosa c'è di più bello del

contemplare la propria vita e trovarla pura come un giglio?

Io e la vita siamo come un giovane e la sua fidanzata.

Vautrin mi ha fatto vedere quel che accade dopo dieci anni

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di matrimonio. Diavolo!, la mia testa si smarrisce. Non

voglio pensare a nulla, il cuore è una buona guida".

Eugenio fu distolto dalla sua meditazione dalla voce della

grossa Silvia, che gli annunciò il sarto, al quale si presentò

tenendo in mano i due sacchetti pieni di denaro; e non si

sentì contrariato da tale circostanza. Dopo essersi provato

gli abiti da sera, indossò il nuovo vestito da mattino, che lo

trasformava completamente:

"Ora valgo quanto il signor de Trailles", disse fra sé e sé.

"Finalmente, ho l'aria di un gentiluomo".

- Signore - disse papà Goriot entrando in camera di

Eugenio - mi avete chiesto se conoscevo la casa dove va la

signora de Nucingen?

- Sì.

- Ebbene, essa va lunedì prossimo al ballo del maresciallo

Carigliano. Se potete andarci, mi direte poi se le due mie

figlie si sono divertite, come erano vestite, tutto insomma.

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- Come l'avete saputo, mio buon papà Goriot? domandò

Eugenio facendolo sedere accanto al fuoco.

- Me lo ha detto la sua cameriera. So tutto quel che fanno

da Teresa e da Costanza - riprese con aria allegra. Il

vecchio sembrava un amante ancora abbastanza giovane

per essere soddisfatto d'uno stratagemma che lo metta in

comunicazione con la sua amante, senza che questa possa

scoprirlo. - Voi le vedrete, voi! - disse esprimendo con

ingenuità una dolorosa invidia.

- Non so - rispose Eugenio. - Andrò dalla signora de

Beauséant per chiederle se può presentarmi alla

marescialla.

Eugenio pensava con una specie di gioia interiore a

mostrarsi alla viscontessa vestito come d'ora in avanti

avrebbe usato vestirsi.

Quel che i moralisti definiscono gli abissi del cuore umano

sono soltanto gli ingannevoli pensieri, gli involontari moti

dell'interesse personale. Quelle peripezie, soggetto di tante

declamazioni, quei cambiamenti repentini, sono calcoli fatti

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a profitto dei nostri godimenti. Vedendosi ben vestito, ben

calzato, Rastignac dimenticò la virtuosa decisione. La

giovinezza non osa guardarsi allo specchio della coscienza

quando pende dalla parte dell'ingiustizia, mentre l'età

matura vi si è specchiata; in ciò consiste tutta la differenza

tra queste due fasi della vita. Da qualche giorno i due

vicini, Eugenio e papà Goriot, erano divenuti buoni amici.

La loro segreta amicizia dipendeva dalle ragioni

psicologiche che avevano causato sentimenti contrari tra

Vautrin e lo studente. L'ardito filosofo che vorrà constatare

gli effetti dei nostri sentimenti nel mondo fisico, ritroverà

senza dubbio più di una prova della loro effettiva

materialità nei rapporti che essi creano tra noi e gli

animali. Qual fisiognomo è più sollecito a indovinare un

carattere, di quanto non lo sia un cane a sapere se uno

sconosciuto gli vuol bene o no? Gli "atomi uncinati",

espressione proverbiale di cui tutti si servono, sono uno di

quei fatti che rimane nei linguaggi per smentire le

sciocchezze filosofiche di cui si occupano coloro che si

divertono a vagliare la scorza delle parole primitive.

Quando siamo amati, lo sentiamo.

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Il sentimento s'imprime in tutte le cose e attraversa lo

spazio.

Una lettera è un'anima; è un'eco così fedele della voce che

parla, da farla annoverare dagli spiriti delicati fra i più

ricchi tesori dell'amore. Papà Goriot, che il sentimento

irriflessivo elevava fino al sublime della natura canina,

aveva annusato il compatimento, l'ammirativa bontà, le

simpatie giovanili che s'erano commosse per lui nel cuore

dello studente. Tuttavia, questa unione nascente non

aveva ancora portato ad alcuna confidenza. Se Eugenio

aveva manifestato il desiderio di vedere la signora de

Nucingen, non contava certo sul vecchio per esser

introdotto da lui in casa di lei, ma sperava che una

qualsiasi indiscrezione avrebbe potuto essergli utile. Papà

Goriot gli aveva parlato delle figlie solo a proposito di quel

che si era permesso di dire davanti a tutti i pensionanti il

giorno delle sue visite.

- Mio caro signore - gli aveva detto l'indomani - come mai

avete potuto credere che la signora de Restaud si sia

adirata con voi perché avete pronunciato il mio nome? Le

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mie due figlie mi vogliono tanto bene. Io sono un padre

felice. Sono i due generi che si sono mal comportati verso

di me. Io non ho voluto far soffrire quelle care creature per

i miei dissensi con i loro mariti, e ho preferito vederle di

nascosto. Tale mistero mi procura mille gioie che non

possono comprendere gli altri padri i quali possono vedere

le loro figlie quando vogliono. Io questo non lo posso fare,

capite? Allora vado, quando è bel tempo ai Champs-

Elisées, dopo aver domandato alle cameriere se le mie

figlie escono. Le attendo al passaggio, il cuore mi batte

quando le vetture giungono, le ammiro nella loro toletta, e

loro mi gettano, passando, un sorrisetto che mi fa sembrar

d'oro la natura, come se vi cadesse un raggio di qualche

bel sole. Io rimango lì, perché devono ripassare. Le vedo di

nuovo! L'aria gli ha fatto bene, sono rosee. Sento dire

vicino a me: "Ecco una bella donna!". Questo mi rallegra il

cuore. Non sono sangue mio? Voglio bene ai cavalli delle

loro carrozze, vorrei essere il cagnolino che tengono sulle

ginocchia. Vivo dei loro piaceri. Ognuno ha il proprio modo

d'amare; il mio non fa male a nessuno, e allora perché la

gente si occupa di me? sono felice a modo mio. E' forse

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contrario alla legge che io vada a vedere le mie figlie, la

sera, quando escono di casa per andare al ballo? Che

dolore, se arrivo troppo tardi e mi dicono: "la signora è già

uscita". Una volta ho aspettato fino alle tre del mattino per

veder Nasia, che non avevo veduto da due giorni. Per poco

non scoppiavo dalla contentezza. Ve ne prego, non parlate

di me se non per dire quanto le mie figlie siano buone.

Esse vorrebbero colmarmi d'ogni sorta di regali; glielo

impedisco e dico loro: "Tenete per voi il vostro denaro. Che

volete che io me ne faccia ? Non ho proprio bisogno di

nulla". Giacché, mio caro signore, che sono io? Un misero

cadavere; l'anima sta ovunque si trovino le mie figlie.

Quando avrete visto la signora de Nucingen, mi direte

quale delle due vi piace di più - disse il bonuomo dopo un

momento di silenzio, vedendo che Eugenio si preparava a

uscire per andare alle Tuileries in attesa dell'ora di

presentarsi in casa de Beauséant.

Quella passeggiata fu fatale per lo studente. Alcune donne

lo notarono. Era così bello, così giovane, e d'una eleganza

così di buon gusto! Nel vedersi oggetto di un'attenzione

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quasi ammirativa, non pensò più né alle sorelle né alla zia

che aveva saccheggiato, né alle sue virtuose repugnanze.

Aveva visto passare al di sopra della sua testa quel

demonio che è così facile scambiare per un angelo, quel

Satana dalle ali screziate che semina rubini, che lancia le

sue frecce d'oro contro i palazzi, imporpora le donne,

riveste d'un vano splendore i troni, così semplici in origine:

aveva ascoltato il dio di quella vanità crepitante, il cui

orpello ci sembra sia un simbolo della potenza. Le parole di

Vautrin, per quanto ciniche, erano scese nel suo cuore,

come nel ricordo d'una vergine s'imprime il profilo ignobile

d'una rivenditrice d'abiti che le ha detto: "Oro e amore a

josa!". Dopo aver bighellonato, verso le cinque Eugenio si

presentò in casa della signora de Beauséant, e vi ricevette

uno di quei colpi terribili di fronte ai quali i cuori giovani

sono disarmati. Aveva fino allora trovato la contessa piena

di quella urbanità garbata, di quella grazia melliflua, data

dall'educazione aristocratica, e che non è completa se non

viene dal cuore.

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Quando entrò, la signora de Beauséant ebbe un gesto

secco, e gli disse in tono reciso:

- Signor de Rastignac, mi è impossibile vedervi, almeno in

questo momento!, ho da fare...

Per un osservatore, e Rastignac lo era diventato presto,

quella frase, il gesto, lo sguardo, l'inflessione della voce,

erano la storia del carattere e delle abitudini della casta.

Scorse la mano di ferro sotto il guanto di velluto; la

personalità, l'egoismo sotto le maniere; il legno sotto la

vernice.

Sentì, insomma, l'"Io il Re", che comincia sotto i pennacchi

del trono e finisce sotto il cimiero dell'ultimo gentiluomo.

Eugenio s'era troppo facilmente lasciato andare nel

credere, sulla parola della cugina, alla virtù della donna.

Come tutti gli sventurati, aveva firmato in buona fede il

patto delizioso che deve unire il benefattore e il beneficato,

e il cui primo articolo consacra tra i magnanimi cuori una

completa eguaglianza. La beneficenza, che unisce due

esseri in uno solo, è una passione celeste, tanto

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incompresa, tanto rara quanto il vero amore. L'una e l'altro

sono la prodigalità delle anime belle. Rastignac voleva

riuscire a essere invitato al ballo della duchessa di

Carigliano; e superò quella burrasca.

- Signora - disse con voce commossa - se non si trattasse

d'una cosa importante, non sarei venuto a importunarvi;

siate gentile permettetemi di vedervi più tardi, attenderò.

- Ebbene !, venite a pranzo da me - disse un po' confusa

della durezza delle sue parole; giacché questa donna era

davvero altrettanto buona che nobile.

Sebbene commosso da tale improvviso cambiamento,

Eugenio si disse andandosene: "Abbassati, sopporta tutto.

Che cosa non devono essere le altre, se, in un momento, la

migliore delle donne dimentica le promesse della sua

amicizia, ti lascia lì come una scarpa vecchia! Ognuno per

sé, dunque. E' pur vero che la sua casa non è un negozio,

e il torto è mio d'aver bisogno di lei. Bisogna, come dice

Vautrin, diventare una palla di cannone". Le amare

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riflessioni dello studente furono presto dissipate dal piacere

che si riprometteva pranzando dalla viscontessa.

Così, per una specie di fatalità, i minimi atti della sua vita

cospiravano a spingerlo in quella strada ove, secondo le

osservazioni della terribile sfinge di casa Vauquer, egli

doveva, come su di un campo di battaglia, uccidere per

non essere ucciso, ingannare per non essere ingannato;

ove doveva lasciare alla barriera la sua coscienza, il suo

cuore, mettersi una maschera, beffarsi, senza pietà, degli

uomini, e come a Sparta, cogliere la fortuna senza esser

visto, per meritare la corona. Quando tornò dalla

viscontessa, la trovò piena di quella bontà graziosa di cui

gli aveva sempre dato prova. Tutti e due si avviarono verso

una sala da pranzo dove il visconte attendeva sua moglie,

e in cui risplendeva quel lusso della tavola che sotto la

Restaurazione fu spinto, come ognuno sa, al più alto grado.

Il signor de Beauséant, simile a molte persone scettiche

indifferenti e insensibili, non trovava ormai altro piacere

che nella buona tavola; era, quanto a ghiottoneria, della

scuola di Luigi Diciottesimo e del duca d'Escars. La sua

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tavola offriva dunque un doppio lusso: quello del

contenente e quello del contenuto. Mai un simile spettacolo

si era presentato agli occhi d'Eugenio, che pranzava per la

prima volta in una di quelle case in cui le grandezze sociali

sono ereditarie.

La moda aveva da poco soppresso le cene, con le quali

terminavano un tempo i balli dell'Impero, e in cui i militari

avevano bisogno di prender forza per prepararsi a tutti i

combattimenti che li attendevano, all'interno e all'esterno.

Eugenio aveva fino allora assistito solo a balli. La

disinvoltura che lo distinse più tardi così eminentemente, e

che già cominciava ad assumere, gli impedì di apparire

scioccamente stupefatto. Ma, vedendo quell'argenteria

cesellata e le mille ricercatezze d'una tavola sontuosa,

ammirando per la prima volta un servizio di domestici

eseguito silenziosamente, era difficile a un uomo d'ardente

immaginazione non preferire quella vita sempre elegante

alla vita di privazioni che al mattino di quello stesso giorno

voleva accettare. Il suo pensiero lo riportò per un momento

nella pensione borghese, e ne provò un così profondo

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orrore, che giurò di lasciarla nel prossimo mese di gennaio,

sia per sistemarsi in un alloggio più pulito, sia per

allontanarsi da Vautrin, di cui sentiva l'ampia mano sulla

sua spalla.

Quando si pensa alle mille forme che assume a Parigi la

corruzione, parlante o muta, un uomo di buon senso si

domanda per quale aberrazione lo Stato vi istituisca scuole

e vi riunisca i giovani, come mai le belle donne possono

esservi rispettate, come mai l'oro messo in vetrina dai

cambiavalute non s'invola magicamente dalle loro ciotole.

Ma se si pensa che pochi sono i casi di delitti, anche di

delitti commessi dai giovani, da quale rispetto non si deve

essere presi per quei pazienti Tantali in combattimento con

se stessi, e quasi sempre vincitori? Se fosse ben descritto

nella sua lotta con Parigi, il povero studente offrirebbe uno

dei soggetti più drammatici della nostra civilizzazione

moderna. La signora de Beauséant guardava invano

Eugenio per invitarlo a parlare; egli non volle dir nulla in

presenza del Visconte.

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- Mi accompagnate questa sera agli "Italiani"? - chiese la

viscontessa al marito.

- Non potete dubitare con quale piacere vi ubbidirei - egli

rispose con una galanteria ironica da cui lo studente rimase

ingannato - ma devo vedere qualcuno alle "Varietés".

"La sua amante" essa pensò.

- Non avete d'Adjuda, questa sera? - domandò il visconte.

- No - rispose lei con stizza.

- E allora!, se vi occorre assolutamente un braccio,

prendete quello del signor de Rastignac. - La viscontessa

guardò Eugenio sorridendo.

- Sarà ben compromettente per voi - essa disse.

- "Il francese ama il pericolo perché vi trova la gloria", ha

detto il signor de Chateaubriand - rispose Rastignac

inchinandosi.

Più tardi egli fu condotto, vicino alla signora de Beauséant,

in un veloce "coupé", al teatro alla moda, e credette a una

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fantasmagoria quando entrò in un palco di faccia e si vide

preso di mira da tutti gli occhialini unitamente alla

viscontessa, la cui toletta era deliziosa. Egli passava da un

incanto all'altro.

- Avevate da parlarmi - gli disse la signora de Beauséant. -

To!, guardate, ecco là la signora de Nucingen a tre palchi

dal nostro.

Sua sorella e il signor de Trailles sono dall'altro lato.

Dicendo queste parole, la viscontessa guardava il palco

dove doveva trovarsi la signorina de Rochefide, e, non

vedendovi il signor d'Adjuda, il suo volto brillò in un modo

straordinario.

- E' incantevole - disse Eugenio dopo aver guardato la

signora de Nucingen.

- Ha le ciglia bianche.

- Sì, ma che graziosa vita sottile!

- Ha le mani grosse.

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- Che begli occhi!

- Ha il viso lungo.

- Ma la forma lunga conferisce distinzione.

- E' una fortuna per lei averla almeno lì. Guardate come

prende e come lascia l'occhialino! Il Goriot viene fuori da

tutti i suoi gesti - disse la viscontessa con grande

meraviglia di Eugenio.

Difatti, la signora de Beauséant guardava con l'occhialino la

sala e non sembrava fare attenzione alla signora de

Nucingen, della quale tuttavia non perdeva neppure un

gesto. Il pubblico era squisitamente elegante. Delfina de

Nucingen non era poco lusingata d'interessare in pieno il

giovane, bello, elegante cugino della signora de Beauséant.

Egli non guardava che lei.

- Se continuate a coprirla coi vostri sguardi, susciterete

uno scandalo, signor de Rastignac. Non riuscirete a nulla,

se vi scaglierete in questo modo contro le persone.

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- Mia cara cugina - disse Eugenio - voi mi avete già ben

protetto; se volete compiere l'opera, vi chiedo solo di

rendermi un servigio chi vi darà poco disturbo e mi farà

gran bene. Eccomi preso.

- Già?

- Sì.

- E di quella donna?

- Le mie pretese sarebbero forse ascoltate altrove? - egli

disse dando uno sguardo penetrante alla cugina. - La

signora duchessa di Carigliano è amica della signora

duchessa de Berry - riprese dopo una pausa; - voi dovete

vederla, abbiate la bontà di presentarmi a lei e di condurmi

al ballo che darà lunedì. Lì incontrerò la signora de

Nucingen, e vi ingaggerò la mia prima scaramuccia.

- Volentieri - lei rispose. - Se già avete dell'interesse per

lei, i vostri affari di cuore vanno benissimo. Ecco là de

Marsay nel palco della principessa Galathionne. La signora

de Nucingen è alla tortura, è indispettita. Non c'è miglior

momento per abbordare una donna, specie poi la moglie

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d'un banchiere. A queste donne della Chaussée-d'Antin

piace la vendetta.

- Che cosa fareste voi in un caso simile?

- Io, soffrirei in silenzio.

In quel momento il marchese d'Adjuda si presentò nel

palco della signora de Beauséant.

- Ho trascurato i miei affari pur di raggiungervi - disse - e

ve lo dico affinché questo non sia un sacrificio.

Il raggiare del volto della viscontessa insegnò ad Eugenio a

riconoscere le espressioni d'un vero amore e a non

confonderle con le smorfie della civetteria parigina. Egli

ammirò sua cugina, si fece silenzioso e cedette il suo posto

al signor d'Adjuda, sospirando. "Che nobile, che sublime

creatura, è una donna che ama così", disse fra sé e sé. "E

quest'uomo la tradirebbe per una bambolina? Come è

possibile tradirla?". Si sentì al cuore una rabbia infantile.

Avrebbe voluto rotolarsi ai piedi della signora de

Beauséant, desiderava il potere dei demoni per ghermirla e

trarla al suo cuore, come un'aquila solleva dalla pianura e

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reca al suo nido una capretta bianca ancor lattante. Si

sentiva umiliato di trovarsi entro quel grande Museo della

bellezza senza il suo quadro, senza una amante sua.

"Avere un'amante è una posizione quasi regale", diceva fra

sé e sé, "è il segno della potenza!". E guardò la signora de

Nucingen come un uomo insultato guarda il proprio

avversario. La viscontessa si voltò verso di lui per fargli,

per la sua discrezione, mille ringraziamenti con una sola

strizzatina d'occhi. Il primo atto era finito.

- Conoscete voi abbastanza la signora de Nucingen, da

poterle presentare il signor de Rastignac? - domandò al

marchese d'Adjuda.

- Ma sarà felice di conoscere il signore - rispose il

marchese. Il bel Portoghese si alzò e prese sottobraccio lo

studente, che in un batter d'occhio si trovò in presenza

della signora de Nucingen.

- Signora baronessa - disse il marchese - ho l'onore di

presentarvi il cavalier Eugenio de Rastignac, cugino della

viscontessa de Beauséant. Voi fate una così viva

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impressione su di lui, che ho voluto completare la sua

felicità avvicinandolo al suo idolo.

Queste parole furono dette con un certo accento di

scherzo, che ne faceva accettare il pensiero un po' crudo,

ma che, opportunamente dissimulato, non dispiace mai a

una donna. La signora de Nucingen sorrise, e offrì a

Eugenio il posto di suo marito, uscito poco prima.

- Non oso proporvi di rimanere qui, signore - gli disse. -

Quando si ha la fortuna d'esser vicino alla signora de

Beauséant, ci si resta.

- Ma - le rispose a bassa voce Eugenio - credo, signora,

che se voglio far cosa grata a mia cugina, dovrò rimanere

accanto a voi.

Prima che giungesse il signor marchese, parlavamo di voi e

della distinzione di tutta la vostra persona - aggiunse a

voce alta.

Il signor d'Adjuda si ritirò.

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- Ma davvero volete rimanere qui con me? Ci conosceremo,

allora; la signora de Restaud mi aveva già fatto venire il

più vivo desiderio di vedervi.

- Oh, quanta falsità! Ha dato l'ordine di non ricevermi.

- Come sarebbe a dire?

- Signora, troverò il coraggio di dirvene la ragione, ma

chiedo tutta la vostra indulgenza confidandovi un simile

segreto. Io sono il vicino del vostro signor padre. Non

sapevo che la signora de Restaud fosse sua figlia. Ho

commesso l'imprudenza di parlarne, molto

innocentemente, e ho urtato vostra sorella e suo marito.

Non potete immaginare quanto la signora duchessa de

Langeais e mia cugina abbiano trovato questa apostasia

filiale di cattivo gusto.

Ho raccontato loro la scena, e ne hanno riso alla follia. E'

stato allora che, facendo un parallelo tra voi e vostra

sorella, la signora de Beauséant mi ha parlato di voi nel

migliore dei modi, e mi ha detto quanto voi siete buona col

mio vicino, il signor Goriot. Come, del resto, potreste non

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amarlo? Vi adora così appassionatamente, che ne sono già

geloso. Abbiamo parlato stamane di voi per due ore. Poi,

entusiasmato di quel che vostro padre mi ha raccontato,

questa sera, pranzando da mia cugina, le dicevo che voi

non potevate essere tanto bella quanto eravate figlia

affezionata. Volendo senza dubbio favorire una così calda

ammirazione, la signora de Beauséant mi ha condotto qui,

dicendomi con la sua grazia abituale che vi avrei

incontrata.

- Come, signore - disse la moglie del banchiere - debbo già

esservi riconoscente? Ancora un po', e diverremo vecchi

amici.

- Benché l'amicizia debba essere in voi un sentimento poco

comune - disse Rastignac - non vorrò mai essere vostro

amico.

Queste sciocchezze stereotipate a uso dei debuttanti

sembrano sempre affascinanti alle donne, e non sono

meschine che lette a freddo. Il gesto, l'accento, lo sguardo

d'un giovane conferiscono loro incalcolabili valori.

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La signora de Nucingen trovò Rastignac molto interessante.

Poi come tutte le donne, non potendo dir nulla a proposito

di questioni così bruscamente poste come lo erano quelle

dello studente, rispose ad altro.

- Sì, mia sorella ha torto di condursi nel modo in cui si

conduce verso il mio povero padre, che davvero è stato per

noi un dio. E' stato necessario che il signor de Nucingen mi

ordinasse tassativamente di vedere mio padre soltanto la

mattina, perché cedessi su questo punto. Ma ne sono stata

a lungo addolorata. Ne ho pianto. Queste violenze venute

dopo le brutalità nel matrimonio, sono state una delle

ragioni che più turbarono la nostra unione. Io sono certo la

donna di Parigi più felice agli occhi del mondo, la più

infelice in realtà. Sentendomi parlare così, mi crederete

pazza. Ma voi conoscete mio padre, e, a tale titolo, non

potete essere per me un estraneo.

- Voi non avete mai incontrato alcuno - le disse Eugenio -

che sia più di me animato dal desiderio di appartenervi.

Che cosa cercate voi tutte? La felicità - riprese con una

voce che penetrava nell'anima. - E allora!, se per una

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donna la felicità consiste nell'essere amata, adorata,

nell'avere un amico cui poter confidare tutti i propri

desideri, le fantasie, i dolori, le gioie, mostrarsi nella nudità

della propria anima, coi graziosi difetti e le belle qualità,

senza timore d'essere tradita, credetemi, un tal cuore

devoto, sempre ardente, non può trovarsi che in un

giovane, pieno d'illusioni, capace di morire a un solo vostro

cenno, che ancora non sa nulla del mondo e nulla vuol

sapere, perché per lui il mondo siete voi. Ma io, lo vedete,

e ora riderete della mia ingenuità, io arrivo qui dal fondo di

una provincia, nuovo a tutto, dopo aver conosciuto solo

anime belle; e contavo di rimanere senza amore. M'è

accaduto di vedere mia cugina, che mi ha messo troppo

accanto al suo cuore; mi ha fatto indovinare i mille tesori

della passione, io sono, come Cherubino, innamorato di

tutte le donne, in attesa di potermi consacrare a una di

loro. Vedendovi, quando sono entrato, mi sono sentito

portare a voi come da una corrente. Avevo già pensato

tanto a voi!

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Ma non vi avevo mai sognato tanto bella come siete in

realtà. La signora de Beauséant mi ha detto di non

guardarvi tanto. Lei non sa quel che c'è di attraente a

vedere le vostre deliziose labbra rosse, la vostra

carnagione bianca, i vostri occhi dagli sguardi così dolci.

Anch'io vi sto dicendo delle follie, ma lasciatemele dire!

Nulla piace più alle donne che il sentirsi indirizzare così

dolci parole. La donna più rigorosamente devota le ascolta

anche quando a esse non deve rispondere. Dopo aver così

iniziato il suo dire, Rastignac snocciolò il suo rosario con

voce resa bassa per civetteria; e la signora de Nucingen

incoraggiava Eugenio con dei sorrisi, guardando di tanto in

tanto de Marsay, che non lasciava il palco della principessa

Galathionne. Rastignac rimase vicina alla signora de

Nucingen fino al momento in cui il marito venne a

prenderla per ricondurla a casa.

- Signora - le disse Eugenio - avrò il piacere d'incontrarvi al

ballo della duchessa di Carigliano.

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- Poiché la zignora fe ne preca - disse il barone, un grosso

Alsaziano la cui figura tondeggiante indicava una pericolosa

malizia - ziete ziguro t'esser pen ricefuto.

"I miei affari vanno bene, perché non si è inalberata

sentendomi dire: Mi amerete? Ho messo il morso alla

bestia, saltiamole in groppa e guidiamola", si disse Eugenio

andando a salutare la signora de Beauséant, che si alzava

e usciva con d'Adjuda. Il povero studente non sapeva che

la baronessa era distratta e che attendeva da de Marsay

una di quelle lettere decisive che straziano l'anima. Tutto

contento del suo falso successo, Eugenio accompagnò la

viscontessa fino al peristilio dove ognuno attende la propria

carrozza.

- Vostro cugino non sembra più lui - disse il Portoghese,

ridendo, alla viscontessa, quando Eugenio li ebbe lasciati. -

Sta per far saltare il banco. E' svelto come un'anguilla, e

penso che andrà lontano. Voi sola potevate accuratamente

scegliergli una donna che si trova proprio nel momento in

cui ha bisogno d'essere consolata.

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- Ma - disse la signora de Beauséant - bisogna pur sapere

se lei ama ancora colui che l'abbandona.

Lo studente tornò a piedi dal Teatro Italiano alla via Neuve-

Sainte-Geneviève, facendo i più rosei progetti. Egli aveva

ben notato l'attenzione con cui la signora de Restaud lo

aveva guardato, sia quando si trovava nel palco della

viscontessa, sia in quello della signora de Nucingen, e

pensò che la porta della contessa non sarebbe più rimasta

chiusa per lui. Così già quattro relazioni di prim'ordine, ivi

compresa quella della marescialla cui contava di riuscire

gradito, stavano per essergli acquisite nel cuore dell'alta

società parigina. Senza troppo spiegarsene i modi, già

prevedeva che, nel gioco complicato degli interessi di quel

mondo, avrebbe dovuto attaccarsi a un ingranaggio per

trovarsi nella parte superiore della macchina, e si sentiva la

forza d'arrestarne la ruota. "Se la signora de Nucingen

s'interessa di me le insegnerò a governare suo marito.

Questo marito fa affari d'oro, potrà aiutarmi a mettere

insieme in un colpo solo una fortuna". Non diceva questo a

se stesso crudamente, ma era ancora abbastanza politico

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da stimare una situazione, apprezzarla e calcolarla; quelle

idee fluttuavano all'orizzonte sotto forma di nuvole lievi, e,

sebbene non avessero l'asprezza di quelle di Vautrin, se

fossero state tuttavia provate al crogiuolo della coscienza

non avrebbero dato nulla di molto puro. Gli uomini

giungono, attraverso una sequela di transazioni di tal

genere, alla morale rilassata che professa l'epoca attuale,

ove s'incontrano più raramente che in ogni altro tempo

quegli uomini tetragoni, quelle belle volontà che non si

piegano mai al male, uomini ai quali la minima deviazione

dalla linea retta sembra essere un delitto: magnifiche

immagini della probità che ci hanno valso due capolavori:

l'"Alceste" di Molière, e poi recentemente "Jenny Deans" e

suo padre, nell'opera di Walter Scott. Forse l'opera

opposta, la pittura delle tortuosità nelle quali un uomo di

mondo, un ambizioso, fa rotolare la coscienza, cercando di

costeggiare il male per arrivare allo scopo salvando le

apparenze, non sarebbe né meno bella, né meno

drammatica. Nel raggiungere la soglia della pensione,

Rastignac s'era incapricciato della signora de Nucingen, gli

era apparsa agile, fine come una rondinella.

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L'inebbriante dolcezza dei suoi occhi, il tessuto delicato e

serico della pelle sotto la quale aveva creduto veder

scorrere il sangue, il suono incantevole della voce, i biondi

capelli: tutto di lei ricordava; e forse il camminare,

mettendo il sangue in movimento, aveva concorso a quella

fascinazione. Lo studente bussò forte alla porta di papà

Goriot.

- Vicino mio - disse - ho visto la signora Delfina.

- Dove?

- Agli "Italiani".

- Si divertiva? Ma entrate. - E il bonuomo, che s'era levato

da letto in camicia, si ricoricò alla svelta. - Parlatemi

dunque di lei - aggiunse.

Eugenio, che si trovava per la prima volta in camera di

Goriot, non seppe padroneggiare un moto di stupore

vedendo il bugigattolo dove viveva il padre dopo aver

ammirato la toletta della figlia.

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La finestra era senza tende; la carta da parati incollata sui

muri se ne distaccava in più punti a causa dell'umidità, e si

accartocciava scoprendo la calce ingiallita dal fuoco. Il

bonuomo giaceva su di un lettuccio, non aveva che una

leggera coperta e un copriletto imbottito, fatto con gli

avanzi dei vecchi abiti della signora Vauquer. I vetri della

finestra erano umidi e pieni di polvere. Incontro a essa, si

vedeva uno di quei vecchi canterani in legno di rosa

bombati, con le maniglie in rame foggiato a tralci decorati

di foglie di fiori, e un vecchio mobile con una tavoletta di

legno su cui era posta una brocca d'acqua nella sua

catinella, e tutto l'occorrente per farsi la barba. In un

angolo, le scarpe; accanto alla testata del letto, un

comodino senza sportello e senza lastra di marmo;

all'angolo del caminetto, dove non c'era traccia di fuoco, si

trovava quella tavola quadrata, in legno di noce, il cui asse

aveva servito a papà Goriot per sformare il servizio

d'argento dorato. Un brutto scrittoio, sul quale era il

cappello del bonuomo, una poltrona col sedile di paglia,

sfondata, e due sedie completavano il miserevole mobilio.

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La sommità del letto, attaccata al soffitto con un cencio,

reggeva una strisciaccia di stoffa a quadrati rossi e bianchi.

Il più povero commissionario doveva essere meno mal

combinato nel suo granaio di quanto non lo fosse papà

Goriot in casa della signora Vauquer. L'aspetto della

camera metteva freddo e stringeva il cuore; sembrava il

più triste alloggio d'una prigione. Per fortuna Goriot non

vide l'espressione che si dipinse sul viso di Eugenio quando

questi posò la candela sul comodino. Il bonuomo si volse

dalla parte di lui, rimanendo coperto fino al mento.

- Dunque!, chi preferite: la signora de Restaud o la signora

de Nucingen ?

- Preferisco la signora Delfina - rispose lo studente - perché

lei vi vuol più bene.

A queste parole, dette con calore, il bonuomo tirò fuori il

braccio dal letto e strinse la mano d'Eugenio.

- Grazie, grazie - rispose il vecchio commosso. - E, che vi

ha detto di me?

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Lo studente ripeté le parole della baronessa abbellendole, e

il vecchio l'ascoltò come se avesse ascoltato la parola di

Dio.

- Cara figliuola!, sì, sì, mi vuole tanto bene. Ma non

credetela affatto in quanto vi ha detto d'Anastasia. Vedete,

le due sorelle sono gelose l'una dell'altra; è una prova di

più della loro tenerezza. La signora de Restaud mi vuole

tanto bene anche lei. Lo so. Un padre è coi suoi figli come

Dio è con noi; va fino in fondo ai cuori, e giudica le

intenzioni. Sono tutte e due egualmente amorose. Oh!, se

avessi avuto dei buoni generi, sarei stato troppo felice. Ma

indubbiamente non c'è una felicità completa quaggiù. Se

avessi vissuto con loro, al solo sentir le loro voci, saperle

vicine, vederle andare e venire, come quando le avevo in

casa mia, il cuore mi avrebbe fatto capriole. Erano

eleganti?

- Sì - disse Eugenio. - Ma, signor Goriot, come mai, avendo

due figlie così riccamente sistemate, potete restare ancora

in un tugurio simile?

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- In fede mia - rispose con aria di apparente noncuranza -

a che mi servirebbe lo star meglio? Io non so d'altra parte

spiegarmi queste cose; non so dire due parole di seguito.

Tutto è qui - aggiunse battendosi sul cuore. - La mia vita, è

interamente nelle mie due figlie. Se si divertono, se sono

felici, ben vestite, se camminano su tappeti, che importa di

quale stoffa io sia vestito, e quale sia il posto dove mi

corico? Io non ho freddo se loro hanno caldo, io non mi

annoio mai se loro ridono. Non ho dispiaceri all'infuori dei

loro. Quando sarete padre, quando direte, sentendo

cinguettare i vostri bambini: l'ho fatto io!, e sentirete le

piccole creature appartenere a ogni goccia del vostro

sangue, di cui sono state il fior fiore, perché è proprio

così!, vi crederete aderente alla loro epidermide, vi

crederete mosso voi stesso dai loro passi. La voce loro mi

risponde ovunque. Un loro sguardo, se triste, mi ferma il

sangue. Un giorno saprete che si è più felici della loro

felicità che non della propria. Non posso spiegarvi questo;

sono moti interni che diffondono il benessere dappertutto.

Insomma, io vivo tre volte. Volete proprio che vi dica una

cosa strana? Ebbene, quando sono diventato padre, ho

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compreso Iddio. Egli è intiero ovunque, perché la creatura

è uscita da lui. Signore, io sono così con le mie figlie.

Soltanto che io amo le mie figlie più che Iddio non ami il

mondo, perché il mondo non è bello quanto Iddio, mentre

le mie figlie son più belle di me. Esse sono così congiunte

all'anima mia, che io ero sicuro che le avreste vedute

questa sera. Mio Dio! A un uomo capace di rendere la mia

piccola Delfina così felice come lo è una donna quando la si

ama veramente bene, ma io gli lustrerei le scarpe, gli

renderei qualsiasi servizio. Ho saputo dalla sua cameriera

che quel piccolo signor de Marsay è un tristo uomo. M'è

venuta la voglia di torcergli il collo. Come si fa a non amare

un gioiello di donna, una voce d'usignolo, fatta che sembra

un modello? Dove aveva gli occhi per sposare quel grosso

ciocco d'Alsaziano? Ci sarebbero voluti per tutte e due dei

bei giovani a modo. Insomma, hanno fatto a loro capriccio.

- Papà Goriot era sublime. Mai Eugenio lo aveva visto così

illuminato dal fuoco della sua passione paterna. Una cosa

degna di nota è la potenza di infusione che hanno i

sentimenti. Per quanto grossolana sia una creatura,

quando essa esprime un affetto intenso e verace, esala un

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fluido particolare che modifica la fisionomia, anima il gesto,

colorisce la voce. Spesso l'essere più sciocco raggiunge,

sotto l'impeto della passione, la più grande eloquenza con

l'idea, se non con le parole, e sembra muoversi entro una

sfera luminosa. C'era, in quel momento, nella voce, nel

gesto di quel bonuomo, la potenza comunicativa propria

del grande attore. Del resto, i nostri nobili sentimenti non

sono forse la poesia della volontà?

- Ebbene, non vi dispiacerà allora di sapere - gli disse

Eugenio - che sta per romperla certamente con quel de

Marsay. Questo bel tomo l'ha lasciata per unirsi alla

principessa Galathionne. Quanto a me, vi dirò che questa

sera mi sono innamorato della signora Delfina.

- Ah! - fece papà Goriot.

- Sì. E non le sono dispiaciuto. Abbiamo parlato d'amore

per un'ora, e devo andarla a trovare dopodomani, sabato.

- Oh !, come vi vorrei bene, mio caro signore, se voi le

piaceste.

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Voi siete buono; e certo non la tormentereste mai. Se la

tradiste, vi torcerei subito il collo. Una donna non può

avere due amori, credetemi. Mio Dio!, ma io sto dicendo

delle sciocchezze, signor Eugenio. Fa freddo qui, per voi.

Mio Dio!, l'avete dunque sentita parlare? E, che vi ha detto

per me?

"Nulla" disse fra sé e sé Eugenio. - Mi ha detto-rispose ad

alta voce - che vi mandava un buon bacio filiale.

- Addio, vicino; dormite bene, fate bei sogni; i miei

saranno fatti tutti di quella parola or ora da voi riferitami.

Che Dio vi esaudisca in tutti i vostri desideri! Questa sera

siete stato per me come un buon angelo: mi avete portato

l'aria respirata da mia figlia.

"Pover uomo" si disse Eugenio andandosene a letto, "fa

intenerire un cuore di pietra. Sua figlia ha pensato a lui

quanto al Gran Turco".

Dopo quella conversazione, papà Goriot vide nel suo vicino

un confidente insperato, un amico. Si erano stabiliti tra loro

i soli rapporti coi quali il vecchio poteva legarsi a un altro

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uomo. Le passioni non fanno mai calcoli sbagliati. Papà

Goriot già si vedeva un poco più vicino a sua figlia Delfina,

meglio ricevuto da lei, se Eugenio fosse diventato caro alla

baronessa. Del resto gli aveva palesato uno dei suoi dolori.

La signora de Nucingen, alla quale mille volte al giorno

augurava la felicità, non aveva conosciuto la dolcezza

dell'amore. Certo, Eugenio era, per ripetere la sua maniera

d'esprimersi, uno dei giovani più a modo che mai avesse

conosciuto, e sembrava presentisse che le avrebbe

procurato tutti i piaceri di cui era stata privata. Il bonuomo

strinse dunque col suo vicino un'amicizia che andò

crescendo, e senza la quale sarebbe stato impossibile

conoscere la conclusione di questa storia.

L'indomani mattina, a colazione, l'ostentazione con cui

papà Goriot guardava Eugenio, vicino al quale andò a

sedersi, le parole che gli rivolse, e il cambiamento della sua

fisionomia, normalmente simile a una maschera di gesso,

meravigliarono i pensionanti. Vautrin che rivedeva lo

studente per la prima volta dopo il loro colloquio, sembrava

volesse leggergli nell'anima.

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Ricordandosi del progetto di quell'uomo, Eugenio, che,

prima di addormentarsi, aveva, durante la notte, misurato

il vasto campo che s'apriva ai suoi sguardi, pensò per forza

di cose alla dote della signorina Taillefer, e non poté fare a

meno di guardare Vittorina, come il più virtuoso giovane

può guardare una ricca ereditiera. Per caso, i loro sguardi

s'incontrarono. La povera ragazza trovò Eugenio

interessante nel suo vestito nuovo. Lo sguardo che si

scambiarono fu abbastanza significativo perché Rastignac

non dubitasse d'esser per lei l'oggetto di quei confusi

desideri che provano tutte le giovinette e che esse

riferiscono al primo essere seducente che incontrano. Una

voce gli diceva:

Ottocentomila franchi! Ma, a un tratto, tornò a immergersi

nei ricordi della sera prima, e pensò che la sua calcolata

passione per la signora de Nucingen poteva essere

l'antidoto dei suoi cattivi e involontari pensieri.

- Ieri, agli "Italiani", hanno dato il "Barbiere di Siviglia", di

Rossini. Non ho mai sentito musica così deliziosa - egli

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disse. - Mio Dio!, è una felicità avere un palco agli

"Italiani"!

Papà Goriot colse questa parola a volo, come il cane coglie

un gesto del padrone.

- Voi uomini state come papi - disse la signora Vauquer -

fate tutto quel che vi piace.

- Come siete ritornato a casa? - gli chiese Vautrin.

- A piedi - rispose Eugenio.

- A me - riprese il tentatore - non piacciono le cose a metà;

a teatro vorrei andarci con la mia carrozza, nel palco mio, e

tornarmene a casa comodamente. O tutto o niente!, ecco

la mia divisa.

- Ed è quella buona - aggiunse la signora Vauquer.

- Voi andrete forse a trovare la signora de Nucingen - disse

Eugenio a bassa voce a papà Goriot. - Lei vi riceverà senza

dubbio a braccia aperte; e vorrà conoscere mille piccoli

dettagli su di me. Ho saputo che farà di tutto per essere

ricevuta da mia cugina, la signora viscontessa de

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Beauséant. Non dimenticatevi di dirle che l'amo troppo per

non pensare a procurarle tale soddisfazione.

Rastignac se ne andò in fretta alla Scuola di diritto, cercava

di rimanere il meno possibile in quella odiosa pensione.

Bighellonò quasi tutta la giornata, in preda a quella

esaltazione che hanno conosciuto i giovani pieni di troppe

vive speranze. I ragionamenti di Vautrin lo stavano facendo

riflettere sulla vita sociale, quando incontrò il suo amico

Bianchon nel giardino del Lussemburgo.

- E perché quest'aria grave? - gli domandò lo studente in

medicina, prendendolo sotto braccio per passeggiare

insieme dinanzi al palazzo.

- Sono tormentato da brutte idee.

- Di qual genere? Ma delle idee si guarisce.

- E come?

- Soccombendovi.

- Tu ridi senza sapere di che si tratta. Hai letto Rousseau?

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- Sì.

- Ti ricordi di quel punto in cui egli domandava al lettore

ciò che farebbe nel caso in cui potesse arricchirsi uccidendo

in Cina, con la sua sola volontà, un vecchio mandarino,

senza muoversi da Parigi?

- Sì.

- Ebbene?

- Ma! io sono al trentatreesimo mandarino.

- Non scherzare. Andiamo, se ti venisse provato che la

cosa è possibile, e che ti basterebbe un cenno della testa,

lo faresti, tu?

- E' molto vecchio, il mandarino? Ma, oh!, giovane o

vecchio paralitico o ben portante, in fede mia... Diamine!,

ebbene, no!

- Tu sei un bravo ragazzo, Bianchon. Ma se amassi, al

punto di sentirtene scombussolata l'anima, una donna, e le

occorressero denari, molti denari per la sua toletta, per il

suo equipaggio, insomma per tutti i suoi capricci?

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- Ma tu mi togli la ragione, e poi pretendi che ragioni.

- Ebbene sì, Bianchon, io sono pazzo, guariscimi. Ho due

sorelle che sono due angeli di bontà, di candore, e voglio

che siano felici. Dove trovare duecentomila franchi per la

loro dote di qui a cinque anni? Ci sono, come vedi,

circostanze nella vita in cui bisogna rischiare molto e non

sciupare la propria sorte per guadagnar soltanto soldi.

- Ma tu poni il problema che tutti devono risolvere

all'ingresso nella vita, e vuoi tagliare il nodo gordiano con

la spada. Per agire così, mio caro, bisogna essere

Alessandro, se no si finisce in galera. Io mi accontento

della piccola esistenza che mi creerò in provincia, dove

succederò scioccamente a mio padre. Le buone disposizioni

dell'uomo trovano soddisfazione nel più ristretto cerchio

tanto completamente quanto in un'immensa circonferenza.

Napoleone non pranzava due volte al giorno, e non poteva

avere più amanti di quante non ne abbia uno studente in

medicina, interno ai Cappuccini. La nostra felicità, mio

caro, starà sempre tra la pianta dei nostri piedi e il nostro

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occipite: e costi un milione l'anno o cento luigi, la

percezione intrinseca della felicità è la stessa. Concludo per

la vita del cinese.

- Grazie, tu mi hai fatto del bene, Bianchon. Saremo

sempre buoni amici.

- Ma dimmi - riprese lo studente in medicina - uscendo dal

corso di Cuvier, al Jardin des Plantes, ho scorto la

Michonneau e Poiret conversare su di una panca con un

signore, che ho visto durante i torbidi dell'anno scorso nei

dintorni della Camera dei Deputati e che mi ha fatto

l'impressione sia un agente della polizia travestito da

onesto borghese che vive di rendita. Teniamo d'occhio

quella coppia; poi ti dirò il perché. Ciao, vado a rispondere

all'appello delle quattro.

Quando Eugenio tornò alla pensione, trovò papà Goriot che

lo attendeva.

- Tò - disse il bonuomo - ecco una lettera sua. Ma che

graziosa calligrafia, eh?

Eugenio dissuggellò la lettera, e lesse.

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"Signore, mio padre mi ha detto che vi piace la musica

italiana.

Sarò lieta se vorrete procurarmi il piacere di accettare un

posto nel mio palco. Sabato avremo la Fodor e Pellegrini, e

allora sono sicura che non rifiuterete il mio invito. Il signor

de Nucingen si unisce a me per pregarvi di venire prima a

pranzo da noi, senza alcuna cerimonia. Se accetterete, lo

renderete lieto di non dover compiere la sua fatica

coniugale accompagnandomi. Non rispondetemi, venite, e

gradite i miei complimenti.

D. de N." - Mostratemela - disse il bonuomo a Eugenio,

quando ebbe letto la lettera. - Ci andrete, non è vero? -

aggiunse dopo aver odorato la carta. Che buon profumo! E

pensare che le sue dita l'hanno toccata!

"Una donna non si butta così addosso a un uomo" pensava

lo studente. "Vuole servirsi di me per riacciuffare de

Marsay. Non c'è che il dispetto capace di far fare di queste

cose".

- Ebbene - domandò papà Goriot - a che pensate, dunque?

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Eugenio non conosceva il delirio della vanità da cui certe

donne erano prese in quell'epoca, e non sapeva che, pur di

aprirsi una porta nel faubourg Saint-Germain, la moglie

d'un banchiere sarebbe stata capace di tutti i sacrifici.

A quell'epoca la moda cominciava a mettere al di sopra di

tutte le donne coloro che erano ammesse nei salotti del

faubourg Saint- Germain, dette le donne del Petit-Chateau,

tra le quali la signora de Beauséant, la sua amica duchessa

de Langeais e la duchessa de Maufrigneuse tenevano il

primo posto. Solo Rastignac ignorava il furore da cui erano

prese le signore della Chaussée d'Antin per entrare nella

sfera superiore ove brillavano le costellazioni del loro

sesso. Ma la sua diffidenza lo servì bene, gli diede la

freddezza e il triste potere di porre condizioni anziché

riceverne.

- Sì, ci andrò - egli rispose.

Così, la curiosità lo conduceva dalla signora de Nucingen,

mentre, se questa donna lo avesse sdegnato, forse vi

sarebbe stato condotto dalla passione. Tuttavia, non attese

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l'indomani e l'ora d'uscire di casa senza una specie

d'impazienza. Per un giovane, c'è, nel suo primo intrigo,

tanto interesse, forse, quanto se ne incontra in un primo

amore. La certezza di riuscire genera mille felicità che gli

uomini non confessano, e che costituiscono tutto il fascino

di certe donne. Il desiderio nasce non meno dalla difficoltà

che dalla facilità del successo. Tutte le passioni umane

sono certamente eccitate o conservate dall'una o dall'altra

di queste due cause che dividono l'impero dell'amore.

Forse tale divisione è una conseguenza della grande

questione dei temperamenti, che domina, checché se ne

dica, la società. Se i malinconici hanno bisogno del tonico

delle civetterie, forse i nervosi o sanguigni abbandonano la

partita se la resistenza dura troppo. In altri termini, l'elegia

è tanto essenzialmente linfatica per quanto bilioso è il

ditirambo.

Facendo toletta, Eugenio gustò tutti quei piccoli piaceri di

cui non osano parlare i giovani, per paura d'esserne presi

in giro, ma che solleticano il loro amor proprio. Si

acconciava la chioma pensando che lo sguardo d'una bella

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donna si sarebbe insinuato sotto i suoi boccoli neri. Si

permise tante smorfie quante ne avrebbe fatte una

giovinetta nell'agghindarsi per il ballo. Guardò con

soddisfazione la sua linea snella, lisciando le pieghe del

vestito. "E' certo" si disse, "che ce ne saranno altri fatti

peggio!".

Poi scese, nel momento in cui tutti i frequentatori della

pensione s'erano già messi a tavola, e ricevette

allegramente l'urrà di sciocchezze che la sua eleganza

suscitò. Un segno dei modi di fare particolari delle pensioni

familiari è la meraviglia che vi produce una toletta assai

curata. Nessuno può indossare un vestito nuovo senza che

ognuno dica la sua.

- Kt, kt, kt, kt - fece Bianchon, facendo schioccare la lingua

contro il palato, come per incitare un cavallo.

- Un insieme da duca e pari! - disse la signora Vauquer.

- Il signore va alla conquista? - fece osservare la signorina

Michonneau.

- Chicchirichì! - esclamò il pittore.

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- I miei complimenti alla signora vostra sposa - disse

l'impiegato al Museo.

- Il signore ha una sposa? - domandò Poiret.

- Una sposa a scomparti, che va sull'acqua, colore

garantito, prezzo tra le venticinque e le quaranta, disegno

a quadri ultima moda, lavabile, si porta bene, metà filo,

metà cotone e metà lana, guarisce il mal di denti e altre

malattie approvate dall'Accademia di Medicina! ottima

inoltre per i bambini!, ancora più indicata contro il mal di

testa, le infiammazioni e altre malattie dell'esofago, degli

occhi e delle orecchie - gridò Vautrin con la volubilità

comica e l'accento d'un imbonitore. - Ma quanto, una

simile meraviglia, mi direte voi, signori? Due soldi! No.

Niente.

E' una rimanenza delle forniture fatte al Gran Mogol, e che

tutti i sovrani d'Europa, compreso il grrrrrranduca di

Baden, hanno voluto vedere! Entrate diritti avanti a voi!, e

passate al botteghino. Musica, maestro! Brum, là, là, trin!

là, là, bum, bum!

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Signor clarinetto, stonate- egli riprese con una voce rauca -

batterò sulle dita.

- Dio!, come è divertente quell'uomo - disse la signora

Vauquer alla signora Couture - con lui non mi annoierei

mai. - Fra le risa e i frizzi, di cui questo discorso

comicamente declamato fu il segnale, Eugenio poté

cogliere lo sguardo furtivo della signorina Taillefer, che si

chinò verso la signora Couture per dirle qualche parola

all'orecchio.

- E' arrivato il carrozzino - disse Silvia.

- Dove pranza? - domandò Bianchon.

- Dalla signora baronessa de Nucingen.

- La figlia del signor Goriot - fece lo studente.

A quel nome, gli sguardi conversero sul vecchio

vermicellaio che contemplava Eugenio con una specie

d'invidia.

Rastignac giunse in via Saint-Lazare dinanzi a una di quelle

case snelle, a colonne sottili, dal portico stretto, che

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rappresentano a Parigi il "grazioso"; una vera casa di

banchiere, colma di ricercatezze costose, di stucchi, di

pianerottoli in mosaico.

Trovò la signora de Nucingen in un salottino affrescato

all'italiana, la cui decorazione somigliava a quella dei caffè.

La baronessa era triste. Gli sforzi che faceva per

nascondere il suo dolore tanto più interessarono vivamente

Eugenio, in quanto non c'era in essi nulla di falso. Aveva

creduto di poter rendere gaia una donna con la sua

presenza, e la trovava invece in preda allo sconforto.

Questa delusione punse il suo amor proprio.

- Comprendo di aver ben poco diritto alla vostra

confidenza, signora - disse dopo averla punzecchiata sul

suo stato di preoccupazione - ma se vi dessi noia, conto

sulla vostra franchezza, ditemelo sinceramente.

- Restate - essa rispose - rimarrei sola se ve ne andaste.

Nucingen pranza fuori, e non vorrei essere sola, ho bisogno

di distrarmi.

- Ma che cosa avete?

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- Sareste l'ultima persona a cui lo direi - esclamò.

- Voglio saperlo. Altrimenti dovrei credere che questo

segreto mi riguarda in qualche modo.

- Forse ! Ma no - riprese lei - si tratta di beghe domestiche,

da seppellire in fondo al cuore. Non ve lo dicevo forse ieri

l'altro?

Io non sono affatto felice. Le catene d'oro sono le più

pesanti.

Quando una donna dice a un uomo di essere infelice, se

quest'uomo ha spirito, è elegante, e ha millecinquecento

franchi di scioperataggine in tasca, deve pensare come

Eugenio, e diventa fatuo.

- Che cosa potete voi desiderare? - gli disse. Siete bella,

giovane, amata, ricca.

- Non parliamo di me - lei disse facendo un sinistro

movimento con la testa. - Pranzeremo insieme, a

quattr'occhi, e andremo a sentire la più deliziosa delle

musiche. Vi piaccio? - riprese alzandosi e facendo vedere il

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suo abito in cascemir bianco a fiorami, della più ricca

eleganza.

- Vorrei che foste tutta per me - disse Eugenio. - Siete

deliziosa.

- Avreste una triste proprietà - rispose lei sorridendo con

amarezza. - Nulla qui farebbe supporre l'infelicità, e

tuttavia, malgrado queste apparenze, io sono disperata. I

miei dispiaceri mi tolgono il sonno, finirò per diventare

brutta.

- Oh, questo è impossibile - replicò lo studente. Ma io sono

curioso di conoscere questi vostri dispiaceri, che un amore

devoto farebbe scomparire.

- Ah!, se io ve li confidassi, voi mi sfuggireste - disse. - Voi

ora mi amate solo per quella galanteria che è abituale negli

uomini; ma se mi amaste davvero, cadreste in una

disperazione tremenda. Come vedete, è meglio che taccia.

Per favore - aggiunse - parliamo d'altro. Venite a vedere i

miei appartamenti.

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- No, restiamo qui - rispose Eugenio sedendosi su di un

divano dinanzi al fuoco accanto alla signora de Nucingen,

della quale prese la mano con disinvoltura.

Essa se la lasciò prendere e anzi la premette su quella del

giovane con uno di quei movimenti di forza concentrata

che tradiscono intense emozioni.

- Sentite - le disse Rastignac - se avete dei dispiaceri,

dovete confidarmeli. Voglio provarvi che vi amo e che il

mio amore non ha altra ragione che voi. O voi parlate, e mi

dite le vostre pene, affinché io possa dissiparle, a costo

d'uccidere sei uomini, o io me ne vado, per non tornare

mai più.

- Ebbene! - essa esclamò, colta da un pensiero disperato

che le fece battere con una mano la fronte - voglio

mettervi immediatamente alla prova. "Sì", pensò, non c'è

altro mezzo".

Suonò.

- La carrozza del signore è attaccata? - chiese al

domestico.

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- Sì, signora - La prendo io. A lui darete invece la mia, coi

miei cavalli.

Servirete il pranzo alle sette.

- Andiamo, venite con me - disse poi a Eugenio, che

credette di sognare nel trovarsi nel cupé del signor de

Nucingen, a fianco di quella donna.

- Al Palais-Royal - ordinò al cocchiere - vicino al Théatre

Français.

Strada facendo, essa apparve agitata, e si rifiutò di

rispondere alle mille domande di Eugenio, il quale non

sapeva cosa pensare di quella resistenza muta, compatta,

ottusa.

"In un momento costei potrà sfuggirmi di mano" lui si

diceva.

Quando la vettura si fermò, la baronessa guardò lo

studente con un'aria che impose il silenzio alle sue folli

parole; giacché egli era andato davvero fuori di sé.

- Mi volete molto bene? - gli disse.

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- Sì - rispose nascondendo l'inquietudine che lo prendeva.

- Non penserete nulla di male sul mio conto, qualunque

cosa io possa domandarvi?

- No.

- Siete disposto ad ubbidirmi?

- Ciecamente.

- Siete andato mai a giocare? - gli chiese con voce

tremante.

- Mai.

- Ah!, respiro. Avrete allora fortuna. Ecco la mia borsa -

aggiunse. - Prendetela, dunque!, ci sono dentro cento

franchi, è tutto quel che possiede questa donna tanto

felice. Salite in una casa da gioco, non so dove siano, ma

so che ce ne sono al Palais- Royal. Rischiate i cento franchi

a un gioco che si chiama "roulette" e perdete tutto, o

portatemi qui seimila franchi. Vi dirò i miei dispiaceri al

vostro ritorno.

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- Che il diavolo mi porti se capisco qualcosa in quel che sto

per fare, ma vi ubbidirò egualmente - egli disse con una

gioia causata da questo pensiero: "Si compromette con

me, e non potrà più rifiutarmi nulla".

Eugenio prende la graziosa borsa, corre al numero "nove",

dopo essersi fatto indicare da un mercante d'abiti la più

vicina casa da gioco. Vi sale, si lascia prendere il cappello;

poi entra e domanda dov'è la "roulette". Fra lo stupore dei

frequentatori, un domestico lo conduce dinanzi a una lunga

tavola. Eugenio, seguito dagli sguardi di tutti gli spettatori,

chiede senza rossore dove si deve mettere la posta.

- Se mettete un luigi su di uno solo di questi trentasei

numeri, ed esce, incasserete trentasei luigi - gli disse un

rispettabile vecchio dai capelli bianchi.

Eugenio gettò i cento franchi sulla cifra della sua età:

ventuno.

Parte un grido di meraviglia senza che egli abbia avuto il

tempo di ritornare sulla sua puntata. Aveva vinto senza

saperlo.

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- Prendetevi subito il vostro denaro - gli disse il vecchio

signore - non si vince mica due volte con quel sistema.

Eugenio prende un rastrello che gli tende il vecchio

signore, trae a sé tremilaseicento franchi e, sempre senza

conoscere il gioco, li mette sul rosso. I presenti lo

guardano con invidia, vedendo che continua a giocare. La

ruota gira, egli vince ancora, e il banco gli paga altri

tremilaseicento franchi.

- Avete vinto settemila duecento franchi - gli disse

all'orecchio il vecchio signore - ora, se mi volete dar retta,

andatevene, il rosso è già uscito otto volte. Se avete un po'

di carità, sarete grato di questo buon consiglio alleviando la

miseria d'un vecchio prefetto di Napoleone, che si trova

all'estremo del bisogno. - Rastignac, stordito, si lascia

prendere dieci luigi dall'uomo dai capelli bianchi, e scende

coi suoi settemila franchi senza ancora aver capito nulla del

gioco, ma stupefatto della sua fortuna.

- E allora! dove mi condurrete adesso? - le disse,

mostrando i settemila franchi alla signora de Nucingen,

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quando lo sportello della carrozza fu richiuso. Delfina lo

strinse con una stretta folle e l'abbracciò vivacemente, ma

senza passione.

- Mi avete salvata! - Lacrime di gioia colarono copiose sulle

sue gote. - Vi dirò tutto, amico mio. Voi sarete mio amico,

non è vero? Voi mi vedete ricca, molto ricca; nulla mi

manca, o almeno sembra non mancarmi nulla! Ebbene!,

sappiate che il signor de Nucingen non mi lascia disporre

d'un soldo; paga lui tutto l'andamento di casa, le mie

carrozze, i miei palchi; mi corrisponde per la toletta una

somma insufficiente; mi riduce, per calcolo, a una miseria

segreta. Io sono troppo fiera per implorarlo. Non sarei

l'ultima della creature se comprassi il suo denaro al prezzo

cui vuol vendermelo? Come mai, io, con una dote di

settemila franchi, mi sono lasciata spogliare? Per orgoglio,

per indignazione. Siamo così giovani, così ingenue, quando

cominciamo la vita coniugale! La parola con la quale

bisognava chiedere il denaro a mio marito mi lacerava la

bocca; e non osavo mai, consumavo il denaro delle mie

economie e quello che mi dava il mio povero padre; poi ho

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cominciato a far debiti. Il matrimonio è stato per me la più

orribile delle delusioni, non ve ne posso parlare; vi basti

sapere che mi getterei dalla finestra se dovessi vivere con

Nucingen senza che ognuno di noi due avesse il proprio

appartamento separato. Quando è stato necessario

dichiarargli i miei debiti di giovane signora per gioielli,

capricci (il mio povero padre non ci negava mai nulla), è

stato per me un martirio; ma ho trovato il coraggio di

dirglielo. Non avevo forse un mio proprio patrimonio?

Nucingen è andato su tutte le furie, mi ha detto che lo

avrei mandato alla rovina e tante cose orribili!

Avrei preferito trovarmi cento piedi sotto terra. Avendo

preso la mia dote, ha pagato, ma stabilendo da quel

momento in poi per le mie spese personali un assegno cui

mi sono dovuta rassegnare, pur di avere pace. Poi, ho

voluto corrispondere all'amor proprio di qualcuno che voi

conoscete - essa aggiunse. - Pur essendo stata ingannata

da lui, sarei cattiva se non riconoscessi la nobiltà del suo

carattere. Ma tuttavia egli mi ha abbandonata in modo

indegno!

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Non si dovrebbe mai abbandonare una donna alla quale si

è buttato, in un momento di necessità, un pugno d'oro! La

si dovrebbe amare sempre! Voi, anima bella di ventun

anni, voi giovane e puro, voi mi domanderete come una

donna possa accettare denaro da un uomo.

Mio Dio!, non è forse naturale di condividere tutto con

l'essere cui dobbiamo la nostra felicità? Quando ci si è dati

tutto, chi potrebbe far caso d'una particella di quel tutto? Il

denaro diviene qualcosa solo quando il sentimento non c'è

più. Non si è legati per tutta la vita? Chi di noi può

prevedere una separazione quando si ritiene

profondamente amato? Voi ci giurate un amore eterno:

come è concepibile avere, allora, interessi distinti? Voi non

sapete quel che ho sofferto oggi, quando Nucingen si è

categoricamente rifiutato di darmi seimila franchi, lui che li

passa tutti i mesi alla sua amante, una donna dell'Opéra!

Avrei voluto uccidermi. Le idee più folli mi passavano per la

testa. Ci sono stati momenti in cui invidiavo la sorte d'una

domestica, d'una cameriera. Ricorrere a mio padre? Pazzia!

Anastasia e io lo abbiamo dissanguato: il mio povero padre

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avrebbe venduto se stesso se potesse valere seimila

franchi. Lo avrei fatto disperare inutilmente. Voi mi avete

salvato dall'onta e dalla morte, ero ebbra di dolore. Ah!,

signore, vi dovevo questa spiegazione: sono stata proprio

irragionevole con voi. Quando vi siete allontanato, e vi ho

perduto di vista, volevo fuggirmene a piedi... dove? Non

so. Ecco, questa è la vita di metà delle donne di Parigi:

lusso esteriore, e crucci crudeli dell'anima. Conosco delle

povere creature anche più disgraziate di me. Ve ne sono

perfino di quelle costrette a farsi fare dai fornitori conti

falsi. Altre sono costrette a rubare ai mariti; alcuni credono

che dei cascemir da cento luigi si diano per cinquecento

franchi, altri che un cascemir da cinquecento franchi valga

cento luigi. Si trovano povere donne che fanno digiunare i

loro figli, e rubacchiano per potersi fare un vestito. Io non

mi sono mai abbassata a tali odiosi inganni. Ecco la mia

ultima angoscia. Se alcune mogli si vendono ai mariti per

dominarli, io almeno sono libera! Potrei farmi coprire d'oro

da Nucingen ma preferisco piangere con la testa

appoggiata al cuore d'un uomo che possa stimare! Ah,

questa sera il signor de Marsay non avrà il diritto di

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guardarmi come una donna che ha pagata. - E si nascose il

volto fra le mani, per non mostrar le sue lacrime a

Eugenio, che, invece, glielo scoprì, per contemplarlo. In

quel momento lei era sublime. - Mescolare il denaro al

sentimento: non è cosa orribile? Voi non potrete amarmi -

aggiunse.

Questo miscuglio di nobili sentimenti, che fanno le donne

così grandi, e di errori, che l'attuale situazione della società

le forza a commettere, sconvolgeva Eugenio, il quale

pronunciava parole dolci e consolanti ammirando quella

bella donna, così ingenuamente imprudente nel suo grido

di dolore.

- Non vi farete di questo un'arma contro di me? - essa

chiese promettetemelo.

- Ah!, signora, ne sono incapace - egli rispose.

Essa gli porse la mano e la mise sul suo cuore con un gesto

pieno di riconoscenza e di gentilezza.

- Grazie a voi, eccomi ritornata libera e lieta. Vivevo sotto

l'impressione di una mano di ferro. Ora voglio vivere con

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semplicità, e non spendere nulla. E vi accontenterete di

come sarò, amico mio, non è vero? Tenete questo - disse

prendendo solo sei biglietti di banca. - In coscienza vi

debbo mille scudi, poiché mi son considerata come se fossi

in società con voi. - Eugenio si difese come una vergine.

Ma avendogli la baronessa detto: Vi considero come un mio

nemico se non siete mio complice, accettò il denaro. - Sarà

una posta di riserva in caso di sfortuna - disse.

- Ecco la parola che temevo - essa esclamò impallidendo. -

Se volete che io sia qualcosa per voi, giuratemi - aggiunse

- di non tornare mai più a giocare. Mio Dio! Io

corrompervi!, ne morirei di dolore.

Erano arrivati. Il contrasto tra quella miseria e quella

opulenza stordiva lo studente, nelle cui orecchie le sinistre

parole di Vautrin risuonarono.

- Mettetevi lì - disse la baronessa entrando nella sua

camera e indicando un canapé vicino al fuoco - devo

scrivere una lettera molto difficile! Consigliatemi voi.

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- Non scrivete - le disse Eugenio - mettete i biglietti entro

una busta, fate l'indirizzo e inviateli per mezzo della vostra

cameriera.

- Ma voi siete un tesoro - essa disse. - Ah!, ecco, signore

che cosa significa essere stato ben educato. Questo è del

puro Beauséant - aggiunse sorridendo.

"E' incantevole", si disse Eugenio che s'infiammava sempre

più. E guardò la camera, dove egli respirava la voluttuosa

eleganza d'una ricca cortigiana.

- Vi piace? - domandò suonando per chiamare la

cameriera.

- Teresa, portate questa lettera al signor de Marsay, e

consegnatela a lui in persona. Se non ci fosse, riportatemi

la lettera.

Teresa uscì dopo avere gettato un malizioso sguardo su di

Eugenio.

Il pranzo era pronto. Rastignac diede il braccio alla signora

de Nucingen, che lo condusse in una sala da pranzo

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deliziosa, dove trovò lo stesso lusso della tavola già

ammirato in casa di sua cugina.

- Quando ci sarà rappresentazione agli "Italiani", voi

verrete sempre a pranzo da me e poi mi accompagnerete.

- Mi abituerei volentieri a questa dolce vita, se essa

dovesse durare; ma io sono un povero studente, che deve

ancora costruirsi la propria fortuna.

- La farete - disse lei sorridendo. - Vedete? tutto

s'accomoda: io non m'aspettavo d'esser così contenta.

E' proprio nella natura femminile provare l'impossibile col

possibile e distruggere i fatti con presentimenti. Quando la

signora de Nucingen e Rastignac entrarono nel palco ai

"Bouffons", assunse un'aria di soddisfazione che la rendeva

così bella, da provocare quelle piccole calunnie contro le

quali le donne sono senza difesa, e che fanno spesso

credere a immoralità inventate a bella posta. Quando si

conosce Parigi, non si crede mai a quel che si dice, e non si

dice mai nulla di quel che vi si fa. Eugenio prese la mano

della baronessa, e tutti e due si parlarono con strette più o

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meno vive delle loro mani per comunicarsi le sensazioni

prodotte dalla musica. Per essi quella serata fu inebriante.

Uscirono insieme, e la signora de Nucingen volle

accompagnare Eugenio fino al Pont-Neuf, rifiutandogli,

lungo la strada, uno dei baci che gli aveva calorosamente

prodigati al Palais-Royal. Eugenio le rimproverò quella

incoerenza.

- Ma prima - rispose - era la riconoscenza per una

devozione insperata, ora, sarebbe una promessa.

- E voi non me ne volete fare nessuna! Ingrata! - E si

crucciò.

Facendo allora uno di quei gesti d'impazienza che deliziano

un innamorato, gli dette da baciare la mano, che egli prese

con una mala grazia di cui essa rimase rapita.

- A lunedì, al ballo - lei disse.

Andandosene a piedi, sotto un bel chiaro di luna, Eugenio

piombò in serie riflessioni. Si sentiva nello stesso tempo

felice e scontento; felice, d'una avventura il cui epilogo

probabile gli faceva avere una delle più belle e più eleganti

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donne di Parigi, oggetto dei suoi desideri; scontento, di

vedere sconvolti i suoi piani per raggiungere il successo; e

fu allora che in lui ebbero concretezza i pensieri avuti in

forma indecisa due giorni prima.

L'insuccesso ci fa sentire sempre il potere delle nostre

pretese.

Più Eugenio godeva la vita parigina, meno voleva rimanere

oscuro e povero. Spiegazzava il biglietto da mille franchi

nella tasca, facendo mille ragionamenti capziosi per

giustificarne il possesso.

Infine giunse in via Neuve-Sainte-Geneviève, e quando si

trovò in cima alla scala, vide una luce. Papà Goriot aveva

lasciato aperto l'uscio della sua camera e accesa la

candela, affinché lo studente non dimenticasse di

"raccontargli sua figlia", secondo il suo modo di esprimersi.

Eugenio non gli nascose nulla.

- Ma - esclamò papà Goriot in un violento attacco di

disperazione provocato dalla gelosia - costoro mi credono

rovinato; ho ancora milletrecento franchi di rendita! Santo

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Dio! Ma perché la povera piccola non è venuta da me?

Avrei venduto i miei titoli, avremmo lucrato sul capitale

nominale, e con la rimanenza mi sarei costituito una

rendita vitalizia. Perché non siete venuto a confidarmi il

vostro imbarazzo, mio buon vicino? Come avete avuto il

coraggio di andare a rischiare al gioco i suoi poveri cento

franchi? C'è da sentirsi spezzare il cuore. Ecco di che cosa

sono capaci i generi! Oh!, se li avessi tra le mani, li

strozzerei.

Santo Dio! piangere... ma lei ha proprio pianto?

- Con la testa sul mio panciotto - precisò Eugenio.

- Oh !, datemelo - disse papà Goriot. - Come!, ci sono lì le

lacrime di mia figlia, della mia cara Delfina, che non

piangeva mai quand'era piccola! Oh!, ve ne comprerò un

altro, non portatelo più, lasciatelo a me. Lei ha il diritto,

secondo il contratto di nozze, di godere dei suoi beni. Ah!,

andrò domani a consultare Derville, è un avvocato. E

otterrò l'investimento del patrimonio di mia figlia. Conosco

le leggi, sono un vecchio lupo e ritroverò i miei denti.

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- To', papà, ecco mille franchi che lei ha voluto donarmi sul

guadagno del gioco. Teneteglieli da parte, nel panciotto.

Goriot guardò Eugenio, gli tese la mano per stringer la sua,

su cui lasciò cadere una lacrima.

- Voi avrete successo nella vita - gli disse il vecchio. - Dio è

giusto, vedete? Conosco cos'è la probità, e posso

assicurarvi che pochi sono gli uomini che vi somigliano.

Volete allora essere anche voi un mio caro figlio? Ora,

andatevene a letto: voi potete dormire, non siete ancora

padre. Essa ha pianto, e vengo a saper questo, io, che me

ne stavo là tranquillamente a mangiare come un imbecille

mentre lei soffriva; io, io che venderei anche il Padre, il

Figlio e lo Spirito Santo per evitare una lacrima a tutte e

due!

"In fede mia" si disse Eugenio coricandosi, "credo che sarò

un uomo onesto per tutta la vita. Si prova soddisfazione

nel seguire le ispirazioni della propria coscienza".

Solo, forse, coloro che credono in Dio fanno il bene in

segreto ed Eugenio credeva in Dio. L'indomani, all'ora del

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ballo, Rastignac si recò in casa della signora de Beauséant,

che lo condusse con sé per presentarlo alla duchessa di

Carigliano. Fu accolto con ogni cortesia dalla marescialla,

presso la quale ritrovò la signora de Nucingen. Delfina s'era

agghindata nell'intento di piacere a tutti per meglio piacere

ad Eugenio, dal quale attendeva impazientemente

un'occhiata, credendo così di celare la propria impazienza.

Per chi sa indovinare le emozioni d'una donna, un tal

momento è pieno di delizie. Chi non si è spesso divertito a

far attendere il proprio giudizio, a mascherare con

civetteria il proprio piacere, a provocare confessioni

nell'inquietudine che si è causata, a goder dei timori che

verranno fugati con un sorriso? Durante il ballo, lo

studente considerò tutto il valore della sua posizione, e si

rese conto di avere un rango nella società per il fatto

d'esser cugino della signora de Beauséant. L'aver

conquistato la baronessa de Nucingen, che già gli si

attribuiva come amante, lo metteva così in evidenza, che

tutti i giovani gli lanciavano occhiate d'invidia; cogliendone

qualcuna, gustò i primi piaceri della vanità. Passando da un

salone all'altro, passando attraverso i gruppi degli invitati,

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sentì vantare la sua felicità. Le donne tutte predicevano i

suoi successi. Delfina, temendo di perderlo, gli promise che

non gli avrebbe quella sera rifiutato il bacio che si era tanto

schermita d'accordargli due sere prima. Durante quel ballo,

Rastignac si ebbe molte promesse. Fu presentato da sua

cugina ad alcune signore che pretendevano tutte d'essere

eleganti, e i cui salotti avevano fama d'essere piacevoli;

egli si vide lanciato nella più alta e più bella società

parigina. Quella serata ebbe dunque per lui il fascino d'un

brillante debutto, e doveva ricordarsene fino ai giorni della

vecchiaia, come una giovinetta si ricorda del ballo in cui

riportò i primi trionfi.

L'indomani, quando, a colazione, raccontò i suoi successi a

papà Goriot, dinanzi ai pensionanti, Vautrin si mise a

sorridere diabolicamente.

- E voi credete forse - esclamò quel logico feroce - che un

giovane alla moda possa abitare in via Neuve-Sainte-

Geneviève, in casa Vauquer?, pensione infinitamente

rispettabile sotto ogni riguardo, senza dubbio, ma niente

affatto elegante. E' ben messa, buona per la sua

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abbondanza, è fiera d'essere il maniero temporaneo d'un

Rastignac, ma, tutto sommato, si trova in via Neuve-

Sainte-Geneviève, e non sa cosa sia il lusso, perché è

puramente "patriarcalorama". Mio giovane amico - riprese

Vautrin con un'aria paternamente ironica - se volete far

bella figura a Parigi, vi ci vogliono tre cavalli e un tilbury

per la mattina, un cupé per la sera: in tutto novemila

franchi per le carrozze.

Sareste indegno del vostro destino se non spendeste che

tremila franchi dal sarto, seicento dal profumiere, cento

scudi dal calzolaio, cento dal cappellaio. Quanto alla

lavandaia, essa vi costerà mille franchi. I giovani alla moda

non possono fare a meno d'essere assai forti nell'articolo

biancheria: non è forse quel che si osserva più di frequente

in loro? L'amore e la chiesa richiedono bei lini sui loro

altari. Siamo arrivati a quattordicimila. Non vi parlo di quel

che perderete al gioco, in scommesse, in doni; è

impossibile non calcolare almeno duemila franchi di

spiccioli. Ho fatto quella vita, ne conosco le spese.

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Aggiungete a queste prime necessità, trecento luigi per la

pappa, mille franchi per la cuccia. Andiamo, ragazzo, o

disponiamo dei nostri venticinquemila franchi l'anno, o

cadiamo nel fango, ci facciamo ridere dietro, e il nostro

avvenire, i nostri successi e le nostre amanti se ne vanno

in fumo! Dimenticavo il domestico e il "grum"! I vostri

biglietti galanti li farete forse recapitare da Cristoforo? E li

scriverete sulla carta di cui ora vi servite?

Sarebbe come suicidarsi. Credete a un vecchio pieno di

esperienza!

- egli riprese con un "rinforzando" nella sua voce di basso.

- O ridursi in una virtuosa soffitta, e sposare il lavoro, o

scegliere un'altra strada.

E Vautrin strizzò l'occhio ammiccando alla signorina

Taillefer come a ricordare e a riassumere in quel suo

sguardo i ragionamenti seducenti da lui seminati nel cuore

dello studente, per corromperlo. Passarono vari giorni,

durante i quali Rastignac condusse la vita più dissipata.

Pranzava quasi tutti i giorni con la signora de Nucingen che

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accompagnava in società. Rientrava alle tre o alle quattro

del mattino, si alzava a mezzogiorno per far toletta, se la

giornata era bella andava a passeggio al Bosco con Delfina,

sciupando il tempo senza saperne il valore, e

immagazzinando tutte le esperienze, tutte le seduzioni del

lusso con l'ardore da cui è preso l'impaziente calice della

palma per i fecondanti pollini del suo imeneo. Giocava

forte, perdeva o vinceva molto; e finì per abituarsi alla vita

esuberante dei giovani parigini. Con le prime vincite aveva

restituito millecinquecento franchi alla madre e alle sorelle,

accompagnando il denaro con graziosi regali. Sebbene

avesse preannunciato di voler lasciare la casa Vauquer, ci

si trovava ancora negli ultimi giorni del mese di gennaio, e

non sapeva come uscirne. I giovani sono sottoposti quasi

tutti a una legge in apparenza inesplicabile, ma la cui

ragione proviene dalla loro stessa giovinezza e da quella

specie di furia con la quale si lanciano al piacere. Ricchi o

poveri, non hanno mai denaro per le necessità della vita,

mentre ne trovano sempre per i loro capricci. Prodighi in

tutto ciò che si ottiene a credito, sono avari in tutto quel

che si paga in contanti, e sembrano vendicarsi di ciò che

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non hanno, dissipando tutto quanto possono avere. Così,

per porre nettamente la questione, uno studente tiene più

al cappello che al vestito. L'enormità del guadagno fa del

sarto essenzialmente un creditore, mentre la modicità del

prezzo fa del cappellaio uno degli esseri più intrattabili fra

coloro coi quali egli è costretto a contrattare. Se il giovane

seduto in un palco a teatro presenta all'occhialino delle

belle signore sorprendenti panciotti, è dubbio che egli porti

i calzini: il venditore di oggetti di maglieria è un altro tarlo

della sua borsa. Rastignac era in quella condizione. Sempre

vuota per la signora Vauquer, sempre piena per le esigenze

della vanità, la sua borsa contava rovesci e successi

lunatici in disaccordo coi pagamenti più facili. Per poter

lasciare la pensione fetida, ignobile, dove si umiliavano

periodicamente le sue pretese, non era indispensabile

pagare un mese alla padrona, e comprar la mobilia per il

suo appartamento di dandy? Ma la cosa era sempre

impossibile. Se, per procurarsi il denaro necessario al

gioco, Rastignac ben sapeva acquistare dal gioielliere

orologi e catene d'oro pagati a caro prezzo con le vincite, e

che poi portava al Monte di Pietà, questo cupo e discreto

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amico della gioventù, egli si trovava d'altra parte senza

risorse e senza audacia quando si trattava di pagare il

vitto, l'alloggio, o di acquistare gli arnesi indispensabili per

lo sfruttamento della vita elegante. Una necessità banale,

debiti contratti per bisogni soddisfatti non gli inspiravano

più alcuna idea geniale. Come la maggior parte di coloro

che hanno conosciuto questa vita rischiosa, aspettava

sempre l'ultimo momento per saldare crediti considerati

sacri secondo i borghesi, come faceva Mirabeau, il quale

pagava il conto del fornaio solo quando gli veniva

presentato sotto la forma draconiana di una cambiale. A

quell'epoca Rastignac aveva perduto, e s'era indebitato. Lo

studente cominciava a capire che era impossibile

continuare quell'esistenza senza avere fonti fisse di

guadagno.

Ma, pur soffrendo sotto le pungenti percosse della sua

situazione precaria, si sentiva incapace di rinunciare ai

piaceri di quella vita e voleva continuarla ad ogni costo. I

casi fortunati su cui aveva contato divenivano chimerici,

mentre gli ostacoli reali s'ingrandivano. Iniziatosi ai segreti

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domestici del signore e della signora de Nucingen, si era

accorto che, per convertire l'amore in strumento di fortuna,

bisognava aver ingoiato ogni vergogna e rinunciato alle

nobili idee che rappresentano l'assoluzione da tutti i peccati

di gioventù. Tale vita esteriormente splendida, ma rósa da

tutte le tenie del rimorso, e i cui fuggitivi piaceri erano

caramente pagati con persistenti angosce, egli l'aveva

ormai abbracciata, vi si rivoltolava facendosene, come il

Distratto di La Bruyère, un letto nel fango del fossato; ma,

come il Distratto, non insudiciandosi fino allora che il

vestito.

- Abbiamo, allora, ucciso il mandarino? - gli chiese un

giorno Bianchon, alzandosi da tavola.

- Non ancora - egli rispose - ma rantola.

Lo studente in medicina interpretò quella parola come uno

scherzo, ma non lo era. Eugenio, che, per la prima volta da

molto tempo, aveva pranzato nella pensione, s'era

mostrato pensieroso durante il pasto. Invece di uscire, alla

frutta, rimase in sala seduto vicino alla signorina Taillefer,

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cui dava di tanto in tanto occhiate espressive. Alcuni

pensionanti erano ancora a tavola e mangiavano delle noci,

altri camminavano per la stanza continuando discussioni

iniziate. Come quasi tutte le sere, ognuno seguiva il

proprio capriccio, secondo il grado d'interesse che poneva

alla conversazione, o secondo la maggiore o minore

pesantezza causatagli dalla digestione. D'inverno,

raramente la sala da pranzo rimaneva vuota prima delle

otto, momento in cui le quattro donne restavano sole e si

vendicavano del silenzio che il sesso imponeva loro in

mezzo a quel gruppo di maschi. Colpito dalla

preoccupazione cui Eugenio era in preda, Vautrin rimase

nella sala da pranzo, sebbene prima sembrasse aver fretta

d'uscirne, e ci rimase in modo da non esser veduto da

Eugenio, che lo credette uscito. Poi, invece

d'accompagnare i pensionanti che andavano via per ultimi,

si trattenne nascostamente nel salotto. Egli aveva letto

nell'animo dello studente e attendeva di scorgere un

sintomo decisivo. Rastignac si trovava infatti in una

situazione di perplessità che molti giovani hanno dovuto

conoscere. Innamorata o civetta, la signora de Nucingen

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aveva fatto passare Rastignac attraverso tutte le angosce

d'una vera passione, usando con lui le risorse della

diplomazia femminile consueta a Parigi. Dopo essersi

compromessa in pubblico con lo stare sempre insieme al

cugino della signora de Beauséant, esitava a conferirgli

realmente i diritti di cui sembrava godere. Da un mese

eccitava così bene i sensi di Eugenio, che aveva finito per

colpirne il cuore. Se, nei primi momenti della relazione, lo

studente aveva creduto di padroneggiare la situazione, la

signora de Nucingen era poi divenuta la più forte, con

l'aiuto di quella familiarità che commuoveva in Eugenio

tutti i sentimenti, buoni o cattivi, di quei due o tre uomini

che coesistono entro uno stesso giovane parigino.

Lo faceva per calcolo? No; le donne sono sempre sincere,

anche nelle loro più grandi falsità, perché cedono a qualche

sentimento naturale. Forse Delfina, dopo aver lasciato

prendere subito tanto imperio su di lei da parte di quel

giovane e avergli dimostrato anche troppo affetto,

obbediva a un sentimento di dignità, che la faceva o

ritornare sulle sue concessioni o compiacersi di

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sospenderle. E' così naturale, a una Parigina, nel momento

stesso in cui la passione la trascina, di esitar nella caduta,

di mettere alla prova il cuore di colui al quale sta per

affidare il suo avvenire! Tutte le speranze della signora de

Nucingen erano state tradite una prima volta, e la sua

fedeltà verso il giovane egoista era stata misconosciuta.

Essa aveva il diritto d'essere diffidente. Forse aveva notato

nei modi d'Eugenio, che il rapido successo aveva reso

fatuo, una specie di disistima causata dalle stranezze della

loro situazione. Desiderava senza dubbio apparire

imponente a un uomo di quell'età, ed essere considerata

grande agli occhi suoi, dopo essere stata per tanto tempo

considerata trascurabile agli occhi di colui dal quale era

stata abbandonata.

Non voleva che Eugenio la credesse una facile conquista

proprio perché egli sapeva che lei era stata di de Marsay. E

poi, dopo aver subìto il degradante piacere d'un vero e

proprio mostro qual è il giovane libertino, essa provava

tanta dolcezza a percorrere le regioni fiorite dell'amore,

che era un incanto per lei ammirarne tutti gli aspetti,

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ascoltarne a lungo i fremiti, e lasciarsi a lungo accarezzare

da caste brezze. Il vero amore pagava per quello cattivo.

Tale controsenso sarà purtroppo frequente, finché gli

uomini non sapranno quanti fiori falciano nell'animo di una

giovane donna i primi inganni. Quali che fossero le sue

ragioni, Delfina si faceva gioco di Rastignac e si divertiva a

farsi gioco di lui, certamente perché si sapeva amata ed

era sicura di far cessare i crucci del suo amante secondo il

proprio regale beneplacito di donna. Per rispetto a se

stesso, Eugenio non voleva che il suo primo combattimento

terminasse con una sconfitta, e persisteva nel suo

inseguimento, come un cacciatore che vuole assolutamente

uccidere una pernice la prima volta che va a caccia. Le sue

ansietà, il suo amor proprio offeso, le sue disperazioni,

simulate o sincere, lo avvincevano sempre più a quella

donna.

Tutta Parigi gli attribuiva la signora de Nucingen, dalla

quale non aveva ottenuto nulla più di quanto il primo

giorno che l'aveva conosciuta. Non sapendo ancora che la

civetteria d'una donna offre talvolta più benefici di quanto il

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suo amore non dia piaceri, cadeva in preda a sciocche ire.

Se il periodo durante il quale una donna si nega all'amore

offriva a Rastignac la ricchezza delle sue primizie, queste

divenivano per lui tanto costose per quanto erano verdi,

agroline e deliziose al gusto. Talvolta, trovandosi senza un

soldo, senza avvenire, pensava, nonostante la voce della

coscienza, alla fortuna che avrebbe potuto conseguire e di

cui Vautrin gli aveva dimostrato la possibilità mediante un

matrimonio con la signorina Taillefer. Egli attraversava

allora un periodo in cui la sua miseria parlava così ad alta

voce, che cedette quasi involontariamente alle male arti

della terribile sfinge dagli sguardi della quale rimaneva

spesso affascinato. Nel momento in cui Poiret e la signorina

Michonneau risalivano nelle proprie camere, Rastignac

credendo d'esser solo tra la signora Vauquer e la signora

Couture, che sferrucchiava maniche di lana sonnecchiando

vicino alla stufa, guardò la signorina Taillefer in un modo

così tenero, da farle abbassare gli occhi.

- Avete qualche dispiacere, signor Eugenio? - gli chiese

Vittorina dopo un istante di silenzio.

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- E chi non li ha! - rispose Rastignac. - Se fossimo sicuri,

noi giovani, d'essere amati, con una devozione che ci

ricompensasse dei sacrifici che siamo sempre disposti a

fare, non avremmo forse mai dispiaceri.

La signorina Taillefer gli diede, per tutta risposta, uno

sguardo non equivoco.

- Voi, signorina, vi credete sicura del vostro cuore, oggi;

ma potreste esser certa di non cambiare mai?

Un sorriso errò sulle labbra della povera giovinetta come

un raggio sprizzato dal suo animo, e ne fece tanto

risplendere il volto, che Eugenio ebbe timore d'aver

provocato una così viva esplosione di sentimento.

- Come!, se domani foste ricca e felice, se una immensa

ricchezza vi cadesse dal cielo, amereste ancora il giovane

povero, piaciutovi nei giorni della sfortuna?

Lei fece un grazioso cenno con la testa.

- Un giovane molto infelice?

Nuovo cenno.

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- Ma che sciocchezze state dicendo? - esclamò la signora

Vauquer.

- Lasciateci stare - rispose Eugenio - noi ci comprendiamo.

- Vi sarebbe dunque una promessa di matrimonio tra il

signor cavaliere Eugenio di Rastignac e la signorina

Vittorina Taillefer?

- disse Vautrin con la sua grossa voce, mostrandosi

all'improvviso all'uscio della sala da pranzo.

- Ah !, mi avete messo paura - dissero insieme la signora

Couture e la signora Vauquer.

- Potrei scegliere di peggio - rispose ridendo Eugenio, al

quale la voce di Vautrin causò la più crudele emozione che

avesse mai provato.

- Basta con questi scherzi di cattivo gusto, signori! - disse

la signora Couture. - Su, figliola, andiamocene in camera.

La signora Vauquer seguì le due pensionanti, per

economizzare la candela e il fuoco, passando la serata in

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camera loro. Eugenio si trovò solo a faccia a faccia con

Vautrin.

- Sapevo bene che ci sareste arrivato - gli disse quell'uomo

conservando un imperturbabile sangue freddo. - Ma,

ascoltate! Io sono delicato come chiunque altro, io. Non

prendete decisioni in questo momento, voi non siete

adesso del solito umore. Avete debiti, e io non voglio che

sia la passione, la disperazione a farvi venire da me, ma la

ragione. Forse avete bisogno di qualche migliaio di scudi.

Eccoli, li volete?

Quel demonio cavò dalla tasca un portafoglio e ne trasse

tre biglietti di banca che fece brillare agli occhi dello

studente.

Eugenio si trovava nella più critica situazione. Doveva dare

al marchese d'Adjuda e al conte de Trailles cento luigi

perduti sulla parola. Non li aveva, e non osava andare a

passare la serata in casa della signora de Restaud, dov'era

atteso. Era una delle serate intime, durante le quali si

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sgranocchiano pasticcini, si beve il tè, ma si possono anche

perdere seimila franchi al whist.

- Signore - gli disse Eugenio nascondendo a stento un

tremito convulso - dopo quel che mi avete confidato,

comprenderete che mi è impossibile avere con voi

obbligazioni.

- Ebbene!, mi sarebbe dispiaciuto se aveste parlato

altrimenti riprese il tentatore. - Voi siete un bel giovane,

delicato, fiero come un leone e dolce come una fanciulla.

Sareste una bella preda per il diavolo. Mi piace questo tipo

di giovani. Ancora due o tre riflessioni d'alta politica, e poi

vedrete il mondo come realmente è. Rappresentandovi

qualche scenetta di virtù, l'uomo superiore può soddisfare

tutti i propri capricci, fra i grandi applausi dei gonzi che

siedono in platea. Fra pochi giorni sarete dei nostri.

Ah!, se voleste diventare mio allievo, vi farei arrivare a

tutto.

Voi non formulereste un desiderio che non fosse all'istante

esaudito, qualsiasi desiderio: onore, ricchezza, donne.

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Tutta la civiltà sarebbe per voi ridotta in ambrosia. Sareste

il nostro fanciullo viziato, il nostro Beniamino, e ci faremmo

massacrare tutti per farvi piacere. Qualsiasi ostacolo vi

verrebbe spianato.

Se avete ancora qualche scrupolo, vuol dire che mi

prendete per uno scellerato. Ebbene, un uomo probo

quanto ancora voi credete di esserlo, il signor de Turenne,

faceva, senza credersi compromesso, i suoi affarucci con

dei briganti. Voi non volete avere obbligazioni con me, eh?

Non importa - riprese Vautrin lasciandosi sfuggire un

sorriso. - Prendete questi pezzi di carta, e scrivete qui

sopra - disse cavando fuori una cambiale bollata - qui, di

traverso: "Accettata per la somma di tremilacinquecento

franchi pagabili in un anno". E metteteci la data!

L'interesse è abbastanza forte per togliervi ogni scrupolo;

potete chiamarmi un giudeo e considerarvi esente da ogni

riconoscenza. Vi permetto di disprezzarmi ancor oggi,

sicuro che poi mi vorrete bene. Troverete in me immensi

abissi, quei vasti sentimenti concentrati che gli ingenui

chiamano vizi; ma non mi troverete mai né vile né ingrato.

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Insomma, io non sono né una pedina, né un alfiere, ma

una torre, ragazzo mio.

- Ma che razza d'uomo siete voi mai? - esclamò Eugenio -

siete stato creato proprio per tormentarmi !

- Ma no, io sono un brav'uomo che vuole infangarsi

affinché voi siate al riparo dal fango del vostro avvenire. Vi

chiederete forse perché mai tutta questa affezione per voi.

Ebbene!, ve lo dirò pian piano un giorno o l'altro,

all'orecchio. Vi ho dapprima turbato mostrandovi il carillon

dell'ordine sociale e il funzionamento della macchina; ma il

vostro turbamento passerà, come quello di un coscritto sul

campo di battaglia, e vi abituerete all'idea di considerare

gli uomini come soldati decisi a morire al servizio di coloro

che si consacrano da se stessi re.

I tempi sono molto cambiati. Una volta si diceva a un

bravo: "Ecco cento scudi, uccidimi il signor tale", e si

andava tranquillamente a cena dopo aver fatto scomparire

un uomo per un sì, per un no.

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Oggi vi propongo di procurarvi una bella fortuna con un

semplice cenno della testa che non vi compromette affatto,

e voi esitate.

Il secolo è fiacco.

Eugenio firmò la tratta e la consegnò in cambio dei biglietti

di banca.

- Ebbene!, andiamo, parliamo assennatamente - riprese

Vautrin. Io voglio partire fra qualche mese per l'America, e

andarvi a piantare il tabacco. Vi manderò i sigari

dell'amicizia. Se diventerò ricco, vi aiuterò. Se non avrò

figli (caso probabile, giacché non desidero ripiantarmi qui

col mezzo di riproduzione del germoglio), ebbene!, vi

lascerò in eredità la mia fortuna. Non si chiama questo

essere l'amico di un uomo? E' perché vi voglio bene, io. Ho

la passione di prodigarmi a favore degli altri. L'ho già fatto

altre volte. Come vedete, ragazzo mio, io vivo in una sfera

più elevata di quella degli altri uomini. Considero le azioni

come mezzi, e non miro che allo scopo. Che cosa è un

uomo per me?

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Tanto! - disse, facendo schioccare l'unghia del pollice sotto

uno dei denti. - Un uomo è tutto o nulla. E' meno che nulla

se si chiama Poiret; lo si può schiacciare come una cimice,

è piatto e dà cattivo odore. Ma un uomo è un dio quando vi

somiglia; non è più una macchina ricoperta di pelle, ma un

teatro ove si agitano i più bei sentimenti; e io non vivo che

di sentimenti. Un sentimento non è forse il mondo in un

pensiero?

Guardate papà Goriot: le sue due figlie sono per lui tutto

l'universo, sono il filo col quale egli guida se stesso nel

creato. Ebbene!, per me, che conosco a fondo la vita, non

esiste che un solo sentimento reale: un'amicizia da uomo a

uomo. Pietro e Jaffier, ecco la mia passione. So a memoria

"Venezia Salvata".

Avete visto molti uomini, quando un camerata dice:

"Andiamo a sotterrare un cadavere!", così coraggiosi da

andarci senza pronunciar verbo, senza affliggerlo con la

morale? Io sono stato capace di far questo. Non parlerei

così, tuttavia, a chiunque. Ma voi, voi siete un uomo

superiore, a voi si può dir tutto, voi sapete capire tutto. Voi

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non diguazzate a lungo nelle paludi ove vivono i

mostriciattoli da cui siamo circondati qui. Ebbene eccolo

detto. Voi sposerete. Affondiamo ciascuno la punta della

nostra propria arma. La mia è di ferro e non cede mai, eh,

eh!

Vautrin uscì senza voler ascoltare la risposta negativa dello

studente, per lasciarlo a suo agio. Egli sembrava conoscere

il segreto di quelle piccole resistenze, di quei

combattimenti di cui gli uomini fanno mostra dinanzi a loro

stessi, e che servono a giustificare azioni riprovevoli.

"Faccia come vuole, ma io non sposerò davvero la

signorina Taillefer", disse Eugenio fra sé e sé.

Dopo aver subìto il malessere d'una febbre interiore che gli

provocò l'idea di un patto concluso con quell'uomo di cui

aveva orrore, ma che s'ingrandiva ai suoi occhi per il

cinismo stesso delle idee e per l'audacia con cui

attanagliava la società, Rastignac si vestì, ordinò una

vettura, e si recò dalla signora de Restaud. Da qualche

giorno, essa aveva raddoppiato le sue attenzioni per il

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giovane, del quale ogni passo era un progresso nel cuore

del gran mondo, e il cui ascendente sembrava dover essere

un giorno temibile. Egli pagò il suo debito a de Trailles e

d'Adjuda, giocò al whist parte della notte, riguadagnò quel

che aveva perduto. Superstizioso come la maggior parte

degli uomini che debbono ancora fare la loro strada e che

sono più o meno fatalisti, volle vedere nella sua fortuna

come una riconoscenza del cielo per la propria

perseveranza nel rimanere sulla retta via. L'indomani

mattina, si affrettò a domandare a Vautrin se aveva ancora

la cambiale. Alla risposta affermativa, gli restituì i tremila

franchi con una soddisfazione alquanto naturale.

- Tutto va bene - gli disse Vautrin.

- Ma io non sono vostro complice - rispose Eugenio.

- Lo so, lo so - fece Vautrin interrompendolo. - Voi fate

ancora delle bambinate. Vi fermate alle prime difficoltà.

Due giorni dopo, Poiret e la signorina Michonneau stavano

seduti su di una panca al sole, in un viale solitario del

Jardin des Plantes, e facevano conversazione con quel

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signore che ben a ragione sembrava sospetto allo studente

in medicina.

- Signorina - diceva il signor Gondureau - non vedo donde

nascono i vostri scrupoli. Sua Eccellenza monsignor il

ministro della polizia generale del regno...

- Ah!, Sua Eccellenza monsignor il ministro della polizia

generale del regno... - ripeté Poiret.

- Sì, Sua Eccellenza si occupa di questo affare disse

Gondureau.

A chi non sembrerà inverosimile che Poiret, vecchio

impiegato, uomo, senza dubbio, di virtù borghesi, sebbene

privo d'idee, continuasse ad ascoltare il sedicente

benestante della via Buffon, nel momento in cui questi

pronunciava la parola: polizia, svelando così la fisionomia

di un agente della via Jérusalem attraverso la sua

maschera di onest'uomo? Eppure, nulla era più naturale.

Ognuno comprenderà meglio a che specie particolare

appartenesse Poiret, nella grande famiglia dei gonzi, dopo

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una considerazione già fatta da alcuni osservatori, ma

finora non resa di pubblica ragione.

Esiste una popolazione pennuta, stretta dal bilancio

domestico, tra il primo grado di latitudine che comporta gli

stipendi di milleduecento franchi, una specie di Groenlandia

amministrativa, e il terzo grado, nel quale cominciano gli

stipendi un poco più caldi da tre a seimila franchi, regione

temperata, dove si acclimata la gratificazione, dove essa

fiorisce malgrado le difficoltà della coltura. Una delle

caratteristiche che meglio mette allo scoperto la patologica

ristrettezza di questi subalterni è una specie di rispetto

involontario, meccanico, istintivo, per quel Gran Lama

d'ogni ministero, conosciuto dall'impiegato da una firma

illeggibile e sotto il titolo di "Sua Eccellenza monsignor

ministro", cinque parole che equivalgono a "Il Bondo Cani

del Califfo di Bagdad", e che, agli occhi di questo popolo

appiattito, rappresenta un potere sacro, senza appello.

Come il papa per i cattolici, monsignore è

amministrativamente infallibile agli occhi dell'impiegato; la

luce che spande si comunica ai suoi atti, alle sue parole, a

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quelle dette in suo nome; egli copre tutto coi ricami

dell'uniforme, e legalizza le azioni che ordina; il suo titolo

di eccellenza, che attesta la purezza delle intenzioni e la

santità dei voleri, serve come passaporto alle idee meno

ammissibili. Quel che questi poveri diavoli non farebbero

nel loro interesse, si affrettano a farlo non appena la parola

"Sua Eccellenza" è stata pronunciata. Gli uffici praticano la

loro obbedienza passiva, come l'esercito ha la sua: metodo

che soffoca la coscienza, annichilisce un uomo e finisce, col

tempo, per adattarlo come una vite o una madrevite alla

macchina governativa. Perciò il signor Gondureau, che

sembrava conoscere gli uomini, scorse subito in Poiret uno

di questi sciocchi burocratici, e fece uscire il Deus ex

machina, la parola talismanica di: Sua Eccellenza, nel

momento in cui bisognava, scoprendo le batterie,

confondere Poiret, che appariva ai suoi occhi quale il

maschio della Michonneau, come la Michonneau gli

sembrava la femmina di Poiret.

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- Dal momento che Sua Eccellenza in persona, Sua

Eccellenza monsignor il !.. Ah !, ma allora la cosa cambia

aspetto - disse Poiret.

- Avete sentito quel che dice il signore, al giudizio del quale

pare che vi rimettiate - riprese il falso benestante

rivolgendosi alla signorina Michonneau. - Ebbene, Sua

Eccellenza ha ormai la certezza assoluta che il preteso

Vautrin, alloggiato presso la Casa Vauquer, è un forzato

evaso dal bagno penale di Tolone, dove è conosciuto sotto

il nome di Ingannalamorte.

- Ah ! Ingannalamorte! - disse Poiret - dev'essere molto

fortunato, se si è meritato un soprannome simile.

- Ma certo - riprese l'agente. - Questo soprannome è

dovuto alla fortuna che ha avuto di non perder la vita nelle

imprese estremamente audaci da lui compiute. E' dunque

un uomo pericoloso, come vedete! Egli ha qualità che lo

rendono veramente straordinario. La stessa condanna gli

ha procurato, nel suo ambiente, un grandissimo onore...

- E' allora un uomo d'onore? - chiese Poiret.

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- A suo modo sì. Ha acconsentito ad accollarsi il debito di

un altro, un falso commesso da un bellissimo giovane cui

voleva molto bene, un giovane italiano, forte giocatore,

entrato poi nel servizio militare, dove s'è per altro

comportato ottimamente.

- Ma, se Sua Eccellenza il ministro della polizia è sicuro che

il signor Vautrin sia Ingannalamorte, perché ha bisogno di

me? - domandò la signorina Michonneau.

- Ah, già - fece Poiret - se infatti il ministro, come ci avete

fatto l'onore di dire, ha una certezza qualsiasi...

- Certezza non è proprio la parola; ... si dubita, ecco tutto.

Ora vi dirò come stanno le cose. Jacques Collin,

soprannominato Ingannalamorte, gode tutta la fiducia dei

tre bagni penali che lo hanno scelto quale agente e loro

banchiere. Egli guadagna molto occupandosi di questo

genere d'affari, che necessariamente richiede un uomo di

"marca".

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- Ah! ah!, capite il gioco di parola, signorina? - fece Poiret.

Il signore lo chiama un uomo di "marca", perché è stato

marcato.

- Il falso Vautrin - disse l'agente continuando - riceve i

capitali dei signori forzati, li investe, li conserva e li tiene a

disposizione di quelli che evadono, o delle loro famiglie,

quando ne dispongono per testamento, o delle loro amanti,

quando traggono assegni su di lui a favor loro.

- Delle loro amanti! Volete dire delle loro mogli - fece

osservare Poiret.

- No, signore. Il forzato non ha generalmente che spose

illegittime, che noi chiamiamo concubine.

- Ma allora vivono tutti in stato di concubinaggio?

- Conseguentemente.

- Ebbene - disse Poiret - ecco orrori che Monsignore non

dovrebbe tollerare. Dato che avete l'onore di vedere Sua

Eccellenza, spetta a voi, che mi sembrate avere idee

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filantropiche, illuminarlo sulla condotta immorale di questa

gente, che offre un pessimo esempio al resto della società.

- Ma, signore, il governo non li manda mica là per offrire il

modello di tutte le virtù.

- E' giusto. Tuttavia, signore, permettete...

- Ma lasciate parlare il signore, mio caro - disse la

signorina Michonneau.

- Voi capite, signorina - riprese Gondureau. - Il governo

può avere un grande interesse a mettere le mani su di una

cassa illecita, che si dice ammonti a un totale assai

maggiore:

Ingannalamorte incassa valori notevoli ricettando non solo

le somme possedute da qualcuno dei suoi camerati, ma

anche quelle che provengono dalla Società dei Diecimila...

- Diecimila ladri! - esclamò Poiret spaventato.

- No, la Società dei Diecimila è un'associazione di grandi

ladri, di gente che lavora in grande stile e non si occupa di

affari che quando ci sono diecimila franchi da guadagnare.

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Questa società si compone di tutto quel che c'è di più

distinto tra coloro che vanno diritti in corte d'assise. Essi

conoscono il Codice, e non rischiano mai la condanna a

morte quando sono pizzicati. Collin è il loro uomo di

fiducia, il loro consigliere. Con l'aiuto delle sue immense

risorse, quest'uomo ha saputo crearsi una propria polizia e

relazioni molto estese che avvolge in un mistero

impenetrabile. Sebbene da un anno sia stato circondato di

spie, non siamo ancora riusciti a veder chiaro nel suo

gioco. La sua cassa e il suo talento servono costantemente

dunque a pagare il vizio, a fornire fondi al delitto, e

mantengono in piedi un esercito di cattivi soggetti che sono

in perpetuo stato di guerra con la società. Acciuffare

Ingannalamorte e impadronirsi della sua banca, sarà come

tagliare il male alla radice. Quindi tale spedizione è

divenuta un affare di Stato e di alta politica, che potrà

onorare coloro che coopereranno alla sua riuscita. Voi

stesso, signore, potreste essere riammesso

nell'amministrazione, diventare segretario d'un

commissario di polizia, funzioni queste che non vi

impedirebbero affatto di percepire la pensione.

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- Ma perché - disse la signorina Michonneau -

Ingannalamorte non scappa con tutta la cassa?

- Oh! - fece l'agente - ovunque andasse, sarebbe seguìto

da un uomo incaricato di ucciderlo, se frodasse il bagno

penale. E poi una cassa non si porta via così facilmente

come si rapisce una signorina di buona famiglia. Del resto,

Collin è una persona incapace di compiere un gesto simile;

si riterrebbe disonorato.

- Signore - disse Poiret - avete ragione, egli sarebbe

senz'altro disonorato.

- Tutto questo, tuttavia, non ci dice ancora per quale

ragione non andiate semplicemente a catturarlo - fece la

signorina Michonneau.

- Ebbene!, signorina, io vi rispondo... Ma - le disse

all'orecchio - impedite al vostro amico d'interrompermi,

altrimenti non la finiremo più. Quel tipo deve essere molto

fortunato se riesce a farsi ascoltare. Ingannalamorte,

venendo qui, ha assunto l'aspetto d'una persona per bene,

fa il buon borghese parigino, ha preso stanza in una

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pensione senza pretese; è fino, lui, e date retta a me, non

lo si coglierà mai all'impensata. Dunque il signor Vautrin è

un uomo considerato, che fa affari considerevoli.

"Naturalmente" disse fra sé e sé Poiret.

- Il ministro, se c'ingannassimo arrestando un autentico

Vautrin, non vuol mettersi contro né i commercianti di

Parigi né l'opinione pubblica. Il signor Prefetto di polizia

ciurla nel manico, ha dei nemici. Se si commettesse un

errore, coloro che aspirano al suo posto approfitterebbero

dello scandalo e degli strilli dei liberali per farlo saltare. Si

tratta qui di procedere come nel processo Cogniard, il falso

conte di Sainte-Helène; se fosse stato un vero conte di

Sainte-Helène, saremmo stati freschi! E perciò è necessario

identificarlo bene.

- Sì, ma voi avete bisogno di una bella donna - disse con

vivacità la signorina Michonneau.

- Ingannalamorte non si lascerebbe avvicinare da una

donna replicò l'agente. - Vi rivelerò un segreto: egli non

ama le donne.

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- Ma non vedo allora a che cosa io possa servire per un

simile accertamento, una supposizione che consentirei a

fare per duemila franchi.

- Nulla di più facile - disse lo sconosciuto. - Vi darei una

fialetta contenente una dose di liquore preparato per

provocare un malessere, che non presenta tuttavia il

minimo pericolo e simula una apoplessia. La droga può

essere mescolata indifferentemente sia al vino che al caffè.

Voi trasportate immediatamente il nostro uomo su di un

letto, e lo spogliate per sorvegliare che non muoia.

Quando sarete rimasta sola con lui, gli darete un colpo

sulla spalla, paf !, e vedrete ricomparire le lettere del suo

marchio.

- Ma tutto ciò è molto facile - disse Poiret.

- Ebbene, acconsentite? - domandò Gondureau alla vecchia

zitella.

- Ma, caro signore - rispose la signorina Michonneau - e se

le lettere non ci fossero, avrei egualmente i duemila

franchi?

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- No.

- E, quanto sarà allora l'indennità?

- Cinquecento franchi - Fare una cosa simile per così poco?

Il male è sempre quello nella coscienza; e io devo sedare la

reazione della mia coscienza, signore.

- Posso assicurarvi - disse Poiret - che la signorina ha

molta coscienza, oltre ad essere una amabilissima persona

e molto intelligente.

- Ebbene! - riprese la signorina Michonneau - datemi

tremila franchi se è Ingannalamorte, e nulla se non è lui.

- Sta bene - disse Gondureau - ma alla condizione che la

faccenda sia sbrigata domani.

- Un momento, caro signore; ho bisogno di consultare

prima il mio confessore.

- Furba! - fece l'agente alzandosi. - Allora, a domani. E se

avete urgenza di parlarmi, venite al vicolo Sainte-Anne, in

fondo alla corte della Sainte-Chapelle. C'è una porta sola

sotto la volta.

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Chiedete del signor Gondureau.

Bianchon, che tornava dalla lezione di Cuvier, rimase

colpito dalla parola alquanto originale: Ingannalamorte, e

udì lo "sta bene", del celebre capo della Polizia.

- Perché non vi decidete subito? Sarebbero trecento franchi

di rendita - disse Poiret alla signorina Michonneau.

- Perché? - essa rispose. - Ma perché bisogna rifletterci. E

se il signor Vautrin fosse proprio questo Ingannalamorte?

In questo caso sarebbe forse più conveniente mettersi

d'accordo con lui.

Tuttavia, chiedergli del denaro vorrebbe dire prevenirlo, e

lui sarebbe capace di squagliarsela gratis. E allora sarebbe

un detestabile puff.

- Ma ammesso che fosse prevenuto - riprese Poiret - quel

signore non ci ha detto che era sorvegliato? Ma voi, voi

allora perdereste tutto.

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"Del resto" pensò la signorina Michonneau, "io non ho

alcuna simpatia per quell'uomo! Non sa dirmi che cose

spiacevoli".

- Ma - riprese Poiret - voi fareste di meglio. Come ha detto

quel signore, che mi sembra persona molto ammodo, oltre

a essere assai ben vestito, è un gesto di obbedienza alle

leggi togliere dalla circolazione un criminale, per quanto

virtuoso possa essere. Chi ha bevuto, berrà. Se gli venisse

in mente di assassinarci a tutti?

Ma, che diavolo! Noi saremmo colpevoli di questi assassinii,

senza contare che saremmo le prime vittime.

La preoccupazione non permetteva alla signorina

Michonneau di ascoltare le frasi cadenti a una a una dalla

bocca di Poiret, come le gocce d'acqua che cadono

attraverso il rubinetto d'una fontana mal chiuso. Da

quando quel vecchio aveva cominciato a snocciolare la

serie delle sue frasi, senza che la signorina Michonneau lo

interrompesse, continuava a parlare sempre, come una

macchina caricata. Dopo aver attaccato un primo

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argomento, era portato dalle sue parentesi a trattarne altri

del tutto opposti, senza aver concluso nulla. Giunti alla

Casa Vauquer, s'era cacciato in una sequela di passaggi e

di citazioni transitorie che lo avevano condotto a riferire la

sua deposizione nel processo di messer Ragoulleau e di

madama Morin, ove era comparso quale teste a discarico.

Entrando, la sua compagna non mancò di scorgere Eugenio

de Rastignac impegnato con la signorina Taillefer in un

intimo colloquio il cui interesse era così palpitante, che la

coppia non fece alcuna attenzione ai due vecchi

pensionanti, che attraversarono la sala da pranzo.

- Doveva finire così - disse la signorina Michonneau a

Poiret. Era da otto giorni che si facevano l'occhio di triglia.

- Già - egli rispose. - E perciò fu condannata.

- Chi?

- La signora Morin.

- Ma io vi sto parlando della signorina Vittorina! - disse la

Michonneau entrando, distratta, nella camera di Poiret - e

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voi mi rispondete con la signora Morin. Chi è questa

donna?

- E di che cosa sarebbe colpevole la signorina Vittorina?

chiese Poiret.

- E' colpevole di amare il signor Eugenio de Rastignac, e va

innanzi per questa strada senza sapere dove questa la

condurrà, povera innocente!

Eugenio era stato, durante la mattinata, portato alla

disperazione dalla signora de Nucingen. Nel foro interiore

della sua coscienza s'era abbandonato completamente a

Vautrin, senza voler approfondire né i motivi dell'amicizia

che gli dimostrava quell'uomo straordinario, né le

conseguenze d'una simile alleanza.

Sarebbe stato necessario un miracolo per trarlo dall'abisso

nel quale aveva già messo il piede da un'ora, scambiando

con la signorina Taillefer le più dolci promesse. Vittorina

credeva di ascoltare la voce di un angelo, i cieli si

schiudevano per lei, la Casa Vauquer si adornava di quei

colori fantastici che i decoratori usano per i palazzi di

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teatro: amava, era amata, o almeno lo credeva! E quale

donna non lo avrebbe creduto, come lei, vedendo

Rastignac, ascoltandolo durante quell'ora sottratta a tutti

gli Argo della casa? Dibattendosi contro la sua coscienza,

sapendo di far male e volendo farlo, dicendosi che si

sarebbe riscattato da quel peccato veniale con la felicità

d'una donna, s'era abbellito della sua stessa disperazione e

riluceva di tutti i fuochi infernali che aveva nel cuore.

Fortunatamente per lui, il miracolo si compì: Vautrin entrò

allegramente, e lesse nell'animo dei due giovani, che egli

aveva sposati con le macchinazioni del suo genio infernale,

ma di cui turbò subito la gioia cantando col suo vocione

rauco:

La mia Fanchette è deliziosa Nella sua semplicità...

Vittorina scappò portando con sé tanta felicità quanto

dolore aveva fino allora sofferto nella vita. Povera figliola!

Una stretta di mano, la sua gota sfiorata dai capelli di

Rastignac, una parola detta così vicino al suo orecchio da

sentire il calore delle labbra dello studente, i suoi fianchi

cinti da un braccio tremante, un bacio sul suo collo, furono

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il fidanzamento della sua passione, che l'avvicinarsi della

grossa Silvia, minacciando d'entrare in quella radiosa sala

da pranzo, rese più ardente, più vivo, più impegnativo delle

più belle testimonianze d'affetto raccontate nelle più celebri

storie d'amore. Questi "piccoli voti", secondo una graziosa

espressione dei nostri antenati, sembravano crimini a una

devota giovinetta che andava a confessarsi ogni quindici

giorni! In quell'ora, essa aveva prodigato più tesori

dell'anima di quanti, più tardi, ricca e felice, non ne

avrebbe dati concedendosi tutta.

- L'affare è fatto - disse Vautrin ad Eugenio. - I nostri due

dandy si sono picchiati. Tutto s'è svolto passabilmente.

Questione di opinioni. Il nostro piccioncino ha insultato il

mio falchetto.

A domani, nel ridotto di Clignancourt. Alle otto e mezza, la

signorina Taillefer erediterà l'amore e la ricchezza di suo

padre, mentre starà tranquillamente a inzuppare i suoi

crostini di pane imburrato nel caffè. Non è buffa a

raccontarsi? Quel piccolo Taillefer è molto forte alla spada,

ed è pieno di fiducia come se avesse una scala reale in

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mano; ma sarà salassato da un colpo di mia invenzione,

che consiste nel rialzare l'arma e nel colpire in fronte. Vi

insegnerò questo colpo, perché è straordinariamente utile.

Rastignac ascoltava stupito, ed era incapace di rispondere.

In quel momento giunsero papà Goriot, Bianchon e qualche

altro pensionante.

- Ecco come io vi volevo - gli disse Vautrin. - Voi sapete

quello che fate. Bene, mio aquilotto! Voi governerete gli

uomini; siete forte, quadrato, coraggioso; avete la mia

stima.

E volle prendergli la mano. Ma Rastignac ritirò presto la

sua, e cadde su di una sedia, impallidendo; credeva di

vedere un lago di sangue dinanzi a sé.

- Ah!, abbiamo ancora qualche fascia imbrattata di virtù -

disse Vautrin a bassa voce. - Papà d'Oliban ha tre milioni,

so a quanto ascende la sua fortuna. La dote vi renderà

candido come un abito da sposa, e dinanzi agli stessi vostri

occhi.

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Rastignac non esitò più. Decise di andare ad avvertire in

serata i signori Taillefer padre e figlio. In quel momento,

avendolo Vautrin lasciato, papà Goriot gli disse all'orecchio:

- Siete triste, ragazzo mio!, vi rallegrerò io. Venite con me!

E il vecchio vermicellaio accese lo stoppino a una lampada.

Eugenio lo seguì, pieno di curiosità.

- Entriamo da voi - disse il bonuomo, che s'era fatto dare

la chiave della camera dello studente da Silvia. Voi avete

creduto questa mattina che lei non vi amasse, eh! - riprese

a dire. - Lei vi ha mandato via, e voi ve ne siete andato

crucciato, desolato.

Sciocchezze! Aspettava me. Capite? Dovevamo andare a

finir di sistemare un gioiello d'appartamento, che andrete

ad abitare di qui a tre giorni. Non mi scoprite. Lei vuol farvi

una sorpresa, ma io non resisto a tenervi più a lungo

nascosto il segreto.

Abiterete in via d'Artois, a due passi dalla via Saint-Lazare.

Ci starete come un principe. Abbiamo preso per voi dei

mobili come per una sposa. Abbiamo fatto molte cose da

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un mese a questa parte, senza dirvi nulla. Il mio avvocato

si è messo all'opera, mia figlia avrà i suoi trentaseimila

franchi all'anno, interesse della dote, e otterrò

l'investimento di quegli ottocentomila franchi in redditizi

beni al sole.

Eugenio taceva e camminava, con le braccia incrociate, in

lungo e in largo, per la sua povera camera in disordine.

Papà Goriot colse un momento in cui lo studente gli voltava

le spalle, e pose sul caminetto una scatola in marocchino

rosso, su cui era impresso in oro lo stemma di Rastignac.

- Mio caro figliolo - disse il povero bonuomo - mi sono

cacciato in questa faccenda fino al collo. Ma, vedete, c'era

in me molto egoismo, io sono interessato al vostro

cambiamento di quartiere.

Non mi direte di no, eh?, se vi domando qualche cosa.

- Che volete?

- Al di sopra del vostro nuovo appartamento, al quinto

piano, c'è una stanza annessa, ci potrò abitare, no?

Invecchio sempre più, sto troppo lontano dalle mie figlie.

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Non vi disturberò. Soltanto, starò lì. Voi mi parlerete di lei

tutte le sere. Questo non vi darà fastidio, è vero? Quando

rientrerete, e io sarò a letto, vi sentirò, e mi dirò: E' stato

fino a poco fa con la mia piccola Delfina. L'ha

accompagnata al ballo, è felice per merito suo. Se fossi

malato, sarebbe un balsamo al mio cuore sentirvi rientrare,

muovere, uscire. Ci sarà tanto di mia figlia in voi! Non ci

sarà da fare che un passo per trovarsi agli Champs-

Elysées, dove loro passano tutti i giorni, le vedrò sempre,

mentre ora qualche volta arrivo troppo tardi. E poi lei verrà

da voi, forse, la sentirò, la vedrò nella sua vestaglia

imbottita da mattina, trotterellare, facendo graziosamente

le fusa come una gattina. Da un mese, è tornata come

quand'era ragazza: gaia e brillante. La sua anima è in

convalescenza, vi deve la felicità. Oh!, io farò per voi

l'impossibile. Mi diceva poco fa, rientrando: "Papà, sono

tanto felice!". Quando mi dicono rispettosamente "padre",

mi gelano; ma quando mi chiamano: "papà", mi sembra di

vederle ancora piccoline, e ravvivano tutti i miei ricordi. Mi

sento anche di più loro padre. Ho l'illusione che non siano

ancora di nessun altro! - Il bonuomo si asciugò gli occhi,

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piangeva - Era tanto che non avevo più sentito quelle

parole, tanto che non mi aveva dato più il braccio! Oh!, sì,

sono dieci anni che non cammino più a fianco d'una delle

mie figliole. Com'è piacevole sfiorare il suo vestito,

mettersi a passo con lei, condividere il suo calore.

Insomma, questa mattina ho accompagnato Delfina

dappertutto. Entravo con lei nei negozi. E l'ho

riaccompagnata a casa. Oh!, tenetemi vicino a voi. Qualche

volta potreste aver bisogno di chi ci faccia qualche

servigio: io sarò lì pronto. Oh !, se quel grosso ciocco

d'Alsaziano morisse, se la sua gotta fosse così spiritosa da

salirgli allo stomaco, la mia povera figliola sarebbe felice!

Voi diverreste mio genero, sareste agli occhi di tutti suo

marito.

Oh!, lei è così infelice per non conoscere nulla dei piaceri

del mondo, che le perdono qualsiasi cosa. Il buon Dio deve

stare dalla parte dei padri che amano tanto i loro figli. Lei

vi vuol troppo bene! - disse scuotendo la testa, dopo una

pausa. - Camminando, mi parlava di voi: "E' vero, papà,

che è una persona per bene e ha tanto buon cuore! Vi

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parla di me?". E me ne ha dette tante dalla via d'Artois fino

al passaggio dei Panoramas, da farne volumi! E ha versato

il suo cuore nel mio. Per tutta la mattina, non mi sentivo

più vecchio, non pesavo un'oncia. Le ho detto che mi

avevate dato il biglietto da mille franchi. Oh! la mia cara,

ne è stata commossa fino alle lacrime. Ma che cosa avete

là, sul caminetto? - chiese infine Goriot che moriva

d'impazienza vedendo Rastignac immobile.

Eugenio, sbalordito, guardava il suo vicino come un ebete.

Quel duello annunciatogli da Vautrin per l'indomani,

contrastava così violentemente con le realizzazioni delle

sue più care speranze, da fargli provare tutte le sensazioni

dell'incubo. Si volse verso il caminetto, vi scorse la

scatolina quadrata, l'aprì, e vi trovò dentro un foglio, sotto

il quale si trovava un orologio Bréguet.

Sul foglio erano scritte queste parole:

"Voglio che pensiate a me tutte le ore, perché...

Delfina".

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Quest'ultima parola doveva certamente alludere a qualche

scena svoltasi fra loro. Eugenio ne rimase intenerito. Il suo

stemma figurava internamente smaltato nell'oro della

cassa dell'orologio.

Questo oggetto, da tanto tempo desiderato, lo stile, la

catena, la chiavetta, i fregi, soddisfacevano tutti i suoi

gusti. Papà Goriot era raggiante. Egli aveva senza dubbio

promesso alla figlia di riferirle ogni minimo effetto della

sorpresa che avrebbe prodotto in Eugenio il suo dono,

dacché egli rientrava ormai come terzo in quelle giovanili

emozioni e non sembrava esserne il meno felice.

Egli voleva già bene a Rastignac, e nei riflessi di sua figlia e

in rapporto a se stesso.

- Andate a trovarla, questa sera! Vi aspetta. Quel grosso

ciocco dell'Alsaziano cena con la sua ballerina. Ah! ah!, è

rimasto come uno stupido, quando il mio avvocato gli ha

detto il fatto suo. Non ha avuto il coraggio di dichiarare che

ama mia figlia fino all'adorazione? Si provi a toccarla con

un dito, e lo ammazzo.

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L'idea di sapere la mia Delfina preda di... (e qui sospirò) mi

farebbe commettere un delitto: ma il mio non sarebbe un

omicidio, perché si tratta solo d'una testa di vitello sul

corpo d'un maiale. Mi terrete con voi, non è vero?

- Sì, mio buon papà Goriot, sapete quanto vi voglio bene...

- Lo vedo, voi non vi vergognate di me, voi! Lasciate che vi

abbracci - e strinse lo studente fra le braccia. - La

renderete felice? Promettetemelo! Ci andrete questa sera,

non è vero?

- Oh!, sì. Ma ora devo lasciarvi, per certi affari che non

posso rimandare.

- Posso esservi utile in qualche cosa?

- In fede mia, sì! Mentre andrò dalla signora de Nucingen

vorrei pregarvi di andare dal signor Taillefer padre, e

chiedergli se può accordarmi un colloquio in serata,

dovendo parlargli d'una faccenda di somma importanza.

- Ma allora è vero, giovanotto - domandò papà Goriot

cambiando espressione - che voi fareste la corte a sua

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figlia, come dicono questi imbecilli qui sotto? Corpo di mille

fulmini! Voi non sapete che cosa sia un pugno alla Goriot.

E, se c'ingannaste, non sarebbe questione che d'un pugno.

Oh!, questo non è possibile.

- Vi giuro che io amo una sola donna al mondo - rispose lo

studente - e lo so solo da un momento fa.

- Ah!, che felicità! - fece papà Goriot.

- Ma - riprese lo studente - il figlio di Taillefer si batte

domani, e ho sentito dire che verrà ucciso.

- E che cosa ve ne importa? - chiese Goriot.

- Ma bisogna dirgli che impedisca a suo figlio di recarsi...

esclamò Eugenio.

In quel momento fu interrotto dalla voce di Vautrin, che si

fece sentire sulla soglia dell'uscio, cantando:

"O Riccardo, o mio re!

Il mondo ti abbandona".

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Brum! brum! brum! brum! brum!

"A lungo ho corso il mondo, E mi si è visto..." Tra, la, la, la,

...

- Signori - gridò Cristoforo - la zuppa è servita, e tutti sono

già a tavola.

- Cristoforo - disse Vautrin - va' a prendere una bottiglia

del mio vino di Bordeaux.

- Vi piace, I'orologio? - domandò papà Goriot. Lei ha buon

gusto, eh? - Vautrin, papà Goriot e Rastignac scesero

insieme la scala e a tavola si trovarono, a causa del loro

ritardo, vicini. Eugenio ostentò la più grande freddezza a

Vautrin durante il pranzo, sebbene quell'uomo, così

amabile agli occhi della signora Vauquer, non avesse mai

sfoggiato tanto spirito. Fu scoppiettante di arguzie, e seppe

trascinare tutti i commensali. Quella sua disinvoltura, quel

suo sangue freddo costernavano Eugenio.

- Com'è che oggi vi va così buona? - gli chiese la signora

Vauquer. - Siete allegro come un galletto!

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- Sono sempre allegro io, quando ho concluso buoni affari.

- Affari? - domandò Eugenio.

- Ebbene, sì. Ho venduto una partita di merci che mi

procurerà una discreta percentuale. Signorina Michonneau

- aggiunse poi, accorgendosi che la vecchia zitella lo stava

guardando - ho forse sul viso qualche tratto che non vi

garba, da farmi "l'occhio americano"? Nel caso, ditemelo! E

allora lo cambierò, per riuscirvi gradito.

- Poiret, non ci bisticceremo davvero per questo, no? -

aggiunse ammiccando al vecchio impiegato.

- Perbacco!, voi dovreste posare per un Ercole Farnese -

disse il giovane pittore a Vautrin.

- Giusto!, in fede mia, se la signorina Michonneau poserà

da Venere del Père Lachaise - rispose Vautrin.

- E Poiret? - fece Bianchon.

- Oh!, Poiret poserà da Poiret. Sarà il dio dei giardini! -

esclamò Vautrin. - Il suo nome deriva da pera...

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- Cotta! - riprese Bianchon. - E allora vi troverete tra la

pera e il formaggio.

- Ma basta con tutte queste sciocchezze - disse la signora

Vauquer - e fareste meglio a offrirci il vostro vino di

Bordeaux, di cui vedo una bottiglia che sta qui facendo atto

di presenza; essa ci terrà in allegria, senza contare che fa

bene allo "stommacco".

- Signori - fece Vautrin - la signora presidentessa ci

richiama all'ordine. La signora Couture e la signorina

Vittorina non si scandalizzeranno dei vostri discorsi

scherzosi, ma rispettate l'innocenza di papà Goriot. Vi offro

una piccola "bottigliorama" di vin di Bordeaux, che il nome

di Laffitte rende doppiamente illustre: e ciò sia detto senza

alcuna allusione politica. Forza, Cinese! - aggiunse

guardando Cristoforo, che non si mosse. - Vieni qui,

Cristoforo! Come, non senti fare il tuo nome? Cinese, porta

i liquidi !

- Ecco, signore - disse Cristoforo presentandogli la

bottiglia.

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Dopo aver riempito il bicchiere d'Eugenio e quello di papà

Goriot, se ne versò lentamente alcune gocce, le gustò,

mentre i suoi due vicini bevevano; ma ad un tratto fece

una boccaccia.

- Diamine!, sa di turacciolo. Prendi questo per te,

Cristoforo, e vaccene a prendere dell'altro; a destra, sai...

Siamo sedici, porta giù otto bottiglie.

- Visto che siete in vena di liberalità - disse il pittore - io

offrirò le castagne.

- Oh! oh!

- Booououh!

- Prrr!

Ognuno lanciò esclamazioni, che partirono come razzi

d'una girandola.

- Andiamo, mamma Vauquer, offritecene due di

Champagne - le gridò Vautrin.

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- Nientemeno! E perché non chiedermi addirittura tutta la

casa?

Due di Champagne! Ma sapete che costano dodici franchi

l'una? Io non li guadagno mica, io! Ma se il signor Eugenio

vuol pagarle lui, io vi offro il rosolio di ribes.

- Eccola col suo ribes, che purga come la manna - disse lo

studente in medicina a bassa voce.

- Vuoi star zitto, Bianchon? - esclamò Rastignac - io non

posso sentir parlare di manna senza che lo stomaco...

Ebbene sì, vada per lo Champagne, lo pago io aggiunse lo

studente.

- Silvia - disse la signora Vauquer - serviteci i biscotti e i

pasticcini.

- I vostri pasticcini sono troppo grandi - disse Vautrin -

hanno la barba! Ma i biscotti, portateli.

In un momento il vino di Bordeaux circolò, i commensali si

animarono, l'allegria raddoppiò. Furono risa sgangherate,

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tra le quali scoppiarono alcune imitazioni di diverse voci

d'animali.

All'impiegato del Museo venne in mente di rifare il grido

d'un venditore ambulante parigino che somigliava al

miagolio d'un gatto in amore, e subito otto voci

mugghiarono simultaneamente le frasi seguenti:

- Arrotinooo!

- ...Miglio per uccellini! - Caramelle, caramelle! - Piatti da

accomodare! - Pesce fresco, pesce fresco! Battipanni! -

Cenciaiuolo, roba vecchia! - Ciliege dolci!

La palma toccò a Bianchon per il timbro nasale con cui

gridò:

- Ombrellaio! Ombrelli da accomodare!

In pochi istanti si generò un chiasso da far scoppiare la

testa, una conversazione senza capo né coda, una vera e

propria opera che Vautrin dirigeva come un direttore

d'orchestra, sorvegliando Eugenio e papà Goriot, i quali

apparivano già ubriachi. Con la schiena appoggiata alla

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sedia, ambedue assistevano a quella insolita confusione

con un'aria grave, bevendo poco; entrambi erano

preoccupati di quel che dovevano fare durante la serata,

ma, tuttavia, non si sentivano la forza d'alzarsi. Vautrin,

che seguiva i mutamenti della loro fisionomia guardandoli

in tralice, colse il momento in cui i loro occhi vacillarono e

sembrarono volersi chiudere, per chinarsi all'orecchio di

Rastignac, e dirgli:

- Ragazzino mio, non siamo abbastanza furbi da farla a

papà Vautrin, e lui vi vuole troppo bene per lasciarvi

commettere qualche sciocchezza. Quando ho deciso di fare

qualcosa, solo il buon Dio è così forte da sbarrarmi la

strada. Ah!, sarebbe dunque nostra intenzione di andare ad

avvertire papà Taillefer, e fare sbagli da scolaretto? Il forno

è acceso, la farina è impastata, il pane è sulla pala; domani

ne faremo saltare le miche sulla nostra testa mordendolo,

e proprio adesso non vorremmo infornare?... No, no; tutto

si cuocerà! Se abbiamo ancora qualche piccolo rimorso, la

digestione lo porterà via. Mentre noi schiacceremo un

sonnellino, il colonnello conte Franchessini aprirà a nostro

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favore la successione di Michele Taillefer con la punta della

propria spada. Ereditando dal fratello, Vittorina avrà

quindicimila piccoli franchi di rendita. Ho assunto già

informazioni, e so che la successione della madre ammonta

a più di trecentomila...

Eugenio sentiva queste parole senza poter rispondere:

aveva la lingua incollata al palato, ed era sotto l'azione di

una sonnolenza invincibile; vedeva la tavola e i volti dei

commensali soltanto attraverso una nebbia luminosa.

Presto il rumore si calmò, i pensionanti uscirono a uno a

uno. Poi, quando non rimase più che la signora Vauquer, la

signora Couture, la signorina Vittorina, Vautrin e papà

Goriot, Rastignac vide, come in sogno, la signora Vauquer

che prendeva le bottiglie per scolarne il fondo, in modo da

riempirne qualcuna.

- Ah!, che pazzi, come sono giovani! - diceva la vedova.

Questa fu l'ultima frase che Eugenio poté capire.

- Solo il signor Vautrin è capace di far questi scherzi - disse

Silvia. - Guardate lì Cristoforo, come russa!

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- Addio, mammà - fece Vautrin. - Vado a teatro ad

ammirare il signor Marty nel "Monte Selvaggio", un grande

lavoro tratto dal "Solitario". Se volete, vi ci conduco

insieme con le altre signore.

- Grazie - rispose la signora Couture.

- Come, vicina mia ! - esclamò la signora Vauquer - non

volete ascoltare un lavoro teatrale ricavato dal "Solitario",

l'opera di Atala de Chateaubriand, che ci piaceva tanto di

leggere, così bella da farci piangere come tante Maddalene

d'Elodia sotto "le tiglie" l'estate scorsa, un lavoro morale,

insomma, che può istruire la vostra signorina?

- Non possiamo andare a teatro - rispose Vittorina.

- Eccoli, sono andati, questi due - disse Vautrin muovendo

comicamente la testa di papà Goriot e quella d'Eugenio.

Appoggiando la testa dello studente sulla spalliera della

sedia, per farlo dormire comodamente, lo baciò con calore

sulla fronte e cantò:

Dormite, o dolci amori!

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Per voi desto sarò.

- Temo si senta male - disse Vittorina.

- E allora rimanete a curarlo - rispose Vautrin. - Questo - le

sussurrò all'orecchio - è il vostro dovere di sposa devota. Il

giovane vi adora, e voi sarete la sua mogliettina, ve lo

predico.

Insomma, - aggiunse ad alta voce - essi furono stimati in

tutto il paese, vissero felici ed ebbero molti figliuoli. Ecco

come finiscono tutti i romanzi d'amore. Andiamo, mammà

- disse rivolgendosi alla signora Vauquer stringendola per

la vita, - mettetevi il cappello, il bell'abito a fiorami, la

sciarpa della contessa. Vado intanto a ordinare una

carrozza. E uscì cantando:

Sole, sole, o divin sole, tu che le zucche fai maturar...

- Buon Dio! signora Couture, con quell'uomo vivrei felice

anche sotto il letto! Guardate - fece poi voltandosi verso il

vermicellaio - ecco papà Goriot andato anche lui. A questo

vecchio canchero fosse mai venuto in mente una volta di

portarmi in"gnisun" posto! Ma sta per cadere per terra, mio

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Dio! E' indecente però per un uomo d'età smarrire la

ragione così. Mi direte che non si può perdere quel che non

si ha. Silvia, portatelo in camera sua.

Silvia prese il bonuomo sotto il braccio, lo aiutò a

camminare, e lo buttò, vestito com'era, attraverso il letto,

come un sacco.

- Povero ragazzo - fece la signora Couture scostando i

capelli di Eugenio che gli ricadevano sugli occhi, è come

una giovinetta, non sa cosa sia uno stravizio.

- Ah, posso ben dirlo; da trentun anni che gestisco la

pensione,- disse la signora Vauquer - mi sono passati

parecchi giovanotti per le mani, come suol dirsi; ma non ne

ho mai incontrato uno così perbene, così distinto come il

signor Eugenio. Quant'è bello quando dorme! Appoggiategli

la testa sulla vostra spalla, signora Couture. Però!, cade su

quella della signorina Vittorina: c'è un dio per i ragazzi.

Bastava poco perché non si rompesse la testa sul pomo

della sedia. Fra tutti e due farebbero proprio una bella

coppia.

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- Ma volete dunque tacere, vicina mia? - esclamò la signora

Couture - state dicendo certe cose...

- Ma! - fece la signora Vauquer - tanto non sente nulla.

Vieni qui, Silvia, aiutami a vestirmi. Voglio mettermi il

busto grande.

- Ah, sì!, il busto grande, dopo aver mangiato? - disse

Silvia. - No, no, cercatevi qualcun altro per farvi stringere;

non sarò davvero io il vostro assassino. Commettereste

una imprudenza che potrebbe costarvi la vita.

- Non fa nulla, bisogna fare onore al signor Vautrin.

- Volete proprio tanto bene ai vostri eredi?

- Basta, Silvia, meno chiacchiere - fece la vedova uscendo.

- Alla sua età! - riprese la cuoca indicando la padrona a

Vittorina.

La signora Couture e la sua pupilla, sulla cui spalla Eugenio

dormiva, rimasero sole nella sala da pranzo. Il russare di

Cristoforo risuonava nella casa silenziosa, e faceva risaltare

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il tranquillo sonno di Eugenio, che dormiva con infantile

leggiadria.

Felice di potersi permettere uno di quegli atti di carità

attraverso i quali si effondono tutti i sentimenti della donna

e che le faceva sentire, senza commettere peccato, il cuore

del giovane battere sul suo, Vittorina aveva nel volto

qualcosa di maternamente protettivo, che la rendeva fiera.

Tra i mille pensieri che si levavano dal suo cuore, essa

avvertiva un tumultuoso moto di voluttà, eccitato dallo

scambio d'un giovanile e puro calore.

- Povera cara figliuola! - disse la signora Couture,

stringendole la mano. La vecchia signora ammirava quel

candido e sofferente sembiante, sul quale era discesa

l'aureola della felicità.

Vittorina somigliava a una di quelle ingenue pitture

medievali in cui tutti i particolari sono negletti dall'artista,

che si è riservato la magia di un pennello calmo e fiero per

la figura, d'un tono giallo, ma dove il cielo pare riflettersi

con le sue tinte d'oro.

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- Eppure, mammà, non ha bevuto più di due bicchieri -

fece Vittorina passando le dita fra i capelli d'Eugenio.

- Ma se fosse stato un dissoluto, figlia mia, avrebbe

sopportato il vino come tutti gli altri. La sua ebbrezza è il

suo miglior elogio.

Il rumore d'una vettura risuonò nella strada.

- Mammà - disse la ragazza - ecco il signor Vautrin.

Prendete voi, vi prego, il signor Eugenio. Non vorrei esser

vista così da quell'uomo; ha certe espressioni che sporcano

l'anima, e certi sguardi che imbarazzano una donna come

se le si levasse il vestito.

- No - rispose la signora Couture - tu ti sbagli! Il signor

Vautrin è un brav'uomo, un po' sul genere del povero

signor Couture, rude ma buono, un burbero benefico.

In quel momento Vautrin entrò piano piano, e contemplò il

quadro formato da quei ragazzi, che la luce della lampada

sembrava accarezzasse.

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- Ebbene! - disse incrociando le braccia - ecco una di quelle

scene che avrebbero ispirato qualche bella pagina al buon

Bernardin de Saint-Pierre, l'autore di "Paul et Virginie". La

giovinezza è una gran bella cosa, signora Couture. Povero

ragazzo, dorme - aggiunse guardando Eugenio - il bene

scende alcune volte nel sonno. Signora - riprese

rivolgendosi alla vedova - quel che mi lega a questo

giovane, quel che mi commuove, è il sapere la bellezza

della sua anima in armonia con quella del suo viso.

Guardatelo: non vi sembra un cherubino poggiato sulla

spalla d'un angelo? E' degno d'essere amato, quello lì. Se

fossi donna, vorrei morire (no, non sono così stupido!)

vivere, per lui. Ammirandoli così, signora - aggiunse a

bassa voce e chinandosi all'orecchio della vedova - non

posso fare a meno di pensare che Dio li ha creati per

essere l'uno dell'altro. Le vie della Provvidenza sono ben

nascoste, essa sonda le reni e il cuore - esclamò ad alta

voce. - Nel vedervi uniti, ragazzi miei, uniti da una stessa

purezza, da tutti i sentimenti umani, penso sia impossibile

che voi siate mai separati in avvenire. Dio è giusto. Ma -

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disse alla ragazza - mi sembra di aver trovato in voi le

linee della fortuna.

Datemi la mano, signorina Vittorina, io m'intendo di

chiromanzia, e spesso ho detto la buona ventura. Andiamo,

non abbiate paura.

Oh!, che cosa non vedo! In fede di onest'uomo, voi sarete

fra breve una delle più ricche ereditiere parigine.

Colmerete di felicità colui che vi ama. Vostro padre vi

chiama vicino a sé. Vi mariterete a un titolato giovane,

bello, che vi adora.

In quel momento i passi pesanti della leziosa vedova che

scendeva interruppero le profezie di Vautrin.

- Ecco mammà Vauquerre bella come un astrrro, legata

stretta come un salame. Non scoppiamo un pochettino? -

le chiese mettendo la mano sulla parte superiore del busto;

- le punte di petto stanno molto pigiate, mammà. Se

durante la recita dovremo piangere, avverrà un'esplosione;

ma io raccoglierò i pezzi con la cura d'un antiquario.

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- Conosce il gergo della galanteria francese, costui! - fece

la vedova chinandosi all'orecchio della signora Couture.

- Addio, figlioli - riprese Vautrin rivolgendosi ad Eugenio e

a Vittorina. - Vi benedico - aggiunse imponendo le mani sul

loro capo. - Date retta a me, signorina, gli auguri d'un

galantuomo valgono pur qualcosa, devono portarvi fortuna,

Dio li ascolta.

- Addio, mia cara amica - disse la signora Vauquer alla

pensionante. - Credete - aggiunse a bassa voce - che il

signor Vautrin possa avere qualche intenzione a mio

riguardo?

- Eh!, eh!

- Ah, mia cara mammà - disse Vittorina sospirando e

guardandosi le mani, quando le due donne rimasero sole. -

Se quel buon signor Vautrin dicesse la verità !

- Ma basta una cosa sola per questo - rispose la vecchia

signora - basta solo che quel mostro di tuo fratello cada da

cavallo.

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- Oh !, mammà.

- Mio Dio, forse è un peccato augurare il male al proprio

nemico - riprese la vedova. - Ebbene, ne farò la penitenza.

Ti assicuro che porterò volentieri dei fiori sulla sua tomba.

Senza cuore!, egli non ha il coraggio di dire ciò che

avrebbe detto sua madre, di cui detiene a tuo danno

l'eredità a forza d'imbrogli. Mia cugina possedeva una bella

fortuna. Per tua disgrazia, non s'è mai parlato del suo

apporto dotale nel contratto.

- Non potrei godere la mia felicità, se dovesse costare la

vita a qualcuno - rispose Vittorina. - E se, per essere felice,

mio fratello dovesse mancare, preferirei restare sempre

qui.

- Mio Dio, come dice quel buon signor Vautrin, che, lo hai

sentito, è un uomo religioso - riprese la signora Couture -

mi ha fatto piacere di sapere che egli non è incredulo come

gli altri, che parlano di Dio con minor rispetto di quanto

non ne abbia il diavolo. Ebbene, chi può sapere per quali

strade alla Provvidenza piaccia condurci?

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Aiutate da Silvia le due donne trasportarono Eugenio nella

sua camera, lo coricarono sul letto, e la cuoca gli sbottonò

il vestito per farlo star comodo. Prima di lasciare la stanza

Vittorina, non appena la sua protettrice ebbe voltato le

spalle, impresse un bacio sulla fronte d'Eugenio, con tutta

la felicità che doveva causarle quel criminale gesto furtivo.

Guardò la sua camera, raccolse, per così dire, in un solo

pensiero le mille gioie di quella giornata, ne fece un quadro

che rimase a contemplare a lungo, e s'addormentò come la

più felice creatura di Parigi. La festicciola col favore della

quale Vautrin aveva fatto bere a Eugenio e a papà Goriot

vino narcotizzato, significò la sua rovina. Bianchon, mezzo

ubriaco, dimenticò d'interrogare la signorina Michonneau a

proposito di Ingannalamorte. Se avesse pronunciato questo

nome, avrebbe sicuramente destato la prudenza di Vautrin,

o, per chiamarlo col suo vero nome, di Jacques Collin, una

celebrità della galera. E poi, il nomignolo di Venere del

Père-Lachaise fece decidere la signorina Michonneau a

consegnare nelle mani della forza il galeotto, proprio nel

momento in cui, fidando nella generosità di Collin, stava

pensando se non sarebbe stato meglio avvertirlo e farlo

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evadere durante la notte. E uscì, accompagnata da Poiret,

per recarsi dal famoso capo della polizia, al vicolo Sainte-

Anne, credendo di aver ancora a che fare con un alto

funzionario chiamato Gondureau. Il direttore della polizia

giudiziaria la ricevette cortesemente. Poi, dopo un colloquio

in cui tutto fu precisato, la signorina Michonneau chiese il

liquido con l'aiuto del quale avrebbe dovuto procedere alla

verifica del marchio. Dal gesto di contentezza che fece il

grand'uomo del vicolo Sainte-Anne nel cercare una fialetta

nel cassetto dello scrittoio, la signorina Michonneau capì

che in quella cattura si nascondeva qualcosa di più

importante dell'arresto d'un semplice forzato. A furia di

spremersi il cervello, essa suppose che la polizia sperasse,

sulla scorta di certe rivelazioni fatte da alcuni galeotti

traditori, di giungere in tempo per mettere le mani su

considerevoli valori.

Quando ebbe espresso tali congetture a quella volpe, egli

ebbe un sorriso, e volle stornare i sospetti della vecchia

zitella.

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- V'ingannate - le rispose. - Collin è la "sorbona" più

pericolosa che mai si sia trovata nel reparto dei ladri. Ecco

tutto. I bricconi lo sanno bene; egli è la loro bandiera, il

loro sostegno, insomma il loro Bonaparte; e tutti gli

vogliono bene. Questo bel tipo non ci lascerà mai la sua

"ghirba" in piazza de Grève.

E poiché la signorina Michonneau non capiva, Gondureau le

spiegò le due parole di gergo che aveva usato: "Sorbona" e

"ghirba" sono due energiche espressioni del linguaggio dei

ladri i quali, loro per primi, hanno sentito la necessità di

considerare la testa umana sotto due aspetti. La "sorbona"

è la testa dell'uomo vivo, il suo giudizio, il suo pensiero. La

"ghirba" è una parola di spregio destinata a significare

quanto poco valga la testa, quando essa è stata recisa.

- Collin ci prende in giro - egli disse. - Quando

c'imbattiamo in uomini del genere, che sono come sbarre

d'acciaio temprate all'inglese, abbiamo la risorsa di

ucciderli se, all'atto dell'arresto, si attentano a fare la più

piccola resistenza. Noi contiamo, appunto, su qualche via

di fatto per uccidere Collin domattina. In questo modo si

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evitano il processo, le spese di custodia, il nutrimento, e si

libera la società da un pericolo. Le procedure, le escussioni

dei testimoni, il pagamento delle loro indennità,

l'esecuzione, tutto quel che deve legalmente sbarazzarci da

tali delinquenti, costano ben più dei mille scudi che

riceverete. E poi, si fa economia di tempo. Assestando un

bel colpo di baionetta nella pancia di Ingannalamorte,

impediremo un centinalo di delitti ed eviteremo la

corruttela di cinquanta pessimi soggetti, i quali si terranno

prudentemente ai margini della correzionale. Ecco

un'azione di polizia ben fatta. Secondo l'avviso dei veri

filantropi, procedere così vuol dire prevenire i reati.

- Ma è anche servire il proprio Paese - disse Poiret.

- Ebbene! - replicò il capo - dite cose sensate, questa sera,

voi.

Sì certo, noi serviamo il Paese. E la società è ingiusta nei

nostri riguardi. Noi le rendiamo grandi servigi, tuttavia

ignorati. Ma poi è proprio di un uomo superiore porsi al di

sopra dei pregiudizi, è proprio di un cristiano sopportare i

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guai che il bene porta con sé, quando non è fatto secondo i

sani principi.

Parigi è Parigi: questa parola spiega la mia vita. Ho l'onore

di salutarvi, signorina. Mi troverò coi miei uomini domani al

Giardino del Re. Mandate Cristoforo in via Buffon, dal

signor Gondureau, nella casa dov'ero. Signore, servitor

vostro. Caso mai vi rubassero qualcosa, servitevi pure di

me per farvela ritrovare, sono a vostra disposizione.

- Ebbene! - disse Poiret alla signorina Michonneau - si

trovano degli imbecilli che la sola parola polizia mette sotto

sopra.

Questo signore è molto amabile, e quanto vi chiede è

semplice come dire: buon giorno. - L'indomani doveva

essere una delle giornate più straordinarie nella storia della

Casa Vauquer. Fino allora, il fatto più saliente di quella vita

tranquilla era stata l'apparizione meteorica della falsa

contessa de l'Ambermesnil. Ma tutto doveva impallidire

dinanzi alle peripezie di quella giornata campale, della

quale si sarebbe parlato in eterno nelle conversazioni della

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signora Vauquer. Innanzi tutto Goriot ed Eugenio de

Rastignac dormirono fino alle undici. La signora Vauquer,

rientrata a mezzanotte dalla "Gaîté", rimase fino alle dieci

e mezza a letto. Il prolungato sonno di Cristoforo, che

aveva bevuto i fondi delle bottiglie offerte da Vautrin,

causò qualche ritardo nel servizio della casa. Poiret e la

signorina Michonneau non si lamentarono del ritardo subìto

dalla colazione.

Quanto a Vittorina e alla signora Couture, esse dormirono

sino a tardi. Vautrin uscì prima delle otto, e tornò proprio

quando la colazione stava per essere servita. Nessuno

perciò protestò quando, verso le undici e un quarto, Silvia

e Cristoforo bussarono a tutti gli usci per dire che la

colazione era pronta. Durante l'assenza di Silvia e del

domestico, la signorina Michonneau scese per prima, versò

il liquido nella tazza d'argento di Vautrin, dove la crema

per il caffè si scaldava a bagno maria, a differenza di tutti

gli altri commensali. La vecchia zitella aveva contato su

questa particolarità della pensione per fare il suo colpo.

Non fu senza qualche difficoltà che i sette pensionanti si

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trovarono riuniti. Nel momento in cui Eugenio, stirandosi le

braccia, scendeva buon ultimo, un fattorino gli consegnò

una lettera della signora de Nucingen. La lettera era così

concepita:

"Io non ho falsa vanità, né sono in collera con voi, amico

mio. Vi ho atteso fino alle due dopo mezzanotte. Attendere

una persona amata! Chi ha conosciuto questo supplizio non

lo impone a nessuno.

Vedo bene che voi amate per la prima volta. Che cosa mai

è accaduto? Sono angustiata. Se non avessi timore di

svelare i segreti del mio cuore, sarei venuta a vedere quel

che vi capitava, piacevole o spiacevole che fosse. Ma uscire

di casa a quell'ora, o a piedi o in carrozza, non avrebbe

voluto dire screditarsi? Ho in questa circostanza provato il

rammarico d'esser nata donna.

Rassicuratemi, ditemi perché non siete venuto, dopo

quanto vi avrà detto mio padre. M'inquieterò, ma vi

perdonerò. State poco bene?

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Perché abitare così lontano da me? Una parola, per favore!

A presto, non è vero? Una parola mi basterà, se siete

occupato.

Ditemi solo: o corro da voi, o sto male... Ma se vi trovaste

indisposto, mio padre sarebbe venuto a dirmelo! Che cosa

dunque è accaduto?...".

- Già, che cosa è accaduto? - esclamò Eugenio, che si

precipitò nella sala da pranzo, spiegazzando la lettera

senza finire di leggerla. - Che ora è?

- Le undici e mezza - rispose Vautrin inzuccherando il suo

caffè.

Il forzato evaso gettò su di Eugenio quello sguardo

freddamente ammaliatore che certi uomini eminentemente

magnetici hanno il dono di lanciare, e che, si dice, calma i

pazzi furiosi nei manicomi.

Eugenio tremò in tutte le sue membra. Il rumore d'un

"fiacre" si fece sentire dalla strada, e un domestico che

indossava la livrea del signor Taillefer, subito riconosciuto

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dalla signora Couture, entrò precipitosamente con aria

stravolta.

- Signorina - esclamò - il vostro signor padre vi desidera. E'

accaduta una grave disgrazia. Il signor Federico s'è battuto

al duello, ha ricevuto un colpo di spada in fronte, e i medici

disperano di salvarlo; avrete appena il tempo di dirgli

addio!, ha perduto conoscenza.

- Povero giovane! - esclamò Vautrin. - Come mai attaccar

lite quando si hanno trenta buone mila lire di rendita? E'

proprio vero che la gioventù non si sa regolare!

- Signore! - gli gridò Eugenio.

- Ebbene!, cosa, bambinone? - fece Vautrin terminando

tranquillamente di bere il caffè, operazione che la signorina

Michonneau seguiva troppo attentamente per commuoversi

del fatto straordinario che tutti aveva lasciato sorpresi. -

Non ci sono forse duelli tutte le mattine, a Parigi?

- Vengo con voi, Vittorina - disse la signora Couture.

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E le due donne corsero via senza né scialle né cappello.

Prima di uscire, Vittorina, con gli occhi pieni di lacrime,

diede a Eugenio uno sguardo come per dirgli: "Non credevo

che la nostra felicità dovesse costarmi tante lagrime!".

- Ma!, voi siete dunque profeta, signor Vautrin - chiese la

signora Vauquer.

- Io sono ogni cosa - rispose Jacques Collin.

- E' strano davvero! - riprese la signora Vauquer, infilando

una dopo l'altra frasi sconnesse sull'accaduto. - La morte ci

coglie senza domandarci il permesso. I giovani se ne vanno

spesso prima dei vecchi. Fortuna, noi donne, di non dover

avere duelli; ma in cambio abbiamo malattie che gli uomini

non hanno. Noi facciamo i figli, e il mal di madre dura

parecchio! Che terno al lotto per Vittorina! Adesso suo

padre sarà costretto a riconoscerla.

- Ecco fatto! - disse Vautrin guardando Eugenio - ieri la

ragazza era senza un soldo, e stamane ricca a milioni.

- Dite su, signor Eugenio - esclamò la signora Vauquer - ci

avete messo le mani al momento buono!

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A questa uscita, papà Goriot guardò lo studente e gli vide

nella mano la lettera spiegazzata.

- Non l'avete terminata!, che vuol dir questo?, sareste voi

forse come tutti gli altri? - gli domandò.

- Signora, io non sposerò mai la signorina Vittorina - disse

Eugenio rivolto alla signora Vauquer, con un senso d'orrore

e di disgusto, che sorprese i presenti.

Papà Goriot prese la mano dello studente e gliela strinse.

Avrebbe voluto baciargliela.

- Oh, oh! - fece Vautrin. - Gli italiani hanno un buon modo

di dire: "col tempo"!

- Attendo la risposta - disse a Rastignac l'inviato della

signora de Nucingen.

- Ditele che andrò da lei.

L'uomo uscì. Eugenio era in preda a un violento stato

d'eccitazione che non gli consentiva d'esser prudente.

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- Che fare? - diceva ad alta voce, parlando a se stesso. -

Le prove non ci sono !

Vautrin sorrise. In quel momento la pozione assorbita dal

suo stomaco cominciava ad avere effetto. Tuttavia il

forzato era così robusto che si levò, guardò Eugenio, e gli

disse con voce cupa:

- Giovanotto, la fortuna arriva dormendo. - E cadde

stecchito.

- C'è dunque una giustizia divina - disse Eugenio.

- Mio Dio!, e che diamine ora gli prende a questo povero

signor Vautrin ?

- Un colpo apoplettico! - gridò la signorina Michonneau.

- Silvia, corri, figlia mia, va subito a chiamare il medico -

fece la vedova. - Ah! signor Rastignac, andate presto a

cercare il signor Bianchon; Silvia potrebbe non trovare il

nostro medico, il signor Grimpel.

Rastignac, felice di avere un pretesto per lasciare quella

spaventosa caverna, uscì correndo.

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- Cristoforo, su, corri dal farmacista a chiedergli qualcosa

contro l'apoplessia. - Cristoforo uscì.

- Andiamo, papà Goriot, aiutateci a trasportarlo su, in

camera sua.

Vautrin fu preso, portato su per la scala e messo sul letto.

- Io non vi servo a nulla, vado a vedere mia figlia - disse il

signor Goriot.

- Vecchio egoista! - esclamò la signora Vauquer - va', ti

auguro di morire come un cane.

- Ma andate a vedere se avete un po' d'etere - fece alla

signora Vauquer la signorina Michonneau che, aiutata da

Poiret, aveva svestito Vautrin.

La signora Vauquer scese in camera sua, lasciando la

signorina Michonneau padrona del campo di battaglia.

- Presto, levategli la camicia e rivoltatelo! Siate dunque

buono a qualche cosa ed evitatemi di vedere delle nudità -

disse a Poiret.

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- Ve ne state lì come Babà.

Rivoltato che fu Vautrin, la signorina Michonneau batté

sulla spalla di Vautrin un forte colpo con la mano, e le due

fatali lettere ricomparvero, in bianco, nel mezzo della

macchia rossa.

- To', vi siete guadagnato presto il compenso di tremila

franchi- esclamò Poiret, reggendo ritto Vautrin mentre la

signorina Michonneau gli rimetteva la camicia.

- Auf!, quanto pesa - aggiunse stendendolo nuovamente

sul letto.

- Statevi zitto. E se ci fosse una cassa? - disse con vivacità

la vecchia zitella, i cui occhi sembravano forare i muri,

tanta era l'avidità con la quale osservava ogni più piccolo

mobile della camera. - Se si potesse aprire questo scrittoio

con un qualche pretesto - riprese a dire.

- Non sarebbe forse cosa ben fatta - riprese Poiret.

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- E perché? Il denaro rubato, essendo stato di tutti, non è

più di nessuno. Ma è che ci manca il tempo - essa rispose.

- Sento venire la Vauquer.

- Ecco l'etere - disse la signora Vauquer. - Ma davvero che

oggi è proprio la giornata delle avventure. Dio !,

quell'uomo non può essere malato, è bianco come un pollo.

- Come un pollo? - ripeté Poiret.

- Il cuore è regolare - disse la vedova ponendogli la mano

sul cuore.

- Regolare? - fece Poiret meravigliato.

- Ottimo.

- Vi sembra? - domandò Poiret.

- Diamine!, pare che dorma. Silvia è andata a cercare un

medico.

Guardate, signorina Michonneau, aspira l'etere. Ma!, sarà

uno "spasso" (e voleva dire: uno spasmo). Il polso è

buono. Lui è forte come un Turco. Vedete, signorina, che

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pelliccetta ha sullo stomaco ? Costui vivrà cent'anni! La sua

parrucca non s'è neppure mossa. To, è incollata e ha i

capelli finti, perché è di pelo rosso. Dicono che i rossi o

sono ottimi o pessimi! E lui, allora, sarebbe buono?

- Per essere appeso - disse Poiret.

- Volete dire al collo d'una bella donna - esclamò

vivamente la signorina Michonneau. - Andatevene, signor

Poiret. Sta a noi curarvi, quando siete ammalati. E poi, per

quel che siete buono a fare, potete pure andarvene a

spasso - aggiunse. - Bastiamo la signora Vauquer e io a

sorvegliare questo nostro caro signor Vautrin.

Poiret se ne andò pian piano e senza fiatare, come un cane

cui il padrone ha dato un calcio. Rastignac era uscito per

camminare, per prendere aria: soffocava. Quel delitto

consumato ad ora stabilita, aveva cercato d'impedirlo, il

giorno avanti. Che cosa era accaduto? Che cosa doveva

fare? Tremava d'esserne il complice. Il sangue freddo di

Vautrin anche adesso lo spaventava.

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"Se ora Vautrin morisse senza più riprendere la parola?", si

chiedeva Rastignac. Passava per i viali del Luxembourg

come se fosse stato inseguito da una muta di cani, e gli

sembrava di udirne i latrati.

- Di' - gli gridò Bianchon - hai il "Pilote"?

"Le Pilote" era un giornale radicale diretto dal signor Tissot,

e che pubblicava per la provincia, qualche ora dopo i

quotidiani del mattino, un'edizione che dava le notizie del

giorno, in modo da farle arrivare nei dipartimenti

ventiquattro ore prima degli altri giornali.

- E' riportato un fatto straordinario - disse lo studente

medico dell'ospedale Cochin. - Taillefer figlio si è battuto in

duello col conte de Franchessini della vecchia guardia, che

gli ha infilato due pollici di ferro in fronte. E la piccola

Vittorina è diventata uno dei più ricchi partiti di Parigi. Ma

dimmi un po', ad averlo saputo? Che "trenta e quaranta"

[gioco d'azzardo] è mai la morte! E' vero che Vittorina ti

guardava con simpatia - Taci, Bianchon, quella non la

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sposerò mai. Io amo una donna deliziosa, io ne sono

amato, io...

- Dici questo come se invano ti tormentassi per non essere

infedele. Dimmi qual è la donna che valga il sacrificio della

ricchezza del sire di Taillefer?

- Tutti i diavoli dunque mi vengono dietro? esclamò

Rastignac.

- E dove mai ne avresti tu dietro? Sei forse pazzo? Dammi

qui la mano - disse Bianchon - per sentirti il polso. Ma tu

hai la febbre !

- Va da mamma Vauquer - gli fece Eugenio - quello

scellerato di Vautrin è cascato come morto.

- Ah! - disse Bianchon, che lasciò Rastignac solo - tu mi

confermi dei sospetti che andrò a controllare.

La lunga passeggiata dello studente in diritto fu solenne.

Egli fece in certo modo il suo completo esame di coscienza.

Vagabondò, esaminò, esitò, ma per lo meno la sua probità

uscì, da quell'aspro e terribile colloquio con se stesso,

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provata come una sbarra di ferro che resiste a ogni colpo.

Si rammentò delle confidenze fattegli da papà Goriot il

giorno prima, dell'appartamento scelto per lui vicino a

Delfina, in via d'Artois; riprese la lettera, la rilesse, la

baciò. "Un tale amore è la mia àncora di salvezza", si disse.

"Il cuore di questo povero vecchio ha ben sofferto. Egli non

dice nulla dei suoi dolori, ma chi non li indovinerebbe?

Ebbene, io avrò cura di lui come d'un padre, gli procurerò

mille gioie. Se mi vuol bene, lei verrà spesso da me a

passare la giornata vicino a lui. Quella gran contessa de

Restaud è una infame che farebbe di suo padre un

portinaio. Cara la mia Delfina!, lei è più buona col

brav'uomo, è degna d'essere amata.

Ah!, stasera sarò dunque felice!". Cavò fuori l'orologio, lo

ammirò.

"Tutto mi è andato bene! Quando ci si ama per sempre, ci

si può aiutare, posso accettare questo dono. E poi, io farò

fortuna, e potrò ricambiare tutto, centuplicato. Nel mio

legame non c'è né colpa, né nulla che possa far aggrottar

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le ciglia alla più severa virtù. Quante oneste persone non

contraggono simili unioni? Noi due non inganniamo

nessuno e solo la menzogna ci avvilirebbe.

Mentire non è come abdicare? Lei s'è da tempo ormai

divisa da suo marito. Del resto, sarò io a dire a

quell'Alsaziano di cedermi una moglie che gli è impossibile

render felice".

La lotta interiore di Rastignac durò a lungo. Sebbene la

vittoria dovesse arridere alla virtù giovanile, egli fu tuttavia

ricondotto da una invincibile curiosità, verso le quattro e

mezza, al cader della notte, verso la Casa Vauquer, che si

riprometteva di lasciare per sempre. Egli voleva sapere se

Vautrin era morto. Dopo aver avuto l'idea di

somministrargli un emetico, Bianchon aveva fatto mandare

al suo ospedale quanto Vautrin aveva rigettato, per farne

l'analisi chimica. Notando l'insistenza della signorina

Michonneau per fare buttar via tutto, i suoi dubbi si

rafforzarono; del resto, Vautrin si ristabilì troppo presto

perché Bianchon non supponesse un qualche complotto

ordito contro il capo ameno della pensione. Quando

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Rastignac rientrò, Vautrin stava in piedi vicino alla stufa

della sala da pranzo. Richiamati più presto del solito dalla

notizia del duello di Taillefer figlio, i pensionanti, curiosi di

conoscere i particolari del fatto e le conseguenze di esso

sulla sorte di Vittorina, se ne stavano riuniti, ad eccezione

di papà Goriot, e parlavano di quanto era accaduto.

Quando Eugenio entrò, i suoi occhi incontrarono quelli

dell'imperturbabile Vautrin, il cui sguardo penetrò così

addentro nel suo cuore e vi rimescolò tanto fortemente

alcune corde malefiche, da farlo rabbrividire.

- Ebbene, caro figliuolo - gli disse il forzato evaso - la

"Camusa" avrà da fare a lungo prima di prendermi. A quel

che dicono queste signore, ho superato vittoriosamente

uno colpo apoplettico che avrebbe potuto uccidere un bue.

- Ah!, potete pur dire un toro - esclamò la vedova Vauquer.

- Vi dispiacerebbe forse di vedermi ancor vivo? - disse

Vautrin all'orecchio di Rastignac, di cui credette

d'indovinare il pensiero. - Sarebbe segno che siete un

uomo diabolicamente forte!

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- Ah, in fede mia ! - disse Bianchon - la signorina

Michonneau parlava ieri l'altro d'un tale soprannominato

Ingannalamorte; quel nome vi starebbe proprio bene.

Queste parole produssero su Vautrin l'effetto della folgore;

egli impallidì e vacillò, il suo sguardo magnetico cadde

come un raggio di sole sulla signorina Michonneau, cui quel

getto di volontà spezzò le gambe. La vecchia zitella si

lasciò scivolare su di una sedia. Poiret si fece avanti con

vivacità e si mise tra lei e Vautrin, avendo capito che essa

era in pericolo, tanto la faccia del forzato divenne

ferocemente espressiva nel gettare la maschera bonaria

sotto la quale si nascondeva la sua vera natura. Senza

ancora comprendere nulla di quel dramma tutti i

pensionanti rimasero attoniti. In quel momento, si udirono

i passi di molti uomini, e il rumore di alcuni fucili che dei

soldati battevano sul selciato della strada. Mentre Collin

cercava macchinalmente una via d'uscita guardando le

finestre e i muri, quattro uomini comparvero sulla soglia

dell'uscio della sala. Il primo era il capo della polizia, gli

altri tre erano ufficiali della polizia municipale - In nome

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della legge e del re - disse uno di questi, le cui parole

furono coperte da un mormorio di stupore. Sùbito il silenzio

regnò nella sala da pranzo, i pensionanti si separarono per

lasciar passare i tre, che avevano tutti la mano entro la

tasca di fianco, dov'era una pistola carica. Due gendarmi di

scorta agli agenti sbarrarono la porta della sala; e altri due

occuparono quella che dava sulla scala. Il passo e i fucili di

molti soldati risuonarono sull'acciottolato che correva lungo

la facciata della casa. Ogni speranza di fuga fu dunque

tolta a Ingannalamorte, sul quale tutti gli sguardi

conversero irresistibilmente.

Il capo della polizia andò diritto innanzi a lui e gli diede

sulla testa un manrovescio così forte, da fargli saltar via la

parrucca ridando alla testa di Collin tutto il suo orrore. In

armonia col corpo, quella testa e quella faccia, incorniciata

da quei capelli corti, rosso-mattone, che davano a esse uno

spaventevole carattere di forza e insieme d'astuzia furono

messe appropriatamente in luce, come se il fuoco

dell'inferno le avesse rischiarate. Ognuno conobbe allora

veramente chi era Vautrin, il suo passato, il suo presente,

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il suo avvenire, le sue teorie implacabili, la religione del

suo arbitrio, la regalità che gli conferiva il cinismo dei suoi

giudizi, delle sue azioni, e la forza di un complesso

psicologico capace di tutto. Il sangue gli salì al viso, e i suoi

occhi brillarono come quelli di un gatto selvatico. Balzò su

se stesso con un movimento improntato a una ferocia

tanto energica, ruggì tanto forte da strappar grida di

terrore a tutti i pensionanti. A quel gesto di leone, e

approfittando del clamore generale, gli agenti trassero le

pistole. Collin capì il pericolo che correva vedendo rilucere

il cane d'ogni arma, e diede subito la prova della maggior

potenza umana. Orribile e pur maestoso spettacolo!, la sua

fisionomia mostrò un fenomeno che non può esser

paragonato se non a quello d'una caldaia piena di quel

vapore fumoso capace di sollevare le montagne, che

dissolve in un batter d'occhio una goccia d'acqua fredda. La

goccia d'acqua che raffreddò la sua ira fu una riflessione

rapida come un baleno.

Egli si mise a sorridere e guardò la sua parrucca.

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- Oggi non sembri molto cortese - disse al capo della

polizia. E tese le mani ai gendarmi, facendo loro un cenno

con la testa.

Signori gendarmi, mettetemi le manette o le catenelle.

Chiamo a testimoni i presenti che non faccio resistenza. -

Un mormorio d'ammirazione, strappato dalla prontezza con

cui la lava e il fuoco uscirono e rientrarono in quel vulcano

umano, risuonò nella sala. - ... signor smargiasso - riprese

a dire il forzato guardando il celebre direttore della polizia

giudiziaria.

- Andiamo, spogliatevi - gli disse l'uomo del vicolo Sainte-

Anne, con un'aria sprezzante.

- Ma come? - disse Collin - ci sono delle signore. Non nego

nulla, e mi arrendo.

Tacque un istante, e guardò i presenti come un oratore che

sta per dire cose sorprendenti.

- Scrivete, papà Lachapelle - disse poi rivolto a un

vecchietto dai capelli bianchi, che s'era seduto all'estremità

della tavola dopo aver cavato fuori da un portafogli il

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processo verbale dell'arresto. - Riconosco di essere Jacques

Collin, detto Ingannalamorte, condannato a vent'anni di

ferri, e vi proverò di non aver rubato il mio soprannome.

Se avessi soltanto alzato la mano - disse ai pensionanti, -

quelle tre spie là avrebbero fatto spargere tutto il mio

sangue sul pavimento della casa di mammà Vauquer.

Quelle birbe son sempre dietro a tendere trappole !

La signora Vauquer si sentì male all'udire tali parole.

- Mio Dio!, c'è da farne una malattia; e pensare che ieri ero

con lui alla "Gaîté" - disse a Silvia.

- Un po' di filosofia, mammà - riprese Collin. - E' forse una

disgrazia essere stata nel mio palco, ieri, alla "Gaîté"? -

esclamò. - Credete d'esser migliore di noi? Noi abbiamo

meno infamia sulla spalla che non ne avete voi nel cuore,

membri flaccidi di una società cancrenosa: il migliore tra

voi non reggerebbe al mio confronto. - I suoi occhi si

fissarono su Rastignac, al quale rivolse un sorriso grazioso

che contrastava singolarmente con la rude espressione del

viso.- -Il nostro contrattino è sempre in essere, angelo

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mio, purché, s'intende, venga accettato! Non è così? - E

cantò:

La mia Fanchette è deliziosa Nella sua semplicità.

- Non vi preoccupate - egli riprese - so fare le mie

riscossioni.

Si ha troppa paura di me perché ci si provi a derubarmi!

Il bagno penale coi suoi costumi e il suo linguaggio, con i

suoi bruschi passaggi dal faceto all'orrendo, la sua

terrificante grandezza, la sua familiarità, la sua bassezza,

fu ad un tratto rappresentato da quella frase e da

quell'uomo, che non fu più un uomo, ma il tipo di tutta una

classe degenerata, d'una categoria selvaggia e logica,

brutale e scaltra. In un momento Collin divenne un poema

infernale ove si trovarono raffigurati tutti i sentimenti

umani, meno uno: il pentimento. Il suo sguardo era quello

dell'arcangelo caduto, che vuole sempre far guerra.

Rastignac abbassò gli occhi accettando quella parentela

delittuosa come una espiazione dei suoi cattivi pensieri.

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- Chi mi ha tradito? - chiese Collin, muovendo il suo

terribile sguardo sui presenti. E fermandolo sulla signorina

Michonneau: Tu - le disse - vecchia cagna, sei tu che mi

hai provocato un finto sturbo, arnese di polizia! Basterebbe

che dicessi due parole per farti tagliare il collo in otto

giorni. Ma ti perdono, perché sono cristiano. Del resto non

sei tu che mi hai tradito. Chi allora?

Ah! ah!, state rovistando lassù, eh? - gridò sentendo gli

ufficiali della forza pubblica che stavano aprendo gli armadi

e sequestrando la sua roba. - Ma gli uccelli hanno preso il

volo da ieri. E voi non ne saprete mai nulla. I miei libri di

commercio sono qui - disse battendosi con una mano la

fronte. Ora so chi mi ha tradito. Non può essere stato che

quel mascalzone di Fil di Seta. Non è vero, padre

accalappiatore? - chiese al capo della polizia. - Questo va

troppo bene d'accordo col fatto di cercare i biglietti di

banca lassù. Ma ormai non c'è più nulla, mia cara Miette !

Quanto a Fil di Seta, costui sarà soppresso entro quindici

giorni, anche se lo faceste sorvegliare da tutta la vostra

gendarmeria. Quanto le avete dato, a questa Michonnette?

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- domandò ai funzionari della polizia - qualche migliaio di

scudi!

Io valevo di più, Ninon cariata, Pompadour stracciona,

Venere da Père-Lachaise. Se mi avessi avvertito, avresti

ricevuto seimila franchi. Ah!, non te lo credevi, vecchia

ruffiana, eh?, altrimenti avrei avuto la preferenza. Sì, te li

avrei dati volentieri, per evitare un viaggio che mi secca e

mi fa perdere dei soldi - diceva mentre gli mettevano le

manette. - Quella gente ci prenderà gusto a farmi perdere

chissà quanto tempo per rintronarmi. Se mi mandassero

subito al bagno penale, potrei tornare presto alle mie

occupazioni, malgrado i nostri allocchi del quai des

Orfèvres. Una volta laggiù, si faranno in quattro per far

evadere il loro generale, questo buon Ingannalamorte! C'è

forse uno solo di voi che abbia come ho io, più di diecimila

fratelli pronti a far qualsiasi cosa per lui? - chiese con

fierezza. - Qui c'è della bontà - aggiunse battendosi sul

cuore - io non ho mai tradito nessuno. To', guardali, cagna

- fece rivolgendosi alla vecchia zitella. - Di me hanno

paura, costoro, ma tu fai voltar loro lo stomaco. Prenditi

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ora il tuo premio. - E tacque un istante, guardando i

pensionanti. - Ma siete proprio così sciocchi voialtri? Non

avete mai visto un forzato? Un forzato della tempra di

Collin, qui presente, è un uomo meno vile degli altri, il

quale protesta contro le profonde disillusioni che provoca il

contratto sociale, come dice Jean-Jacques, di cui mi vanto

d'essere allievo.

E poi, io sono solo contro il governo con tutta la sua

impalcatura di tribunali, di gendarmi, di bilanci, e io

l'intrappolo.

- Càspita - disse il pittore - ci sarebbe da fare un disegno

stupendo.

- Di', aiutante di monsignore il boia, manovratore della

"Vedova" (nome denso di tremenda poesia che i forzati

danno alla ghigliottina) - aggiunse Vautrin rivolgendosi al

capo della polizia - sii buono, dimmi se è stato Fil di Seta a

tradirmi! Non vorrei che la pagasse per un altro, non

sarebbe giusto.

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In quel momento gli agenti, che avevano rovistato e

inventariato ogni cosa nella sua camera, rientrarono e

parlarono a bassa voce col capo della spedizione. Il

processo verbale era stato chiuso.

- Signori - disse Collin rivolto ai pensionanti - stanno per

portarmi via. Voi siete stati tutti molto buoni con me

durante la mia permanenza qui, e ve ne sarò riconoscente.

Accogliete il mio saluto. Mi permetterete di mandarvi un

po' di fichi della Provenza. - Fece qualche passo, e si voltò

per guardare Rastignac.

- Addio, Eugenio-disse con una voce dolce e triste, che

contrastava singolarmente col tono brusco delle sue

precedenti parole. - Se dovessi trovarti in difficoltà,

ricordati che ti ho lasciato un amico affezionato. - Sebbene

avesse le manette ai polsi, riuscì a mettersi in guardia,

eseguì un attacco battendo il piede, da maestro di

scherma, gridò: - Uno! Due! - e avanzò il piede destro. - In

caso di pericolo, rivolgiti là. Puoi disporre dell'uomo e del

suo denaro.

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Il singolare personaggio pronunciò queste ultime parole

con un tono alquanto buffonesco, in modo da poter essere

compreso soltanto da Rastignac. Quando i gendarmi, i

soldati e gli agenti di polizia ebbero lasciata la casa, Silvia,

che era intenta a bagnare d'aceto le tempie della padrona,

guardò i pensionanti stupiti.

- Eppure - disse - era un brav'uomo!

Questa frase ruppe l'incanto che i molteplici e vari

sentimenti provocati da quella scena avevano prodotto in

ciascuno dei presenti. In quell'istante, dopo essersi

reciprocamente e tacitamente interrogati, videro tutti

insieme la signorina Michonneau, gracile, secca e fredda

come una mummia, accovacciata vicino alla stufa, gli occhi

bassi, come se avesse temuto che l'ombra del paralume

non fosse così forte da nascondere l'espressione dei suoi

sguardi. La figura di quella donna, antipatica a tutti da

vario tempo, venne subito compresa. Un mormorio che,

per esser perfettamente all'unisono, manifestava un

unanime senso di disgusto, risuonò sordamente. La

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signorina Michonneau lo sentì, e rimase immobile.

Bianchon, per il primo, si chinò verso il vicino:

- Me ne vado, se quella donna continuerà a mangiare con

noi disse a bassa voce.

In un batter d'occhio, ognuno, ad eccezione di Poiret,

approvò quanto detto dallo studente in medicina, che, forte

dell'adesione generale, si fece avanti al vecchio

pensionante.

- Voi che siete così amico della signorina Michonneau - gli

disse - parlatele e fatele comprendere che se ne deve

andare all'istante.

- All'istante? - ripeté Poiret sorpreso.

Poi, andò vicino alla vecchia, e le disse qualche parola

all'orecchio.

- Ma io ho pagato la retta, e ho diritto di stare qui come

tutti gli altri - disse lanciando uno sguardo di vipera sui

pensionanti.

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- Se è per questo, ci quoteremo per restituirvene la somma

- fece Rastignac.

- Il signore difende Collin - essa rispose dando allo

studente uno sguardo velenoso e indagatore - e non è

difficile sapere il perché!

A tale parola, Eugenio balzò come per scagliarsi contro la

vecchia zitella e strozzarla. Quello sguardo, di cui comprese

la perfidia, aveva gettato una orribile luce nella sua anima.

- Lasciatela, dunque - esclamarono i pensionanti.

Rastignac incrociò le braccia e tacque.

- Finiamola con questa signorina Giuda - disse il pittore,

rivolgendosi alla signora Vauquer. - Signora, se non

mettete alla porta la Michonneau, noi lasceremo tutti la

vostra baracca, e diremo dappertutto che la frequentavano

solo spie e forzati. In caso contrario, nessuno di noi farà

parola di questo fatto che, in fin dei conti, potrebbe

accadere anche nella migliore società, finché ai galeotti non

verrà impresso un marchio in fronte e non verrà loro

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proibito di travestirsi da borghesi parigini, e di mostrarsi

così sciocchi capi ameni come lo sono tutti.

A quel discorso, la signora Vauquer ritornò subito

miracolosamente in salute, si alzò, incrociò le braccia, aprì i

suoi occhi chiari e senza tracce di lacrime.

- Ma, signor mio, volete proprio la rovina della mia casa?

Ecco che ora il signor Vautrin... Oh !, santo Dio - disse

interrompendosi - non posso fare a meno di chiamarlo col

suo nome di persona per bene! Ecco, - riprese - che ora mi

si fa vuoto un appartamento, e volete pure che ne debba

avere due di più da affittare in una stagione in cui tutti

stanno a casa loro?

- Signori, prendiamo il cappello, e andiamo a mangiare a

piazza della Sorbonne, da Flicoteaux - disse Bianchon. La

signora Vauquer calcolò con un solo colpo d'occhio il partito

più vantaggioso, e si precipitò dinanzi alla signorina

Michonneau.

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- Andiamo, bellezza mia, non vorrete mica la fine della mia

pensione, no? Vedete a che punto mi fanno arrivare questi

signori, risalite nella vostra camera, per questa sera.

- Niente affatto, niente affatto! - gridarono i pensionanti -

noi esigiamo che se ne vada all'istante.

- Ma non ha ancora pranzato, la povera signorina - disse

Poiret in tono supplichevole.

- Andrà a mangiare dove vuole - gridarono più voci.

- Alla porta, la spia !

- Alla porta, gli spioni!

- Signori - esclamò Poiret che si erse a un tratto all'altezza

del coraggio dato dall'amore ai montoni - rispettate una

donna!

- Le spie non hanno sesso - disse il pittore.

- Bel sessorama!

- Alla portorama!

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- Signori, questo è indecente. Quando si manda via

qualcuno, bisogna almeno salvare la forma. Noi abbiamo

pagato, e restiamo- disse Poiret calcando il suo berretto e

mettendosi a sedere vicino alla signorina Michonneau, che

la signora Vauquer stava catechizzando.

- Cattivello - gli disse il pittore con aria comica - cattivello,

andiamo!

- Insomma, se non ve ne andate voi, ce ne andiamo noi -

disse Bianchon.

E i pensionanti mossero tutti insieme verso il salotto.

- Signorina, vedete? - esclamò la signora Vauquer - sono

rovinata.

Non è più possibile che voi restiate, costoro finiranno per

scendere ad atti di violenza.

La signorina Michonneau si alzò.

- Se ne andrà! Non se ne andrà! Se ne andrà. Non se ne

andrà!

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Queste parole dette alternativamente, e l'ostilità dei

discorsi che si cominciavano a fare su di lei, costrinsero la

signorina Michonneau ad andarsene, dopo alcuni accordi

presi a bassa voce con la padrona.

- Andrò dalla signora Buneaud - disse, con aria minacciosa.

- Andate pure dove volete, signorina - fece la signora

Vauquer, che trovò ingiuriosa la scelta d'una pensione che

rivaleggiava con la sua, e che per conseguenza le era

odiosa. - Andate dalla Buneaud, e avrete aceto per vino,

cibi rifatti.

I pensionanti si disposero su due file, osservando il più

profondo silenzio. Poiret guardò così teneramente la

signorina Michonneau, si mostrò così ingenuamente

indeciso se seguirla o restare, che i pensionanti, esultando

poiché la signorina Michonneau se ne andava, si misero a

ridere.

- Xi, xi, xi, Poiret - gli gridò il pittore. - Andiamo, oplà, op!

L'impiegato al Museo si mise a cantare comicamente le

prime parole di una nota romanza:

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Partendo per la Siria Il giovane e bel Dunoy...

- Andiamo, che morite d'invidia, "trahit sua quemque

voluptas" - disse Bianchon.

- Ognuno segue la sua: libera traduzione di Virgilio - fece il

ripetitore.

La signorina Michonneau fece il gesto di prendere il braccio

di Poiret, guardandolo, e lui, non sapendo come resistere a

quell'invito, accorse a darglielo. Scoppiarono applausi e ci

fu un'esplosione di risa.

- Bravo, Poiret! - Questo vecchio Poiret! Apollo-Poiret!

Marte- Poiret. - Che coraggio, questo Poiret!

In quel momento entrò un commissionario e consegnò una

lettera alla signora Vauquer, che, dopo averla letta, cadde

di peso su di una sedia.

- Non rimane altro che bruciare la mia casa, c'è caduto

sopra un fulmine. Taillefer figlio è spirato alle tre. Sono

stata proprio punita di aver augurato il bene a quelle due

donne, a scapito di questo povero giovane. La signora

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Couture e Vittorina mi chiedono le loro cose, e vanno a

stabilirsi presso il signor Taillefer.

Egli concede alla figlia di tenere con sé la vedova Couture

come dama di compagnia. Quattro appartamenti vuoti,

cinque pensionanti di meno. - Si sedette e sembrò stesse

per piangere - La disgrazia è entrata oggi in casa mia!

esclamò desolata.

Il rumore d'una vettura che si fermava risuonò a un tratto

dalla strada.

- Qualche altro guaio - disse Silvia.

Ed ecco apparire Goriot con un viso luminoso e colorito di

felicità, da far credere a una sua rigenerazione.

- Goriot in carrozza! - dissero i pensionanti - ma è proprio

la fine del mondo.

Il bonuomo andò diritto da Eugenio, rimasto pensoso in un

canto, e lo prese per il braccio:

- Andiamo - gli disse con aria allegra.

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- Ma non sapete quel che è successo? - gli domandò

Eugenio.

- Vautrin era un forzato, ed è stato arrestato poco fa; il

figlio di Taillefer è morto.

- Ebbene, che ce ne importa? - rispose papà Goriot.- Io

pranzo con mia figlia nel vostro appartamento, capite? Lei

vi sta aspettando, venite!

Tirò così violentemente Rastignac per il braccio, da farlo

camminare per forza, e parve rapirlo, come se si fosse

trattato della sua amante.

- Mangiamo! - esclamò il pittore.

Ognuno prese allora la propria sedia e si mise a tavola.

- Ma insomma - disse la grossa Silvia - oggi tutto va male,

l'umido di castrato con patate s'è attaccato! Be', lo

mangerete bruciato lo stesso!

La signora Vauquer non ebbe il coraggio di dire una parola

nel vedere solo dieci persone invece di diciotto intorno alla

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tavola; ma tutti cercarono di consolarla e di farla stare

allegra.

Dapprima i clienti che prendevano solo i pasti alla pensione

parlarono di Vautrin e degli avvenimenti della giornata, e

seguirono l'andamento serpentino della conversazione

mettendosi a discorrere di duelli, del bagno penale, della

giustizia, delle leggi da rifare, delle carceri. Poi finirono col

trovarsi ben lontani da Jacques Collin, da Vittorina e da suo

fratello. Sebbene fossero soltanto dieci, gridarono per venti

in modo da sembrare più numerosi del solito; e fu la sola

differenza tra quel pranzo e quello del giorno prima.

L'indifferenza abituale di tale mondo egoista che,

l'indomani, doveva trovare negli eventi quotidiani di Parigi

un'altra preda da divorare, riprese il sopravvento e la

stessa signora Vauquer si lasciò calmare dalla speranza,

che assunse in tale occasione la voce della grossa Silvia.

Quella giornata doveva essere fino alla sera una

fantasmagoria per Eugenio, il quale, malgrado la forza del

suo carattere e la bontà del suo animo, non sapeva come

connettere le proprie idee, quando si trovò in carrozza a

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fianco di papà Goriot, i cui discorsi rivelavano una gioia

inconsueta, e risuonavano al suo orecchio, dopo tante

emozioni, come le parole che udiamo in sogno.

- Da questa mattina è finita. Pranziamo tutti e tre insieme,

insieme!, capite? Erano quattro anni che non pranzavo più

con la mia Delfina, la mia piccola Delfina. L'avrò con me

per tutta una sera. Abbiamo preso possesso del vostro

appartamento da questa mattina. Ho lavorato come un

facchino, in maniche di camicia. Ho aiutato a portare i

mobili. Ah! ah!, non avete mai veduto com'è graziosa a

tavola, vedrete quante attenzioni avrà per me:

"Prendete, papà mangiate questo, sentite com'è buono".

Ed è allora il momento che io non posso mangiare. Oh!, è

tanto che non sono stato un po' tranquillo insieme a lei,

come tra poco lo saremo!

- Ma - gli disse Eugenio - oggi il mondo s'è proprio

capovolto?

- Capovolto - rispose papà Goriot. - Ma in nessuna epoca il

mondo è andato così bene. Io non vedo che facce allegre

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per le strade, persone che si stringono la mano, persone

felici come se andassero tutte a mangiare dalla loro figlia,

a gustarvi un buon pranzetto ordinato da lei davanti a me

al capo cuoco del Caffè degli Inglesi. Ma!, vicino a lei anche

l'aloe sarebbe dolce come il miele.

- Mi pare di risorgere - disse Eugenio.

- Ma camminate!, vetturino - gridò papà Goriot aprendo il

vetro davanti. - Andate più svelto, vi darò cento soldi di

mancia se mi portate in dieci minuti dove vi ho detto. - Al

sentir questa promessa il vetturino traversò Parigi con la

rapidità d'un lampo.

- Non va, questo vetturino - diceva papà Goriot.

- Ma dove diamine mi portate? - gli chiese Rastignac.

- A casa vostra - rispose papà Goriot.

La vettura si fermò in via d'Artois. Il bonuomo scese per

primo e buttò dieci franchi al vetturino con la prodigalità di

chi, rimasto vedovo, nel parossismo della sua felicità non

bada più a niente.

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- Andiamo, saliamo - disse a Rastignac facendogli

attraversare un cortile e conducendolo alla porta d'un

appartamento al terzo piano, situato nella parte posteriore

d'una casa nuova e di bella apparenza. Papà Goriot non

ebbe bisogno di suonare. Teresa, la cameriera della signora

de Nucingen, aprì la porta. Eugenio si trovò in un delizioso

appartamento da scapolo, composto di un'anticamera, d'un

salottino, d'una camera da letto e di uno studio, che

davano su di un giardino. Nel salottino, il cui mobilio e

arredamento potevano sostenere il confronto con quanto vi

poteva essere di più carino, di più grazioso, egli scorse, alla

luce delle candele, Delfina, che si alzò da un divano, vicino

al fuoco, dispose un parafuoco sul caminetto, e gli disse

con un tono di voce pieno di tenerezza:

- Vi si è dunque dovuto cercare, signore che non capite

nulla.

Teresa uscì. Lo studente prese Delfina fra le braccia, la

strinse vivamente e pianse di gioia. Quest'ultimo contrasto

tra quel che vedeva e quel che or ora aveva veduto, in una

giornata in cui tante emozioni avevano stancato il suo

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cuore e la sua testa, provocò in Rastignac un accesso di

sensibilità nervosa.

- Lo sapevo bene che ti amava - disse piano papà Goriot a

sua figlia, mentre Eugenio sfinito giaceva sul divano senza

poter pronunciare una parola né rendersi ancora conto del

modo in cui quest'ultimo colpo di bacchetta magica era

stato dato.

- Ma venite a vedere - gli disse la signora de Nucingen

prendendolo per mano e conducendolo in una camera i cui

tappeti, i mobili e i minimi dettagli gli ricordarono, in più

piccole proporzioni, quella di Delfina.

- Ci manca un letto - fece Rastignac.

-E' vero, signore - essa rispose arrossendo e stringendogli

la mano.

Eugenio la guardò, e apprezzò il sentimento di pudore

contenuto nel cuore d'una donna innamorata, ancor

giovane.

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- Voi siete una di quelle creature degne d'una adorazione

senza fine - le disse all'orecchio. - Sì, oso dirvelo, visto che

ci comprendiamo tanto bene: più vivo e sincero è l'amore,

e più esso dev'essere velato, misterioso. Non sveliamo il

nostro segreto a nessuno.

- Oh!, ma io non sarò qualcuno, non è vero? - disse papà

Goriot, brontolando.

- Ma lo sapete bene che voi siete noi, voi...

- Ah!, ecco quel che volevo sentirmi dire. Non vi sarò

d'imbarazzo, è vero? Andrò, verrò come uno spirito

benigno che sta dovunque, e che si sa esser lì senza che

nessuno lo veda. Vedi dunque, Delfinetta, Ninetta, Dedé,

se avevo ragione di dirti: "C'è un grazioso appartamento in

via d'Artois, arrediamolo per lui!". E tu non volevi. Ah!,

sono io l'autore della tua gioia, come sono l'autore dei tuoi

giorni. I padri debbono sempre dare, se vogliono essere

felici. Dare sempre, è il vero modo per essere padre.

- Come? - domandò Eugenio.

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- Sì, lei non voleva, aveva paura che si facessero

chiacchiere sul suo conto, come se il mondo valesse la

felicità!, ma tutte le donne sognano poi di fare quel che fa

lei...

Papà Goriot parlava solo, mentre la signora de Nucingen

aveva intanto condotto Rastignac nello studio, dove un

bacio risuonò, sebbene dato pian piano. La stanza era in

armonia con l'eleganza dell'appartamento, nel quale del

resto non mancava proprio nulla.

- Abbiamo indovinato i vostri gusti? - essa chiese tornando

nel salotto per mettersi a tavola.

- Sì - gli rispose - anche troppo bene. Ahimè!, tutto questo

lusso, questi bei sogni realizzati, tutta la poesia d'una vita

giovanile, elegante, questo io lo sento troppo per non

meritarlo; ma non posso accettarlo da voi, e d'altra parte

sono ancora troppo povero per...

- Ah! ah!, cominciate già a contrariarmi? - lei disse con

un'arietta di scherzosa autorità, facendo una di quelle

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graziose smorfie come ne fanno le donne quando vogliono

deridere uno scrupolo per meglio dissiparlo.

Eugenio aveva troppo solennemente in quel giorno fatto il

suo esame di coscienza, e l'arresto di Vautrin, indicandogli

la profondità dell'abisso in cui era stato per precipitare,

aveva troppo bene corroborato i suoi nobili sentimenti e la

sua delicatezza, per cedere a quella carezzevole

confutazione dei suoi generosi propositi. Una profonda

tristezza s'impadronì di lui.

- Come! - fece la signora de Nucingen - rifiutereste?

Sapete che cosa vuol dire un simile rifiuto? Che dubitate

del futuro, che non osate legarvi a me. Temete dunque di

tradire il mio affetto? Se voi mi amate, se io vi... amo,

perché indietreggiate di fronte a così lievi obbligazioni? Se

sapeste qual piacere ho provato nell'occuparmi di tutto

questo appartamento da scapolo, non esitereste, e mi

domandereste perdono. Avevo a disposizione del denaro

vostro, e l'ho bene impiegato: ecco tutto. Credete d'essere

grande, e siete invece piccino. Voi valete ben di più... Ah! -

aggiunse, cogliendo uno sguardo appassionato di Eugenio -

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e fate tante storie per delle sciocchezze. Se non mi volete

bene, oh !, sì, allora non accettate. La mia sorte dipende

da una parola.

Parlate! Ma papà, convincetelo voi - aggiunse rivolgendosi,

dopo una pausa, a suo padre. - Crede forse lui che io sia

meno sensibile riguardo al nostro onore?

Papà Goriot aveva il fermo sorriso d'un teriachi

nell'osservare i due, nell'ascoltare quella gentile loro

disputa.

- Bambino!, voi siete all'inizio della vita - essa riprese

prendendo la mano di Eugenio, - trovate una barriera che

per molti sarebbe insormontabile, una mano di donna ve

l'apre, e voi indietreggiate? Ma voi riuscirete, farete una

brillante fortuna, il successo è scritto sulla vostra bella

fronte. E non potrete allora rendermi quel che oggi vi

presto? In altri tempi le donne non davano forse ai loro

cavalieri armature, spade, elmi, giachi, cavalli, affinché essi

potessero andare a combattere in loro nome nei tornei?

Ebbene, Eugenio, le cose che io vi offro sono le armi

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dell'epoca, gli strumenti necessari a chi vuol diventare

qualcosa.

Bello, il solaio dove abitate, se somiglia alla camera di papà

!... Ma insomma, vogliamo o no andare a pranzo? Volete

proprio rattristarmi? Rispondete, dunque! - disse

scuotendogli la mano. - Santo Iddio, papà, fatelo decidere,

o me ne vado di qui e non lo rivedrò più.

- Adesso vi farò decidere - disse papà Goriot uscendo

dall'estasi.

- Mio caro signor Eugenio, voi state per farvi prestare del

denaro da alcuni ebrei, non è vero?

- E' proprio necessario - rispose.

- Bene!, allora è cosa fatta - riprese il bonuomo cavando

fuori un brutto portafoglio di cuoio logorato. - Mi sono fatto

ebreo, ho pagato io tutte le fatture: eccole qui. Voi non

dovete un centesimo per tutto quel che si trova qui. Non è

poi una grossa somma, si tratta tutt'al più di cinquemila

franchi. E io ve li presto! A me non opporrete un rifiuto,

non sono mica una donna io.

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Mi farete una ricevuta su di un pezzo di carta e me li

restituirete poi.

Qualche lacrima cadde contemporaneamente dagli occhi di

Eugenio e di Delfina, che si guardarono con sorpresa.

Rastignac tese la mano al bonuomo, e gliela strinse.

- Ebbene, cosa?, non siete forse miei figli? - disse Goriot.

- Ma, mio povero padre - fece la signora de Nucingen -

come diamine avete fatto?

- Ah!, qui ti volevo. Quando ti ho fatto decidere a farlo

abitare vicino a te, e ti ho visto comprare oggetti come per

una sposa, mi sono detto: "Potrà trovarsi in qualche

difficoltà!". L'avvocato ritiene che la causa da intentare

contro tuo marito, per fargli restituire il tuo denaro, durerà

più di sei mesi. Bene. Allora ho venduto i miei

milletrecentocinquanta franchi di rendita; mi sono

costituito, con quindicimila franchi, milleduecento franchi di

vitalizio garantito da buone ipoteche, e ho pagato i vostri

fornitori col resto della somma, figli miei. Ho lassù una

camera da cinquanta scudi all'anno, posso vivere come un

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principe con quaranta soldi al giorno, e me ne

avanzeranno. Non consumo nulla, di abiti non ho quasi

bisogno. Sono quindici giorni che rido sotto i baffi,

dicendomi: "Come saranno felici!". E non siete forse felici?

- Oh! papà, papà! - disse la signora de Nucingen,

slanciandosi verso suo padre, che l'accolse sulle ginocchia.

Essa lo coprì di baci, gli carezzò il viso coi suoi capelli

biondi, e versò lacrime su quel vecchio viso sereno,

luminoso. - Caro papà, voi siete davvero un padre! No, non

esistono due padri come voi sotto il cielo. Eugenio vi voleva

già da prima tanto bene: che sarà adesso?

- Ma figli miei - disse Goriot, che da dieci anni non sentiva

battere il cuore di sua figlia sul suo - ma, Delfinetta, tu

vuoi dunque proprio farmi morire dalla gioia! Il mio povero

cuore si spezza. Andiamo, signor Eugenio, noi siamo pari e

patta! - E il vecchio, intanto, stringeva la figlia in una

stretta selvaggia e tanto delirante che questa disse:

- Ah!, ma così tu mi fai male!

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- Ti faccio male! - egli fece impallidendo. E la guardò con

un'aria sovrumana di dolore. Per ben ritrarre la fisionomia

di questo Cristo della paternità, converrebbe cercare

paragoni nelle immagini che i principi della tavolozza hanno

creato per dipingere la passione sofferta per il bene del

mondo dal Salvatore degli uomini. Papà Goriot baciò

dolcemente la cintura che le sue dita avevano stretto

troppo.

- No, no, non ti ho fatto del male, è vero? - egli riprese

interrogandola con un sorriso; - sei tu che m'hai fatto male

col tuo grido. La spesa da me sostenuta è stata più forte -

fece poi all'orecchio della figlia, baciandoglielo con

precauzione - ma bisogna prenderlo così altrimenti

s'inquieterebbe. - Eugenio era rimasto come pietrificato

dall'inesauribile amor paterno di quell'uomo, e lo osservava

esprimendo quell'ingenua ammirazione che, nei giovani, è

fede.

- Sarò degno di tutto questo! - egli esclamò.

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- O mio Eugenio, è bello quel che avete ora detto. - E la

signora de Nucingen baciò lo studente in fronte.

- Egli ha rifiutato per te la signorina Taillefer con tutti i suoi

milioni - disse papà Goriot. - Eppure sì, vi amava, la

piccola; e con la morte del fratello, eccola divenuta ricca

quanto Creso.

- Oh!, perché dirlo? - esclamò Rastignac.

- Eugenio - gli disse Delfina all'orecchio - adesso ho un

rimorso per questa sera. Ah!, ma io vi amerò tanto!, e

sempre.

- Ecco la più bella giornata che passo dopo i vostri due

matrimoni - esclamò papà Goriot. - Il buon Dio potrà farmi

soffrire quanto vorrà, ma io potrò sempre dirmi: "Nel mese

di febbraio di quell'anno sono stato, per un momento, più

felice di quanto gli uomini possano esserlo durante tutta la

loro vita". Guardami, Fifina! - disse alla figlia. - E' bella,

non è vero? Ditemi dunque, avete trovato molte donne con

un così bel colorito e con una fossetta così! No, è vero?

Ebbene, sono io che ho fatto questo amore di donna. E

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ormai, resa felice da voi, diverrà mille volte meglio. Posso

ora anche andare all'inferno, vicino mio - egli aggiunse - se

vi occorre la mia parte di paradiso, ecco, ve la dono.

Mangiamo, mangiamo - riprese, non sapendo neanche più

quel che si dicesse - tutto è nostro.

- Povero il mio papà!

- Se sapessi, figlia mia - disse alzandosi e andando verso di

lei, prendendole la testa e baciandola fra le trecce - se

sapessi quanto puoi con poco rendermi felice!, vieni a

trovarmi qualche volta, sarò lassù, non avrai che da fare

un passo. Promettimelo, dì!

- Sì, padre caro.

- Dimmelo ancora.

- Sì, mio buon papà.

- Taci ora, altrimenti te lo farei ripetere cento volte, se

dovessi dar retta a me stesso. Adesso mangiamo.

Tutta la serata trascorse in fanciullaggini, e papà Goriot

non si mostrò il meno pazzo dei tre. Si chinava ai piedi

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della figlia per baciarglieli; la guardava a lungo negli occhi;

strisciava la testa sul suo vestito; insomma, faceva follie

come ne avrebbe fatte il più giovane e tenero amante.

- Vedete? - disse Delfina a Eugenio - quando papà è con

noi, bisogna essere del tutto suoi. Qualche volta però sarà

pur fastidioso.

Eugenio, che aveva già provato più volte qualche punta di

gelosia, non poteva disapprovare quella parola, che

racchiudeva il principio d'ogni ingratitudine.

- E l'appartamento, quando sarà pronto? - chiese Eugenio

guardando attorno alla stanza. - Dovremo lasciarci, questa

sera?

- Sì, ma domani verrete a pranzo da me - rispose lei con

un'aria d'intesa. - Domani c'è recita al Teatro degli italiani.

- Io me ne andrò in platea - fece papà Goriot.

Era mezzanotte. La carrozza della signora de Nucingen

attendeva.

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Papà Goriot e lo studente tornarono alla pensione Vauquer,

parlando di Delfina con un crescente entusiasmo, che

produsse un curioso contrasto di espressione tra quelle due

violente passioni.

Eugenio non poteva nascondersi che l'amore del padre,

non intaccato da alcun interesse personale, schiacciava il

suo per costanza e portata. L'idolo era sempre puro e bello

per il padre, e la sua adorazione s'accresceva di tutto il

passato, di tutto il futuro. Essi trovarono la signora

Vauquer sola accanto alla stufa, tra Silvia e Cristoforo. La

vecchia padrona stava lì, come Mario sulle rovine di

Cartagine. Aspettava gli unici due pensionanti che le erano

rimasti, lamentandosene con Silvia. Sebbene lord Byron

abbia fatto esprimere al Tasso lamenti assai belli, questi

sono tuttavia ben lontani da quelli che sfuggivano dalla

bocca della signora Vauquer.

- Allora domattina non ci saranno da preparare che tre

tazze di caffè, Silvia. Hé!, la mia casa deserta, c'è da

sentirsi spezzare il cuore. Che cosa è ormai la vita, senza i

miei pensionanti?

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Nulla. Ecco qui la mia casa smobiliata dei suoi ospiti. La

vita è rimasta nei mobili. Che cosa ho mai fatto, per

meritarmi tanti disastri? Le provviste di fagioli e di patate

sono state fatte per venti persone. La polizia in casa mia!

Non mangeremo altro che patate! E dovrò licenziare

Cristoforo! - Il Savoiardo, che stava dormendo, si destò di

soprassalto e disse: - Signora!

- Povero ragazzo, è come un cane - fece Silvia.

- La stagione è morta, tutti si sono già sistemati. Da dove

potranno venirmi dei pensionanti? C'è da perdere la testa.

E quella strega della Michonneau che mi porta via anche

Poiret! Che cosa gli faceva mai, per essersi quell'uomo

attaccato a lei, che segue come un cagnolino?

- Eh!, diamine - fece Silvia crollando il capo - queste

vecchie zitelle, le sanno loro tutte le malizie.

- E quel povero signor Vautrin, che secondo loro è un

forzato? - riprese a dire la vedova. - Ebbene, Silvia, è più

forte di me, non ci credo ancora. Un allegrone come lui,

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che spendeva in gloria quindici franchi al mese, e che

pagava puntualmente!

- Ed era così generoso! - disse Cristoforo.

- Devono aver commesso un grosso errore - fece Silvia.

- Questo no, se ha confessato lui stesso! - continuò la

signora Vauquer. - E dire che tutta questa roba è andata a

succedere a casa mia, in un quartiere dove non passa mai

neppure un gatto!

Parola di donna onesta, mi pare di sognare. Perché, senti,

abbiamo visto capitare a Luigi Sedicesimo il suo guaio,

abbiamo visto cadere l'Imperatore, l'abbiamo visto tornare

e ricadere: tutto questo era pur nell'ordine delle cose

possibili; ma imprevisti a danno delle pensioni familiari in

genere, non ce ne sono; si può fare a meno del Re, ma

mangiare bisogna sempre; e quando una signora per bene,

nata de Conflans, dà da mangiare una ottima cucina, ma, a

meno che non venga la fine del mondo... Ma è proprio così,

questa è la fine del mondo.

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- E pensare che la signorina Michonneau, che vi ha causato

tutto questo disastro, riscuoterà, a quanto si dice, mille

scudi di rendita - esclamò Silvia.

- Non me ne parlare, è una scellerata! - disse la signora

Vauquer - E per di più è andata dalla Buneaud! Ma quella è

capace di tutto, deve averne fatte d'ogni colore, quella ai

suoi tempi deve aver anche ammazzato e rubato.

Dovrebbe andarci lei, in galera, al posto di quel

pover'uomo...

In quel momento Eugenio e papà Goriot suonarono il

campanello.

- Ah, ecco i due miei fedeli - disse la vedova sospirando.

I due fedeli, che serbavano un assai tenue ricordo dei

disastri capitati alla pensione, annunciarono senza tanti

complimenti alla loro ospite che sarebbero andati a

dimorare alla Chaussée-d'Antin.

- Ah!, Silvia - fece la vedova - ecco l'ultimo colpo. Mi avete

dato il colpo di grazia, signori, questo mi ha preso allo

"stommacco". Mi ci sento come una sbarra. Ecco una

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giornata che mi carica sulle spalle dieci anni di più.

Diventerò pazza, parola d'onore. Che farne, dei fagioli?

Ebbene?, se rimango sola qui, te ne andrai domani,

Cristoforo. Addio, signori, buona notte.

- Ma che cosa ha? - domandò Eugenio a Silvia.

- Diamine! Se ne sono andati tutti, dopo quanto è

accaduto. Questo le ha sconvolto la testa. Vado, sento che

piange. Le farà bene sfogarsi un po'. Ecco la prima volta

che si vuota gli occhi, da quando sono al suo servizio.

L'indomani, la signora Vauquer si era, secondo il suo modo

di dire, "ragionata". Se parve afflitta, come colei che aveva

perduto tutti i suoi pensionanti e la cui vita era stata

sconvolta, conservava tuttavia il suo giudizio, e mostrò

quale fosse il vero dolore, un dolore profondo, il dolore

causato dagli interessi rovinati, dalle abitudini scomposte.

Certo, lo sguardo che un innamorato dà, nel lasciarli, ai

luoghi abitati dalla propria amante, non è più triste di

quello dato dalla signora Vauquer alla tavola vuota.

Eugenio la consolò dicendole che Bianchon, il cui servizio

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all'ospedale finiva tra qualche giorno, lo avrebbe senza

dubbio rimpiazzato; che l'impiegato al Museo aveva spesso

espresso il desiderio di occupare l'appartamento della

signora Couture e che in pochi giorni essa si sarebbe

rimessa su.

- Dio vi ascolti, mio caro signore!, ma purtroppo la

disgrazia è entrata in questa casa. Non passeranno dieci

giorni e ci verrà la morte, vedrete - gli disse dando un

lugubre sguardo alla sala da pranzo. Chi prenderà?

- E' bene sloggiare - disse a bassa voce Eugenio a papà

Goriot.

- Signora - disse Silvia accorrendo tutta turbata - sono tre

giorni che non vedo Mistigrì.

- Bé, allora, se il mio gatto è morto, se ci ha lasciati, io... -

La povera vedova non terminò la frase, congiunse le mani

e si lasciò cadere lungo il dorso della sua poltrona, affranta

da quel terribile presagio.

Verso mezzodì, ora in cui passavano i portalettere nel

quartiere del Pantheon, Eugenio ricevette una lettera

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racchiusa in una elegante busta, sigillata con lo stemma di

Beauséant. Conteneva un invito per il signor e la signora

de Nucingen al grande ballo annunciato da un mese, e che

doveva aver luogo in casa della viscontessa. A questo

invito erano aggiunte poche parole per Eugenio:

"Ho pensato, signore, che v'incarichereste volentieri

d'esser l'interprete dei miei sentimenti presso la signora de

Nucingen; vi mando l'invito che mi avete richiesto e sarò

lieta di conoscere la sorella della signora de Restaud.

Conducetemi dunque questa bella signora, e fate in modo

che ella non si prenda tutto il vostro affetto; voi me ne

dovete molto, in cambio di quello che ho per voi.

Viscontessa de Beauséant".

"Ma", disse fra sé e sé Eugenio tornando a leggere il

biglietto, "la signora de Beauséant mi dice abbastanza

chiaramente che non vuol ricevere il barone de Nucingen".

E corse da Delfina, felice di poterle procurare un piacere di

cui egli avrebbe ricevuto senza dubbio il premio. La signora

de Nucingen era al bagno. Rastignac attese nel salottino, in

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preda alle impazienze naturali in un giovane ardente e

smanioso di possedere un'amante, da due anni oggetto dei

suoi desideri. Sono emozioni che non si provano due volte

quando si è giovani. La prima donna, realmente donna, cui

un uomo si lega, cioè colei che gli si presenta nello

splendore di tutto quell'insieme richiesto dalla società

parigina, colei non ha mai una rivale. L'amore, a Parigi,

non assomiglia per nulla agli altri amori. Né gli uomini né le

donne vi si lasciano ingannare da apparenze pavesate di

luoghi comuni, che ognuno mette in mostra per decenza

sui propri affetti così detti disinteressati. Qui, una donna

non deve soddisfare soltanto il cuore e i sensi, sa

perfettamente di dover adempiere ben più grandi obblighi

verso le mille vanità di cui si compone la vita. Qui,

soprattutto l'amore è essenzialmente millantatore,

scialacquatore, ciarlatano e fastoso.

Se tutte le donne della corte di Luigi Quattordicesimo

hanno invidiato alla La Vallière l'impeto della passione di

quel grande sovrano, tale da fargli dimenticare che i

merletti dei suoi polsini costavano mille scudi ciascuno

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quando li strappò per facilitare al duca de Vermandois il

suo ingresso alla scena del mondo, che cosa mai si può

chiedere al resto dell'umanità? Siate giovani, ricchi e

titolati, siate ancora di più, se potete; più grani d'incenso

recherete ai piedi dell'idolo, più presto vi sarà propizio,

sempre che abbiate un idolo. L'amore è una religione e il

culto deve costar più caro che quello d'ogni altra religione;

esso passa rapidamente, e passa come un monello che

vuole lasciar traccia del suo passaggio con le devastazioni.

Il lusso del sentimento è la poesia delle soffitte; senza tale

ricchezza, che diverrebbe l'amore? Se vi sono eccezioni a

queste regole draconiane del codice parigino, esse si

possono trovare nella solitudine, presso quelle anime che

non si sono lasciate trascinare dalle dottrine sociali, che

vivono vicino a qualche sorgente d'acqua limpida,

fuggevole, ma perenne, anime che, fedeli alle loro verdi

ombre, liete di ascoltare il linguaggio dell'infinito scritto per

esse in tutte le cose e ritrovato in loro stesse, attendono

pazientemente le ali per compiangere coloro che

rimarranno sulla terra. Ma Rastignac, come la maggior

parte dei giovani i quali, in anticipo hanno assaporato il

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gusto del grandioso, voleva presentarsi completamente

armato nella lizza del mondo; ne aveva contratto la febbre

e sentiva forse di avere il potere di dominarlo, ma senza

ancora conoscere né i mezzi né il fine di quella ambizione.

Quando manca l'amore puro e sacro, che riempie una vita,

questa sete del potere può diventare un nobile sentimento;

basta abbandonare ogni interesse personale e proporsi

come meta la grandezza del proprio paese. Ma lo studente

non era ancora arrivato al punto in cui l'uomo può

contemplare il corso della vita, e giudicarla. Fino allora non

aveva nemmeno completamente scosso l'incanto delle

fresche e soavi idee che avvolgono come un fogliame la

giovinezza di chi è stato allevato in provincia. Egli aveva

sempre esitato a passare il Rubicone parigino. Malgrado le

sue ardenti curiosità, aveva sempre conservato dentro di

sé qualche idea della vita felice che conduce il vero

gentiluomo nel proprio feudo. Tuttavia i suoi ultimi scrupoli

erano scomparsi il giorno avanti, quando s'era trovato in

quell'appartamento messo su per lui. Nel godere dei

vantaggi materiali dell'agiatezza, come godeva da tempo

dei vantaggi morali offertigli dai suoi natali, s'era spogliato

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della sua pelle d'uomo di provincia, e si era dolcemente

adattato in una posizione da cui scorgeva un bell'avvenire.

Perciò, mentre attendeva Delfina mollemente seduto in

quel grazioso salottino che stava divenendo un poco suo, si

vedeva già tanto lontano dal Rastignac giunto l'anno prima

a Parigi, che, sbirciando con un effetto d'ottica morale, egli

si domandava se in quel momento rassomigliava a se

stesso.

- La signora è in camera - venne a dirgli Teresa, ed egli

trasalì.

Trovò Delfina distesa nel suo divano, vicina al fuoco,

fresca, riposata. Nel vederla così adagiata sui flutti della

mussola, non si poteva non paragonarla a quelle belle

piante indiane il cui frutto si sviluppa nel fiore.

- Ebbene!, eccoci - essa disse con emozione.

- Indovinate un po' che cosa vi porto - fece Eugenio

sedendosi vicino a lei e prendendole il braccio per baciarle

la mano.

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La signora de Nucingen ebbe un moto di gioia nel leggere

l'invito.

Volse verso Eugenio i suoi occhi inumiditi, e gli gettò le

braccia al collo per attrarlo a sé in un delirio di vanitosa

soddisfazione.

- E' a voi (a te, gli disse all'orecchio; ma Teresa sta nel mio

gabinetto da toletta, siamo prudenti !), è a voi che debbo

questa felicità? Sì, oso chiamarla felicità. Ottenuto da voi,

non è qualcosa di più che un trionfo d'amor proprio?

Nessuno aveva voluto introdurmi in quell'ambiente. Forse

voi mi giudicherete in questo momento piccina, frivola,

leggera come una Parigina; ma pensate, amico mio, che io

sono pronta a sacrificare tutto per voi e che, se desidero

più ardentemente che mai di frequentare il faubourg Saint-

Germain, è perché ci siete voi.

- Non credete - chiese Eugenio - che la signora de

Beauséant abbia l'aria di dirci che non ha alcun desiderio di

vedere al suo ballo il barone de Nucingen?

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- Ma certo - rispose la baronessa restituendo la lettera a

Eugenio. - Quelle donne lì hanno il genio dell'impertinenza.

Ma non importa, ci andrò lo stesso. Ci sarà anche mia

sorella, e so che si sta preparando una toletta deliziosa.

Eugenio - riprese a dire a bassa voce - lei ci va per

dissipare brutti sospetti. Voi non sapete quali voci corrono

sul suo conto! Nucingen mi ha detto stamane che ieri se ne

parlava al Circolo senza reticenze. Dove è più, mio Dio!,

l'onore delle donne e delle famiglie? Mi sono sentita colpita,

ferita io stessa nella mia povera sorella.

Secondo alcuni, il signor de Trailles avrebbe firmato

cambiali per un ammontare di centomila franchi, quasi

tutte scadute, e per le quali gli atti contro di lui sarebbero

in corso. In tale congiuntura, mia sorella avrebbe venduto i

suoi diamanti a un ebreo, quei bei diamanti che le avete

visto portare, e che provengono dalla signora de Restaud

madre. Insomma, da due giorni non si parla che di questo.

Credo quindi che Anastasia abbia ordinato un abito di

stoffa laminata e voglia richiamare su di sé tutti gli sguardi

in casa de Beauséant, comparendovi in tutto il suo

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splendore e coi suoi diamanti. Ma io non voglio stare al

disotto di lei. Ha sempre cercato di schiacciarmi, non è mai

stata buona con me, che pure le facevo tanti favori e avevo

sempre pronto del denaro per lei, quando le mancava. Ma

non parliamo più della società, oggi voglio essere felice

appieno.

Rastignac all'una del mattino si trovava ancora dalla

signora de Nucingen che, dandogli l'addio degli amanti,

quell'addio denso di gioie future, gli disse con una

espressione di malinconia: - Sono tanto paurosa, tanto

superstiziosa, chiamate pure questi miei presentimenti

come volete, ma temo di dover pagare la mia felicità con

qualche tremenda catastrofe.

- Bambina - disse Eugenio.

- Ah!, sono io la bambina stasera - essa disse ridendo.

Eugenio tornò alla pensione Vauquer deciso a lasciarla

l'indomani; e perciò lungo la strada si abbandonò a quelle

graziose fantasticherie proprie dei giovani quando hanno

ancora sulle labbra il gusto della felicità.

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- Ebbene? - chiese papà Goriot quando Rastignac gli passò

davanti.

- Ebbene - rispose Eugenio - vi dirò tutto domani.

- Tutto, non è vero? - gridò il bonuomo. - Ora andatevene

pure a letto. Cominceremo domani la nostra vita felice.

L'indomani, Goriot e Rastignac non attendevano che la

buona volontà di un facchino per lasciare la pensione,

quando verso mezzogiorno il rumore di una carrozza, che

si fermava proprio dinanzi alla porta della casa Vauquer,

risuonò nella via Neuve- Sainte-Geneviève. La signora de

Nucingen scese dalla carrozza, e domandò se suo padre si

trovava ancora in pensione. Rispostole di sì, salì svelta la

scala.

Eugenio era nella sua camera, senza che il suo vicino lo

sapesse.

A colazione lo aveva pregato di portar via la propria roba,

dicendogli che si sarebbero ritrovati alle quattro in via

d'Artois. Ma, mentre il bonuomo era andato a cercare i

facchini, Eugenio, dopo aver rapidamente risposto

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all'appello della scuola, era rientrato senza che nessuno lo

avesse visto, per saldare i conti con la signora Vauquer,

non volendo lasciare quell'incarico a Goriot, che, nel suo

fanatismo, avrebbe certamente pagato per lui. La padrona

era uscita. Eugenio risalì in camera per vedere se non

aveva dimenticato nulla e fu contento di aver avuto

quell'idea perché trovò nel cassetto del suo tavolo

l'accettazione in bianco da lui rilasciata a Vautrin,

sbadatamente dimenticata lì dal giorno in cui l'aveva

saldata. In mancanza del fuoco, stava per strapparla in

minuti pezzi quando, riconoscendo la voce di Delfina, si

studiò di non fare più alcun rumore, e si fermò per udirla,

pensando che essa non doveva avere alcun segreto per lui.

Poi, fin dalle prime parole, trovò la conversazione tra padre

e figlia troppo interessante per non ascoltarla.

- Ah!, papà mio - disse - quale fortuna che abbiate avuto

l'idea di chiedere il rendiconto dei miei beni almeno prima

che io non sia rovinata! Posso parlare?

- Sì, la casa è vuota - disse papà Goriot con voce alterata.

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- Ma che cosa avete, babbo? - domandò la signora de

Nucingen.

- Tu mi dài - rispose il vecchio - una mazzata sulla testa.

Dio ti perdoni, figlia mia! Tu non sai quanto ti voglio bene;

se lo avessi saputo, non mi avresti detto così bruscamente

simili cose, specie se tutto ancora non è perduto. Ma che

cosa è accaduto di così urgente da farti venire a cercarmi

qui, se tra pochi istanti avremmo dovuto trovarci in via

d'Artois?

- Eh!, papà mio, si è forse padroni di se stessi quando

avviene una disgrazia? Mi sembra d'essere pazza! Il vostro

avvocato ci ha fatto scoprire un po' più presto il guaio che

certamente verrà fuori più tardi. La vostra consumata

esperienza commerciale sta per diventarci necessaria, e io

sono corsa a cercarvi come ci si attacca a un ramo quando

si sta per annegare. Quando il signor Derville ha visto che

Nucingen opponeva mille cavilli, gli ha minacciato di

intentare una causa dicendogli che l'autorizzazione del

presidente del tribunale si sarebbe presto ottenuta.

Nucingen è allora venuto stamane da me e mi ha chiesto

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se io volevo proprio la sua rovina e la mia. Gli ho risposto

che io non m'intendevo affatto di queste cose, che avevo

dei beni, che era giusto ne avessi il possesso e che per

tutto quel che si riferiva a tale questione si rivolgesse al

mio avvocato, che io non sapevo nulla di nulla e che perciò

mi trovavo nell'impossibilità di capire qualcosa in tutta

questa faccenda. Non è così che mi avevate raccomandato

di dirgli?

- Bene - rispose papà Goriot.

- Allora - riprese Delfina - egli mi ha messo al corrente dei

suoi affari. Ha impegnato tutti i suoi capitali e i miei in

speculazioni appena cominciate e per le quali ha dovuto

anticipare forti somme. Se ora io l'obbligassi a restituirmi

la dote, si troverebbe costretto a chiedere un concordato;

mentre, se attendo un anno, s'impegna sul suo onore a

rendermi un capitale doppio o triplo, impiegando il mio

denaro in affari immobiliari, al termine dei quali sarò

padrona di tutti i miei beni. Babbo mio, dicendomi questo

era sincero, e mi ha spaventato. Mi ha chiesto scusa del

suo modo d'agire, mi ha ridato completa libertà, mi ha

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permesso di fare quel che voglio, a condizione di lasciarlo

interamente padrone di condurre gli affari servendosi del

mio nome. E, per provarmi la sua buona fede, mi ha

promesso di chiamare il signor Derville ogni volta che io lo

voglia, affinché egli stesso possa giudicare se gli atti in

virtù dei quali la mia firma è impegnata siano regolarmente

redatti. Insomma, si è rimesso a me, mani e piedi legati.

Chiede per due anni ancora l'amministrazione della casa, e

mi ha supplicato di non spendere più di quanto mi dà. Mi

ha dimostrato che tutto quel che poteva fare era di

conservare le apparenze, che ha rotto la sua relazione con

la ballerina, e che si sarebbe ridotto alla più segreta e

inesorabile economia, per arrivare al compimento delle sue

speculazioni senza alterare il suo credito. Io l'ho trattato

malissimo, gli ho fatto vedere di non credere alle sue

parole per fargli perdere la pazienza e saperne ancora di

più: mi ha mostrato i suoi conti, e poi s'è messo a

piangere. Non ho mai visto un uomo in quello stato. Aveva

perduto la testa, diceva di volersi suicidare, delirava. Mi ha

fatto proprio pena!

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- E tu credi a queste frottole? - esclamò papà Goriot. E' un

commediante! Ho avuto rapporti d'affari con molti

tedeschi; costoro sono quasi tutti in buona fede, pieni di

candore; ma quando, con la loro aria di franchezza e di

bonomia, vogliono essere scaltri e imbroglioni, lo sono

allora più di tutti gli altri. Tuo marito approfitta di te. Si

sente stretto in un cerchio, e allora fa il morto, vuol

rimanere più padrone sotto il tuo nome di quanto non lo sia

sotto il suo. E approfitta di questa circostanza per mettersi

al riparo dai rischi del suo commercio.

E' fino, lui, quanto perfido; è un pessimo arnese. No, no, io

non me ne andrò al Père-Lachaise lasciando le mie figlie

prive di tutto. Capisco ancora qualcosa in commercio. Egli,

dice, ha impegnato le sue disponibilità in vari affari;

ebbene!, i suoi interessi saranno rappresentati da valori, da

ricevute, da contratti! Li negozi, e liquidi intanto la parte

tua. Sceglieremo le migliori speculazioni, ne correremo i

rischi, e avremo i titoli probativi intestati al nostro nome di

Delfina Goriot, moglie separata, per quanto attiene ai beni,

del barone de Nucingen. Ma ci prende proprio per imbecilli,

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costui? Crede forse che io possa sopportare per due giorni

l'idea di lasciarti senza danaro, senza pane? Ma io non la

sopporterei neppure un sol giorno, neppure una notte,

neppure un'ora! Se questa idea fosse realtà, non

sopravviverei. Come!, avrei dunque lavorato per

quarant'anni, avrei portato sacchi sulle spalle, avrei sudato

sette camicie, avrei sofferto privazioni tutta la mia vita, per

voi, angeli miei, che mi rendevate qualsiasi lavoro,

qualsiasi peso, leggero; e oggi la mia ricchezza, la mia vita

se ne andrebbero in fumo? Sarebbe cosa da farmi morire di

rabbia. Per quanto c'è di più sacro sulla terra e in cielo,

metteremo tutto in chiaro, verificheremo la contabilità, la

cassa, gli affari! Non dormirò, non mi coricherò, non

mangerò finché non mi sarà provato che la tua dote è là,

ancora tutta intera. Per fortuna, i tuoi beni sono separati

dai suoi; avrai Derville come avvocato, un galantuomo,

fortunatamente.

Dio buono!, tu dovrai avere il tuo buon milioncino, le tue

cinquantamila lire di rendita, fino alla fine dei tuoi giorni, o

facciamo una chiassata in tutta Parigi! Ah! Ah! E sarò

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capace di fare appello anche alle Camere, se i tribunali

dovessero darci torto. Il solo pensiero di saperti tranquilla

e felice quanto al denaro, alleviava tutti i miei mali e

calmava i miei crucci. Il denaro è la vita. Col denaro si

ottiene tutto. Che cosa dunque ci viene a contare, quel

grosso ciocco dell'Alsaziano? Delfina, non concedere

neppure un quarto di centesimo a quel bestione, che ti ha

tenuto alla catena e ti ha reso infelice. Se ora ha bisogno di

te, lo bastoneremo di santa ragione, e lo faremo rigar

diritto.

Dio buono, ho la testa che mi va in fiamme, ho il cervello

che mi brucia. La mia Delfina sul lastrico! Oh!, Fifina mia,

tu! Perdio!, dove sono i miei guanti? Andiamo, usciamo,

voglio andare a veder tutto: la contabilità, gli affari, la

cassa, la corrispondenza, subito! Non mi calmerò se non

quando mi sarà dimostrato che la tua dote non corre più

rischi, e la vedrò coi miei occhi.

- Babbo mio caro!, siate prudente. Se metteste la benché

minima velleità di vendetta in questa faccenda, e se

faceste vedere intenzioni troppo ostili, io sarei perduta. Lui

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vi conosce, ha trovato del tutto naturale che, istigata da

voi, mi preoccupassi della mia dote; ma, ve lo giuro, essa è

nelle sue mani e vuole continuare a tenerla. Egli è capace

di scappare con tutti i capitali, e di lasciarci così, lo

scellerato! Sa bene che non sarò certo io a disonorare il

nome che porto, facendogli causa. Egli è forte e insieme

debole. Ho tutto ben considerato. Se lo spingiamo agli

estremi, sono rovinata.

- Ma è allora un furfante?

- Eh!, sì, babbo - rispose gettandosi su di una sedia,

piangendo.

- Non volevo dirvelo per risparmiarvi il rammarico di

avermi fatto sposare un uomo di quella specie! Costumi

privati e coscienza, l'animo e il corpo, tutto s'accorda in lui!

E' spaventevole; io lo odio e lo disprezzo. Sì, io non posso

più stimare il vile Nucingen, dopo tutto quel che mi ha

detto. Un uomo capace di lanciarsi nelle speculazioni

commerciali di cui mi ha parlato, dimostra di non avere la

benché minima delicatezza, e i miei timori nascono da ciò

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che gli ho letto assai bene nell'animo. Egli mi ha

nettamente proposto, lui, mio marito, la libertà; e sapete

quel che significa questo? Significa che, in caso di rovina,

io dovrei diventare un semplice strumento nelle sue mani

e, insomma, servirgli da prestanome.

- Ma ci son ben le leggi!, c'è pure una piazza de Grève per

generi di questa razza! - esclamò papà Goriot - ma lo

ghigliottinerei io stesso, se non ci fosse il carnefice.

- No, papà mio, non ci sono leggi contro di lui. Sentite in

due parole il suo discorso, sfrondato di tutte le

circonlocuzioni in cui lo ha avvolto: "O tutto è perduto, e

voi non avrete più neanche un centesimo, e sarete

rovinata, giacché non saprei scegliere per complice altra

persona che voi; o mi lascerete portare a buon fine i miei

affari". Chiaro? Egli tiene ancora a me. La mia probità di

donna gli dà garanzia; sa che io gli lascerò la sua fortuna e

che mi contenterò della mia. E' un'associazione disonesta e

ladresca cui debbo sottostare sotto pena di andare in

rovina. Compra la mia coscienza e la paga, consentendomi

di essere la donna d'Eugenio. "Io ti permetto di

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commettere dei falli, e tu lasciami commettere dei reati,

mandando alla rovina della povera gente!". Non è

abbastanza chiaro un simile discorso? Sapete quel che

significa per lui far degli affari? Compra terreni a nome

suo, e poi ci fa costruire case da prestanomi. Questi

stipulano contratti per le costruzioni con gli appaltatori, li

pagano con effetti a lunga scadenza e consentono a darne

quietanza, lucrando un piccolo compenso, a mio marito,

che diventa allora proprietario delle case, mentre i

prestanomi si liberano dagli obblighi contratti verso gli

appaltatori truffati, dichiarando fallimento.

Il nome della ditta de Nucingen è servito a dar la polvere

negli occhi dei poveri costruttori. L'ho capito bene. E ho

pure capito che, per dimostrare, all'occorrenza, la

possibilità del pagamento di ingenti somme, ha inviato

considerevoli valori ad Amsterdam, Londra, Napoli, Vienna.

Come, allora, potremo costringerlo alla resa dei conti? -

Eugenio udì il rumore pesante dei ginocchi di papà Goriot,

che dovette cadere sul pavimento della camera.

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- Mio Dio, che cosa ti ho fatto io? Mia figlia nelle mani di

quel miserabile: egli esigerà tutto da lei, se lo vorrà!

Perdono, figlia mia - gridò il vecchio.

- Sì, se ora mi trovo in un abisso, c'è forse un po' di colpa

da parte vostra - disse Delfina. - Siamo così poco

giudiziose, quando ci sposiamo. Conosciamo forse il

mondo, gli affari, gli uomini, i costumi? Sono i genitori che

dovrebbero pensare in vece nostra.

Babbo caro, non vi rimprovero nulla, perdonate le mie

parole. In questo caso la colpa è tutta mia. No, non

piangete, papà - disse baciandogli la fronte.

- Non piangere neppure tu, mia piccola Delfina. Dammi qui

i tuoi occhi, lascia che te li asciughi coi miei baci. Ora

rimetterò un po' d'ordine nella mia povera zucca, e

cercherò di dipanare questo groviglio d'affari in cui tuo

marito ti ha messo.

- No, lasciate fare a me; lo manovrerò io. Egli mi ama;

ebbene mi servirò del prestigio che ho su di lui per indurlo

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a investire subito una parte dei miei capitali in qualche

buona proprietà.

Forse riuscirò a fargli ricomprare, sotto il mio nome, i beni

che aveva a Nucingen in Alsazia: lui ci tiene. Vorrei però

che domani voi veniste a esaminare la sua contabilità, i

suoi affari. Il signor Derville non s'intende affatto dl

questioni commerciali. Ma no, non venite proprio domani.

Non voglio guastarmi il sangue. Il ballo della signora de

Beauséant avrà luogo dopo domani, e io voglio aver cura di

me per essere bella riposata e far così onore al mio caro

Eugenio! E ora andiamo a vedere la sua camera.

In quel momento una vettura si fermò nella via Neuve-

Sainte- Geneviève, e si udì per la scala la voce della

signora de Restaud che diceva a Silvia: - C'è mio padre?

Questa circostanza disimpegnò fortunatamente Eugenio,

che già pensava di gettarsi sul letto, fingendo di dormire.

- Ah!, babbo, vi hanno parlato d'Anastasia? - chiese Delfina

riconoscendo la voce della sorella. - Sembra che succedano

strane cose nella sua famiglia.

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- Che cosa? - domandò papà Goriot - ma è dunque proprio

la mia fine? La mia povera testa non reggerà a una doppia

sciagura.

- Buon giorno, papà - disse la contessa entrando. - Ah!, tu

qui, Delfina?

La signora de Restaud parve imbarazzata di incontrare sua

sorella.

- Buon giorno, Nasia - disse la baronessa. - Ti sembra

strano trovarmi qui? Mio padre lo vedo tutti i giorni, io.

- Da quando?

- Se tu venissi, lo sapresti.

- Non beffeggiarmi, Delfina - fece la contessa con una voce

lamentosa. - Sono tanto disgraziata, sono perduta, povero

papà mio!, oh!, proprio perduta, questa volta!

- Cos'hai, Nasia? - esclamò papà Goriot. - Dicci tutto,

figliola.

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- Essa impallidì. - Delfina, su, soccorrila, sii buona con lei,

ti vorrò bene anche di più, se possibile!

- Mia povera Nasia - disse la signora de Nucingen, facendo

sedere la sorella - parla. Noi siamo le due sole persone che

ti vorranno sempre tanto bene, da perdonarti tutto.

Ricordati che gli affetti famigliari sono i più sicuri.

Le fece aspirare dei sali, e la contessa rinvenne.

- Ci lascerò la pelle - disse papà Goriot. - Andiamo - riprese

attizzando il fuoco - avvicinatevi tutte e due. Ho freddo.

Che hai, Nasia?, di' sù, presto, tu mi fai morire...

- Ebbene! - disse la povera donna - mio marito sa tutto.

Babbo, vi ricordate di quella cambiale di Massimo, qualche

tempo fa?

Ebbene! non era la prima. Ne avevo già pagate molte altre.

Ai primi di gennaio, il signor de Trailles mi sembrava assai

preoccupato. Non mi diceva nulla; ma è facile leggere nel

cuore delle persone cui si vuol bene, basta un niente; e

poi, ci sono dei presentimenti. Lui si mostrava più

innamorato, più affettuoso che mai, e io ero sempre più

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felice. Povero Massimo!, dentro di sé, mi ha poi detto, mi

dava intanto il suo ultimo addio; voleva farsi saltare le

cervella. Allora l'ho tanto tormentato, tanto supplicato,

sono rimasta due ore ai suoi ginocchi. Alla fine, mi ha

confessato di avere centomila franchi di debiti. Oh!, papà,

centomila franchi! Sono diventata pazza. Voi non li

avevate, io non avevo più nulla...

- No - disse papà Goriot - io non avrei potuto procurarteli,

a meno di andarli a rubare. Ma ci sarei andato, Nasia! E ci

andrò.

A queste parole lugubremente dette, come il rantolo d'un

moribondo, che indicavano l'agonia di un sentimento di

paterno affetto ridotto all'impotenza, le due sorelle

tacquero. Quale egoismo sarebbe rimasto insensibile a quel

grido di disperazione che, simile a una pietra lanciata in un

abisso, ne rivelava la profondità?

- Li ho trovati disponendo di quel che non mi apparteneva,

babbo - disse la contessa scoppiando in lacrime.

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Delfina si commosse e pianse, appoggiando la testa sul

collo della sorella.

- Ma allora è tutto vero! - le disse.

Anastasia abbassò la testa, la signora de Nucingen la

strinse tutta a sé, la baciò teneramente e, appoggiandola

sul suo cuore: - Qui tu sarai sempre amata senza venir

giudicata - le disse.

- Angeli miei - fece Goriot con voce fioca - per quale

destino la vostra riconciliazione è dovuta a una sciagura?

- Per salvare la vita di Massimo, per salvare insomma tutta

la mia felicità - riprese a dire la contessa incoraggiata dalle

prove d'una tenerezza così calda e palpitante - ho portato a

quell'usuraio che conoscete, una creatura infernale che

nulla può intenerire, a quel signor Gobseck, i diamanti di

famiglia cui tiene tanto il signor de Restaud, i suoi, i miei,

tutto: e li ho venduti. Venduti!, capite? E così lui è stato

salvato, ma io sono morta. Restaud ha saputo tutto.

- Da chi?, come? Io l'ammazzo! - gridò papà Goriot.

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- Ieri, mi ha fatto chiamare nella sua camera. Ci sono

andata...

"Anastasia, mi ha detto con una voce... (oh!, la sua voce

m'è bastata, ho indovinato tutto), dove sono i vostri

diamanti?". Li ho con me. "No", mi ha detto guardandomi,

"stanno lì sul mio cassettone". E mi ha indicato lo scrigno,

da lui coperto con un fazzoletto. "Sapete da dove

provengono?" mi ha chiesto, e io sono caduta ai suoi

ginocchi.., ho pianto, e gli ho domandato di quale morte

avrebbe voluto vedermi morire.

- Tu gli hai detto tutto questo? - esclamò papà Goriot. - Per

il santo nome di Dio, chi si proverà a far del male a voi

due, finché sarò vivo, può star sicuro che lo brucerò a

fuoco lento! Sì, lo farò a pezzetti come...

Papà Goriot tacque, le parole gli si spegnevano nella gola.

- Poi, mia cara, mi ha chiesto qualcosa di più difficile

ancora della morte. Non faccia il cielo sentire mai a una

donna quel che ho sentito io!

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- L'ucciderò, quell'uomo - disse papà Goriot

tranquillamente. - Ma lui non ha che una vita sola, e me ne

deve due. Insomma, che cosa t'ha chiesto? - riprese,

guardando Anastasia.

- Ebbene! - fece la contessa continuando, dopo una pausa

- mi ha guardato in faccia e mi ha detto: "Anastasia,

metterò tutto sotto silenzio, resteremo uniti, abbiamo dei

figli. Non ucciderò il signor de Trailles, potrei fallire il colpo,

e, nel disfarmene in altro modo, potrei anche cozzare

contro la giustizia umana.

Ucciderlo nelle vostre braccia, sarebbe poi disonorare i figli.

Ma, per non veder morire né i vostri figli, né il loro padre,

né me, vi pongo due condizioni. Rispondete: "Uno dei figli

è mio?".

Gli ho risposto di sì. "Quale?", mi ha domandato. Ernesto, il

nostro primogenito. "Bene, ha detto. E ora, giurate di

obbedirmi ormai su di un solo punto". Ho giurato. "Voi

firmerete la vendita dei vostri beni quando ve lo chiederò".

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- Non firmare! - gridò papà Goriot. - Non firmare mai

questo! Ah!, ah!, signor de Restaud, voi non sapete cosa

sia rendere una donna felice, lei cerca il suo bene dov'esso

è, e voi volete punirla della vostra sciocca impotenza?... Ma

ci sono io, qui, alto là, dovrà fare i conti con me. Nasia, sta

tranquilla. Ah, lui tiene al suo erede, eh? Bene; bene.

M'impadronirò di suo figlio che, perdio!, è anche mio

nipote. Potrò vederlo, questo marmocchio? Lo nasconderò

nel mio villaggio natio, ne avrò cura io, sta tranquilla. Lo

farò capitolare, quel mostro, dicendogli: "A noi due! Se

vuoi riavere tuo figlio, restituisci a mia figlia la sua dote, e

lascia che faccia il suo comodo".

- Padre!

- Sì, tuo padre! Ah!, io sono un vero padre. Che queste

canaglie di gran signori non maltrattino le mie figlie.

Perdio!, non so quel che mi sento nelle vene. Mi ci sento il

sangue d'una tigre, e vorrei divorarli, quei due. O, figlie

mie!, è questa la vostra vita? Ma questa è la mia morte.

Che ne sarà di voi, quando io non ci sarò più? I padri

dovrebbero vivere quanto i loro figli. Mio Dio, com'è mal

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combinato il tuo mondo! E sì che un figlio tu pure lo hai,

secondo quel che ci è stato detto. Dovresti impedire di farci

soffrire nei nostri figli. Angeli miei cari, come!, debbo

dunque la vostra presenza solo ai vostri dolori? Non mi fate

conoscere altro che le vostre lacrime? Ebbene sì, voi mi

amate, lo vedo. Venite, venite a piangere qui! Il mio cuore

è grande, e può ricevere tutto. Sì, voi potete pure

trafiggerlo, ma i brani di esso saranno sempre tanti cuori di

padre. Vorrei prendere su di me le vostre pene, soffrire per

voi. Ah!, quando eravate piccoline, eravate tanto felici.

- Non abbiamo avuto che quel tempo, felice - disse Delfina.

- Dov'è quell'epoca quando ci rotolavamo dall'alto dei

sacchi nel granaio grande?

- Papà, non è tutto ancora, quel che vi ho detto - disse

Anastasia, all'orecchio di Goriot, che ebbe uno scatto. - La

vendita dei diamanti non ha reso centomila franchi. Si sta

procedendo contro Massimo. Dobbiamo ancora pagare

dodicimila franchi. Lui mi ha promesso di metter la testa a

partito, di non giocare più. Al mondo non mi resta più che il

suo amore, e io l'ho pagato troppo caro per non morire se

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lo perdessi. Gli ho sacrificato fortuna, onore, tranquillità,

figli. Oh! fate che almeno Massimo sia libero, che non sia

disonorato, che possa rimanere nella società, dove saprà

farsi una posizione. Adesso egli non mi deve soltanto la

felicità, abbiamo dei figli che rimarrebbero nella miseria!

Tutto sarà perduto, se lo porteranno a Sainte-Pelagie.

- Io non li ho, Nasia. Più nulla, più nulla! E' la fine del

mondo.

Oh! il mondo sta per crollare, è certo. Andatevene,

salvatevi prima! Ah!, ho ancora le mie fibbie d'argento, sei

posate, le prime possedute in vita mia. E poi, non ho altro

che milleduecento franchi di rendita vitalizia...

- Che ne avete dunque fatto delle rendite di Stato ?

- Le ho vendute, riservandomi quel poco di rendita per

vivere. Mi occorrevano dodicimila franchi per mettere su un

appartamento a Delfina.

- Un appartamento per te, Delfina? - disse la signora de

Restaud alla sorella.

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- Oh, ciò non ha importanza! - riprese a dire papà Goriot - i

dodicimila franchi sono già impegnati.

- Ho capito - fece la contessa. - E' per il signor de

Rastignac Ah!, mia povera Delfina, non far questo. Guarda

come sono ridotta, io.

- Mia cara, il signor de Rastignac è un giovane incapace di

mandare in rovina la sua amante.

- Ti ringrazio, Delfina. Nella crisi che attraverso,

m'aspettavo di meglio da te; ma già, tu non mi hai mai

voluto bene.

- Ma no, lei ti vuol bene, Nasia - esclamò papà Goriot - me

lo diceva proprio poco fa. Stavamo parlando di te, e mi

diceva che tu sei bella, e che lei è soltanto graziosa!

- Lei! - ripeté la contessa - ma lei è d'una bellezza fredda.

- Quand'anche fosse - disse Delfina arrossendo - come ti

sei comportata, tu, verso di me? Tu mi hai rinnegata, mi

hai fatto chiudere le porte di tutte le case in cui desideravo

esser ricevuta, insomma non ti sei mai lasciata sfuggire la

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minima occasione di farmi dispiacere. E poi, sono io forse

venuta, come te, a sottrarre a questo povero papà, a mille

franchi per volta, la sua ricchezza, riducendolo nello stato

in cui ora si trova?

Ecco in cosa è consistita l'opera tua, sorella mia. Io, ho

sempre voluto vedere mio padre quando ho potuto, non

l'ho mai messo alla porta e non sono venuta poi a leccargli

le mani al momento del bisogno. Non lo sapevo neppure

che avesse speso quei dodicimila franchi per me. Io sono

ordinata, io!, e tu lo sai. E poi, se papà mi ha fatto dei

regali, non glieli ho mai chiesti.

- Tu eri più fortunata di me: il signor de Marsay era ricco, e

tu ne sai qualche cosa. Sei stata sempre avara come l'oro.

Addio, io non ho né sorella né...

- Taci, Nasia! - esclamò papà Goriot.

- Solo una sorella come te può ripetere quel che nessuno

crede più; sei un mostro - le disse Delfina.

- Figliole mie, figliole mie, smettetela, o m'uccido qui

davanti a voi.

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- Nasia, ti perdono - disse la signora de Nucingen

continuando - sei una sciagurata. Ma io sono migliore di te.

Dirmi questo proprio nel momento in cui sarei stata capace

di tutto per venirti in aiuto, anche di entrare in camera di

mio marito, cosa che non farei né per me né per... Questo

è degno di tutto il male che mi hai fatto da nove anni.

- Figliole mie, figliole mie, abbracciatevi! - disse il padre. -

Voi siete due angeli.

- No, lasciatemi - gridò la contessa, che Goriot aveva presa

per un braccio, e che s'era svincolata dall'abbraccio

paterno. - Lei ha meno pietà di quanta non ne avrebbe mio

marito. Eppure si direbbe sia l'immagine di tutte le virtù!

- Preferisco essere ritenuta debitrice del signor de Marsay,

piuttosto di dover confessare che il signor de Trailles mi

costa più di duecentomila franchi - rispose la signora de

Nucingen.

- Delfina! - gridò la contessa facendo un passo verso di lei.

- Io ti sto dicendo la verità, mentre tu invece mi calunni -

replicò freddamente la baronessa.

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- Delfina, tu sei una...

Papà Goriot si slanciò, trattenne la contessa e le impedì di

parlare, coprendole la bocca con la mano.

- Mio Dio!, babbo, ma che cosa avete toccato stamani? - gli

domandò Anastasia.

- Ebbene, sì, ho torto - disse il povero padre asciugandosi

le mani lungo i pantaloni. - Ma non sapevo che sareste

venute qui, sto cambiando casa.

Era lieto d'essersi meritato un rimprovero che scaricava su

di lui la collera della figlia.

- Ah! - riprese poi sedendosi - mi avete spezzato il cuore.

Mi sento morire, figliole mie! La testa mi brucia dentro

come se ci fosse il fuoco. Siate dunque buone, vogliatevi

bene! Altrimenti mi farete morire. Delfina, Nasia, andiamo;

avevate ragione e avevate torto tutte e due. Vediamo,

Dedé - riprese a dire volgendo verso la baronessa i suoi

occhi pieni di lacrime - le occorrono dodicimila franchi:

cerchiamoli. Non vi guardate così. (E si mise in ginocchio

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dinanzi a Delfina). Chiedile perdono per far piacere a me -

le disse all'orecchio - lei è la più infelice; non è così?

- Mia povera Nasia - disse Delfina spaventata dalla

selvaggia e folle espressione che il dolore aveva fatto

assumere al viso del padre - ho avuto torto, abbracciami...

- Ah !, mi versate un balsamo sul cuore - esclamò papà

Goriot. - Ma dove trovare i dodicimila franchi? E se mi

offrissi come surrogante?

- Ah!, papà mio! - dissero le due figlie facendoglisi attorno

- no, no.

- Dio vi ricompenserà di questo pensiero, la nostra vita non

basterebbe!, non è vero, Nasia? - riprese Delfina.

- E poi, povero babbo, sarebbe una goccia d'acqua - fece

osservare la contessa.

- Ma non si può far nulla del proprio sangue? - gridò il

vecchio esasperato. - Io mi dò tutto intero a chi ti salverà,

Nasia!

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Ucciderei un uomo per lui. Farò come Vautrin, andrò in

galera!, io... - E si irrigidì, come se fosse stato fulminato. -

Più niente! - disse strappandosi i capelli. - Se sapessi dove

andare, per rubare; ma è difficile anche trovare il modo di

rubare. E poi ci vorrebbe gente, ci vuol tempo per derubare

la Banca. Ho capito, devo morire, non mi resta altro che

morire. Sì, non sono più buono a nulla, non sono più

padre!, no. Lei mi chiede aiuto, ha bisogno di me!, ed io,

miserabile, non ho nulla da darle. Ah!, tu ti sei fatto dei

vitalizi, vecchio scellerato, e avevi pur delle figlie!

Ma non le ami tu, dunque? Crepa, crepa, come quel cane

che sei!

Sì, sto al disotto anche d'un cane, un cane non farebbe

così. Oh!, la mia testa! bolle!

- Ma papà - gridarono le due donne che lo circondavano

per impedirgli di darsi la testa al muro - siate dunque

ragionevole!

Singhiozzava. Eugenio, spaventato, prese la cambiale da

lui firmata a favore di Vautrin e il cui bollo comportava una

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somma anche maggiore; ne corresse la cifra, ne fece una

cambiale regolare di dodicimila franchi all'ordine di Goriot,

ed entrò.

- Ecco qui tutto il vostro denaro, signora - disse

presentando la carta. - Dormivo, ma la vostra

conversazione m'ha svegliato, e ho potuto così sapere

quanto dovevo al signor Goriot. Eccone qui il titolo, che

potrete scontare; io lo pagherò puntualmente.

La contessa, immobile, teneva in mano la carta.

- Delfina - disse, pallida e tremante di collera, di furore, di

rabbia - ti perdonerei tutto, Dio me n'è testimonio, ma

questo!

Come!, il signore era là? Tu allora lo sapevi. E sei stata così

meschina da vendicarti, lasciandomi così svelargli i miei

segreti, la mia vita, quella dei miei figli, la mia vergogna, il

mio onore?

Va', non sei più nulla per me, ti odio io, ti farò tutto il male

possibile, io... - La collera le mozzò la parola, la sua gola

s'inaridì.

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- Ma, è mio figlio, il nostro ragazzo, tuo fratello, il tuo

salvatore - gridava papà Goriot. - Abbraccialo, Nasia!

Guarda, l'abbraccio io - riprese, stringendo Eugenio con

una specie di furore. - Oh!, figliolo mio, io sarò più che un

padre per te, voglio esser per te una famiglia. Vorrei

essere Dio, per mettere tutto l'universo ai tuoi piedi. Ma,

bacialo, dunque, Nasia, questo non è un uomo ma un

angelo, un vero angelo.

- Lasciate stare, babbo, è pazza in questo momento- disse

Delfina.

- Pazza! Pazza!, e tu cosa sei? - fece la signora de Restaud.

- Figliole mie, io muoio se continuate così - gridò il vecchio

cadendo sul letto come se colpito da un proiettile. - Esse

mi uccidono!, - mormorò.

La contessa guardò Eugenio, che intanto era rimasto

immobile, sbalordito dalla violenza di quella scena: -

Signore - gli disse interrogandolo col gesto, con la voce e

lo sguardo, senza fare attenzione al padre, il cui panciotto

venne rapidamente sbottonato da Delfina.

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- Signora, pagherò e tacerò - gli rispose senza attendere la

domanda.

- Tu hai ucciso nostro padre, Nasia - disse Delfina,

indicando il vecchio svenuto alla sorella, la quale fuggì.

- Le perdono volentieri - disse il bonuomo riaprendo gli

occhi - la sua situazione è spaventosa e farebbe perdere la

testa anche più solida. Consola Nasia, sii dolce con lei,

promettilo al tuo povero padre che sta per morire - disse a

Delfina premendole la mano.

- Ma che cosa avete? - essa chiese tutta spaventata.

- Nulla, nulla - rispose il padre - passerà. Ho qualcosa che

mi stringe la fronte, una emicrania. Povera Nasia, che

brutto avvenire!

In quel momento la contessa rientrò, si gettò alle ginocchia

di suo padre: - Perdono! - gridò.

- Sta' su - disse papà Goriot - se mi dici così adesso mi fai

anche più male.

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- Signore - disse la contessa a Rastignac, con gli occhi

bagnati di lacrime - il dolore mi ha reso ingiusta. Sarete

davvero un fratello per me? - riprese tendendogli la mano.

- Nasia - le disse Delfina abbracciandola - mia piccola

Nasia, dimentichiamo tutto.

- No - rispose - me ne ricorderò!

- Angeli miei - esclamò papà Goriot - voi mi togliete il velo

che avevo sugli occhi, la vostra voce mi rianima.

Abbracciatevi ancora una volta. Ebbene!, Nasia, questa

cambiale ti metterà al sicuro?

- Lo spero. Ma ditemi, papà, volete metterci anche la

vostra firma?

- Guarda che bestia sono io, a non averci pensato. Ma mi

sono sentito male, Nasia, non volermene. Mandami presto

a dire che sei fuori d'ogni imbarazzo. No, verrò io stesso.

Ma no, non verrò, non posso più vedere tuo marito, lo

ucciderei. Quanto poi ad alienare i tuoi beni, lo impedirò io.

Va' presto, figlia mia, e fa' che Massimo metta la testa a

posto.

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Eugenio era stupefatto.

- Questa povera Anastasia è stata sempre violenta - disse

la signora de Nucingen - ma ha buon cuore.

- S'è ravveduta per avere l'avallo - fece Eugenio

all'orecchio di Delfina.

- Credete?

- Vorrei non crederlo. Diffidate di lei - aggiunse levando gli

occhi al cielo, come per confidare a Dio pensieri che non

osava esprimere.

- Sì, è stata sempre un po' commediante, e il mio povero

padre si lascia abbindolare dalle sue smorfie.

- Come vi sentite, mio buon papà Goriot? - domandò

Rastignac al vecchio.

- Ho voglia di dormire - rispose.

Eugenio aiutò Goriot a coricarsi. Poi, quando il bonuomo si

fu addormentato tenendo la mano di Delfina, la figlia si

ritirò.

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- Ci vediamo questa sera agli "Italiens" - disse a Eugenio -

e mi dirai tu come sta. Domani cambierete casa, signor

mio. Vediamo un po' la vostra camera. Oh!, che orrore! -

fece appena entrata. - Ma voi state anche peggio di mio

padre. Eugenio, tu ti sei portato bene. Vi amerei anche di

più se fosse possibile; ma, figliolo mio, se volete far

fortuna, non bisogna mica buttare, come avete fatto, delle

dozzine di migliaia di franchi dalla finestra. Il conte de

Trailles è un giocatore. Mia sorella non vuole ammetterlo.

Egli sarebbe andato a cercare i suoi dodicimila franchi là

dove perde e guadagna monti d'oro.

Un gemito li fece ritornare in camera di Goriot, che

trovarono apparentemente addormentato; ma quando i

due amanti gli si avvicinarono, udirono queste parole: -

Esse non sono felici! - O che dormisse o che fosse desto,

l'accento di quella frase colpì così vivamente il cuore della

figlia, che si avvicinò al giaciglio del padre, e lo baciò in

fronte. Egli aprì gli occhi dicendo: - Sei tu, Delfina?

- Ebbene, come stai? - gli chiese.

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- Bene - rispose. - Non ti preoccupare, adesso uscirò.

Andate, andate pure, figli miei, e siate felici.

Eugenio accompagnò Delfina fino in casa sua; ma,

preoccupato dello stato in cui aveva lasciato Goriot, non

volle rimanere a pranzo da lei, e tornò alla pensione

Vauquer. Ci trovò Goriot in piedi, e in procinto di mettersi a

tavola. Bianchon s'era collocato in modo da poter bene

esaminare il viso del vermicellaio. Quando gli vide prendere

il pane e odorarlo per sentire con quale farina fosse stato

fatto, lo studente, avendo notato in quel gesto una assenza

totale di ciò che si potrebbe chiamare la coscienza dell'atto,

fece un gesto sinistro.

- Mettiti vicino a me, signor interno di Cochin - disse

Eugenio.

Bianchon ci si mise tanto più volentieri, in quanto così

sarebbe stato più vicino al vecchio pensionante.

- Che cos'ha? - chiese Rastignac.

- A meno che mi sbagli, è spacciato! Deve essere accaduto

qualcosa di straordinario in lui, mi pare sia sotto la

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minaccia d'una apoplessia sierosa imminente. Sebbene la

parte inferiore del viso sia abbastanza calma, i tratti

superiori si contraggono, suo malgrado, verso la fronte:

guarda! E poi gli occhi si trovano in quello stato speciale

che denota l'invasione del siero nel cervello. Non si

direbbero pieni d'una polvere fina? Ma domattina ne saprò

di più.

- Non c'è qualche rimedio?

- Nessuno. Forse si potrà ritardare la sua morte, se si

troverà il modo di provocare una reazione verso le

estremità, verso le gambe; ma se domani sera i sintomi

non scompaiono, il pover'uomo è finito. Non sai mica da

che fatto sia stato causato il male? Deve aver subìto un

colpo violento, sotto il quale il suo morale avrà ceduto.

- Sì - disse Rastignac - ricordandosi bene che le due figlie

avevano colpito senza tregua il cuore paterno.

"Almeno Delfina" diceva fra sé e sé Eugenio, "gli vuol bene

a suo padre, lei!".

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La sera, agli "Italiens", Rastignac usò qualche precauzione

per non allarmare la signora de Nucingen.

- Non vi preoccupate - lei rispose alle prime parole di

Eugenio - mio padre è forte. Ma, certo, questa mattina lo

abbiamo un po' scosso. Le nostre fortune sono in pericolo:

capite la portata di questa disgrazia? Io non vivrei, se il

vostro affetto non mi rendesse insensibile a quel che prima

avrei considerato angosce mortali. Non c'è ora che un solo

timore, una sola disgrazia per me: perdere l'amore che mi

ha fatto provare il piacere di vivere.

All'infuori di questo sentimento, tutto m'è indifferente,

nulla al mondo m'interessa più. Voi siete tutto per me. Se

provo la felicità d'esser ricca, è per piacervi di più. Io sono,

a mia onta, più amante che figlia. Perché? Non lo so. Tutta

la mia vita è in voi. Mio padre mi ha dato un cuore, ma voi

l'avete fatto battere. Il mondo intero può biasimarmi, ma,

che importa?, se voi, che non avete il diritto di

rimproverarmi, mi assolvete dai delitti cui mi istiga un

sentimento irresistibile? Mi crederete una figlia snaturata!

Oh!, no, è impossibile non amare un padre così buono

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com'è il nostro. Ma potevo io forse impedire che egli non

vedesse le conseguenze inevitabili dei nostri deplorevoli

matrimoni? Perché non li ha impediti? Non doveva lui

riflettere in vece nostra? Oggi, lo so, lui soffre quanto noi:

ma che potevamo farci? Consolarlo? Non lo consoleremmo

per nulla. La nostra rassegnazione lo addolorava più di

quanto i nostri rimproveri e i nostri rammarichi potrebbero

fargli del male. Ci sono situazioni, nella vita, in cui tutto è

amarezza.

Eugenio rimase silenzioso, preso da tenerezza per

l'effusione ingenua d'un sentimento sincero. Se le Parigine

sono spesso false, ebbre di vanità, egoiste, civette, fredde,

è però sicuro che quando amano veramente, sacrificano

più sentimenti alle loro passioni che tutte le altre donne; e

allora esse si fanno grandi per le loro stesse piccolezze, e

diventano sublimi. E poi Eugenio era colpito dallo spirito

profondo e così assennato che la donna dimostra nel

giudicare i sentimenti più naturali, quando un affetto

predominante la separa e la pone a distanza da essi. La

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signora de Nucingen si offese del silenzio mantenuto da

Eugenio.

- Ma a che cosa pensate? - gli chiese.

- Ascolto ancora quel che mi avete detto. Avevo creduto

fino ad ora di amarvi più di quanto voi non mi amiate.

Lei sorrise, e si difese dal piacere provato per mantenere la

conversazione nei limiti imposti dalle convenienze. Non

aveva mai udito le espressioni vibranti d'un amore giovane

e sincero.

Qualche parola ancora, e non si sarebbe più contenuta.

- Eugenio - essa disse poi cambiando discorso - ma non

sapete il fatto del giorno? Tutta Parigi andrà domani dalla

signora de Beauséant. I Rochefide e il marchese d'Adjuda

si son messi d'accordo di non divulgare la notizia; ma il re

firmerà domani il contratto di matrimonio, e la vostra

povera cugina ancora non sa nulla. Non potrà fare a meno

di non dare il ricevimento, e il marchese non interverrà al

ballo. Non si parla che di questo.

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- E la gente ride d'una infamia, e ci fa la zuppa! Non sapete

che la signora de Beauséant ne morirà?

- No - disse Delfina sorridendo - voi non conoscete quel

tipo di donne là. Ma tutta Parigi andrà da lei, e ci sarò

anch'io! E devo del resto a voi questo piacere.

- Ma - disse Rastignac - non sarà una di quelle tante ciarle

assurde che si fanno correre per Parigi?

- Sapremo la verità domani.

Eugenio non rientrò alla pensione Vauquer. Non riuscì a

prendere la decisione di non godere del suo nuovo

appartamento. Se il giorno prima era stato costretto a

lasciare Delfina all'una dopo mezzanotte, questa volta fu

Delfina a lasciarlo verso le due, per tornare a casa sua. Egli

dormì l'indomani fino a tardi, attese verso mezzodì la

signora de Nucingen, che fece colazione con lui.

I giovani sono così avidi di questi vaghi piaceri che egli

aveva già quasi dimenticato papà Goriot.

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Fu per lui una prolungata gioia quella di abituarsi a ognuna

delle eleganti cose che gli appartenevano. La signora de

Nucingen era poi lì, a dare al tutto un maggior pregio.

Tuttavia, verso le quattro, i due amanti si ricordarono di

papà Goriot, pensando alla felicità che s'era ripromesso

nell'andare ad abitare in quella casa. Eugenio fece

osservare che era necessario trasportarvi subito il

bonuomo, in previsione d'una sua malattia, e lasciò Delfina

per correre alla pensione Vauquer. Né papà Goriot né

Bianchon erano a tavola.

- Eh! - gli disse il pittore - papà Goriot sta male; Bianchon

è su, vicino a lui. Il bonuomo ha visto una delle sue figlie,

la contessa de "Restaurama". Poi, ha voluto uscire, e il suo

male è peggiorato. La società sta per essere privata d'una

delle sue belle figure.

Rastignac si slanciò su per le scale.

- Ehi!, signor Eugenio!

- Signor Eugenio, la signora vi chiama - gridò Silvia.

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- Signore - gli disse la vedova - il signor Goriot e voi

dovevate andar via il quindici febbraio. Sono tre giorni che

il quindici è passato, siamo al diciotto; devo esser pagata

di un mese vostro e di un mese suo; ma se mi garantite

voi papà Goriot, la vostra parola mi basta.

- Perché, forse non vi fidate?

- Fidarsi! Se il bonuomo perdesse la conoscenza e morisse,

le figlie non mi darebbero un centesimo, e tutti i suoi

stracci non valgono dieci franchi. Ha portato via stamane le

ultime sue posate. Non so poi perché. S'era vestito come

un giovanotto. Dio mi perdoni, ma credo si sia messo il

rossetto, m'è parso ringiovanito.

- Rispondo io di tutto - disse Eugenio rabbrividendo

d'orrore e temendo una catastrofe.

Salì da papà Goriot. Il vecchio giaceva sul letto, e Bianchon

gli era d'accanto.

- Buon giorno, papà - gli disse Eugenio.

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Il bonuomo gli sorrise dolcemente, e rispose volgendo

verso di lui due occhi vitrei: - Come sta, lei?

- Bene. E voi?

- Non c'è male.

- Non stancarlo - disse Bianchon portando Eugenio in un

angolo della camera.

- Ebbene? - gli chiese Rastignac.

- Lo può salvare solo un miracolo. La congestione sierosa è

avvenuta, sono intervenuto allora coi senapismi,

fortunatamente li sente, gli fanno effetto.

- Lo si può trasportare?

- Impossibile. Bisogna lasciarlo lì, evitargli qualsiasi

movimento e ogni emozione...

- Mio buon Bianchon - disse Eugenio - lo cureremo noi due.

- Ho già fatto venire il primario del mio ospedale.

- E che ha detto?

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- Si pronuncerà domani sera. M'ha promesso di tornare

non appena libero dai suoi impegni. Disgraziatamente

questo originale ha commesso stamane una imprudenza su

cui non vuol dare spiegazioni!

E' testardo come un mulo. Quando lo interrogo, fa finta di

non capire, e dorme per non rispondermi; se invece ha gli

occhi aperti, si lamenta. E' uscito prestissimo, è andato a

piedi per Parigi, non si sa dove. Ha portato con sé tutto

quel che ancora possedeva di valore, e deve essersi recato

a far qualche benedetto traffico, superiore alle sue forze!

Una delle figlie è venuta.

- La contessa? - domandò Eugenio. - Una alta, bruna,

l'occhio vivace e ben tagliato, dai graziosi piedini, e dalla

vita sottile?

- Sì.

- Lasciami un momento solo con lui - disse Rastignac. - Lo

confesserò e vedrai che a me dirà tutto.

- Intanto io vado a pranzo. Cerca di non farlo agitare

troppo, abbiamo ancora qualche speranza di salvarlo.

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- Sta' tranquillo.

- Quanto si divertiranno domani - disse papà Goriot ad

Eugenio, quando furono soli. - Andranno a un gran ballo.

- Ma che diamine avete fatto stamane, papà, per essere

così sofferente stasera, da essere costretto a rimanere a

letto?

- Nulla.

- Anastasia è venuta ? - domandò Rastignac.

- Sì - rispose papà Goriot.

- E allora? Non nascondetemi nulla. Che cos'altro vi ha

chiesto ancora?

- Ah! - riprese, raccogliendo le forze per parlare - era così

affranta, se sapeste, ragazzo mio, Nasia non ha più un

soldo dopo l'affare dei diamanti. Aveva ordinato, per quel

ballo, un abito di stoffa laminato che le deve stare come un

gioiello. La sarta, un'infame, non ha voluto farle credito, e

la cameriera ha versato lei mille franchi in acconto sulla

toletta. Povera Nasia, ridotta a questo punto! La cosa mi

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ha straziato il cuore. La cameriera, vedendo che Restaud

non si fida di Nasia, ha avuto paura di perdere il suo

denaro e s'è messa d'accordo con la sarta per non

consegnare l'abito se non quando le saranno restituiti i

mille franchi. Il ballo è domani. L'abito è pronto. Nasia è

disperata Ha voluto farsi prestare le mie posate per

impegnarle. Suo marito vuole che lei vada al ballo per far

vedere a tutta Parigi i diamanti che si dice abbia venduto.

Può dire a quel mostro: "Devo dare mille franchi,

pagateli?". No. Ho capito tutto questo, io.

Sua sorella Delfina interverrà con una toletta superba.

Anastasia non deve essere al di sotto della sorella minore.

E poi, è così in lacrime, quella povera figlia mia! Io sono

rimasto così umiliato di non aver avuto dodicimila franchi

ieri, che avrei dato il resto della mia miseranda vita per

riscattare quel torto. Avete visto?

Avevo avuto la forza di sopportare tutto, ma il trovarmi

senza denaro di fronte a quest'ultima occorrenza, mi ha

spezzato il cuore. Oh! Oh!, ma ho detto né uno né due, mi

sono rabberciato e azzimato; ho venduto per seicento

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franchi di posate e di fibbie, poi da papà Gobseck ho

impegnato per un anno il mio titolo di rendita vitalizia

contro quattrocento franchi versatimi una volta tanto. Beh,

mangerò pane solo! Mi bastava quand'ero giovane, può

bastarmi anche adesso. Ma almeno così potrà godersi una

bella serata la mia Nasia. Sarà sgargiante. Ho il biglietto da

mille franchi sotto il capezzale. Mi riscalda aver sotto la

testa quel che farà piacere alla povera Nasia. E potrà

mettere alla porta la sua cattiva Vittoria. S'è mai visto che i

domestici non hanno fiducia nei loro padroni? Domani starò

bene, Nasia verrà alle dieci. Non voglio che esse mi

ritengano ammalato, altrimenti non andrebbero al ballo,

rimarrebbero qui a curarmi. Nasia mi bacerà domani come

se fossi suo figlio, le sue carezze mi guariranno. E poi, non

avrei forse speso mille franchi dal farmacista?

Preferisco darli alla mia Panacea, alla mia Nasia. Almeno la

consolerò della sua miseria. Questo mi sgrava del torto

d'essermi fatto una rendita vitalizia. Lei è in fondo

all'abisso, e io non ho più la forza di tirarla su. Oh! mi

ridarò al commercio. Andrò a Odessa per comprarvi il

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grano. I grani, là, valgono tre volte meno di quel che

costano i nostri. Se l'importazione dei cereali è vietata in

natura, le brave persone che fanno le leggi non hanno però

pensato a proibire quei prodotti in cui il grano è la base.

Eh! Eh!..., ci ho pensato io stamane! C'è da far bei colpi

con gli amidi.

"E' pazzo" si disse Eugenio guardando il vecchio. "Su,

riposatevi, ora, non parlate...".

Eugenio scese per il pranzo, quando tornò Bianchon. Poi

tutti e due passarono la notte vegliando a turno il malato,

l'uno studiando libri di medicina, l'altro scrivendo alla

madre e alle sorelle. L'indomani, i sintomi presentati dal

malato furono, secondo Bianchon, di buon augurio; ma

richiesero continue cure di cui solo i due studenti erano

capaci, e nel racconto dei quali è impossibile

compromettere la pudibonda fraseologia dell'epoca. Le

sanguisughe applicate sul corpo dimagrito del bonuomo

furono accompagnate da cataplasmi, da bagni ai piedi e da

altri espedienti clinici per i quali, del resto, occorrevano la

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forza e lo spirito di devozione dei due giovani. La signora

de Restaud non venne; mandò a ritirare la somma da un

fattorino.

- Credevo che sarebbe venuta lei stessa. Ma questo non è

poi un male, si sarebbe preoccupata - disse il padre,

sembrando lieto di tale circostanza.

Alle sette di sera, Teresa recapitò una lettera di Delfina.

"Che ne è di voi, amico mio? Appena amata, sarei già

trascurata?

Mi avete dimostrato, nelle confidenze fatteci da cuore a

cuore, un'anima troppo bella per non stimarvi come coloro

che rimangono sempre fedeli valutando ogni sfumatura

sentimentale. Voi stesso lo avete detto, ascoltando la

preghiera di Mosè: "Quel che per gli uni è sempre la

medesima nota, per gli altri è l'infinito della musica!".

Ricordatevi che vi attendo questa sera per andare insieme

al ballo della signora de Beauséant. Il contratto del signor

d'Adjuda è stato firmato stamane a corte, e la povera

viscontessa non lo ha saputo che alle due. Tutta Parigi

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andrà da lei, come il popolo gremisce la Grève quando ci

deve essere una esecuzione. Non è orribile andare a

vedere se quella donna nasconderà il suo dolore, se saprà

morire bene? Io certo non ci andrei amico mio, se fossi già

stata ricevuta altre volte in casa sua, ma lei certamente

non riceverà più, e tutti i miei sforzi sarebbero allora inutili.

La mia situazione è ben diversa da quella degli altri. E poi,

io ci vado anche per voi. Vi aspetto.

Se voi non vi trovaste da me fra due ore, non so se vi

perdonerei una simile fellonia".

Rastignac prese una penna, e rispose così:

"Sto attendendo un medico per sapere se vostro padre

potrà vivere ancora. E' moribondo. Verrò a portarvi la

sentenza, e temo sarà una sentenza di morte. Vedrete voi

se sarà il caso d'intervenire al ballo. Mille tenerezze".

Il medico venne alle otto e mezza, e, senza esprimere un

parere favorevole, non ritenne la morte imminente. Previde

alternativamente miglioramenti e ricadute, da cui

sarebbero dipesi la vita e lo stato mentale del bonuomo.

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- Sarebbe meglio che morisse presto - fu l'ultima parola del

medico.

Eugenio affidò papà Goriot alle cure di Bianchon e uscì per

recare alla signora de Nucingen le dolorose notizie che,

nella sua coscienza ancora imbevuta dei doveri famigliari,

avrebbero dovuto sospendere ogni divertimento.

- Ditele che si diverta lo stesso - gli gridò papà Goriot che

sembrava assopito, ma che si drizzò a sedere sul letto nel

momento in cui Rastignac uscì.

Il giovane si presentò desolato a Delfina, e la trovò

pettinata, calzata; non le rimaneva che indossare l'abito da

ballo. Ma, come le pennellate con le quali i pittori finiscono

i loro quadri, gli ultimi ritocchi richiedevano più tempo di

quanto non ne erano necessari per il fondo stesso della

tela.

- Come?, non siete in abito da sera? - gli chiese.

- Ma, signora, vostro padre...

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- Ancora mio padre - esclamò interrompendolo. - Non

sarete voi a insegnarmi i doveri verso mio padre. Conosco

mio padre da lungo tempo. Non una parola, Eugenio. Non

vi ascolterò se non quando vi sarete vestito da sera. Teresa

ha già preparato tutto per voi; la carrozza è pronta,

prendetela e tornate subito. Parleremo di mio padre

andando al ballo. Bisogna uscire presto; se rimaniamo

presi nella fila delle vetture, saremo fortunati se riusciremo

ad entrare alle undici.

- Signora !

- Andate!, non una parola di più - disse andando di corsa

verso il suo spogliatoio per prendervi una collana.

- Ma via, signor Eugenio, farete inquietare la signora -

disse Teresa spingendo il giovane, spaventato da

quell'elegante parricidio.

Andò a vestirsi, facendo le più tristi, le più scoraggianti

riflessioni. Vedeva il mondo come un oceano di fango nel

quale un uomo s'immergeva fino al collo se v'immergeva il

piede.

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- Vi si commettono solo delitti meschini, - si disse. -

Vautrin è più grande.

Egli aveva visto le tre grandi manifestazioni della società:

l'Obbedienza, la Lotta e la Rivolta; la Famiglia, il Mondo e

Vautrin. E non osava decidersi. L'Obbedienza era noiosa, la

Rivolta impossibile e la Lotta incerta. Il pensiero lo

ricondusse in seno alla sua famiglia. Si ricordò delle pure

emozioni di quella vita tranquilla, si rammentò dei giorni

trascorsi fra esseri da cui era amato. Conformandosi alle

leggi naturali del focolare domestico, quelle care creature

vi trovavano una felicità piena, durevole, senza angosce.

Malgrado i suoi buoni pensieri, non si sentì il coraggio di

andare a confessare la fede delle anime pure a Delfina,

comandandole la Virtù in nome dell'Amore.

Già la sua nuova educazione aveva dato i suoi frutti.

Amava già egoisticamente. La sua sensibilità gli aveva

consentito di conoscere la natura del cuore di Delfina.

Presentiva che costei sarebbe stata capace di calpestare il

corpo del padre pur di andare al ballo, ed egli non aveva né

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la forza di rappresentare la parte d'un ragionatore, né il

coraggio di dispiacerle, né la virtù di lasciarla. "Non mi

perdonerebbe mai di aver avuto ragione contro di lei in

questa circostanza", si disse. Poi commentò le parole dei

medici, si cullò nell'illusione che papà Goriot non fosse poi

così gravemente malato come credeva; insomma,

accumulò ragionamenti capziosi per giustificare Delfina. Lei

non sapeva bene lo stato in cui versava il padre. Il

bonuomo stesso la avrebbe mandata al ballo, se fosse

andata a trovarlo. Spesso la legge sociale, implacabile nella

propria formula, condanna, laddove il delitto apparente è

giustificato dagli innumerevoli modi di vedere introdotti in

seno alle famiglie dalla differenza dei caratteri, dalla

diversità degli interessi e delle situazioni.

Eugenio cercava d'ingannare se stesso, era pronto a

sacrificare alla sua amante la propria coscienza. Da due

giorni, tutto era mutato nella sua vita. La donna vi aveva

gettato i suoi disordini, aveva fatto impallidire l'affetto

familiare, aveva tutto confiscato a proprio profitto.

Rastignac e Delfina s'erano incontrati nelle condizioni

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richieste per provare, l'uno per mezzo dell'altra, i più vivi

godimenti. La loro passione, ben preparata, s'era

ingrandita con quel che uccide le passioni: il godere.

Possedendo quella donna, Eugenio si accorse che fino

allora l'aveva solo desiderata, l'amò solo all'indomani della

felicità; l'amore non è forse che la riconoscenza per il

piacere provato.

Infame o sublime, egli adorava quella donna per le voluttà

che gli aveva portato in dote e per tutte quelle che ne

aveva ricevuto.

Delfina amava Rastignac come Tantalo avrebbe amato

l'angelo che gli avrebbe recato di che soddisfare la sua

fame, o estinguere la sete della sua gola inaridita.

- Ebbene!, come sta mio padre? - gli domandò la signora

de Nucingen quando egli fu di ritorno e in abito da sera.

- Malissimo - rispose - se volete darmi una prova del vostro

affetto, corriamo a vederlo.

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- Ebbene!, sì - lei disse - ma dopo il ballo. Mio buon

Eugenio, sii cortese, non farmi la morale, vieni con me.

Uscirono. Eugenio rimase silenzioso per un tratto di strada.

- Che avete? - gli chiese.

- Sento il rantolo di vostro padre - egli rispose con accento

di stizza. E prese a narrare con la calorosa eloquenza della

gioventù la feroce azione cui la signora de Restaud era

stata spinta dalla vanità, la crisi mortale che l'ultima

dedizione paterna aveva provocato, e quel che sarebbe

costato l'abito di stoffa laminata d'Anastasia. Delfina

piangeva.

- Sarò brutta - essa pensò. Le sue lacrime si asciugarono. -

Andrò ad assistere mio padre, non lascerò il suo capezzale

- riprese a dire.

- Ah!, ecco come ti volevo - esclamò Rastignac. I fanali di

cinque vetture rischiaravano gli accessi del palazzo de

Beauséant. Da ogni lato della porta illuminata si

pavoneggiava un gendarme. Il gran mondo affluiva in tal

quantità, e ognuno poneva tanta sollecitudine nel recarsi a

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vedere quella gran dama al momento della sua caduta, che

gli appartamenti al pianterreno del palazzo erano già pieni

quando la signora de Nucingen e Rastignac fecero il loro

ingresso. Da quando tutta la corte si precipitò in casa della

Grande Demoiselle, cui Luigi Quattordicesimo aveva

strappato l'amante, nessuna catastrofe d'amore fu più

clamorosa di quella della signora de Beauséant. In quella

circostanza, l'ultima figlia della quasi reale casa di

Borgogna si dimostrò superiore alla propria sciagura, e

dominò fino all'ultimo istante la società di cui aveva

accettato le vanità solo per asservirle al trionfo della sua

passione. Le più belle donne di Parigi animavano i saloni

con le loro tolette e con i loro sorrisi, gli uomini più notevoli

della corte, gli ambasciatori, i ministri, le personalità più

illustri d'ogni ramo, fregiati di croci, di placche, di cordoni

multicolori, si affollavano attorno alla viscontessa.

L'orchestra faceva risuonare i motivi della sua musica sotto

i soffitti dorati di quel palazzo, deserto per la sua regina. La

signora de Beauséant era in piedi all'ingresso del primo

salone per ricevere i suoi pretesi amici. Vestiva di bianco,

senza alcun ornamento nei capelli, semplicemente

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intrecciati, sembrava calma e non ostentava né dolore, né

fierezza, né falsa allegrezza. Nessuno poteva leggere

nell'animo suo. L'avreste detta una Niobe di marmo. Il suo

sorriso agli amici intimi fu qualche volta ironico; ma essa

apparve a tutti presente a se stessa, e si mostrò così

eguale a quella che era stata quando la felicità l'adornava

dei suoi raggi, che i meno accorti l'ammirarono, come i

giovani Romani applaudivano il gladiatore che sapeva

sorridere morendo. Il mondo sembrava essersi agghindato

per dare il suo addio ad una delle sue sovrane.

- Temevo che non veniste - essa disse a Rastignac.

- Signora - egli rispose con voce commossa interpretando

la frase come un rimprovero - sono venuto per rimanere

ultimo.

- Bene - essa disse prendendogli la mano. - Voi siete forse

qui il solo di cui possa fidarmi. Amico mio, amate una

donna cui possiate voler bene sempre. Non ne

abbandonate mai nessuna.

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Si mise a braccetto di Rastignac e lo condusse a un divano,

nel salone dove si giocava.

- Andate - gli disse - dal marchese. Giacomo, il mio

domestico, vi condurrà da lui e vi darà una lettera per lui.

Gli chiedo la mia corrispondenza. Ve la consegnerà, spero,

tutta quanta. Quando avrete le mie lettere, salite in

camera mia. Mi avvertiranno. - Si alzò per andare incontro

alla duchessa de Langeais, la sua migliore amica, anche lei

sopraggiunta. Rastignac uscì, fece chiedere del marchese

d'Adjuda al palazzo de Rochefide, dove doveva passare la

serata, e dove infatti lo trovò. Il marchese lo condusse in

casa propria, consegnò un cofanetto allo studente e gli

disse:

- Ci sono tutte. - Sembrò poi voler parlare a Eugenio, sia

per interrogarlo a proposito del ballo e della viscontessa,

sia per confessargli d'essere già forse pentito del suo

matrimonio, come di fatto più tardi lo fu; ma un lampo

d'orgoglio brillò nei suoi occhi, ed ebbe il deplorevole

coraggio di mantenere il silenzio sui suoi più nobili

sentimenti. - Non ditele nulla di me, mio caro Eugenio. -

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Strinse la mano di Rastignac con un gesto affettuoso,

sommamente triste, e gli fece cenno di uscire. Eugenio

tornò al palazzo de Beauséant, e fu introdotto nella camera

della viscontessa, dove notò i preparativi d'una partenza.

Si sedette vicino al fuoco, guardò ancora la cassettina di

cedro, e cadde in una profonda malinconia. Per lui, la

signora de Beauséant assumeva le proporzioni d'una dea

dell'lliade.

- Ah!, amico mio - disse la viscontessa entrando, e

appoggiando la mano sulla spalla di Rastignac.

Egli vide sua cugina in lacrime, gli occhi al cielo, una mano

tremante, l'altra sollevata. Essa prese a un tratto il

cofanetto, lo mise sul fuoco e lo guardò mentre bruciava.

- Ballano! Sono venuti tutti puntualmente, mentre la morte

verrà tardi. Zitto!, amico mio - disse ponendo un dito sulla

bocca di Rastignac, che stava per parlare. - Non vedrò mai

più né Parigi né la società. Alle cinque del mattino partirò,

per andarmi a seppellire in fondo alla Normandia. Dalle tre

del pomeriggio sono stata costretta a fare i miei

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preparativi, a firmare dei documenti, a esaminare degli

affari; non potevo mandare nessuno da... - S'interruppe. -

Sicuramente lo si sarebbe trovato da... - E s'interruppe

ancora, affranta dal dolore. In quei momenti tutto è

sofferenza, e certe parole non si possono pronunciare. - Ma

- riprese a dire - contavo questa sera su di voi per

quest'ultimo favore. Vorrei darvi un pegno della mia

amicizia. Penserò spesso a voi che mi siete sembrato

buono e nobile, giovane e candido in mezzo a questo

mondo, dove tali qualità sono tanto rare. Spero penserete

qualche volta a me. Tenete - disse volgendo lo sguardo

intorno a sé - ecco il cofanetto dove mettevo i miei guanti.

Ogni volta che li ho presi da qui prima di andare a un ballo

o al teatro mi sentivo bella perché ero felice, e lo toccavo

solo per lasciarci qualche leggiadro pensiero, c'è molto di

me, lì dentro, c'è tutta una signora de Beauséant che non

esiste più.

Accettatelo. Penserò io a farvelo portare in casa vostra, in

via d'Artois. La signora de Nucingen è assai bella questa

sera, amatela. Se non ci vedremo più, amico mi, siate

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certo che augurerò tanto bene a voi che siete stato così

buono con me. Ora scendiamo, non voglio far credere che

piango. Ho l'eternità dinanzi a me, vi rimarrò sola, e

nessuno mi chiederà conto delle mie lacrime.

Ancora uno sguardo a questa camera. - Si fermò. Poi, dopo

essersi per un istante coperti gli occhi con la mano, li

asciugò, li bagnò con acqua fresca, e si mise sotto al

braccio dello studente.

Andiamo! - disse.

Rastignac non aveva ancora mai provato un'emozione così

violenta come quella procuratagli dal contatto con quel

dolore così nobilmente represso.

Rientrando nei saloni, Eugenio ne fece il giro con la signora

de Beauséant, ultima e delicata cortesia di quella gentil

dama.

Vide poi subito le due sorelle, la signora de Restaud e la

signora de Nucingen. La contessa era magnifica con tutti i

suoi diamanti in mostra, e dovevano certo scottarle in

quanto era quella l'ultima volta che li avrebbe portati. Per

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quanto potenti fossero il suo orgoglio e il suo amore, non

riusciva a sostenere gli sguardi di suo marito. Quello

spettacolo non era tale da rendere i pensieri di Rastignac

meno tristi. Se aveva rivisto Vautrin nel colonnello italiano,

egli rivide allora, sotto i diamanti delle due sorelle, il

misero lettuccio sul quale giaceva papà Goriot. La

viscontessa ingannata dal suo atteggiamento malinconico

ritrasse da lui il braccio.

- Oh!, non voglio davvero privarvi di un piacere - essa

disse.

Eugenio fu subito chiamato da Delfina, felice dell'effetto da

lei prodotto e fiera di porre ai piedi dello studente gli

omaggi che raccoglieva in quel mondo, dove sperava di

essere accolta.

- Come trovate Nasia? - gli chiese.

- Ha scontato - rispose Rastignac - anche la morte di suo

padre.

Verso le quattro del mattino, la folla dei salotti cominciava

a diradare. La musica non s'udì più. La duchessa de

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Langeais e Rastignac si trovarono soli nel salotto grande.

La viscontessa, credendo di dover incontrare solo lo

studente, vi entrò dopo aver detto addio al signor de

Beauséant, che andò a coricarsi ripetendole:

- Avete torto, mia cara, d'andarvi a ritirare in provincia alla

vostra età! Ma restate con noi!

Vedendo la duchessa, la signora de Beauséant non poté

trattenere un gesto di sorpresa.

- Ho indovinato, Clara - disse la signora de Langeais. - Voi

partite per non ritornare più; ma voi non partirete senza

prima avermi ascoltata, e senza prima esserci capite. - E,

presa l'amica a braccetto, la condusse nel salotto vicino, e

là, guardandola con le lacrime agli occhi, la strinse fra le

braccia e la baciò sulle gote. - Non voglio lasciarvi

freddamente, mia cara, sarebbe per me un rimorso troppo

forte. Voi potete contare su di me come su voi stessa.

Siete stata grande questa sera, io mi sono sentita degna di

voi, e voglio dimostrarvelo. Ho avuto dei torti verso di voi,

non mi sono sempre condotta bene, perdonatemi, mia

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cara; disapprovo tutto quel che ha potuto offendervi, vorrei

poter ritirare le mie parole. Uno stesso dolore ha unito le

nostre anime, e io non so chi di noi due sarà la più infelice.

Il signor de Montriveau non era qui, stasera, capite? Chi vi

ha visto durante questo ballo, Clara, non vi dimenticherà

più. Io tento un'ultima prova. Se andrà male, mi ritirerò in

un convento. Dove andate, voi?

- In Normandia, a Courcelles, ad amare e a pregare fin

quando a Dio piacerà ritirarmi da questo mondo.

- Venite qui, signor de Rastignac - disse la viscontessa con

voce commossa, pensando che il giovane attendeva. Lo

studente piegò il ginocchio, prese la mano della cugina e la

baciò. - Antonietta, addio! - riprese a dire la signora de

Beauséant - siate felice.

Quanto a voi, voi lo siete, voi siete giovane, potete credere

a qualcosa - disse allo studente. - Nel partire da questo

mondo, avrò avuto intorno a me, come alcuni morenti

privilegiati, religiose e sincere emozioni!

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Rastignac se ne andò verso le cinque, dopo aver veduto la

signora de Beauséant nella sua berlina da viaggio, dopo

aver avuto il suo ultimo addio bagnato di lacrime, lacrime

che provavano come le persone più elevate non sono poste

fuori della legge del cuore e non vivono senza dolori, come

vorrebbero far credere al popolo taluni suoi cortigiani.

Eugenio tornò a piedi alla pensione Vauquer, con un tempo

umido e freddo. La sua formazione spirituale s'andava

completando.

- Non riusciremo a salvare il povero papà Goriot - disse

Bianchon a Rastignac, quando questi entrò nella camera

del suo vicino.

- Amico mio - gli rispose Eugenio, dopo aver guardato il

vecchio addormentato - va', segui il destino modesto in cui

limiti le tue aspirazioni. Io mi trovo in un inferno, e devo

restarci. Qualsiasi male ti si dica del mondo, credici! Non

c'è Giovenale che possa dipingerne l'orrore, coperto d'oro e

di pietre preziose.

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L'indomani, Rastignac fu svegliato verso le due del

pomeriggio da Bianchon che, costretto a dover uscire, lo

pregò di assistere papà Goriot, il cui stato era molto

peggiorato durante la mattinata.

- Il bonuomo non ha altri due giorni, non ha forse più

neppure altre sei ore di vita - disse lo studente in medicina

- ma tuttavia non possiamo cessare dal combattere il male.

Bisognerà ora apprestargli cure più costose. Noi saremo i

suoi infermieri, ma io non ho un soldo. Ho rivoltato le sue

tasche, frugato nei suoi armadi: zero al quoziente. L'ho

interrogato in un momento in cui aveva la testa a posto, e

mi ha detto di non possedere neanche un centesimo. Tu,

hai qualcosa ?

- Mi restano in tutto venti franchi - rispose Rastignac -

andrò a giocarli, vincerò.

- E se perdi?

- Chiederò del denaro ai generi e alle figlie.

- E se loro non te lo daranno? - rispose Bianchon - La cosa

più urgente in questo momento non è tanto di trovare il

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denaro, quanto di avvolgere il bonuomo in un senapismo

bollente dai piedi a metà delle cosce. Se grida, ci sarà

qualche speranza. Tu sai come si fa. E poi, ti aiuterà

Cristoforo. Ora passerò dal farmacista per garantirgli

l'ammontare di tutte le medicine che prenderemo da lui. E'

un guaio che il pover'uomo non si possa trasportare al

nostro ospedale, lì sarebbe stato meglio. Su, vieni, ti dirò

quel che devi fare; e non lasciarlo finché io non sia

ritornato.

I due giovani entrarono nella camera dove giaceva il

vecchio.

Eugenio rimase spaventato del mutamento avvenuto in

quel viso convulso, pallido e sfinito.

- Ebbene, papà? - gli disse chinandosi verso il giaciglio.

Goriot levò verso Eugenio i suoi occhi appannati e lo

guardò assai attentamente, ma senza riconoscerlo. Lo

studente non sostenne quello spettacolo, le lacrime gli

inumidirono gli occhi.

- Bianchon, non ci vorrebbero le tendine alle finestre?

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- No, il tempo che fa fuori non ha più effetto su di lui. Dio

volesse che sentisse caldo o freddo. Ma comunque ci vuole

del fuoco per far le tisane e preparare tante altre cose. Ti

manderò un po' di fascine che ci serviranno finché non

avremo la legna.

Tra ieri e questa notte, ho consumato la tua e tutte le

formelle del pover'uomo. C'era tanta umidità; l'acqua

stillava dai muri.

Sono riuscito a scaldare appena la camera. Cristoforo l'ha

spazzata, era proprio una stalla. Vi ho bruciato del ginepro,

tanto era il lezzo.

- Santo Dio - disse Rastignac - ma le sue figlie!

- Senti, se ti chiede da bere, gli darai questo - disse lo

studente mostrando a Rastignac una grande tazza bianca.

- Se si lamenta e il ventre gli diventasse caldo e duro, ti

farai aiutare da Cristoforo per somministrargli... tu mi hai

capito. Nel caso che si agitasse, che parlasse molto, se

insomma cominciasse a vaneggiare, lascialo fare. Non sarà

un cattivo segno. Ma manda subito Cristoforo all'Ospedale

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Cochin. Il nostro medico, un mio collega o io stesso,

verremo ad applicargli delle ventose. Abbiamo avuto,

stamane, mentre dormivi, un consulto con un allievo del

dottor Gall, il primario dell'Hôtel-Dieu e il nostro. Questi

sanitari ritengono di aver riscontrato curiosi sintomi e noi

seguiremo il decorso della malattia per accertare alcuni

aspetti scientifici molto importanti. Uno di loro pensa che

se la pressione del siero si verificasse più su di un organo

che su di un altro, essa potrebbe dar luogo a fatti singolari.

Ascoltalo bene, se si mettesse a parlare, per vedere a qual

genere d'idee si riferiscono i suoi discorsi, se sono effetto di

memoria, di discernimento, di giudizio; se tratta di cose

materiali o di sentimento; se calcola, se torna sul passato;

insomma, sii in grado di farci un resoconto esatto. Se

l'invasione sierosa dovesse avvenire tutta insieme, allora

morirà in uno stato d'ebetudine, come è quello in cui si

trova adesso. Tutto è assai curioso in questo genere di

malattie! Se la bomba scoppiasse qui - fece Bianchon

indicando l'occipite del malato, ci sono esempi di fenomeni

strani: il cervello riacquista alcune sue facoltà, e la morte

sopravviene più lentamente. Le sierosità possono

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abbandonare il cervello e prendere altre vie, e non se ne

conosce il percorso che con l'autopsia. C'è agli Incurables

un vecchio ebete al quale è capitato che il travaso ha preso

la strada della colonna vertebrale; soffre orribilmente, ma

vive.

- Si sono divertite? - chiese papà Goriot, che riconobbe

Eugenio.

- Oh!, non pensa che alle figlie - disse Bianchon. - Mi ha

ripetuto più di cento volte questa notte: "Stanno ballando.

Lei ha il suo vestito". E le chiamava coi loro nomi. Mi

faceva piangere, che il diavolo mi si porti se ti dico bugie!,

con le sue intonazioni: "Delfina!, mia piccola Delfina!,

Nasia!". Parola mia d'onore - disse lo studente in medicina

- c'era da scoppiare in lacrime.

- Delfina - fece il vecchio - lei è là, non è vero? Lo sapevo

bene. - E i suoi occhi riacquistarono un'attività folle per

guardare i muri e l'uscio.

- Scendo per dire a Silvia che prepari i senapismi - esclamò

Bianchon - questo è il momento buono. - Rastignac rimase

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solo vicino al vecchio, seduto ai piedi del suo letto, gli occhi

fissi su quella testa, la cui vista incuteva terrore e ispirava

dolore.

"La signora de Beauséant fugge, costui muore", si disse.

"Le anime belle non possono restare a lungo in questo

mondo. Come, infatti, i nobili sentimenti potrebbero

amalgamarsi con una società meschina, gretta,

superficiale?". Le immagini della festa cui aveva assistito si

riaffacciarono alla sua memoria e contrastarono con lo

spettacolo di quel letto di morte. Bianchon riapparve

subito.

- Senti, Eugenio, ho veduto poco fa il primario, e sono

tornato di corsa. Se si manifestassero sintomi di un ritorno

alla ragione, se parla, coricalo su di un lungo senapismo, in

modo da avvolgerlo nella sénape dalla nuca ai reni, e facci

chiamare.

- Sei molto caro, Bianchon - disse Eugenio.

- Oh, si tratta d'un caso clinico! - replicò lo studente in

medicina, con tutto l'ardore d'un neofita.

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- Insomma - disse Eugenio - sarò dunque il solo ad

assistere questo povero vecchio unicamente per affetto.

- Se mi avessi visto questa mattina, non diresti così - fece

Bianchon, senza per altro offendersi della frase. - I medici,

usi alla pratica, non vedono che la malattia; io vedo ancora

il malato, mio caro ragazzo. - Se ne andò, lasciando

Eugenio solo col vecchio e con la preoccupazione di una

crisi, che non tardò a dichiararsi.

- Ah!, siete voi, mio caro figliolo - disse papà Goriot

riconoscendo Eugenio.

- Vi sentite meglio? - domandò lo studente, prendendogli la

mano.

- Sì, mi sentivo la testa stretta come in una morsa, ma ora

se ne sta liberando. Avete visto le mie figliole? Verranno

qui subito, accorreranno non appena mi sapranno malato,

mi hanno assistito tanto amorosamente in via della

Jussienne! Mio Dio!, vorrei che la mia camera fosse più

pulita, per riceverle. Un giovanotto m'ha consumato tutto il

carbone.

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- Sento venire Cristoforo - gli disse Eugenio - che vi porta

della legna mandatavi da quel giovanotto.

- Bene!, ma come si fa a pagare la legna? Io non ho un

soldo, figliolo mio! Ho tutto donato, tutto. Sono ridotto a

dover chiedere l'elemosina. Ma, almeno, l'abito laminato

era bello?

(Ah!, mi sento male!). Grazie, Cristoforo, Dio vi

ricompenserà, ragazzo mio; io non ho più nulla.

- A te e a Silvia vi ricompenserò bene io - disse Eugenio

all'orecchio del ragazzo.

- Le mie figliole vi hanno detto che sarebbero venute, non

è vero?, Cristoforo? Tornaci, ti regalo cento soldi. Digli che

non mi sento bene, che vorrei abbracciarle, vederle ancora

una volta prima di morire. Digli questo, ma senza

spaventarle troppo. - Cristoforo uscì a un cenno di

Rastignac.

- Stanno per arrivare - riprese a dire il vecchio. - Le

conosco bene. Se muoio, che dolore darei a quella buona

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Delfina! E a Nasia, lo stesso. Non vorrei morire per non

farle piangere.

Morire, mio buon Eugenio, vuol dire non vederle più. Là

dove ce ne andiamo mi annoierò assai. Per un padre

l'inferno è l'esser senza la compagnia dei figli, e io l'ho già

provato da quando esse si sono sposate. Il mio paradiso

era la via della Jussienne. Ma ditemi: se andassi in

paradiso, potrei ritornare sulla terra in spirito intorno a

loro? Ho sentito dire qualcosa di simile. Sarà vero? Mi pare

di vederle in questo momento com'erano in via della

Jussienne. Scendevano, la mattina. "Buon giorno, papà",

mi dicevano. Le prendevo allora sulle mie ginocchia, gli

facevo mille moine, mille scherzucci. E loro mi carezzavano

con tanta grazia!

Facevamo colazione tutte le mattine insieme, pranzavamo,

insomma ero padre, mi godevo le mie figliole. Quand'erano

in via della Jussienne, non facevano tanti ragionamenti,

non sapevano nulla del mondo, mi volevano bene. Mio

Dio!, perché non sono rimaste sempre piccole? (Oh!,

quanto soffro, la testa mi scoppia!) Ah!, ah!, perdonatemi,

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figliole mie, soffro terribilmente, e deve essere proprio un

dolore forte assai, perché voi mi avete fatto diventare ben

resistente al male. Mio Dio!, se avessi solo le loro mani

nelle mie, non sentirei affatto il mio male. Credete che

verranno?

Cristoforo è tanto stupido! Avrei dovuto andarci io stesso.

Lui le vedrà, lui. Ma voi siete stato ieri al ballo. Ditemi,

dunque, com'erano? Non sapevano nulla della mia

malattia, è vero? Non avrebbero allora ballato, povere

piccole! Oh!, non voglio più star male. Hanno ancora

troppo bisogno di me. Le loro fortune sono compromesse.

E di quali mariti sono in balìa! Fatemi guarire, fatemi

guarire. (Oh!, quanto soffro! Ah! ah! ah!) Capite? Bisogna

che guarisca, perché gli serve del denaro, e io so dove

poterlo guadagnare. Andrò a fabbricare amido in aghi a

Odessa. Sono furbo, io, e guadagnerò milioni. (Oh!, soffro

troppo!). - Goriot tacque per un istante e parve fare ogni

sforzo per riunire le sue forze al fine di sopportare il dolore.

- Se loro fossero qui, non mi lamenterei - disse. - E allora

perché lamentarmi?

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Un lieve assopimento sopravvenne, e durò a lungo.

Cristoforo intanto tornò. Rastignac, credendo che papà

Goriot dormisse, lasciò che il domestico gli riferisse ad alta

voce l'esito della sua missione.

- Signore - questi disse - sono andato prima dalla contessa

ma non le ho potuto parlare, perché aveva molto da fare

con suo marito. E siccome insistevo, il signor de Restaud è

venuto lui stesso e mi ha detto proprio così: "Se il signor

Goriot muore, ebbene, è quanto di meglio può fare. Ho

bisogno della signora de Restaud per portare a termine

degli affari importanti, lei ci verrà quando tutto sarà finito".

Pareva molto in collera, quel signore. Mentre stavo per

uscire, la signora è entrata in anticamera da una porta che

non avevo visto, e m'ha detto: "Cristoforo, dì a mio padre

che io sto discutendo con mio marito, e che adesso non

posso lasciarlo; si tratta della vita o della morte dei miei

figli; ma, non appena avrò finito, verrò". Quanto alla

signora baronessa, altra storia! Non l'ho vista, e non le ho

potuto parlare. "Oh!", mi ha detto la cameriera, "la signora

è tornata dal ballo alle cinque e un quarto, e ora dorme; se

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la sveglio prima di mezzogiorno, mi sgrida. Le dirò che suo

padre peggiora, quando mi chiamerà. Per una brutta

notizia c'è sempre tempo". Ho avuto un bel pregare! Ah!,

sì, ho anche chiesto di parlare al signor barone, ma era

uscito.

Nessuna delle figlie verrà! - esclamò Rastignac. - Adesso

scrivo a tutte e due.

- Nessuna - disse il vecchio drizzandosi a sedere sul letto. -

Devono pensare agli affari, dormono: esse non verranno.

Lo sapevo.

Bisogna morire per sapere che cosa sono i figli. Ah!, amico

mio, non prendete moglie, non fate figli! Gli date la vita, e

loro vi danno la morte. Li fate entrare nel mondo, e loro ve

ne discacciano. No, non verranno! So questo da dieci anni.

Me lo dicevo qualche volta, ma non osavo crederlo. - Una

lacrima spuntò in ciascuno dei suoi occhi, si fermò sull'orlo

rosso, e non cadde.

- Ah!, se fossi ricco, se avessi conservato il mio patrimonio,

se non glielo avessi donato, esse sarebbero qui, mi

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leccherebbero le guance coi loro baci! Abiterei in un

palazzo, avrei belle stanze, domestici e fuoco per

riscaldarmi; esse sarebbero tutte in lacrime, coi loro mariti

e i loro figli. Avrei tutto questo. E invece, nulla! Il denaro

procura tutto, anche le figlie. Oh!, il mio denaro, dov'è? Se

avessi tesori da lasciare, esse mi assisterebbero, mi

curerebbero; le sentirei, le vedrei. Ah!, mio caro figliolo,

mio solo figliolo, preferisco l'abbandono in cui sono

lasciato, e la mia miseria! Almeno, quando un poveretto è

amato, è ben sicuro d'essere amato. Ma no!, vorrei essere

ricco, perché allora le vedrei. In fede mia, chi sa? Esse

hanno tutte e due un cuore di pietra. Gli volevo troppo

bene perché ne potessero volere a me. Un padre deve

essere sempre ricco, deve tenere i figli a freno come i

cavalli di cui non c'è da fidarsi. E io che stavo sempre in

ginocchio innanzi a loro! Le sciagurate! Questo è il degno

coronamento d'un modo d'agire verso di me che dura da

dieci anni. Se sapeste come avevano tutti i riguardi per me

nei primi tempi del loro matrimonio! (Oh, sto soffrendo un

crudele martirio!). Avevo dato a ognuna circa

ottocentomila franchi; allora né loro, né i loro mariti

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potevano trattarmi male. Mi ricevevano: "Mio buon papà,

di qui, mio caro padre, di là". Il coperto per me era sempre

pronto in casa loro. Pranzavo coi loro mariti, che mi

trattavano con considerazione. Poteva sembrare che io

possedessi anche qualcos'altro. Perché questo? Perché non

avevo mai parlato dei miei interessi. Un uomo che dà

ottocentomila franchi alle proprie figlie era un uomo da

tenersi da conto. E mi venivano usati tutti i riguardi, ma

era solo per il mio denaro. Il mondo non è bello. L'ho visto

io! Mi portavano in carrozza al teatro, e prendevo parte alle

loro serate fin quando mi pareva.

Insomma, si vantavano d'essere figlie mie, e mi

riconoscevano come padre loro. Non sono mica uno

sciocco, andiamo! e nulla m'è sfuggito. Tutto è stato fatto

con perfida astuzia, e ne ho il cuore trafitto, Lo vedevo

bene che erano tutte finzioni, ma il male non aveva

rimedio. In casa loro non stavo mica senza alcuna

soggezione, come a tavola qui sotto. Non sapevo che dire.

E quando qualcuno del loro ambiente mondano domandava

all'orecchio dei miei generi: "Chi è quel signore lì?". "E' il

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padre con gli scudi, è ricco". "Ah!, caspita!", si diceva, e mi

si guardava col rispetto dovuto agli scudi. E se qualche

volta potevo essergli di disturbo, compensavo lautamente i

miei difetti! D'altronde, chi è perfetto?

(la mia testa è una piaga!). Io sto soffrendo in questo

momento quel che si deve soffrire per morire, mio caro

signor Eugenio; eppure, questo è niente a paragone del

dolore che mi diede il primo sguardo col quale Anastasia mi

fece capire che avevo detto una sciocchezza, di cui si

vergognò: quel suo sguardo mi aprì tutte le vene. Avrei

voluto saper tante cose, ma quel che avevo intanto ben

saputo era che ormai ero di troppo su questa terra.

L'indomani, andai da Delfina per consolarmi, ma pure lì

commisi un'altra sciocchezza che la fece andare in collera.

Ci diventai quasi pazzo. Passai otto giorni senza sapere

quel che dovevo fare.

Non osai più andarle a trovare, per il timore dei loro

rimproveri.

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Ed eccomi messo alla porta dalle mie figlie. Oh, mio Dio!,

tu che conosci le miserie, i patimenti da me sopportati, tu

che hai contato le pugnalate da me ricevute durante tutto

questo tempo che mi ha fatto diventare vecchio, mi ha

cambiato, ucciso, incanutito:

perché mi fai soffrire anche adesso? Ho ben espiato il

peccato d'amarle troppo. Esse si sono ben vendicate del

mio affetto, mi hanno attanagliato come carnefici! Eppure,

i padri sono così sciocchi! Le ho amate tanto, che ci sono

ritornato come un giocatore al gioco. Le mie figlie erano il

mio vizio; erano le mie padrone, insomma tutto. Se

avevano tutte e due bisogno di qualche cosa, di qualche

ornamento, le cameriere me lo dicevano, e io glielo

regalavo per essere bene accolto! E mi hanno dato anche

qualche lezioncina sul modo di comportarmi in società.

Oh!, per darmele, non hanno aspettato il giorno dopo.

Cominciavano a vergognarsi di me. Ecco che cosa vuol dire

dare una buona educazione ai propri figli. Alla mia età non

potevo mica andare a scuola. (Soffro orribilmente, mio

Dio!, e i medici, chiamate i medici! Se mi aprissero la

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testa, soffrirei di meno). Ma le figlie, le mie figlie,

Anastasia!, Delfina! Voglio vederle.

Mandate la gendarmeria a cercarle, la polizia! La giustizia è

dalla parte mia, tutto è dalla parte mia, la natura, il codice

civile. Io protesto. La patria perirà, se i padri sono

calpestati.

Questo è chiaro. La società, il mondo si basano sulla

paternità; tutto crolla se i figli non amano i loro padri. Oh!,

vederle, sentirle, non importa quel che mi diranno, purché

io senta la loro voce, questo calmerà i miei dolori, Delfina

soprattutto. Ma ditegli, quando saranno qui, che non mi

guardino, come fanno sempre, freddamente. Ah!, mio buon

amico, signor Eugenio, voi non sapete cosa sia vedere l'oro

dello sguardo cambiarsi tutto insieme in grigio piombo. Dal

giorno in cui i loro occhi non hanno più raggiato su di me, è

stato sempre inverno qui per me; non ho avuto più che

dolori da ingoiare, e li ho ingoiati! Ho vissuto solo per

essere umiliato, insultato. Le amo tanto, che mandavo giù

tutti gli affronti coi quali mi vendevano una misera gioia

per me vergognosa. Un padre che si deve nascondere per

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vedere le sue figlie! Gli ho dato la mia vita, e loro oggi non

mi daranno neppure un'ora! Ho sete, ho fame, il cuore mi

brucia, e loro non verranno ad alleviare la mia agonia,

perché io muoio, lo sento. Ma non sanno dunque che cosa

vuol dire calpestare il cadavere del loro padre? C'è un Dio

nei cieli, e Lui ci vendica nostro malgrado, noi padri. Oh!,

esse verranno! Venite, mie care, venite ancora a baciarmi,

un ultimo bacio, il viatico di vostro padre, che pregherà Dio

per voi, che Gli dirà che siete state brave figliole, che vi

difenderà! Dopo tutto, siete innocenti. Sono innocenti,

amico mio! Ditelo bene a tutti, e che non siano

rimproverate per causa mia. La colpa è tutta mia, sono io

che le ho abituate a calpestarmi. Mi faceva piacere. Questo

non riguarda nessun altro, né la giustizia umana, né quella

divina. Dio sarebbe ingiusto se le condannasse per causa

mia. Non ho saputo regolarmi, ho avuto il torto di abdicare

i miei diritti. Mi sarei umiliato per loro! Che volete! anche il

miglior carattere, le migliori anime avrebbero ceduto alla

corruzione di questa arrendevolezza paterna. Sono uno

sciagurato, e la mia punizione è giusta. Io solo sono

responsabile dei torti delle mie figlie, sono io che le ho

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guastate. Esse vogliono oggi il piacere, come volevano una

volta le chicche. Gli ho sempre permesso di soddisfare ogni

loro capriccio di giovinette. A quindici anni avevano già

carrozza! Non hanno avuto mai una rémora. Io solo sono

colpevole, ma colpevole per amore. La loro voce mi

allargava il cuore. Le sento arrivare, vengono. Oh!, sì,

verranno. La legge comanda che si vada a veder morire il

padre, la legge sta dalla parte mia. E poi, questo non

costerà che la spesa d'una corsa in vettura. La pagherò io.

Scrivetegli che ho da lasciargli dei milioni! Parola d'onore!

Andrò a fabbricare paste alimentari a Odessa. Conosco il

modo. Col mio progetto c'è da guadagnar milioni. Nessuno

ci ha pensato. E' merce che non si guasterà durante il

trasporto, come il grano o la farina. Eh! eh!, l'amido?

Saranno milioni! Non gli direte una bugia, ditegli che si

tratta proprio di milioni, e, seppure venissero qui per il loro

interesse, preferisco che m'ingannino, ma almeno le vedrò.

Voglio le mie figlie! Le ho fatte io! Sono mie! - disse

drizzandosi a sedere sul letto, mostrando a Eugenio la

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testa dai capelli bianchi sconvolti e che minacciava, con

tutto quel che poteva esprimere minaccia.

- Andiamo - gli disse Eugenio - mettetevi giù, mio buon

papà Goriot, adesso gli scrivo. Non appena Bianchon

tornerà, andrò da loro, se non vengono.

- Se non vengono? - ripeté il vecchio singhiozzando. - Ma

allora mi troveranno morto, morto in un accesso di rabbia,

di rabbia! La rabbia mi prende! In questo momento, rivedo

tutta la mia vita.

Sono stato ingannato! Non mi vogliono più bene, non

m'hanno mai voluto bene!, questo è chiaro. Se non son

venute, non verranno più. Più tarderanno, meno si

decideranno a darmi questa gioia. Le conosco. Esse non

hanno mai saputo capire i miei crucci, i miei dolori, i miei

desideri, e tanto meno si renderanno conto della mia

morte; esse non capiscono neppure il segreto della mia

tenerezza. Sì, lo so, l'abitudine di strapparmi le viscere gli

ha fatto svalutare tutto quel che facevo per loro. Se mi

avessero chiesto di potermi cavar gli occhi, gli avrei detto:

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"Cavatemeli!". Sono troppo stupido... Esse credono che

tutti i padri siano come il loro. Bisogna sempre farsi

rispettare. I loro figli mi vendicheranno. Ma è loro interesse

venir qui. Avvertitele che, così, compromettono la loro

agonia. Commettono tutti i delitti in uno solo. Ma andate

dunque subito da loro, ditegli che il non venire è un

parricidio! Ne hanno già commessi abbastanza, e non c'è

bisogno di aggiungere anche questo; e gridate come faccio

io: "Eh!, Nasia! Eh!, Delfina!, venite da vostro padre, che è

stato così buono con voi, e che ora soffre tanto!". Niente,

nessuno. Dovrò allora morire proprio come un cane? Ecco

come sono ricompensato: con l'abbandono. Sono delle

infami, delle scellerate; le abomino, le maledico; mi leverò

la notte dalla tomba per rimaledirle, perché insomma,

amici miei, ho forse torto?, esse si comportano molto

male!, no? Ma che mi dico? Non mi avete detto che Delfina

è là? E' la migliore delle due. Voi siete mio figlio, Eugenio,

vogliatele bene, siate un padre per lei.

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L'altra è tanto disgraziata. E i loro interessi? Ah!, mio Dio!,

muoio, soffro un po' troppo. Tagliatemi la testa, lasciatemi

soltanto il cuore.

- Cristoforo, andate a cercare Bianchon! - gridò Eugenio,

spaventato dal tono che assumevano i gemiti e le grida del

vecchio, e chiamatemi una vettura.

- Vado a cercare le vostre figlie, mio buon papà Goriot, ve

le porterò qui.

- Con la forza! Con la forza! Chiedete le guardie, i soldati,

tutto! - disse, volgendo verso Eugenio un ultimo sguardo in

cui brillò il senno. - Dite al governo, al procuratore del re

che mi siano condotte qui, lo voglio!

- Ma le avete maledette.

- Chi vi ha detto questo? - rispose il vecchio stupefatto. -

Voi non sapete che le amo, che le adoro! Sono guarito, se

le vedo...

Andate, mio buon vicino, mio caro figliolo, andate, voi siete

tanto buono, voi; vorrei dimostrarvi la mia riconoscenza,

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ma non ho da darvi che la benedizione d'un moribondo.

Ah!, vorrei almeno vedere Delfina, per dirle di

disobbligarmi verso di voi. Se l'altra non può, portatemi qui

quella. Ditele che non le vorrete più bene, se non vuol

venire. Lei vi vuole tanto bene, che verrà.

Da bere! Le viscere mi bruciano! Mettetemi qualcosa sulla

testa.

La mano delle mie figlie, questo mi salverebbe, lo sento...

Mio Dio!, chi rifarà la loro dote, se me ne vado? Voglio

andare a Odessa per loro, a Odessa, per fabbricarvi paste

alimentari.

- Bevete questo - disse Eugenio sollevando il moribondo e

prendendolo col suo braccio sinistro, mentre con l'altro

teneva una tazza piena di tisana.

- Voi sì che dovete amare vostro padre e vostra madre -

disse il vecchio stringendo con le mani già quasi perdute la

mano di Eugenio. - Lo capite che sto per morire senza

vederle, le mie figlie? Aver sempre sete e mai bere, ecco

come ho vissuto per dieci anni... I miei due generi hanno

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ucciso le mie figlie. Sì, non ho più avuto figlie dopo che si

sono sposate. Padri, dite al parlamento di fare una legge

sul matrimonio! E non maritate mai le vostre figlie, se le

amate. Il genero è uno scellerato che tutto corrompe in

una figlia, insudicia tutto. Niente più matrimonio! E' quel

che ci toglie le nostre figlie, e non le abbiamo più quando

moriamo. Fate una legge sulla morte dei padri. Tutto

questo è spaventoso! Vendetta! Sono i miei generi che gli

impediscono di venire. Uccideteli! A morte Restaud, a

morte l'Alsaziano, sono i miei assassini! La morte o le mie

figlie! Ah!, è finita, muoio senza di loro! Loro! Nasia, Fifina,

su, venite dunque!, vostro padre se ne va...

- Mio buon papà Goriot, calmatevi, andiamo, state

tranquillo, non vi agitate.

- Non vederle, ecco l'agonia!

- Le vedrete.

- Davvero? - gridò il vecchio con aria smarrita. - Oh!,

vederle!

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Sto per vederle, sto per sentire la loro voce. Morirò

contento.

Ebbene!, sì, non domando più di vivere, non ci tenevo più,

le mie pene andavano crescendo. Ma vederle, toccare le

loro vesti, ah!, niente altro che le loro vesti, è ben poco,

ma che senta almeno qualcosa di loro! Fatemi prendere i

loro capelli... pelli...

Cadde con la testa sul guanciale, come se avesse ricevuto

un colpo di mazza. Le sue mani si agitarono sulla coperta,

come per prendere i capelli delle figlie.

- Le benedico - disse in uno sforzo supremo... - benedico.

A un tratto si accasciò. In quel momento entrò Bianchon.

- Ho incontrato Cristoforo - disse - ora ti porta una vettura.

- Poi guardò il malato, gli sollevò con forza le palpebre, e i

due studenti videro l'occhio senza più vita, vitreo- Non si

riprenderà - disse Bianchon - almeno non credo. - Gli prese

il polso, lo palpò, mise la mano sul cuore del bonuomo.

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- La macchina cammina ancora; ma nel caso suo è una

disgrazia, sarebbe meglio che morisse subito!

- In fede mia, sì - disse Rastignac.

- Ma tu cos'hai? Sei pallido come la morte.

- Amico mio, ho sentito fino adesso i suoi gridi e i suoi

lamenti.

Ma c'è un Dio! Oh, sì, c'è un Dio, e deve averci preparato

un mondo migliore, altrimenti la nostra terra è un non

senso. Se lo spettacolo non fosse stato così tragico, mi

sarei sciolto in lacrime; ma ho il cuore e lo stomaco

orribilmente stretti.

- Di' su, qui occorrono tante cose; dove trovare i soldi ?

Rastignac cavò di tasca l'orologio.

- Tieni, vallo a impegnare. Non voglio fermarmi per la

strada perché temo di perdere anche un solo minuto, e poi

attendo Cristoforo. Non ho un centesimo, bisognerà pagare

il vetturino quando tornerò.

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Rastignac si precipitò per le scale, e corse in via Helder,

dalla signora de Restaud. Lungo la strada, la sua

immaginazione, colpita dall'orrendo spettacolo cui aveva

assistito, riscaldò la sua indignazione. Quando giunse in

anticamera, e domandò della signora de Restaud, le

risposero che non era possibile vederla.

- Ma - disse al domestico - vengo da parte di suo padre,

che sta morendo.

- Signore, abbiamo ricevuto dal signor conte gli ordini più

severi...

- Se c'è il signor de Restaud, ditegli in quali condizioni

versa suo suocero, e avvertitelo che bisogna che io gli parli

all'istante.

Eugenio attese a lungo.

"Forse in questo momento sta morendo", pensava. Il

domestico l'introdusse nel primo salotto, dove il signor de

Restaud ricevette lo studente in piedi, senza farlo sedere,

dinanzi a un caminetto senza fuoco.

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- Signor conte - gli disse Rastignac - vostro suocero sta

spirando in questo momento in un tugurio infame, senza

neppure un soldo per procurarsi un po' di legna; egli è

proprio in fin di vita, e chiede di rivedere sua figlia.

- Signore - gli rispose freddamente il conte de Restaud, -

avrete avuto modo di accorgervi che io nutro una ben

scarsa affezione per il signor Goriot. Egli ha guastato il

carattere della signora de Restaud, è stato la disgrazia

della mia vita, vedo in lui il nemico della mia tranquillità.

Che muoia, che viva, la cosa mi è del tutto indifferente.

Ecco quali sono i miei sentimenti a suo riguardo. Il mondo

potrà biasimarmi, ma io non mi curo della sua opinione.

Ora ho cose assai più importanti da concludere che non

quella d'occuparmi di quel che penseranno di me degli

sciocchi o degli indifferenti. Quanto alla signora de

Restaud, non è in grado di uscire. E poi, non voglio che

lasci la casa. Dite a suo padre che, non appena avrà

adempiuto i suoi doveri verso me e verso suo figlio, andrà

a vederlo. Se vuol bene a suo padre, potrà essere libera tra

qualche istante...

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- Signor conte, non spetta a me giudicare la vostra

condotta; voi siete il padrone di vostra moglie; ma io posso

contare sulla vostra lealtà, e allora promettetemi solo di

dirle che non ha più un giorno di vita, e che l'ha già

maledetta non vedendola al suo capezzale!

- Diteglielo voi stesso - rispose il signore de Restaud,

colpito dal sentimento d'indignazione che l'accento di

Eugenio tradiva.

Rastignac entrò, accompagnato dal conte, nel salotto dove

la contessa stava abitualmente; la trovò in lacrime,

sprofondata in una poltrona, disperata. Gli fece pietà.

Prima di guardare Rastignac, rivolse a suo marito timidi

sguardi che dimostravano una prostrazione completa delle

sue forze, schiacciate da una tirannia morale e fisica. Il

conte scosse la testa, ed essa si credette allora

incoraggiata a parlare.

- Signore, ho già sentito tutto. Dite a mio padre che, se

conoscesse la situazione in cui mi trovo, mi perdonerebbe.

Non prevedevo anche questo supplizio, esso è al di sopra

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delle mie forze, ma resisterò fino all'ultimo - disse rivolta a

suo marito.

- Sono madre. Dite a mio padre che sono irreprensibile

verso di lui, nonostante le apparenze - esclamò con

disperazione, rivolta allo studente.

Eugenio salutò i due, intuendo l'orribile crisi che quella

donna attraversava, e se ne andò stupefatto. Il tono del

signor de Restaud gli aveva dimostrato l'inutilità del suo

passo, e capì che Anastasia non era più libera. Corse allora

dalla signora de Nucingen, e la trovò ancora a letto.

- Sto male, mio buon amico - gli disse. - Ho preso freddo

nell'uscir dal ballo, ho paura di avere una polmonite, e sto

aspettando il medico...

- Anche se foste in punto di morte - le disse Eugenio

interrompendola - vi dovete trascinare fino a vostro padre.

V'invoca! Se poteste udire il più debole dei suoi gridi, non

vi sentireste più alcun male.

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- Eugenio, mio padre non è forse tanto malato come voi

dite, ma io sarei disperata se dovessi sembrarvi colpevole,

e farò quanto vorrete. Lui, lo so, morirebbe di crepacuore

se la mia malattia divenisse mortale per essere io uscita di

casa. Ebbene, verrò non appena il medico mi avrà visitata.

Ah! perché non avete più l'orologio?- domandò non

vedendo più la catena. Eugenio arrossì. - Eugenio!,

Eugenio, se voi l'aveste già venduto, o perduto... oh!,

questo sarebbe molto brutto. - Lo studente si chinò verso il

letto di Delfina, e le disse all'orecchio:

- Volete saper la verità? Ebbene, sappiatela! Vostro padre

non ha di che comprarsi il sudario nel quale sarà avvolto

stasera. Il vostro orologio è stato impegnato, non avevo

più un soldo.

Delfina saltò d'un sùbito fuori del letto, corse allo scrittoio,

ne trasse la borsa e la tese a Rastignac. Poi suonò, e gridò:

- Ci vengo, ci vengo, Eugenio. Lasciatemi vestire; ma sarò

un mostro! Arriverò prima di voi! Teresa - gridò alla sua

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cameriera - dite al signor de Nucingen che salga subito,

devo parlargli.

Eugenio, felice di poter annunciare al morente la presenza

d'una delle sue figlie, arrivò quasi lieto in via Neuve-

Sainte- Geneviève. Frugò nella borsa per poter pagare

subito il vetturino.

La borsa della giovane signora, così ricca, così elegante,

conteneva sessantasei franchi. Giunto in cima alla scala,

trovò che il chirurgo dell'ospedale stava operando papà

Goriot, sostenuto da Bianchon e sotto la sorveglianza del

medico. Gli applicavano delle ventose alla schiena, ultimo

rimedio della scienza, rimedio inutile.

- Li sentite? - domandava il medico.

Papà Goriot, intravisto lo studente, rispose: - Vengono,

non è vero? - Può cavarsela - disse il chirurgo - parla.

- Sì - rispose Eugenio - Delfina mi segue.

- Oh! - fece Bianchon - parlava delle figlie, e le invoca

come un uomo sul palo, a quanto si dice, dopo l'acqua...

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- Basta - disse il medico al chirurgo - non c'è più nulla da

fare, non lo salveremo.

Bianchon e il chirurgo rimisero il morente disteso sul suo

infetto giaciglio.

- Bisognerebbe però cambiargli la biancheria - disse il

medico. - Sebbene non ci sia alcuna speranza, si deve

rispettare in lui la natura umana. Tornerò, Bianchon - disse

allo studente. - Se si lamentasse ancora, applicategli

dell'oppio sul diaframma.

Il chirurgo e il medico uscirono.

- Andiamo, Eugenio, coraggio, figlio! - disse Bianchon a

Rastignac quando furono soli, - bisogna mettergli una

camicia pulita e cambiare la biancheria. Va' a dire a Silvia

che porti su le lenzuola e che ci venga ad aiutare.

Eugenio scese e trovò la signora Vauquer occupata ad

apparecchiare la tavola insieme a Silvia. Alle prime parole

che le rivolse Rastignac, la vedova gli si avvicinò,

assumendo l'aria agrodolce d'una commerciante sospettosa

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che non voglia né perdere il suo denaro, né urtare il

cliente.

- Caro signor Eugenio - essa rispose - lo sapete bene

quanto me, papà Goriot non ha più un soldo. Dare le

lenzuola a un uomo che sta per morire, significa perderle,

tanto più che se ne dovrà sacrificare una come sudario. Per

cui, voi mi dovete già centoquarantaquattro franchi;

mettete quaranta franchi di lenzuola, e qualche altra

piccola cosa, la candela che vi darà Silvia: tutto questo fa

almeno duecento franchi, che una povera vedova come me

non si può permettere il lusso di perdere. Eh!, insomma,

siate giusto, signor Eugenio; ho perduto già abbastanza in

questi cinque giorni, da quando la jettatura ha preso

stanza in casa mia. Avrei pagato io dieci scudi perché quel

bonuomo se ne fosse già andato i giorni scorsi, come

avevate detto. Il suo stato fa una brutta impressione sui

pensionanti. Se si trattasse d'una lieve indisposizione lo

farei portare all'ospedale. Infine, mettetevi al mio posto. La

mia pensione prima di tutto; essa è la vita, per me.

Eugenio risalì rapidamente da papà Goriot.

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- Bianchon, e il denaro dell'orologio?

- E' sul tavolo, ne restano trecentosessanta e pochi altri

franchi. Con quanto mi hanno dato ho pagato tutto quel

che dovevamo. La ricevuta del Monte di Pietà sta sotto il

denaro.

- Prendete, signora - disse Rastignac dopo aver sceso a

precipizio la scala in preda a un senso d'orrore - saldate i

conti. Il signor Goriot non rimarrà a lungo in casa vostra, e

neppure io...

- Sì, uscirà coi piedi in avanti, il povero bonuomo - essa

disse contandosi duecento franchi con un'aria metà lieta e

metà malinconica.

- Facciamo presto - disse Rastignac.

- Silvia, dategli le lenzuola e andate sopra, ad aiutare

questi signori.

- Non vi dimenticherete di Silvia - disse la signora Vauquer

all'orecchio di Eugenio - ha fatto due nottate.

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Non appena Eugenio ebbe voltato le spalle, la vecchia

corse dalla cuoca:

- Prendi le lenzuola rivoltate, numero sette. Saranno

sempre abbastanza buone per un morto - le disse

all'orecchio.

Eugenio, che aveva già salito qualche gradino della scala,

non sentì le parole della vecchia padrona.

- Su - gli disse Bianchon - cambiamogli la camicia. Tienilo

ritto.

Eugenio si pose a capo del letto e sorresse il moribondo,

cui Bianchon tolse la camicia; il bonuomo fece un gesto

come per conservare qualcosa sul suo petto, ed emise

grida lamentose e inarticolate, come gli animali quando

hanno da esprimere un grande dolore.

- Oh!, oh! - disse Bianchon - vuole una catenina di capelli e

un medaglione che gli abbiamo levato poco fa, per

applicargli i cauteri. Pover'uomo. Bisogna ridargliela. Sta

sul caminetto.

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Eugenio andò a prendere una catenina di capelli intrecciati

biondo cenere, senza dubbio quelli della signora Goriot. In

una faccia del medaglione lesse: Anastasia; nell'altra:

Delfina. Immagine del suo cuore che riposava sempre sul

suo cuore. I boccoli contenuti nel medaglione erano

talmente fini, che dovevano essere stati presi durante la

prima infanzia delle due figlie. Quando il medaglione toccò

il suo petto, il vecchio fece un "han!" prolungato, che

significava una soddisfazione, ma pur spaventosa a

vedersi. Era una delle ultime manifestazioni della sua

sensibilità, che sembrava ritrarsi verso quel centro

sconosciuto da cui partono e a cui s'indirizzano le nostre

simpatie. Il suo viso convulso assunse un aspetto di gioia

malata. I due studenti, colpiti da quel tremendo scoppio di

una forza di sentimento che sopravviveva al pensiero,

piansero calde lacrime sul morente, che gettò un grido di

piacere acuto.

- Nasia! Fifina! - disse.

- Vive ancora - fece Bianchon.

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- E a che gli serve? - disse Silvia.

- A soffrire - rispose Rastignac.

Dopo aver fatto al suo camerata un segno per indicargli

d'imitarlo, Bianchon si mise in ginocchio per poter passare

le sue braccia sotto le gambe del malato, mentre Rastignac

faceva altrettanto dall'altra parte del letto, per poter

passare le sue mani sotto la schiena. Silvia era lì, pronta a

levare le lenzuola non appena il moribondo fosse stato

sollevato, per rimpiazzarle con quelle da lei portate.

Ingannato senza dubbio dalle lacrime, Goriot usò le ultime

sue forze per stendere le mani, incontrò d'ambo i lati del

letto le teste degli studenti, le prese con violenza per i

capelli, e si udì debolmente: "Ah!, miei angeli!".

Due parole, due mormorii accentuati dall'anima, che su

quelle parole s'involò.

- Pover'uomo - disse Silvia intenerita da quella

esclamazione, ove s'era espresso un sentimento supremo

che la più orribile e la più involontaria delle menzogne

aveva esaltato un'ultima volta.

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L'ultimo sospiro di quel padre doveva essere un sospiro di

gioia.

Quel sospiro fu l'espressione di tutta la sua vita:

s'ingannava ancora! Papà Goriot fu pietosamente

riadagiato sul suo giaciglio.

A partire da quel momento, la sua fisionomia conservò la

dolorosa impronta del combattimento impegnato tra la

morte e la vita in un organismo che non aveva più quella

specie di coscienza cerebrale da cui risultano i sentimenti

di piacere e di dolore per l'essere umano. Ma era soltanto

questione di tempo; poi, sarebbe sopravvenuto il

disfacimento.

- Resterà così qualche ora, e morirà senza che ce ne

accorgiamo, non rantolerà neppure. Il cervello deve ormai

essere completamente invaso dal siero.

In quel momento si sentì un passo di giovane donna

ansimante.

- Arriva troppo tardi - disse Rastignac.

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Non era Delfina, era Teresa, la sua cameriera - Signor

Eugenio - disse - è scoppiata una scenata violenta tra il

signore e la signora, a proposito del denaro chiesto dalla

mia povera signora per suo padre. E' svenuta, è accorso il

medico, ha dovuto farle un salasso, e lei gridava: "Mio

padre muore, voglio rivedere il mio papà!". Grida, credete,

da spezzare il cuore.

- Basta, Teresa. Anche se venisse, adesso sarebbe inutile,

papà Goriot ha perduto conoscenza.

- Povero signore, ma allora è molto grave! - disse Teresa.

- Se non avete più bisogno di me, vado a pensare al

pranzo, sono già le quattro e mezza - disse Silvia, che poco

mancò non si scontrasse in cima alla scala con la signora

de Restaud.

Fu un'apparizione grave e terribile, quella della contessa.

Essa guardò il letto del morto, mal rischiarato da una sola

candela, e pianse quando vide la maschera di suo padre,

sulla quale palpitavano ancora gli ultimi sussulti della vita.

Bianchon si ritirò, per discrezione.

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- Non sono arrivata in tempo - disse la contessa a

Rastignac.

Lo studente fece con la testa un cenno affermativo, pieno

di tristezza.

La signora de Restaud prese la mano di suo padre, la

baciò.

- Perdonatemi, padre mio! Dicevate che la mia voce vi

avrebbe richiamato dalla tomba; ebbene! tornate un

momento alla vita per benedire vostra figlia, pentita.

Ascoltatemi. Tutto ciò è spaventoso!, la vostra benedizione

è la sola che io possa ormai ricevere su questa terra. Tutti

mi odiano, voi solo mi amate.

Anche i miei figli mi odieranno. Portatemi con voi, vi

amerò, vi assisterò. Non mi sente più, divento pazza. -

Cadde in ginocchio, e contemplò quel resto umano con una

espressione di delirio. - Nulla più manca alla mia sciagura -

disse guardando Eugenio. - Il signor de Trailles è partito,

lasciando debiti enormi, e ho saputo che mi tradiva. Mio

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marito non mi perdonerà mai, e l'ho lasciato padrone dei

miei averi. Ho perduto tutte le mie illusioni. Ahimè!

per chi ho tradito il solo cuore (indicò suo padre) da cui ero

adorata! L'ho rinnegato, l'ho respinto, gli ho dato mille

dispiaceri, infame che sono!

- Egli lo sapeva - disse Rastignac.

In quel momento papà Goriot schiuse gli occhi, ma per

effetto d'una convulsione. Il gesto che rivelava la speranza

della contessa non fu meno orrendo a vedersi che l'occhio

del morente.

- Mi sentirà? - esclamò la contessa. - No - essa si rispose,

sedendosi vicino al letto.

Avendo la signora de Restaud espresso il desiderio di

vegliare suo padre, Eugenio scese per prendere un po' di

cibo. I pensionanti erano già riuniti.

- Ebbene - gli domandò il pittore - pare che su staremo per

avere un piccolo mortorama, è vero?

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- Carlo - gli rispose Eugenio - mi sembra sarebbe più

opportuno che scherzaste su qualche argomento meno

lugubre.

- Allora qui non si potrà più ridere? - riprese a dire il

pittore.

- Cosa c'è di male, se Bianchon dice che il bonuomo ha

perduto conoscenza?

- E poi - disse l'impiegato al Museo - lui morirà come ha

vissuto.

- Mio padre è morto - gridò la contessa.

A questo grido terribile, Silvia, Rastignac e Bianchon

salirono e trovarono la signora de Restaud svenuta. Dopo

averla fatta rinvenire, la trasportarono nella carrozza che

l'attendeva.

Eugenio l'affidò alle cure di Teresa, ordinandole di condurla

in casa della signora de Nucingen.

- Oh!, è proprio morto - disse Bianchon scendendo.

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- Andiamo, signori, a tavola - disse la signora Vauquer - la

zuppa si fredda.

I due studenti si misero vicini.

- Che si deve fare adesso? - domandò Eugenio a Bianchon.

- Gli ho già chiuso gli occhi, e l'ho composto. Quando il

medico comunale avrà constatato il decesso che adesso

andremo a denunciare, lo si cucirà entro un lenzuolo e lo si

sotterrerà. Che ne sarà di lui?

- Non odorerà più il pane così - disse un pensionante

imitando la smorfia del bonuomo.

- Sacramento!, signori - disse il ripetitore - lasciate stare

papà Goriot, e non ce ne fate fare un'indigestione; è da

un'ora che ci è stato servito in tutte le salse! Uno dei

privilegi della brava città di Parigi è quello di poter nascere,

vivere, morire senza che nessuno ci faccia attenzione.

Approfittiamo perciò dei vantaggi della civiltà. Oggi sono

morte sessanta persone; vi volete proprio impietosire delle

ecatombi parigine? Se papà Goriot è crepato, tanto meglio

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per lui! Se lo adoravate, andate a vegliarlo, e a noi

lasciateci mangiare in pace.

- Oh!, sì - disse la vedova - meglio per lui che sia morto!

Pare che il pover'uomo abbia avuto parecchi dispiaceri,

durante la sua vita.

Questa fu la sola orazione funebre di un essere che, per

Eugenio, rappresentava la Paternità. I quindici pensionanti

si misero a parlare come il solito. Quando Eugenio e

Bianchon ebbero finito di mangiare, il rumore delle

forchette e dei cucchiai, le risa della conversazione, le

diverse espressioni di quelle facce ingorde e indifferenti, la

loro noncuranza, tutto, insomma, li ghiacciò d'orrore.

Uscirono per andare a chiamare un prete che vegliasse e

pregasse durante la notte vicino al morto. Fu loro

necessario limitare gli estremi doveri da compiere verso il

bonuomo entro la piccola somma di cui potevano disporre.

Verso le nove di sera, la salma fu collocata su di una

brandina, tra due candele, in quella camera nuda, e un

prete venne a sedersi accanto a essa. Prima di coricarsi

Rastignac, dopo aver chiesto informazioni al prete sul

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prezzo del servizio funebre e su quello del trasporto,

scrisse due righe al barone de Nucingen e al conte de

Restaud, pregandoli d'inviare loro incaricati per provvedere

a tutte le spese della sepoltura. Mandò loro Cristoforo, poi

si coricò e s'addormentò affranto dalla stanchezza.

L'indomani mattina Bianchon e Rastignac dovettero recarsi

essi stessi a denunciare il decesso, che verso mezzodì fu

constatato. Due ore dopo nessuno dei due generi aveva

inviato il denaro, nessuno s'era presentato a loro nome, e

Rastignac aveva già dovuto pagare gli onorari del prete. E

poiché Silvia aveva domandato dieci franchi per cucire il

bonuomo nel lenzuolo e disporlo nella cassa, Eugenio e

Bianchon calcolarono che, se i parenti del morto non

avessero sopperito ad alcuna spesa, essi sarebbero appena

riusciti a provvedervi. E allora lo studente in medicina

prese lui stesso l'incarico di porre il cadavere in una cassa

da povero, che fece venire dall'ospedale, dove poté pagarla

al minor prezzo.

- Fa' uno scherzo a quei bei tipi là - disse a Eugenio. - Vai

ad acquistare un'area, per cinque anni, al Père-Lachaise, e

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ordina un servizio di terza classe in chiesa e alle pompe

funebri. Se i generi e le figlie si rifiuteranno di rimborsarti,

tu farai incidere sulla tomba queste parole: "Qui giace il

signor Goriot padre della contessa de Restaud e della

baronessa de Nucingen sepolto a spese di due studenti".

Eugenio seguì il consiglio dell'amico solo dopo essere stato

inutilmente dal signore e dalla signora de Nucingen e dal

signore e dalla signora de Restaud. Non poté varcare la

soglia. I portieri avevano ricevuto ordini rigorosi:

- Il signore e la signora - dissero - non ricevono nessuno, è

morto il padre, e sono immersi nel più vivo dolore.

Eugenio aveva ormai sufficiente esperienza del mondo

parigino per sapere che non doveva insistere. Si sentì una

strana stretta al cuore quando si vide nell'impossibilità di

giungere fino a Delfina.

"Vendete un gioiello", le scrisse dalla guardiola del portiere,

"ma che vostro padre sia almeno portato decentemente

alla sua ultima dimora".

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Sigillò il biglietto e pregò il portiere del barone di

consegnarlo a Teresa per la signora; ma il portiere lo

consegnò invece al barone de Nucingen, che lo gettò nel

fuoco. Dopo aver fatto tutti i suoi passi Eugenio tornò verso

le tre alla pensione, e non poté trattenere una lacrima

quando vide, alla porta di servizio, la cassa coperta appena

da un drappo nero, disposta su due sedie, presso quella

strada deserta. Un brutto aspersorio, che nessuno aveva

ancora toccato, era immerso in una piluccia di rame

argentato piena d'acqua benedetta. La porta non era stata

neppure parata a lutto. Era la morte dei poveri, che non ha

fasto, né seguito, né amici, né parenti. Bianchon, costretto

a rimanere in ospedale, aveva scritto due righe a Rastignac

per fargli sapere quanto aveva combinato con la chiesa. Lo

studente gli comunicava che una messa costava troppo,

che bisognava contentarsi del servizio, più economico,

della sola benedizione, e che aveva mandato Cristoforo,

con un biglietto, alle pompe funebri. Nel momento in cui

Eugenio finiva di leggere gli scarabocchi di Bianchon, vide

tra le mani della signora Vauquer il medaglione cerchiato

d'oro che conteneva i capelli delle due figlie.

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- Come avete osato prendere quell'oggetto? - le chiese.

- Diamine, si doveva forse sotterrarlo con quello? - rispose

Silvia: - è d'oro.

- Certo! - riprese Eugenio, indignato - che almeno porti con

sé la sola cosa che possa rappresentare le sue due figlie.

Quando giunse il carro funebre, Eugenio fece riportare su

la cassa, la schiodò e pose religiosamente sul petto del

bonuomo una immagine che si riferiva a un tempo in cui

Delfina e Anastasia erano giovani, vergini e pure, e "non

facevan tanti ragionamenti", com'egli aveva detto nei suoi

gridi di agonizzante. Solo Rastignac e Cristoforo, con due

becchini, accompagnarono il carro che portava il

pover'uomo a Saint-Etienne-du Mont, chiesa poco distante

dalla via Neuve-Sainte-Geneviève. Giunti lì, la cassa fu

portata in una piccola cappella bassa e oscura, nella quale

lo studente cercò invano le due figlie di papà Goriot o i loro

mariti.

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Era solo con Cristoforo, che si credette in dovere di rendere

gli estremi servigi a un uomo che gli aveva fatto

guadagnare qualche buona mancia!

In attesa dei due preti, del chierico e del sagrestano,

Rastignac strinse la mano di Cristoforo, senza poter

pronunciare una parola.

- Sì, signor Eugenio - disse Cristoforo - era un bravo e

onest'uomo, che non alzava mai la voce, che non faceva

danno a nessuno e non ha mai fatto del male.

I due preti, il chierico e il sagrestano entrarono e diedero

tutto quel che si può per settanta franchi in un'epoca in cui

la religione non è così ricca da pregare gratis. Il clero cantò

un salmo, il "Libera", il "De profundis". La funzione durò

venti minuti.

Fuori non c'era che una sola vettura delle pompe funebri

per il prete e il chierico, i quali acconsentirono a ospitare

Eugenio e Cristoforo.

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- Appresso non viene nessuno - disse il prete; - potremo

andare più svelti per non fare tardi; son già le cinque e

mezza.

Ma nel momento in cui la salma fu introdotta nel carro

funebre, due carrozze blasonate, ma vuote, quella del

conte de Restaud e quella del barone de Nucingen,

apparvero e seguirono il convoglio fino al Père-Lachaise.

Alle sei la salma di papà Goriot fu calata nella fossa,

attorno alla quale si trovavano domestici delle sue figlie,

che scomparvero col clero non appena fu recitata la breve

preghiera dovuta al bonuomo per il denaro all'uopo versato

dallo studente.

Quando i due affossatori ebbero gettato poche palate di

terra sulla cassa, per nasconderla, si rialzarono e uno

d'essi, rivolgendosi a Rastignac, gli chiese la mancia.

Eugenio si frugò nella tasca e, non avendovi trovato nulla,

fu costretto a farsi prestare venti soldi da Cristoforo.

Questo particolare, di poca importanza in se stesso,

provocò in Eugenio un senso d'orrenda tristezza. La

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giornata volgeva al tramonto, un umido crepuscolo

eccitava i suoi nervi; guardò la tomba e vi inumò l'ultima

lacrima della sua gioventù, quella lacrima strappata dalle

tante emozioni d'un cuore puro, una di quelle lacrime che,

dalla terra in cui cadono, risalgono fino al cielo. Incrociò le

braccia, contemplò le nubi. Vedendolo in

quell'atteggiamento, Cristoforo pensò bene di lasciarlo.

Rastignac, rimasto solo, fece qualche passo verso la parte

alta del cimitero, e vide Parigi tortuosamente distesa lungo

le due rive della Senna, ove cominciavano ad accendersi i

lumi.

I suoi occhi si fissarono quasi avidamente tra la colonna

della piazza Vendome e la cupola degli Invalidi, là, dove

viveva quel bel mondo nel quale aveva voluto penetrare.

Egli gettò su quell'alveare ronzante uno sguardo che

sembrava assorbirne in anticipo il miele, e pronunciò

queste parole grandiose:

- E ora, a noi due!

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E come primo atto di sfida lanciato alla società, Rastignac

andò a pranzo dalla signora de Nucingen.

Saché, settembre 1834