Pagine da La parte fresca del cuscino 2011_La parte fresca

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Elisa Castellini La parte fresca del cuscino

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Elisa Castellini

La parte fresca del cuscino

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Per te che leggi, per me che ho scritto,per lui che ha vissuto.

E per la Clo che è, ora.

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Carissimo figlio,ho smesso di cucire da qualche tempo. Pensare che i

pantaloncini di lana te li facevo proprio io: sì, proprioquei pantaloncini a maglia molto corti che portavi iprimi tempi alla scuola elementare, quando i tuoi com-pagni di classe ti prendevano in giro perché sembravache sotto il grembiule nero con la spiga d’oro sul pettonon avessi altro che le mutande: come le bambine! Tischernivano. Tornavi a casa per pranzo senza dire nulla,ma mi accorgevo sempre che qualcosa non andava os-servando il tuo mento che tremolava come un budinotriste.

E per evitare lo sguardo di tuo padre, continuavi a pu-lirti la bocca con il tovagliolo per nasconderti finché nonpotevi più trattenere le lacrime. Allora buttavi a terrauna posata e ti ficcavi sotto il tavolo a cercarla, rimanen-doci il tempo sufficiente per asciugarti gli occhi e soffo-care i singhiozzi. Tornavi su, all’aria, alla vista mia e suache fingevamo di nulla nonostante si capisse benissimocos’eri andato a fare là sotto.

Imbastivo come mi avevano insegnato alla scuola dicucito e, prima con la vecchia Singer a pedali, poi conquella elettrica che mi aveva regalato il dottor Giulietti,passavo ore ed ore a sistemare gli abiti di gran sartoriache la Signora acquistava nei negozi di Montenapo-leone.

Mi sono ingobbita facendo quello notte e giorno,giorno e notte. Perché la signora, spesso, prendeva al

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mattino ciò che voleva indossare la sera: senza fretta,senza fretta! Anche la vista è andata indietro: infilare ilfilo nella cruna è via via diventato sempre più difficile, esai bene che non riesco a farlo con quegli infila aghi chemi hai regalato... Mi sforzo e ci riesco, lentamente: manon ho alcuna fretta. Gli anni, i miei che sono sessanta-nove, hanno rallentato gli slanci ma anche l’impazienza.Per cui se non posso fare qualcosa con velocità mi pre-occupo relativamente: sarà saggezza. Lo dico anche allemie amiche e per farci quattro risate spesso diciamo cheè semplice rimbambimento: sai quanto ci divertiamoquando ci ritroviamo tra di noi...

Te ne ho parlato, vero?! Andiamo quasi sempre dallaSantina che ha la cucina più grande e portiamo ciascunaqualcosa per mangiare. L’ultima volta io ho portato lacolomba che mi hai regalato per Pasqua, le altre, chicarne, chi pasta, chi vino. Io non lo bevo, ma la Santinami offre l’aranciata o la Coca Cola: è una brava donna,sfortunata ma brava. Ci conosciamo da quando anda-vamo alle elementari: forse anche da prima ma non melo ricordo. Anche lei è stata a scuola di cucito, poi si èsposata, ha aperto il bar, e da allora ha sempre fatto labarista e quando porta il vassoio, lo fa adesso come al-lora: si è fatta una bella esperienza. Noi amiche l’ab-biamo soprannominata la “bargigia” perché ha sempreavuto un modo di parlare che somiglia a quello dei car-toni animati.

Forse è un soprannome che risale a molto tempo fa,quando nei bar di paese è comparsa la televisione equasi tutti i paesani si radunavano nel suo per vedere iprogrammi di allora. Io ci andavo poco, anzi quasi mai.Mio padre diceva che al bar ci andavano le ragazze frou-frou.

Nonostante io avessi già trent’anni, tuo nonno mi con-

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siderava ancora una bambina, come del resto le altremie sorelle. Era il 1956: a te mancavano ancora due anniper venire al mondo e forse in quel periodo cominciavail mio fidanzamento con tuo padre. Prima ero stata fi-danzata con un ragazzo che poi è andato in America acercare lavoro e fortuna, ma non avendo trovato né l’unoné l’altra ha deciso di sbarcare il lunario vivendo di ac-cattonaggio perché si vergognava a tornare in Italia conle mani vuote.

Be’, poi il lavoro l’ha trovato: ma solo quello.A cucire, oggi, mi fanno male anche le mani. Le dita

si sono riempite di gnocchetti dolorosi e un fastidioso gi-radito compare di tanto in tanto a rompermi le scatole:quando vedo il rossore rido tra me e me pensando chesto fiorendo come i bambini.

Pensare che da giovane ero così brava e veloce! Allascuola di sartoria, la maestra mi diceva che ero la piùportata per il ricamo. Sai, vero, che ho cucito a mano ilcorredo del matrimonio, no? Te l’ho fatto vedere piùvolte ma tu te ne sarai di certo dimenticato.

Dimentichi, tu: per questo ti scrivo queste righe. Per-ché nulla di me, di tuo padre e della tua infanzia vadaperduto: anche se la nostra vita insieme è passata quasitutta in un cortile del centro di Milano.

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Credo di averti parlato del trasloco chissà quantevolte, (quanto del corredo?), ma è con la polvere nerache ricopriva i mobili della guardiola di Milano che hofatto l’inchiostro col quale ora ricarico la penna stilogra-fica. E quella polvere è stata la prima cosa che ho vistaquando abbiamo messo piede nella nuova vita.

Siamo arrivati al mattino presto. Troppo presto. Da noi al paese, presto voleva dire già

alle cinque del mattino e noi, col nostro piccolo camion,ci siamo presentati dal custode del palazzo a quell’ora.Immaginati la sua faccia sbigottita e assonnata quandoè venuto ad aprirci!

«Che fate qui a quest’ora, benedetta gente!?».Si chiamava come tuo padre ed era una persona

buona. Dopo aver brontolato per dieci minuti si mise aridere di gusto e ci offrì il caffé. Piano piano, ci fece ve-dere la casa in cui avremmo vissuto per venticinqueanni. Una casa divisa. Da una parte la guardiola e poi,dopo aver attraversato un lungo corridoio con il pavi-mento in marmo fatto a piccoli triangoli colorati, eccola camera da letto. Una, grande, con i soffitti altissimi,imbiancata chissà quando: i caloriferi, che vedevamo perla prima volta, avevano annerito le pareti di quellapiazza d’armi in cui il nostro letto sembrava un mate-rassino nell’oceano di legno del pavimento. Quanta ceraho dovuto passare per farlo tornare lucido! E quantemani di pittura sul muro ha dovuto dare tuo padreprima che il bianco coprisse le macchie scure! Ridendo

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diceva che le pareti erano diventate più spesse. Usavauna vecchia scala di legno molto alta per imbiancare ilsoffitto e un giorno è caduto con secchio, pennelli e com-pagnia bella. Per un pelo non ha rischiato di farsi male,ma allora aveva trentadue anni ed era piuttosto agile: sifece qualche ammaccatura sulle ginocchia, niente di più.Imprecò molto per la vernice che aveva imburrato il pa-vimento di legno a lisca di pesce: abbiamo passato lagiornata intera ad asciugare e scrostare!

(Due o tre parolacce devo averle dette anch’io inquell’occasione... ).

La sera eravamo sfiniti e invece di mangiare come deicristiani, abbiamo cenato con latte e biscotti secchi. Eforse abbiamo anche riso. Poco, però, perché ci mancavi:eri rimasto dalla zia al paese e avevi appena compiutodue anni.

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Un paio di volte mi hai detto di aver sognato la primacasa in cui abbiamo abitato al paesello, con il tavolo alcentro della cucina e il lavandino di pietra proprio difronte a quel divano che ci avevano prestato. Quello diorganza blu che spesso, guarda caso, dovevo rattopparecon la tela dei pantaloni da lavoro di tuo papà. E il tuosogno è quasi più preciso dei miei ricordi, tanto che hoil sospetto di esserne condizionata (ma la credenza eraa destra o a sinistra della finestra che dava sulla strada?).Mi hai raccontato anche delle scale che salivano alla ca-mera, così gelata d’inverno, che il contenuto dei pitali siscioglieva solo verso mezzogiorno.

Ah, quella camera! Quando sei arrivato, tuo padre ti ha fatto una culla di

legno di massello così pesante che dovevamo portarla indue, e quando lui non c’era, ed è accaduto spesso, do-vevo farmi aiutare da tua nonna e da mia sorella per tra-sportarla di sopra. L’aveva fatta così pesante perchédiceva che più era spessa e più era calda. E devo direche non ti sei mai lamentato nemmeno di notte. Faceviun piccolo grido solo quando avevi fame. Eri ben avvoltoda strati e strati di copertine che ti facevo con l’uncinetto:mi viene da ridere a pensare che l’ultima te l’ho fattadue anni fa. Be’, non così piccola, ma altrettanto calda!

Brrr. Certe volte era così mortificante il freddo che timettevamo nel lettone in mezzo a noi e quando non civolevi stare mi svegliavo ogni dieci minuti per controllareche respirassi ancora nella culla. Vedevo quella piccolis-

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sima nuvoletta densa sopra il tuo visino rotondo e mitranquillizzavo.

Pensa che quando poppavi di notte, perché il mio lattete l’ho dato finché avevi più di un anno, mettevo una co-perta attorno al seno perché temevo che potessi suc-chiarlo gelato. Sarebbe stato il primo ghiacciolo al lattematerno, t’immagini?!

A proposito... Hai più avuto problemi con le cosefredde? Ci hai fatto prendere degli spaventi... Svenivi.Mangiavi un gelato o chessò io, la pera fredda ed eccotisteso per terra privo di conoscenza: ti è successo anchequando eri già sposato, per una pera appunto che avevipreso nella sala della nostra casa di Liano. Di notte ti seialzato e sei caduto come un sasso: quando ti sei ripresohai detto a tua moglie: «Oi, oi, oi...».

Si, perché fin da piccolo non ti sei mai lamentatotroppo. Piangevi poco, e mai quando ti sbucciavi, ma soloquando ci restavi male per qualcosa che ti veniva detto:sei sempre stato un po’ permaloso. Sul mento comparivail “budino triste” e sparivi per un’oretta nella tua camerasconsolato e inconsolabile. Nemmeno io potevo avvici-narti: piangere era un tuo momento intimo, personale,e il mondo non vi era ammesso.

Tanta intimità in quella guardiola di Via A. non eraconcessa a nessuno di noi. Anche all’ora di pranzo c’erasempre qualcuno che batteva il vetro dello spioncino ecuriosava chiedendo a che piano fosse il tale o il talaltro:e per fare il simpaticone spesso, qualcuno cercava di in-dovinare cosa avessi cucinato.

«Mmmm, che buon profumo di minestrone... m’in-vita, signora?».

«Oggi pasta e fagioli: altro che mensa... domani ve-niamo tutti qui da lei a pranzo, c’invita?».

Per non contare quelli che proprio rompevano le sca-

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tole e si fermavano sulla soglia della cucina per guardaremeglio i piatti che c’erano in tavola. Spesso tuo padreha litigato con questa gente, anche vivacemente. Io cer-cavo di calmarlo, ho sempre cercato di calmarlo. Tuopadre non è mai stato calmo! Ma forse, in quell’am-biente era proprio così che bisognava fare.

Cercavano un autista custode per Milano i signori D.,e noi, appena sposati, andammo al colloquio fissato nellavilla di Gargnano.

Ci sono circa nove chilometri da Liano a Gargnano eper risparmiare ce li siamo fatti a piedi con passo spe-dito. E vestiti dalla festa. Mi facevano male i piedi: avevole scarpe del matrimonio e tuo padre, invece, indossavai suoi scarponi da lavoro nonostante le mie proteste:

«Sono un contadino! Se mi vogliono non sarà certoper le mie scarpe!».

Comunque suoniamo il campanello della villa e civiene ad aprire la custode di allora che conosceva i ge-nitori di tuo padre.

«Aspettate qui, vado a chiamare i signori D.!».Io avevo un po’ di tremarella, anche perché, quella fa-

miglia, era considerata una delle più ricche d’Italia. Ori-ginaria di Gargnano, ne aveva poi costruito gli edificipiù importanti e quasi tutte le strade del paesotto e dimolti altri paesotti, comprese le piazze: era un susseg-guirsi di via D., piazza D., palazzo D., ospedale D., mo-numento a D.

In attesa dei signori D. io ero proprio di fronte al bustoin marmo nero dello zio D. che devo dire m’incutevasoggezione. Ogni tanto lanciavo un’occhiata verso ilbosco per rinfrescarmi con la vista del nos lach: lo zio D.però aveva un che di ipnotico anche per tuo padre cheinizialmente gli voltava le spalle:

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«Me par d’erghe du öc’ ’nde la schina!».Passiamo lì come due statue circa mezz’ora e final-

mente dal bosco, molto indaffarati, spuntano il signoree la signora D. Belli, giovani, cordiali e simpatici: nientea che vedere con lo zio D. Io sono emozionatissima enon dico altro che «buongiorno». Tuo padre, probabil-mente forte delle sue scarpe da lavoro, parla e rispondea tono: lui ha avuto la fortuna di leggere i pezzi di gior-nale con cui sua madre in bottega accartocciava le uova.E inoltre non si è mai vergognato di parlare in dialetto:dialetto che il signor D. capiva bene.

La signora D., tedesca, invece non capiva un’acca masorrideva così bene che sembrava una mannequin. Erauna bellissima ragazza con un viso così fresco e un’ariaorientale che quasi abbagliava. Prima di conoscere il si-gnor D. andava in giro per il mondo a fotografare per-sonaggi famosi: Hemingway, Picasso, Kennedy, la Garboe Fidel Castro li ha senz’altro conosciuti e click con la suamacchina fotografica.

Io mi dico: come si faceva a dire di no a una donnacosì bella?

Fatto sta che finito il breve colloquio, il signor D., cidice che ci avrebbe fatto sapere entro breve. Ci salutanocon molta cordialità e ce ne andiamo, non senza esserepassati prima davanti al busto dello zio D.

«Ciao šio D. e fa ’l bravo!».

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