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RESTITUZIONE PROSPETTICAForza e violenza:nodo del conflitto socialedi Giovanna Cracco

POLEMOSFree jobs: il lavoro gratuitoda Expo 2015 al Jobs Act e oltredi Adam Arvidsson, AndreaFumagalli e Domenico Vitale

Astensionismo tra disaffezionee riscatto socialedi Giovanna Baer

L’INTERVENTOLo sport fascistanell'Europa degli anni Trentadi Paul Dietschy

(DIS)ORIENTAMENTIIl Front national franeoliberismo, destra socialee preferenza nazionaledi Matteo Luca Andriola

A PROPOSITO DI...No Commercial PotentialBreve storia della rivista Il delatoredi Giuseppe Ciarallo

Ken Loach e William McIlvanney:testimoni del mondo operaioe dei diseredati britannicidi Carmine Mezzacappa

FILO-LOGICOFiduciadi Felice Bonalumi

SOTTO I RI(F)LETTORIGiocando a essere DioRecensione de Gli anni fulgenti diMiss Brodie, di Muriel Sparkdi Sabrina Campolongo

LE INSOLITE NOTECollettivo T. MonkUgly Beautydi Augusto Q. Bruni

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DIRETTORE EDITORIALEGiovanna Cracco

GLI AUTORI DI QUESTO NUMEROMatteo Luca AndriolaAdam ArvidssonGiovanna BaerFelice BonalumiRaffaella BrioschiAugusto Q. BruniSabrina CampolongoGiuseppe CiaralloAndrea CocciGiovanna CraccoAntonello CrestiPaul DietschyAndrea FumagalliCarmine MezzacappaMilton RogasVanina SartorioDomenico Vitale

Fotografie di Giulia Zucca

Le collaborazioni a questa rivista sonoa titolo gratuito. Tutti i testi, salvodiversamente indicato, sono soggetti a licenza Creative Commons – Attribuzione, Non commerciale, Non opere derivate, 2.5 Italia. I testi proposti per un'eventuale pubblicazione non vengono restituiti e vanno inviati a:[email protected]

IN COPERTINA1° maggio 2015, Milano, MaydayFotografia di Giulia Zucca

anno IX – numero 43giugno / settembre 2015pubblicazione bimestrale (5 numeri annuali)prezzo di copertina 8,00 euroautorizzazione tribunale di Monza n. 1429registro periodici, del 13/12/1999

SOCIETÀ EDITRICEMcNelly s.r.l.Via A. Villa 44 - Vedano al Lambro (MB)

DIRETTORE RESPONSABILEValter Pozzi

SEGRETARIA DI REDAZIONEGiusy Mancinelli

PROGETTO GRAFICOPaginauno

ABBONAMENTO ANNUALEordinario 35,00 eurosostenitore 50,00 euroc/c postale n. 78810553 intestato Valter Pozzib/b IBAN: IT 41 V 07601 01600 [email protected]

NUMERI ARRETRATIPer ricevere i numeri arretrati scrivere a:[email protected]

STAMPAFinsol s.r.l.via Prenestina Nuova 301/C3, Palestrina (RM)www.finsol.it - [email protected]

Chiuso in redazione il 29 maggio 2015www.rivistapaginauno.it

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In questo numero

Proteste di piazza e stigmatizzazione della violenza: tra blackbloc e manifestazioni pacifiche, quale futuro per il conflittosociale. Free jobs, la nuova frontiera del lavoro: da Expo2015 al Jobs Act, il nuovo mercato del lavoro gratuito che sinutre di immaginario. Astensionismo elettorale, oltre la di-saffezione: rivendicazione di appartenenza a una ideologiapolitica che non trova più partiti a rappresentarla. Il Frontnational di Marine Le Pen: neoliberismo, destra sociale epreferenza nazionale.

E ancora: Lo sport fascista nell'Europa degli anni Trenta:modello, sfida, mezzo di controllo e cultura del consumo. Fi-ducia, sentimento alla base delle relazioni sociali. La storicarivista Il delatore. Ken Loach e William McIlvanney, cinemae letteratura come impegno sociale. Recensioni musicali, diromanzi, saggi e film, e la copertina di Giulia Zucca.

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SOMMARIO

_ RESTITUZIONE PROSPETTICA pag. 6 Forza e violenza: nodo del conflitto sociale di Giovanna Cracco

_ POLEMOSpag. 12 Free jobs: il lavoro gratuito da Expo 2015 al Jobs Act e oltre di Adam Arvidsson, Andrea Fumagalli e Domenico Vitale _pag. 22 Astensionismo tra disaffezione e riscatto sociale di Giovanna Baer

_ L'INTERVENTOpag. 30 Lo sport fascista nell'Europa degli anni Trenta di Paul Dietschy _ (DIS)ORIENTAMENTIpag. 40 Il Front national fra neoliberismo, destra sociale e preferenza nazionale di Matteo Luca Andriola

_ A PROPOSITO DI...pag. 50 No Commercial Potential Breve storia della rivista Il delatore pubblicazione di belle lettere e storia di Giuseppe Ciarallo _ pag. 56 Ken Loach e William McIlvanney: testimoni del mondo operaio e dei diseredati britannici di Carmine Mezzacappa

_ FILO-LOGICOpag. 66 Fiducia di Felice Bonalumi

_ SOTTO I RI(F)LETTORIpag. 72 Giocando a essere Dio Recensione de Gli anni fulgenti di Miss Brodie, di Muriel Spark di Sabrina Campolongo

_ IN LIBRERIA – narrativapag. 80 Epitaffio per i vivi. La fuga Christa Wolf (R. Brioschi) Lo scandalo Wapshot John Cheever (V. Sartorio) La cosa nella foresta A.S. Byatt (Milton Rogas)

_ IN LIBRERIA – saggisticapag. 81 Black bloc Franco Fracassi (G. Cracco) Il nuovo spirito del capitalismo Luc Boltanski e Ève Chiapello (A. Cresti) Capitalismo, desiderio e servitù Frédéric Lordon (Milton Rogas) _ LE INSOLITE NOTEpag. 82 Collettivo T. Monk Ugly Beauty di Augusto Q. Bruni

_ ZONA FRANCApag. 88 Arcana, Giulio Questi Bed time, Jaume Balagueró La parola ai giurati, Sidney Lumet di Andrea Cocci

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RESTITUZIONE PROSPETTICA

“Si dura una gran fatica per compren-dere la violenza proletaria quando sicerca di ragionare secondo le ideeche la filosofia borghese ha diffusonel mondo; secondo questa filosofia,la violenza sarebbe un residuo dellabarbarie e sarebbe destinata a scom-parire con la progressiva influenza deilumi.”George Sorel, Riflessioni sulla violenza

Rileggere oggi Riflessioni sulla violen-za di Sorel, pubblicato nel 1908, è unbuon esercizio intellettuale. Aiuta a te-nere vigile la capacità critica, che ilcanto delle sirene della retorica de-mocratica, della civile società pacifi-

cata, pone continuamente sotto mi-naccia di assopimento. Il testo col-pisce per l’attualità di alcune anali-si, accanto a considerazioni oggi de-cisamente fuori tempo.

Sorel – che può essere inscrit-to nel filone del ‘sindacalismo ri-voluzionario’ – individuava nel mitodello sciopero generale l’unica levain grado di innescare una rivolu-zione socialista, che avrebbe ab-battuto lo Stato democratico bor-ghese e creato i presupposti per lanascita di una nuova società. Nonsi poneva il problema della pro-

gettualità politica della futura socie-tà, solo di abbattere quella esistente;

ciò che sarebbe venuto dopo, si sa-rebbe immaginato dopo.

Considerava la via parlamentare,intrapresa dai socialisti progressisti,una presa in giro: un bieco opportu-nismo da politicante, un “pantano de-mocratico”, il vicolo cieco che avreb-be portato il socialismo alla morte. I“socialisti cosiddetti rivoluzionari delParlamento” si erano venduti alla fi-losofia borghese, divenendo sosteni-tori del sistema capitalistico. Da qui,la necessità di una netta separazionetra le classi sociali, per mantenere l’au-tonomia culturale e politica della clas-se subalterna e contrastare l’imbor-ghesimento che già si affacciava an-che tra i lavoratori. Dietro il riformi-smo, dietro “le persone per bene, i de-mocratici devoti alla causa dei Dirittidell’Uomo” (1), dietro i “fabbricanti dipace sociale”, Sorel individuava l’usostrumentale degli astratti valori del-l’Illuminismo – imposti culturalmen-te agli operai per impedire loro di ri-bellarsi con la violenza allo sfrutta-mento – divenuti sovrastruttura diquello che oggi definiremmo pensie-ro unico: la falsa contrapposizione par-lamentare destra/sinistra che tiene inpiedi il sistema capitalistico. Di que-sto gioco delle parti, lo Stato borghe-se democratico si faceva garante, dun-que non era, per sua natura, riforma-bile; occorreva abbatterlo. E non c’e-ra altra via che l’uso della violenza.

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di Giovanna Cracco

Forza e violenza: nodo del conflitto sociale

Per Sorel lamorale non è

quella delsingolo

individuoma quella diuna società:il tema della

violenza è unproblema

politico e unaquestione

di prassi

__________________________________________________________________________________________________1) Corsivo nel testo. Se non diversamente indicato, in tutto l’articolo i corsivi inseriti nellecitazioni da Sorel sono contenuti nel testo originale: G. Sorel, Scritti politici. Riflessioni sullaviolenza, Le illusioni del progresso, La decomposizione del marxismo, Utet

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Sorel si rifiuta di porre il tema sulpiano morale; ne fa una questione diprassi. O meglio: il problema è politi-co. Per Sorel infatti la morale non èquella del singolo individuo ma quel-la di una società. Dunque: “Non si trat-ta qui di giustificare i violenti, ma disapere quale è nel socialismo contem-poraneo il compito della violenza del-le masse operaie. […] Non bisognaesaminare gli effetti della violenzapartendo dai risultati immediati cheessa può produrre, ma dalle sue con-seguenze lontane. Non bisogna chie-dersi se essa possa recare agli operaidi oggi più o meno vantaggi immedia-ti di quanti ne comporterebbe una ac-corta diplomazia, ma chiedersi qualeè il risultato della introduzione dellaviolenza nei rapporti tra il proletaria-to e la società”.

Si tratta anche della distinzionetra ‘forza’ e ‘violenza’: “I termini for-za e violenza vengono adoperati allostesso modo sia per le azioni delleautorità che per quelle dei rivoltosi.È chiaro che i due casi danno luogo aconseguenze ben diverse. Io sono delparere che sarebbe tanto di guada-gnato adottare una terminologia chenon desse luogo a nessuna ambigui-tà, e che bisognerebbe riservare il ter-mine violenza per la seconda acce-zione; diremo dunque che la forza haper oggetto di imporre la organizza-zione di un certo ordine sociale nelquale governa una minoranza, men-tre la violenza tende alla distruzionedi questo ordine. La borghesia ha fat-to uso della forza sino agli inizi dei

tempi moderni, mentre il proletaria-to reagisce adesso con la violenza con-tro di essa e contro lo Stato”.

La violenza quindi, praticata all’in-terno degli scioperi, esercitata fuoridal controllo “di chi per professionefa della politica parlamentare”, radi-calizza la lotta di classe – che i rifor-misti tendono invece a epurare delconcetto di violenza – e riporta nellasocietà quel conflitto necessario adabbatterla.

Il primo maggio scorso, a Milano, so-no scese in piazza entrambe le posi-zioni politiche: quella riformista, con-vinta che le cose possano essere cam-biate per via democratica, parlamen-tare e pacifica, e quella che non lo ri-tiene possibile, e utilizza la violenzaper opporsi all’attuale sistema politi-co ed economico. Le due prassi si so-no plasticamente confrontate non tan-to nel corteo del Mayday No Expo –dove hanno certamente condiviso spa-zio e temporalità, essendo entrambepresenti – quanto nell’inaugurazionedell’Expo inscenata la mattina dal cen-tro sociale Sos Fornace presso i tor-nelli di ingresso dell’Esposizione, e laviolenza messa in atto nel pomerig-gio dai black bloc durante la manife-stazione.

La prima ha utilizzato il registro delsarcasmo per comunicare e denun-ciare la precarietà, lo sfruttamento,la corruzione e il malaffare che hannocostruito e tuttora sostengono Expo.Un piccolo gruppo di una trentina diattivisti, a viso scoperto, travestiti da

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Dopo ogni azione dei black bloc si assiste allacorsa alla condannadella pratica violenta siada parte dei divulgatoridel pensiero unico chedel mondo ‘antagonista’

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RESTITUZIONE PROSPETTICA

hostess e lavoratori volontari di Expo,ha messo in piedi una scenetta di die-

ci minuti con tanto di taglio del na-stro, coriandoli e stelle filanti, e me-gafono alla mano ha espresso lapropria opinione politica: “Oggi, 1°maggio 2015, all’apertura dei can-celli di Expo, i precari della metro-poli danno il benvenuto alla gran-de Esposizione Universale […] en-trando nel grande sito di Expo 2015potrete osservare da vicino la bio-diversità precaria, straordinari esem-pi di precarie e precari di varie spe-cie e affascinanti caratteristiche: sicomincia da 340 apprendisti fino a29 anni, 195 stagisti con un sem-plice rimborso spese e tirocinantinon pagati” (2). La Fornace, centrosociale di Rho, è una delle realtàpiù attive tra le diverse che hannocercato di contrastare l’organizza-zione di Expo fin dalla candidaturadi Milano del 2006, con manifesta-zioni, dibattiti, cercando di creare

una rete con il territorio, di informa-re e coinvolgere i cittadini, di con-frontarsi con le istituzioni.

La seconda prassi, quella dei blackbloc, si è espressa per le strade diMilano, a volto coperto: ha distruttovetrine, dato fuoco ad alcune auto ecercato di sfondare i blocchi della po-lizia posti lungo il percorso della ma-nifestazione. Se analizziamo il corteodal punto di vista dei suoi spezzoni –i centri sociali, i comitati, le organiz-zazioni, le associazioni – è indubbioche quello dei black bloc era tra i piùnumerosi: a occhio e croce, tra 800 e1.000 persone (su 30.000 totali, se-condo le stime ufficiali). Compatte, or-ganizzate e determinate.

Non è facile analizzare la galassiainternazionale black bloc: non comu-nica, e ancora meno dialoga, con icittadini e le istituzioni; si pone in po-sizione altra rispetto alla società, ope-rando una separazione netta. Non esi-ste un manifesto politico né portavo-ce o referenti; i militanti proteggonoil proprio anonimato (posizione com-prensibile, dato che compiono atti il-legali a termini di legge) ed è nota laloro avversione per la stampa (diffici-le dargli torto, visto il livello di collu-sione/servilismo dell’informazione uf-ficiale con il potere politico ed econo-mico). Gli unici documenti pubblici so-no interviste rilasciate da alcuni atti-visti, sotto anonimato, che parlano atitolo personale.

Mettendole insieme, si può ten-tare di fare una sintesi del pensieropolitico: il black bloc non è un movi-mento né una organizzazione, è unaprassi, un metodo di lotta che si ca-ratterizza per l’utilizzo della violenzadurante le proteste a carattere inter-nazionale (contro la Bce, il Fmi, la Bm,il Wto, il G8 ecc.); non esiste quindiuna struttura, né alcuna gerarchia, nonci sono riunioni di vertice; è la rico-noscibilità della pratica politica, l’usodella violenza, che li aggrega e li ren-de compatti; l’ideologia sottostantela prassi è quella no global e antica-pitalista; la violenza va esercitata solosulle cose, non sulle persone – anchelo scontro con le forze dell’ordine vaevitato, quando possibile – ed è unaviolenza mirata contro le sedi dellemultinazionali, delle banche, e in ge-nerale contro i simboli del capitali-smo globale; il fine è abbattere il si-stema, politico ed economico, giudi-cato non riformabile, e non esiste unprogetto sul tipo di società da costrui-re dopo; l’obiettivo è il piano simbo-lico: i black bloc sanno bene che man-

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L’ideologiapacifista fatica a

fermare ilpensiero sulconcetto di

violenza al puntoda non riuscire a

operare unadifferenza fra

quella sulle cosee quella sullepersone né a

chiedersi se siapiù violenta la

forza dello Statocon le sue

praticheneoliberiste ola violenza dei

black bloc

______________________________________________2) Per il testo completo: Expo 2015. SOS For-nace contesta l’inaugurazione, www.rivista-paginauno.it

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Forza e violenza: nodo del conflitto sociale

dare in pezzi anche cento vetrine, an-che dieci volte l’anno (ragionando pereccesso), non mette in crisi il siste-ma: è il campo dell’immaginario chevogliono incrinare, quello del brand,della globalizzazione; infine, l’uso si-stematico della violenza mira a ripor-tare all’interno della società la prati-ca conflittuale come fenomeno diffu-so e allargato – la logica non è dun-que quella dell’avanguardia dei grup-pi armati degli anni Settanta (i blackbloc non sono armati e non voglionoentrare in clandestinità). Si può quin-di dire, ma questa è una conclusionedi chi scrive, che mirano a innescareuna rivoluzione.

Anche se vi sono evidenti similitudinicon il pensiero di Sorel, non si inten-de qui fare un parallelismo – impro-ponibile per ragioni politiche, econo-miche, sociali, ideologiche – tra i blackbloc e il sindacalismo rivoluzionariodei primi del Novecento – sconfitto,tra l’altro, dalla storia: la rivoluzione

socialista non c’è stata, e ancora menola dinamica dello sciopero generalel’ha mai innescata. Il richiamo a Sorelvuole solo essere funzionale a mostra-re quanto la stigmatizzazione della vio-lenza politica – senza se e senza ma,recita oggi il conformismo benpen-sante – impedisca di fare analisi arti-colate.

Dopo ogni azione dei black bloc siassiste alla corsa alla condanna dellapratica violenta, sia da parte dei di-vulgatori del pensiero unico – ed ècomprensibile quanto scontato – chedel mondo ‘antagonista’ – ed è già me-no comprensibile. L’ideologia pacifi-sta – che fatica a fermare il pensierosul concetto di violenza, al punto danon riuscire a operare una differenzafra quella sulle cose e quella sullepersone, né a chiedersi se, per tor-nare a Sorel, sia più violenta la forzadello Stato, con le sue pratiche neoli-beriste, o la violenza dei black bloc –attiva automaticamente una serie didispositivi delegittimanti per non ri-

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1° maggio 2015MilanoSos Fornace contesta l'inaugurazionedi Expo 2015.Foto byGiulia Zucca

Il richiamo a Sorel è funzionalea mostrare quanto la stigmatizzazione della violenza politica impediscadi fare analisi articolate

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RESTITUZIONE PROSPETTICA

conoscere una soggettività politica allarealtà black bloc: sono poliziotti tra-vestiti, sono infiltrati dalle forze del-l’ordine, sono manovrati dai servizi se-greti, sono d’accordo con i servizi se-greti. Sono uno strumento – è la va-lutazione conseguente – più o menoconsapevole del potere, che li utiliz-za per giustificare la repressione diun movimento politico di opposizio-ne pacifico e democratico; e per si-lenziarlo, perché la violenza cancellale motivazioni della protesta, e dallasera stessa sui media si discute solodegli atti vandalici e non delle ragio-ni per cui migliaia di persone sono sce-se in piazza.

Se non sono tutto questo, sononulla più che teppisti delinquenti.

Tentativi di infiltrazione sono fa-cilmente ipotizzabili – è una consue-ta pratica del potere per cercare digestire le opposizioni sociali – così co-me non è da escludere la presenza dipersone apolitiche, semplicemente fru-strate e disadattate (come ci si puòadattare a questa società?); che poi

durante la fase della violenza, ci rimet-ta anche la vetrina di una pasticce-ria, o qualche auto, fa parte della di-namica della rabbia che esplode. Matutto questo non significa che il blackbloc non sia un soggetto politico.

Il punto è che riconoscerlo cometale, significa doversi confrontare; ilpensiero unico non intende farlo, quin-di è ovvia la manovra di delegittima-zione; ma che abbia lo stesso atteg-giamento quella sinistra sociale che sioppone alle politiche neoliberiste, èavvilente.

Se il ‘movimento politico di op-posizione pacifico e democratico’ vo-lesse fare un’analisi articolata, do-vrebbe essere drammaticamente piùonesto con se stesso: che cosa ha ot-tenuto fino a ora? Nulla. L’Expo è qui,a macinare utili per le multinazionalisulle spalle di lavoratori precari, vo-lontari, sfruttati, privi di diritti e tute-le, dopo aver ingrassato mafie e pra-tiche corruttive; anni di proteste pa-cifiche non hanno scalfito la globaliz-zazione, le politiche neoliberiste, l’at-

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Se il movimento

politico diopposizione

pacifico edemocraticovolesse fare

un’analisiarticolata

dovrebbe esseredrammatica-

mente piùonesto con se

stesso: che cosaha ottenuto

fino a ora?Nulla

1° maggio 2015Mayday, Milano

Azione delblack bloc.

Foto byGiulia Zucca

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Forza e violenza: nodo del conflitto sociale

tacco al mondo del lavoro. L’approc-cio dialogante con le istituzioni e iltentativo di coinvolgere i cittadini nonhanno portato alcun cambiamento.La scenetta organizzata dalla Forna-ce, così come la manifestazione delpomeriggio (la parte allegra, colora-ta, musicale, piena di striscioni), sisono svolte nella più totale indifferen-za del potere politico ed economico.E non perché l’attenzione si sia foca-lizzata sulla violenza dei black bloc.Siamo onesti: senza quella, i telegior-nali avrebbero dedicato trenta secon-di alla manifestazione, e i quotidianiun articoletto nelle pagine interne.

Anche la prassi dei black bloc, inquesti anni, ha ottenuto nulla.

Dunque entrambe, la via riformi-sta e quella violenta, così come finoa oggi sono state praticate, non han-no raggiunto risultati concreti.

Occorre dunque riflettere. E comeprimo passo, ricostruire un’autonomiaculturale. Operare una cesura, diven-tare altro, decolonizzare l’immagina-rio e il pensiero dalla filosofia dei ‘fab-bricanti di pace sociale’, e ricomincia-re a ragionare sul concetto di conflit-to. Quando, sul piano teorico, siamotutti concordi sul fatto che la dignitàdi una persona vale più della dignitàdella vetrina di una banca, che cosasignifica? In che cosa si trasforma, sulpiano concreto? È dignitoso lavorareper 800 euro al mese, quando l’affit-to di un monolocale di 27 metri qua-dri a Milano ne costa 500? Che cosaè violenza? Cosa significa morale? Elegittimo? E legale?

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POLEMOS

Incontro-dibattito presso il Centro so-ciale Sos Fornace (Rho, Milano), 13gennaio 2015

Andrea Fumagalli. Il primo punto daaffrontare riguarda il lavoro gratuito.Il primo fatto eclatante, che divente-rà un elemento di storia delle relazio-ni sindacali tra cinque o sei anni, è l’ac-cordo del 23 luglio 2013 sottoscrittoa livello territoriale locale da Cgil Cisle Uil, Comune di Milano in qualità digarante, e la parte padronale che inquesto caso è Expo 2015 s.p.a., socie-tà per azioni privata – ricordo che percostituzione una s.p.a. ha come obiet-tivo, indipendentemente dalla strut-tura proprietaria che può anche com-prendere realtà pubbliche, come nelcaso di Expo 2015, l’accrescimento delvalore delle azioni che compongonola società, quindi il profitto.

Questo accordo, per la prima vol-ta nella storia del diritto del lavoro ita-liano – che nasce negli anni Venti, quin-di è passato ormai quasi un secolo –legalizza e quindi istituzionalizza unaprestazione di lavoro gratuita. È qual-cosa che verrà ricordato dai giuslavo-risti italiani, perché stabilisce che perla gestione dell’attività e dell’evento

Expo sono necessari, secondo la stimafatta all’epoca e fino a oggi non smen-tita, circa 22.000 posti di lavoro. So-no ovviamente posti di lavoro a ter-mine, perché l’evento è a termine. Lanovità introdotta dall’accordo è chevengono create delle tipologie contrat-tuali che recepiscono le riforme fattedalla Fornero nel luglio del 2012 perquanto riguarda l’apprendistato e ilcontratto a termine – circa 400 ap-prendistati e 700 contratti a termine,per un totale di 1.100 persone. Sonopoi introdotte altre 400/500 figure la-vorative sotto forma di stage più o me-no retribuiti – 400, massimo 500 euroal mese – per un totale di 1.600 po-sti di lavoro. I restanti, circa 18.500,vengono occupati attraverso squadre,con tempistica differente, con duratadalle quattro alle sei settimane, di la-voro cosiddetto ‘volontario’, che intermini concreti è lavoro gratuito.

Questo è il primo contratto che isindacati firmano, dichiarandosi quin-di d’accordo con il fatto che si mettain azione una prestazione di lavorogratuita, non remunerata, al fine di farsì che l’evento Expo possa aver luo-go. È qualcosa di assolutamente nuo-vo nel panorama italiano. L’unica per-sona che ha avuto qualche perplessi-

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FREE JOBS: IL LAVORO GRATUITO DA EXPO 2015AL JOBS ACT E OLTREdi Adam Arvidsson, Andrea Fumagallie Domenico Vitale *

__________________________________________________________________________________________________* Adam Arvidsson: docente di Sociologia, Università Statale di Milano; Andrea Fumagalli:docente di Economia politica, Università di Pavia; Domenico Vitale: avvocato del lavoro delPunto San Precario di Rho Fiera

Con l’accordoExpo del

luglio 2013 isindacati

hannoistituziona-lizzato una

prestazione dilavoro gratuita;

è qualcosa che verrà

ricordato daigiuslavoristi

italiani

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tà, soprattutto nella Cgil, che è statapromotrice di uno sciopero generalenel dicembre scorso contro il Jobs Act,è il segretario generale della Fiom Lom-bardia Mirco Rota, che ha scritto unarticolo sul Manifesto in cui dichiara-va che questo accordo era un po’ pe-ricoloso perché poteva essere l’iniziodi una tracimazione verso forme dilavoro di questo genere, cioè gratui-to. Questo è l’antefatto.

Il secondo elemento su cui riflet-tere è che nella legge 78 del maggio2014, chiamata anche decreto Polet-ti, che costituisce il primo atto delJobs Act, viene istituito, tra le tantecose che qui non prendo in conside-razione, quello che si chiama il “Pia-no garanzia giovani”, finanziato dallaComunità europea sulla base del pro-getto Horizon 2020 stabilito nell’ac-cordo di Lisbona, nel quale è previ-sto lo stanziamento di fondi per fa-vorire il processo di avviamento al la-voro delle giovani generazioni, tenen-do conto che il dato di disoccupazio-ne giovanile, come sappiamo, in moltiPaesi europei è alquanto elevato.

Per l’Italia il Piano prevede 1,5 mi-liardi euro e dovrebbe creare un si-stema di accordo regionale – i fondisono infatti gestiti dalle Regioni –perché vi siano dei momenti di in-contro fra società istituite a livello re-gionale (quindi di natura pubblica),che dovrebbero creare una banca dati

chiamando i giovani a iscriversi, e con-temporaneamente accogliere doman-de di lavoro da parte delle imprese,di modo da favorire il contatto tra do-manda e offerta. Secondo le stime diPoletti, il Piano dovrebbe promuove-re l’inserimento nel mercato del la-voro di 800.000 giovani – personeche vanno dai 15 ai 35 anni. Questi800.000 giovani dovrebbero entrarenel mercato del lavoro attraverso tretipologie contrattuali, su cui però devoconfessare la mia ignoranza perchénon è chiarissimo quali siano: si par-la di stage, di forza lavoro e di servi-zio civile.

Ora, io non so quanto questo pia-no sarà attuato, ma ciò vuol dire chel’accordo sul lavoro volontario fattoin ragione di Expo, quindi limitato econtingentato e temporaneamentedefinito, è diventato, con il decretoPoletti, una manovra di inserimentofittizio lavorativo a costo zero a livel-lo nazionale. Questo è l’esempio di co-me Expo, per quanto riguarda le re-lazioni e le dinamiche del mercato dellavoro, sia una sorta di chiavistelloper provare, sperimentare, verificarenuove modalità di regolazione del rap-porto di lavoro.

Terzo punto, più generale: il JobsAct è l’istituzionalizzazione del rap-porto precario di lavoro. Raggiunge inpratica l’obiettivo che dieci anni fa siera posto Berlusconi e che ha cercato

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Un aspetto emerso chiaramente indagando il campo del lavoro del sapere è che il legame fra lavoro e remunerazione non c’è più

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POLEMOS

di attuare Maroni con il Libro Bianco sul lavoro, conil supporto di Ichino e una parte del Pd dell’epoca: ri-solvere il problema della precarietà come fattispecieparticolare rispetto al contratto di lavoro a tempo in-determinato – che ancora oggi, a livello europeo, èconsiderato l’unico rapporto di lavoro possibile – efar sì che il rapporto di lavoro precario diventi la nor-ma. In questo modo il problema della precarietà, daun punto di vista legislativo, politico, sociale, è risol-to, perché non è più una fattispecie particolare ma di-venta l’essenza del rapporto di lavoro. Quindi da que-sto punto di vista il Jobs Act ha questa funzione: isti-tuzionalizzare ciò che era già strutturale, generale edesistenziale.

È chiaro che questa istituzionalizzazione, dal pun-to di vista del governo e dei poteri forti, vuole chiu-dere, risolvere, il problema della precarietà, ma con-temporaneamente apre un nuovo fronte: quello ap-punto del lavoro gratuito, che è l’estensione, a un nuo-vo livello, del percorso iniziato nel ‘97 con il pacchet-to Treu. Un tempo era la precarietà, oggi, se vuoi ini-ziare a lavorare, a essere produttivo in questa socie-tà, devi prima dare un po’ di lavoro gratuito. Questodicono, questa è la nuova frontiera che si sta apren-do, e questo è il punto di contraddizione, perché orale soggettività del lavoro, che all’interno di questo pro-cesso sono violentemente inserite, devono essere ingrado di farne una capacità di sottrazione, di respin-

gimento, di opposizione, di denuncia.Perché il lavoro gratuito non è l’ulti-ma frontiera: ci verrà chiesto di pa-gare per lavorare, arriveremo a que-sto paradosso.

Sembra un eccesso ma il lavorogratuito, da un punto di vista econo-mico, è assolutamente disarmante econtroproducente, ma in un contestoeconomico basato sulla logica dei mer-cati finanziari, sui profitti e le plusva-lenze a breve termine, a chi importadi quello che succederà dopo; l’im-portante è espropriare, accaparrare,approfittare qui e oggi. Questo è ildramma e la crisi in cui siamo immer-si da sette anni. Abbiamo delle strut-ture dirigenziali, di governo, delle po-litiche di austerity europee che nonfanno altro che segare il ramo dell’al-bero su cui sono sedute, sperando chel’albero regga. Ma non potrà succe-dere, la crisi è destinata ad aumenta-re rispetto a queste nuove prospetti-ve di regolazione del mercato del la-voro. Non voglio essere pessimista.Questo significa che dobbiamo esse-re in grado di sviluppare una sogget-tività, una capacità di inchiesta suqueste forme di lavoro, perché da quibisogna iniziare a mettere in atto azio-ni di esodo produttivo, dire io non cisto a queste evoluzioni e riesco a tro-vare un’alternativa di sistema. E quisi apre tutta una serie di problemati-che e di cose che sono tutte da di-scutere.

Un’ultima cosa: oggi, 13 gennaio2015, i lavoratori della cooperativa Cir,che si occupa di catering, sono in scio-pero, perché nell’area emiliana alcu-ni di loro hanno avuto una disdettaunilaterale del contratto integrativo ehanno perso alcune commesse, percui la cooperativa si è rivalsa sui la-voratori. Ora: la Cir gestirà 25 milioni

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1° maggio 2015, Mayday, MilanoFoto by Giulia Zucca__________________________________________________________________

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Free jobs: il lavoro gratuito da Expo 2015 al Jobs Act e oltre

di pasti all’Expo dal primo maggio al 31 ottobre, per-ché ha vinto l’appalto per la gestione del catering.Questa cooperativa, che è una delle tante cooperati-ve di sfruttamento che ben conosciamo, si prendequindi una commessa per gestire tutti i pasti all’Expoe nel frattempo, oggi, licenzia i lavoratori per esigen-ze sue di gestione interne. Perché succede questo?Semplicemente perché la Cir rinuncia alle commesseattuali e punta tutto su Expo, per cui licenzia oggi perassumere domani, perché avrà bisogno di assumerepersone per gestire il catering di Expo.

Questo significa che Expo rischia di non avere af-fatto un effetto di amplificazione dell’occupazione, maun effetto sostitutivo. La stessa cosa, in termini di-versi, avverrà con la questione della zona di Rho Fie-ra, perché durante Expo tutte le attività di Rho Fieraverranno sostituite da Expo, quindi tutti coloro chelavorano a Rho Fiera oggi, per le varie mostre, avve-nimenti, fiere del calendario annuale, nel periodo diExpo vedranno azzerata la propria attività. Oltre al la-voro volontario, dunque, ci sarà l’effetto sostituzio-ne, per cui l’aumento dell’occupazione, se ci sarà, saràdavvero risibile.

Adam Arvidsson. Non sono molto esperto di Expo,però posso dire che mi è arrivata una email, qualchegiorno fa, proprio da Expo, dove mi si chiedeva sepotevo fornire cinquanta studenti che avrebbero do-vuto lavorare dieci giorni; ho risposto che gli sarebbecostato più o meno 20.000 euro!

Agganciandomi a quello che ha detto Fumagallisui nuovi sviluppi giuridici, spinti in qualche modoavanti dallo spettacolo dell’Expo, essi tendono di fat-to a legalizzare quella che è ormai una realtà, alme-no nell’ambito di quello che chiamiamo il ‘lavoro delsapere’. Con alcuni colleghi abbiamo realizzato unaserie di studi sulle cosiddette industrie creative a Mi-lano – la moda, la comunicazione – e adesso stiamoportando avanti una ricerca su quelle che sono le al-tre soluzioni messe in atto di fronte alla sfida dellaristrutturazione del mercato del lavoro; soluzioni, i va-ri coworking, startup ecc., che in qualche modo sonoanche un’altra forma di istituzionalizzazione del lavo-ro gratuito. A Milano se ne parla da circa uno/dueanni, oggi ci sono una ventina di coworking space ene aprono in continuazione, e questo sistema è stato

molto spinto da vari enti, come fonda-zioni, Regione ecc., e anche da tuttoil discorso ‘imprenditoriale’ secondocui se non c’è il lavoro, createlo tu inqualche modo.

Indagando questa realtà, un aspet-to emerso molto chiaramente è cheormai il legame fra lavoro e stipen-dio, lavoro e remunerazione, non c’èpiù. Sicuramente non c’è in termini e-conomici – in una situazione comequella italiana, e milanese, dove man-ca un’economia del sapere in gradodi assorbire tutte le persone qualifi-cate che escono dalle università, il ri-sultato è per forza una sorta di di-soccupazione strutturale dove salarie stipendi tendono ad abbassarsi, edove chi arriva ad avere uno stipen-dio decente è sempre meno frequen-te – ma è anche una situazione psi-cologica.

Nel settore della moda, per esem-pio, essenzialmente ci sono tre tipi dilavoro: i designer, che sono pochissi-mi, uno o due di nome internaziona-le e poi, dato che la maggior parte del-le società della moda a Milano sonoa gestione famigliare, i designer sonoi figli di coloro che sono stati a lorovolta designer negli anni ‘60/70; poici sono i bocconiani, che gestisconol’ambito finanziario, il marketing ecc.,perché ormai le industrie della modasono grandi imprese, spesso interna-zionali, e hanno bisogno di una certaorganizzazione; infine ci sono i lavo-

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Siamo ormai davanti a un fatto: la sostituzione

della remunerazione monetaria con la

remunerazione identitariae immaginaria

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ratori della moda, che sono più o meno l’80% dellaforza lavoro, che fanno essenzialmente comunicazio-ne e gestione eventi. È tra loro che abbiamo fatto unsondaggio ed è risultato che lo stipendio medio è di800 euro al mese (età media degli intervistati, 38 an-ni). Stipendio bassissimo, perché nessuno può viverea Milano con 800 euro al mese; però, il livello di sod-disfazione è altissimo! Sono super contenti per il fat-to di lavorare nel campo della moda, anche se nonvengono pagati, anche se gli orari di lavorano arriva-no a 15 ore al giorno, anche se non puoi andare a pran-zo, anche se non puoi prenderti il tempo per una vi-sita medica, se non hai il tempo di avere un fidanza-to/fidanzata, se non hai una vita sociale ecc., ma ca-spita!, lavori nella moda! E questo, almeno fino allafascia di età dei 35 anni – poi la curva della soddisfa-zione inizia a decrescere, per ovvi motivi – questo ba-sta. È una fonte di entusiasmo: io sono nella moda.

Cosa ti piace della moda?, abbiamo chiesto: sonocreativo, è stata la risposta. Però poi se si va a vede-re le mansioni che effettivamente queste personesvolgono, c’è ben poca creatività: è un lavoro subor-dinato, altamente strutturato e comandato; però, hal’immagine della creatività. In questo senso quindi lacreatività non è una questione di pratica ma di im-maginario: il fatto di essere nella moda, frequentarecerti posti, essere vicino a certi eventi, circuiti ecc. Ein qualche modo, per molte persone questo sembraessere sufficiente per accettare un lavoro mal paga-to o addirittura non pagato – la percentuale di per-sone che vanno avanti a stage è molto alto.

Vediamo la stessa cosa nei coworking space, an-che se è un po’ diverso, perché sono spazi che rac-colgono lavoratori freelance. Anche qui però le re-munerazioni sono molto basse, si aggirano intornoai 1.500 euro al mese fatturati con partita Iva, che sitraducono, più o meno, negli stessi 800 euro, quindisempre insufficiente per riuscire a vivere in una cittàcome Milano. Eppure anche qui il livello di entusia-smo è altissimo. Lunghi orari di lavoro, tanta atten-zione e tempo dedicati alla formazione di competen-ze, di soggettività, e alla partecipazione a seminari suche cosa vuol dire fare l’imprenditore, lo startupper.È un modo di vestirsi, un ambiente, certe letture ecc.che continuano a costituire questa sorta di soggetti-vità che pare essere la remunerazione principale per

la partecipazione a questo tipo di la-voro.

In questo caso non è più il gran-de brand della moda che ha il con-trollo sull’immaginario, ma il mecca-nismo è più subdolo perché questepersone, che sono dei freelance, lavo-rano quindi per se stessi, mantengo-no però tutti insieme un ambiente incui la flessibilità, la condivisione delsapere e tutta una serie di altri attiproduttivi, che non vengono retribui-ti, si combinano per abbassare ulte-riormente il costo del servizio che for-niscono.

Siamo quindi ormai davanti a unfatto: la sostituzione della remunera-zione monetaria con la remunerazio-ne identitaria, immaginaria.

La questione da porsi è come sispiega tutto questo. Se negli anni Set-tanta andavi da un lavoratore dell’Al-fa Romeo e gli dicevi: perché non la-vori senza lo stipendio, semplicemen-te per il bello di lavorare per l’Alfa Ro-meo?, ti avrebbe mandato subito aquel paese! Perché invece oggi il ven-tenne neolaureato accetta di lavora-re per una bassissima remunerazio-ne, in condizioni precarie, o addirit-tura senza essere pagato, come ‘vo-lontario’? Francamente non lo so, pen-so sarebbe un’ottima occasione po-ter fare uno studio sui volontari del-l’Expo e chiedere perché lo fanno.

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La creatività è questione diimmaginario: il fatto di lavorare

nella moda, frequentarecerti posti, essere vicino acerti eventi è sufficiente

per accettare un lavoro malpagato o addirittura non pagato

e di fatto privo di creatività

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Free jobs: il lavoro gratuito da Expo 2015 al Jobs Act e oltre

È chiaro che ci sono diversi fattori. Uno, che nonpuò essere ignorato, è il livello di disperazione eco-nomica, che evidentemente non è ancora arrivato alpunto in cui questa situazione diventa inaccettabile,nel senso che la maggior parte delle persone che la-vorano gratuitamente hanno un sostegno. Le condi-zioni del lavoro creativo sono infatti più o meno lestesse in tutta Europa, ed essenzialmente ci sono tremodelli: a Londra (come a New York), cerchi lavoronella comunicazione però in realtà fai il barista, per-ché così guadagni e sopravvivi; nel nord Europa rie-sci a campare con il welfare state – lavori nella co-municazione però in realtà sei studente, e in quantostudente puoi usufruire del welfare (Berlino è pienadi artisti-studenti danesi: ho insegnato all’universitàdi Copenaghen per sei anni, quindi conosco bene ilmeccanismo: ti iscrivi all’università, prendi la borsada studente, te ne vai a Berlino a fare l’artista e ognitanto appari e fai qualche esame) –; in Italia, infine,terzo modello, il welfare è la famiglia. L’Italia è infatti

un Paese in cui esiste ancora una del-le più grandi concentrazioni di ricchez-za privata, dove una famiglia del cetomedio è ancora abbastanza benestan-te e può ancora mantenere, in effettisponsorizzare, la cosiddetta industriacreativa milanese, coprendo il costodi sussistenza del figlio, affittando lacasa, contribuendo con qualche cen-tinaio di euro al mese ecc.

Un altro aspetto è la logica del selfbranding, la necessità di creare unbrand intorno a se stessi: quindi il la-voro anche gratuito, anche pagato ma-le, ti dà comunque un voto extra damettere sul curriculum, e può esserevisto come un investimento verso qual-cosa che potrebbe poi eventualmen-te fruttare in un momento successi-vo. Tra i lavoratori della moda è mol-

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_____________________________________________________________________________________________________________________30 aprile 2015, Corteo studentesco No Expo, MilanoFoto by Giulia Zucca

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to forte il discorso della gavetta, in un approccio quasimasochista, nel senso che c’è quasi un godimento –sì, ora lavoro in condizioni pessime, non mi pagano,mi trattano malissimo, però bisogna fare la gavetta,bisogna soffrire un po’. Questo ‘soffrire’ rientra an-che nella cultura cattolica, quell’idea per cui se sof-fri, poi non possono non darti un lavoro!

C’è infine un altro fattore molto importante, e cioèil controllo dell’immaginario. L’industria della moda,l’Expo, hanno monopolizzato un po’ l’immaginario:vuoi realizzare te stesso? C’è la moda, l’Expo, la crea-tività, c’è lo startupper, inventare un video game; nonci sono altri modi per realizzare se stessi. Esiste unasorta di monopolio su questa idea, in una generazio-ne che è stata educata fin da piccola a diventare il mas-simo che vuole diventare: devi dare tutto te stesso,devi esprimere te stesso, quei talenti che hai dentrodi te, se ti piace fare teatro devi fare l’attore, nonpuoi fare l’idraulico o il barista o il dentista.

Fumagalli, e qui concludo, dice che bisogna riap-propriarsi della soggettività, e sono d’accordo, ed èqualcosa che in qualche modo sta già succedendo,nel senso che questa forza che spinge quell’immagi-nario che funziona da mobilitazione del lavoro gra-tuito, sta diventando più debole. Uno dei settori, eforse l’unico, che in questo momento in Italia creaposti di lavoro è quello agricolo, e questo perché ingran parte c’è una fuga verso la terra. Molti lavorato-ri del sapere, dopo essersi laureati, dopo aver passa-to due/tre anni cercando di entrare nel mercato dellavoro di Roma, Milano o di qualche altra città delnord, se hanno accesso a un pezzo di terra – e in Ita-lia è abbastanza comune, perché la famiglia italiana,una o due generazioni indietro, ha in genere legamicon la terra – cercano di mettere in piedi una qual-che sorta di impresa lavorando in quel contesto. Conalcuni amici siamo impegnati in questo progetto, Ru-

ral hub appunto, sulla nuova econo-mia rurale in Campania, Puglia e Sici-lia, e vediamo molte di queste perso-ne che, secondo me abbastanza giu-stamente, dicono: tanto non possocampare a Milano, tanto posso esse-re povero anche nel Cilento, dove sista meglio e ho un’esistenza più au-tentica e più gratificante.

Quindi se cinque anni fa, quandoabbiamo fatto la ricerca nel campodella moda a Milano, vedevamo unfortissimo controllo sull’immaginario,e su questa idea per cui non c’eranoalternative, adesso il ritratto è diver-so e ha più facce, ed è comunque l’i-nizio di una sorta di esodo dall’eco-nomia volontaria monopolizzata daibrand della moda, di Expo e in gene-rale dello spettacolo, della creatività,verso delle altre forme di esistenza.

Domenico Vitale. Il mio intervento in-tende dare un taglio giuridico alla que-stione del lavoro volontario, e già con-frontarmi con il termine ‘lavoro vo-lontario’ mi mette in difficoltà, per-ché da un punto di vista giuridico èuna contraddizione in termini. Se si fainfatti riferimento alla fattispecie pre-vista dal codice civile di contratto a la-voro subordinato, la definizione è chia-ra, e prevede, a fronte dello svolgimen-to di una prestazione lavorativa, unaretribuzione. Il contratto di lavoro vo-lontario, laddove si volesse qualificar-lo in termini, appunto, di lavoro vo-lontario, sarebbe un contratto non di-sciplinato dal codice civile. Una partedegli studiosi del diritto del lavoro haritenuto trovare il suo fondamento invincoli di solidarietà: esempio di la-voro volontario nei manuali di dirittodel lavoro è quello svolto dai fami-gliari nell’ambito dell’impresa di fami-glia, oppure dai religiosi nell’ambito

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Nei coworking space le remunerazionisono basse ma l’entusiasmo è alle stelle:

lunghi orari di lavoro e attenzione e tempodedicati alla formazione di soggettività

e a seminari su che cosa vuol dire fare lo startupper

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Free jobs: il lavoro gratuito da Expo 2015 al Jobs Act e oltre

dei vari ordini. Diciamo che il legislatore del codice ci-vile guardava con disfavore, giustamente, una qual-che forma di lavoro volontario, e nella stessa Carta co-stituzionale, il punto di riferimento è l’articolo 36, cheparla di una retribuzione che deve essere proporzio-nata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, e ingrado di garantire un’esistenza libera e dignitosa allavoratore e alla sua famiglia.

Questi sono i punti di riferimento a livello costi-tuzionale ma anche a livello legislativo. Ci sono infat-ti situazioni in cui anche nell’ipotesi di contratto dilavoro nullo, è prevista una tutela del lavoratore so-prattutto dal punto di vista economico; per esempio,nell’ipotesi che un giornalista non iscritto all’albo e-serciti un’attività nei confronti di una testata giorna-listica, anche a fronte della nullità del contratto egliha diritto all’erogazione della retribuzione. Dal puntodi vista legislativo, si tratta quindi di un principio mol-to forte.

Dunque il mio tentativo di inquadrare il fenome-no del free jobs si muove lungo una direttrice volta averificare quanto, da un punto di vista della realtà deldato normativo, ci si stia discostando dal precetto del-l’articolo 36 della Costituzione; ossia in che modo, aldi là dei fenomeni elusivi esistenti – l’utilizzo fraudo-lento degli stage, dei contratti di apprendistato e dialtre fattispecie contrattuali – il legislatore nazionaleè andato a istituzionalizzare delle forme di free jobs.

Prendiamo per esempio in considerazione i tiroci-ni formativi e di orientamento, i cosiddetti stage. Solonel 2012, con la riforma Fornero, si è stabilita la pos-sibilità di garantire allo stagista un’indennità, la cuiquantificazione è stata demandata a un accordo Sta-to-Regioni che ha fissato il minimo in 300 euro. Comenel caso dell’apprendistato, anche qui il legislatore haprevisto di discostarsi, ma in maniera lieve, rispettoall’articolo 36 della Costituzione, da una retribuzioneproporzionata ed equa, in presenza di cause giustifi-cative: nel caso dell’apprendistato la causa può esse-re data da uno scambio tra prestazione lavorativa eformazione, e da qui una retribuzione ridotta – maanche in questo caso il legislatore è andato giù pesan-te, perché il contratto di apprendistato prevede la pos-sibilità per il datore di sotto-inquadrare in due livellicontrattuali il prestatore di lavoro.

Da un punto di vista ‘fisiologico’ possiamo quindi

dire che è lo stesso legislatore ad avercreato nel tempo questa situazione,attraverso diversi istituti che in que-sta fase sta cercando di rilanciare; c’èinfatti una proliferazione di figure distage, di tirocini, ci sono quelli curricu-lari che rientrano nel percorso scola-stico e universitario, quelli extra cur-riculari, e poi ci sono altri istituti co-me il lavoro accessorio, quello paga-to attraverso i voucher.

Diciamo che il problema dei freejobs va inquadrato secondo due ma-cro questioni: innanzitutto quella se-condo cui la fattispecie dei free jobsnon fa altro che determinare un fe-nomeno di evidente dumping salaria-le: è chiaro che la finalità diretta e in-diretta dell’introduzione di forme con-trattuali che prevedono una riduzio-ne non ancorata al parametro dell’ar-ticolo 36 della Costituzione ha la fun-zione di determinare un abbassamen-to dei livelli salariali, e quindi una per-dita del potere contrattuale dei lavo-ratori.

La seconda questione importanteè capire come il fenomeno dei freejobs si inserisca all’interno di un pro-cesso, piuttosto articolato, che toccale politiche attive del lavoro, le poli-tiche del welfare e il riordino delle fat-tispecie contrattuali.

Dal punto di vista delle tipologiecontrattuali, da un po’ di anni si stan-no creando dei mostri giuridici. Si èsempre più andato a configurare untrend normativo in cui si vanno a in-dividuare solo delle fattispecie, sen-za poi ricondurle alle macro catego-rie dell’autonomia e della subordina-zione. Ci sono cioè figure, come il la-voro accessorio, che non è conside-rato rapporto di lavoro; ci sono gli sta-ge stessi che non sono considerati rap-porti di lavoro. E il problema qualifi-

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catorio, nell’ambito del diritto del lavoro, non è un pro-blema secondario, perché la qualificazione di un rap-porto come subordinato o autonomo rileva ai fini del-le tutele, dato che purtroppo siamo in un sistema nor-mativo nel quale se sei subordinato hai un apparatodi tutele e diritti, se sei autonomo non ce l’hai. E quin-di dentro queste due macro categorie il legislatore haintrodotto altre figure contrattuali, rispetto alle qualidevi cercare di individuare la tutela applicabile secon-do un gioco dell’oca.

È dunque all’interno di questo percorso e di que-sto processo che vanno letti i free jobs.

Da un lato abbiamo questo divario tra retribuzio-ne prevista per gli stage e per l’apprendistato, dall’al-tro questa riorganizzazione delle politiche attive dellavoro, del welfare e delle tipologie contrattuali, che sipossono rinvenire nello stesso schema di decreto at-tuativo del Jobs Act; qui, all’articolo 11, si istituiscepresso l’Inps un Fondo delle politiche attive del lavo-ro che prevede, a favore dei lavoratori licenziati permotivi economici o a seguito di licenziamenti collet-tivi, la corresponsione di un voucher, rappresentativodella dote individuale di occupabilità. Con in manoquesto voucher, il lavoratore si reca all’agenzia pubbli-ca o privata e si sottopone a una serie di doveri, os-sia percorsi formativi e accettazione di offerte lavora-tive molto probabilmente non corrispondenti al pro-filo professionale. Questo è ciò che il legislatore, nel-lo scheda di decreto attuativo del Jobs Act, chiamacontratto di ricollocazione, che sembra un altro mo-

stro giuridico: non è chiaro infatti lanatura di questo contratto, sappiamosolo che è stipulato tra il lavoratoree l’agenzia.

Il trend che si va a delineare è dun-que la proliferazione di quelli che untempo erano definiti lavori socialmen-te utili, nei quali l’occasione di lavoronon è più in grado di garantire un red-dito di lavoro parametrabile all’artico-lo 36 della Costituzione, ma solo unapiccola parte di reddito, che si va a re-cuperare in parte anche dall’ammor-tizzatore sociale.

Questo è un po’ il quadro a livel-lo nazionale che stranamente, ma nontanto, viene peggiorato dall’accordoExpo del luglio 2013. Anche commen-tatori sicuramente non progressisti, afronte di una prima lettura dell’accor-do hanno notato come le parti socia-li abbiano fatto molto peggio di Ren-zi. Avevano la possibilità, e se ne sonoavvalse, di derogare a quelle che era-no le disposizioni di legge. Per esem-pio, hanno prolungato di un mese ladurata massima dello stage, così co-me, in maniera preoccupante, perquanto riguarda la possibilità di assu-mere personale a tempo determina-to è stato previsto un tetto percen-tuale dell’80% dell’organico comples-sivo, violando di fatto il limite indica-to dal Jobs Act, individuato nel 20%.

Questo vuol dire che le parti so-ciali hanno colto la palla al balzo perfare quello che neppure un governodi centrodestra, a suo tempo, è sta-to in grado di fare; hanno dato attua-zione a quella norma che di fatto èsempre stata disattesa fino a qualchemese fa, che consente alla contratta-zione di secondo livello di derogarealle disposizioni di legge, ma per ga-rantire la stabilizzazione o per far fron-te a situazioni di crisi. Qui invece, a

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Free jobs: il lavoro gratuito da Expo 2015 al Jobs Act e oltre

fronte di un evento di rilevanza internazionale, i sindacatihanno consentito la stipula di un contratto che superacerti limiti di legge, e senza alcuna contropartita; anzi,come è ormai evidente, per Expo le assunzioni nonstandard rappresentano la stragrande maggioranza.

Ho dato solo un rapido sguardo ai bandi o alle co-municazioni rispetto alle diverse fattispecie contrat-tuali che si pensa di utilizzare. Per quanto riguarda iprogetti che hanno una durata di 12 mesi, è previstoil ricorso al volontariato attraverso un bando del ser-vizio nazionale civile, quindi entriamo in quel proces-so cui accennavamo prima: non abbiamo più dellefattispecie contrattuali, abbiamo delle mere occasio-ni di lavoro che vengono fornite a dei giovani di etàcompresa tra i 18 e i 29 anni. L’elemento che piùpreoccupa è che, da un punto di vista normativo, ab-biamo dei riferimenti per quanto riguarda l’attività divolontariato. Esiste una legge del 1991 che lo disci-plina, e afferma che è quell’attività che viene svoltain maniera personale, spontanea e gratuita, in assen-za di fini di lucro anche indiretto e per fini di solida-rietà. Ora, un volontario che va a lavorare presso ilsito espositivo, che fornisce una informazione, che dàun orientamento alle persone che accorrono all’even-to, quale fine di solidarietà persegue?!

Un altro aspetto interessante è che non è previ-sta alcun tipo di remunerazione per il volontario: se-condo legge, c’è solo la possibilità di un rimborso spe-se. Sul bando del servizio civile, ma anche in quellodel Comune di Milano, che partecipa a questo pro-cesso di sfruttamento con il bando “Dote ComuneExpo”, è invece prevista una indennità mensile di par-tecipazione; un elemento di contraddizione che ma-gari anche la giurisprudenza dovrà sciogliere, perchéo ci si limita a un mero rimborso, che va documenta-to, oppure tutto ciò che non è rimborso e va oltre do-vrebbe qualificarsi come retribuzione. Tra l’altro, fa-

cendo delle ricerche sul punto ho giàtrovato della giurisprudenza, senten-ze della Corte di Cassazione che, al dilà di una serie di altri indici, stabili-scono che non si può parlare di lavo-ro volontario.

Si aprono quindi degli spiragli. Èvero che da un punto di vista sostan-ziale e processuale il trend è questo,però, per come sono impostati i ban-di, è possibile utilizzare delle leve percontrastare, là dove ce ne fosse la pos-sibilità, questa situazione.

La battaglia è anche e soprattut-to culturale, politica e comunicativa.Purtroppo a oggi non ho visto pro-fessori del diritto del lavoro, o avvo-cati del diritto del lavoro, scandaliz-zarsi di fronte a dei processi che stan-no comportando anche uno snatura-mento delle tipologie contrattuali. Ilcontratto di lavoro a tempo determi-nato, per esempio, che era ancoratoa ragioni temporali – si assumeva atermine perché c’era una ragione tem-porale di assunzione – nella prassi stadiventando uno strumento di ingres-so nel mercato del lavoro dei giova-ni. Ormai tutte le tipologie contrat-tuali hanno questa funzione, si stan-no creando delle figure di soggettisvantaggiati che vanno a coprire tut-to l’arco del lavoro: è soggetto svan-taggiato la donna, l’inoccupato, il di-soccupato di lunga durata, e questoperché si devono andare a individua-re delle categorie rispetto alle qualicreare delle figure contrattuali di in-gresso nel mercato del lavoro a tute-le dimezzate, se non azzerate.

In conclusione, l’accordo Expo delluglio 2013 va solo a peggiorare un qua-dro che già prevedeva questa confu-sione voluta, dal punto di vista dellepolitiche attive, del welfare e della qua-lificazione dei contratti di lavoro.

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I free jobs determinano un evidentefenomeno di dumping: creando forme

contrattuali che prevedono una retribuzionenon ancorata al parametro dell’art. 36

della Costituzione si mira a unabbassamento dei livelli salariali

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POLEMOS

Nel 1892 Leopoldo Ferra-rini pubblica il saggio Cau-se dell’astensione elettora-le: i cittadini del giovane Re-gno d’Italia erano talmen-te renitenti all’esercizio delloro diritto di voto da me-ritare il primo studio statistico sull’ar-gomento. Alle elezioni del 1886 ave-vano partecipato infatti solo 58,5 cit-tadini su cento, contro una media eu-ropea di 63,2% (ma con punte del 77%in Francia e nell’Impero germanico).

La Repubblica per lungo tempo hasenz’altro fatto meglio. Fino agli anniSettanta la partecipazione alle urne èstata superiore al 90%, caso più uni-co che raro nei Paesi occidentali, e seb-bene in seguito la tendenza si sia in-vertita, è solo nelle ultime consulta-zioni che l’astensione ha raggiunto li-velli preoccupanti.

Le cause del fenomeno in Italia so-no in genere identificate nel progres-sivo sfaldamento dei partiti e delle lo-ro organizzazioni politiche sul terri-torio, che ha via via rallentato la mo-bilitazione degli elettori, cancellandoquel senso di identificazione con ilprogramma politico del partito di ap-partenenza che si traduceva in un’al-ta partecipazione al voto, e nella co-siddetta ‘questione morale’ e relati-va diffidenza dei cittadini nei confron-

ti della politica. Secondo alcuni stu-diosi l’astensionismo contraddistingueinvece le democrazie mature (una sututte quella statunitense), dove si as-siste a una naturale diminuzione deivotanti collegata a una minore pas-sionalità politica, mentre secondo al-tri osservatori rappresenta un perico-loso segnale di sfiducia nelle istituzio-ni. Non si spiega tuttavia, al di là deititoli di testa sui giornali, la superfi-cialità (quando non l’indifferenza) concui il fenomeno viene analizzato e li-quidato, soprattutto nel nostro Paese.Forse che la vicenda nasconda qual-cosa di più, o di peggio?

I numeri dell’astensioneMa l’affluenza elettorale è in calo or-mai da anni, come mostra il graficodi Ansa-Centimetri realizzato sulla ba-se dei dati relativi alla Camera dei De-putati (Figura 1, pag. 24): analizzandola serie storica si nota come nei pri-mi decenni della Repubblica il livellodi astensione fosse molto contenuto(nel 1953 si stabilì il record d’affluen-za: 93,84%, oltre 18 punti sopra al li-vello del 2013), e che solo dal 1983 lapartecipazione è scesa sotto il 90%; inseguito la tendenza negativa si è acui-ta, con soglie dell’86-87% negli annidi Tangentopoli e con cifre ancora piùbasse nel ventennio berlusconiano (fat-ta eccezione per la consultazione del2006, caratterizzata dall’effimera vit-

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ASTENSIONISMOTRA DISAFFEZIONE E RISCATTO SOCIALEdi Giovanna Baer

Fino agli anniSettanta la

partecipazionealle urne è

stata superioreal 90% e

sebbene inseguito la

tendenza si siainvertita è solo

nelle ultimeconsultazioni

che l’astensioneha raggiunto

livellipreoccupanti

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toria dell’Unione di Romano Prodi peruna manciata di voti), fino ad arriva-re al 75,2% (astenuti pari al 24,8% del-la popolazione) delle ultime elezionipolitiche (Figura 2, pag. 27).

Alle elezioni europee del 2014 lecose sono andate ancora peggio: l’a-stensione in Italia si è attestata al44,4%: non ha votato il 39,2% degliuomini e il 49% delle donne, con unamaggiore incidenza al sud e nelle iso-le (come nelle politiche del 2013), eaddirittura il 77,2% degli astenuti to-tali ha dichiarato di non potersi o nonvolersi collocare politicamente (fon-te: Ipsos Public Affairs). Da un’analisidell’ultima consultazione comunitariacondotta a cura del Parlamento eu-ropeo (1), si evince che il tasso di asten-sione nei Paesi membri è stato in me-dia del 57,46%. I non votanti sonostati raggruppati in astenuti convinti(24%), che sono coloro che non vota-no mai (in aumento di due punti dal-le precedenti elezioni); astenuti ri-flessivi (31%), che hanno deciso di nonvotare nei mesi o nelle settimane pre-cedenti (stabili rispetto al passato);astenuti impulsivi (34%), che hannodeciso di astenersi nei giorni prece-denti il voto o addirittura il giorno stes-so delle elezioni (in crescita di duepunti); e infine astenuti indetermina-ti (11%), che non sanno quando han-

no deciso di non andare a votare (incalo del 2%). Fra i motivi dell’asten-sione i principali sono stati la “man-canza di fiducia nella politica in ge-nerale” (23%), “il fatto di non essereinteressati alla politica” (19%), e che“votare non ha conseguenze/non cam-bia nulla” (14%).

Ma siccome al peggio non c’è maifine, il 23 novembre 2014 si sono svol-te le elezioni regionali in Emilia-Ro-magna e in Calabria. Il risultato, perquanto previsto dai sondaggi, è statouno shock: in Calabria ha votato il44% della popolazione, e in Emilia so-lo il 38%, la metà rispetto alla torna-ta elettorale precedente: l’astensio-ne ha raggiunto quindi quote da ca-pogiro, pari rispettivamente al 56 e al62%. L’Istituto Demopolis ha indaga-to le motivazioni di quei milioni di cit-tadini che non hanno voluto o sapu-to scegliere: “Il 43% – sostiene il di-rettore Pietro Vento – attribuisce lapropria scelta a sfiducia e delusioneverso partiti e candidati; un ampio seg-mento, il 31%, appare pericolosamen-te convinto che la politica non incidapiù sulla vita reale dei cittadini. Per il16% l’esito della consultazione appa-riva scontato, e uno su dieci non sape-va che si votasse domenica” (2).

E il 31 maggio 2015 (chi scrive nonconosce ancora il risultato elettorale)

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Un’analisi a cura del Parlamento europeo sulle ultime elezioni comunitarie individua gli astenuti convinti (24%), gli astenuti riflessivi (31%), gli astenuti impulsivi (34%) e gli astenuti indeterminati (11%)

__________________________________________________________________________________________________1) Cfr. Studio post-elettorale 2014, Elezioni europee 2014, sintesi analitica, ottobre 20142) Le ragioni del non voto: analisi Demopolis sull’astensione alle Regionali, www.demopolis.it

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POLEMOS

si svolgeranno le elezioni per rinnovare il presidentee la giunta regionale in altre sette regioni: Campania,Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Umbria e Veneto.Nello stesso giorno si svolgeranno le elezioni ammi-nistrative in 1.062 comuni, tra cui 18 capoluoghi diprovincia. La maggioranza degli elettori italiani (52%)secondo un’indagine di Cmr Intesa Sanpaolo per LaStampa, non si sente vicina ad alcun partito: “A pren-dere sempre più piede sembra quindi essere il parti-to dell’astensionismo, o del potenziale astensionismo[…] Per il 37,4% i politici non si interessano alla gen-te comune, per il 27,5% votare è inutile, tanto le cosenon cambiano e per il 15,2% i partiti fanno schifo. Ac-canto a questa distanza che sembra dividere gli elet-tori dal mondo politico, c’è la concezione che le tra-dizionali categorie di destra, centro e sinistra non ab-biano più significato (questo è vero per il 75% degli in-tervistati)” (3). Lo scenario peggiore sembra essere quel-lo della Liguria, dove l’affluenza alle urne è prevista al37-42%, come indica Luca Sabatini, analista dei pro-cessi elettorali e docente di Statistica e Sociologia deiprocessi economici all’università di Parma: “Se pren-

diamo una previsione ottimistica par-liamo di una partecipazione del 40-45%, quella più pessimistica si atte-sta sul 35-40%” (4).

E non si tratterebbe solo della Li-guria: da varie rilevazioni si evincereb-be che nel Centro-Nord del Paese e,in particolare, nelle cosiddette regio-ni ‘rosse’, quasi due terzi degli elettorinon andrebbero a votare. Se finora l’a-stensionismo aveva colpito di più le re-gioni meridionali e storicamente sem-brava un fenomeno riguardante mag-giormente il centro-destra, adesso sem-bra che sia proprio l’elettorato di si-nistra a mostrare più insofferenza. Il24 aprile 2015 Fausto Anderlini, so-ciologo, ha presentato a Bologna unsondaggio politico sulla città condot-to da Delos. Da culla della partecipa-zione e del buon governo Bologna siavvicina a grandi passi all’astensioni-

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Figura 1. Fonte: Ansa-Centimetri_____________________________________________________________________________________________________________________

_____________________________________________________________________________________________________________________3) Elezioni, l’Italia dell’astensionismo. Il 52% non si riconosce in nessun partito, Il fatto quotidiano, 18 maggio 20154) M. Bompani, Fuga dalle urne: a fine maggio astensione al 60%, La Repubblica, 12 maggio 2015

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Astensionismo tra disaffezione e riscatto sociale

smo ideologico: attraverso l’analisi di un campione di600 casi stratificato per sesso, età e zona di residen-za, emerge che l’orientamento di voto a Bologna con-segna il 72,3% all’astensione. Anderlini spiega che “or-mai esiste un vero e proprio partito dell’astensioneanche a Bologna dove pure l’elettorato continua a con-siderarsi di sinistra. Si configura dunque una forma di‘astensione ideologica’ perché questo dato si collocain un contesto in cui viene ancora, nonostante tutto,rivendicata un’appartenenza politica sebbene non piùpartitica”. E nel testo elaborato per l’occasione si leg-ge: “Stupisce il modo esplicito col quale l’astensioni-smo si dichiara adducendo moventi politici. Sino apoco fa tale comportamento era nascosto nella reti-cenza. Oggi si palesa quasi come una nuova coscien-za di sé. L’astensionismo sembra essere diventata unaforma di orgogliosa consapevolezza”(5).

Un’analisi dell’astensionePer tentare di analizzare l’astensione elettorale, biso-gna, come si sarà intuito, considerare che il fenome-no del non-voto racchiude al suo interno forme deltutto diverse fra loro. Sebbene le classificazioni pos-sano avere gradi maggiori o minori di specificità, rite-niamo sia utile distinguere almeno quattro gruppi di-stinti: un astensionismo fisiologico-demografico, chesi realizza quando il non recarsi a votare è determina-to da cause fisiche (malattie invalidanti, ospedalizza-zione), catastrofi naturali, oppure da un minor nume-ro di iscritti nelle liste elettorali dovuto alla diminu-zione della natalità o all’invecchiamento degli aventidiritto al voto (e questa è una forma ‘naturale’ di a-stensione, che prescinde dalla volontà dei soggetti direcarsi alle urne); un astensionismo tecnico-elettora-le, che si realizza quando le modalità del voto sonocosì complicate da scoraggiarne l’esercizio o per unascarsa efficienza nel recapito dei certificati elettorali(anche in questi casi i cittadini hanno poche respon-sabilità); un astensionismo apatico, tipico di coloroche non si interessano alla politica e che pertanto nonvotano mai; un astensionismo che abbiamo deciso dichiamare da bipolarismo, che raggruppa chi non tro-va più un organismo politico che ne rappresenti le

istanze dopo la dissoluzione dei par-titi tradizionali nelle macro-compagi-ni attuali; e infine un astensionismodi protesta, di chi sceglie di non vo-tare come ritorsione contro la malagestione della cosa pubblica o per sfi-ducia verso il ruolo della politica. Da-to che in genere i numeri dell’asten-sionismo fisiologico, di quello tecnicoe di quello apatico sono piuttosto sta-bili, sono le ultime due forme quelleche determinano la crescita esponen-ziale del fenomeno.

Quando il non-voto rispecchia unanon-azione, il che avviene quando haalle spalle indifferenza e disinteressecome nel caso dell’astensionismo apa-tico, è possibile inquadrarlo nello sche-ma esplicativo più utilizzato per ana-lizzare la partecipazione politica, quel-lo che fa riferimento alla dimensionecentro-periferia, per la quale la par-tecipazione politica di un individuo di-pende soprattutto dalla sua posizionesociale, ed è tanto maggiore quantopiù questa posizione si trova prossi-ma al centro della società. Alla centra-lità sociale concorrono tutta una se-rie di fattori: innanzitutto l’età, il ge-nere, la condizione occupazionale (so-no più centrali gli adulti che lavoranodegli anziani, dei giovani e delle ca-salinghe); poi lo status socio-econo-

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Si configura unaforma di astensione

ideologica in cui vieneancora rivendicata un’appartenenzapolitica sebbene non più partitica

_____________________________________________________________________________________________________________________5) C. Alessandrini, Da culla della partecipazione politica all’astensionismo esistenziale: il caso di Bologna ,www.huffingtonpost.it, 27 aprile 2015

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POLEMOS

mico (più centrali le classi superiori di quelle inferio-ri); il livello culturale (più centrali i più istruiti); l’e-sposizione alla comunicazione politica; l’integrazionenella comunità locale e nell’istituzione familiare (piùcentrali i residenti da tempo nel comune e i coniuga-ti); e infine le componenti geografiche (più centraligli abitanti delle grandi città e del centro-nord). Inquesto schema le classi socialmente centrali parteci-pano di più, e quando per un qualunque motivo di-minuisce l’effetto di mobilitazione proveniente dal si-stema politico, le prime categorie sociali a non parte-cipare sono quelle più periferiche (per esempio le don-ne anziane, i giovani disoccupati, i residenti nei co-muni minori del sud, e così via) (6).

Quando invece il fenomeno dell’astensione non èla conseguenza di un estraniamento sociale, ma è uncomportamento consapevole che esprime la distan-za tra sé e la politica così come si esprime in un datomomento storico (astensionismo da bipolarismo e diprotesta), esso non è più inquadrabile in termini di cen-tro-periferia, ma necessita di nuove dimensioni in-terpretative (anche se presumibilmente coinvolgerài gruppi più capaci di innovazione, per esempio i ma-schi adulti occupati dei capoluoghi del centro-nord ogli intellettuali). Come scriveva Piero Gobetti nell’ar-ticolo La nostra fede (1919): “Guardate la vita politi-ca da un punto di vista di onestà illimitata: ne prova-te disgusto; e il disgusto degenera in astensionismo,scherno, indifferenza per i supremi interessi”. Bisognaricordare tuttavia che l’astensione attiva esprime sìdistacco dalla vita politica, ma non necessariamenteda quella pubblica. Politico e pubblico si somiglianoma non sono la stessa cosa, perché l’impegno civile,ossia il contributo che l’individuo dà alla società, nonsi esaurisce nel recarsi periodicamente alle urne (e Go-betti ne è un ottimo esempio).

Pietro Polito, filosofo e politologo torinese, ami-co e collega di Norberto Bobbio (con cui ha pubblica-to come coautore), suggerisce inoltre di distinguereulteriormente l’astensionismo attivo e quello passivofra astensionismo contingente e astensionismo strut-turale: “Per astensione contingente intendo quella pra-ticata episodicamente in base alle circostanze politi-

che del momento. Questo potrebbeessere il caso di un elettore attivo chediventa passivo e potrebbe essere lascelta di tanti giovani al primo votoche non si riconoscono in nessuna of-ferta politica (che brutto modo di de-finire e presentare la politica alla stre-gua di uno spettacolo televisivo di pri-ma serata o come una delle innume-revoli marche di un prodotto espostoai grandi magazzini). Venendo all’a-stensione strutturale, per essa inten-do quella di lunga durata, praticata si-stematicamente, per anni, da anni, e-lezione dopo elezione, senza dubbi nérimorsi. Il più noto astensionista strut-turale attivo dichiarato è stato il gran-de Giorgio Gaber, anarchico, indivi-dualista, certo non qualunquista. Maio stesso conosco personalmente mol-ti astensionisti attivi, vecchi e nuovi.I più antichi – attenzione alle date –non votano dal 1989 (la fine del co-munismo), i più giovani non lo fannodal 1994 – l’avvento di Berlusconi” (7).

Le ragioni dell’astensionismoSe l’indifferenza, con la sua perdita to-tale della concezione della polis e unritiro narcisistico nella sfera del priva-to, è uno dei fattori essenziali per com-prendere a pieno l’astensionismo pas-

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Uno dei principali motivi dell’astensione

è la fine delle ideologiee l’appiattimento

dell’antitesi destra-sinistracui ha fatto seguito unaomogeneizzazione deiprogrammi dei partiti

_____________________________________________________________________________________________________________________6) Cfr. P. Corbetta e D. Tuorto, Astensionismo elettorale: di destra o di sinistra?, Istituto Cattaneo, 31 ottobre 20047) P. Polito, Il significato dell’astensione, Centro studi Sereno Regis, www.serenoregis.org, 25 gennaio 2013

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Astensionismo tra disaffezione e riscatto sociale

sivo, interrogarsi sui motivi degli elettori che, abitua-ti da sempre alla partecipazione alla vita pubblica,scelgono consapevolmente di disertare le urne nonè altrettanto semplice. Uno dei motivi più citati, in-sieme allo scoramento generato dalla corruzione del-la politica, è la fine delle ideologie e l’appiattimentodell’antitesi destra-sinistra cui ha fatto seguito unasorta di ‘omogeneizzazione’ dei programmi dei parti-ti, per cui le differenze appaiono ormai più lessicaliche sostanziali. Come scrive Alessandro Parodi: “Intutta la Prima Repubblica il voto in Italia si è estrin-secato nella contrapposizione fra due grandi partiti:la Dc e il Pci. La narrazione era semplice, lineare. Odi qua, o di là. L’appartenenza sociale e valoriale, sul-la scorta della narrazione più ampia rappresentatadalle due superpotenze mondiali, con il loro univer-so ideologico in conflitto, garantiva un’identità mo-nolitica, incontrovertibile. Era la società di massa, quel-la in cui prima di essere individui si era comunisti o

operai o cattolici o travet. Una mon-do che declinava nella modernità glistilemi della millenaria suddivisioneper categorie umane della società con-tadina, sopravvissuta come formamentis alle rivoluzioni industriali. Maoggi quella società non esiste più. Tut-to questo si ripercuote sulla scelta po-litica” (8).

Ma non è solo un problema di nar-razioni alternative: “Guardando bene,uno dei fenomeni che più balza agliocchi è la fine, non tanto delle ideo-logie che continuano a rigenerarsi im-perterrite come ramificazioni del pen-siero unico dominante […] quanto la fi-ne dell’offerta politica idealistica. L’i-dealismo è incarnato nella storia d’I-talia, dall’Unità al ventennio fascista,passando per la Resistenza, la fase co-stituente e gli anni di piombo, la cro-naca di questa nazione è profonda-mente segnata dall’idealismo comecausa scatenante la quasi totalità deifenomeni politici. Persino all’internodel bipolarismo in salsa berlusconia-na sono esistiti partiti profondamen-te incentrati su aspetti idealistici del-la politica. Esempi possono essere Ri-fondazione comunista e Alleanza na-zionale […] In Italia ci sono ancora, an-che tra i giovani, molte connotazioniantiborghesi, anticapitalistiche e, si po-trebbe dire, terziarie, rispetto alla di-cotomica e attualmente obbligata scel-ta tra il partito liberaldemocratico efilocapitalista e il partito neoliberale efilocapitalista. In questo senso si com-prende anche una parte del successodel Movimento 5 stelle, che avrà sì ca-valcato l’antipolitica per attirare con-sensi ma ha sicuramente attirato, nel

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__________________________________________________________________Figura 2. Dati elezioni politiche 2013. Fonte: Ansa-Centimetri

______________________________________________8) A. Parodi, Astensionismo: la parola sba-gliata sulla bocca di (quasi) tutti, www.huf-fingtonpost.it, 25 novembre 2014

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POLEMOS

frattempo, una parte di quell’elettorato che si è sen-tita tradita dall’omologazione, dall’appiattimento e dal-la rinuncia alle lotte ideali da parte dei rispettivi lea-der. Per questo, chi si occupa di politica in prima li -nea, dovrebbe riflettere sul fatto che esiste una largapercentuale di votanti che semplicemente aspetta no-stalgicamente di tornare a casa propria, una nostal-gia, spesso, non mossa da nefasti e inopportuni tor-cicollo storico-ideologici, quanto da una mai rimossapassione della coerenza […] Poiché nessun idealista cherispetti in se stesso questa definizione, potrà con fa-cilità d’animo dirsi sinceramente socialista in Italia al-leandosi con Renzi e nessun conservatore, equivalen-temente, potrà mai dirsi tale, sentendosi in pace inun’alleanza con Silvio Berlusconi” (9).

La pensa allo stesso modo Paolo Gambi, scrittoree giornalista, che scrive sull’Huffington Post: “Senza unideale forte tutto si appiattisce sulla gestione del po-tere, che senz’anima diventa grigia. Non serve cam-biare le persone se non si trovano nuove idee, nuovevisioni, nuove energie. Questo è il progresso. E sem-bra si sia fermato, insieme allo sviluppo di tutto il Pae-se. Ma dalle stanze della politica silenzio e buio tota-le. Ogni giorno sembra un’occasione per navigare an-cora a vista, senza una visione, senza un piano, senzaun ideale di riferimento” (10).

Le conseguenze dell’astensioneL’astensionismo è diventato il primo partito, ma la po-litica che conta fa orecchio da mercante. Come mai?In fondo c’è un enorme serbatoio di voti in palio,voti che potrebbero scardinare lo status quo. E forseproprio per questo nessuno si azzarda a muovere un

dito e, anzi, il nostro presidente delConsiglio liquida il fenomeno, all’in-domani delle elezioni regionali in Emi-lia lo scorso novembre (vinte dal Pdcon il voto, lo ricordiamo, solo del 37%dei cittadini), come “secondario”. Sem-bra che la giusta domanda da porsi,da parte dei politici ‘realisti’, non siachi non vota e perché, semmai il con-trario: chi sono quelli che ancora vo-tano e come conquistarli? A quali ta-sti sono sensibili le corde del loro cuo-re (o meglio, vista la scarsità di idealiin gioco, del loro portafoglio)? Perchéuna cosa è sicura, e gli statistici lo san-no bene: meno persone vanno alleurne, più è facile prevedere il risulta-to. Le elezioni più incerte sono quel-le con un’alta affluenza, in cui entra-no in gioco gli umori mutevoli di chinon sa come schierarsi, e per il pote-re costituito gli astenuti sono moltomeno rischiosi degli indecisi.

Non solo: con le nuove leggi elet-torali, che mirano alla tanto decanta-ta ‘governabilità’, bastano pochi votie (grazie al premio di maggioranza)uno scarto minimo sul secondo arri-vato per controllare il Paese. Lo sa be-ne Renzi, che governa alla Camera(345 seggi su 630) con il voto di 22italiani su cento (il 29,74% del 75% dicittadini che si sono recati alle urne),e al Senato (123 seggi su 315) grazieal voto di 23,7 italiani su cento. Votiquasi sicuri: difficile che chi non hasmesso di votare Pd fin qui decida difarlo nel prossimo futuro.

Il problema di cui nessuno vuoleparlare, politici in primis, è l’altra fac-cia della medaglia: “Il nostro non è piùun regime democratico, cioè non esi-

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Esiste una larga percentuale di votantiche aspetta di tornare a casa propria, una nostalgia non mossa da nefasti

e inopportuni torcicollo storico-ideologiciquanto da una mai rimossa

passione della coerenza

_____________________________________________________________________________________________________________________9) F. Boezi, Le ragioni dell’astensionismo, www.lintellettualedissidente.it, 18 settembre 201410) P. Gambi, Chi non vota vuole un leader e ideali per la sinistra? L’unica risposta arriva da papa Francesco,www.huffingtonpost.it, 29 novembre 2014

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Astensionismo tra disaffezione e riscatto sociale

stono più istituzioni legittimate dal consenso popola-re. Le élite si riproducono in luoghi che non sono piùriconosciuti dalle persone normali. La politica dall’al-to riduce gli spazi di democrazia auto-legittimandosie auto-fondandosi (si pensi alle nuove province e alnuovo Senato) e il popolo non partecipa più, disertan-do l’esercizio democratico […] Il Movimento 5 stellesi è già sgonfiato (come era prevedibile) e il voto diprotesta diventa nero-verde. Su questo si rifletta: laLega Nord sta cambiando pelle, si sta facendo parti-to nazionale sul modello francese, inglobando den-tro di sé (anche) tutto l’armamentario ideologico deigruppuscoli neofascisti […] Qui c’è un Paese con sem-pre meno democrazia e sempre meno legittimazionepopolare. Con un vertice che si rinchiude nella torred’avorio e un popolo che non partecipa più, perchénon si sente rappresentato dalla politica e che, quan-do partecipa, sceglie o la conservazione rassicurante(il partito della Nazione) o il populismo di destra (ieriil M5s, oggi direttamente Salvini)” (11).

E, dal momento che per le ragioni sopra esposteè da folli attendersi che i partiti (pentastellati com-presi) si auto-riformino (e poi perché dovrebbero?),l’unica possibile alternativa non può che arrivare dalbasso. È successo in Spagna, dove un nuovo partitodal nome evocativo di Podemos (Possiamo), nato loscorso anno per iniziativa di un giovane professoredi economia politica, Pablo Iglesias Turriòn (classe1978) proveniente dal movimento degli Indignados,dopo aver ottenuto l’8% dei consensi e 5 deputati nelleelezioni europee, ha vinto il 25 maggio le elezioniamministrative nelle due ‘capitali’, Barcellona (bat-tendo lo storico partito nazionalista catalano) e Ma-drid dove, pur essendo arrivato secondo (lo superanoi Popolari per una manciata di voti), governerà in vir-tù di già annunciate alleanze. Il programma di Pode-mos ruota intorno a pochi principi cardine: il controllopubblico dell’economia, attraverso il rilancio dello sta-to sociale (sanità e istruzione), la riduzione della po-vertà grazie al reddito di base, la lotta alle lobby del-la finanza e all’evasione fiscale delle grandi impresemultinazionali; la promozione della libertà, dell’ugua-glianza e della fraternità di tutti i cittadini, attraverso

serie misure antidiscriminazione; la ri-definizione della sovranità nazionale,non soltanto revocando il Trattato diLisbona e abbandonando la Nato, mapromuovendo il meccanismo referen-dario per ogni modifica costituziona-le; e infine l’attenzione all’ambiente,attraverso politiche energetiche so-stenibili e il rilancio delle produzioniagricole locali. Non a caso in Europaè alleato con Tsipras.

Forse, potendo, lo voterebbe an-che qualche astenuto di casa nostra.

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__________________________________________________________________11) S. Oggionni, Post-democrazia: cambiamo tutto, www.huf-fingtonpost.it, 25 novembre 2014

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L'INTERVENTO

Incontro-dibattito Sport, sportivi e giochi olimpici nell’Europa in guerra(1936-1948) presso il Liceo Candiani Bausch (Busto Arsizio), 15 febbraio2015

Pascal Ory, uno dei più rinomati storici francesi in tema di storia cultura-le e storia del fascismo in Francia, ha scritto un libro sul governo del Fron-te popolare tra il ‘36 e il ‘38, dedicando almeno un capitolo alla sua poli-tica sportiva e definendola una risposta democratica alla sfida dei regimifascisti. Una risposta senza passo militare o passo dell’oca, ma che di -mostra come le politiche sportive, in particolare quelle del fascismo, sia-no centrali per capire la storia europea dello sport tra le due guerre. Esi -ste infatti una vera sfida degli stadi, come c’è una sfida diplomatica e mili-tare, e definirei lo sport fascista l’idealtipo dello sport autoritario e tota-litario. Per questo non si può tracciare la storia dello sport in Francia e inEuropa senza mettere al centro la politica sportiva del regime fascista.

Prima di tutto, la politica sportiva del regime significa la fine dellasocietà civile dello sport, ossia dello sport come è stato concepito dall’i-nizio del Novecento sul modello inglese: un’armata di volontari, di per-sone che si riuniscono in associazioni e non chiedono nulla allo Stato,volendo essere indipendenti. In realtà questo principio è applicato inmodi diversi nel continente: in Italia come in Francia, per esempio, du-rante la belle époque, gli sportivi vogliono ricevere il sostegno in denarodello Stato. Ma in ogni caso, lo sport è espressione di una società civile.

In secondo luogo, con la prima politica sportiva statale il regime fa-scista dà l’avvio all’entrata dello Stato nello sport. Si vedrà che è un po’più complicato, perché i francesi, per esempio, hanno iniziato una diplo-

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di Paul Dietschy *

Lo sport fascista nell’Europa degli anni TrentaModello, sfida, mezzo di controlloe cultura del consumo

___________________________________________________________________________________________* Storico, francese, specializzato nella storia dello sport, in particolare del calcio. Trale sue pubblicazioni: Histoire du football, Paris, Éditions Perrin, 2010

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mazia sportiva già dopo la prima guerra mondiale, maè comunque la prima volta che lo Stato dà importan-ti mezzi allo sport e inizia una politica di costruzione distabilimenti sportivi; un atteggiamento che sarà se-guito con particolare attenzione dai regimi democra-tici, in particolare di Francia, Belgio e Svizzera.

Terzo punto, questa politica significa anche un cam-biamento del concetto di internazionalismo sportivo,nato con de Coubertin e l’organizzazione dei primi Gio-chi olimpici dell’era moderna nel 1896 ad Atene. Finoa quel momento l’internazionalismo sportivo ha comescopo la fratellanza tra i popoli, la pace – anche sec’è un aspetto meno idilliaco, che è l’idea di voler co-struire una gerarchia tra i popoli –; il fascismo lo tra-sforma in ambizione di vittoria, vincere è tutto, e inpiù mescola i simboli nazionali con quelli dell’ideolo-gia fascista.

Un altro aspetto di questo idealtipo è la volontà,che a dire il vero si può trovare anche nella democra-zia, di sedurre le masse e creare consenso tramite losport spettacolo e la stampa, la radio, l’informazionescritta, i cinegiornali dell’Istituto Luce. Da questo pun-to di vista è necessario praticare un esercizio di stori-cizzazione del fascismo, perché questa spettacolariz-zazione dello sport si trova anche in Francia, nellaSpagna prima della guerra civile e in Inghilterra.

L’ultimo punto, e anche in questo caso il regime fa-scista non ha l’esclusiva, è l’uso dello sport come me-todo di controllo ed esclusione.

Proverò a illustrare tutti questi aspetti suddividen-

do l’analisi in tre parti: la prima dedi-cata alle origini dello sport fascista, poivedremo come questa politica è allostesso tempo un modello e una sfidaper l’Europa sportiva, e infine prove-rò a evidenziarne le contraddizioni ele forme di controllo e persecuzione.

Le origini dello sport fascistaTutti i movimenti, come l’Opera na-zionale balilla, per esempio, hanno ori-gine nello sport dell’Ottocento, quan-do nasce un legame forte tra la ginna-stica e l’idea di nazione: è la ginnasti-ca che permette la promozione di unacultura nazionale con le sue qualità ela sua unicità.

Accade in Francia: dopo la guerradel 1870 c’è un grande sviluppo delmovimento ginnastico, con l’impor-tanza della dimostrazione collettiva ela divisa che si porta con fierezza. Eovviamente la stessa cosa si sviluppaanche in Italia, specialmente durantela prima guerra mondiale, quando laFederazione ginnastica nazionale è di-retta da un presidente che dà un o-rientamento nazionalistico al movi-mento. Anche se non si deve pensareche queste organizzazioni abbiano par-

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L'INTERVENTO

ticolarmente ispirato il fascismo, perché in Francia i movimenti di ginna-stica sono antifascisti, e in Italia esistono anche organizzazioni di stampocattolico, o le famose società Forti e Liberi di stampo socialista o operaio.

Secondo punto importante è l’esperienza della guerra. Ci sono im-magini di propaganda francese che mostrano il fronte occidentale nonarmato di soldati, blindati ecc. ma di sportivi: è una specie di discorsoprodromo che vuole mostrare che lo sport è il migliore strumento perpreparare i francesi alla guerra, piuttosto che avvicinarsi con un addestra-mento militare. C’è anche una metafora, molto utilizzata all’inizio del con-flitto, quella del grand match, in francese, in inglese del great game, initaliano della grande partita, che sarebbe ovviamente la guerra. Questospirito è molto utilizzato dalla stampa sportiva italiana, la quale sarà unsostegno importante per la prima politica sportiva del regime, all’iniziodel fascismo. Sulla Gazzetta dello sport, nel periodo dell’interventismo,si può leggere questo famoso editoriale: “Fratelli che avete conosciuto,praticato, amato lo sport, prendete la armi per lo sport più antico e piùforte, e più vero: la guerra. E si attende la sterminata falange di manipo-li perché lo sport vi ha dato forza fisica, capacità morale, disciplina e tusomma me lo rappresenti”.

La guerra è importante anche perché, soprattutto dopo Caporetto ela ritirata sul Piave, ha permesso di diffondere tra le masse rurali – chesono la gran parte delle armate italiane – lo sport, che la maggioranzadegli italiani non conosce – e lo stesso fenomeno si può constatare an-che in Francia. C’è poi un processo di standardizzazione, dato che lo sportproposto è il più semplice, il più diffuso e quello meno caro, ossia il cal -cio. Ecco perché l’Almanacco dello sport ha come copertina un soldato

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___________________________________________________________________________________________1° maggio 2015, Mayday, MilanoFoto by Giulia Zucca

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Lo sport fascista nell’Europa degli anni Trenta

che gioca a calcio, e lo si può anche trovare nei gior-nali di trincea, che sono chiaramente diffusi per in-quadrare i soldati.

Lo sport è anche utilizzato nella propaganda mili-tare in quella che si potrebbe chiamare la ‘brutalizza-zione’ prodotta dalla guerra: nei giornali di trincea,per esempio, compaiono immagini di un campionatomondiale di lotta, e molto spesso c’è l’assimilazionetra il calcio al pallone che diventa il calcio al nemico.

Ma forse ciò che è più importante sono le formedi inquadramento dei soldati, iniziate durante il con-flitto e che, in un certo modo, ispireranno le succes-sive grandi organizzazioni di massa come il dopolavo-ro, nato nel 1925. Ecco quello che scrive Lando Fer-retti, il primo presidente fascista del Coni, in un libroche è una specie di breviario dello sport, nel quale sicapisce, in sintesi, lo spirito che il regime vuole impri-mere allo sport: in questo libro Ferretti commenta l’o-pera del cattolico Giovanni Minozzi, creatore delle Ca-se del soldato, che miravano contemporaneamente afornire momenti ricreativi, a inquadrare moralmente isoldati e a diffondere l’idea di nazione. Ferretti scrive:“Il disperso di Caporetto divenne allora l’eroe dei trionfidel Piave, del Grappa, di Vittorio Veneto, attraversol’opera assistenziale svolta nelle Case del soldato, ne-gli spacci cooperativi, con scritti e discorsi di buonapropaganda – Ferretti capisce che in questo momen-to è diventata una specifica propaganda di massa chesarà successivamente utilizzata dal regime – quell’ope-ra tenace, appassionata, ardente di fede italiana svol-ta principalmente nelle retrovie ma anche sulle primelinee della grande guerra è ora ripresa, continuata,rafforzata di mezzi e di spiriti nuovi dal dopolavoro”.

Quindi il conflitto è sicuramente una matrice im-portante della politica sportiva fascista, e si potrebbeanche aggiungere il culto del pilota o il culto dell’ar-dito, che è contemporaneamente una specie di sol-dato tra atleti di alto livello e un soldato di forze spe-ciali.

Terzo punto per capire l’origine e l’eredità utilizza-ta dal regime è quello che possiamo definire ‘dopo-guerra sportivo’. Il dopoguerra è stato infatti imme-diatamente sportivo per diverse ragioni, forse ancheper il bisogno di molti europei di distrazione e diver-

timento dopo la tragedia del conflit-to. I campionati di calcio conoscono ungrande successo negli anni tra il ‘21 eil ‘23, anche se non bisogna dimenti-care la ragione politica che vi sta die-tro, ossia la volontà di utilizzare lo sportsul piano diplomatico. Come per i Gio-chi Interalleati, organizzati nel giugno/luglio 1919 a Parigi, ai quali parteci-pano 1.415 atleti rappresentanti di 19nazioni, e un grande pubblico in unostadio che tiene tra le ventimila e letrentamila persone. L’Italia si classifi-ca terza dietro gli Stati Uniti e la Fran-cia, ma forse l’aspetto più importan-te non è la partecipazione o il pubbli-co ma il fatto che, ben lontani dall’es-sere una manifestazione di fraternitàtra alleati, i giochi sono pervasi di ag-gressività e nazionalismo. La partita dirugby tra Francia e Stati Uniti ne dàl’esempio. Così è descritta da un te-stimone americano: “Quello che si puòfare di meglio senza coltello e pisto-la”. Senza dimenticare la rivalità tra ledue potenze, che vogliono entrambemostrare di aver vinto la guerra.

In questo periodo c’è anche la vo-lontà di ricerca di uno stile nazionale,e l’idea che la nazionale di calcio rap-presenti le virtù, il corpo, la manieradi muoversi, la morale di una nazio-ne. Uno dei primi Paesi ad aver pro-posto questa interpretazione è la Spa-gna, che si classifica terza al torneodi calcio di Anversa nel 1920. I gior-nalisti spagnoli descrivono il modo digiocare della propria squadra come la“furia spagnola”, un’espressione cherichiama la famosa ‘furia francese’,quindi un gioco aggressivo, virile, per-ché deve dimostrare che se anche glispagnoli non hanno fatto la guerra, so-no lo stesso degli uomini.

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L'INTERVENTO

Questa passione si mostra anche durante l’inaugurazione dello sta-dio Wembley a Londra nel 1923, una specie di catastrofe che termina con60 feriti e che viene descritta un feu terreur, un episodio che evidenzia ilpotere di suggestione, di attrazione del calcio, la necessità di controllarele folle e quanto le stesse folle possano essere utilizzate come mezzo dipropaganda.

D’altra parte Psicologia delle folle, il famoso saggio di Gustave Le Bon,è del 1895 e Mussolini l’aveva letto con attenzione: chi sa dominare lefolle può prendere il potere, scriveva Le Bon. In questo dopoguerra si ma-nifesta un inizio di violenze sportive, anche in Francia, ed è un problemaimportante da gestire all’inizio del regime fascista. C’è una violenza dif-fusa sui terreni di calcio, in particolare nel nord Italia, in piccoli centri maanche a Torino, e questo è ciò che scrive Paese Sportivo, periodico tori-nese, nel luglio 1925, per la finale di campionato tra il Bologna e il Ge -noa: “Le squadre non bastano più, ci vogliono i fiancheggiatori i quali ope-rano per tribune o nei posti popolari, allo scopo di mettere i fiancheg-giatori avversi in condizioni di inferiorità e così preparare l’atmosfera piùadatta alla vittoria dei propri colori”. Un testo decisamente molto attua-le, se si pensa agli ultras di oggi. La partita termina in parità, e i sosteni -tori del Genoa e del Bologna si trovano alla stazione di Porta Nuova; eccocosa racconta Paese Sera: “Nella stazione di Porta Nuova sono avvenutialcuni incidenti alla partenza dei due treni speciali, uno per Genova e unoper Bologna. Tra le schiere di supporter genoani e bolognesi venneroscambiate invettive e ingiurie e vennero sparati alcuni colpi di rivoltella,e pare che un supporter genoano sia rimasto ferito piuttosto gravemen-te”. I supporter del Bologna sono vicini agli squadristi e al fascio locale,quindi il problema del tifo violento è qualcosa che il regime deve regola-re, ma lo fa in modo dubbio. Dopo questo incidente infatti, viene varatauna legge che prevede che ogni partita debba essere autorizzata dal pre-fetto, ma per tutti gli anni Trenta persiste un’atmosfera di regionalismoe campanilismo molto forte, che il regime utilizza, attraverso il federalelocale, come sostegno alla squadra locale di calcio, in una politica deci-samente ambivalente.

Modello e sfida per l’Europa sportivaLa politica sportiva fascista può essere definita un modello, perché vi siispirano anche regimi democratici, e una sfida, quella degli stadi, che pre-cederà quella delle armi. All’estero è quindi seguita con una certa ammi-razione e un po’ di timore.

I giornalisti sportivi hanno subito aderito al governo Mussolini, ap-pena qualche settimana dopo la marcia su Roma. Secondo il saggista Fe-lice Fabrizio, che ha scritto la prima storia dello sport fascista in Italia,molta influenza ha avuto il complesso di inferiorità dei giornalisti sporti-vi, che li ha portati a dare un immediato consenso a un capo di governo

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Lo sport fascista nell’Europa degli anni Trenta

che finalmente non disprezzava lo sport, come gli uo-mini politici che lo avevano preceduto, e quindi a po-ter sperare di vedersi riconosciuto un diverso statutoprofessionale. I fatti dimostrano in breve tempo chele speranze nutrite erano fondate: nel marzo 1923 ilministro dell’Istruzione pubblica Giovani Gentile an-nuncia infatti la creazione dell’Ente nazionale per l’E-ducazione fisica, che sarà la prima pietra verso la po-litica sportiva del regime.

Certamente il fascismo è il primo a politicizzare losport in Europa, ma anche nelle democrazie c’è que-sto interesse da parte dei governi. In Francia la ragio-ne principale è che lo sport permette di dimostrareche il Paese non è stato distrutto dalla prima guerramondiale, che c’è ancora una giovinezza francese, chequesta grande potenza non è stata segnata dal con-flitto. Nasce in questo periodo la tradizione, importa-ta dall’Inghilterra, secondo la quale il presidente del-la Repubblica consegna la Coppa di Francia e saluta igiocatori prima della partita. È chiaro che in questo ge-sto c’è anche una componente ideologica, perché laCoppa di Francia è forse la competizione più popola-re, forse più del campionato, perché è la simbolizza-zione del principio meritocratico della Repubblica, deivalori francesi; nella Coppa di Francia la piccola so-cietà può battere la grande società professionistica,perché i giocatori sono valorosi, lavorano molto, sonoseri ecc.

La politica sportiva del regime è prima di tuttouna politica edilizia, ed è per questo che è importan-te agli occhi degli altri Paesi. Tra il ‘27 e il ‘34 il fasci-smo mette in opera una vasta campagna di costru-zione di stadi e terreni sportivi, di due tipi: il campo lit-torio, con spogliatoi, una pista per l’atletica leggera eun campo da calcio, che è il modello standardizzatoper la fatica di massa, allo scopo di fare degli italianiuna nazione sportiva; e i grandi stadi, nella periferiadelle grandi città, per esempio lo stadio Berta a Firen-ze, dedicato al ‘martirio’ del fascismo, e lo stadio Mus-solini a Torino. Sono stadi moderni, costruiti con tec-niche all’avanguardia, con uno stile architettonico chesi può definire futurista, e che sono fonte di ispirazio-ne molto importante all’estero. Influenzano infatti lostadio di Berlino dei giochi olimpici, gli stadi-velodro-

mi di Marsiglia e Bordeaux. Anche icampi littori orientano gli altri Paesi,perché rispondono a una domandapresente in tutta Europa, quella distadi di piccole dimensioni e piscine;si trovano molti esempi nella perife-ria di Parigi, municipi di sinistra, radi-cali, socialisti e anche comunisti inizia-no a costruire questo tipo di stabili-mento. Anche se c’è una differenza:negli anni Venti e Trenta, in Francia,sono le giunte comunali a iniziare que-sta politica, non lo Stato, come acca-de in Italia. Solo nel 1936 il governodel Fronte popolare, per risponderealla pressione della stampa francese,che descrive con favore la politica spor-tiva fascista, lancia la prima politica spor-tiva nazionale.

Questa influenza si può sentire an-che nel Regno Unito. Già nel ‘35 vie-ne creato il Central council for Crea-tive physical training, allo scopo di in-coraggiare e promuovere le organizza-zioni e le attività sportive, in partico-lare presso le scuole, per migliorare laforma fisica della nazione. Questa di-sposizione viene completata nel ‘37con il Pphysical training and recrea-tion Act, una legge che vuole facilita-re l’accesso allo sport e all’educazionefisica da parte dei giovani attraversosovvenzioni agli enti locali per la co-struzione di piscine e terreni di gioco,del tutto simili ai campi littori; l’in-tento è quello di lottare contro l’impat-to della crisi e la seduzione del mo-dello fascista.

Secondo elemento importante èquella che si potrebbe definire unapolitica estera sportiva, che si tradu-ce in una sovversione dell’internazio-nalismo sportivo. Si è prima richia-mata l’opera di de Coubertin, che nel

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L'INTERVENTO

1894 a Parigi, durante il congresso che ristabilisce i giochi olimpici, di-chiara: “Il ristabilimento dei giochi olimpici su una base moderna e concognizioni adattate alle necessità della vita moderna metterebbe in pre-senza ogni quatto anni i rappresentanti delle nazioni del mondo, e si puòcredere che queste lotte pacifiche e cortesi costituiscono i migliori degliinternazionalismi, così lo sport deve contribuire alla pace”. Nel 1920 il mi-nistero degli Affari esteri francese crea un servizio di propaganda che sichiama Servizio delle opere francesi all’estero; si tratta di diffondere gliautori e la cultura francesi attraverso una rete di centri culturali, con se-zioni che si occupano anche di turismo e sport. In aggiunta, dal ‘20 finoal ‘25 il Comitato francese olimpico viene fortemente sovvenzionato, persupportare anche la creazione di club sportivi all’estero. È grazie a que-sta rete di diplomazia che la Francia riesce a strappare all’Italia l’organiz-zazione dei giochi olimpici del 1924.

C’è anche una forte politicizzazione dello sport. Ecco come Ferrettidefinisce i giochi nel ‘28: “Le olimpiadi, rassegna quadriennale delle stir-pi, sono di questa grandezza, cioè della patria. Tendiamo perciò a far sìche nella prossima olimpiade di Amsterdam l’Italia abbia il posto che or-mai le spetta per opera del fascismo nel mondo” – nel dopoguerra, perinciso, si verifica una sorta di complicità, o di volontà di non vedere, que-sta forma di politicizzazione, atteggiamento che pone la questione dellacontinuità di questi legami tra dirigenti sportivi; nel 1954 Jules Rimetcosì descrive il generale Vaccaro, presidente della Federazione italianadel calcio: “Non dobbiamo giudicare nel generale Vaccaro il personaggiopolitico, ma lo sportivo ci appartiene. Abbiamo il diritto di dire che èstato per l’associazione italiana un presidente prestigioso, e tutti quelliche sono stati nella federazione con lui devono dare la testimonianzadella loro simpatia”.

Un altro elemento importante è la questione del consenso del con-sumo sportivo. L’esempio più immediato è quello di Primo Carnera cheha giocato, come altri atleti, volenti o nolenti, la sua parte nella conver-sione ideologica dello sport. Carnera è stato il primo italiano vincitoredella categoria dei persi massimi nel 1933, ma è stato prima di tutto unacreazione del manager francese Léon See. Carnera è un immigrato dalFriuli e viene ingaggiato da Paul Journée, allenatore al servizio di LéonSee, perché è un colosso immenso, e Journée pensa che si possa fare diquesto lottatore un grande boxer. All’inizio la figura di Carnera è quelladel buon gigante, non è un pugile con molta scienza ma è un personag-gio simpatico, al punto che lo si può trovare in réclame pubblicitarie fran-cesi nel ‘32. Poi il pugile cambia Paese e cambia immagine. Diventa, comeha mostrato Daniele Marchesini nel suo bel libro Carnera, il simbolo dellarivoluzione antropologica realizzata dal regime. In un momento in cui lataglia media degli italiani è di un metro e 60 centimetri, e in cui moltigiovani sono riformati alla leva, Carnera diventa non solo un simbolo di

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Lo sport fascista nell’Europa degli anni Trenta

questa rivoluzione, ma anche un personaggio dello star system, dell’indu-stria del consenso e del divertimento. Quindi Carnera è interessante per-ché mostra due aspetti della politica del regime: è aggressivo – è quellopuò dare un pugno ai fucili degli avversari del campo democratico – maè contemporaneamente simbolo di una cultura del consumo che si dif-fonde anche sotto il fascismo.

Carnera è solo una parte di questa cultura e della costruzione del con-senso. Lo sport invade infatti la stampa italiana, per esempio La stampadi Torino, diretta all’inizio degli anni Trenta da Curzio Malaparte, entra nelcinema e nella letteratura per i giovani, e nelle réclame pubblicitarie,come nel caso di quella del Cinzano, che recitava: dopo lo sport beveteun Cinzano.

È però difficile trovare una specificità italiana, perché il calcio è una cul-tura europea e il fatto di mescolare consumo e sport è una cosa che si tro-va in Francia, in Italia, in Germania prima dell’arrivo al potere di Hitler.

Mezzo di controllo e persecuzioneCome abbiamo già accennato, la nascita di una politica sportiva significala fine della società civile dello sport. Nel 1925 Lando Ferretti è nomina-

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30 aprile 2015, Corteo studentesco No Expo, MilanoFoto by Giulia Zucca______________________________________________________________________________________________________________________

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to presidente del Coni; è un fascista, certo per bene – se esistono fasci-sti per bene – chiamato a dirigere questo ente per conto del regime. Lastessa creazione dell’Opera nazionale del dopolavoro, che la storica ame-ricana Victoria de Grazia ha definito un mezzo di standardizzazione del tem-po libero, è anche un mezzo per controllare lo sport dilettanti. Nel ‘26 vie-ne istituita l’Opera nazionale balilla e nel ‘28 c’è la promulgazione dellaCarta dello sport. Il Coni passa sotto il diretto controllo del partito – il se-gretario del partito nazionale fascista diventa di diritto il presidente delConi – e i presidenti delle diverse federazioni sportive vengono nomina-ti e non più eletti – perfino per la federazioni degli scacchi.

Questa presa di controllo delle società sportive può essere osservataa tutti i livelli. A Torino, per esempio, tutte le società di stampo operaioo socialista vengono sciolte o prese in mano da fascisti – la società sportdel Lingotto diventa il gruppo sportivo Dresda, dedicato al ‘martirio’ delfascismo. Anche una società come la Juventus subisce questa politicizza-zione e questa dinamica totalitaria: nel ‘22 aveva costruito il proprio cam-po, il campo Marsiglia, ma nel 1935, su invito del podestà e del segreta-rio federale di Torino, si trasferisce nello stadio Mussolini. Dopo la mor-te di Edoardo Agnelli, la famiglia non si interessa più alla società sporti-va e la Juventus inizia a sentire la mancanza di denaro, subendo l’influen-za del federale a tal punto che il nuovo presidente Emilio de la Forestsceglie, sempre su invito del federale, di cambiare la struttura della socie-tà, per farne una società di massa e popolare, aperta a tutti gli sport, enon più aristocratica.

Viene istituito anche una sorta di mecenatismo imposto agli indu-striali, che viene denunciato solo dopo la caduta di Mussolini nel set-tembre ‘43. Il quotidiano La Stampa scrive: “Il federale convocava gli in-dustriali e i commercianti di forti possibilità finanziarie e li convinceva,anche se erano riluttanti, ad accettare la presidenza della società da sal-vare. Il sistema aveva vantaggi immediati e svantaggi a non lunga sca-denza, e spesso gli improvvisati dirigenti non aspettavano che l’occasio-ne propizia per svignarsela, cercando in vario tempo di recuperare lamaggior parte dei denari dovuti sborsare per forza”.

Non avviene diversamente in Germania. Dal gennaio ‘33 il Führer èimpegnato nella politica sportiva e nel ‘38 le federazioni tedesche perdo-no l’autonomia, venendo integrate nella Federazione nazionalsocialistadegli esercizi fisici interfederali, ente direttamente sotto il controllo delpartito nazista. Anche in Francia, durante il regime di Vichy, lo sport vie-ne messo sotto controllo. Nel dicembre del 1940 viene promulgata la Car-ta dello sport, che fonda la dottrina sportiva del regime su tre principi:unità, autorità e disciplina. Parole che potrebbero essere riprese dal re-gime fascista. Anche qui le federazioni devono essere autorizzate dalCommissario generale dello sport, e i loro presidenti sono nominati di-rettamente dal commissario stesso. È la fine della democrazia sportiva.

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Lo sport fascista nell’Europa degli anni Trenta

In questa costruzione dell’uomo nuovo sportivo vi sono tuttavia con-traddizioni che si possono trovare sia in Italia, che in Francia che in Ger-mania. Ci sono infatti sport che non sono idonei, in particolare in Italia c’èil ciclismo, molto popolare, eppure Mussolini non è mai andato a unatappa del Giro. Per lui il ciclismo mostra un’Italia del passato, con stradenon asfaltate, un sud desolato, quindi non è certo lo sport fascista. L’a-tletica leggera, il nuoto e il rugby sono sport fascisti. I primi due perchénecessari al soldato, l’ultimo perché è uno sport di combattimento. Lapalla ovale è anche lo sport delle élite fasciste, ed è molto importante inItalia, Germania – basti pensare che la Federazione Fira (Federazione in-ternazionale del rugby amatoriale) riunisce persone che hanno conver-genze ideologiche, e una delle lingue ufficiali è il tedesco – e Francia,dove il rugby è presentato come lo sport per la giovinezza di Vichy.

La contraddizione sta nel fatto che per gli italiani, i francesi e anche itedeschi, lo sport del dopolavoro sono le bocce: 200.000 praticanti in Ita-lia. Ma non si può certo dire che le bocce siano uno sport fascista!

Infine, un rapido accenno all’aspetto della persecuzione e quello del-la resistenza. Si può dire che c’è una convergenza tra i tre regimi perchéprogressivamente, brutalmente in Germania e progressivamente in Ita-lia e in Francia, lo sport diventa anche un mezzo per escludere coloro chenon devono fare parte del movimento sportivo, cioè i socialisti, i comu-nisti, poi in Italia i cattolici, e ovviamente gli ebrei. C’è anche un modo dipraticare l’esclusione nelle colonie, e in questo senso l’Italia non è sola,nella volontà di assegnare ai calciatori indigeni il ruolo di coloro che nonsanno giocare se non a piedi nudi, con brutalità. Ci sono poi attacchi del-l’Italia alla Francia per il primo giocatore francese nero nella nazionaledi calcio, e quando nel 1938 la squadra va Napoli per giocare si scatenauna fortissima indignazione nella stampa italiana.

In tutto questo ci sono anche alcuni individui che scelgono di dire no,in Italia, in Germania e Francia, dove viene anche creato un movimentodi resistenza sportivo che protesta contro la deportazione degli sportiviebrei.

In conclusione, la storia del fascismo sportivo non è solo italiana maè europea. Quindi non si può capire la storia dello sport in Europa senzatracciare il percorso delle influenze, e la si deve rileggere anche in que-sta prospettiva; da qui deriva la permanenza di certi dirigenti nel dopo-guerra, e il fatto che nei tre Paesi la maggior parte degli sportivi non ab-bia mai fatto un esame di coscienza.

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(DIS)ORIENTAMENTI

Le fortune elettorali del Front national di Marine Le Pen dalle elezionieuropee in avanti hanno portato i vertici del partito, come già visto, a unlavoro di restyling, anche provocando non pochi strappi addirittura fami-liari, con un vero e proprio scontro in casa Le Pen fra l’anziano padre Jean-Marie e la figlia, uno scontro soprattutto generazionale fra chi non si faproblemi nell’esternare posizioni apertamente xenofobe e addirittura an-tisemite, come già avvenuto in passato (1), e chi, come Marine, cerca ditutto per accreditarsi come forza antisistemica e sociale ma al contempogradita e presentabile alla comunità ebraica francese e agli ambienti im-prenditoriali d’oltralpe.

Se guardiamo al caso, possiamo osservare come il Front di Jean-Ma-rie e poi di Marine sia passato da un chiaro neoliberismo negli anni ‘70-80 – in pieno boom neoliberista, la rivoluzione conservatrice inauguratanel 1979-1980 dal duo Thatcher-Reagan – a delle posizioni che in lineateorica sembrano più seducenti per gli strati popolari colpiti dall’odiernacrisi. Di fronte a una sinistra pressoché inesistente, incapace di proporreserie alternative al sistema eurocratico, chi si avvantaggia è sempre la de-stra reazionaria e al contempo sociale e populista, che riempie spazi vuo-ti. Se da noi è la Lega Nord a occupare sia lo spazio di una sinistra assen-te che quello di una destra terminale (Fratelli d’Italia), chi fa questo nellavicina Francia è il partito nazionale – nel senso interclassista del termine– di Marine Le Pen.

Già si è parlato della capacità di questa destra nella penetrazione nei

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Il Front national fra neoliberismo, destra socialee preferenza nazionaledi Matteo Luca Andriola

___________________________________________________________________________________________1) Cfr. «Le camere a gas erano un dettaglio della storia della seconda guerra mondia-le», dall’intervista alla rivista Bretons del 25 aprile 2008, citato ne Il Manifesto, 26aprile 2008

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bastioni della sinistra (2), ma com’è veramente il programma del partitolepenista? È il caso di partire non dalle suggestioni o da quello che so-stengono i militanti – molti dei quali, provenendo dalla destra radicaleextraparlamentare, si rifanno a posizioni estreme e socialmente avanzatedi tipo neocorporativo – ma dai programmi ufficiali. A riguardo è il casodi analizzare quello proposto nel 2012, in occasione delle presidenziali.Ora, con un Front national al 24,8% (dati elettorali delle europee), capacedi sfondare negli ambienti tradizionalmente di sinistra, è il caso di vederequesto programma così di sinistra espresso da un partito tradizionalmentedi estrema destra, capace quindi di andare al di là della destra e della sini-stra. Il documento Mon projet. Pour la France et le française può esseredefinito il classico biglietto da visita per accreditarsi verso quei settori delceto medio imprenditoriale stufi – giustamente – degli squilibri della Ue.La prima parte del documento – tra l’altro fortemente approvato da tuttiquei settori della fascisteria e della post-fascisteria nostrana, tipo La De-stra di Storace, Fratelli d’Italia e pure il partito che con la Le Pen ha lacorsia preferenziale, cioè la Lega Nord – è dedicata interamente all’eco-nomia, un compendio di liberismo mitigato. In che senso? Nel senso che inumerosi filoni interni al Front hanno capito benissimo che il dissolvi-mento degli Stati nazionali interni alla Ue è funzionale solo alla libera cir-colazione del grande capitale finanziario, e quindi, adottando alcuni prov-vedimenti protezionistici, si cerca di ovviare al tutto, una sorta di toppanella falla.

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___________________________________________________________________________________________2) Cfr. Matteo Luca Andriola, Il Front national in Francia: la cavalcata di Marine LePen, Paginauno n. 38/2014

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(DIS)ORIENTAMENTI

Ma andiamo con ordine: il programma frontista (3) promette sui sala-ri un minimo di 1.500 euro. Il ribasso delle tariffe di gas ed elettricità del5% (l’energia proveniente da fonte nucleare non si tocca, come l’alta ve-locità!) e dei carburanti alla pompa. Per quanto riguarda il sistema pen-sionistico si promette un aumento delle pensioni minime a 750 euro, ri-stabilendo il diritto alla pensione dopo quarant’anni di lavoro o sessant’an-ni di età. Nulla si dice, però, contro il meccanismo contributivo vigentein Francia. Si promette il ritorno al franco, ergo la sovranità monetaria,con l’euro che però non scompare del tutto, ma diventa moneta comune,probabilmente una sorta di moneta di conto tra le varie banche centrali na-zionali, proponendo invece il controllo sui movimenti di capitale. Il Front,inoltre, propone una politica contro le delocalizzazioni, introducendo for-me di protezionismo verso il Made in France, la difesa del commercio aldettaglio contro la grande distribuzione, anche se non è presente alcun ac-cenno a una politica a favore della piena occupazione (è evidente la pre-occupazione di conservare una quota di disoccupati così da tenere sottocontrollo le eventuali spinte salariali). Vi è però una fortissima contraddi-zione: se il programma propone apertamente di combattere la finanza spe-culativa, come può avvenire questo senza una nazionalizzazione del set-tore bancario, non previsto dal programma? Come fare se non è richiesta

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___________________________________________________________________________________________3) Cfr. Mon projet. Pour la France et le française, in www.frontnational.com/pdf/projet_mlp2012.pdf, 8 marzo 2012

1° maggio 2015 Mayday, Milano Foto byGiulia Zucca

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Il Front national fra neoliberismo, destra sociale e preferenza nazionale

l’abolizione delle banche d’affari, non chiedendo neppure che la Bancacentrale torni in mano allo Stato, affermando solo che questa deve presta-re soldi al governo senza interessi? Non è un po’ troppo poco per una for-za politica che sostiene di voler rompere con il vigente sistema? Insomma,le differenze fra questa opposizione di destra e quella cosiddetta di sini-stra sembrano veramente così poche alla prova del programma economico.

La mitigazione del programma liberista – una via di mezzo fra il key-nesismo soft e un timido liberismo – è frutto senz’altro della paura dellamondializzazione economica in corso. Tipico delle nuove destre populi-ste – da non confondere con la nouvelle droite, la corrente filosofica ri -voluzionario-conservatrice animata da Alain de Benoist – è interpretare ilfenomeno della globalizzazione, o come viene definito a destra ‘mondia-lismo’ (4) – termine che in Italia circola grazie ai nazional-rivoluzionaridi Orion – come una porta girevole, da tenere chiusa quando sono in di-scussione i diritti degli immigrati – buoni solo a fornire manodopera a co-sto basso e a fare da capro espiatorio – e la tutela delle identità nazionalio etno-culturali (localistiche e non), da tenere spalancata quando sono ingioco gli affari, l’economia, e quando essa sembra andar bene.

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___________________________________________________________________________________________4) Il mondialismo è più che un modo diverso con cui gli ambienti del radicalismo didestra – e la stessa nouvelle droite – designano la globalizzazione. Esso è “un com-plesso di forze che hanno come base un’ideologia sintetizzabile nell’idea che all’altafinanza competa il diritto-dovere di amministrare un pianeta fatto di una monorazza edi una monocultura” (M. M. [M. Murelli], Un Luna park chiamato Berlino, in Orion,n. 62, novembre 1989, p. 3, dove si critica il crollo del Muro nel 1989, inizio dell’o -mogeneizzazione del globo sotto le insegne dell’american way of life). Ovviamente viè una differenza sostanziale fra la nouvelle droite e la destra radicale: per la prima ilmondialismo è ontologicamente insito nella natura del capitalismo stesso, mentre peril radicalismo di destra (cfr. testate come Orion, Avanguardia, Aurora, L’Uomo libero,Heliodromos, che dagli anni Ottanta-Duemila hanno trovato una certa diffusione nel -l’ambiente, ufficialmente estranee alla nouvelle droite, ma capaci di intrattenere conlei contatti e rifarsi alle analisi di Alain de Benoist, estremizzandole), partendo dalpresupposto che l’ebraismo – alla pari del cristianesimo, del resto – è giudicato “lostrumento privilegiato per lo scardinamento di tutti gli assetti tradizionali” (Caleido-scopio, n. f. [ma attribuibile a M. Murelli], in Orion, n. 39, dicembre 1987, p. 82), talecomponente della destra è legata a suggestioni tratte dal cospirazionismo, dove a tirarele fila dei processi di omogeneizzazione culturale sono le alleanze segrete fra l’alta fi -nanza (ovviamente ebraica), le organizzazioni massoniche con a capo il B’nai B’rith ei vari circoli sionisti. Da qui, appunto, l’ulteriore accentuazione della tematica antise-mita, vista la convinzione che il sionismo è “l’architrave del progetto mondialista” eche i vari circoli finanziari mondiali siano tutti “casa, borsa e sinagoga” (C. Terraccia-no, Caleidoscopio. Giugno 1987 e dintorni: Apocalypse now, in Orion, n. 33, giugno1987, p. 292). Il sionismo e il mondialismo sono descritti come le due facce della stes-sa medaglia, perché il primo è “una delle componenti più importanti [...] del discorsomondialista [...]. Il sionismo [...] è genocida e razzista [...] oggi l’unico vero razzismoesistente al mondo è quello praticato dal sionismo nazionale e internazionale. Un raz-zismo che affonda le sue radici nella storia, nella cultura e nella religione ma, certa -mente, l’unico vero e identificabile potere razzista e genocida” (Manifesto del 17maggio 1987, pubblicato in occasione del primo convegno internazionale organizzatoda Orion, n. 34, luglio 1987, p. 339)

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(DIS)ORIENTAMENTI

Ma non sempre è stato così: un documento del Parti communiste fra-nçaise del 2011 analizza l’evoluzione della politica economica frontista,che negli anni Ottanta era “il liberismo tipo Reagan-Thatcher, qualche cosache assomigliava all’esperienza del Cile di Pinochet. Raccomanda la li-bertà d’impresa e la deregolamentazione dei mercati finanziari e dell’eco-nomia. Nello stesso tempo, l’ultra liberismo del Fn è condito con un certoprotezionismo: chiusura delle frontiere, barriere doganali per certi prodot-ti... [...] Il Fn prende a prestito da quello che chiamiamo il fascismo delleorigini l’idea di una società senza classi sociali e una visione fortementecorporativista del mondo economico e sociale. Corporativismo nel sensoche non c’è bisogno di sindacato. Poiché operai e padroni hanno lo stessointeresse: affinché l’impresa funzioni è preferibile capirsi tra operai e pa-droni in modo che le imprese francesi, e con esse i francesi, vincano. Que-sta visione bandisce i sindacati e in essa non c’è alcuna possibilità che loStato abbia qualsiasi ruolo di regolazione economica o sociale. Lo Statodeve lasciare giocare la regolazione darwiniana dei mercati. Le buoneimprese sopravvivranno e prospereranno mentre quelle cattive spariran-no. È dunque necessario creare molte imprese francesi e permettergli diessere più libere possibili, con meno tasse, meno imposte e meno restri-zioni per far sì che si sviluppino nel mercato mondiale e che partecipinoalla guerra economica mondiale. Storicamente questa visione delle cosesarà, durante gli anni ‘80, quella di Reagan, della Thatcher e degli econo-misti della scuola di Chicago” (5). Appare chiaro che la presunta attenzio-ne verso i ceti deboli, che dovrebbero essere protetti dall’economia glo-bale dalla chiusura delle frontiere e dai dazi, nasconde invece una politi-ca palesemente classista e un iper-sfruttamento dei lavoratori.

Il programma economico frontista di quegli anni – ma anche quello dioggi, nonostante il neoliberismo sembri mitigato – subisce la fascinazio-ne di numerose analisi elaborate a suo tempo da certi circoli gravitanti in-torno alla nouvelle droite e al Grece, come il Club de l’Horloge (CdH),che elabora il concetto di preferenza nazionale. Il circolo, nato nel 1974attorno alla rivista Contrepoint su iniziativa di Yvan Blot, animatore allafacoltà di Scienze politiche di Parigi del Circolo Pareto, espressione delGrece, riunì simpatizzanti dell’Istitut national de sciences politiques tuttiprovenienti dalla pubblica amministrazione, dal privato e dalle grandesécole – come Alain Devaquet e Jean-Yves Le Gallou, ex allievo all’Écolenationale d’administration (Ena), collaboratore di Nouvelle École e poimembro del Fn – differenziandosi dal Grece, nonostante alcuni confon-

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___________________________________________________________________________________________5) Pcf, Combatre le Front National de Marine Le Pen, LEM, 2011, in http://lem.pcf.fr/13216, pp. 25-26

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Il Front national fra neoliberismo, destra sociale e preferenza nazionale

dano le due realtà (6). Il CdH si distacca dal Grece fra il 1979-1980 per-ché su posizioni diverse in quanto conservatore, atlantista, liberista e favo-revole all’interazione diretta con le destre, mettendosi – a differenza di deBenoist – al diretto servizio del conservatorismo gollista (Udf/Rpf), co-stituendo così un ponte con il frontismo, un’associazione composta da per-sone che “non volevano separare la loro carriera politica dalla loro parte-cipazione a un’impresa di rifondazione culturale” (7), un gruppo che hatutt’oggi organizzato convegni parlando del “modello Lega Nord”, un po-pulismo capace di andare al governo alleato ai moderati (8).

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1° maggio 2015Milano

Sos Fornacecontesta

l'inaugurazionedi Expo 2015.

Foto byGiulia Zucca

___________________________________________________________________________________________6) “L’etichetta [di nouvelle droite per identificare simultaneamente il Grece e il CdH]si rivela tanto vaga quanto ingannevole. In Francia è stata utilizzata nel linguaggiomediatico, a partire dal 1978, per designare il Grece [...] poi, per estensione, per riferirsi,dal 1979, all’insieme formato dal Grece e dal Club de l’Horloge. Si poteva allora si -tuare la produzione intellettuale di questi due club (o società) di pensiero al puntod’incrocio tra le destre parlamentari Udf/Rpf e i movimenti situati all’estrema destra.La nouvelle droite poteva essere interpretata come la figura di un neoconservatorismoalla francese. [...] È precisamente nel 1978-1979 che si approfondisce la distanza tra lasocietà di pensiero e il club di riflessione politica. Le loro divergenze ideologiche, nonmeno che il loro obiettivo allora comune (riarmare intellettualmente la destra in Francia),li situeranno in una situazione di rivalità mimetica e di lotta per il monopolio del ritornoalle fonti dottrinarie della destra”, P.-A. Taguieff, Sulla Nuova Destra, Vallecchi, 2004,pp. 46, 477) Ibidem, p. 468) A Parigi, il 6-7 dicembre 2008, alla XXIV Università annuale del CdH, alla presenzadi ospiti come Johannes Hübner del Fpö, Francis Van den Eynde del Vlaams Belang e

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(DIS)ORIENTAMENTI

Il Grece, invece, era perché l’economia “non [fosse] un fine, ma unostrumento al servizio della politica. Per questo è necessaria una direzionepolitica dell’economia che permetta l’emergere di un civismo economicosuperiore agli interessi e ai profitti del mercato, i quali non fanno neces-sariamente gli interessi della patria” (9) mentre per il CdH, composto daex grecisti desiderosi di fare politica, la promozione del welfare state noncrea solidarietà fra gli appartenenti alla stessa comunità identitaria – comespiegava invece il Grece – ma è un modo per creare omologazione, livel-lamento ed egualitarismo, elaborando una dottrina che fonderà il neocon-servatorismo alla Heyek, proponendo un “liberalismo al servizio dei po-poli”, dove “l’identità va di pari passo, in Occidente, con la libertà. [...] Es-sere libero significa affermare la propria identità, ciò vale sia per il singo-lo individuo che per il gruppo” (10).

Jean-Yves Le Gallou, del CdH, elaborerà nel libro La Préference na-tionale: réponse à l’immigration (Albin Michel, 1985) il concetto di pre-ferenza nazionale, ripreso poi nei programmi sull’immigrazione delle de-stre populiste europee, Lega Nord compresa, una ricetta che, se da una par-te non mette in discussione la liceità di un programma di liberalizzazioni,dall’altra inserisce paletti a sfondo identitario per l’accesso al welfare (ilclassico motto “Prima i nostri!”, o “Padroni a casa nostra!”), con la scusadi una scarsità di risorse pubbliche, indotta invece dalle privatizzazioni.Nel programma frontista, condizionato da queste tesi, proprio come nella

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___________________________________________________________________________________________il leghista Mario Borghezio, Henry de Lesquen, il presidente del Club, sostenne che“è soprattutto il «modello italiano che occorre seguire», ricordando che, dei tre partiti,la Lega Nord è la sola a partecipare a un governo. Fedele alla linea del suo circolo in -tellettuale, che lavora per una «unione della destra» che vada fino al Front national(Fn), de Lesquen ha difeso l’idea secondo la quale, in Francia, «i populisti devono parte-cipare a coalizioni di governo per ridurre il fossato che li separa dal popolo» [...] Nellasala che contava un’ottantina di persone, per lo più anziane, c’erano membri del Club,vecchi quadri del Fn, come Bernard Antony, vecchio capofila dei cattolici tradizionali-sti in seno al Fn, e Jean-Yves Le Gallou, che aveva seguito Bruno Mégret all’epocadella scissione del partito nel 1998. Ma anche un nuovo arrivato, Fabrice Robert, pre-sidente del Bloc Identitaire, un gruppo di estrema destra radicale. Affermando di esse-re stato «invitato a titolo amichevole da Henry de Lesquen», Robert, che non figuravasulla lista dei relatori, ha partecipato al dibattito di chiusura del sabato, al fianco di LeGallou e de Lesquen. Sul palco, Robert ha vantato le azioni del Bloc Identitaire come«le ronde dei militanti nelle zone del racket» e la «distribuzione di zuppa di maiale» aisenzatetto – misure, queste, molto applaudite dalla sala. Ma Fabrice Robert ha anchesvelato parte della strategia del suo gruppo politico: «Vogliamo conquistare gli spiritie intervenire sul terreno sociale. Seguiamo una logica di entrismo in sindacati comel’Fo [Forza operaia, n.d.a.] o la CFTC (Confederazione francese dei lavoratori cristia-ni). D’altronde già alcuni delegati dell’Fo appartengono al Bloc Identitaire»”. A. Me-stre, La Ligue du Nord italienne seduit le populistes européenne, in Le Monde, 8 di-cembre 20089) Ch. Champetier, Europe trosième Rome, Grece, 198810) Lettre d’information du Club de l’Horloge, n. 39, 1988, p. 1

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Il Front national fra neoliberismo, destra sociale e preferenza nazionale

visione di Reagan e della Thatcher non c’è spazio per lo stato sociale,dato che “gli immigrati sono i responsabili della disoccupazione [...]. Datoche il loro programma [del Fn, n.d.a.] è ultraliberale, non c’è possibilitàdi utilizzare le imposte, poiché sono necessarie meno imposte, non è inol-tre possibile aiutare i disoccupati, quindi le persone non devono esseredisoccupate. Gli aiuti sociali sono addirittura messi sotto accusa a quel-l’epoca da parte del Front National, poiché sono considerate dispendiosee non corrispondono alla visione che il Front National può avere in terminieconomici e sociali sul ruolo dello Stato nell’economia” (11). Il Front na-tional, infine, è per “uno Stato forte, contro lo stato sociale, contro l’assi-stenza sociale, il lassismo con una visione autoritaria e disciplinare, poli-ziesca, repressiva ecc. Ma con l’assenza enorme di un intervento nel cam-po sociale stesso. Non sentiamo mai parlare di servizio pubblico nel pro-gramma del Fn. [...] La valorizzazione dell’azione individuale e dell’im-prenditorialità, con l’antifiscalismo, la deregolamentazione e tutta una se-rie di cose come l’accesso alla proprietà individuale. Il Front National nonpropone degli alloggi sociali, ma propone di dare quelli che esistono aifrancesi e di riservare loro l’accesso alla proprietà. È la priorità delle priori-tà per il Fn” (12).

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30 aprile 2015MilanoCorteo

studentescoNo Expo.

Foto byGiulia Zucca

___________________________________________________________________________________________11) Pcf, Combatre le Front National de Marine Le Pen, cit, p. 2912) Ibidem, p. 47

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(DIS)ORIENTAMENTI

Il programma neofrontista di Marine Le Pen, però, non è così diversonel discorso sull’immigrazione. Ovviamente non si prevengono le politi-che neocolonialiste e neoliberali che affamano il Terzo mondo e creano lebasi dell’immigrazione stessa, utile al mondo imprenditoriale, alle sini-stre e alle destre di governo – dato che l’arrivo dei disperati, assunti a co-sto bassissimo dal padronato locale e non sindacalizzati, provoca l’abbas-samento dei salari dei lavoratori autoctoni, rendendoli così ricattabili –ma si reprime per non cambiare nulla, proponendo la radicale modificadell’attuale Jus soli, ovvero condizioni molto più severe per ottenere lacittadinanza. Gli immigrati disoccupati, pur legalizzati, saranno incitati atornare nel loro Paese d’origine. I clandestini o coloro che si mantengonoillegalmente saranno immediatamente espulsi. Le aziende saranno obbli-gate ad assumere anzitutto i cittadini francesi. Ogni legge che prevede diregolarizzare i clandestini sarà soppressa. Gli stranieri condannati al car-cere saranno espulsi e dovranno scontare la pena nei loro Paesi d’origine.Saranno infine vietate tutte le manifestazioni di appoggio ai clandestini.

Sul fronte istituzionale il Front propone il classico discorso dell’usomassiccio dei referendum, un modo per creare una democrazia plebisci-taria, populista e iper-presidenziale – in una Repubblica già presidenzialedi suo – con la possibilità di un solo mandato visto che “l’elettoralismo èdiventato una vera piaga per il nostro Paese” – discorsi che da noi sonofatti anche da chi razzista non è, ma è per la democrazia telematica. Il ca-pitolo ‘sicurezza’ stilato da Marine Le Pen prevede “una politica di tolle-

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1° maggio 2015 Mayday, Milano Foto byGiulia Zucca

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Il Front national fra neoliberismo, destra sociale e preferenza nazionale

ranza zero [che] sarà instaurata sull’insieme del territorio nazionale” ac-compagnata da aumenti delle pene, privazione dei diritti sociali ai con-dannati a pene superiori a un anno, aumento dei poteri ai corpi di poliziae degli effettivi dei corpi repressivi, aumento dei magistrati, avvio di unvasto piano carcerario per ottenere quarantamila nuovi posti, ristabili -mento della pena di morte e nessuno sconto di pena ai condannati all’er-gastolo (13).

Non dimentichiamoci che Marine Le Pen è gemellata con Salvini.

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___________________________________________________________________________________________13) Cfr. Mon projet. Pour la France et le française, cit.

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No Commercial Potential Breve storia della rivista “Il delatore”pubblicazione di belle lettere e storia(seconda parte)*

di Giuseppe Ciarallo

A PROPOSITO DI...

Nel marzo 1964, con rigenerato ardore ri-prende la pubblicazione de Il Delatore inter-rotta nel marzo 1959. Nuova casa editrice,spostamento della direzione da Roma a Mi-lano, apertura di una redazione francese (56,rue des Tournelles, Paris 3), grafica rinnova-ta, il numero 1 della nuova serie esce con unasplendida copertina di Roland Topor, estrosoillustratore, scrittore, drammaturgo francesedalla spiccata sensibilità surrealista. Il temascelto per il nuovo esordio: la Follia.

Apre il numero una Lettera ai direttori deimanicomi firmata La révolution surrealiste1925; seguono un testo di Jean Genet (San-ta Osmosi), una Lettera al sindaco di Paler-mo di Leonardo Sinisgalli, autore già presen-te nei numeri della vecchia serie, un raccon-to (Il verme che danza) di Raymond Roussel,scrittore francese considerato l’ispiratore del-la letteratura potenziale e della letteraturacombinatoria. Un numero bello ricco, comesi può vedere, che prosegue con tre contro-novelle di Anton Germano Rossi, una chiccadi Marcello Marchesi (Piccola Posta Parroc-chiale), un sonetto di Enrico Colombotto Ros-so, un testo di Luciano Bianciardi (Della paz-zia lombarda) più altre follie varie, scritte eillustrate, e disegni originali di Siné, Topor, Co-lombotto Rosso, Vanna De Angelis, FrançoisDellegret, Davide Boriani, Leonardo Sinisgal-li, Jean Boullet e Antonio Ligabue.

In chiusura del numero, insieme a variepubblicità di libri, case editrici e della Libre-ria Feltrinelli di via Manzoni 12 a Milano, com-pare un curioso Invito ai lettori che recita:“Medici, massaie, garagisti, scienziati, ladri,sacerdoti, minatori. Saremmo indiscreti achiedervi i vostri ricordi? Perdonateci: noi veli chiediamo. Ognuno ha un ricordo interes-sante, d’amore, di guerra, di avventure fisiche

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________________________________________________________* La prima parte è pubblicata su Paginauno n. 42/2015

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o mentali; qualcosa insomma che ha lasciato una traccia nella suapersonalità. Mandateci il vostro più curioso ricordo, scritto in for-ma breve e possibilmente a macchina: Il Delatore conta di dedica-re un numero appunto ai ricordi, a cui tutti siete chiamati a colla-borare. […] Inoltre, siete voi disegnatori? Diventatelo. Inviateci ivostri disegni e quadri, eseguiti in modo ingenuo, come vi sentite.[…] Ricordate che l’espressione artistica non è solo di competenzadei cenacoli letterari, è invece una delle poche possibilità conces-se perfino ai braccianti pugliesi”.

Per quanto riguarda il numero 2 mi piacerebbe sapere da qua-le recondito angolo di fervida mente sia potuta scaturire l’idea cheha portato a scegliere quale argomento tematico il Gergo dellaMalavita. Dunque, alla prefazione di Mino Maccari seguono un te-sto di Alphonse Boudard sull’influenza della lingua italiana sull’ar-got francese, un ricchissimo dizionario colmo di termini strani efantasiosi – alcuni noti, altri del tutto sconosciuti – canzoni dellamala milanese e romana, illustrazioni e fumetti tratti da giornali acavallo tra 800 e 900, veri e propri mini-saggi su specifici argomenti(la funzione del tatuaggio – quando il decorare il proprio corpocon disegni e scritte era ancora roba da avanzi di galera, marinai elegionari, e non un modo di essere à la page – gli usi e costumidei camorristi, gli stupefacenti) per concludersi con un articolo diCamilla Cederna dal titolo Il gergo della bella vita nel quale lascrittrice, ribaltando l’argomento trattato, per contrasto raccontalo slang dei VIP, del jet-set, i tic linguistici di chi mescola parole in-glesi e francesi a termini inventati, di quelli che sono morti, finiti,distrutti, e mai semplicemente stanchi, che adorano tutto ciò chepiace loro, che odiano, detestano, abbominano ciò che invece nonè di proprio gusto.

Sfogliando il numero 3, dedicato al Silenzio, il primo accosta-mento che mi viene da fare è con il film di Mel Brooks L’ultima fol-lia, omaggio al cinema muto nel quale l’unica parola, nell’ultimo fo-togramma della pellicola, viene paradossalmente pronunciata… daun mimo (l’insuperabile Marcel Marceau). Nel nostro caso, pari-menti, il numero è interamente costituito da disegni, vignette privedi testo (di artisti che in seguito sarebbero diventati autentici fuori-classe dell’illustrazione, quali per esempio Pippo Coco, Giuliano Ros-setti, Prosdocimi, Athos) preceduti da una lettera al direttore – uni-co testo scritto, oltre all’editoriale di Bernardino Zapponi – del dise-gnatore Roland Topor, nella quale l’artista francese spiega, dopo laretorica e provocatoria domanda “Perché disegno invece di usarela dinamite?”, che cosa egli intenda per comicità, umorismo e arte.

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No CommercialPotential

A PROPOSITO DI...

“Mo, Mo, Morte/smettila di uccidere/chefarai che farai/quando tutti/uccisi ci avrai?/An-che tu/morirai…/Mo, Mo, Morte/pensa allavecchiaia/risparmia un po’ di vite/per allora/oSignora/attenta all’inflazione/di putrefazione./Mo, Mo, Morte/tu non hai paura/della con-giuntura?/Risparmia un po’ di vite/fa un po’d’economia/comincia dalla mia/Mo, Mo, Mor-te/e così sia”. Questo simpatico componimen-to (Le twist macabre) firmato Marcello Mar-chesi, ben rappresenta lo spirito con cui vie-ne affrontato il tema della Morte nel quartonumero della rivista, cosa peraltro abbastan-za frequente nella società occidentale dell’e-poca, penso al cabaret dei Gufi da noi, o allapoetica sempre in bilico tra serio e faceto del-le canzoni di Brassens in Francia. E in bilico traserio e faceto sono anche i testi (e le imma-gini) contenuti nel numero 4, testi di MilenaMilani (il racconto Il suicidio), di Giorgio Soa-vi (Il padrone dei cancelli d’oro), accompagna-ti da fantasiose rubriche quali i Decessi nellafantascienza, 31 maniere di augurare la mor-te in Sicilia, dalle foto Le tombe del boom -al Cimitero Monumentale di Milano, e Il ma-cabro nei francobolli, curiosissima carrellatasulla rappresentazione della morte in filate-lia, più tante altre cose ancora.

E arriviamo, con il numero 5 della secon-da serie, all’epilogo della storia de Il Delato-re. Cosa è successo? Mancanza di lettori econseguenti problemi economici? Calo del-l’estro e della capacità di rinnovamento? Nonlo sapremo mai. Tutti i protagonisti di quellaeccezionale esperienza non sono più tra noie, ripeto, in rete non sono reperibili notizie inmerito.

Comunque la rivista chiude i battenti conun colpo di coda ben assestato, dedicando ilnumero di commiato a I Travestiti. E qui suc-cede una cosa strana per un periodico con unavocazione così spiccata per la satira: proprio

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su un argomento che più di altri può offrire il fianco tanto allabattutaccia greve quanto alla benevola presa in giro, il registro uti-lizzato cambia repentinamente, virando verso l’analisi sociologica.Bernardino Zapponi fa un excursus sulla pratica del travestitismopartendo dalla mitologia greca, attraversando la storia della Romaimperiale, passando poi per l’Oriente delle Mille e una notte, l’Ita-lia rinascimentale, fino a giungere al presente e al cinema di Re-noir. “Non è il diffondersi (sic) dell’omosessualità che genera i tra-vestiti; da tempo gli studiosi hanno stabilito che le due categoriesono indipendenti, e non sempre coincidono. Alcuni sostengono

che nell’uomo che indossa abiti femminili cisia un desiderio estremo e paradossale delladonna” scrive il direttore, e conclude con unimpeto di modernismo che lo pone in note-vole anticipo sui tempi rispetto alla morale del-la sua epoca: “La femminilità, la virilità sonoparole non più sacre e immutabili, apparten-gono a un vocabolario fuori uso, come il ter-mine onore [si tenga presente che le parolequi pronunciate sono datate marzo 1965, eche in Italia le attenuanti legate al cosiddetto‘delitto d’onore’ sono state abolite con la leg-ge 442 solamente il 5 settembre 1981, n.d.a.].Uomini e donne continueranno a esistere e avivere insieme senza più bisogno che i com-piti e i limiti reciproci siano così classicamen-te netti”. Seguono un Censimento dei princi-pali travestiti professionisti, un curioso arti-colo (a firma Ennio Flajano) fotograficamen-te documentato, sulla compagnia teatrale I Le-gnanesi ancor oggi attiva, una visione psicana-litica del fenomeno travestitismo, di Magnus

Hirshfeld, una serie di norme della legislazione italiana in merito,tratte dal Dizionario di Criminologia, scritti sul travestimento ritualenelle varie civiltà, un racconto di Bruno Munari (Una serata in ca-sa), poi la parola ‘FINE’, non prima di aver annunciato l’uscita delnumero 6, previsto come Rapporto sul fotoromanzo, che non ve-drà mai la luce.

Tirando le somme di un’esperienza indubbiamente molto inte-ressante, come si può definire, dunque, Il Delatore? La prima im-magine che mi balza alla mente è quella del gioco in voga tra gliartisti che aderivano al movimento surrealista, chiamato Cadave-

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No CommercialPotential

A PROPOSITO DI...

re squisito. I surrealisti davano estrema im-portanza, nella creazione dell’opera, a percor-si fino ad allora mai battuti dagli artisti, qualil’attivazione dell’inconscio, la casualità e l’a-zione corale. Tra le tecniche usate, come giàdetto, figurava un particolare divertissementdi gruppo dal nome tipicamente surrealista ‘ca-davre exquis’, che a grandi linee consisteva inquesto: il partecipante iniziale scriveva su unfoglio di carta una frase, la prima che gli veni-va in mente, dopodiché piegava il foglio inmodo che il suo scritto venisse celato e che ilsuccessivo ‘giocatore’ scrivesse la propria fra-se, anch’egli secondo l’estro del momento, sen-za conoscere il contenuto della precedente.Anch’egli piegava poi il foglietto in modo danascondere al terzo le prime due frasi, e cosìvia. Alla fine del gioco, srotolando la paginasi aveva un testo, naturalmente dal contenu-to folle e incongruente secondo i canoni del-la logica, ma molto spesso divertente, frutto dipensieri lanciati a briglia sciolta, che rispon-deva a quegli elementi dell’arte, fondamentaliper i surrealisti, quali appunto l’inconscio, ilcaso e l’azione collettiva. Il nome di questa tec-nica derivava da una poesia surrealista: Il ca-davere squisito berrà il vino nuovo.

Oppure, altra immagine a mio avviso an-cor più appropriata, è quella della pellicolaamericana Hellzapoppin, film comico del 1941per la regia di Henry C. Potter – soggetto di NatPerrin e sceneggiatura scritta a quattro manidallo stesso Perrin con Warren Wilson – nel-l’immaginario collettivo opera ‘fuori di testa’per antonomasia, nella quale vennero river-sate senza soluzione di continuità una serie disituazioni assurde e di nonsense, di elementiritenuti errori e trasgressioni dalla cinemato-grafia dell’epoca (fermi immagine, scene pro-iettate al contrario, sguardi degli attori fissi ver-so la camera da presa, attori che parlano congli spettatori e altre follie varie). Nel film – co-

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me nella rivista di cui si sta parlando – è arduo cercare una qual-che traccia logica di racconto, volutamente (e sapientemente) so-stituita da una sequenza di situazioni solo in apparenza frammen-tate e slegate, di rimandi metalinguistici, di citazioni. Lo spettaco-lo offerto da Hellzapoppin, come da Il Delatore, è una sorta diesercizio di equilibrismo, dove lo spettatore/lettore è chiamato aimmaginare la fune, su un magico palcoscenico dove si mescolanogag, balletti, canzoni, inseguimenti, capitomboli, nel film, raccon-ti, dissertazioni, illustrazioni, frammenti e aforismi, nella rivista, inun caleidoscopico e a volte lisergico alternarsi di suggestioni, ognivolta immediatamente superate per dare spazio ad altre invenzio-ni, in un anarchico trionfo del nonsense. Il cinema, e parallelamen-te la rivista, sono solo un pretesto affinché il fruitore dell’opera pos-sa allegramente ricomporre, a proprio modo e gusto, un contenu-to mandato volutamente in frantumi, fatto di retorica, di luoghi co-muni, di trucchetti.

Di una cosa sono certo, Il Delatore è una rivista datata. Questamia affermazione, però, contrariamente a quanto si possa pensa-re, vuole avere un’accezione del tutto positiva. È datata perché èespressione di quel periodo estremamente vitale della cultura ita-liana, che fu il secondo dopoguerra, quello del cinema neorealista,della prima televisione, la TV in bianco e nero che esplorava terri-tori nuovi e ancora del tutto vergini, quello degli arguti stratagem-mi per aggirare la censura o comunque i veti del bigottismo del-l’epoca, il periodo delle intelligenze vere e vive, pungenti e provo-catorie senza mai cadere nel volgare e nel banale, dei Marcello Mar-chesi, dei Luciano Bianciardi, e perché no?, dei Gianni Brera. Oggi,dopo anni di mistificazione mediatica, di bombardamento a tap-peto per la sistematica distruzione di ogni istanza culturale, dopol’azzeramento del gusto estetico e della capacità critica di un popo-lo ormai avvezzo solo alla spazzatura pseudoculturale, all’appiatti-mento più totale, al nulla pneumatico, una rivista come Il Delato-re non avrebbe alcun senso, sarebbe improponibile in quanto deltutto astruso e non immediatamente comprensibile da un pubblicoanestetizzato, un prodotto del tutto invendibile che i sacerdoti delmarketing, dopo un attento Consumer Survey e una mirata Demandand Supply Curve bollerebbero come No Commercial Potential.

Una curiosità, che purtroppo non potrò vedere appagata, ri-guarda le parole, sicuramente taglienti, che Marchesi, Bianciardi eBrera avrebbero usato per raccontarci i prodotti culturali che inquesto triste scorcio di nuovo secolo sono invece considerati a pie-no titolo ‘di grande potenzialità commerciale’.

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Ken Loach eWilliam Mcllvanney: testimoni delmondo operaioe dei diseredati britannicidi Carmine Mezzacappa

A PROPOSITO DI...

“Quei proletari che non hanno paura di pren-dere in mano un volume rilegato soffrono dicerti svantaggi, rispetto ai lettori borghesi.Questi [...] possono, in un libro qualsiasi, ve-der specchiati se stessi o qualcuno che cono-scono: nella letteratura contemporanea essisono ampiamente rappresentati, mentre chilavora a un tornio non lo è. Donne e uominiche lavorano non hanno il privilegio di vedersirappresentati in maniera onesta e realisticanei romanzi.”Alan Sillitoe, Times Literary Supplement, 1960

“Il popolo ha bisogno di una letteratura chenon solo gli permetta di vedersi così com’è, mache gli dia quel senso di dignità individualeche la cultura di massa, per sua stessa defi-nizione, non è in grado di trasmettere. Mar-xisti e pubblicitari hanno questo in comune:per loro la gente è la ‘massa’, non gli ‘indivi-dui’ [...] I fondamenti delle storie sono gli in-dividui, non i temi o gli eventi o i messaggi di va-rio tipo. Quelli che vivono e soffrono costitui-scono l’unica totalità di cui valga la pena scri-vere, per quanto superfluo possa essere affer-marlo [...]. È solo con un simile atteggiamen-to che si può tentare di mostrare la loro in-trinseca dignità e avvicinarsi ai loro problemi.”Alan Sillitoe, Times Literary Supplement, 1960

Le acute riflessioni di Alan Sillitoe, nonostan-te siano state pubblicate nel 1960, sono piùche mai attuali e invitano a verificare in chemisura il cinema e la letteratura in Gran Bre-tagna abbiano affrontato il tema del lavoro edato voce agli emarginati, ai diseredati, ai vec-chi e nuovi poveri, a coloro che, dopo avereperso tutto nel proprio Paese, si vedono per-sino negare il diritto di esistere dai Paesi chedovrebbero accoglierli.

Già nel 1957 Lindsay Anderson, uno deifondatori del British Free Cinema, lamentava

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che pochissimi film raccontavano gli operai e il loro senso di soli-darietà collettiva e di appartenenza a un luogo. Oggi la tendenzanon è cambiata e viene da pensare che nella critica di Anderson cifosse anche il presentimento che i valori della classe operaia sa-rebbero stati spazzati via dal consumismo, dalle nuove dinamichesociali nei rapporti interpersonali, dal mito del lavoro non comestrumento di partecipazione sociale ma come mezzo per acquisi-re un prestigio personale basato sul successo economico.

Dagli anni ‘60 a oggi, invece di ascoltare la disperazione di chinon è riuscito a trovare una propria collocazione dignitosa nella so-cietà, la stragrande maggioranza di scrittori e registi (non solo bri-tannici, ovviamente) ha preferito confezionare narrazioni accatti-vanti oppure nascondersi dietro a racconti fantastici o del sopran-naturale. È stato facile dire che ciò è accaduto perché, essendo cam-biato il mondo del lavoro (reso irreversibilmente precario dalle re-gole inique della globalizzazione), i cittadini non si riconoscono piùin una classe sociale che li rappresenti e dunque non hanno piùun’identità e un patrimonio di valori e, di conseguenza, film e ro-manzi hanno risentito di questo vuoto. Poiché qualche intellettualesi è costruito un proprio prestigio personale sostenendo che se nonesiste più un’identità di classe con i suoi valori distintivi, allora ènaturale che non esistano più nemmeno i problemi a essa legati.

Questa forma, più o meno occulta, di chiusura nei confronti diun’identità sociale evoca quello che è stato fatto con la scomparsa

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1° maggio 2015Mayday, Milano

Foto byGiulia Zucca

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Ken Loach eWilliam Mcllvanney: testimoni delmondo operaioe dei diseredatibritannici

A PROPOSITO DI...

di centinaia di lingue. I Paesi occupanti, men-tre prendevano possesso delle risorse natu-rali dei Paesi occupati, tendevano a soppri-mere le lingue di quei popoli allo scopo di sot-trargli l’arma di difesa più importante dellaloro ‘resistenza’: la comunicazione nella pro-pria lingua. Si cancella una lingua per cancel-lare un’identità e, di conseguenza, un Paese.Qualcosa di analogo è accaduto quando è sta-ta estromessa dalle narrazioni letterarie e ci-nematografiche un’intera fetta della società.

Quando si parla di globalizzazione dell’e-conomia, raramente si pensa che quel proces-so non è nato per caso e non è iniziato nel mo-mento in cui erano state perpetrate arbitra-rie occupazioni di territori sovrani ma era giàiniziato molto tempo prima costringendo de-terminati popoli ad abbandonare la loro lin-gua per parlare quella dei Paesi dominanti.

Se dunque sono scomparse tante linguenazionali, perché stupirsi se oggi sparisconodai dibattiti su temi sociali intere categorie dilavoratori e, con loro, tutti i diritti che quellecategorie difendevano? L’omologazione delmondo intero a un modello unico si è ormaiquasi completata e, spesso, il cinema e la let-teratura – che in realtà avrebbero il compitodi esplorare tematiche sempre nuove – di-ventano strumenti per intrattenere e disto-gliere l’attenzione da quelle determinate te-matiche.

È tuttavia abbastanza rassicurante che, nelpanorama del cinema e della letteratura in GranBretagna, emergano due nomi che in modoautorevole hanno saputo raccontare il mon-do del lavoro: il regista inglese Ken Loach e loscrittore scozzese William McIlvanney.

Quando ci avviciniamo alle storie e ai per-sonaggi che prendono vita nelle loro opere, ab-biamo la sensazione di essere testimoni par-tecipi di una nobile impresa di dimensioni epi-che che si manifesta in una loro personale for-

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ma di resistenza contro l’annientamento della dignità umana, delvalore del lavoro inteso come contributo che ogni individuo offrealla crescita e allo sviluppo di una comunità. Stiamo perdendo lapercezione del lavoro come cemento di una società che ha biso-gno delle abilità e delle competenze di ogni singolo individuo perprogredire e rafforzare la consapevolezza di essere una collettivi-tà ma, per fortuna, Loach e McIlvanney hanno sostenuto questavisione del lavoro opponendosi all’ingannevole teoria secondo laquale, per risolvere la crisi del sistema industriale capitalistico,era necessario spostare il lavoro in Paesi in via di sviluppo (dovela mano d’opera costava molto meno) e convincere i lavoratori,con la favoletta che quello era l’unico modo di difendere l’occupa-zione, a rinunciare ai loro diritti perché erano diventati un ostaco-lo alla crescita economica.

Loach e McIlvanney, pur rifiutando questa assurda teoria, ave-vano capito subito che rimanere legati alla concezione delle classiera come finire in un vicolo cieco in quanto non era più sufficien-te tutelare i diritti della classe operaia per difendere il mondo dellavoro nella sua complessità. Il vero pericolo era, e continua a es-serlo oggi più che mai, la perdita totale della visione sociale e po-litica del lavoro come forma di partecipazione di ogni individuoalla vita collettiva. Alla luce dei più recenti passaggi legislativi ve-rificatisi nel nostro Paese (vedi il famigerato Jobs Act), l’epoca del-la cosiddetta concertazione tra lavoratori, imprenditori e sindaca-ti oggi ha un sapore nostalgico e ci porterebbe a rimpiangere un’e-poca che certamente non è stata ideale ma, rispetto al presente,proponeva un modello che poteva essere perfezionato – non sman-tellato. Oggi, attraverso la restaurazione di un rapporto lavorativodi stampo medievale, è in corso una vera e propria guerra per la su-premazia di pochissimi individui sul destino esistenziale della qua-si totalità dei lavoratori.

Detto ciò, viene quindi spontaneo vedere i film di Loach e leg-gere i romanzi e i racconti di McIlvanney come ‘appelli’ a giovaniregisti e scrittori affinché si dedichino a fornire accurate rappresen-tazioni dei conflitti sociali e denuncino i modi in cui i dogmi dell’e-conomia mondiale, con i suoi traumatici cambiamenti, hanno mo-dificato i profili delle classi.

Sarà fuorviante interrogarsi sull’esistenza o meno di una clas-se operaia così come si era sviluppata nella lunga fase dalla Rivo-luzione industriale a oggi, però dobbiamo domandarci qual è il nuo-vo rapporto tra i padroni e tutte le più diverse categorie di lavora-tori che sono nate nell’attuale mondo globalizzato, non hanno né

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Ken Loach eWilliam Mcllvanney: testimoni delmondo operaioe dei diseredatibritannici

A PROPOSITO DI...

un passato né un futuro e possiamo solo de-finirle, con un pizzico di romantica amarezza,il ‘nuovo lumpenproletariat’ in quanto, in ef-fetti, qualsiasi lavoratore sotto la minaccia diuna disoccupazione senza speranza non po-trà mai più concepire il lavoro come mezzo dipartecipazione alla vita collettiva ma lo vedràsolo come strumento di ricatto sociale e po-litico. Siamo all’inizio del terzo millennio e lecondizioni dei lavoratori, rispetto ai periodi digrandi crisi economiche del Novecento, nonsono affatto migliorate. Chi racconterà questasofferenza che, purtroppo, l’arte e la culturastanno evitando di rappresentare?

È tuttavia confortante vedere che Loach eMcIlvanney – coerenti nel raccontare storiepoco trendy per il mercato cinematografico ededitoriale, storie popolate di operai, disoccu-pati e perdenti di ogni tipo – osservano la so-cietà occidentale per capirne le mistificazionimascherate da finto benessere e individuare iprofili caratteriali, culturali ed economici deinouveaux pauvres. La loro difesa della dignitàdell’individuo rappresenta la barriera ultima daerigere per organizzare una ‘nuova resistenza’.

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1° maggio 2015 Mayday, MilanoFoto byGiulia Zucca

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Per apprezzare la tensione intellettuale di Loach e McIlvanneyè doveroso chiedersi se l’attuale scarso interesse del cinema e dellaletteratura per il mondo del lavoro sia davvero dovuto al fatto chenon sia trendy parlare di fabbriche, tute sporche, processi di lavo-razione o se, piuttosto, scrittori e registi siano troppo attenti a nonirritare editori, produttori e pubblico con tematiche che costringo-no a riflettere.

Tra i primi anni Settanta (al tempo degli scioperi dei portuali)e la fine degli anni Ottanta (quando si completò il disegno di re-staurazione voluto dai vari governi Thatcher) ci furono aspri con-flitti sociali e politici in Gran Bretagna che sfociarono anche in attidi guerriglia urbana (Brixton, per citare l’esempio più clamoroso).In quel clima di tensione, pochissimi intellettuali, scrittori e registisi interrogarono sul fatto che non esisteva più una classe operaiabritannica esclusivamente bianca e maschile bensì una galassiamultietnica di lavoratori e lavoratrici che, provenendo da situazio-ni assai diverse, nutrivano un senso di solidarietà meno forte e pos-sedevano una capacità collettiva meno incisiva nel far valere le lororivendicazioni.

Prima di entrare nel merito di alcune opere di Loach e McIlvanney,proviamo a definire i termini di impegno civile da parte di scrittorie registi (in generale, non solo in relazione alla cultura britannica).Si potrebbe dire che l’impegno non riguarda tanto i contenuti del-le opere e la libertà creativa quanto, piuttosto, un forte senso diresponsabilità civile che spinge l’autore a essere partecipe dellavita collettiva. La qualità dell’impegno civile si evidenzia nel livellodi coinvolgimento personale, prima di tutto come cittadino e poicome scrittore o regista, nelle questioni concrete della vita quoti-diana.

Lasciamo da parte l’impegno fondato su presupposti ideologi-ci (nel qual caso, allora, sarebbe più corretto parlare di militanza).Parliamo di impegno civile che implica una sensibilità e una dispo-nibilità a esaminare situazioni sempre nuove che la società non èancora preparata a metabolizzare (si veda, per esempio, le nuovefrontiere del pensiero sociale sui problemi del nucleare, delle ener-gie alternative, dell’ambiente, della fecondazione assistita).

L’universalità di un tema viene determinata dalla capacità discrittori e registi di contestualizzare storicamente sentimenti e com-portamenti: in quel caso un’opera, sia letteraria sia cinematografi-ca, diventa un documento utile per comprendere lo spirito dell’e-poca in cui quell’opera è stata concepita e realizzata. I film di Loach

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Ken Loach eWilliam Mcllvanney: testimoni delmondo operaioe dei diseredatibritannici

A PROPOSITO DI...

e i romanzi e racconti di McIlvanney sono, ap-punto, documenti illuminanti dell’epoca in cuisono stati prodotti. Gli eroi di Loach (vedi Rai-ning Stones o Ladybird Ladybird) e McIlvan-ney (vedi Docherty o The Big Man) sono, insostanza, figure tipiche del loro tempo in con-flitto con il thatcherismo ma sono destinati adiventare universali.

L’impegno, in sostanza, viene definito dairapporti che lo scrittore e il regista intratten-gono con i loro colleghi, con il loro pubblico,con la società, con i rappresentanti del Pote-re, rispetto alle questioni di politica economi-ca, sanitaria, ambientale, giudiziaria, interna-zionale, e da quanto essi siano compromessi,o non, con il Sistema. Dico questo perché visono, infatti, artisti e intellettuali che procla-mano di combattere contro qualsiasi formadi ingiustizia e si ergono a paladini dei diritticivili ma in realtà godono dei privilegi deri-vanti dalla loro professione e il loro impegno,inevitabilmente, assume connotazioni ambi-gue. In altre parole, l’impegno non sta nelleparole o negli scritti o nei film ma nel realecoinvolgimento, come cittadini, nelle proble-matiche sociali.

Sartre distingueva tra coinvolgimento eimpegno. Il coinvolgimento, di natura preva-lentemente emotiva, è innato in tutti gli arti-sti. L’impegno, invece, comporta una scelta ra-zionale e la creatività dell’artista diventa stru-mento consapevole di crescita collettiva. Il pu-ro e semplice coinvolgimento emotivo senzal’impegno rischia di essere un atteggiamentofine a se stesso. In Loach e Mcllvanney coin-volgimento emotivo e impegno coincidono ediventano un tutt’uno in nome del rispettodi un codice deontologico non scritto che con-danna le mistificazioni di quegli scrittori e queiregisti che si proclamano impegnati ma nonlo sono affatto. Si pensi al pericolo di creareopere che Baudrillard chiamava ‘simulacri’, os-

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sia rappresentazioni letterarie e cinematografiche della realtà chedovrebbero avvertirci di un pericolo e invece ci spingono morbosa-mente a infatuarcene (vedi certa letteratura e certo cinema che, conil pretesto di raccontare gli orrori del nazismo o di qualsiasi guer-ra, ne hanno fatto un’ambigua apologia). Baudrillard sosteneva inol-tre che la percezione di registi e scrittori degli anni Ottanta avevagenerato una iper-realtà in cui l’immagine immediata, esteriore, evo-cava soltanto un’ingannevole profondità che era invece totalmen-te assente. Le immagini non avevano un contenuto interiore e le co-scienze individuali non avevano un punto di riferimento certo, af-fidabile. Nella sua visione profetica, il sociologo francese avverti-va il rischio concreto di un futuro virtuale in cui il Potere sarebbestato saldamente nelle mani di chi poteva cancellare il senso delleorigini e dell’autenticità e avrebbe avuto i mezzi per sfruttare il pre-sente a proprio totale vantaggio come, per esempio, quello di can-cellare – come si diceva prima – una produzione letteraria e cine-matografica che parla del lavoro (ossia, estremizzando, basta dire:il cinema e la letteratura non parlano del lavoro perché non esi-stono tematiche del lavoro). Forse è proprio a causa di un diffusosenso di rassegnazione e di rinuncia a svolgere un ruolo di osser-vatori e commentatori della società che molti scrittori e registi sisono affannati a escogitare nuovi generi narrativi per esprimere illoro sbigottimento senza dover raccontare la realtà. Ma questa ras-segnazione, per fortuna, non è nelle corde di Loach e McIlvanney.

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30 aprile 2015MilanoCorteo

studentescoNo Expo.

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Ken Loach eWilliam Mcllvanney: testimoni delmondo operaioe dei diseredatibritannici

A PROPOSITO DI...

Il puro e semplice buon senso ci dovreb-be spingere a prendere atto che qualsiasi ideo-logia ha intrinseche contraddizioni inelimina-bili a causa dell’evolversi imprevedibile dellesocietà contemporanee e che pertanto l’im-pegno dello scrittore e del regista deve dipen-dere esclusivamente dal loro percorso di espe-rienze personali, da confronti e scontri conl’ambiente. Il loro compito è di rappresenta-re la realtà al fine di impedire che chi detie-ne il potere politico, economico e finanziario,alteri la realtà per controllare e pilotare l’opi-nione dei cittadini. I registi del British Free Ci-nema e gli Angry Young Men erano polemicie critici anche quando indulgevano nella reto-rica della cultura operaia e non hanno mai ge-nerato un senso di appagamento consolatorio.

Nel cinema britannico degli anni Cinquan-ta-Sessanta non è successo quello che teme-va Walter Benjamin (il quale anticipava i ti-mori di Baudrillard) parlando della fotografia:“È sempre più moderna, sottile, sofisticata, mail risultato è che non riesce più a ritrarre uncondominio o un mucchio di calcinacci senzatrasfigurarli. Di fronte a foto del genere, sipuò dire che bello! È riuscita solo a trasfor-mare la miseria e la povertà in immagini tec-nicamente perfette e a trasformare la lottacontro la miseria in un oggetto di consumo.”

I registi del Free Cinema erano liberi perchéerano fuori dalla logica dell’industria cinema-tografica e nei loro film il mondo operaio nonsi è mai trasformato in vuota retorica che evo-ca immagini prive di significato.

Loach e Mcllvanney non hanno mai cedu-to alla nostalgia per un mondo i cui valori sisono perduti. Il loro grande merito è stato diesprimere giudizi con misura seguendo il prin-cipio che, nell’osservazione della società, nonè importante il come la si rappresenta ma ilperché lo si fa.

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Questo principio spiega efficacemente che cosa dovrebbe si-gnificare ‘impegno’ per uno scrittore o un regista o chiunque abbiala responsabilità (e il privilegio) di esprimere ufficialmente opinio-ni e sentimenti per un pubblico che ha bisogno di una guida. Mol-ti artisti, purtroppo, rinunciano a raccontare la vita di coloro chenon hanno il potere di far sentire la loro voce e accettano di spac-ciare una rappresentazione della realtà che fa comodo al sistema.L’impegno, dunque, implica una lotta immane contro coloro chevogliono imporre l’inganno di una realtà virtuale consolatoria.

Il merito di Loach e McIlvanney sta proprio nel non essersi ras-segnati e nel continuare a raccontare storie ‘reali’ a dispetto di ciòche potevano dire i critici. Nel caso specifico di Loach, spesso i suoifilm vennero giudicati “esteticamente scadenti e discontinui nellacostruzione narrativa”. (Anche il lavoro del critico ha i suoi lati oscu-ri, soprattutto quando le categorie dei valori estetico e strutturaleservono astutamente per non mettere in risalto il contenuto so-ciale e politico più profondo di un romanzo o di un film.)

… continua…

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FILO-LOGICO

La fiducia è innanzitutto oggetto della filo-sofia morale, eppure probabilmente nessunsentimento ha una applicazione in così sva-riati settori, tanto che se ne sono occupati ese ne occupano la sociologia ma anche l’eco-nomia, la psicologia ma anche l’etologia, lateologia ma anche il diritto.

Il governo ricorre al voto di fiducia e, asua volta, il Parlamento dà la fiducia alle li-nee guida di un governo; la disposizione te-stamentaria fiduciaria stabilisce che chi ri-ceve un bene in base a un testamento è il be-neficiario apparente, in quanto ha l’obbligodi passare quel bene a un terzo. Ogni ma-nuale di addestramento di animali, cane, ca-vallo o pappagallo, tanto per fare degli e-sempi, insiste sul rapporto di fiducia che sideve instaurare tra l’animale e l’uomo. Gliindici per valutare la fiducia dei consuma-tori ci vengono propinati mensilmente e piùin generale siamo subissati dagli indici difiducia economica. La fiducia in Dio è ciòche caratterizza ogni credente, e ogni rappor-to di coppia o ogni gruppo si cementa e crescein base alla fiducia reciproca. Se poi si va nel-la storia, l’araldo, dal franco hari-wald, era unfunzionario dell’esercito, un uomo di fiduciadel re, un pubblico ufficiale che prestava unospeciale giuramento ed era inviolabile.

Insomma, gli esempi non mancano e,d’altra parte, l’aver fede, dal latino fidĕre =fidare, confidare, è una caratteristica dell’a-nimo umano e, dunque, non può sorprende-re l’ampiezza del suo uso. Anche a livello dicultura popolare, i proverbi hanno percor-so in lungo e in largo lo spettro delle possi-bilità: dal più che famoso “Di chi mi fido miguardi Dio, di chi non mi fido mi guardoio”, che forse indica anche i limiti delle ca-pacità umane, a “Non si crede al santo fin-ché non ha fatto il miracolo”, che ci dà unaspetto pratico, concreto della fiducia. Cre-do, ma lascio cadere subito il discorso, cheproprio la ricerca dei limiti dell’atto del fi-darsi da parte di un soggetto, e quindi il suocercare di non essere soccombente, sia la pre-dominante di quanto ci ha lasciato il mon-do dei proverbi. Non saprei come altrimen-ti interpretare il “Fidarsi è bene, non fidarsiè meglio” o il più che categorico “Chi si fidaè ingannato”.

Qualunque vocabolario, come confermadi quanto appena scritto, fornisce una seriedi significati che non lasciano dubbi sull’am-piezza dell’uso della parola. La voce corri-spondente del Grande Dizionario della LinguaItaliana di Salvatore Battaglia dà: “Condizio-ne e atteggiamento di chi si fida; sentimento

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FIDUCIADI FELICE BONALUMI

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di sicurezza e di tranquillità, che procededall’assegnamento che si può fare sulla sin-cerità, sulla lealtà, sulla benevolenza di qual-cuno (o del prossimo in genere), sulle suecapacità, sul suo valore, dalla speranza ri-posta nel favore della sorte, dalla previsio-ne del felice esito di determinati eventi; a-spettazione, certezza, sicura convinzione, ot-timismo”.

Da qui derivano per così dire, gli estre-mi: dall’abbandono totale alla provvidenzadivina al tradire la fiducia o al rifiutare la fi-ducia di qualcuno.

Tutto questo patrimonio ci fornisce unaindicazione: l’atto di fiducia nasce da unasituazione di incertezza, da una aspettativache si spera accada, o in base al decorso nor-male degli eventi o in base al comportamen-to messo in fieri da un individuo, da un grup-po o da una istituzione. Quindi la prima con-dizione perché si metta in moto un compor-tamento fiduciario è la non possibilità di pre-vedere e/o di tenere sotto controllo il futuro.

Davanti a questa incertezza inseriscoqualcosa che mi dà una sensazione di sicu-rezza, che nasce dal raffrontare la situazio-ne presente ad altre analoghe del passato, dauna stima che faccio dello sviluppo possibiledella situazione presente o, al limite, da una

semplice speranza a cui credo fermamente.Per questo la fiducia può essere limitata oillimitata, ma certamente se ne parla davantia una valutazione ragionevolmente realisticadella situazione. I termini, lo si capisce, so-no imprecisi (e imprecisabili), rimandano auna valutazione del soggetto, individuale ocollettivo, tuttavia servono per distinguerecolui che ha fiducia, dall’ottimista e dal pes-simista.

Il primo giudica favorevolmente il futu-ro, sempre, la sua visione è positiva indipen-dentemente dalla situazione presente. Pocoimporta ai fini di queste righe che l’attitudi-ne ottimistica sia oggi valutata socialmentein modo favorevole e, naturalmente, ciò va-le anche per il pessimista, del quale si devo-no dire le stesse cosa ma in negativo.

Ottimista e pessimista decidono prima diuna valutazione della realtà futura, e l’esem-pio patologico per eccellenza può essere ilgiocatore d’azzardo che sa, ha la certezza divincere nonostante tutte le prove contrariee, a dire il vero, anche la teoria delle proba-bilità. All’opposto la depressione indica lasituazione del pessimista.

Da quanto fin qui detto è evidente chel’atto di fiducia presuppone una valutazio-ne, per quanto veloce e parziale, della situa-

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FILO-LOGICO

zione reale. La riflessione viene prima delladecisione di accordare fiducia: in questo sen-so posso dare (o togliere) la fiducia a qual-cuno, posso cercare di meritare la fiducia diqualcuno e così via. Ma prima ancora, pri-ma che l’azione scaturita dalla fiducia si met-ta in moto, c’è da parte del soggetto un attodi volizione: io ho la volontà di avere fidu-cia e, dopo la valutazione che ho definito ra-gionevolmente realistica, attuo quanto questa va-lutazione mi ha portato a decidere.

Non credo si possa indagare ulteriormen-te questo atto di volizione: le sue caratteri-stiche, anzi la sua stessa esistenza è connatu-rata, è parte del patrimonio genetico dell’uo-mo che, se quanto scrivo è corretto, è in tut-ti i sensi un animale sociale, un animale digruppo. Controprova: esiste l’eremita, il so-litario perché esiste il gruppo. L’eremita e ilsolitario sono coloro che si sono staccati, chehanno deciso di staccarsi dal gruppo e noncerto viceversa.

Oggi si parla in genere di tre tipi di fiducia:

fiducia istituzionale o sistemica, cioèla fiducia posta dagli attori sociali nei con-fronti di una organizzazione. Quest’ultimapuò essere naturale, un ecosistema, o socia-le, la famiglia ma anche lo Stato. La socio-logia ha naturalmente indagato questa ti-pologia;

fiducia interpersonale, cioè la fiduciariposta da attori sociali ad altri attori socia-li. L’Ego si fida di Alter ed è ciò che succedequotidianamente: mi fido che il libraio mifarà arrivare il libro che ho prenotato, chegli amici verranno a cena e via dicendo;

fiducia autoreferenziale, cioè la fidu-cia in se stessi. Il campo privilegiato di que-

sto tipo di fiducia è ovviamente la psicolo-gia, ma le sue ricadute in campo sociale nonsono da sottovalutare. Per esempio, se ho fi-ducia in me stesso sono fermamente convin-to che supererò quell’esame, quel concorso,che porterò a buon fine quell’azione, ma so-prattutto ho fiducia che gli altri percepiran-no questa mia situazione di benessere e nerimarranno favorevolmente colpiti, agendoanche loro di conseguenza nel gruppo.

Al di là della classificazione, pur importan-te, è evidente che la fiducia è innanzitutto unsentimento che regola il mondo delle no-stre relazioni sociali, dei nostri legami. A co-minciare dal primo legame, la fiducia che ilbambino ha in chi l’ha generato, l’ha getta-to nel mondo: sarebbe inutile e fuorvianteripetere qui l’importanza del legame madre-figlio. Sta di fatto che il primo atto, incon-scio quanto si vuole, ma altrettanto indispen-sabile, è un atto di fiducia.

Ricambiato? In condizioni normali cer-tamente, ma proprio questo esempio dice chela fiducia è una comunicazione a due vie:da Ego ad Alter, ma l’atto di fiducia deve poitornare indietro, e coinvolgendo entrambigli attori si caratterizza e si sviluppa; in casocontrario il legame è necessariamente de-stinato a spezzarsi. Questo vale anche per ilegami sociali, per i patti sociali, senza fidu-cia non ci sarebbe società umana.

In questo senso non si può ridurre la fi-ducia a un teoretico atteggiamento menta-le: la fiducia appartiene al campo della ra-gion pratica, se così posso esprimermi, per-ché quella specifica, particolare fiducia habisogno della visibilità sociale dei compor-tamenti e/o delle istituzioni o è nulla. In fon-do per questo aspetto aveva ragione Thomas

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FIDUCIA

Hobbes con il suo homo homini lupus (1): loStato è il garante supremo della sopravvi-venza degli individui in società, senza diesso rimarrebbe la lotta come unica dimen-sione dell’esistenza. Per altro, se nella visio-ne di Hobbes il punto di partenza è la mas-sima sfiducia reciproca, la comunità, il grup-po sono di fatto qualcosa di rassicurante.Semmai è bene sottolineare che per Hobbeslo Stato è necessariamente coercitivo e, dun-que, la fiducia che vi si ripone è essa stessaincanalata, chiusa nella coercitività e tale si-tuazione non è certo definita e definibile neitermini della fiducia, al più di autorità, Sta-

to oppressivo fino, al limite, a Stato dittato-riale.

Voglio portare l’attenzione sui due atto-ri implicati nel rapporto di fiducia: chi dà,ma forse è meglio dire, chi cerca, e chi ot-tiene, richiesta o meno, la fiducia. La carat-teristica del rapporto di fiducia, certamentela sua peculiarità, è di essere un rapportoequilibrato in cui i due attori, per così dire,mescolano i loro ruoli.

Mi spiego. Ogni rapporto, quindi non so-lo quello di fiducia, fino al momento imme-diatamente precedente la sua costituzione,implica una separazione, un abisso che, ap-

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1° maggio 2015, Milano, Mayday. Foto by Giulia Zucca______________________________________________________________________________________________________________________

______________________________________________________________________________________________________________________1) Detto di passaggio: il concetto universalmente noto attraverso il filosofo inglese, in realtà ha unalunghissima storia. Per esempio, nell’Asinaria di Plauto si incontra l’espressione lupus est homo homi-ni, e negli Adagia di Erasmo da Rotterdam: homo homini aut deus, aut lupus. Una storia che continuaanche dopo Hobbes e si può dire che, in una formula più o meno simile, si ritrova in tutti i pensatoriche sottolineano come centrale l’egoismo umano

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FILO-LOGICO

punto, si vuole colmare: vado verso un igno-to che è colui sul quale porto la mia richie-sta di fiducia e, nello stesso tempo, anchel’altro attore accetta un ignoto, perché a suavolta deve fidarsi di chi si fida di lui.

Un rapporto, altra caratteristica, che cer-ca costantemente un proprio equilibrio inquanto la fiducia non è data una volta persempre, ma si costruisce e si rinnova davan-ti ai cambiamenti e agli imprevisti che ilmondo come realtà esterna presenta ai dueattori, essi stessi parte del mondo.

La fiducia ha cioè un riscontro imme-diato, è immediatamente giudicabile e giu-dicata perché si avvale di una serie di atti,di azioni e ogni atto, ogni azione è giudica-to separatamente: costituisce un mondo a séche può confermare il legame o ricreare l’a-bisso di partenza.

Equilibrio vuole dire un rapporto di re-ciproca e, appunto, equilibrata dipendenza.Mi fido di un altro perché è esperto in quelsettore, di quel problema o quant’altro e hadato prove positive in precedenza. Se man-ca l’equilibrio la situazione non è di fiduciae, al limite, è una situazione patologica.

Immagino che qualche lettore possa por-re una obiezione: e il bambino dell’esempioprecedente, appena nato, non è dipendentetotalmente dalla madre? Sì, materialmentedipendente, non c’è dubbio, ma se la mam-ma è cattiva (prendo la parola da DonaldWinnicott) il bambino metterà in atto unaserie di strategie psicologiche e comporta-mentali per sopravvivere. Paradossalmen-te, si potrebbe dire che è il bambino che cer-ca di raddrizzare, di risanare il legame.

Credo che quanto Salvatore Natoli scri-ve a proposito della felicità valga anche peril rapporto di fiducia: “Starsi accanto vuol

dire esperire l’inesauribilità della differen-za – l’altro non potrà mai essere me stesso– nella certezza della corrispondenza” (2).

Una sano legame di reciproca dipenden-za, in cui nessuno dei due attori si annulla,allarga le nostre possibilità, ma tutto ciò si-gnifica anche che il fidarsi implica il dub-bio. Di avere valutato in modo errato la per-sona di cui mi fido, di averla sopravvaluta-ta o, al limite, sottovalutata, di avere valu-tato male la situazione: non importa, tuttociò fa parte del gioco perché è l’instabilitàdella realtà, il suo continuo modificarsi chemi porta al dubbio come parte integrante eimprescindibile dell’atto di fiducia e, più ingenerale, del mio stare nel mondo.

Ma il dubbio, altrettanto necessaria-mente, deve risolversi in certezza, anche inquesto caso, non una certezza astratta, mauna certezza che si costruisce atto dopoatto.

Decido dopo una ragionevole valutazio-ne, come scritto poche righe sopra, e in que-sta valutazione è insito il dubbio, ma poidecido di fidarmi, di affidarmi a qualcunoper qualcosa e dunque gli do implicitamen-te anche la mia certezza.

Insomma, davanti alla frammentarietàdella realtà cerco un punto di riferimentoche non mi annienti, innanzitutto, che mipermetta all’opposto di allargare la parte direaltà che posso conoscere, tenere sotto con-trollo, giudicare e via di seguito e, quindi,c’è un punto di partenza che è imprescindi-bile e che rientra nella sfera della psicolo-gia: mi fido di qualcuno perché ho innanzi-tutto fiducia in me stesso.

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________________________________________________________2) Salvatore Natoli, La felicità di questa vita, Mon-dadori, 2000, p. 95

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FIDUCIAGICO

Se il ragionamento è corretto si puòconcludere in questo modo: ogni società sibasa sulla fiducia, ma se una società non èin grado di creare persone che stimano sestesse, ebbene quella società è destinata asoccombere.

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______________________________________________________________________________________________________________________1° maggio 2015, Milano, Sos Fornace contesta l'inaugurazione di Expo 2015Foto by Giulia Zucca

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SOTTO I RI(F)LETTORI

“Il problema più delicato era stato quello di presentareMiss Brodie in una luce contemporaneamente positiva enegativa”. Questa riflessione, espressa a circa metà del ro-manzo, è affidata a Sandy, l’allieva prediletta di Miss Bro-die, ma mi piace pensare che si tratti di un messaggio del-la stessa Muriel Spark, una strizzata d’occhio al lettore,per strappare il suo applauso. In effetti il problema eradelicato, ma lei è riuscita a risolverlo brillantemente, crean-do un personaggio di rara ambiguità: giudicare la suaMiss Brodie secondo una logica dualistica come buona ocattiva, morale o amorale, è tutt’altro che semplice.

Quel che è evidente è che si tratta di un’insegnante edi una donna fuori dagli schemi. Fuori posto, anche, al-l’interno della Marcia Blaine, scuola femminile decisa-mente tradizionalista nella Edimburgo degli anni ‘30, conle sue uniformi e il suo motto, sottolineato su una Bibbiaposata sotto al ritratto virile della fondatrice: “Una don-na perfetta chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle èil suo valore”.

Jean Brodie è ben lontana dal concetto biblico di don-na perfetta, e ancor più lontana dall’essere l’insegnanteideale della Marcia Blaine. I suoi metodi a dir poco nonconvenzionali la rendono più che sospetta agli occhi del-la direttrice, Miss Mackay, che la tiene d’occhio in attesadi trovare un pretesto per liberarsene.

Ma non immaginate il professor Keating de L’attimofuggente. Miss Brodie sì, trascina le sue allieve fuori dalleaule, ma le sue lezioni sotto l’olmo in giardino non ver-

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di Sabrina Campolongo

GIOCANDO A ESSERE DIO Recensione de Gli anni fulgenti di Miss Brodie, di Muriel Spark

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tono tanto sulla poesia o sull’importanza del pensierocritico, quanto sull’epica privata della stessa Miss Bro-die, le sue avventure sentimentali, opportunamente ro-manzate, le sue fascinazioni politiche, Mussolini prima eHitler poi, le sue vacanze all’estero, quali creme sia me-glio utilizzare per la pelle e quali pittori siano da apprez-zare: Giotto più di Leonardo, per esempio, in quanto ‘suopreferito’.

Il piano di studi regolare viene sostituito da un ‘pia-no Brodie’ fondato sulle idee, le idiosincrasie e le passio-ni di questa vitale zitella edimburghese, sulla vita, sul-l’arte e sul mondo. Un piano che non si esaurisce all’in-terno del ciclo di studi in cui le giovani donne sono a leiaffidate, ma che continua a coinvolgerle anche negli annisuccessivi, durante i quali il circolo delle ‘sue’ ragazze –cinque prescelte, ognuna per una sua particolare abilità,anche questa attribuita loro da Miss Brodie stessa, ov-viamente – viene riunito settimanalmente davanti a unatazza di tè, per un confronto sulle reciproche novità. Ilpiano di Miss Brodie si spinge fino a voler trasformaredue delle allieve in ‘doppi’ di se stessa, destinandone una,Rose “l’istintiva”, al ruolo di amante dell’uomo a cui harinunciato, pur essendone innamorata, perché la relazio-ne adultera con un cattolico le è parsa inopportuna, e l’al-tra, Sandy “l’intuitiva”, al ruolo di testimone di questa re-lazione, con il compito di osservare e riferire a lei.

Come se non bastasse, le ragazze sono da subito ar-ruolate nell’esercito di Miss Brodie nella sottile ma sem-

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Gli anni fulgenti di Miss BrodieMuriel SparkAdelphi1961(traduzione diAdriana Bottini)

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SOTTO I RI(F)LETTORI

pre più aperta guerra che la vede op-posta a Miss Mackay, che non esita daparte sua a usare la propria influenzaper indurle a spifferare qualcosa chepossa aiutarla a buttare fuori l’eccentri-ca Miss Brodie dal corpo insegnanti, uncorpo insegnanti composto essenzial-mente da zitelle più o meno stagiona-te, lascito della Grande Guerra, silente-mente schierate sul fronte della direttri-ce. L’unica eccezione è costituita da dueprofessori maschi, i quali subiscono al-meno quanto le sue ragazze il fascino diquesta bizzarra insegnante, “bellissimae fragile”.

La fragilità di Miss Brodie, dichia-rata ma non esplicitata, attraversa in mo-do latente tutto il romanzo, come unaluce visibile per alcuni personaggi – San-dy più di tutti – appena intravista dallettore, e invisibile a Miss Brodie stes-sa, che per gran parte del tempo non fache dichiarare di essere “nel suo fulgo-re”, il periodo migliore della sua vita, unfulgore che, afferma, ha scelto di met-tere a frutto unicamente per le sue al-lieve, per fare di loro, con le sue paro-le, la crème de la crème. Cosa sia per MissBrodie la crème de la crème non è sem-pre chiaro, come ogni sua affermazionenecessita di essere decriptata.

“Per me l’educazione è un condurrefuori ciò che è già presente nell’animadell’allieva” ribadisce più volte, in oppo-sizione a quello che lei identifica comeil metodo di Miss Mackay, che consi-sterebbe nel ficcare nozioni nella testa

delle allieve, ma poi ripete, altre volte:“Datemi una bambina in età influenza-bile e sarà mia per la vita”.

Jean Brodie è senza dubbio una ma-nipolatrice, eppure Sandy, anni dopo a-verla tradita, ammetterà che “il difetto-so senso di autocritica di Miss Brodienon era stato privo di effetti benefici earricchenti”.

È fuor di dubbio che Miss Brodie siaun’esperienza fondante nella vita dellesue ex allieve, che pur adulte parlanodi lei, portano fiori sulla sua tomba, osi recano a trovare Sandy in conventoper parlare ancora di lei, l’unico ele-mento che le abbia mai unite.

Il loro delicato rapporto con MissBrodie viene ricostruito attraverso epi-sodi posati su un piano temporale incontinuo movimento. I frequenti flash-back e flashforward, a volte all’internodello stesso paragrafo, interrompono ilflusso della narrazione e tengono costan-temente in gioco il lettore, che si trovatra le mani tessere di un puzzle che de-ve comporre da solo, se non si accon-tenta di scoprire cosa è accaduto. Del re-sto, non c’è mistero, da questo punto divista, nessuna suspense: siamo da su-bito informati di tutti i ‘colpi di scena’,che pertanto non sono più tali: il tradi-mento, il fatto che Sandy sia diventatasuora di clausura, la morte di un’altraallieva del gruppo, la goffa Mary.

Il mistero che ci spinge ad andareoltre non è legato a cosa accadrà, dal mo-mento che tutto è già accaduto, ma alla

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Giocando a essere Dio

questione ben più complessa del per-ché è accaduto.

Perché Sandy ha tradito, perché si èfatta suora? La questione è particolar-mente cruciale, dal momento che pergran parte del libro siamo nella mente diSandy. Anche se il punto di vista non èmai in prima persona, abbiamo l’im-pressione che la necessità di ricostruirele vicende sia la sua, e che suoi siano an-che l’ordine e le priorità tra gli eventi danarrare. Il metodo da lei scelto è, dallasua stessa voce, quello più economico,non può che essere questo.

Che cosa intenda Sandy, e di conse-guenza Muriel Spark, per economico vie-ne chiarito nel momento in cui Sandysi rende conto che il professore di arte,Teddy Lloyd, l’oggetto della ‘rinuncia’di Miss Brodie, a sua volta innamoratodi lei, non fa che riprodurla in ognunodei ritratti che ci tiene a eseguire delle‘ragazze Brodie’. “Sandy rimase affasci-nata dall’economia del metodo di Ted-dy Lloyd, così come quattro anni primaera rimasta affascinata dalle varianti diMiss Brodie alla sua storia d’amore,quando aveva sovrapposto al suo pri-mo innamorato del tempo di guerra lequalità del professore di disegno e delmaestro di canto, da poco entrati nellasua orbita. Il metodo di presentazionedi Teddy Lloyd era molto simile, estre-mamente economico, e da allora Sandyrestò sempre dell’idea che, dovendo sce-gliere tra varie linee d’azione, la più eco-nomica era la migliore. Fu proprio a

questo principio che Sandy si ispiròquando giunse il momento di tradireMiss Brodie”.

Come si può dedurre da questo pas-saggio, il metodo economico si fonda susovrapposizione e sostituzione. Il pro-fessor Lloyd sovrappone il volto delladonna che ama al volto delle ragazzeche, essendo state scelte da lei, portanopiù decisamente la sua impronta, e vaben oltre, cercando di sostituirla nel suoletto con almeno due di loro, riuscen-doci solo con una, Sandy. Si potrebbeaffermare, con una certa dose di cini-smo, che, non potendo avere l’origina-le, si accontenti di una copia, ma Lloydnon si limita a questo: come nei suoi ri-tratti riesce a imprimere in ognuno deivolti diversi i tratti di Miss Brodie, cosìpossiamo immaginare che il suo sguar-do trasfiguri Sandy, facendo emergerela Miss Brodie che è in lei, allo stessomodo in cui Miss Brodie riusciva a ve-dere nei suoi attuali corteggiatori l’au-ra del suo perduto primo amore.

La scelta del verbo trasfigurare nonè casuale, come vedremo.

Sandy tradisce Miss Brodie nell’autun-no del 1937, rivelando a Miss Mackayil penchant per il fascismo della sua exinsegnante, regalandole così il pretestoche cercava per licenziarla. Durante quel-l’estate, Sandy era diventata l’amante diTeddy Lloyd, il quale continuava a di-pingere ritratti inesorabilmente somi-glianti a Miss Brodie. Non vi sono ele-

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SOTTO I RI(F)LETTORI

menti che portino a pensare che Sandyfosse gelosa, però, e nemmeno che mo-strino che Sandy avesse mai davvero de-siderato Lloyd. Invece leggiamo: “Quan-to più Sandy constatava che lui era sem-pre innamorato di Jean Brodie, tanto piùsi sentiva incuriosita dalla mente cheamava quella donna”.

È possibile che entrambi vedano nel-l’altro l’immagine della stessa donna a-mata? Il fatto che, lasciandolo, alla finedell’estate, Sandy “si complimentò conTeddy Lloyd per l’economia del suo me-todo” e “Teddy Lloyd si complimentòper l’economia del suo”, parrebbe con-fermarlo.

Sebbene non vi sia mai un’espres-sione diretta di pulsioni sessuali di San-dy verso la sua ex insegnante, diversielementi concorrono a far nascere il so-spetto che la sua attrazione per lei va-da al di là della semplice fascinazione.E quando Sandy afferma rabbiosamen-te, di Miss Brodie: “Questa donna è le-sbica e non sa di esserlo”, non è diffici-le pensare che invece stia parlando dise stessa, se pensiamo al tenore dellesue fantasie e al suo interesse che nonè eccessivo definire morboso per la vi-ta sessuale e sentimentale di Miss Bro-die – interesse che ha condiviso con lamigliore amica Jenny, finché lei, cre-scendo, ha cominciato a pensare ad al-tro, lasciandola sola con la sua osses-sione.

Un altro indizio a favore dell’omo-sessualità inconsapevole di Sandy po-

trebbe essere il lungo passaggio dedi-cato a un personaggio marginale e al-trimenti superfluo, una donna poliziot-to che, per aver interrogato Jenny in me-rito al suo incontro con un esibizioni-sta, popola le fantasie di Sandy per me-si, spingendola a chiedere di continuoall’amica di raccontare la sua appari-zione, l’aspetto, persino la pronunciadella donna, trascurando invece quasidel tutto la figura del maniaco.

Seguendo il metodo economico del-la sostituzione, possiamo spingerci a pen-sare che, come Miss Brodie ha sostitui-to Teddy Lloyd con un surrogato me-no affascinante, il professore di cantoLowther, Sandy sostituisca l’oggetto proi-bito del suo desiderio con l’uomo cheinvece ha avuto accesso a quel corpo equell’anima. La delusione, rendendosiconto di non poter avere né essere MissBrodie, unita a una seconda delusionederivante dall’essersi resa conto della fal-libilità, e la conseguente pericolosità, diquest’ultima – poche righe prima delracconto del tradimento, non a caso,Sandy apprende che, nel suo incoscien-te attivismo, Miss Brodie aveva man-dato un’altra compagna a morire inSpagna, per un fronte, quello franchi-sta, verso cui lei stessa l’aveva diretta,“facendola ragionare” – possono esse-re le ragioni che l’hanno condotta ver-so la via più economica e vantaggiosaper tutti, cioè la deposizione di MissBrodie stessa, la fine del suo fulgore.

Da sole però queste ragioni non ba-

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Giocando a essere Dio

stano a spiegare la successiva conver-sione di Sandy al cattolicesimo, spintafino al punto di scegliere la via del con-vento di clausura.

In parte, anche questo costituisce untradimento di Miss Brodie, la quale fre-quentava tutte le chiese tranne quellacattolica, “una Chiesa fondata sulla su-perstizione” buona solo per “chi non vo-leva ragionare con la propria testa”, main questa scelta estrema si può vedereallo stesso tempo una ribellione controil calvinismo scozzese verso cui Sandyaveva cominciato a interessarsi attornoai quindici anni, per scoprire un Dio sa-dico che prova piacere “nell’istillare inalcuni un illusorio senso di gioia e sal-vezza in modo che poi la sorpresa ri-sultasse tanto più atroce”. Non è diffi-

cile intravedere in questo “illusorio sen-so di gioia e salvezza”, Miss Brodie chepromette alle ragazze che diventerannola crème de la crème, quell’esaltazione u-nica nella quale le ha fatte vivere peranni, solo scegliendole.

Nessuna del gruppo delle Brodie èdiventata la crème de la crème: due ragaz-ze sono morte, una è diventata un’attri-ce piuttosto ordinaria; Rose, il cui de-stino era quello di essere “una grande a-mante” e vivere “al di sopra della mo-rale” ha scelto invece un tranquillo ma-trimonio di interesse, le altre si arrabat-tano tra una carriera non eclatante euna vita privata assolutamente nellanorma.

Dal punto di vista di Sandy, il Diodi Calvino, nel corpo di Miss Brodie,

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SOTTO I RI(F)LETTORI

andava punito, o almeno, come affermalei stessa, arginato: “Crede di essere laProvvidenza, crede di essere il Dio diCalvino che vede il principio e la fine”.

Eppure, dopo aver scelto il Dio cat-tolico che concede il libero arbitrio ed èdisposto al perdono, Sandy non sem-bra trovare la pace, anzi, e non soloperché tra le file della Chiesa cattolicaha “incontrato un bel po’ di fascisti me-no amabili di Miss Brodie”. Il modo incui si aggrappa alle sbarre del parlato-rio, mentre i visitatori la riportano alpassato, e le sue parole “Oh, a suo mo-do era un’innocente”, sembrano sottin-tendere, se non un pentimento, comun-que uno stato di inquietudine.

Sandy, diventata suora, ha scelto ilnome di suor Helena della Trasfigura-zione (Helena, come Elena di Troia, unadelle donne “nel loro fulgore” alle qualiMiss Brodie si comparava nei giornid’oro), e scopriamo che in convento haguadagnato una certa celebrità – e al-cuni privilegi, come quello di riceverevisite – scrivendo un libro dal titolo Latrasfigurazione del banale (o meglio delluogo comune, dal momento che il titolooriginale è The trasfiguration of common-place).

Non sappiamo nulla del trattato diSandy, al di là del titolo e del fatto cheha a che fare con la percezione etica,quindi possiamo solo fare delle ipotesisu come la trasfigurazione del luogocomune influisca sul concetto di bene emale, ma di certo non può essere ca-

suale che la parola trasfigurazione ritor-ni nel nome scelto per sé da Sandy.

“E fu trasfigurato davanti a loro; ilsuo volto brillò come il sole e le sue ve-sti divennero candide come la luce” ri-porta il vangelo di Matteo. Nell’episo-dio evangelico della Trasfigurazione, Ge-sù si apparta con tre discepoli presceltiper mostrarsi a loro nello splendoredella vita divina che è in lui. Il concettodi trasfigurazione cristiana ha quindi ache fare più con quello di svelamentoche di trasformazione, dal momento cheGesù, mostrandosi avvolto nella luce,rivela la sua vera natura.

Con questa idea nella mente, tutto ilromanzo può essere visto come il ten-tativo di Sandy di svelare gli avveni-menti come parte di un tutto, di coglie-re la luce che li attraversa e li lega. Latrasfigurazione del passato è il passag-gio necessario per ridimensionare il li-bero arbitrio e anche per trovare spa-zio al perdono.

I fatti, trasformati in narrazione, ri-velano legami misteriosi. Un episodioapparentemente banale, un piccolo in-cidente nel laboratorio di scienze checoinvolge una delle ragazze, Mary, fa-cendola correre avanti e indietro spa-ventata da lingue di fuoco che esconodalle provette, evoca esattamente la suamorte in un incendio, che avverrà annidopo, conferendogli la luce di un’anti-cipazione del destino, o un segno dellaProvvidenza, dal punto di vista di uno

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Giocando a essere Dio

scrittore cattolico come lo era MurielSpark, che si era convertita nel 1954, so-lo tre anni prima della pubblicazionedel suo primo romanzo, e soleva ripe-tere che solo diventando cattolica erariuscita a vedere l’esistenza umana co-me un intero, così come un romanziereha bisogno di fare.

In questo senso Gli anni fulgenti puòessere anche visto come un romanzosulla necessità della narrazione e suisuoi meccanismi. Nel personaggio diSandy-suor Helena e nel suo bisogno diricostruire il passato, narrandolo, perriappacificarsi con Miss Brodie e conse stessa, si può cogliere una metaforadello scrittore e del suo bisogno di tra-sfigurare la sua vita per venirci a patti.

Ma lo scrittore è sicuramente ancheuna Miss Brodie, che gioca a fare Dio,plasmando la vita dei suoi personaggie facendoli muovere in una realtà ema-nazione di se stesso, di cui vede “il prin-cipio e la fine”.

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IN LIBRERIA narrativa

Che cos’è una fuga? È un abbando-no, precipitoso e improvviso di un luo-go. È una perdita di oggetti e affetti.Ma nelle arti figurative la fuga è ilpunto d’incontro delle linee, così va-le per questo racconto inedito di Chri-sta Wolf in cui, come in tutte le gran-di partenze – declina morte – i ricor-di, le esperienze e i percorsi di vita fi-nora tracciati convergono, corrono inmente, tutti insieme presenti all’ap-pello. Capita alla quindicenne Hele-ne. Perché in una fredda mattina digennaio la giovane ragazza, l’io nar-rante della storia, con un gruppo diparenti lascia la città, invasa dai car-ri armati sovietici. Siamo in Germa-nia, 1945. Magistrale l’abilità dellascrittrice di raccontare la storia muo-

vendosi su piani temporali diversi,senza mai una dispersione, ma anzidando una forte idea di compattezzanel portare avanti temi e costruzionedi personaggi. Ciò che nasce è unascrittura viva, ricca di paragoni, chefuoriesce dalla pagina; le voci deiprotagonisti, grazie all’uso sapientedel discorso diretto libero, pare di sen-tirle, lì accanto, mentre scorrono levicende. E la frase d’inizio, quel «No,non è stato così», a ribadire con fu-ria una narrativa come spazio dellamemoria, della testimonianza, dellaconfessione di verità. (R. Brioschi)

EPITAFFIO PER I VIVI.LA FUGAChrista Wolf, Edizioni E/O,160 pagg., 14,50 euro

Gli Wapshot sono un’aristocratica fa-miglia di St. Botolphs colta nella suafase di declino e sgretolamento. È loscandalo a defraudare i personaggi diquesto ironico e sferzante romanzodella rispettabilità, unico baluardo alquale sembrano aggrapparsi per af-frontare la vuota quotidianità. Hono-ra, Coverly e Moses sono gli ultimirappresentanti della famiglia e, an-che se lo scandalo ‘ufficiale’ che muo-ve la vicenda è l’accusa di evasionefiscale imputata all’anziana cugina,il processo di scorticamento delle ap-parenze operato da Cheever, pone ildubbio che lo scandalo sia lo strumen-to adottato per smascherare l’ipocri-to conformismo di tutti i personag-gi. I fratelli Coverly e Moses Wap-shot, le loro mogli Betsy e Melissa,Honora stessa, costituiscono un pic-colo mondo fatto di negazione dellarealtà, di desiderio di appartenenzaalla società, di ostinata ricerca di ri-fugio nel fulgore di un passato chenon ha trovato degni rappresentanti

nel presente. A ognuno l’autore to-glie i riferimenti sottoponendoli ascandali personali che come satellitiruotano attorno a quello più generaleche coinvolge l’intera famiglia, perregistrarne sì il fallimento, ma anchela capacità di ricostruirsi una nuovarealtà, se non idilliaca, meno artefat-ta. (V. Sartorio)

LO SCANDALO WAPSHOTJohn Cheever, Fandango,336 pagg., 18,00 euro

A volte capita nella vita di incontra-re persone o di vivere situazioni la cuirelazione con il reale viola i principie le regole della sana logica. Momen-ti, di fronte ai quali la ragione restasenza voce. Il cliché da genere lette-rario si riferisce a questi incontri usan-do termini quali ‘mostri’ e ‘fantasmi’,e forse sì, forse è vero che da ingre-

dienti simili è composta la materianarrativa di questi cinque racconti del-la Byatt. Però c’è molto di più. In fon-do, la narrativa si è spesso confron-tata con il soprannaturale per affron-tare l’ignoto che pervade il quotidia-no, e molto spesso lo ha fatto pur te-nendosi fuori dalle rigide traiettoriedell’horror – basti pensare a Giro divite di Henry James e alle sue storiedi fantasmi. Nel caso della Byatt, ilperturbante penetra il quotidiano inmaniera più sottile, e lo fa per con-viverci o per accedere alla psiche sot-to forma di esperienza positiva, perquanto dolorosa. È un perturbante chesi accompagna a tenerezza e a pietà,e che spesso entra con l’amore, pe-netra nella solitudine, viene a disfa-re certezze... e costringe il lettore ariflettere su quante volte ciò che de-finiamo ‘inspiegabile’ intervenga nel-la vita per consegnare un nuovo pun-to di vista e correggere l’immagineche abbiamo di noi stessi.(Milton Rogas)

LA COSA NELLA FORESTAA.S. Byatt, Einaudi,204 pagg., 12,50 euro

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IN LIBRERIA saggistica

Dare voce alla realtà dei black blocnon è semplice: non esiste un mani-festo politico così come non ci sonoreferenti da contattare, e la difesa del-l’anonimato con cui si proteggono èpari all’avversione che nutrono pergiornalisti e media (difficile dargli tor-to). Il merito di Fracassi è quindi diessere riuscito a raccogliere alcunetestimonianze, dando la possibilità allettore di confrontarsi direttamentecon il famigerato blocco nero. Eser-cizio interessante, anche se non man-cano contraddizioni tra le diverse di-chiarazioni, inevitabili in una galas-sia non strutturata e non gerarchica.Quello che invece si poteva evitare so-

no le interviste agli ‘esperti’, che ag-giungono nulla a quanto già si leggesui quotidiani dopo ogni manifesta-zione – condanna dell’uso della vio-lenza, ipotesi di infiltrazione da par-te della polizia, suggestioni di con-trollo a opera dei servizi segreti, ri-chiamo alla strategia della tensione.Anche perché Fracassi costruisce unlibro in due parti che però non dia-logano tra loro, con il risultato chela manovra a tenaglia degli ‘esperti’raggiunge l’obiettivo di squalificarepoliticamente i black bloc, nel mo-mento in cui non riconosce in lorouna opposizione al sistema.(G. Cracco)

BLACK BLOC.VIAGGIO NEL PIANETA NEROFranco Fracassi, Alpine Studio,142 pagg., 11,00 euro

Nel tributare il giusto plauso alle edi-zioni Mimesis che hanno pubblicatoquesto classico firmato da Boltanski,un allievo di Pierre Bourdieu, e dal-la sua collaboratrice Chiapello, è im-possibile non segnalare al lettore l’in-credibile ritardo con cui questo testoè stato reso disponibile al mercato ita-liano, un ritardo ancor più grave poi-ché quando questa opera (che oggiappare come una acuta, minuziosa, de-scrizione della società odierna) uscìnel 1999, la sua triste qualità profeti-ca spiccava con massima forza. Vi-cino alla prospettiva previana, anchese arricchito da contributi provenientidal campo delle scienze sociali e del-la statistica, questo testo illustra dun-que benissimo “l’unico dei mondi pos-sibili”, ovverosia un mondo permea-to dal Capitalismo in ogni sua piega,con il tragico effetto di produrre o-gni giorno sempre maggiori disugua-glianze e sfruttamento. Un quadro cheè cominciato a precipitare, fatalmen-te, nel 1968 e che, a partire del 1989non ha conosciuto più alternativa. Ilnuovo spirito del capitalismo è un sag-gio corposo, per molti versi impegna-tivo, ma essenziale per capire in tut-ta la sua gravità il pericolo derivantedal trionfo capitalistico, spingendodunque a trovare oggi nuove formedi dissenso. (A. Cresti)

IL NUOVO SPIRITODEL CAPITALISMOLuc Boltanski e Ève Chiapello,Mimesis Edizioni, 680 pagg.,38,00 euro

Come può prendere vita quel feno-meno paradossale per cui molti lavo-ratori sfruttati siano d’accordo con chili sfrutta, e felici di esserlo? Questadomanda è il punto focale da cui sidirama la riflessione proposta in que-sto saggio, nel tentativo di svelare unodegli arcani della modernità lavora-

tiva. Lordon focalizza l’analisi suidesideri e sugli affetti – partendo dalconcetto di conatus, di Spinoza –che muovono l’individuo ad appas-sionarsi al proprio lavoro cercando erintracciandovi una soddisfacente rea-lizzazione del Sé. L’autore supera ilconcetto di ‘servitù volontaria’ elabo-rato da La Boétie per entrare nei mec-canismi di transizione del desiderio,e mostra la capacità della strutturaoggettiva – il sistema – di diventaresoggettiva attraverso il desiderio, nel-la forma di un immaginario. La vo-lontà e la consapevolezza sono, se-condo Lordon, fuori questione. Quiè il desiderio che sostituisce l’impo-sizione tipica dei regimi. Si tratta distrutture, di tecnologie, di produzio-ne di desideri. Lettura stimolante,quindi, che cerca di integrare Marxformulando un’antropologia delle pas-sioni e avvalendosi delle riflessioni diFoucault e Bourdieu, e del fondamen-tale supporto dell’Etica di Spinoza.(Milton Rogas)

CAPITALISMO, DESIDERIOE SERVITÙFrédéric Lordon, Derive Approdi,216 pagg., 16,00 euro

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LE INSOLITE NOTE

er mia e vostra fortuna le generazioni non sono maiuguali le une dalle altre. Non solo: non ci sarebbeevoluzione ma neanche involuzione. Una noia morta-

le. Anni fa m’era venuto da scuotere la testa e sospirare guar-dando per aria: in un posto occupato a Bologna (età media25 anni) vado a vedere con mia incredulità un concerto delsestetto di Don Byron. Il posto è vagamente lugubre, arreda-mento zero, freddo e spoglio. Lo sbombardato a cui chiedodove si svolga il concerto ha lo sguardo assente che improv-visamente s’illumina: «Ah! Il concerto nella sala per anziani!Vai di là.» Allora avevo meno di quarant’anni e, sedendomi,mi sono domandato perché quello che ascoltavo doveva es-sere catalogato come musica da anziani. Tra l’altro Don By-ron in quel sestetto suona irto e spigoloso, tutt’altro che faci-le e ammiccante, per niente mainstream – a Bologna suonòanche con volume alto e dissonanze al massimo. Il mio Vir-gilio s’era affacciato sullo stipite dell’entrata e aveva un’ariapiuttosto perplessa. Mi trovai a scuotere la testa pensandoalla techno che probabilmente si sparava a tutta manetta. Maquando lo vidi scuotere la testa in modo identico al mio nonpotei fare a meno di pensare che, tutto sommato, nessuno

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DI AUGUSTO Q. BRUNI

COLLETTIVO T. MONKUGLY BEAUTY

(Honolulu Records, 2015)

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dei due aveva gli strumenti per capire la musica dell’altro sinoin fondo, e dunque andava bene così. Quando invece ho avu-to a che fare con qualcuno che gli strumenti li aveva, comecon DJ Andy Baba a Roma, che poteva essere mio figlio intermini anagrafici, sono stato proprio contento: lui ha impa-rato da me cosa sia un suono rarefatto e acustico, io da luicosa sia l’estetica della macchina da suono. Ed è andata al-trettanto bene così. Basta avere le orecchie aperte e la mentein modalità on.

È andata ancora meglio quando, alcuni anni fa, ho co-minciato a vedere con molto piacere che i fermenti musicalidella provincia in cui vivo lievitavano e improvvisamenteprendevano forma. Gli stessi ragazzotti che vedevo ogni tan-to con uno strumento in mano, nelle situazioni più dispara-te, erano dentro epifanie da concerto, un po’ come i funghiche in quattro e quattr’otto raggiungono forme e dimensionisorprendenti dopo una pioggia estiva. È stato in un parcoumido e poi invaso di sole che un amico mi ha presentatoDario Trapani da Domodossola, forse un po’ goffo in certi mo-vimenti, ma con un sorriso e due occhi brillanti che immode-stamente attribuii subito a un talento che stava sbocciando.

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LE INSOLITE NOTE

Vi risparmio il seguito.Sono diventato crowdfunder del primo CD a nome Col-

lettivo T. Monk capeggiato proprio da Dario e ho avuto oc-casione di ascoltarlo in situazioni parecchio diverse, ognivolta godendo e pensando che – come dicevo – per fortunale generazioni non sono mai uguali tra loro. E francamentenon so se quello che sto ascoltando sia dovuto (e quanto)alla sorte o al fatto che l’educazione musicale nei conservato-ri stia crescendo – e molto – in termini qualitativi e di stimo-lo. Fatto sta che fino a pochi anni fa un disco d’esordio nonsarebbe uscito in crowdfunding – nessuno sapeva di cosa sitrattava.

È un buon segno: trovo e incontro ragazzi con un fortesenso di collettività, e soprattutto di condivisione. Le indivi-dualità ci sono sempre (Dario Trapani è una di queste) manon sono individualismi, non trovi mai quello che vuol farvedere che ce l’ha più lungo. E se ci sono, trovano voce den-tro e grazie ai collettivi. Basta guardare come vengono evi-denziati nelle note di copertina i soli: ci sono tutti – ma seascoltate il disco nessuno mai fa la parte del leone. Tutto benbilanciato e armonico in termini di spazio destinati ai solisti.

Altra cosa: quasi ovunque nel mondo, se esce un discod’esordio dove si suona musica di un gigante – in questo casoThelonious Monk, mai abbastanza studiato a mio avviso – ildiscorso prende la forma di ‘omaggio a’. Il più delle volte so-no gli stessi discografici a non voler rischiare – e i musicistigli vanno dietro, nel senso che si rischia molto di meno in uncompitino di rilettura pedissequa che reinventando (e molto)ciò che è stato scritto. Non parliamo poi di mettere dentro undisco materiale proprio. Quasi tabù. È un po’ come se si sen-tisse il peso di una gerontocrazia discografica che dicesse:«Ok il disco te lo faccio incidere, ma tu devi dimostrarmiprima di saper fare gli standard alla lettera».

Dario ha optato saggiamente per una soluzione sostan-ziale e formale del tutto fuori da queste secche. Indipenden-za di produzione = indipendenza nella scelta artistica. Micaper nulla il nostro è uno di quei musicisti/leader/arrangiatori

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COLLETTIVO T. MONK

che hanno in testa già da prima come debba suonare un cer-to brano, ma per loro stessi, non per il discografico di turno.

Scuserete il paragone, ma è per capirci: c’è un alternatetake storico di One day my prince will come (Capitol Years) incui Davis ascolta la partenza del brano suonata da Phil Cham-bers al contrabbasso con una serie di note ribattute e sinco-pate e gli borbotta dietro, interrompendolo: «No, no, non: tumtum tum TuTum tum tum tum: just tum tum tum, straight,ok?» Chambers esegue fedelmente: e infatti in tutte le inci-sioni a nome di Davis non trovate mai quella sincope.

Non ho potuto fare a meno di ricordarla ascoltando lanota ribattuta di piano all’inizio di Think of one, che preparal’intelligente interplay successivo tra vibrafono (Andrea Dul-becco) e pianoforte (Giovanni Agosti). Se ascoltate la versio-ne in It’s Monk time c’è invece una scala discendente di con-trabbasso che prepara il 4/4 dell’insieme. Questo per direche Dario è uno di quei musicisti che ha già in testa cosavuole dal suo gruppo in termini di suono e di interpretazio-

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LE INSOLITE NOTE

ne prima di preparare l’arrangiamento, che per nostra fortu-na non è mai una piatta rilettura. Prendiamo l’esecuzionedella title track Ugly Beauty: piuttosto fedele, ma potete sem-pre percepire un non so che di aereo che non c’è nell’origina-le, in cui i corposi passi di danza del contrabbasso si sento-no, e come! (1), mentre qui il contrabbasso è più che sobrio,quasi assente.

Spostiamoci adesso sui due brani di Coltrane (arrangiatistavolta da Nicolò Ricci) ovvero Wise One e Crescent [pt.1].Nel primo direi che la scelta di sostituire il sax Coltrane conuna voce femminile è ardita, ma ha un suo senso estetico – ilresto è soffuso come deve essere. In Crescent [pt.1] l’opera-zione è assai più ardita: mentre l’originale è sostanzialmenteuna ballad meditativa, qui l’arrangiamento spariglia tutto.Ben 5 cambi di ritmo (tra cui almeno 4 battute in levare allareggaemaniera) e poi la ballad con gli accordi ripetuti dellachitarra che mimano quelli delle note basse del piano all’ini-zio. Black Narcissus è un altro bell’arrangiamento di Darioche dovendo fare i conti con il piano elettrico di Hancockdella versione originale (l’album di Joe Henderson è Powerto the people, 1969), un piano tenue e soffuso, quasi una neb-bia psichedelica, ha saggiamente spazzato via ogni tastiera(nella prima parte) a vantaggio di bei contrappunti dei fiati edella sua chitarra che infondono vivacità e movimento al-l’intero brano.

Altro merito di questo giovane ensemble nato attorno,dentro e fuori dal Conservatorio di Milano dalla tesi di Da-rio (su Monk, ovviamente) tra co-allievi e amici, è quello diaver scelto, come modello di gruppo musicale, l’attitudinealla rilettura del San Francisco Jazz Collective (con dentrocalibri pesanti come Joe Lovano, Dave Douglas, Stefon Har-ris e Miguel Zenon) condita, se possibile, da uno spirito diesplorazione alquanto più sbarazzino. La prova sta nella ri-lettura finale di It’s a wonderful life di Sparklehorse, affidataalla deliziosa vocina filtrata di Marcella Malacrida: l’accorto

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_______________________________________________________________________________1) Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=z0QsQtlT2Rk

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COLLETTIVO T. MONK

amalgama jazzato riesce a far decollare il brano verso latitu-dini tenere, del tutto estranee al suo spirito indie originario,nobilitandolo non poco.

Insomma, gente mia, un album d’esordio da leccarsi leorecchie. Non capita spesso e soprattutto non capita conquesta intensità. Ho detto.

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ZONA FRANCA di Andrea Cocci

Causa limiti spaziali + presuntuosapresa in considerazione degli ipote-tici gusti/esigenze dei lettori da mepronosticati/e (non posso stare nellavostra testa; non per ora), fino a oggiho evitato di sforare sul personale e-sprimendo sana incazzatura verso cer-te robacce, limitandomi a racconta-re/commentare film (secondo me) de-gni di nota . Ma ieri, proprio ieri, ho

visto Django Unchained di Tarantino,Oscar come Migliore Sceneggiatura2013 (!!!). E mi son girate come pia-neti idrofobi. (quasi) 3h di noia cita-zionistica autoreferenziale, per di piùpercepita da pubblico e (certa) criti-ca come “atto d’accusa contro lo schia-vismo in America”. D: perché ostinarci a scovare signi-ficati dove non ce ne sono? R: Ego Nulla più. Vedere questo inclassifi-cabile Arcana, (m’)è servito ad alle-viare il dolore intellettual-emotivo (aTarantino volevo bene) subìto al ca-pezzale di quei due noiosi, logorroi-ci, falsi caubbòi. E a stupirmi di uncinema italiano oltre ogni schema, pri-vo di presunte pretese eppur poten-te. Madre e figlio si dilettano in ‘se-dute spiritiche’ a discapito di dispe-rati creduloni. Poi si scopre che il ra-gazzo possiede veri poteri paranor-mali e... Magnifico delirio. Alla fac-cia di molti inutili B-Movie presi co-me riferimento dal ‘riesumatore delcinema bis italiano’.

ARCANAregia di Giulio Questi, 1972

Mite. Discreto. Ti fidi di lui. A prio-ri. È innocuo. Gentile. Rappresentauna certezza. Lo vedi ogni giorno. Ilvostro rapporto si limita a qualche«Salve» o «Mi servirebbe...» Questoè quanto. Ma: se ogni notte Egli en-trasse nel tuo appartamento e passas-se ore immobile sotto al tuo letto, a-spettando che ti addormenti per ane-stetizzarti e fare di te ciò che vuole,in quanto nella tua felicità è racchiu-so il suo malessere? Che la Terra con-tenga agglomerati pluricellulari (aliasesseri umani) geneticamente incapa-ci di provare stati emotivi al di fuoridi rabbia e infelicità sono (in parte)d’accordo; ne conosco parecchi. Mapenso che ciò sia per scelta persona-le. Tuttavia: ammesso che esistano u-manoidi biologicamente incapaci disperimentare quell’ambita emozionecomunemente denominata ‘gioia’ –che per me è solo una conseguenzasecondaria derivante da uno stato diquiete interiore (alias pace) – grazie

a BT saremo testimoni della messain scena di cosa possa significare es-sere patologicamente estromessi dal-la contentezza e di come uno di que-sti esseri agisca, cercando di raggiun-gere suddetto stato tramite la trasmis-sione del proprio dolore al prossimo.Dopo due cazzate del ciclo Rec, nel2011 Balagueró tornò (provvisoria-mente) al vero cinema. Oggi s’è giàriperso; ma vabbè.

BED TIMEregia di Jaume Balagueró, 2011

... pensare che nemmeno l’avevo maisentito nominare... ed è una pietra mi-liare! LPAG l’ho conosciuto e vistoa trentuno anni suonati. E ho godutooltre ogni oltre. Capolavoro. Sceneg-giatura livellata, levigata con mae-stria – nulla è per caso; esiste soloquanto serve e senza troppi caz... suc-cede tutto esattamente quando devesuccedere – interpretata da un Hen-ry Fonda (coi contro zebedei) accer-chiato da due pugni e un dito di mi-

rabili ‘spalle’ (se tali possano definir-si; interpreti tutti azzeccati). Dodicigiurati in una stanza torrida priva diaria condizionata, la partita che tuttiaspettano – e non vedono l’ora divedere – che sta per cominciare, edettolitri di sudore che colano e cola-no. Così: perché perdere tempo a di-scutere dell’ovvia sentenza di colpe-volezza appena emessa contro un ra-gazzino accusato di omicidio (e con-dannato a morte), invece di smuover-si in direzione dello stadio? Ma nonsi scherza con la vita degli altri, tan-to meno quando è appesa a un filoche è anche nelle tue mani. HenryFonda questo lo sa bene e per tuttoil giorno cercherà di far chiarezza suuna faccenda che poi si scoprirà fareacqua da tutte le parti. E grazie a luianche gli altri si troveranno a fare iconti con se stessi. Parabolona sulgiudizio e sul senso di colpa. Da ve-dere e rivedere.

LA PAROLA AI GIURATIregia di Sidney Lumet, 1957

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RESTITUZIONE PROSPETTICAForza e violenza:nodo del conflitto socialedi Giovanna Cracco

POLEMOSFree jobs: il lavoro gratuitoda Expo 2015 al Jobs Act e oltredi Adam Arvidsson, AndreaFumagalli e Domenico Vitale

Astensionismo tra disaffezionee riscatto socialedi Giovanna Baer

L’INTERVENTOLo sport fascistanell'Europa degli anni Trentadi Paul Dietschy

(DIS)ORIENTAMENTIIl Front national franeoliberismo, destra socialee preferenza nazionaledi Matteo Luca Andriola

A PROPOSITO DI...No Commercial PotentialBreve storia della rivista Il delatoredi Giuseppe Ciarallo

Ken Loach e William McIlvanney:testimoni del mondo operaioe dei diseredati britannicidi Carmine Mezzacappa

FILO-LOGICOFiduciadi Felice Bonalumi

SOTTO I RI(F)LETTORIGiocando a essere DioRecensione de Gli anni fulgenti diMiss Brodie, di Muriel Sparkdi Sabrina Campolongo

LE INSOLITE NOTECollettivo T. MonkUgly Beautydi Augusto Q. Bruni

8,00 euro

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