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Indice Introduzione..........................................2 § 1 - I testi pre-fenomenologici.....................12 § 1.1 – Considerazioni preliminari............................12 § 1.2 – Il contesto d’origine della questione semiotica..............13 § 1.3 – Il segno all’origine..................................20 § 1.4 – Il segno in “Semiotica”...............................32 § 1.5 – La classificazione di “Semiotica”........................35 § 1.6 – Segni naturali e artificiali.............................43 § 1.7 - Le rappresentazioni improprie.........................45 § 1.8 – Semiosi naturale e artificiale..........................59 § 1.9 – Logica dei segni e psico-logica.........................73 § 2 – La fase intermedia.............................90 § 2.1 – Calcolo e linguaggio................................90 § 2.2 – Il carattere semiotico dell’intenzionalità alle origini .........107 § 2.3 – Intenzionalità, contenuto e oggetto....................122 § 3 – Fenomenologia e semiotica nelle Ricerche logiche. 135 § 3.1 – Kunstlehre e Wissenschaftslehre nell’ottica fenomenologica. . .135 § 3.2 – La questione del significato nelle “Ricerche logiche”.........150 § 3.2.1 – L’idealità dei significati ............................150 § 3.2.2 – L’idealità come specie.............................155 § 3.2.3 – La problematicità del significato come specie............166 § 3.2.4 – La Grammatica puramente logica e lo “uneigentliches Denken” ....................................................176 § 3.3 – Per una fenomenologia del segno......................188 § 3.3.1 – La natura della distinzione tra indice ed espressione.......188 § 3.3.2 – Comunicazione ed espressione......................205 § 3.3.3 – Fenomenologia del segno linguistico..................215 § 3.4 – I segni e la fenomenologia: le lenti dello sguardo fenomenologico ....................................................222 Bibliografia................................................241 1

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Indice

Introduzione............................................................................................................2

§ 1 - I testi pre-fenomenologici............................................................................12§ 1.1 – Considerazioni preliminari........................................................................12§ 1.2 – Il contesto d’origine della questione semiotica.........................................13§ 1.3 – Il segno all’origine.....................................................................................20§ 1.4 – Il segno in “Semiotica”..............................................................................32§ 1.5 – La classificazione di “Semiotica”..............................................................35§ 1.6 – Segni naturali e artificiali..........................................................................43§ 1.7 - Le rappresentazioni improprie...................................................................45§ 1.8 – Semiosi naturale e artificiale.....................................................................59§ 1.9 – Logica dei segni e psico-logica..................................................................73

§ 2 – La fase intermedia.......................................................................................90§ 2.1 – Calcolo e linguaggio..................................................................................90§ 2.2 – Il carattere semiotico dell’intenzionalità alle origini..............................107§ 2.3 – Intenzionalità, contenuto e oggetto..........................................................122

§ 3 – Fenomenologia e semiotica nelle Ricerche logiche.................................135§ 3.1 – Kunstlehre e Wissenschaftslehre nell’ottica fenomenologica..................135§ 3.2 – La questione del significato nelle “Ricerche logiche”............................150§ 3.2.1 – L’idealità dei significati........................................................................150§ 3.2.2 – L’idealità come specie...........................................................................155§ 3.2.3 – La problematicità del significato come specie......................................166§ 3.2.4 – La Grammatica puramente logica e lo “uneigentliches Denken”........176§ 3.3 – Per una fenomenologia del segno............................................................188§ 3.3.1 – La natura della distinzione tra indice ed espressione...........................188§ 3.3.2 – Comunicazione ed espressione.............................................................205§ 3.3.3 – Fenomenologia del segno linguistico....................................................215§ 3.4 – I segni e la fenomenologia: le lenti dello sguardo fenomenologico........222

Bibliografia...............................................................................................................................241

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Introduzione

In queste battute iniziali vogliamo anzitutto dar conto del titolo prima

ancora dei contenuti che costituiscono questo nostro scritto, al fine di calibrare le

aspettative che possono sorgere dalla sua semplice lettura. O meglio ancora

ridimensionarle, in quanto circoscritto alla prima fase della riflessione husserliana

è il nostro campo d’indagine, i cui confini sono perciò rappresentati dalla

Filosofia dell’aritmetica e dalle Ricerche logiche. Una scelta che non si motiva

soltanto dall’ovvio intento di voler affrontare una questione alle sue origini, che

varrebbe soltanto a segnare il terminus a quo del suo sviluppo, ma a partire da una

ragione maggiormente intrinseca al tema e all’autore trattato, vale a dire la

notevole rilevanza che la problematica semiotica assume in questo preciso arco

temporale. Al punto da poterla considerare non soltanto l’oggetto di un’indagine

tematica ma anche una prospettiva proficua da cui riguardare la riflessione

husserliana sino agli esordi della fenomenologia, poiché nella peculiarità di una

certa semiosi così come nel privilegio accordato a una determinata tipologia

semiotica è possibile leggere in controluce i cambiamenti che intervengono nel

Denkweg husserliano per il tratto qui considerato, il segno in altri termini si lascia

apprezzare come tale in questo senso, in qualità di un sismografo che registra in

superficie movimenti avvenuti a maggiore profondità. Questioni centrali nei testi

pre-fenomenologici, quali lo psicologismo, la logica come metodologia della

conoscenza umana, l’idea di numero nella sua genesi e validazione compaiono in

questo scritto in quanto guardate nel cono di luce proiettato dall’interesse per il

segno, non soltanto perché ne costituiscono lo sfondo ma in ragione del suo

rivelarsi come luogo privilegiato – benché senz’altro non esclusivo – dal quale

osservarle per coglierne l’esatta determinazione. E lo stesso vale naturalmente nel

contesto delle Ricerche logiche, dove il privilegio accordato alle espressioni, ai

segni linguistici, rivela per l’appunto l’adesione all’idea di logica pura così pure

l’approdo alla fenomenologia come metodo indirizzato alle cose stesse – per non

parlare poi dei testi che segnando un primo distacco dall’impronta psicologista

annunciano la nuova e rivoluzionaria prospettiva fenomenologica, se addirittura

semiotica si rivela alle origini la natura del concetto che maggiormente la

caratterizza, quello di intenzionalità. Su questa sorta di gioco di specchi è

strutturato il nostro saggio e sono costruite le nostre analisi, che rivelando i

contorni dello sfondo sul quale le questioni semiotiche volta a volta si disegnano 2

definendosi fanno al tempo stesso del segno il luogo privilegiato da cui osservare

le tematiche costituenti quello sfondo medesimo, poiché è sovente di qui che

possono essere correttamente affisate.

A partire da questa ragionata limitazione del campo d’indagine si spiega

inoltre il mancato utilizzo del termine fenomenologia nel titolo, non

sovrapponibile in toto alla filosofia husserliana per via delle indagini che abbiamo

rivolto ai testi pre-fenomenologici, ai quali Husserl riconosce invece un’istanza

filosofica. Dall’altro lato questo non comporta un’assoluta esclusione delle opere

successive alle Ricerche logiche, quanto piuttosto determina la maniera del loro

utilizzo. Una siffatta limitazione impone infatti di riferirvisi allo scopo di chiarire

le tematiche qui più da presso trattate, vale a dire per la luce retrospettiva che

proiettano sugli argomenti delle Ricerche, dove - seppur in senso tutt’altro che

tematico ma nei termini di significative incursioni - è alla Bedeutungslehre e al

primo volume di Idee che si è rivolta la nostra attenzione, pur senza dimenticare le

acquisizioni contenute in testi più tardi quali Logica formale e trascendentale,

Esperienza e giudizio e l’Appendice III a La crisi delle scienze europee, ormai

nota come Introduzione alla geometria – per citare soltanto le opere di maggior

rilievo.

Del peculiare atteggiamento da noi adottato nei riguardi dei testi posteriori

alle Ricerche vogliamo dare già qui una prova, servendoci di un’osservazione

contenuta nel § 124 di Idee per avviare l’illustrazione degli assi portanti su cui

poggia la struttura di questo scritto:

poiché ogni scienza, per il suo contenuto teoretico, per tutto ciò che in essa è

«dottrina» (teorema, dimostrazione, teoria), si oggettiva nel medium specificamente

«logico», nel «medium» dell’espressione, i problemi dell’espressione e del significato

sono di conseguenza i primi in cui si imbattono i filosofi e gli psicologi guidati da

interessi generalmente logici1

Quanto si lascia apprezzare in questa citazione è il nesso che lega la logica

con le questioni concernenti il linguaggio, l’espressione. Un nesso che si esplicita

nell’aspetto che più di ogni altro, se non in via esclusiva, riceve le attenzioni di chi

è mosso da interessi generalmente logici, vale a dire il rapporto tra segno e

1 E. Husserl Ideen zur reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie Erstes Buch, Nijhoff, Den Haag 1976, trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, Einaudi, Torino 2002, p.309

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significato. Alla luce di questa declinazione la logica, o ancor meglio l’idea di

logica appare come lo sfondo su cui emergono le problematiche semiotiche, non

soltanto per quanto concerne le Ricerche – alle quali la citazione di Idee si rivolge

– ma anche a riguardo dei testi che le precedono, in forza della costante

predominanza dell’interesse logico.

Sarebbe però riduttivo fare dell’idea di logica il mero orizzonte su cui si

disegna, una tra le altre, la questione semiotica. Non si tratta infatti soltanto di una

semplice benché inevitabile contestualizzazione, che risponda all’esigenza

dell’inquadramento per una determinata tematica. È la logica invero a spingere

all’analisi dei segni, a improntarne le movenze, a deciderne la declinazione, come

s’è visto a proposito del rapporto segno-significato, leitmotiv di queste e

ovviamente delle nostre analisi. I mutamenti che interverranno in essa, nella loro

radicalità, determineranno il dominio semiotico in profondità, nei termini del

privilegio da accordare a questa o quella tipologia semiotica così come in rapporto

alla funzione che è chiamata a esercitare e nei modi in cui dovrà essere assolta. Ed

è certo a partire da essa che si motiva la rilevanza dei segni dapprincipio

menzionata, soprattutto in merito al valore fondativo in seno alla scienze – e

correlativamente alla conoscenza – che Husserl le riconosce: le s’intenda in senso

metodologico o teorico è infatti pur sempre in segni e attraverso i segni che esse si

costituiscono, per cui un interesse in tal senso logicamente orientato non potrà fare

a meno di spingere a occuparsene. In ultimo, esulando solo in parte

dall’indirizzamento semiotico delle nostre considerazioni, è in rispondenza alla

idea di logica che vanno letti lo psicologismo degli esordi così come l’esordiente

fenomenologia delle Ricerche, solo in riferimento a essa è possibile cogliere le

loro peculiarità in quanto è essa a determinarne la fisionomia.

Per quanto concerne lo sviluppo del nostro lavoro, le coordinate in tal senso

sono costituite per l’appunto dalle due diverse idee di logica che compaiono in

questo tratto del percorso husserliano, vale a dire la tecnologia della scienza come

metodologia della conoscenza umana (Kunstlehre) e la logica pura come dottrina

della scienza (Wissenschaftslehre). Il ruolo, la fisionomia così come la funzione

dei segni sono stati riguardati a partire dalla loro appartenenza agli ambiti che esse

circoscrivono, di qui si sono motivate le scelte e le riflessioni compiute da Husserl

e al tempo medesimo si è cercato per converso di far apparire nelle peculiarità

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volta in volta rilevate nei segni e nella loro semiosi le questioni che agendo a uno

strato più profondo si riverberano sulla loro superficie.

A voler poi orientare il discorso sugli elementi di continuità - in un percorso

segnato da un radicale rivolgimento - c’è da soffermarsi sulla torsione che il

rapporto segno-significato nella sua centralità impone alla considerazione sul

segno sic et simpliciter, alla maniera in cui viene effettivamente inteso. In

Semiotica, unico luogo in cui si tenta di approcciarne una definizione, se ne parla

come un concetto di relazione, caratterizzato dal rinvio al designato, che nella

variabilità delle sue possibili concrezioni dà origine a diverse tipologie qui

opportunamente classificate. E tra di esse Husserl accorda la sua preferenza ai

segni esteriori, vale a dire al mero segno, che diverrà la maniera in cui il segno

viene in prevalenza considerato in tutto l’arco temporale qui analizzato. Nei testi

pre-fenomenologici l’attenzione si rivolge invero soprattutto alle rappresentazioni

improprie, ai segni come surrogati, ma ai fini dell’economizzazione dei processi

psichici a cui rispondono essi si presentano come meri segni, entità che nulla

hanno a che fare con il designato. Lo stesso vale per le Ricerche, in una maniera

prima facie piuttosto sorprendente, se è in qualità di espressione che il segno

assume una qualche valenza logica, manifestando a rigore una natura saussuriana,

inteso cioè come complesso unitario di significante e significato. L’attenzione va

qui però ai costituenti dell’espressione e non al suo rapporto con il designato, per

cui è soprattutto nei termini del significante, della mera espressione e quindi del

mero segno che viene ancora una volta inteso. Le questioni logiche si rivelano

perciò decisive orientando l’attenzione sul rapporto segno-significato, pur

nell’opposta prevalenza dei suoi due poli che caratterizza il percorso husserliano

sino alle Ricerche logiche.

V’è poi un ulteriore punto che vogliamo sottolineare perché inevitabile

laddove si affrontino questioni semiotiche, ancor più all’interno di un orizzonte

logico e per le ripercussioni che la logica vi esercita, vale a dire il tema del

linguaggio e della sua considerazione. Anche in questo caso è la continuità a

emergere, non soltanto ai sensi della sua dimensione originaria, riscontrata nella

comunicazione, ma anche a riguardo della maniera in cui Husserl la considera,

vale a dire lateralizzandola. Si tratti di sminuire l’espressività linguistica

nell’ottica metodologica della Kunstlehre o di farla risaltare nella sua purezza

laddove, con l’approdo alla Wissenschaftslehre, è il significato a venire in primo

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piano – sarà sempre al prezzo della marginalizzazione della dimensione

comunicativa, e quindi del suo snaturamento che il linguaggio potrà reclamare un

ruolo a partire dalla logica, comunque essa venga intesa.

Ci rimane ora, dopo aver individuato nell’idea di logica e nelle questioni che

la riguardano l’orizzonte delle considerazioni semiotiche husserliane e per ciò

stesso delle nostre analisi, di indicare seppur schematicamente gli snodi

fondamentali nella linea argomentativa del testo, nelle tre sezioni in cui s’è scelto

di racchiudere i momenti maggiormente significativi degli sviluppi husserliani.

Il primo capitolo si rivolge ai testi pre-fenomenologici, o ancor meglio agli

esordi della filosofia husserliana, vale a dire Filosofia dell’aritmetica e Semiotica.

In essi si è rintracciato il contesto d’origine della questione semiotica, soprattutto

in merito alla natura metodologica attribuita da Husserl all’aritmetica, sì che

tematiche centrali quali l’idea di numero e molteplicità, oltre s’intende al tema dei

momenti figurali, non solo sono state lette da un punto di vista semiotico ma vi

hanno invero necessariamente condotto. In ciò un ruolo centrale è svolto dal

concetto di rappresentazione impropria, emerso nella Filosofia dell’aritmetica e

precisato con maggiore pregnanza in Semiotica, in virtù dell’impronta psicologista

delle analisi husserliane che di qui si lascia apprezzare e affisare nella sua

autentica fisionomia. Oltre che per una più adeguata messa a fuoco della sua

natura di segno la rappresentazione impropria acquista in questo testo la sua

assoluta rilevanza e consente di intendere rettamente la maniera in cui si esplicita

la centralità dei segni in questa fase, ai sensi della funzione surrogante che la

definisce, tanto che la classificazione semiotica qui presente si mostra indirizzata

a esse come suo punto focale. Lo si nota soprattutto analizzando l’opposizione

semiotica fondamentale, quella tra segni naturali e artificiali, entrambi considerati

casi di rappresentazione impropria proprio in forza della declinazione in

prevalenza surrogante che definisce il loro rapporto al designato. Con questo si

giunge alla snodo decisivo dell’intera sezione: il segno si scopre di qui inscritto

nella costituzione psichica per via del suo tratto maggiormente caratterizzante,

quello cioè economico, che pur risuonando delle acquisizioni di Mach e

Avenarius svela un tratto invero squisitamente semiotico, esplicitandosi cioè nel

naturale ricorso a entità surroganti dei nostri meccanismi psichici, in specie a

carattere deduttivo. Si è parlato in tal senso di un semiosi naturale, che in virtù

della sua inconsapevolezza come del suo cieco e tendenziale orientamento al vero

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necessita di un altro genere di semiosi, vale a dire artificiale, di procedimenti

simbolici consapevolmente elaborati che procedendo in parallelo con quelli

naturali ne svelino la legalità e consentano perciò tanto la conoscenza come

ragionata acquisizione della verità quanto la sua estensione. Procedimenti che

Husserl definisce logici, in rispondenza all’idea di logica che egli abbraccia in

questa fase, vale a dire la Kunstlehre, una tecnologia, una disciplina pratica volta

ad analizzare le modalità tramite cui il pensiero si appropria della verità e legata

perciò a interessi pratico-conoscitivi, dove si rivela un’impronta marcatamente

psicologista, se psicologica è la legalità qui ritrovata. E in questo un ruolo centrale

va assegnato a una Logik der Zeichen, che in forza del tratto largamente

improprio, della semiosi surrogante che caratterizza il pensiero in larghi tratti del

suo decorrere si scopre essere il fulcro della tecnologia della conoscenza, sì che

motivata in senso logico, psico-logico si scopre essere la centralità che i segni

reclamano in questa fase.

Nel secondo capitolo ci siamo occupati di un gruppo di testi

cronologicamente compresi fra la Filosofia dell’aritmetica e le Ricerche logiche,

letti come scritti di transizione non soltanto per la loro collocazione temporale ma

soprattutto in forza dei loro stessi contenuti, dove si registra la comparsa di

acquisizioni che indirizzano verso la prospettiva fenomenologica, pur in un

contesto che risentendo ancora dell’impostazione psicologista non consente una

loro adeguata calibratura. Nella fattispecie, si sono presi in considerazione la

recensione all’opera di Schröder del 1891 e testi risalenti agli anni 1893-94, vale a

dire il Manoscritto K I 55, gli Studi psicologici per la logica elementare e la

recensione all’opera di Twardowski Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto

delle rappresentazioni: una ricerca psicologica. A esser fatta oggetto d’attenzione

è stata in primo luogo la distinzione tra linguaggio e calcolo che emerge nella

recensione a Schröder. Un’acquisizione fondamentale, poiché la prevalenza della

funzione surrogante nel dominio semiotico induceva ad assimilare il linguaggio a

un calcolo, considerando che quest’ultimo, similmente a quanto avveniva in

Boole, era stato sganciato dal concetto di quantità già nella Filosofia

dell’aritmetica. Più ancora che alla sottolineatura degli assunti logici che

muovono le critiche husserliane, come la decisiva differenziazione tra calcolo

logico e logica del calcolo, la nostra attenzione si è perciò rivolta al rilievo della

dimensione autonoma del linguaggio, alla sua natura espressiva che consente,

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come qui si afferma, l’approdo alle cose stesse, poiché i segni linguistici, lungi dal

rimpiazzare concetti e giudizi sono invero ciò in cui essi si compiono, sì che

scoperta è la dimensione in cui le categorie logiche, i significati si individuano, o

ancor meglio la semiosi congrua a una Logik der Bedeutungen quale la

Wissenschaftslehre. Il progressivo emergere della centralità della dimensione

semantica registra dei significativi passi avanti nelle altre opere qui prese in

considerazione, a partire dal Manoscritto e dagli Studi. Nel primo Husserl

introduce il concetto di rappresentanza, che offrendo una chiarificazione genetica

delle rappresentazioni improprie conduce a un’importante ricalibratura del

discorso che le concerne. La loro origine è infatti riscontrata in una precisa

situazione psicologica, nel sentimento d’impedimento che sopraggiunge laddove

un decorso abituale di contenuti sia interrotto; i contenuti presenti divengono

allora surrogati di quelli mancanti. In ciò però emerge un punto decisivo, ovvero il

tendere del segno surrogante verso la sua mancanza, vale a dire all’intuitività, una

volta che l’originario sentimento di impedimento sia ridestato in seno a esso. In tal

maniera il segno acquisisce una valenza conoscitiva non più come surrogato,

bensì in quanto instrada verso l’intuizione, alle cose stesse, vale a dire verso il suo

risolvimento. Le rappresentanze infatti mostrano una natura intenzionale – come

emerge chiaramente dagli Studi – un’intenzionalità però di natura semiotica,

poiché è il segno, potremmo dire, a intendere e non il significato, in forza di un

immanentismo psichico che non consente la differenziazione fra significato e

oggetto, rendendo così perlomeno sfumati i confini fra comprensione e

conoscenza. Decisiva in tal senso si rivela allora la recensione all’opera di

Twardowski. Dal confronto critico con il pensatore polacco Husserl elabora il suo

concetto di intenzionalità, dove l’intendere è costituito dal significato che

consente il riferimento all’oggetto e perciò se ne distingue, sì che è nel tessuto

degli atti intenzionali, nella fenomenologia e non nella metafisica che va ricercata

la soluzione al problema delle rappresentazioni senza oggetto. Altrettanto

importante è poi un’ulteriore distinzione che qui emerge, quella cioè fra contenuto

e significato, con quest’ultimo che lungi dall’essere qualcosa di realmente

immanente agli atti si rivela invero ciò che permane a fronte della variabilità

empirica dei contenuti, sì che aperta è la via al segno espressivo e alla sua

peculiare costituzione. La centralità che la dimensione semantica acquisisce con il

concetto fenomenologico di intenzionalità conduce al decadimento delle funzione

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surrogante dei segni a vantaggio di quella espressiva, tant’è che l’improprietà non

riguarda più la sostituzione del significato bensì la possibile latenza dell’oggetto,

dove chiaramente segnato è il confine tra comprensione e conoscenza. E in ultimo

l’indirizzamento teleologico all’oggetto che l’intenzionalità manifesta dà conto di

un’idea di conoscenza calibrata maggiormente sull’aspetto obiettivo, a differenza

della dimensione pratica, metodologica, soggettiva emersa nei testi precedenti.

Problematiche, queste, che danno avvio alle riflessioni del terzo e ultimo

capitolo. La sua prima sezione è infatti dedicata alla messa a fuoco dell’idea di

logica pura non soltanto a partire dai Prolegomeni in cui di fatto compare, ma in

riferimento alle scaturigini problematiche dalle quali è sorta, in primis il rischio

della psicologizzazione delle entità logico-matematiche che inficiava le analisi

della Filosofia dell’aritmetica, da Husserl stesso riconosciuto in alcuni testi che

presentando le Ricerche logiche ne ricostruiscono in certo senso la genesi.

Intendendola come l’autentica Wissenschaftslehre Husserl ne fa il fondamento

non soltanto di ogni scienza, ma della stessa Kunstlehre, poiché il nucleo più

significativo delle sue regole rimonta in ultima istanza a una dimensione teorica, a

una legalità fondata puramente sui concetti e in tal senso ideale, per cui accanto

all’unità antropologica, psicologica della conoscenza si pone quella del contenuto

della conoscenza, in posizione nient’affatto simmetrica. La natura concettuale,

ideale di una siffatta logica, che ne fa invero una Logik der Bedeutungen non

conduce però a una messa da parte dei segni. Tema centrale delle analisi

husserliane è infatti una logica come disciplina filosofica, nella quale non ci si

rivolga soltanto ai contenuti ideali bensì anche alla maniera in cui vengono

conosciuti, descrivendo cioè la correlazione fra essere coscienza, tra oggetti ideali

e vissuti psichici corrispondenti. Una logica, in altri termini, fondata

fenomenologicamente, dove l’indirizzamento alle cose stesse si traduce

nell’individuazione delle “fonti da cui scaturiscono i concetti fondamentali e le

leggi della logica pura”, vale a dire agli atti costituenti il linguaggio, se è in esso

che le entità logiche in prima istanza si presentano - il che è quanto dire alla

relazione, in questo caso fenomenologica, tra segno e significato. In virtù della

indiscutibile primarietà che quest’ultimo viene ad assumere si è deciso di far

precedere la trattazione che lo riguarda a quella dedicata al segno, a riprova di

come siano le convinzioni in merito al significato a improntare le scelte e le

analisi semiotiche. Tematica centrale è naturalmente l’idealità dei significati,

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contestualizzata nella sua ascendenza lotzeana e osservata nella sua natura di

specie degli atti significanti. Un punto, quest’ultimo, di eccezionale rilevanza, in

quanto consente di spiegare in che maniera i significati, pur presentandosi negli

atti siano però irriducibili a loro componenti psichici; e al tempo medesimo svela

lo stretto nesso che lega intenzionalità e significato, la natura cioè semantica della

prima e intenzionale del secondo, in quanto è nell’essenza intenzionale, ancor

meglio significazionale degli atti che esso si individua, come modalità di

riferimento all’oggetto. In tal maniera si svela la lettura fenomenologica del

rapporto fra significato e oggetto, ai sensi della distinzione tra uneigentliches e

eigentliches Denken dove l’improprietà non sta più dal lato del segno bensì del

significato; e al tempo medesimo, il loro legame, non soltanto perché Husserl nel

parlare di validità dei significati - distinta in ciò dal loro poter essere in quanto tali

- intende a rigore la loro possibilità oggettiva, ma soprattutto a motivo della

definizione stessa di significato come “modalità di riferimento all’oggetto”, da cui

discende che il dominio della sensatezza è circoscritto dall’orientamento

teleologico verso l’oggetto, nel render possibile l’apertura verso di esso. Punto che

conferma la piega obiettivistica delle analisi husserliane e mostra la loro impronta

gnoseologica, ai sensi di una conoscenza come adaequatio. Altra questione

centrale che abbiamo sottolineato in merito all’idealità del significato come specie

è la sua problematicità, dovuta soprattutto al carattere delle sue individuazioni,

una concezione che proprio perché legata alla natura esclusivamente noetica delle

analisi husserliana, verrà abbandonata con la scoperta della dimensione

noematica. Le analisi dedicate alla Wissenschaftslehre e alla natura ideale dei

significati improntano le considerazioni più strettamente semiotiche, parte finale

di questo scritto. Le questioni semioticamente centrali sono infatti state lette alla

luce delle acquisizioni in precedenza maturate, a partire dalla distinzione fra

indice ed espressione, volta soprattutto a far risaltare la fisionomia di quest’ultima

come luogo del significato, che ne determina il rimando a qualcosa senza perciò

esserne il termine. La centralità del significato nella sua natura ideale, pre-

linguistica esautora infatti il linguaggio da qualsiasi funzione costituiva, sì che i

suoi segni vengono considerati come meri sostegni per la manifestazione di

significati precostituiti. Una situazione che si chiarisce se ricondotta alla sua

dimensione fenomenologica, agli atti in cui il significato si individua, in

particolare le intenzioni significanti, dove si svela la necessità del segno in quanto

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componente essenziale per quegli atti e al tempo medesimo la sua

extraessenzialità per il significato qua talis, donde la radice “semiotica”

dell’equivocazione. In ciò la natura di sostegno del mero segno, della marca

linguistica, che deve lasciar semplicemente essere il significato, superficie

traslucida in cui esso si riflette, necessaria (fenomenologicamente) alla sua

manifestazione quanto irrilevante (logicamente) per la sua costituzione - da dove

si comprende il privilegio accordato al monologo interiore sulla dimensione

comunicativa, dove i segni linguistici agiscono più da indici che da supporti.

Emerge allora che pur al cospetto di un’idea di logica che ha al centro il

significato il segno non viene affatto messo da parte, poiché riveste un ruolo

fondamentale per la sua manifestazione, sì che la dimensione semiotica, per

quanto estranea a una logica pura come mera mathesis universalis non lo è per la

logica come disciplina filosofica, fenomenologicamente fondata, dove a tema è

l’accesso alle entità logiche medesime. E al contempo, il mutamento in seno

all’idea di conoscenza rende i segni tutt’altro che inessenziali, se la sua natura di

adaequatio consiste fenomenologicamente nel riempimento di intenzioni

significanti. Quanto si rivela, in altri termini, è la rilevanza del segno per la

fenomenologia, perlomeno nei suoi esordi, dove un peso decisivo ha il suo

indirizzamento esclusivo alla dimensione logica.

Nelle ultime battute si è cercato infine di aprire uno squarcio su una

possibile prospettiva d’indagine, rivolta agli sviluppi successivi della

fenomenologia a partire dai suoi rapporti con il segno, dove inversamente a

quanto accaduto in tutto il nostro scritto le acquisizioni delle Ricerche sono state

indicate come possibile chiave di lettura dei testi posteriori. Una linea d’indagine

che si è soltanto potuto indicare, con l’intento di chiudere un testo aprendolo a

nuovi, possibili sviluppi.

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§ 1 - I testi pre-fenomenologici

§ 1.1 – Considerazioni preliminari

I testi che qui considereremo hanno conosciuto un lungo oblio nella

letteratura critica husserliana, concentrata in via esclusiva sulle novità

dell’atteggiamento fenomenologico e sulle – numerose – opere in cui andava

maturando, approfondendosi e consolidandosi, sì da provare un sostanziale

disinteresse per quegli scritti che pur non precedevano soltanto temporalmente

l’acquisizione della nuova prospettiva, quasi si trattasse di mere vicende

concernenti la biografia del filosofo e non quella della sua filosofia. Un

disinteresse del resto che poteva motivarsi a partire dalle argomentazioni di

Husserl medesimo, nei cui Prolegomeni a una logica pura la serrata critica allo

psicologismo valeva a sconfessare quanto sin lì egli aveva prodotto, quasi vi fosse

stata una rottura radicale o un rivolgimento di ampia gradazione. In verità le cose

stanno ben diversamente, nei cosiddetti testi pre-fenomenologici sono facilmente

rintracciabili, pur con le dovute cautele, i segni che indicano verso la nuova

prospettiva e la critica stessa del resto ha rimosso un siffatto immeritato oblio,

occupandosene2 e provvedendo alla pubblicazione di scritti inediti precedenti le

Ricerche logiche. Quanto qui detto a proposito di oblio e riscoperta vale anche per

la questione che più di vicino ci riguarda, ovvero la semiotica. Basti pensare

infatti che il testo senz’altro più importante e di gran lunga più penetrante dedicato

all’analisi del segno, ovvero La voce e il fenomeno di Derrida3, fa esclusivo

affidamento sulle analisi husserliane della Prima Ricerca, evitando qualsiasi

riferimento alle opere precedenti4, dove pure la questione era certo trattata se lo

stesso Husserl aveva redatto un testo intitolato per l’appunto Semiotik. Testo,

2 Al di là delle opere tematiche su Husserl, dedicate a ricostruire il suo Denkweg, si possono qui ricordare i seguenti scritti: D. Willard Logic and Objectivity of Knowledge. A Study in Husserl’s Early Philosophy, Athens (Ohio) 1984, D. Münch Intention und Zeichen. Untersuchungen zu Franz Brentano und zu Edmund Hussserls Frühwerk, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1993, e, per quanto concerne la letteraratura critica italiana, G. Leghissa Alle origini del “vedere fenomenologico” in E. Husserl Filosofia dell’aritmetica, Bompiani, Milano 2001 (ed. or. Philosophie der Aritmetik in Husserliana XII, Den Haag, Nijoff 1970), nonché l’introduzione di Stefano Besoli ai testi husserliani tra la Filosofia dell’aritmetica e le Ricerche logiche raccolti in E. Husserl Logica psicologia e fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1999 (prima parte). 3 J. Derrida La voix et le phénomène, Presses Universitairer de France, Paris 1967 (ed. it. La voce e il fenomeno, Jaca Book SpA, Milano 1968)4 Qualche anno prima lo stesso Derrida aveva curato l’edizione francese dell’Appendice III a La crisi della scienze europeee, scrivendone un’introduzione intitolata Introduction a l’Origine de la Géomètrie de Husserl, P.U.F., Paris 1962; testo questo reso celebre soprattutto dall’introduzione del filosofo francese e nel quale sono contenute le ultime analisi sul segno di Edmund Husserl. Derrida quindi, pur interessandosi agli sviluppi semiotici successivi alle Ricerche logiche, non pare attribuire alcuna importanza al cosiddetto periodo pre-fenomenologico.

12

questo, assieme ad altri del medesimo periodo, che ha conosciuto significative

riscoperte nella letteratura secondaria, interessata ad analizzare gli sviluppi della

questione dalla sua origine e a valutare e motivare i mutamenti, le permanenze,

quando non a individuare un Leitfaden fra le prospettive dalle quali il segno viene

trattato, in rispondenza al novero complessivo della filosofia husserliana5. Motivi

pressoché simili ci hanno spinto a occuparcene. Se si vuole valutare l’incidenza

della problematica del segno nella filosofia husserliana, non è affatto possibile

trascurare alcunché in merito, tantomeno quei testi che solo un interesse fin troppo

esclusivo alle tematiche più strettamente fenomenologiche ha consentito di

sorvolare. Ma non si tratta soltanto di questo, della completezza cui una

ricostruzione è chiamata ad aspirare. Occuparsi della questione del segno vale

anche e soprattutto a mettere in luce la peculiarità della riflessione husserliana nel

periodo cosiddetto pre-fenomenologico, gli interessi da cui è mossa e a motivarne

le conclusioni, consentendo inoltre di fare chiarezza sulla natura dello

psicologismo tipico di questa fase; infine, il diverso trattamento e per così dire

“posizionamento” che la questione semiotica andrà esperendo nello sviluppo della

riflessione husserliana, dalle origini sino alle Ricerche logiche, è un proficuo

punto d’osservazione per valutare la portata della rivoluzione fenomenologica. Ma

al fine di dar conto in concreto di quanto s’è finora soltanto detto è necessario dar

corso alle nostre analisi.

§ 1.2 – Il contesto d’origine della questione semiotica

Uno dei punti maggiormente caratterizzanti le riflessioni husserliane degli

esordi è il ruolo di primo piano, decisivo, rivestito del segno, come già mostrato -

in maniera soltanto in apparenza corsiva - dalla presenza, nei testi di questa fase,

di un’opera autonoma dedicata alle questioni semiotiche, intitolata per l’appunto

Semiotik, laddove nella produzione successiva non vi sarà traccia alcuna di

trattazioni tematiche di questo genere, perlomeno nel senso di scritti dedicati

squisitamente ai segni. Ma è soprattutto, com’è ovvio, a partire dalla peculiarità

delle analisi di Husserl, dagli interessi che muovevano la sua riflessione e

5 Oltre ai testi di Münch e Willard già ricordati, e all’introduzione di Besoli all’importante volume sui testi husserliani compresi fra la pubblicazione della Filosofia dell’aritmetica e le Ricerche logiche, segnaliamo la pregevole, ancorché discutibile nei suoi assunti interpretativi, introduzione di Carmine Di Martino alla traduzione italiana di Semiotik (C. De Martino Introduzione in E. Husserl Semiotica, Spirali, Milano 1984, pp.11-48; ed. or. E. Husserl Semiotik, Husserliana XII, Nijhoff, Den Haag 1970) e soprattutto R. Zeichen und Bedeutung. Eine Untersuchung zu Edmund Husserls Theorie des Sprachzeichens, Lenzerheide, Schweiz 1985

13

dall’impostazione che la improntava che una tale preminenza puo’ motivarsi e

mettere in luce i suoi tratti.

Com’è oramai noto, sono le problematiche sollevate dalle questioni

aritmetiche del numero e del calcolo a occupare il centro dell’indagine husserliana

ed è perciò da qui che bisogna partire per affrontare la questione semiotica,

segnatamente dalla Filosofia dell’aritmetica. Va detto che nel corso del testo

questa compare piuttosto tardi, per la precisione all’inizio della seconda parte, ma

ciò non toglie nulla alla sua centralità, in quanto la scansione progressiva degli

argomenti motiva e lascia leggere in controluce la genesi della problematica

segnica, o meglio ancora della tipologia semiotica che Husserl mostra qui di

prediligere. Ma andiamo con ordine. Volta com’è al campo aritmetico, l’indagine

husserliana si propone di enuclearne i fondamenti e soprattutto di illustrare la

maniera tramite cui è possibile appropriarsene. Sulla scorta di queste

considerazioni si motiva l’approccio psicologista alle questioni matematiche: i

concetti numerici vengono da Husserl considerati ultimi, elementari e per ciò

stesso indefinibili; la trattazione di questi concetti, non potendo aspirare a darne

definizione, deve allora risolversi nel tratteggiare il procedimento che dà loro

origine, il modo in cui si giunge a essi, che tradotto nei termini husserliani del

tempo equivale a fornirne l’origine psicologica6. Cogliere il numero non consiste

nell’affidarsi a una definizione ancorché tradizionale, quale quella di “molteplicità

di unità”7, se come accade qui i termini definienti stanno per concetti elementari,

semplici e perciò indefinibili, cosa che rende la succitata definizione un flatus

vocis. Non resta altro allora, ai fini della comprensione, che rifarsi ai fenomeni

concreti da cui quei concetti vengono ricavati, osservare la maniera tramite cui è

possibile per noi affisarli e appropriarcene, descrivere perciò il modo in cui vi si

giunge8, il che significa dar conto delle esperienze e degli atti psichici coinvolti9.

6 E. Husserl Philosophie der Aritmetik, Husserliana XII cit., p.119 (trad. it. E. Husserl Filosofia dell’aritmetica, Bompiani, Milano 2001, pp.162-163; d’ora in avanti citeremo dalla traduzione italiana, per questo come per gli altri testi)7 Ivi, p.578 Ivi, p.1639 « L’astrazione che va compiuta puo’ esser descritta nel modo seguente: determinati contenuti singolari sono dati in qualche modo in un collegamento collettivo; quando noi astraendo passiamo al concetto generale, non prestiamo loro attenzione in quanto contenuti determinati in questo o quel modo; l’interesse principale si concentra piuttosto sul collegamento collettivo, mentre essi stessi vengono presi in considerazione e osservati solo come contenuti qualsiasi, ciascuno come un qualcosa qualsiasi (irgend etwas), una cosa qualsiasi (irgend eins) »; in tal maniera «…il concetto di molteplicità porta con sé quella vaga indeterminazione che abbiamo sopra segnalato. Ciò che gli manca è quel carattere che completa e distingue i numeri: il quanto nettamente determinato »; ivi, p.121 e p.125

14

Benché la summenzionata definizione risulti per i motivi ormai noti

inservibile, rappresenta comunque un’utile guida al fine di determinare il concetto

di numero, concepito da Husserl come risposta alla domanda “quanto?”: in tal

senso è dal concetto di molteplicità che si deve giocoforza partire, in quanto è

dalla determinatezza della sua costitutiva indeterminazione che sorgerà il concetto

di numero cardinale10. E non si deve andare molto oltre per comprendere cosa

s’intenda con molteplicità, il suo significato è qui quello consueto, un aggregato di

oggetti diversi che non hanno in comune null’altro che il loro stare insieme. Che

cos’è allora che rende possibile questa unione, immotivata in re? Nient’altro che

l’atto di collegamento tramite cui i diversi oggetti vengono rappresentati insieme,

è quindi questo a costituire una molteplicità ed è a esso che bisogna rivolgersi per

concepirla e ricavarne il concetto. La conclusione che si trae da queste

considerazioni è particolarmente interessante: l’atto indirizzato a cogliere la

molteplicità è a ben vedere un atto di second’ordine, o per dirla con una

terminologia più tarda “fondato”, in quanto suo contenuto non è un oggetto, bensì

un altro atto psichico, segnatamente quello responsabile del collegamento tra le

entità dell’aggregato, che Husserl chiama kollektive Verbindung. Parlare qui di

origine psicologica assume un significato molto più forte di quanto si potesse a

tutta prima pensare: non soltanto infatti ci si riferisce alla modalità di accesso ai

concetti, ma addirittura al concetto stesso, poiché la molteplicità deve il suo

sorgere a un atto psichico qual è quello del collegamento collettivo11. L’insistenza

sui processi psichici per il coglimento delle entità concettuali conduce così a

ridurre il momento del significato di un concetto all’attività psichica che ne

costituisce la genesi, o detto altrimenti, il significato di un concetto viene qui a

coincidere con l’atto astrattivo necessario a coglierlo, cosa che distanzia

notevolmente l’opera qui in esame dalla Ricerche logiche, dove l’insistenza non

sarà sugli atti in quanto oggetti, bensì sugli oggetti degli atti. Va detto però che

l’attenzione su una riflessione indirizzata agli atti al fine del coglimento dei

concetti indirizza già verso la prospettiva fenomenologica, così come il loro

necessario fondamento in un’intuizione concreta12, che nelle Ricerche diverrà

categoriale. Bastino però qui questi semplici accenni, è al numero infatti che la 10 Ivi, p.5811 In questo modo la natura del concetto di molteplicità si svela essere psicologica, che è cosa ben più forte dal dire che tale è la maniera in cui è possibile per noi coglierlo. Punto questo particolarmente delicato per via delle sue ripercussioni sul concetto di numero, che rischia di veder viziata psicologicamente la propria natura, come vedremo meglio a breve. 12 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica, cit., p.121

15

nostra analisi è rivolta e deve condurre. Individuato l’origine del concetto di

molteplicità ed essendo così giunti alla sua appropriazione, resta da definire in

cosa consista il numero. A tal fine è necessario secondo Husserl analizzare con

maggiore dettagliatezza gli atti in cui la molteplicità si costituisce: oltre al

collegamento collettivo è infatti necessaria una considerazione delle entità

collegate che astragga dalle loro caratteristiche distinguenti riducendole a meri

contenuti d’atto, indicati con il termine generico “qualcosa”13. Questa

stratificazione di atti conduce così alla molteplicità come collegamento collettivo

di contenuti qualsiasi, di meri “qualcosa”, laddove è ancora un atto di

second’ordine quello che consente al “qualcosa” di emergere, quello cioè di

riflessione sull’atto del rappresentare14; da quanto detto emerge inoltre

l’indeterminatezza del concetto di molteplicità, in senso soprattutto quantitativo,

non essendovi una limitazione a proposito dei contenuti figuranti. E una tale

limitazione e determinazione è proprio il concetto di numero cardinale, che si

rivela perciò come quantum di una molteplicità determinata:

Ma se vogliamo rimediare a una tale indeterminazione allora si danno parecchie

possibilità ed è chiaro che in corrispondenza con queste ultima il concetto di molteplicità

si divide in una varietà di concetti determinati, delimitati gli uni rispetto agli altri nel

modo più preciso possibile – e questi concetti sono appunto i numeri15

È opportuno precisare che al fine di ottenere un concetto numerico

qualsiasi non è affatto necessario ricorrere al concetto generale di molteplicità con

la sua costitutiva indeterminatezza: vi si puo’ arrivare infatti direttamente a partire

da una molteplicità concreta, in quanto ciascuna di esse cade sotto un concetto di

numero16. Al punto in cui siamo però possiamo dire di aver ottenuto soltanto

diversi concetti numerici, non il concetto generale di numero cardinale; e lo stesso

vale per la molteplicità: quanto si è sin qui fatto è stato mostrare perché un certo

aggregato di elementi sia una molteplicità, ma con questo non si è ancora chiarito

come si giunge al concetto generale di molteplicità. Non v’è qui un’intuizione che

consenta di affisare l’entità generale a partire dal fenomeno concreto

13 Ibid.14 Ivi, p.12215 Ivi, p.12316 Ivi, p.124. Questo naturalmente nulla toglie all’importanza decisiva della molteplicità per il concetto di numero. Entrambi presentano i medesimi contenuti, a esser diverso è il punto di interesse dai quali li osserva, tant’è che il numero puo’ definirsi una molteplicità determinata.

16

corrispondente, come accadrà successivamente, è la forte impronta psicologista

delle analisi husserliane a impedirlo17. Il numero cardinale sorge infatti dalla

comparazione fra diverse forme di molteplicità determinate, ovvero fra i diversi

numeri, per via della somiglianza fra questi, che riguarda tanto i contenuti parziali

che compongono ciascun numero (i “qualcosa”) quanto gli atti psichici che li

collegano (collegamento collettivo)18. Un discorso simile vale per il concetto di

molteplicità, che sorge appunto per via della comparazione fra aggregati concreti

in base al criterio del collegamento collettivo: ogni aggregato è infatti riconosciuto

come un intero costituito da meri qualcosa collegati collettivamente e la

comparazione fra di essi come entità simili fa sorgere il concetto generale di

molteplicità (indeterminata). Com’è facile rilevare, l’attenzione è qui rivolta

soprattutto agli atti e non ai loro oggetti, ovvero ai processi psichici in cui

s’originano i concetti piuttosto che a questi medesimi, perché i contenuti non sono

soltanto dati, ma generati dagli atti. In proposito è illuminante quanto Husserl dice

a proposito dei concetti formali (numero, molteplicità, uno…) e della loro

vuotezza e generalità:

il loro carattere onnicomprensivo trova una semplice spiegazione nel fatto che

essi sono concetti di attributi, i quali sorgono nella riflessione su atti psichici che possono

senza eccezione essere esercitati su tutti i contenuti19

La natura di questi concetti, il loro esser formali e onnicomprensivi, viene

spiegata e ricondotta ai caratteri d’atto in cui essi sorgono, alla generalità degli atti

di rappresentazione e collegamento collettivo che possono esercitarsi su

qualsivoglia contenuto; sulla scorta di questo e di quanto emerso a proposito del

concetto di molteplicità è difficile sottrarsi alla conclusione che gli atti, lungi dal

limitarsi a render presenti i concetti, concorrano decisamente alla loro genesi, alla

loro costruzione. È stato da più parti sottolineato come in questa fase della sua

riflessione Husserl non distingua fra rappresentazione e concetto20, che è poi

17 Diversa è la posizione in merito di Dieter Münch, il quale vede già tracciata nelle teorie husserliane dell’astrazione e delle relazioni psichiche la via che condurrà all’intuizione categoriale, proprio perché al fine di cogliere il concetto formale di molteplicità non è affatto necessaria la comparazione fra casi simili, bastando al riguardo l’intuizione di un unico concretum cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p. 9718 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.124-25. 19 Ivi, p.12720 Cfr. G. Leghissa Alle origini del “vedere fenomenologico” in E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 24 e D. Willard Logic and the objectivity of knowledge cit., p. 26. Willard in verità sostiene una posizione più forte rispetto a quella di Leghissa, ritenendo che per lo Husserl di

17

quanto Frege rimproverava al suo esimio collega nella sua celebre recensione. Si

tratta di una confusione senz’altro presente nelle analisi husserliane, in specie in

quelle della prima parte della Filosofia dell’aritmetica, dove per l’appunto è

difficile distinguere tra la rappresentazione ad esempio della molteplicità e il suo

concetto, vista la natura spiccatamente psicologica del procedimento che conduce

a entrambi. Anche nella seconda non mancano esempi in tal senso, forse

addirittura maggiormente caratteristici. È il caso della distinzione, su cui dovremo

abbondantemente tornare, tra rappresentazioni proprie e simboliche, che si

incrocia con quella tra concetti propri e simbolici: ha senz’altro senso parlare di

rappresentazioni che presentano l’oggetto in carne e ossa (proprie) o per la via

indiretta dei simboli (simboliche); difficile però è comprendere cosa possa mai

essere un concetto simbolico, laddove non s’intenda, come di fatto avviene in

Husserl dando prova della segnalata confusione, la rappresentazione simbolica del

concetto medesimo. L’assenza di questa importantissima distinzione deriva

dall’impostazione psicologista delle analisi husserliane e vizia lo stesso concetto

di numero, così come esso emerge dalla trattazione dell’epoca: se infatti è la

molteplicità il concetto da cui esso scaturisce e poiché questa è tale in virtù di una

relazione squisitamente psichica quale il collegamento collettivo, ne deriva che lo

stesso concetto di numero cardinale è viziato nella sua stessa costituzione da

componenti psicologiche. Husserl stesso si rese conto di questa difficoltà, come

confessò anni dopo ripercorrendo le fasi iniziali della sua riflessione:

Ma il concetto di numero cardinale non è qualcosa di essenzialmente diverso dal

concetto di collegare, che appunto solo la riflessione sull’atto puo’ fornire? Questi dubbi

mi inquietavano, anzi mi tormentavano già ai primissimi inizi e si estesero poi a tutti i

concetti categoriali, come li chiamai più tardi21

I dubbi e i tormenti di cui egli parla segnalano da un lato quanto poco

fosse incline a considerare in termini psicologici i concetti categoriali, come gli

risultasse difficile, se non inaccettabile, l’assimilazione delle entità concettuali a

realtà psicologiche - dall’altro come la permanenza dell’impostazione psicologista

al fondo delle sue analisi gli impedisse di trovare una soluzione al dilemma, quella

questa fase i concetti esistano soltanto all’interno di strati di entità concrete, marcandone così la natura psicologica (ivi, p.25)21 E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.201

18

soluzione che nelle Ricerche logiche consisterà nel non guardare più agli atti in

quanto oggetti ma agli oggetti di questi atti22. Il motivo per cui Husserl non poteva

affatto consentire alla suddetta assimilazione sta nella sua inossidabile

convinzione che i concetti definiti poi categoriali non possono affatto venir

considerati come delle realtà empiriche, perché la loro validità esula da qualunque

matter of fact; per rifarci alla citazione riportata poc’anzi, il numero è cosa ben

diversa da una realtà empirica, segnatamente psicologica, quale l’atto collegante,

tant’è che nella seconda parte della Filosofia dell’aritmetica parlerà

esplicitamente di “numeri in sé”, a dimostrazione di come questi nulla devono per

la loro validità e sussistenza alle operazioni psichiche. Questo assunto rischiava

però di venir indebolito dall’analisi psicologico-genetica tipica di quest’opera e

ben si comprende allora il tormento husserliano.

Va detto però, ed è un punto essenziale, che le analisi di Husserl nel

periodo qui in esame hanno come tema prevalente la modalità tramite cui si ha

accesso ai concetti, ai contenuti della scienza o per meglio dire della matematica,

dando per presupposta la validità di quei contenuti. Un indirizzo che diviene

chiaro man mano che ci si addentra nella Filosofia dell’aritmetica e si viene così a

conoscere l’esatto statuto di questa disciplina, dopo averne accuratamente

enucleato i fondamenti; si scopre così che per aritmetica bisogna intendere

una somma di strumenti artificiali volti a superare le insufficienze essenziali del

nostro intelletto23

Come si vede, è una dimensione prettamente operativa quella che Husserl

predilige a proposito della matematica e più in generale della scienza, dove ancora

una volta è l’approccio psicologista a essere determinante. La scienza viene infatti

riguardata dal lato prettamente soggettivo, come strumento della conoscenza

umana, a partire quindi dalla sua genesi in rispondenza alle esigenze cognitive del

soggetto, dal suo ruolo e dalla capacità delle sue prestazioni in ambito

conoscitivo. Come è stato giustamente osservato, una teoria dell’aritmetica non

puo’ dirsi affatto esaurita da una teoria del numero, in quanto l’aritmetica è un

segmento della conoscenza umana mentre il numero è semplicemente il suo

argomento; per cui22 E. Husserl Logische Untersuchungen (trad. it. Ricerche logiche, a cura di G. Piana, NET, Milano 2005, vol. II, pp.443-44)23 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit.,p.234

19

A theory of number attempts to tell us, above all, what number is, while a theory

of arithmetic must explain how we know what we can know about numbers and wherein

that knowledge consists24

L’analisi delle prestazioni conoscitive dell’aritmetica, della maniera in cui

ci consente di acquisire ed estendere la conoscenza dei suoi contenuti, è perciò il

leitmotiv delle analisi husserliane ed è qui per giunta che si innesta la questione

semiotica, perché gli strumenti artificiali in cui consiste una tale scienza non sono

altro che i segni.

§ 1.3 – Il segno all’origine

Con le considerazioni or ora fatte a proposito di cosa si debba intendere

per una teoria dell’aritmetica abbiamo già imboccato la via che conduce a

motivare la centralità del segno a partire dalla peculiarità dell’impostazione

filosofica husserliana. Se infatti è l’aspetto per così dire tecnico a tratteggiare la

fisionomia dell’aritmetica, il suo essere cioè una somma di strumenti volti a

render più ampie ed efficaci le prestazioni conoscitive del soggetto, la dimensione

psichica sarà allora il contesto in cui si radicheranno le riflessioni su questa

disciplina (punto questo che ben si concilia - ribadendola - con la complessiva

impostazione psicologista delle analisi husserliane). E anche la questione

semiotica troverà qui il proprio terreno di coltura, perché i segni sono per

l’appunto gli strumenti di cui non soltanto l’aritmetica si serve, ma che addirittura

la costituiscono.

Ma la rilevanza dei segni non riguarda soltanto l’ambito circoscritto da un

settore della conoscenza, in quanto è la stessa costituzione psichica umana a esser

in larga parte caratterizzata dalla dimensione semiotica, o per meglio dire

impropria. Al fine di comprendere questo è innanzitutto necessario introdurre la

distinzione fra rappresentazioni proprie e improprie, che Husserl fa

immediatamente e opportunamente seguire alla sua definizione dell’aritmetica. A

far la differenza è qui la modalità d’accesso all’oggetto rappresentato: nel primo

caso, è diretta, in quanto ci si trova di fronte all’oggetto per così dire “in carne e

ossa”, come avviene ad esempio con la percezione empirica; nel secondo invece si

24 D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.87 20

è di fronte a una caratterizzazione indiretta che rende la rappresentazione

“simbolica”, in quanto appunto ricorre a segni per riferirsi a e aver presente

l’oggetto25.

Dovremo tornare in seguito, con maggiore approfondimento, su questa

distinzione ma per ora è sufficiente averne fatto cenno, così da aver chiaro cosa

intende Husserl quando parla di contenuti dati in maniera impropria. È necessario

infatti soffermarci in primo luogo sull’esatta caratura della dimensione impropria

e in particolare sull’importantissimo ruolo che essa svolge per (e nel)la coscienza,

anche perché è da qui che emerge la funzione semiotica che Husserl ritiene in

questi scritti fondamentale. Si tratta soprattutto di risalire ai motivi che ne

richiedono l’introduzione, rintracciati nei limiti delle capacità psichiche umane: è

infatti al fine di sopperirvi che subentra il rappresentare improprio. Il campo

d’analisi è ancor sempre costituito dagli interessi matematici, relativo agli insiemi,

già analizzati nell’ottica “propria” quando si è trattato di chiarire il concetto di

molteplicità26; mentre però in precedenza ci si era occupati dell’origine del

concetto di numero, non prestando attenzione all’estensione degli insiemi

d’oggetti da cui scaturisce, ora il problema sta proprio nella vastità di quest’ultimi:

se infatti al fine di rappresentarsi una molteplicità è necessario apprendere

singolarmente ciascuno dei suoi membri, collegando poi collettivamente tutte

queste diverse intuizioni parziali, allora solo di molteplicità poco numerose è

possibile una rappresentazione, perché le nostre capacità psichiche ci consentono

di tener fermi insieme e in maniera distinta al massimo una dozzina di elementi27.

Ora, a prescindere dal numero che segna il nostro limite massimo, va detto che

Husserl sottolinea un punto inequivocabile, ovvero l’impossibilità di riconoscere

un insieme come tale per via della somma e ricognizione delle apprensioni

singolari, limite che rende inevitabile il ricorso a procedimenti impropri, o per 25 Ivi, p. 23526 La vigilanza terminologica non è certo tra i punti di forza della Filosofia dell’aritmetica. Lo si è già visto a proposito della (confusa) distinzione tra rappresentazione e concetto e lo si riscontra ancor qui, dove non è chiaro se i termini “aggregato”, “molteplicità”, “insieme”, siano sinonimi o meno, e qualora sia quest’ultima l’ipotesi valida, in cosa consistano le differenze di significato. A fare un po’ di chiarezza ha provato Leghissa, nella sua Nota alla traduzione del testo. Egli propone di intendere Inbegriff (aggregato) come una collezione di oggetti qualunque, laddove Vielheit (molteplicità) intendere mettere in evidenza la numerabilità degli elementi meramente collegati. Menge (insieme) infine non ha affatto il significato tecnico tipico della matematica, bensì quello più semplicemente comune, della vita quotidiana, e sta a indicare un misto di determinatezza (quanto allo stile della figura che gli elementi tratteggiano) e indeterminatezza (riguardo al numero) (ivi, pp.41-43). Va comunque precisato che i tre termini sono interconnessi e le differenze qui segnalate sono semplici sfumature, dovute alla differente angolatura dello sguardo husserliano in rapporto a elementi tenuti assieme dal collegamento collettivo27 Ivi, p.238

21

meglio dire simbolici. In un tale caso l’apprensione e la riunione di qualche

elemento serviranno da segno per la collezione totale, vi sarà insomma una

rappresentazione in sé propria che fungerà impropriamente come segno

dell’oggetto inteso ma non disponibile a un’intuizione diretta. E non si tratta, a

ben vedere, di uno stratagemma adottato consapevolmente e introdotto

dall’esterno, quanto piuttosto della descrizione di come effettivamente avviene

l’apprensione di insiemi particolarmente numerosi, descrizione nella quale però

finora è stato omesso l’elemento fondamentale, ovvero il momento figurale: ciò

che infatti consente di riconoscere nei pochi elementi appresi un insieme e,

correlativamente, di considerare il processo parziale segno di quello totale, è

proprio l’occorrenza di siffatti momenti, consistente nell’organizzazione o

disposizione immediata degli elementi costituenti l’insieme, che formano

delle unità stabili, capaci di conferire all’intera apparizione dell’insieme un

carattere peculiare immediatamente percepibile, per così dire una qualità sensibile di

secondo ordine28

Proprio la percezione di siffatte configurazioni, ovvero dei momenti

figurali - registrati nel linguaggio con termini quali “fila”, mucchio”, “stormo”

ecc.29 - consente di riconoscere il carattere di insieme nei (pochi) elementi raccolti,

la loro presenza è talmente efficace e influente che addirittura essi possono

fungere da segni - e non quindi da mediazioni o punti d’appoggio tra segno (parti

effettivamente raccolte) e designato (insieme) -, come avviene ad esempio quando

con un solo colpo d’occhio riconosciamo un reggimento di soldati, senza cioè che

vi sia il processo rudimentale consistente nella ricognizione di qualche elemento30.

Quanto emerge da qui - oltre ad avere un’importanza essenziale per l’aritmetica,

essendo gli insiemi a fondamento dei numeri - illumina sul carattere decisamente

improprio dei nostri processi psichici, quindi sul ruolo decisivo che la componente

simbolica riveste in seno al pensiero. Questa infatti non si esaurisce in un insieme

di artifici metodici, utilizzati consapevolmente al fine del progresso scientifico31,

poiché il pensiero stesso, ovvero i nostri processi psichici sono in larga parte

impropri, simbolici, senza peraltro che ve ne sia consapevolezza, come s’è appena 28 Ivi, p. 24329 Ivi, p. 24630 Ivi, p. 255. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.18-19. 31 Per quanto, come vedremo, sarà proprio questo l’ambito cui Husserl attribuirà la maggiore importanza

22

visto a proposito dei momenti figurali, dove un processo di pensiero (proprio)

fungeva automaticamente da segno - e quindi impropriamente - per un altro,

indisponibile perché inattuabile, e laddove la rapidità del pensiero impedisce il

suddetto processo è il semplice momento figurale a fungere da segno, in maniera

anche qui inavvertita, per via di semplici associazioni psicologiche quale quella

tra la percepita configurazione degli elementi e il concetto d’insieme. La semiosi

si scopre allora essere un tratto costitutivo dei nostri processi psichici, è inscritta

nella naturalità della nostra psiche, cosa che rende l’analisi psicologico-genetica

ancor più pertinente che nel caso di numeri: se infatti là si doveva dar conto di

come si giunge a entità comunque in sé sussistenti, qui invece si tratta di un

qualcosa che ha direttamente a che fare con la nostra vita psichica, di un suo

importantissimo aspetto. La centralità del segno non è dovuta soltanto alla sua

importanza per le discipline scientifiche e, correlativamente, per la nostra

conoscenza; anzi questa importanza si motiva a partire da qualcos’altro, ovvero

dalla dimensione impropria di (gran) parte dei nostri processi psichici, è solo

perché il nostro pensiero è in larga parte del suo decorso costitutivamente

simbolico che i segni possono operare con l’efficacia che viene loro giustamente

riconosciuta e al tempo medesimo venir legittimati nel loro utilizzo. Lo si è

appena visto con l’esempio dei momenti figurali: l’apprensione di un insieme

piuttosto vasto avviene per via simbolica e in maniera per così dire automatica,

senza che vi sia una consapevole riflessione, la psiche si affida “naturalmente” a

dei surrogati che le consentono di apprendere - simbolicamente appunto - un

insieme, è un tratto precipuo del suo funzionamento il ricorrere a procedimenti e

rappresentazioni improprie laddove i suoi limiti le impediscano di percorrere la

via intuitiva. L’analisi dei momenti figurali consente perciò a Husserl di mettere

in evidenza la naturalità della semiosi, di mostrare come la funzione simbolica sia

un tratto specifico della psiche umana, sì che il ricorso a simboli che caratterizza

discipline fondamentali come l’aritmetica e la logica risulti nient’affatto

estrinseco, trovando fondamento nella natura del pensiero medesimo; e la

prospettiva psicologista, focalizzata sull’analisi dei processi psichici, si rivela qui

particolarmente efficace, consentendo di inscrivere l’origine dell’attività

simbolica nel funzionamento della psiche umana, cosa che svela la semiosi

consustanziale ai processi intellettivi degli individui, come tratto caratteristico del

nostro spirito. Punto questo decisivo, ancor prima e ancor più di una qualunque

23

definizione del segno, in quanto consente di affisare l’esatta natura dei simboli

mercé la loro origine, cosicché non li si potrà soltanto considerare come meri

strumenti escogitati per soddisfare determinate esigenze, perché a esser simbolico

è il nostro stesso pensiero nel suo naturale decorso, prima ancora che intervenga

qualsiasi attività consapevole.

Con questo però non si vuole affatto negare l’importanza decisiva che i

segni qua strumenti artificiali rivestono in seno al pensiero husserliano, anche

perché, come s’è già visto, l’aritmetica è proprio a questi che fa ricorso, tanto che

son essi a definirne l’essenza. Ci si potrebbe allora aspettare che le

rappresentazioni simboliche degli insiemi siano il fondamento delle

rappresentazioni simboliche dei numeri - come del resto lo stesso Husserl

dichiara32 - e che quindi queste ultime debbano esser direttamente ricavate dalle

apprensioni degli insiemi per via di momenti figurali. In verità le cose non stanno

esattamente in questi termini. Va infatti tenuto a mente che il concetto di insieme

consiste di quantità indeterminate, i contenuti non vengono affatto enumerati,

tant’è che il concetto stesso deve la sua determinatezza non al rilevamento del

numero di questi, quanto alle figure che essi tratteggiano nel loro stare assieme,

ovvero ai momenti figurali; per l’apprensione dell’insieme non è affatto richiesta

la denumerazione dei suoi membri, anzi i momenti figurali vengono introdotti

proprio al fine di renderla dispensabile, perciò non è da qui che le simbolizzazioni

riguardanti i numeri possono venir ricavate. Come si spiega allora l’affermazione

husserliana sulla fondazione delle simbolizzazioni per i numeri su quelle per gli

insiemi? Innanzitutto l’attenzione dedicata a queste ultime vale a mostrare come

l’attività simbolica non sia affatto un che di estrinseco, in quanto radicata nella

nostra psiche come uno dei suoi tratti maggiormente caratterizzanti; l’apprensione

simbolica degli insiemi per via dei momenti figurali è una significativa

manifestazione dell’affidamento che la psiche nel suo naturale decorso fa al

rappresentare improprio, per cui il ricorso ai segni dell’aritmetica trova proprio

nei meccanismi psichici la sua legittimazione33. Un tipo di legittimazione davvero

fondamentale, nel momento in cui l’aritmetica viene riguardata dal lato soggettivo

delle sue prestazioni conoscitive. Oltre a questo, è sempre per sopperire ai limiti

delle nostre capacità psichiche che i segni fanno la loro comparsa, tanto nel caso

32 Ivi, p.26533 Punto questo, come vedremo, tematizzato in maniera netta in Semiotik, laddove si affermerà più volte la dipendenza dei processi semiotici artificiali da quelli naturali

24

delle apprensioni di insiemi, per giunta neanche troppo vasti, quanto a riguardo

dell’accesso alla serie dei numeri naturali; limiti peraltro della stessa natura,

poiché in entrambi i casi è l’impossibilità di rappresentare propriamente tutti i

membri di un insieme a render necessaria la presenza dei simboli. Infine non va

dimenticato che i numeri sono le specie del concetto generale di molteplicità, per

cui qualora di questa fossero possibili solo rappresentazioni proprie potremmo

ammettere solo una ristretta parte di numeri, quelli cioè corrispondenti alle

molteplicità “propriamente” rappresentabili; le rappresentazioni simboliche ci

garantiscono invece che a ciascun insieme deve corrispondere un numero

determinato e ci permettono di giungere all’idea di un ampliamento illimitato

dell’insieme medesimo34. In altri termini ci garantiscono sulla liceità delle

rappresentazioni simboliche dei numeri pur non essendo in grado di fornircene di

adeguate.

Al fine di ottenere un effettivo accesso alla serie dei numeri naturali è

necessario invece escogitare un metodo, fondato su “un principio sistematico

rigoroso per la formazione delle forme numeriche simboliche”, che sia in grado di

estendere la nostra conoscenza oltre le (poche) entità numeriche rappresentabili in

maniera propria e impedisca una moltiplicazione incontrollata dei simboli, che

causerebbe serissime difficoltà alle nostre capacità mnemoniche35. Un siffatto

principio si sostanzia nella scelta di un numero base attorno a cui costruire un

sistema di operazioni ricorsive, come accade col nostro sistema decimale: qui il

numero dieci consente di rappresentare qualsivoglia numero della serie facendo

ricorso per l’appunto a non più di dieci simboli, com’è evidente nell’ordinamento

in unità, decine, centinaia, migliaia e via dicendo. Metodo, o per meglio dire

sistema che è al tempo stesso concettuale e simbolico: concettuale, in quanto

basandosi sui concetti propri dei primissimi numeri naturali riesce ad accedere,

per via di operazioni ricorsive, a tutti gli altri elementi concettuali della medesima

serie; simbolico, in quanto le entità concettuali così ottenute non vengono ricavate

34 Ivi, pp.265-66. A dire il vero Husserl sostiene anche che i momenti figurali possono condurre ad affisare entità numeriche determinate, come accade ad esempio nel domino o nel gioco dei dadi: « Ciascuna delle superfici del dado possiede una configurazione di punti caratteristica, prefissata, che entra in associazione con il nome esprimente il numero » (ivi, p.298). Va però detto che con l’aumento degli oggetti di un insieme diviene sempre più difficile operare associazioni così precise, anche perché in tal maniera aumenterebbero in maniera incontrollata i tipi figurali differenziabili (ivi, p.299); proprio per questo i momenti figurali non sono affatto sufficienti a garantire un efficace e completo accesso alla serie dei numeri naturali, cosa che induce Husserl a rifarsi a un procedimento di tipo completamente diverso, come si vedrà a breve nel testo.35 Ivi, p.269

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propriamente – ricorrendo cioè alle molteplicità e agli atti di astrazione e

raccoglimento – bensì per via segnica, poiché il metodo per costruire concetti è al

tempo medesimo un metodo per designarli, fondandosi esso stesso su segni

(designati sono anche i concetti propri) e operazioni simboliche36.

Sulla doppia natura di tale sistema è però necessario insistere. Innanzitutto,

va sottolineato come i concetti numerici elementari, fondamentali perché è da essi

che si originano tutti gli altri, sono i numeri rappresentabili propriamente37. In

precedenza Husserl aveva affermato che nessun concetto puo’ esser pensato senza

fondamento in un’intuizione concreta38 e in ciò non fanno eccezione i concetti

simbolici: questi infatti derivano dai concetti elementari rappresentati

propriamente, ovvero da concetti ricavati per astrazione da un’intuizione concreta.

Il metodo summenzionato poi, come dicevamo, è un metodo per la costruzione di

concetti numerici in grado di garantire l’accesso alla serie dei numeri naturali, per

via del parallelismo che vige tra questa serie e il sistema numerico escogitato; ma

cosa legittima a sua volta un siffatto parallelismo? Il fatto che il sistema di

costruzione concettuale, affidandosi in prima istanza a concetti numerici propri

presi come fondamento, riesca a ordinare in maniera sistematica e distinta i

membri da esso generati per via di semplici e ricorsive operazioni aritmetiche, per

cui a ogni numero simbolicamente rappresentato spetterà un preciso posto nella

serie sistematica così come accade a ciascun numero della serie naturale. Non

bisogna infatti dimenticare che quanto qui interessa a Husserl è garantirsi

l’accesso a una siffatta serie; vista l’impossibilità di affisarla nella maniera più

immediata, ovvero per aggiunte successive di un’unità, si deve ricorrere a un

sistema di costruzione concettuale che renda possibile una più facile padronanza

mentale e linguistica dell’ambito numerico39. Ed è qui che emerge ancora una

volta l’importanza decisiva dei simboli. L’accesso alla serie numerica naturale è

vincolato all’utilizzo di segni, tanto che si parla di concetti simbolici che stanno

per i numeri in sé, ovvero per i numeri effettivi a noi generalmente inaccessibili40;

cosa questa che ridimensiona la portata dello psicologismo husserliano, in quanto

i numeri sono entità in sé sussistenti, indipendenti dalla psiche, la cui validità

nulla ha a che fare con i nostri processi psichici e le loro leggi. L’inaccessibilità di 36 Cfr. E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp. 272-77; in proposito rimandiamo anche alla trattazione di Parpan nel suo già più volte citato Zeichen und Bedeutung cit., pp. 23-2937 Ivi, p.27338 Ivi, p.12139 Ivi, p.27340 Ivi, p.305

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fatto del regno dei numeri in sé fa però sì che i simboli acquistino una rilevanza

notevole, in quanto non si limitano a designare dei contenuti, ma sono parte attiva

nella costituzione di quei concetti che soli rendono per noi sensato parlare di

numeri in sé41:

i segni sensibili qui non si limitano, alla maniera dei segni linguistici, ad

accompagnare semplicemente i concetti. Essi in realtà prendono parte alla costruzione

delle nostre formazioni simboliche in un modo sostanziale42

Qualora non vi fossero i simboli infatti non sarebbe possibile disporre di

concetti per l’appunto simbolici e mancando questi non solo non avremmo

accesso alla serie dei numeri naturali, ma nemmeno avrebbe senso un discorso

sulla loro esistenza in sé: di cosa infatti andremmo a parlare? Non è qui infatti

all’opera un semplice metodo per la designazione che renda più facilmente

affisabili entità in sé, bensì un sistema per la costruzione dei concetti numerici, di

quei concetti cioè che definiscono l’aritmetica e che sono simbolici, in quanto è

solo per via dei segni che è possibile disporre della serie numerica, o meglio di un

valido surrogato di essa. I concetti numerici così costruiti non sono infatti i

numeri, bensì surrogati dei numeri in sé, ma è anche vero che siffatta surrogazione

è permanente e quindi necessaria, tanto che la serie numerica dei numeri cardinali

è per noi pensabile solo come correlato del sistema numerico surrogante, soltanto

così ne abbiamo traccia. Si verifica perciò la singolare situazione per cui non si

parte dall’entità da sostituire al fine di escogitare il sostituto, bensì è a partire da

questo che la prima ha la possibilità di manifestarsi e soltanto come suo correlato.

Potrebbe destar meraviglia il fatto che la matematica non abbia a che fare con

numeri, ma con meri surrogati di essi; lo stupore però scompare nel momento in

cui si prende in considerazione la prospettiva da cui essa è riguardata: come è

stato giustamente osservato infatti l’aritmetica non è numeri e verità sui numeri,

bensì corpo di conoscenze sui numeri e sulle verità che li riguardano, ha a che fare

insomma con la maniera tramite cui conosciamo le cose che dobbiamo conoscere

in quanto matematici43. La definizione stessa dell’aritmetica è più che una

conferma di quanto andiamo dicendo: considerarla come una somma di strumenti

artificiali volti a superare i limiti del nostro intelletto vale a mettere in evidenza la 41 Cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.25 42 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 28543D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.122

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preminenza esclusiva del suo aspetto tecnico, laddove la validità dei contenuti,

degli oggetti da essa conosciuti viene data per presupposta, tanto che ci si occupa

esclusivamente della maniera in cui è possibile appropriarsene. Definire “concetti

simbolici” gli strumenti di cui l’aritmetica si serve manifesta certamente la

confusione tra rappresentazioni e concetti tipica di questa fase, su cui peraltro ci

siamo già soffermati; ma serve a Husserl per denotare come la matematica non

abbia a che fare con mere designazioni, non cada nel nominalismo, in quanto le

sue entità hanno un preciso significato, sono per l’appunto concetti che formano

un ordine seriale preciso e non casuale, perché fondato sulla natura di quei

concetti medesimi44:

l’essenza della formazione numerica sistematica consiste nel fatto di poter

costruire, per mezzo di pochi concetti e poche proposizioni elementari (formule

numeriche e regole operative), tutti gli altri concetti numerici45

L’aritmetica si muove perciò in una dimensione simbolico-concettuale, in

quanto è per via di concetti simbolici che possiamo appropriarci delle entità

matematiche, o perlomeno di una loro larga parte. I limiti delle nostre facoltà

intellettive ci impediscono, come s’è visto, di accedere direttamente all’intera

serie numerica e a ciascuno dei suoi membri; al fine di guadagnarne l’accesso non

resta che percorrere la via simbolica, sì che

Se da una parte tutte le formazioni numeriche risultano ora essere conseguenze

sistematicamente rigorose dei concetti elementari, al pari delle loro forme di

collegamento e di conversione, anche dall’altra parte le formazioni segniche parallele

devono essere conseguenze sistematicamente rigorose dei segni elementari, al pari delle

loro forma di collegamento e conversione46

Come si vede è all’opera un doppio parallelismo. Il primo è quello tra la

serie sistematica dei concetti simbolici e la serie dei numeri naturali; dove però i

due membri non si presentano come binari che scorrono l’uno accanto all’altro, in

quanto è solo per via di uno di essi che l’altro puo’ esser scorto come procedente

in parallelo, poiché solo e soltanto come correlato dei concetti simbolici è

44 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.21945 Ivi, p.28246 Ivi, p.283

28

possibile parlare di “numeri in sé” e dunque istituire il parallelismo. Il secondo

riguarda invece i concetti costruiti sistematicamente e i segni con cui si

manifestano. Naturalmente si tratta di parallelismi che possono e devono esser

riuniti in uno, poiché

a ogni numero naturale corrisponde un numero del sistema interamente

determinato (a esso uguale) e a questo, dal canto suo, corrisponde una designazione

interamente determinata, che rispecchia la sua modalità di formazione47

Soffermandoci sulla seconda parte di un siffatto parallelismo, va notato

come sarebbe inopportuno limitarsi a parlare di un semplice designazione. I

simboli sono in verità essenziali, decisivi, poiché è solo per loro mezzo che

avviene la costruzione concettuale, non si tratta qui di meri mezzi di designazione,

ma semmai di materiali da costruzione, se le entità costruite sono per l’appunto

“concetti simbolici”. Con questo non si vuol negare al segno la sua funzione

caratterizzante, quella cioè designante, bensì porla nella sua giusta luce: qui infatti

il segno designa ciò che contribuisce a costituire, ovvero il concetto, che a sua

volta sta per un’entità indisponibile, secondo una dinamica che in Semiotik

definirà una particolare tipologia semiotica, il segno indiretto, come avremo modo

di vedere.

Giunti a questo punto è utile spendere qualche parola sulla peculiarità

dell’impostazione husserliana in questa fase, partendo proprio dalla problematica

espressione “concetto simbolico”. A tutta prima, sembrerebbe trattarsi di un modo

di esprimersi inappropriato, laddove sarebbe stato più opportuno parlare di

rappresentazione impropria di un concetto, come peraltro lo stesso Husserl aveva

fatto introducendo il rappresentare simbolico48. Ma la situazione è del tutto

diversa, in quanto il concetto non viene qui rappresentato per mezzo di simboli,

come avviene ad esempio nel caso del “rosso” con la sua definizione49, ma

costruito per loro mezzo. Noi disponiamo infatti, in senso “proprio”, soltanto di

pochi concetti numerici elementari così come delle relazioni e operazioni che li

riguardano, e questo ci basta soltanto per capire la loro disposizione in serie, ma

non per coglierla nella sua totalità, vista l’indisponibilità della maggior parte dei

suoi membri; non rimane allora che servirsi di un procedimento “improprio”, 47 Ivi, p.27748 Ivi, p.235-3649 Ivi, p.236

29

indiretto, simbolico, che costruisca entità in grado di supplire alla mancanza dei

numeri in sé, dei concetti numerici propri. Siffatte entità non potranno che essere

concetti simbolici, perché è da concetti e operazioni su di essi che vengono

derivati, e si presenteranno come surrogati, o per meglio dire succedanei di quanto

rifugge a una manifestazione propria. Sono questi allora gli strumenti artificiali di

cui l’aritmetica si serve per ovviare ai limiti del nostro intelletto e per estendere la

nostra conoscenza, soltanto infatti per via di concetti simbolici è possibile per noi

avere un’adeguata conoscenza della serie numerica naturale, dell’ordine dei suoi

membri e delle loro vicendevoli relazioni, anche perché è solo come correlati di

siffatti concetti, o per meglio dire segni concettuali, che è possibile per noi parlare

sensatamente di numeri in sé. L’interesse pressoché esclusivo di Husserl per

l’aspetto tecnico della scienza, rivolto alla qualità delle sue prestazioni

conoscitive, alla sua capacità di estendere la conoscenza, lo induce a porre in

secondo piano quanto concerne l’oggetto conosciuto, per cui ciò che importa ad

esempio nella matematica è comprendere come sia possibile per noi sapere quel

che sappiamo a proposito dei numeri, della loro serie e delle loro relazioni. Il

regno dei numeri in sé non è fatto oggetto di una tematizzazione che ne giustifichi

e spieghi la natura, il che avrebbe condotto a rilevare la presenza di una

dimensione centrale nella riflessione successiva, quella cioè ideale; a tal fine

sarebbe bastato riflettere un po’ di più sulla circostanza per cui diversi sistemi

numerici a carattere simbolico posso condurre tutti alla serie numerica naturale, a

seconda di quale sia il numero di base scelto (dieci, ma anche cinque, o venti

ecc.). Non che queste riflessioni siano assenti nell’opera husserliana50, ma ancora

non se ne traggono le debite conclusioni, nella fattispecie non si vede la natura

dell’ideale come il permanente identico, ovvero come ciò che rimane identico pur

nella molteplicità delle sue manifestazioni fattuali. La mancata messa a fuoco

della dimensione ideale rimonta all’impostazione psicologista di questa fase, con

la sua attenzione indirizzata agli atti e non ai loro oggetti e l’interesse

esclusivamente rivolto alle nostre capacità conoscitive piuttosto che alla natura

oggetti conosciuti. Nel momento in cui il discorso si sposterà su questi e la

dimensione ideale farà la sua comparsa anche il versante soggettivo della

conoscenza subirà un notevole mutamento: prima ancora di qualsiasi teoria della

conoscenza infatti si dovrà accertare la maniera in cui siffatte entità ideali si

50 Ad esempio l’intero § 6 del capitolo 12° della Filosofia dell’aritmetica (ivi, pp.279-81)30

offrono, sono date nell’evidenza, in modo del tutto chiaro e distinto, ovvero come

sostrati di predicazioni valide, perché il darsi di siffatte entità precede ogni teoria

gnoseologica51. Solo da qui si potrà poi porre la questione degli atti effettivamente

coinvolti, solo perché la dimensione ideale si manifesta in maniera evidente è

possibile spostare il discorso sui vissuti in cui tale fenomenizzazione avviene e

giungere così al rivoluzionario concetto di “intuizione categoriale”. Non si parlerà

allora più di “concetti simbolici”, ma di “rappresentazioni simboliche di concetti”

o meglio ancora di “intenzioni signitive”: non si tratterà più di sostituire per

mezzo di segni entità indisponibili, bensì di intenderle per loro tramite, per poi,

sulla base di questo intendimento, giungere alla loro intuizione e quindi alla loro

conoscenza. Tutto questo è reso possibile dal rilevamento dell’idealità come

qualcosa di effettivamente dato, per l’appunto come sostrato di predicazioni

valide, che induce a considerare l’intuizione non soltanto sensibile, bensì anche

categoriale: se infatti la datità di enti empirici si spiega a partire dal primo tipo di

intuizione, l’altrettanto manifesta datità delle entità categoriali rimanda per

l’appunto al secondo, nella maniera che vedremo descritta nella Sesta ricerca. In

tal maniera i cosiddetti “concetti simbolici” della Filosofia dell’aritmetica

andrebbero derubricati a segni significativi che intendono certe specie ideali,

intenzioni che possono venir riempite dalla corrispondente intuizione categoriale.

Nel momento in cui la dimensione ideale e, corrispondentemente, la prospettiva

fenomenologica faranno la loro comparsa il segno subirà un ridimensionamento in

quanto al suo ruolo, manifestato dal diverso tipo di funzione che andrà in

prevalenza a svolgere. La sua centralità verrà infatti meno quando cesserà di venir

considerato in prevalenza come surrogato di concetti indisponibili, divenendo così

strumento necessario per ampliare la nostra conoscenza: a quel punto non

parteciperà attivamente alla costruzione di concetti, ma si limiterà a intenderli per

via del suo significato, non sarà più strumento conoscitivo, in quanto solo il

possesso dell’oggetto garantisce la conoscenza e non qualcosa che sta per esso,

che si limita a intenderlo. Laddove in altri termini la conoscenza si rivelerà

esclusivamente di natura intuitiva, il segno non sarà più al centro dell’attenzione,

pur rivelandosi comunque essenziale, come vedremo occupandoci delle Ricerche

logiche.

51 E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle “Ricerche logiche” cit., p. 20431

Le riflessioni si qui condotte non possono però affatto esser considerate

sufficienti. Finora infatti il segno è stato riguardato soltanto a partire dal suo ruolo

in una determinata disciplina, l’aritmetica, dove è emersa sì la sua centralità, ma

in maniera per l’appunto soltanto circoscritta. Una limitazione che inoltre ha

impedito di occuparsi di tematiche fondamentali in ambito semiotico, come ad

esempio la stessa definizione di segno e il suo rapporto con il significato. È

necessario perciò integrare quanto sinora detto e ampliare la nostra prospettiva in

senso più generalmente semiotico, affrontando la questione del segno

direttamente, cosa che ci permetterà di comprendere appieno questioni già emerse,

come l’importanza della surrogazione e la natura simbolica dei nostri processi

psichici, la naturalità della simbolizzazione. Problematiche queste che ci

conducono a spostare il centro del nostro interesse dalla Filosofia dell’aritmetica a

Semiotica

§ 1.4 – Il segno in “Semiotica”

Nella Filosofia dell’aritmetica, come abbiamo appena terminato di vedere,

viene dato un enorme peso ai segni, alle rappresentazioni improprie, tanto che un

autentico discorso sulla matematica comincia soltanto laddove interviene e perché

interviene la componente simbolica52. Reca allora stupore che non vi sia una

esplicita definizione di cosa sia da intendersi per segno. È forse anche questo, si

potrebbe pensare, uno di quei concetti primitivi alla cui comprensione giova

soltanto l’analisi psicologico-genetica della loro origine per la coscienza? Niente

di tutto questo. Anche perché, pur in mancanza di un’autentica espressione

definitoria, è comunque possibile ricavare dei tratti caratterizzanti a proposito dei

simboli. Si parla infatti di rappresentazioni improprie, tali in quanto presentano

contenuti in maniera indiretta sostituendo, temporaneamente o permanentemente,

le corrispettive rappresentazioni effettive53. Si potrebbe perciò concludere che

simbolo sia tutto ciò che è atto sostituire un contenuto non presente o non

presentabile in senso proprio, facendo di qualsiasi segno un surrogato e

identificandolo così con la rappresentazione impropria. Prospettiva questa che è 52 A proposito delle questioni summenzionate, Giovanni Piana indica come livello propriamente aritmetico il piano delle rappresentazioni indirette del numero, il metodo segnico notazionale per la designazione dei concetti numerici, laddove le trattazioni della prima parte dell’opera, dedicate alla genesi del numero in senso proprio dal concetto di molteplicità, vanno piuttosto ascritte a un livello pre-aritmetico. Cfr. G. Piana Elementi di una dottrina dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1979, pp. 192-9353 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.235

32

senz’altro prevalente, se non addirittura esclusiva nella Filosofia dell’aritmetica,

ma che non vale affatto a definire il segno. Benché infatti una rappresentazione

impropria sia tale in quanto indiretta, presentante cioè un contenuto per via di

segni, benché quindi si tratti qui di un rappresentare simbolico, non si possono

però ricondurre i segni all’ambito circoscritto da questo genere di

rappresentazioni, o identificarveli tout court, valendo piuttosto l’alternativa

rimanente, per cui sono piuttosto le rappresentazioni improprie a dover esser

ricondotte al dominio del segno. Acquisizione essenziale, poiché nel ricavare la

fisionomia del simbolo aritmetico all’interno dell’ambito semiotico non identifica

questo con quello, sì che la funzione caratteristica della rappresentazione

impropria non esaurirà il concetto, comunque funzionale, di segno; acquisizione

però non esplicitata nella Filosofia dell’aritmetica, poiché già guadagnata in

Semiotik54, testo che si presenta come un’appendice di quest’opera.

Proprio qui è dato vedere come sia azzardato e approssimativo far

discendere il segno dalla rappresentazione impropria o anche solo identificarli, in

quanto quest’ultima è solo uno dei tipi semiotici ivi descritti; qualora si obliterasse

siffatta distinzione, verrebbe inoltre adulterata la caratterizzazione del segno che si

dà in quest’opera, caratterizzazione che varrà, proprio per la sua genericità, per

tutte le trattazioni successive, sì da svelare uno dei principali momenti di

continuità nella semiotica husserliana. Già agli esordi infatti il segno è

caratterizzato come un concetto di relazione, in virtù cioè del rimando che esso fa

al designato, rinvio che vien inteso - come il segno medesimo che ne dipende -

nella massima generalità, sì da raccogliere nel suo novero indeterminato le più

svariate tipologie semiotiche55. Ciò che conta è che il segno consenta di

riconoscere il designato a partire da sé, che si giunga cioè a questo proprio perché

è stato il segno a mediarne il riconoscimento, e quindi non in virtù di una cieca

associazione56; solo così infatti, soltanto qualora si avverta che proprio quel

contenuto ci ha condotto all’altro, quest’ultimo puo’ dirsi de-signato, puo’ esservi

perciò una relazione segnica. Ma a ben vedere v’è un altro punto che rende

perlomeno problematico identificare segni e rappresentazioni improprie ed è la

maniera in cui si parla di queste ultime nella Filosofia dell’aritmetica: non si dice

54 « Ogni rappresentazione impropria è certamente un segno, ma, viceversa, non ogni segno è una rappresentazione impropria » E. Husserl Semiotica, Spirali, Milano 1984, p. 7155 « Il concetto di segno è precisamente un concetto di relazione e rinvia a un designato »; Ivi, p. 62 56 Ibid.

33

infatti che le rappresentazioni improprie sono segni, bensì che fanno uso di

questi57. Questo però per quanto attiene all’opera d’esordio, perché in Semiotica si

afferma quanto segue:

ogni segno (semplice o composto, esteriore o concettuale, ecc.), che funge da

sostituto della cosa designata, è una rappresentazione impropria58

Non v’è allora una contraddizione, o perlomeno una discrasia in questi due

differenti eppur coevi luoghi della riflessioni husserliana? In primo luogo va

ribadita la non sempre attenta vigilanza terminologica che caratterizza le opere di

questa fase, punto che ci aiuta a dirimere la questione. A tal fine va detto che nelle

battute iniziali di Semiotica viene ripresa l’opposizione tra rappresentazioni

proprie e improprie, in maniera molto simile a quanto avveniva nella Filosofia

dell’aritmetica, con un’aggiunta però particolarmente significativa: la

rappresentazione simbolica è tale in quanto ci serve come simbolo per un’altra

rappresentazione59. A nostro avviso proprio questa aggiunta aiuta a risolvere il

dilemma. Quando Husserl parla di una rappresentazione che ci fornisce un

contenuto per via di simboli pone l’accento sull’atto rappresentativo, che si serve

per l’appunto di ciò che rappresenta come simbolo; questo contenuto dell’atto

rappresentativo, ovvero la rappresentazione, è perciò segno e proprio in

rispondenza alla genericità con cui in quest’opera esso è inteso: le

rappresentazioni improprie sono quindi da considerarsi segni in quanto costituite

da una peculiare relazione a un oggetto designato, la relazione surrogante60. Sotto

questo profilo il segno è perciò una rappresentazione propria che rinvia a un’altra

rappresentazione, qualunque sia poi la maniera in cui un tale rinvio concretamente

si manifesti; come è stato giustamente osservato, il segno non è affatto un

predicato reale, in quanto qualsiasi contenuto di coscienza puo’ divenire segno in

virtù di una prestazione psichica, quella che istituisce la relazione61. Di qui allora

va ricavato il concetto di segno, ovvero ciò che costituisce il tratto distintivo a cui

un’entità deve conformarsi al fine di poter divenire un simbolo, un tratto che

57 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.23558 E. Husserl Semiotica cit., p.7259 Ivi, p.6160 Anche Parpan avverte la difficoltà che abbiamo segnalato, pur limitandosi a dirimere la questione parlando di un senso traslato del termine “segno” riguardo alle rappresentazioni improprie; cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung, cit., p.438 (nota 3)61 D. Münch Intention und Zeichen cit., p.116

34

consiste per l’appunto nel rinvio al designato e che fa sì che il concetto di segno

sia un concetto di relazione. Com’è ovvio, siffatta caratterizzazione definisce

genericamente qualsiasi tipologia segnica, ivi comprese le rappresentazioni

improprie, in quanto ciò che conta è l’attuarsi di un rinvio a partire dal segno

verso il designato, la relazione fra questo e quello, in qualunque modo rinvio e

relazione si concretizzino.

Da quanto sin qui visto, la concrezione fondamentale appare essere quella

surrogante e questo non soltanto per quel che concerne l’aritmetica; ma come

accennavamo già in precedenza non si tratta della maniera esclusiva in cui rinvio e

relazione possono manifestarsi, ve ne sono in verità delle altre, esplicitate da

Husserl in una delle rare classificazioni semiotiche presenti nei suoi scritti, quella

appunto di Semiotica. È necessario allora occuparsene, non soltanto ai fini della

completezza che il nostro tema giustamente richiede, ma anche perché soltanto

dalla sua analisi è possibile comprendere l’esatta fisionomia delle rappresentazioni

improprie, mercé i requisiti necessari alla loro costituzione; del resto, come

vedremo, una siffatta classificazione appare indirizzata proprio alla messa in luce

di questa fondamentale tipologia semiotica.

§ 1.5 – La classificazione di “Semiotica”

La classificazione semiotica qui in esame distingue diverse tipologie

raccogliendole in coppie di opposizioni, rilevate a partire dalle modalità in cui si

articola il rapporto con il designato. La prima fra queste è quella tra segni esteriori

e concettuali62, dove i primi designano l’oggetto estrinsecamente, senza cioè aver

nulla a che fare con il suo concetto, mentre i secondi, in quanto elementi distintivi,

o per meglio dire contrassegni, rimandano all’oggetto in quanto sue

caratterizzazioni – nell’esempio husserliano, le qualità caratteristiche

dell’alluminio possono servire come suoi contrassegni, consentendo di

riconoscere in un corpo sconosciuto un corpo per l’appunto di alluminio63. Questa

prima suddivisione consente innanzitutto di comprendere meglio quella sorta di

generica definizione del segno approntata poco righe prima nel testo, per cui

62 E. Husserl Semiotica cit., pp. 62-63 63 Ivi, p. 62

35

segno di una cosa (di un contenuto in generale) puo’ dunque essere tutto ciò che

la caratterizza, che è adatto a distinguerla dalle altre e in base alla quale, in seguito, ci è

possibile riconoscerla64

Quanto qui detto sembrerebbe infatti restringere il concetto di segno ai

Merkmale, in virtù soprattutto dell’accento posto sulla funzione caratterizzante,

necessaria all’istituirsi del segno, sì che il passaggio al designato si motiverebbe

cum fundamento in re. L’introduzione però dei segni esteriori, per l’appunto non

caratterizzanti, ridimensiona una siffatta restrizione e consente di intendere più

adeguatamente le righe or ora citate: a caratterizzare un contenuto puo’ esser

infatti non soltanto un suo tratto distintivo, bensì anche qualcosa di estrinseco, che

nulla abbia a che fare con le caratteristiche di quel contenuto, a patto che sia in

grado, per via di un uso costante e univoco, di rinviare sempre e soltanto a quel

contenuto, proprio come accade con i segni esteriori65. Le funzioni menzionate

nella citazione su riportata valgono allora a indicare i requisiti necessari affinché

un’entità possa svolgere adeguatamente una funzione segnica, laddove invece

questa si definisce a partire dal concetto di relazione, in cui il discrimine va

riscontrato appunto nella genericità del rapporto rinviante al designato66.

L’insistenza su quelle funzioni si motiva allora a partire dalla prospettiva

husserliana in questa fase, dove l’accento è posto sulla psiche, sulla sua natura e i

suoi limiti, in cui peraltro le questioni semiotiche trovano la loro scaturigine:

queste perciò non sono esaurite da analisi concernenti il concetto di segno e

quanto vi ruota attorno; altrettanto peso viene dato infatti agli aspetti empirici,

pragmatici della questione, alla maniera in cui per l’appunto è possibile per la

64 Ibid.65 In tal senso possiamo convenire con quanto in proposito afferma Dieter Münch, nel suo già citato testo. Egli ritiene infatti che il Merkmal (elemento distintivo) sia il segno prototipico per la riflessione husserliana qui in esame, tanto da affermare l’equivalenza tra esso e il concetto generale di Zeichen, affrettandosi a precisare come però con “Merkmal” non sia affatto da intendersi “Beschaffenheit überhaupt”, cosa che escluderebbe dal novero semiotico i segni esteriori (D. Münch Intention und Zeichen cit. p. 116). 66 Sotto questo aspetto la nostra posizione si distanzia invece da quella di Münch, che vede le funzioni fondamentali del segno proprio nel “distinguere” e nel “(far)riconoscere”. Del resto, gli stessi Merkmale sono tali e quindi segni proprio in virtù di siffatto rapporto e della peculiare maniera in cui lo rendono possibile, come evidenziato nelle righe immediatamente precedenti da Husserl medesimo « Perché il concetto di segno sia possibile…si deve osservare in modo particolare il rapporto tra segno e designato: e in effetti abbiamo sperimentato infinite volte che gli elementi distintivi sensibili-esterni e concettuali sono adatti a volgere i nostri pensieri ai contenuti che li possiedono » (E. Husserl Semiotica cit., p. 62) La posizione husserliana è perciò specificamente semiotica, vista la primarietà assegnata alla funzione rinviante nella costituzione del segno, diversamente da Silvestri che esprime invece dubbi in proposito (F. Silvestri Segni significati intuizioni cit., pp.41-42).

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nostra psiche far uso dei simboli, aspetti che fanno ancor più risaltare il ruolo di

primo piano assegnato in questa fase ai segni e che ritroveremo presenti in altri

luoghi delle nostre analisi. Altro punto di un certo interesse risiede nella

caratterizzazione dei segni esteriori come segni in senso stretto. Con questa

dicitura Husserl, oltre a richiamare indirettamente l’ampiezza con cui è qui inteso

il termine segno, sembra concedere una maggiore pregnanza a quei segni che

nulla hanno in comune con quanto designano, tanto che proprio questi sono i

protagonisti nell’ambito aritmetico così come in quello logico, se non addirittura

dell’intero campo semiotico, come vedremo nel prosieguo delle nostre analisi.

Scorrendo il testo si incontrano le opposizioni fra segni univoci e plurivoci

e tra segni semplici e composti. Emerge qui il tema dell’univocità del segno, la cui

importanza sarà costante in tutta la semiotica husserliana e che in questa fase vale

soprattutto a caratterizzare le rappresentazioni improprie, come si vedrà di seguito

nel testo e come peraltro era già emerso nella Filosofia dell’aritmetica, dove

appunto si manifestava come condizione di possibilità delle rappresentazioni

simboliche67.

Maggiore interesse rivestono invece due altre opposizioni, quella fra segni

diretti e indiretti e tra segni identici ed equivalenti. La prima distingue fra segni

che designano direttamente il loro oggetto – come i nomi propri – e gli altri invece

che ricorrono a mediazioni per giungervi. Mediazioni che consistono in ulteriori

segni appartenenti ovviamente alle altre tipologie, siano essi esteriori, come

accade ad esempio per la matematica con lo sviluppo in cifre delle sue operazioni

algoritmiche, o concettuali, come nel caso dei nomi comuni, in cui il segno

designa per l’appunto un contrassegno, un elemento distintivo dell’oggetto, che

funge quindi da mediatore con il designato68. Nella trattazione dei segni indiretti

emerge poi una distinzione di notevole importanza per gli sviluppi successivi,

quella cioè fra ciò che il segno significa e quanto invece esso designa, dove il

significato risiede per l’appunto nelle mediazioni con cui ci si riferisce al

67 « Se un contenuto non ci viene dato direttamente per quello che è, ma solo in maniera indiretta attraverso dei segni che lo caratterizzano in modo univoco, allora di esso, anziché avere una rappresentazione propria, si ha una rappresentazione simbolica »; E. Husserl Filosofia del’aritmetica cit., p.23568 E. Husserl Semiotica, pp. 64-65. Si veda anche la seguente descrizione del funzionamento dei nomi comuni: « Ogni nome comune è un segno per una rappresentazione generale, e questa è a sua volta un segno per ciascuno degli oggetti che rientrano nel concetto astratto corrispondente », ivi, p.61

37

designato69. Compare, per la prima volta, il concetto di significato di un segno,

che tanta parte avrà nelle Ricerche logiche, ma che qui occupa una posizione

marginale. Al fine di comprendere questo, è necessario introdurre la successiva

opposizione, quella fra segni identici ed equivalenti. Il discrimine che la

costituisce risiede nel modo in cui ci si riferisce a qualcosa, che sarà identico nel

caso dei primi e diverso per i secondi. La differenza, si potrebbe concludere sulla

scorta di quanto osservato nella precedente opposizione, è allora tra segni che

hanno e non hanno il medesimo significato, come è avvenuto nella letteratura

critica dedicata al tema70. Tuttavia bisogna fare attenzione a non cadere in una

facile equivocazione, sovrapponendo gli esiti delle Ricerche logiche alle

conclusioni qui raggiunte in merito ai segni e all’identità o meno del loro

significato. Husserl infatti ammette tra i segni identici le mere ripetizioni ad es. di

un morfema, ma non le parole con cui ciascuna lingua si riferisce al medesimo

oggetto. Lemmi come “re” e rex”, identici qualora si ponesse rilievo solo sul

significato, sono invece equivalenti, in quanto la distinzione non verte soltanto su

di esso, ma anche sull’aspetto esteriore del designante, ovvero sui mezzi tramite

cui avviene la designazione; questo perché, come precisa Husserl, la differenza

nel modo del riferimento è sancita non soltanto dai mezzi concettuali, ma anche

da quelli esteriori, per cui segni esteriori diversi con lo stesso significato sono da

considerarsi equivalenti, valendo nella loro diversità esteriore, sensibile, per lo

stesso oggetto71. Emerge da qui, a nostro avviso, la lateralità della questione del

significato, soprattutto a fronte delle opere successive, in cui la modalità del

riferimento verrà trattata per l’appunto in termini esclusivamente semantici, dando

scarso peso alle differenze fisiche tra entità segniche ai fini della designazione; in

questi testi invece, dove l’accento è posto più sulla mera designazione che sulla

semantica, meglio ancora più sul segno che sul significato, l’aspetto esteriore del

segno ha la sua rilevanza, in quanto anche designare l’oggetto con questa o

quell’entità segnica comporta una differenza nel riferimento, per il banalissimo

motivo che l’una è fisicamente diversa dall’altra72. Ne deriva allora che la

69 Ivi, p. 64. Mediazioni che del resto qui rientrano nel novero degli elementi distintivi concettuali, a loro volta segni, in senso lato come s’è visto, che designano direttamente l’oggetto.70 Cfr. D. Münch Intention und Zeichen, cit. p. 120 e la Nota di Carmine Di Martino all’edizione italiana di Semiotik in E. Husserl Semiotica cit., p. 5771 E. Husserl Semiotica cit. p. 65 72 Le differenze terminologiche fra opere diverse sono in questo caso particolarmente illuminanti. Nelle Ricerche logiche, quando si parla dei segni qui in oggetto, esemplificati anche qui con le parole reciprocamente corrispondenti in lingue diverse (es. “due”, “deux”), si usa l’aggettivo “tautologico”, a sottolineare il fatto che si tratta di segni che dicono appunto la stessa cosa, che

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funzione caratterizzante in via esclusiva il segno è qui il designare, non il

significare; e anche laddove si distingue fra di esse nel novero di una medesima

tipologia, come s’è visto sopra con i segni indiretti, il significare vien comunque

ricondotto alla designazione, allo “stare per”, in quanto gli elementi distintivi che

lo costituiscono sono anch’essi segni73, che non solo designano direttamente ma

sono direttamente designati, tant’è che il significato di un segno (indiretto) sta

proprio in un altro segno, esteriore o concettuale, cui si riferisce come mezzo per

giungere all’oggetto designato74. Laddove invece non vi siano mediazioni,

significare e designazione coincidono, come avviene nei nomi propri, per i quali il

primo sta appunto nel denominare un oggetto determinato75. Il significare di un

segno allora consiste sempre nel designare, o meglio nello stare - direttamente -

per qualcosa76, sia il segno diretto o indiretto: nel primo caso infatti il segno sta

per un oggetto che è al tempo medesimo significato e designato; nel secondo

invece esso sta direttamente per qualcosa che ne costituisce appunto il significato,

hanno cioè il medesimo significato (E. Husserl Logische Untersuchungen, Halle, 1900-1901, trad. it. Ricerche logiche, NET, Milano 1968, Vol. I, p. 313); in Semiotica invece, come s’è visto, si parla di “equivalenza”, a riprova di come non sia il significato a ricoprire il ruolo centrale, bensì il designato. A ciò si aggiunga che nelle Ricerche, come s’è già accennato, la designazione è vista da un profilo squisitamente semantico, per cui a distinguere tra modalità diverse di riferimento sarà soltanto il significato e non più anche, per dirla con Saussure, il significante. La preminenza del segno si mostra qui in maniera particolarmente evidente: difatti anche il suo aspetto sensibile diviene essenziale per la trattazione. Un punto, questo, che emergerà con maggiore chiarezza e pregnanza nel corso di questo capitolo, quando parleremo dei segni surroganti. 73 « Segni e cosa possono essere cioè collegati direttamente o indirettamente con la mediazione di altri segni » E. Husserl Semiotica cit., p. 6474 Che gli elementi distintivi possano costituire, pur anche come segni, il significato, è cosa facilmente accettabile, in quanto appunto si tratta di segni concettuali, nei quali si manifesta una determinazione concettuale dell’oggetto; l’ambito linguistico è in tal caso esemplare, basti pensare al nome comune: questo infatti designa un qualsiasi oggetto per mezzo di certi suoi elementi distintivi concettuali (ivi, p. 65; cfr. anche p.61). Diverso è il caso dei segni esteriori, poiché qui è difficile poter pensare che entità che nulla hanno a che fare col designato possano fungere da significato; ma se si pensa alle catene segniche meramente formali - che tanto spazio hanno in questo periodo, basti pensare alle procedure algoritmiche della matematica - l’impasse non appare insuperabile: « Il segno Z ha il significato di designare direttamente Z 1, questo designa direttamente Z2 ecc. e finalmente Zn designa direttamente G »(ivi pp. 64-65). 75 Ivi, p. 6476 Ci sembra infatti che qui la designazione coincida con lo stare per, in quanto non si designa qualcosa intendendolo in una certa maniera, come avverrà nelle opere successive. Utili riscontri in proposito, ben più espliciti che in Semiotica, si trovano in un testo coevo, appartenente cioè anch’esso alla fase cosiddetta pre-fenomenologica: si tratta del manoscritto K 1 55, tradotto in italiano nella raccolta Logica, psicologia e fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 41-57. Qui il segno viene definito « un contenuto che esercita la funzione particolare di volgere primariamente il nostro rappresentare verso qualcosa d’altro » (ivi, p. 41); dove però il designato non sia presente « il segno esercita per lo più l’importante funzione di procurarlo psichicamente, o almeno di procurare un sostituto che soddisfi il più possibile il nostro interesse del momento »(ivi. p.42). La designazione si mostra qui come lo stare del segno per qualcos’altro, in specie laddove il designato non sia disponibile, sì che Husserl puo’ affermare che non si possono contrapporre le rappresentazioni per mezzo dei segni con le intuizioni, in quanto « non è usuale chiamare il designato un qualcosa rappresentato mediante segni » (Ibid.), appunto perché qui con il segno non s’intende qualcosa, bensì esso sta per il designato.

39

qui però distinto dal designato in quanto mediazione deputata a condurvi e in tal

senso segno (concettuale). A ulteriore riprova v’è quanto Husserl afferma a

proposito delle definizioni, qui circoscritte all’ambito logico-formale e ricondotte

a casi particolari di equivalenze segniche, in cui il significato di un segno esteriore

è espresso da un segno per l’appunto equivalente: nelle definizioni infatti il lato

sinistro dell’eguaglianza è per l’appunto definito da uno o più segni del lato

destro, che si riferiscono al medesimo oggetto in maniera diversa77. Perciò si tratta

di segni equivalenti, in quanto designano la medesima entità, ovvero qui il

medesimo concetto, in maniera diversa78; il fatto poi che le definizioni di una

logica formale vengano ricondotte a equivalenze segniche lascia già intravedere il

ruolo decisivo dei simboli in rapporto a essa. La preminenza assegnata alla

designazione, a cui vien ricondotta la significazione79, si spiega a partire dallo

scarso peso che nella semiotica husserliana qui in esame vien dato ai segni

linguistici, a tutto vantaggio dei simbolismi logico e aritmetico, che non

esprimono un significato o, in termini qui più consoni, un concetto80, in quanto

77 A completamento di quanto detto è necessario richiamare un passo della Filosofia dell’aritmetica, dove Husserl afferma che solo di ciò che è logicamente composto puo’ darsi definizione, sì che l’attività definitoria ha fine laddove ci si trova di fronte a un concetto ultimo, elementare (E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp. 162-63). Si comprende perciò maggiormente ciò che egli stesso dice in Semiotica, parlando di segni definibili e indefinibili (E. Husserl Semiotica cit., p. 65): valendo qui l’identificazione del significato con il concetto si potrà dare definizione di un segno soltanto laddove il suo significato consista in un concetto non elementare, come è il caso di una specie, a differenza del concetto rappresentato dal segno “1”.78 Come afferma Husserl si tratta di un caso particolare di equivalenza, poiché qui il designato non è un oggetto, come nei casi per così dire ordinari, ma un concetto. Nelle definizioni dei segni, o meglio dei concetti per cui essi stanno, si prescinde dalla funzione mediatrice che il concetto stesso, ovvero il significato, compie, ovvero quella funzione che ad esempio nel nome generale consente al segno indiretto, tramite la rappresentazione generale, di riferirsi a tutte le entità che costituiscono l’estensione di questa. Qui infatti l’interesse non è rivolto agli oggetti designati tramite il significato (concetto generale), bensì su questo medesimo, per cui il nome generale diviene qui un segno diretto, perché designa direttamente il proprio oggetto, che è qui il suo significato, il concetto.79 Il significato è ciò per cui il segno direttamente sta, il che non va contro l’idea che si tratti di un concetto, in quanto nel caso dei segni indiretti coincide appunto con l’elemento concettuale cui il segno direttamente si riferisce.80 Che il significato di un segno aritmetico sia un concetto è ripetutamente asserito da Husserl nella sua Filosofia dell’aritmetica, ad esempio nell’Appendice alla prima parte dell’opera, dedicata a un confronto critico con il nominalismo (E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp. 213-220). Per una maggiore chiarificazione su cosa poi qui s’intenda per concetto, rimandiamo alla p. 171 di quest’opera. Nel suo notevolissimo scritto sulla semiotica husserliana Parpan afferma che il segno non puo’ prescindere dal significato per esser tale, ovvero per esplicitare la sua costitutiva funzione designante, poiché è soltanto per via di una tale mediazione che un segno puo’ riferirsi, a prescindere dalle diverse circostanze del suo impiego, al designato. Anche qualora il segno stia non per un oggetto, ma per un concetto – come nel caso dei simboli numerici – v’è comunque una necessaria funzione semantica: qui però, naturalmente, il significato del segno non sarà più il concetto, bensì consisterà nella posizione che il segno occupa nel sistema semiotico di riferimento (Stellungsbedeutung), rigidamente determinata dalle regole costitutive di questo (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp. 39-43). Precisazione, questa, che l’autore riscontra in uno scritto successivo, ovvero negli Entwürfe alla recensione dell’opera di Schröder Vorlesung über die

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deputati piuttosto a sostituirlo, come avremo largamente modo di vedere con le

rappresentazioni improprie.

Sulla scorta di queste riflessioni è inoltre possibile gettar luce sui segni

numerici, ovvero sui concetti simbolici che in precedenza definimmo,

anticipando, segni indiretti. La loro dinamica costituiva rimanda infatti a questa

tipologia: un segno esteriore, ovvero la cifra, designa qui un concetto che a sua

volta rimanda a un contenuto indisponibile. Quel concetto in verità è un segno

concettuale, in quanto per l’appunto si riferisce al contenuto designato perché suo

elemento distintivo, per via cioè della posizione occupata nella serie sistematica

parallela a quella naturale81. Del resto è lo stesso Husserl a sottolineare il ruolo

importantissimo giocato da segni indiretti, univoci ed esteriori per la matematica82

- e aggiungiamo, limitandoci a un semplice accenno: per la logica -, dove va

soprattutto sottolineato il carattere dell’esteriorità, in quanto sono proprio simboli

che nulla hanno a che fare con il designato a essere protagonisti, come vedremo

fra breve occupandoci delle rappresentazioni improprie in Semiotica.

La successiva coppia di opposizioni semiotiche riguarda elementi

propriamente linguistici, dove però, a ulteriore conferma di quanto precede, la

questione del significato è lasciata da parte, a tutto vantaggio della funzione,

centrale e costituente, dello “stare per”. Si tratta infatti della distinzione fra parole

e proposizioni, considerati appunto non in quanto espressivi e significativi come

sarà nelle opere successive – Ricerche logiche in primis – bensì come segni che

stanno rispettivamente per contenuti di rappresentazione e atti psichici, dando

esclusivo risalto nel novero di questi ultimi ai giudizi, siano essi apofantici o

Algebra der Logik pubblicata in Husserliana XXII, ritenendola soltanto implicita nella Filosofia dell’aritmetica, dove prevale l’idea del significato come concetto; a dire il vero però un accenno esplicito in tal senso è contenuto nella già citata Appendice alla parte prima (E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.217)). A queste riflessioni e complessivamente alla posizione che costituiscono si puo’ rimproverare soltanto un punto, però fondamentale: esse sono valide per i simboli aritmetici, ma non per tutto il dominio semiotico. Non tutti i segni infatti necessitano di un significato per esser tali - per esplicitare cioè la funzione designante - sia esso un concetto o la posizione occupata in un sistema di derivazione; basti pensare ai segni esteriori, o a quelli diretti, simili a etichette apposte sull’oggetto designato, in cui per l’appunto significato e oggetto designato coincidono, sì che il primo non è affatto la mediazione necessaria per approdare al secondo, qualunque dei due sensi di significato si voglia qui intendere. Sulle riflessioni di Parpan dovremo comunque tornare in seguito, quando tratteremo delle rappresentazioni improprie.81 Diversa è la posizione di Münch in proposito, per cui i segni per i numeri sarebbero invece concettuali (D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.117-18). A nostro avviso, lo studioso tedesco considera soltanto un aspetto della questione, ovvero il fatto che i segni qui adoperati sono concetti simbolici; va però aggiunto che non sono soltanto gli elementi distintivi a essere all’opera, in quanto vi è anche un’ulteriore designazione simbolica rappresentata dalla cifra, che certo nulla ha a che fare con il numero in sé e che designa per l’appunto il concetto che a sua volta sta per il suo corrispettivo in sé: dinamica questa, come s’è appena visto, tipica dei segni indiretti. 82 E. Husserl Semiotica cit., p.65

41

matematici83. Al proposito, Husserl distingue tra le proposizioni come segni per i

primi ed equazioni, diseguaglianze e quant’altro manifesta i giudizi aritmetici per

i secondi. Distinzione che vale specularmente per l’altra categoria semiotica – si

pensi ai nomi da una parte e ai simboli numerici dall’altra – nella quale però

compare un’ulteriore e importante suddivisione, quella cioè tra segni per contenuti

assoluti e per relazioni84, suddivisione che tornerà nelle Ricerche logiche, dove

però la mutazione di interesse e prospettiva farà in modo che l’accento sia posto

sul problema dei significati e sulla loro dipendenza o indipendenza, oltre a

segnalarsi nell’assenza di qualsiasi cenno alla simbologia matematica con la sua

distinzione fra segni per numeri e per operazioni.

A completare il quadro giunge l’opposizione tra segni formali e materiali.

Quest’ultima si presenta come un approfondimento della distinzione precedente,

quella cioè fra segni per atti e per contenuti, al fine di chiarificare la differenza tra

materia e forma - importantissima in ambito logico-formale - e dove quindi

l’interesse non è rivolto tanto ai segni, quanto ai contenuti da essi rappresentati85.

In proposito Husserl rileva che siffatta distinzione riguarda diverse tipologie di

contenuto nel novero di un giudizio - ovvero relazioni (forma) e fondamenti di

relazione (materia) - e non va quindi ricondotta alla distinzione tra atti e contenuti,

assegnando ai primi tutto ciò che concerne la forma e ai secondi alla materia,

tant’è che i segni utilizzati, ovvero rispettivamente sincategoremi e nomi,

appartengono alla medesima categoria, quella cioè dei segni per contenuti86.

Inoltre si tratta di una distinzione relativa, in quanto anche una relazione, se

rappresentata, puo’ fungere da materia, ovvero da fondamento di un’ulteriore

relazione in un diverso giudizio87; in questo è possibile leggere più che

un’anticipazione di alcuni esiti delle Ricerche logiche, come la distinzione tra

contenuti dipendenti e indipendenti o ancora la differenza tra nomi e giudizi e

l’importanza, in tale contesto, della funzione nominalizzante.

83 Ivi, pp. 65-66. Sarà questa, come vedremo, l’ottica da cui verrà qui riguardato il linguaggio84 Ivi, p. 6685 Tema precipuo di questo approfondimento sono i segni per contenuti, o meglio proprio siffatti contenuti, in quanto « nei segni, atto di giudizio e contenuto giudicato non si distinguono » (ivi, p.70). Con questo non si vuole naturalmente invalidare la distinzione precedente tra segni per atti psichici e segni per contenuti; soltanto si vuole rilevare come nei segni che rappresentano contenuti la distinzione non è tra ciò che sta per un atto e ciò che sta per un contenuto, bensì tra segni per relazioni e per fondamenti di relazioni, cioè tra segni che stanno per contenuti appartenenti a categorie logiche differenti86 Ivi, p. 6787 Per un diverso approccio a questa opposizione cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p. 120 e F. Silvestri Segni, significati, intuizioni, Mimesis, Milano 2010, pp. 46-47

42

§ 1.6 – Segni naturali e artificiali

La distinzione che intendiamo trattare in questo paragrafo fa parte a dire il

vero della classificazione di cui finora ci siamo occupati seguendo la linea

argomentativa del testo husserliano. Si è però deciso di dedicarle uno spazio a sé

stante in virtù della sua particolarità, evidente già solo a scorrere superficialmente

le righe di Semiotik, nelle quali figura trattata per ben due volte e in luoghi di

ampiezza assai diversa. Entrando più nei dettagli ci si accorge di trovarsi di fronte

alle questioni capitali della semiotica husserliana, a quella logica dei segni cui

essa mira88 e alla quale è essenziale la distinzione tra segni naturali e artificiali. La

prima delle trattazioni in merito è per la verità abbastanza breve, così come

accadeva per le altre opposizioni; inoltre non è particolarmente perspicua, in

specie riguardo ai segni naturali89: in proposito infatti non si dà alcuna

caratterizzazione esplicita, il che conduce a ravvisarne ex negativo i caratteri a

partire dalle considerazioni rivolte ai segni artificiali. Da queste emerge una

caratteristica non particolarmente sorprendente, il fatto cioè che si tratta di segni

inventati; meno ovvie sono invece le premesse psicologiche, o per meglio dire gli

scopi, che guidano e rendono – come vedremo – necessaria questa invenzione,

ovvero la rispondenza a intenti conoscitivi, che ne fa degli strumenti al servizio

dei processi cognitivi e dei giudizi in cui si manifestano90. Sulla scorta di tali

considerazioni, è allora possibile ricavare i tratti specifici dei segni naturali: si

tratterà allora e innanzitutto di entità che non necessitano affatto di essere

inventate, già presenti per così dire “in natura”, che fungono da segni senza che vi

sia alcun intento conoscitivo a motivarne l’impiego, così come,

una esteriorizzazione sensibile, per esempio quella che si presenta per il singolo

individuo come segno naturale, puo’ divenire contemporaneamente per un altro individuo

mediatrice della comprensione91

88 Il titolo completo dell’opera del 1890 è infatti Zur Logik der Zeichen (Semiotik)89 Una siffatta mancanza di perspicuità è rivelata anche da Filippo Silvestri in Id. Segni, significati, intuizioni cit., p.57 (nota 98)90 « Con i segni artificiali subentrano, come nuovo momento, l’influsso della volontà guidata da motivi di conoscenza e la capacità di regolare grazie ad esso il corso dell’attività di giudizio conformemente a questi interessi »; E. Husserl Semiotica cit., p. 6691 Ibid.

43

Al fine di comprendere meglio cosa davvero Husserl intenda per segni

naturali è però opportuno tornare alla Filosofia dell’aritmetica, in particolare al

§ 11 del capitolo 12°, dove si tratta dell’origine naturale del sistema numerico.

Viene qui illustrata una sorta di filogenesi dei concetti numerici, a partire dai

primordi dello sviluppo culturale umano per giungere sino al sistema numerico

decimale; in questa ricostruzione un momento centrale è quello in cui gli

individui, al fine di comunicare le molteplicità intuite, si son serviti delle mani,

per via innanzitutto della loro visibilità immediata e poi perché la posizione delle

dita era in grado di fornire immagini sensibili degli insiemi intuitivamente appresi:

ebbero così origine le prime forme di rappresentazione dei numeri, ovvero i

“numeri digitali” (Fingerzahlen)92. Queste simbolizzazioni sono un esempio di

segno naturale, in quanto non introdotte a fini conoscitivi né prodotte

artificialmente, ma per l’appunto fondate su entità presenti in natura. Che sia

dunque il richiamo alla natura nel suo senso più immediato a qualificare un segno

come naturale è confermato ulteriormente dalla constatazione che Husserl fa in

Semiotica riprendendo alla lettera quanto detto nella Filosofia dell’aritmetica

nella maggior parte delle lingue la parola “cinque” ha lo stesso significato di “una

mano”93

Oltre a evidenziare, seppur in maniera piuttosto stringata, in che senso si

parli di segni naturali, questa affermazione mette in luce un aspetto fondamentale

dell’opposizione semiotica che stiamo trattando, ovvero la dipendenza dei segni

artificiali da quelli naturali, nel senso dell’origine che i primi hanno dai secondi.

Un punto che si rivela decisivo nell’economia della semiotica husserliana,

soprattutto a riguardo della tipologia su cui convergono la maggior parte delle

attenzioni husserliane, le rappresentazioni improprie, protagoniste della seconda

trattazione sui segni naturali e artificiali

§ 1.7 - Le rappresentazioni improprie

Nelle pagine che seguono ci occuperemo con una certa dettagliatezza di

questa particolare tipologia semiotica, vista la sua importanza per le riflessioni

husserliane del periodo qui in esame. Si tratterà allora e in primo luogo di dar

92 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.29193 E. Husserl Semiotica cit., p.66

44

conto di una siffatta importanza, di motivarla a partire dallo sfondo costituito dagli

interessi husserliani e di chiarire come s’inserisce nel lungo discorso

sull’opposizione fra segni naturali e artificiali; dovremo inoltre mostrare come la

classificazione di Semiotica sia funzionale se non proprio subordinata

all’introduzione delle rappresentazioni improprie, e quindi cosa a rigore s’intenda

con esse, quale sia il loro statuto e i problemi che solleva la loro semiosi.

Finora, nel parlare di segni naturali e artificiali, ci siamo astenuti dal

prendere in considerazione la relazione semiotica che li riguarda e soprattutto li

costituisce. Questo perché, come già dicevamo seppur a partire da un punto di

vista tutto sommato estrinseco, si tratta di un’opposizione sui generis. A

differenza infatti di quanto accadeva nei casi precedenti, non è qui la peculiarità

della relazione segnica a definire lo statuto degli uni e degli altri, tanto che essa

puo’ determinarsi in maniera diversa senza che la fisionomia complessiva

dell’opposizione ne risenta; inoltre, qualunque sia la natura del rapporto al

designato, questo non vale comunque nemmeno a distinguere fra i membri della

polarizzazione, poiché tanto i segni naturali quanto gli artificiali si differenziano

pur nella medesimezza di un siffatto rapporto. La differenza riguarda piuttosto i

caratteri del loro impiego e intervento nei processi psichici, non quindi la modalità

della designazione. Ciononostante, v’è una modalità che Husserl mostra di

prediligere, quella cioè che definisce le rappresentazioni improprie a cui del resto

l’intero discorso di Semiotik è orientato, ovvero la funzione surrogante. La

relazione all’oggetto, necessaria all’istituirsi della relazione segnica, si rivela

come sostituzione, temporanea o permanente, di questo, possibile però soltanto

nel rispetto di precise condizioni: innanzitutto, l’entità segnica surrogante

dev’essere univoca, in senso rigoroso soprattutto quando si tratta di segni

finalizzati all’uso scientifico; inoltre dev’essere in grado di connotare la cosa,

esteriormente o concettualmente94. Già da qui si puo’ comprendere perché

poc’anzi dicevamo che tutta la classificazione semiotica era in fondo orientata

94 Tratto questo in verità meno caratterizzante dell’univocità, in quanto condizione della relazione segnica in generale e non soltanto quindi delle rappresentazioni improprie. Anche Parpan, nel suo pluricitato testo, riconosce nell’univocità il tratto decisivo ai fini della surrogazione, sottolineandone però gli aspetti eminentemente logici, ovvero relativi agli usi conoscitivi. Il che di per sé è del tutto giusto, a patto però di non limitare l’univocità al senso meramente logico, come egli invece fa. Presa esclusivamente in tal senso infatti, come si vedrà nelle righe successive del nostro testo, essa caratterizza a rigore soltanto i segni artificiali, quando invece le rappresentazioni improprie sono e possono essere anche segni naturali, verificandosi anche qui il rapporto sostitutivo e alle condizioni precedentemente esposte, dove però l’univocità è da intendersi in senso psicologico e non logico (cfr. E. Husserl Semiotica cit., p.72)

45

verso questo tipo di rappresentazioni: per introdurle infatti era necessario

evidenziare tutte le tipologie per poi mostrare quali potessero essere capaci di

fungere appunto come rappresentazioni improprie95. Va poi aggiunto che questa

tipologia non rientra nella classificazione di cui abbiamo dato conto, tant’è che

non è presentata come membro di un’opposizione, né potrebbe esserlo: il polo

opposto infatti non puo’ che essere la rappresentazione propria, quindi non solo

qualcosa che non è segno, ma addirittura quanto per essenza gli si oppone.

Sembrerebbe allora di poter concludere che la rappresentazione impropria

coincida con il concetto di segno in generale, ma Husserl è addirittura esplicito nel

rifiutare questa identificazione:

Ogni rappresentazione impropria è certamente un segno, ma, viceversa, non ogni

segno è una rappresentazione impropria96

Il motivo è da ricercarsi in quanto esposto poc’anzi, ovvero nei caratteri

che definiscono la rappresentazione impropria. Non tutti i segni infatti, come s’è

visto dalla classificazione di Semiotik, svolgono una funzione surrogante, o

meglio ancora, non tutti sono in grado di svolgerla: in proposito si richiede

soprattutto univocità in senso logico. Viceversa, la rappresentazione impropria è

un segno per il suo rapporto con il designato, ovvero per via della funzione di

rinvio che la costituisce. Al fine di un più adeguato chiarimento è opportuno

richiamare qui quanto detto a proposito delle rappresentazioni improprie così

come vengono definite nella Filosofia dell’aritmetica. In quelle pagine si parlava

di rappresentazioni che ricorrono a segni allo scopo di presentare un contenuto,

sostituendosi così alle corrispettive proprie; in Semiotica si specifica allora quali

devono essere i caratteri di questi segni affinché possano assolvere al loro

compito. Ma v’è un altro aspetto, ancora più importante, che emerge da queste

considerazioni ed è la non coincidenza fra dimensione impropria e simbolica (in

senso lato). Non tutti i segni sono infatti rappresentativi, deputati cioè a presentare

dei contenuti in via indiretta: il segno è infatti un concetto di relazione, è tale in

virtù del suo rapporto con il designato e un tale rapporto non si esplica soltanto in

95 « Non ogni segno però ha questa funzione di sostituzione e non ogni segno ne ha la capacità, poiché solo quando il segno è univoco e per se stesso sufficiente a connotare la cosa, sia esteriormente sia anche concettualmente, la cosa è data indirettamente mediante il segno; solo allora il segno puo’ servire a sostituire la cosa » Ibid.96 Ivi, p.71

46

termini rappresentativi, tant’è che i segni possono servire a rendere più facilmente

riconoscibili determinate entità97, oppure come contrassegni della memoria, o

anche per consentire lo scambio reciproco98. Non deve ingannare il fatto che

Husserl parli di “rappresentazioni simboliche o improprie”, perché queste non

esauriscono il dominio dei simboli, non v’è insomma coincidenza tra simbolo e

rappresentazione simbolica; ciò che definisce questa è la funzione sostitutiva,

quindi un peculiare rapporto al designato che vale sì a farne un simbolo, ma non a

consentire una perfetta sovrapposizione con il concetto di segno. A ben vedere

inoltre la funzione sostitutiva non è affatto originaria, bensì successiva, derivata,

discende dalle altre testé richiamate come uno sviluppo dovuto a una progressiva

familiarità con la dimensione simbolica99, punto su cui dovremo ritornare più

avanti.

Quanto qui invece ci interessa è rilevare la natura sui generis della

rappresentazione impropria in ambito semiotico. Come s’è già visto e chiarito, si

tratta di una rappresentazione che presenta un contenuto in maniera indiretta, il

che equivale a dire per mezzo di segni; il punto però è che il contenuto effettivo di

una siffatta rappresentazione non è altro che un segno o un complesso di segni, in

quanto rimanda a un altro contenuto rappresentativo di cui fa le veci: il suo

contenuto è perciò un surrogato100. Poiché i suoi contenuti sono per l’appunto

simboli, stanno per qualcosa d’altro - sì che la genericità della relazione segnica si

esplica come surrogazione -, la rappresentazione è un segno, intendendo per

rappresentazione non l’atto, bensì il suo contenuto; non si tratta poi tanto di

un’altra e nuova tipologia semiotica, in quanto è piuttosto un certo

comportamento dei simboli a essere qui in causa, tant’è che a figurare come

sostituti sono segni appartenenti ad alcuni dei tipi già esposti, a patto che siano in

grado di assolvere a una siffatta funzione. Si comprende così la già citata

definizione di rappresentazione impropria:97 Ivi, p.61 Si pensi ad esempio a quanto raccontato nell’Esodo, dove il sangue d’agnello steso sugli stipiti e l’architrave delle porte degli israeliti vale a distinguere le loro case da quelle degli egiziani, sì che il Signore, riconoscendole, passi oltre e non uccida i primogeniti del popolo eletto. 98 Ivi, p.8799 Ibid.; cfr. anche E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.291-94, dove si chiarisce come i numeri digitali, segni naturali adottati ai fini della comunicazione, siano all’origine della serie sistematica numerica con i suoi concetti simbolici, caratterizzati dalla funzione surrogante100 Quanto qui manca è una chiara distinzione fra contenuto e oggetto della rappresentazione. In seguito Husserl ammetterà di essersi imbattuto in questa distinzione, senza però sapere cosa farsene (E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.201). Un’inutilità dovuta all’impostazione husserliana, prettamente psicologista, dove l’orizzonte è esclusivamente coscienziale, per cui l’interesse va alla maniera in cui per la psiche è possibile accedere a dei contenuti, diretta o indiretta che sia, alla maniera cioè in cui qualcosa puo’ darsi in essa e per essa.

47

ogni segno (semplice o composto, esteriore o concettuale, ecc.), che funge da

sostituto della cosa designata, è una rappresentazione impropria101

Emerge così il decisivo contributo che i segni portano all’attività

rappresentativa, tramite cui si ha accesso ai contenuti: laddove questi risultino

indisponibili “in carne e ossa” nulla è perduto per la conoscenza, in quanto è

possibile un accesso indiretto, per via cioè di simboli che presentandosi come

validi surrogati sono in grado di renderne noti i caratteri. E si comprende perché

Husserl parli, sulla scorta di Brentano, di un “rappresentare improprio”102. Con

l’atto rappresentativo qualcosa è fatto presente come contenuto della

rappresentazione; con il rappresentare improprio ciò non avviene, in quanto il

contenuto della rappresentazione è un succedaneo di quanto si intendeva

rappresentare. Perciò questo è rappresentato in maniera impropria, in quanto non

compare come contenuto della rappresentazione, bensì come correlato

dell’effettivo contenuto di questa, che funge così da surrogato.

Una volta chiarito come si caratterizza la relazione surrogante, si tratta di

illustrare dove e come si attui. Cominciamo intanto col rilevare che diverse sono

le modalità in cui si manifesta, riassumibili in due distinte tipologie, ovvero

surrogazione temporanea e permanente103. Nel primo caso il rapporto di

sostituzione è piuttosto labile poiché l’interesse non va al segno sostituente, non è

su di esso che ci si sofferma, fungendo soltanto da tramite per la produzione della

rispettiva rappresentazione propria; non a caso Husserl dedica pochissime righe a

questa relazione, in quanto appunto non è il segno a occupare una posizione

primaria, servendo piuttosto soltanto da mezzo per la produzione - di natura

psicologico-associativa - di ciò per cui sta104.

101 E. Husserl Semiotica cit., p.72102 Sul rapporto tra Husserl e Brentano in merito alle rappresentazioni improprie cfr. C. Majolino Appunti su Husserl, Brentano e la questione delle rappresentazioni improprie in Filosofia & Linguaggio in Italia 2002 – sez.4, pp.82-92103 E. Husserl Semiotica cit., p.72104 Significativo è il fatto che Husserl, oltre a trattare brevemente la surrogazione temporanea, non parli mai di sostituzione nelle righe che la riguardano, a differenza di quelle successive dedicate alla surrogazione permanente, dove si dice appunto che « le rappresentazioni improprie possono però anche sostituire, come rappresentazioni surroganti, quelle proprie » (Ibid.). Si comprende già da qui che la sostituzione vera e propria è quella permanente, che non mira tanto all’oggetto sostituito quanto a renderne dispensabile la presenza. Il tono poi avversativo della proposizione citata sembra inoltre istituire una sorta di contrasto tra le due tipologie di rappresentazioni improprie, inducendo a pensare che nel primo caso sia, sit venia verbo, “improprio” parlare di un’effettiva sostituzione.

48

Ben diverso è il discorso e l’attenzione dedicata alla sostituzione

permanente, con cui entriamo nel cuore della semiotica husserliana di questo

periodo. Qui infatti l’interesse va al segno, al surrogato e non tanto all’oggetto

sostituito, proprio perché il primo mira a rendere dispensabile la presenza del

secondo, punto questo fondamentale come preciseremo meglio in seguito. Il segno

ha qui la funzione di “stare per” l’oggetto in via definitiva, di evitare il riferimento

a esso, venendo progressivamente ad assumere una posizione di predominanza per

la sua presenza più che per la relazione che istituisce, che va progressivamente

eclissandosi nella nostra coscienza. Husserl tiene inoltre a distinguere due diversi

modi in cui puo’ attuarsi una surrogazione permanente, a seconda cioè della

possibilità o meno che si dia una rappresentazione propria corrispondente.

Nel caso in cui l’oggetto possa esser reso presente, la sostituzione

adempie al compito di facilitare i processi psichici, di semplificarne l’attività,

risponde in altri termini a quel tratto economico del nostro spirito che Husserl

continuamente richiama105. Affiora qui uno degli aspetti maggiormente

caratterizzanti la semiotica husserliana di questo periodo, peraltro già menzionato

poco sopra, ovvero l’importanza del segno per i processi psichici, il loro essere

largamente impropri e per ciò stesso ricorrenti a simboli; la novità sta qui

nell’ampiezza del discorso husserliano, non più limitato all’aritmetica ma

ampliato siano a riguardare lo svolgersi del pensiero, dell’attività pensante

psichicamente intesa. In tal maniera viene per così dire offerta una sorta di genesi

psicologica della semiosi, nella quale è lo stesso pensiero a scoprirsi simbolico in

larghi tratti del suo procedere, la sua natura in altri termini è in gran parte

simbolica perché i processi psichici si svolgono prevalentemente in una

dimensione impropria, dove i concetti veri e propri non sono quasi mai presenti,

trattandosi piuttosto di rappresentazioni approssimative quando non di meri

surrogati106. La semiosi ha insomma origine nella naturalità dei processi psichici,

cosa che spiega con maggiore accuratezza in che senso si parli di segni naturali.

Quanto qui emerso contribuisce a porre ancor più in luce la particolarità

delle rappresentazioni improprie, del loro statuto, già rilevata a proposito della

diversa caratterizzazione che se ne dà in Semiotik e ne La filosofia dell’aritmetica.

Esse infatti non definiscono tanto una categoria semiotica, perché piuttosto sono

le varie tipologie a poterne assumere i tratti: segni univoci in primis, ma poi segni

105 Ivi, p. 76106 Ivi, pp. 73-74

49

concettuali, indiretti, esteriori, manifestantisi in funzione surrogante. Questo

perché la rappresentazione impropria è definita soltanto dalla più generica

modalità di designazione, quella cioè dello “stare per”, che si specifichi in

maniera esteriore o concettuale, diretta o indiretta, semplice o composta. Va poi

aggiunto che in un contesto psicologista, dominato dall’associazionismo, i segni

concettuali e indiretti mostrano una certa preminenza nella dimensione impropria

della coscienza, manifestandosi come un antecedente in senso tanto temporale

quanto condizionale. Ciò è provato dall’insistenza sull’importanza degli elementi

distintivi al fine di una retta surrogazione: un surrogato infatti puo’ adempiere alla

sua funzione solo è in grado di condurre, per via associativa, agli elementi

distintivi dell’oggetto sostituito, presenti anch’essi in funzione surrogante e quindi

come segni concettuali e indiretti. Con questo naturalmente non si vogliono

escludere i segni esteriori dal novero della dimensione impropria, della quale

rappresentano piuttosto la parte più considerevole; soltanto, deve esservi stata

prima (in senso temporale e condizionale) una rappresentazione concomitante

d’un elemento distintivo:

Se si tratta per esempio del concetto di una sfera, insieme alla parola affiora

con la velocità del lampo la rappresentazione di una palla in cui è alla mera forma che si

fa particolarmente attenzione. Questa rappresentazione concomitante, il cui elemento

distintivo rappresenta una grossolana approssimazione al concetto intenzionato e lo

simboleggia in questo modo, puo’ in seguito scomparire lasciando rimanere la semplice

parola; ma il suo affiorare è stato tuttavia sufficiente ad assicurarsi la familiarità con la

cosa. Spesso anche la parola da sola con il giudizio di riconoscimento fulmineamente

riprodotto, puo’ bastare107

Oltre alla rilevanza degli elementi distintivi - nel senso di segni

concettuali - per il naturale decorso dei nostri processi psichici, un punto

particolarmente importante si lascia qui apprezzare, ovvero la marginalità dei

segni linguistici, soprattutto ma non soltanto quando si parla di una semiosi

naturale. Una marginalità dovuta innanzitutto e ovviamente al fatto che si tratta di

segni artificiali; è però anche vero che laddove essi intervengono non assumono

tanto la fisionomia che più li caratterizza, quella cioè di segni espressivi, quanto

piuttosto quella di surrogati, tant’è che la parola più che esprimere un significato

107 Ibid.50

appare qui invece sostituirlo, far le veci del concetto, al fine di economizzare i

processi psichici. Il linguaggio perciò non è affatto al centro della semiotica

husserliana di questo periodo e nel momento in cui se ne parla la prospettiva

adottata mina la sua specificità, assimilandolo a un sistema simbolico

fondamentalmente diverso qual è quello aritmetico, come vedremo meglio a

breve.

V’è però, come accennavamo poc’anzi, un ulteriore tipo di surrogazione

permanente, nella quale la rispettiva rappresentazione propria è impossibile, si

tratti di un’impossibilità soggettiva – i limiti naturali delle nostre capacità

intellettive e rappresentative (si pensi alla rappresentazione propria di un

continente) – oppure oggettiva – contenuti irrappresentabili perché impossibili,

come ad es. il quadrato rotondo. Se si bada allo sfondo di considerazioni e

interessi su cui si staglia la semiotica husserliana, si puo’ dire che essa vi ha la

maggiore rispondenza: l’accesso ai numeri naturali, che costituisce uno dei punti

nodali della riflessione husserliana in questo periodo, è infatti reso possibile

proprio in virtù di siffatti surrogati permanenti. Come s’è visto in precedenza, si

ha qui a che fare con segni indiretti, in quanto l’entità fisica (la mera cifra) sta per

il concetto costruito il quale a sua volta sta per il concetto numerico proprio de

facto sempre indisponibile. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo punto.

L’oggetto designato dalla simbolizzazione impropria infatti, proprio in quanto mai

direttamente presentabile, è per noi accessibile e figurabile solo per via di questa

medesima, ovvero ne abbiamo traccia soltanto tramite la costruzione di concetti

simbolici, puo’ cioè esser reso presente solo indirettamente, impropriamente. In

quel caso però si trattava di un procedimento consapevolmente elaborato e

adottato, a fronte dei limiti del nostro intelletto e dell’impossibilità di proseguire

con metodi più semplici. Nelle pagine di Semiotik il discorso invece è più ampio,

in primis perché non è circoscritto alle problematiche aritmetiche e soprattutto

perché analizza la surrogazione come procedimento naturale della nostra psiche,

all’opera nei suoi processi di comprensione e conoscenza, quindi come elemento

del suo naturale decorso in certe attività. Si pensi ad esempio alla comprensione di

un diario di viaggio: qui ovviamente non abbiamo intuitivamente di fronte i

paesaggi descritti, eppure comprendiamo ciò che vi è scritto, servendoci appunto

di rappresentazioni improprie basate sugli elementi distintivi che possiamo trarre

dal resoconto. In questo caso però la rappresentazione propria corrispondente è in

51

linea di principio possibile, basta semplicemente recarsi nel luogo descritto. Cosa

accade invece laddove questa è impossibile, in termini soggettivi o oggettivi? Vari

sono gli esempi del primo caso, dal concetto di “Africa” a quello di “uomo” in

senso fisiologico e psicologico: in questi casi, come accadeva per la serie dei

numeri naturali, è impossibile una rappresentazione propria, per via della

complessità dei contenuti. Come afferma Husserl

Un complesso estremamente grande di rappresentazioni improprie, coordinato

da giudizi di vario tipo, con la possibilità di un ampliamento illimitato, ma circoscritto da

elementi distintivi caratteristici, costituisce la somma di ciò che il miglior conoscitore di

un tale concetto puo’ tener presente o designare indirettamente come appartenente a

esso108.

Anche qui è all’opera la prospettiva già osservata nelle riflessioni

sull’aritmetica, per la quale la conoscenza è riguardata dal lato prettamente

soggettivo, riguardo cioè alla maniera in cui per un soggetto psichico è possibile

arrivare a conoscere determinati entità e in quale modalità, tenuto conto dei suoi

limiti. Non stupisce allora che ci si trovi di fronte, nei casi or ora menzionati, a

una conoscenza per così dire simbolica, perché fondata in larghissima parte su

rappresentazioni improprie: senza di esse, ben poco potremmo sapere di quei

concetti; contando invece su surrogati concettuali, fondati sui loro elementi

distintivi, possiamo arrivare a conoscerne i caratteri, senza dover ricorrere a ogni

passo all’intuizione e alla capacità della nostra memoria di tener fermi i contenuti

via via intuiti. E si badi, non è che questa sia una sorta di succedaneo della

conoscenza vera e propria, in quanto è piuttosto l’unico tipo di conoscenza

possibile, l’unica maniera in cui possiamo arrivare a sapere quel che sappiamo di

quei concetti, perché a esser contenuto della nostra psiche non potranno mai

essere che loro succedanei.

Anche laddove l’impossibilità è di natura oggettiva si evidenzia una

situazione simile, si tratti di concetti di entità irrappresentabili (es. Dio) o

contraddittorie (es. quadrato rotondo). Husserl tiene però a sottolineare che queste

rappresentazioni si collocano alla distanza massima rispetto a quelle effettive109;

come intendere ciò? In casi come questi i contenuti surroganti non presentano

108 Ivi, p.76109 Ivi, p.77

52

affatto una somiglianza con quanto rappresentano, poiché è impossibile una sua

resa parzialmente intuitiva, anche solo immaginativa, proprio perché appunto si

tratta di entità che come tali si sottraggono a ogni intuizione, che mai potranno

essere suoi contenuti. Del resto, come Husserl medesimo sottolinea, un

ampliamento quantitativo delle capacità intellettuali potrebbe condurre a una

rappresentazione effettiva soltanto delle entità impossibili in senso soggettivo, che

non si sottraggono affatto all’intuizione tout court, ma solo a quella limitata della

nostra psiche; perciò qui i contenuti surroganti possono essere intuizioni

approssimative dei loro correlati - ad esempio immagini -, dotati di un certo grado

di rassomiglianza e quindi più vicini a essi. Nell’altro caso invece, dove le entità

si sottraggono per essenza a una rappresentazione propria, non puo’ esservi alcuna

relazione cum fundamento in re fra sostituto e sostituito ed è per questo che la

distanza fra essi è massima; emerge allora con più decisione una tipologia finora

soltanto sfiorata, quella cioè dei segni linguistici, assimilati agli altri segni

surroganti a detrimento della dimensione notoriamente centrale in proposito,

quella cioè espressiva. Ciò è indice della particolare angolatura dalla quale vien

vista la semiotica in questi testi: l’espressione linguistica dei significati riveste un

ruolo estremamente marginale, in quanto la funzione decisiva non è l’esprimere,

quanto lo “stare per”, che si traduce nella sostituzione, in grado di agevolare i

processi psichici ed estenderne il dominio. Perciò anche laddove le

rappresentazioni improprie surroganti si presentano come parole, espressioni,

segni linguistici, hanno importanza per Husserl soltanto in funzione surrogante e

vengono come sempre analizzate a partire dal loro operare nei processi psichici.

Un esempio in tal senso illuminante è quello dei concetti contraddittori, come

“quadrato rotondo”. Qui Husserl non parla, come farà in seguito, di espressioni

prive di senso, perché l’accento non è posto sulla maniera in cui è possibile

esprimere ciò, bensì di rappresentazioni improprie surroganti entità impossibili,

riconosciute tali per via dell’impossibile compatibilità dei contenuti di

accompagnamento, per cui l’impossibilità non è appurata in termini logico-

grammaticali110, bensì psicologicamente, a partire dai meccanismi psichici

coinvolti nella strutturazione di un’espressione, in un contesto nel quale la

dimensione più prettamente linguistica, quella cioè dell’espressione dei significati,

tende a eclissarsi. Le parole sono perciò importanti non perché espressive, ma in

110 Come avverrà nella Quarta Ricerca, con la distinzione tra espressioni unsinnig e sinnlos. 53

quanto essenziali al fine di dare rappresentanza ai concetti, in specie a quelli

impossibili: solo esse infatti sono in grado di presentarsi in unità, non certo i

contenuti “rappresentati”. La possibilità di figurarsi concetti contraddittori,

formati da entità incompatibili, risiede perciò nelle parole (segni esteriori) non

negli elementi distintivi d’accompagnamento (segni concettuali), è perciò la

autoimponentesi connessione della parole, cui s’affianca la nostra familiarità con

esse, a consentire una rappresentazione impropria di contenuti impossibili111.

Si comprende allora perché Husserl leghi la progressiva estensione e

importanza delle rappresentazioni improprie con lo sviluppo del linguaggio112.

Benché infatti esso non venga considerato complessivamente un sistema di

rappresentazioni improprie, sorgendo al fine di consentire lo scambio reciproco -

sì che i segni linguistici assumono piuttosto l’aspetto di mezzi di comunicazione -,

la funzione surrogante diviene comunque prevalente in virtù della familiarità che

via via si acquisisce con esso113, tanto che le formazioni concettuali più elevate

divengono possibili proprio grazie al linguaggio medesimo, che più di ogni altro

sistema segnico consente lo sviluppo di rappresentazioni surroganti permanenti,

come s’è visto a proposito dei contenuti contraddittori manifestantisi per

l’appunto in parole114. Dove però, ed è bene ribadirlo, esse non esprimono affatto i

concetti, quanto piuttosto li sostituiscono e la familiarità or ora richiamata si

111 Questa spiegazione, implicita in Semiotica, verrà esplicitata in un manoscritto leggermente più tardo, del 1893-94 (cfr. in proposito E. Husserl Logica. Psicologia. Fenomenologia, cit. pp. 47-48; in proposito cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., pp. 161-62). Si nota anche da qui la preminenza assegnata da Husserl ai segni esteriori, sensibili, a dispetto di quelli concettuali, tant’è che la rappresentanza concettuale sembra non poter fare a meno, in virtù della sua astrattezza, del ricorso a entità sensibili quali le parole.112 E. Husserl Semiotica cit., p.77113 Ivi p.87; cfr. F. Silvestri Segni Significati Intuizioni cit., pp. 57-58 114 Oltre ai concetti contraddittori, le parole danno rappresentanza, come s’è visto, anche a entità al di fuori dello spettro rappresentativo, inteso in senso proprio. Tra i vari esempi che Husserl cita, ve n’è uno particolarmente interessante, perché dà traccia dell’influenza brentaniana non soltanto in merito al rappresentare improprio, ma anche per quanto concerne il tema del contenuto di una rappresentazione: stiamo parlando del concetto di “cosa esterna”. Un tale concetto, come egli stesso afferma, è “pensato espressamente come extrapsichico, perciò non rappresentabile”(Ibid.), cosa che rende necessaria la surrogazione permanente. Sembra allora di poter concludere che in questa fase per contenuto di una rappresentazione intuitiva sia da intendersi l’oggetto immanente all’atto, così come avveniva in Brentano, o perlomeno secondo la lettura che Husserl (e non solo lui) ne dà. Alla luce di questo immanentismo psichico si fa ancor più chiara la rilevanza della surrogazione come relazione semiotica: escluso l’accesso diretto a quanto trascende la psiche, sarà soltanto per via di succedanei che se ne potrà aver traccia, cosa che lascia comprendere perché si parli di conoscenza simbolica. Solo successivamente - e partendo proprio da siffatte rappresentazioni che, seppur solo indirettamente, oltrepassano “la soglia della reale immanenza” (in proposito cfr. S. Besoli Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia e fenomenologia cit., pp.17-18) - Husserl non darà più risalto alla surrogazione in campo semiotico, perché i segni diverranno costituenti di intenzioni vuote tendenti al riempimento intuitivo: e questo in virtù dell’emergere del concetto di intenzionalità. Bastino però qui questi semplici accenni, che troveranno ampio sviluppato nei capitoli seguenti.

54

risolve, come per i simboli numerici, in un mero avere a che fare con i surrogati,

ovvero in questo caso con mere parole che stanno per i concetti. Ciò che

garantisce e consente eventualmente di validare e verificare un siffatto procedere

sono meccanismi di natura associativa, riproduttiva, in grado di richiamare il

concetto, anzi a ciò sono sufficienti persino ulteriori surrogati, magari di natura

concettuale più che esteriore, che s’approssimino al concetto, per giunta senza la

necessità di una quanto più stringente approssimazione:

Noi pensiamo di operare con i concetti effettivi. Ma anche se, costretti dalla

riflessione, ci accorgiamo del vero stato delle cose, come quando, divenuti

improvvisamente incerti ripensiamo al significato di una parola, ci accontentiamo, di

regola, di semplici sostituti. Ci bastano dei resti qualsiasi riprodotti e un vivo giudizio di

riconoscimento a essi collegato115

La menzione del significato non deve qui fuorviare, in quanto non ci si

richiama affatto a esso come ciò che è stato inteso con la parola, quasi come se

questa - per esprimersi in termini husserlianamente più tardi - fosse abitata da un

significato che si tratti di riattivare, in quanto per l’appunto non lo esprime, ma è

piuttosto quel che per esso (in quanto concetto) sta, è in altri termini una relazione

di natura sostitutiva a caratterizzare le parole, non l’esprimere, sì che esse per

l’appunto non figurano tanto come espressioni, bensì come rappresentazioni

improprie.

Le considerazioni or ora svolte ci consentono di richiamare e mettere così

meglio a fuoco un altro tratto peculiare della semiosi delle rappresentazioni

improprie, emerso a proposito della sostituzione di rappresentazioni proprie

possibili: ovvero, la tendenza della nostra psiche a economizzare i processi

psichici servendosi di meri segni invece che dei concetti corrispondenti. Anche

115 Ivi, p. 75. Le riflessioni qui riportate si riferiscono in verità al primo genere di rappresentazioni surroganti, quelle cioè sostituenti rappresentazioni proprie possibili, per cui a esser qui riprodotta sarà la rispettiva rappresentazione propria o un qualcosa che le si approssimi. Ma nel caso in cui questo fosse impedito, come avviene per l’altro genere di rappresentazioni surroganti, in quanto riferite a rappresentazioni proprie impossibili, non sarà per l’appunto impossibile richiamare i contenuti? Non si avrà giocoforza a che fare sempre e solo con meri segni? Non esattamente. Benché sia vero che qui il contenuto è necessariamente impresentabile, per cui si ha a che fare con meri surrogati, è però altrettanto vero che non si tratta soltanto di meri segni esteriori, in quanto a essi sono collegati gli elementi distintivi del contenuto surrogato, che consentono un’approssimazione a esso - come nel caso di contenuti impossibili a parte subiecti (si pensi alla rappresentazione di un continente) - o permettono di rilevarne la contraddittorietà – come nel caso delle impossibilità a parte obiecti: qui infatti si sperimenta l’impossibile coesistenza degli elementi distintivi associati alle parole (ivi, p. 77; cfr. anche E. Husserl Logica. Psicologia. Fenomenologia, cit., p. 47).

55

laddove la sostituzione riguardi entità intuitivamente inaccessibili il

comportamento della psiche è il medesimo, ovvero essa si affida ai meri segni

senza riferirsi al contenuto, o meglio al concetto per cui stanno: in altri termini, i

surrogati verranno utilizzati senza badare al loro contenuto, come mere cifre, vi è

insomma lo slittamento da una semiosi indiretta e concettuale - per la quale la

cifra sta per il concetto simbolico che a sua volta si riferisce al contenuto

(indisponibile) - a una meramente esteriore e diretta, in quanto la cifra, il segno

numerico, starà per il concetto simbolico stesso, rappresentato perciò non più

propriamente bensì impropriamente (in quanto cioè sostituito). Va da sé che

questo slittamento e la progressiva prevalenza di un operare meramente simbolico

caratterizza in primis il calcolo aritmetico, dove per l’appunto le operazioni si

svolgono sulle mere cifre; ciò che garantisce a un tale procedimento meccanico

esiti positivi è il parallelismo con cui fin dapprincipio procedono costruzione

simbolica e concettuale, che è poi il tratto caratterizzante del sistema simbolico-

concettuale dei numeri naturali:

Un parallelismo rigoroso vige qui tra il metodo che permette la prosecuzione

della serie dei concetti numerici e il metodo che permette lo prosecuzione dei segni

numerici116

In questa citazione, oltre a ribadirsi la doppia natura del sistema che

garantisce l’accesso ai numeri naturali, si comprende appunto come non vi sia

affatto un plesso unitario rigido e indivisibile tra segno e concetto, cosa che rende

possibile la facilitazione dei processi psichici, in specie matematici, nella maniera

qui di seguito descritta:

Ogni soluzione si risolve chiaramente in una parte concernente il calcolo e in

due parti concettuali: conversione dei pensieri di partenza in segni – calcolo –

conversione dei segni risultanti in pensieri. Nell’ambito dei numeri cardinali, dove la

concezione e la separazione dei concetti (prescindendo naturalmente dai pochi concetti

“propri”) si basa sulla designazione parallela, che è il suo supporto indispensabile, quel

primo passo consiste semplicemente nel fatto che nei complessi dati di volta in volta

composti da concetti e nomi si astrae dai primi e si tengono fermi solo i secondi117

116 E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica cit., p. 282117 Ivi, pp. 303-304

56

La separazione fra segno e concetto risulta dunque non soltanto possibile

ma si manifesta come ciò in cui consiste il calcolo118, o meglio l’intera aritmetica,

poiché tanto questo quanto l’ottenimento dell’intera serie numerica naturale

procedono in prevalenza con meri segni119, sono entrambe attività con segni e non

con concetti120, perlomeno in larga parte del loro decorso e in specie laddove esso

va complicandosi. Il ricorso a meri surrogati inoltre non avviene in virtù di

un’intenzione consapevolmente mirata, ma nello svolgersi naturale dei processi

psichici, meccanicamente, in virtù di quel “tratto economico del nostro spirito” di

cui dovremo occuparci più approfonditamente nel paragrafo seguente. Qui intanto

possiamo già notare come il ricorso progressivo a segni sempre più poveri di

contenuto, che assegna un ruolo di primo piano ai segni esteriori, non riguardi

soltanto il calcolo e più latamente l’ambito aritmetico, in quanto interessa l’intero

pensiero nel suo svolgimento, appunto perché frutto di un suo tratto

caratterizzante qual è quello economico. Basti pensare a quanto si dice delle

rappresentazioni improprie in genere:

se ci siamo sufficientemente familiarizzati con rappresentazioni simboliche

ricche di contenuto….segue immediatamente la loro sostituzione con rappresentazioni più

comode, più povere di contenuto o affatto esterne….corrispondentemente al tratto

economico del nostro spirito121

La prevalenza dei segni esteriori, non a caso definiti “segni in senso

stretto”, si motiva a partire dall’analisi della psiche umana, dallo svolgimento dei

suoi processi, non è perciò frutto di una scelta deliberata, fosse anche sostenuta da

interessi conoscitivi, in quanto attesta un tratto tipico del nostro sviluppo psichico.

E a ben vedere quanto qui detto a proposito dei segni esteriori lascia intravedere

quale sia la prospettiva da cui è riguardata la semiotica in questa fase e che è

all’origine del ruolo di primo piano assegnato ai segni. In un‘indagine indirizzata

in via esclusiva a chiarire la maniera in cui determinati oggetti vengono

118 Ivi, pp. 302-303119 « Tanto nei problemi pratici della denumerazione di insiemi dati, quanto in quelli concernenti la derivazione mediante calcolo di un numero da un altro numero, si puo’ ottenere una soluzione puramente meccanica sostituendo i nomi ai concetti e derivando poi i nomi da nomi, con una procedura del tutto esteriore basata sulla sistematica dei nomi stessi, facendo sì che alla fine scaturiscano dei nomi la cui interpretazione concettuale produce necessariamente il risultato cercato » Ivi, p. 283120 Ivi, p. 284121 E. Husserl Semiotica cit., p.76

57

conosciuti, la cui impronta si svela essere fortemente psicologista in quanto è

guardando ai processi psichici che si guadagna una tale chiarificazione, ci si

imbatte nella dimensione simbolica non come un’appendice estrinseca, bensì

come un tratto caratterizzante la psiche medesima nei suoi processi più elevati; la

semiosi si mostra così consustanziale al pensiero umano, per cui le analisi a essa

rivolte saranno in larga parte di natura psicologica, perché è nella psiche che essa

ha la sua origine, nel suo decorso naturale, cosa che spiega l’importanza attribuita

da Husserl alla distinzione tra segni naturali e artificiali. A motivare il ruolo di

preminenza attribuito ai segni non basta allora la loro centralità nell’aritmetica;

una siffatta centralità difatti rimonta ai tratti generali della nostra psiche, alla sua

costituzione naturale che è il tema precipuo d’indagine, per cui è alla luce

dell’impronta fortemente psicologista delle riflessioni husserliane che si spiega

quella preminenza. S’è visto del resto a quali importantissime funzioni assolvano i

segni se riguardati da questa prospettiva: oltre infatti ad assolvere al compito di

economizzare i processi psichici, i segni concorrono in maniera decisiva ad

estendere l’ambito della conoscenza, in quanto consentono l’accesso a entità

concettuali altrimenti inconcepibili. Si tratta però ora di mostrare come queste

funzioni - soprattutto la seconda - non limitino il loro esercizio alla sfera

matematica, ma riguardino i processi di pensiero più elevati nella loro generalità;

al fine di far questo è necessario innanzitutto mettere meglio in luce la già

ravvisata dimensione impropria della coscienza, approfondendo la distinzione tra

segni naturali e artificiali.

§ 1.8 – Semiosi naturale e artificiale

In precedenza, trattando dei segni naturali, avevamo registrato come

carattere precipuo la naturalità dell’entità segnica, cioè il suo non essere

artificialmente prodotta. Ma si tratta a dire il vero di una connotazione piuttosto

estrinseca, incapace di gettar luce sull’autentica fisionomia e il particolare valore

di una tale tipologia. Il suo tratto decisivo sta invece in una naturalità da intendersi

in maniera ben più profonda e incisiva, ovvero nella consustanzialità di siffatti

segni ai processi psichici nel loro comune decorso. Sarebbe però inopportuno, o

peggio ancora fuorviante, pensare ai segni naturali come una tipologia tra le altre,

definita a partire dalla relazione all’oggetto o dai caratteri fisici che la

contraddistinguono, poiché più che di entità semiotiche specifiche si tratta qui

58

della psiche e dei suoi processi, di come essi de facto avvengono e del ruolo che i

segni, e non una determinata tipologia, rivestono. Questo perché la semiotica non

concerne tanto, e soltanto, un’area scientifica quanto si vuole importante, ma

addirittura lo stesso pensiero nel suo svolgimento e sviluppo, in quanto esso si

scopre per larga parte simbolico, per cui uno studio della dimensione simbolica

coincide in larga misura con un’analisi dei processi psichici e viceversa. In virtù

di queste considerazioni abbiamo deciso di ricorrere al termine “semiosi”

nell’intitolare questo paragrafo dedicato ai segni naturali e artificiali, nonostante la

parola non ricorra affatto nei testi di Husserl, proprio per evidenziare il carattere

sui generis di questa opposizione; un termine a nostro avviso particolarmente

perspicuo poiché non identifica una tipologia ma rimanda alla maniera nella quale

determinate entità assumono la funzione semiotica dello “stare per”, soprattutto

nella concrezione surrogante, maniera che in Husserl non risponde soltanto a

un’intenzione consapevolmente elaborata e mirata, in quanto sono gli stessi

processi psichici a ricorrere naturalmente a surrogati, in specie nell’attività pratica

di giudizio, che ha a suo fondamento le rappresentazioni improprie122. È il

pensiero stesso infatti ad affidarsi a contenuti sostitutivi - più o meno ricchi (come

gli elementi distintivi) o addirittura (e in prevalenza) meramente esteriori -, è nella

sua natura ricorrere a essi piuttosto che ai concetti rappresentati e in maniera del

tutto inconsapevole, per via cioè di un cieco meccanismo naturale che dissimula la

natura simbolica del suo procedere:

Giudicando seguiamo il corso dell’associazione di idee che, in base

all’andamento del nostro interesse, riproduce ora questo ora quel gruppo derivato dal

complesso associativo appartenente al concetto; e i nostri giudizi e ragionamenti, pur

connettendosi a questi rudimenti ora più ricchi ora più poveri, e talvolta, come vedremo, a

segni123, in modo continuo ed esclusivo, si comportano tuttavia come se si fondassero 122 Ivi, p. 78. L’andamento espositivo di Semiotik procede perciò dal semplice al complesso: solo dopo aver analizzato le rappresentazioni improprie, i segni surroganti uti singuli, si procede alla trattazione dei complessi simbolici in cui figurano e che costituiscono, ovvero non soltanto il linguaggio e l’aritmetica, ma anche gli stessi giudizi. In questo sta la differenza centrale fra le due trattazioni dedicate all’opposizione fra segni naturali e artificiali: nella prima si parla di segni semplici, nella seconda di sistemi simbolici123 I “rudimenti” di cui parla Husserl sono ascrivibili alla categoria dei segni concettuali, in quanto elementi distintivi dell’oggetto per cui stanno. La distinzione che qui inavvertitamente(?) si introduce tra rudimenti e segni, più che rilevare una certa oscillazione terminologica, illumina a nostro avviso su un tratto della semiotica husserliana, ovvero la preferenza accordata ai segni esteriori, tanto che è a essi che ci si riferisce quando si parla in via generica di segno, ovvero a entità che nulla hanno a che fare con il concetto del designato. Prevalenza attestata non solo dal “sistema di segni più importante”, ovvero il linguaggio (ivi, p. 92), ma anche dall’aritmetica, dove i numeri naturali sono rappresentati e disponibili in cifre.

59

sempre e ovunque sullo stesso concetto, sul vero e proprio concetto della cosa, e questo

semplicemente perché non ci rendiamo conto che operiamo con surrogati invece che con

il concetto pieno124

Parlare di segni naturali equivale allora a rilevare la natura impropria dei

nostri processi psichici, il loro automatico, meccanico, naturale ricorso e

affidamento a entità surroganti facenti le veci dei concetti sostituiti, fino al punto

di venir assimilate a essi nella pratica del giudizio, che infatti vi opera come se

fossero i concetti medesimi. La semiosi è perciò un tratto consistente del nostro

spirito più che un atteggiamento consapevolmente elaborato, i segni naturali sono

tali in virtù del meccanicismo dei nostri processi psichici, risultando ben diversi

dalle tipologie più sopra esaminate: a definirli non è infatti la peculiarità in cui si

concreta la designazione, tant’è che la funzione surrogante è prevalente ma non

esclusiva e soprattutto non vale a distinguerli dall’altro polo dell’opposizione,

poiché lo stesso vale per i segni artificiali (come vedremo a breve); inoltre, il loro

statuto è tale da rimandare al concetto di segno in generale piuttosto che a una

specifica tipologia, sì che diversi membri delle opposizioni classificate compaiono

come segni naturali (esteriori, concettuali, univoci...)125. Siamo allora in presenza

del punto nevralgico della semiotica husserliana, perché è qui che si scopre la

naturalità della semiosi, la sua genesi nei processi psichici in quanto largamente

impropria è la natura di questi, è il loro naturale decorso a manifestarsi in gran

parte simbolico, soprattutto nella modalità sostitutiva, in virtù di quel tratto

economico del nostro spirito già più volte richiamato e che rappresenta uno dei

matter of fact più caratteristici della nostra psiche. E su questo è opportuno

spendere ora qualche parola.

Le analisi condotte sulle questioni aritmetiche hanno avuto come centro

la psiche umana, tanto per quanto concerne l’origine gnoseologica dei concetti

elementari quanto a riguardo dell’essenza medesima dell’aritmetica: questa infatti

si presenta come somma degli strumenti artificiali volti a superare i limiti del

nostro intelletto, perciò è a partire dalla nostra costituzione psichica e dalle sue

limitazioni che si legittima e si origina. Da queste considerazioni emerge una

visione della matematica, e della scienza in genere, focalizzata soprattutto sul suo

lato operativo, metodologico, relativo cioè alla maniera in cui è possibile 124 Ivi, pp. 78-79125 Come si vede, i segni naturali e artificiali presentano le caratteristiche delle rappresentazioni improprie; non a caso, infatti, queste compaiono all’interno della loro trattazione

60

appropriarsi dei suoi contenuti, una visione perciò che considera le discipline

scientifiche come attività specificamente umane e la conoscenza dal lato

prettamente soggettivo degli atti cognitivi, motivo per cui la dimensione psichica

è il terreno su cui si radicano le analisi husserliane, comprese quelle riguardanti i

segni. Che sia un siffatto sfondo quello su cui si delinea la questione semiotica, è

confermato dalla lettera del testo di Semiotica:

i simboli sono la grande risorsa, mediante la quale i limiti originariamente così

angusti della nostra vita psichica vengono superati. Con i simboli queste imperfezioni

essenziali del nostro intelletto vengono neutralizzate, almeno fino a un certo punto. Per

particolari vie indirette che fanno fare economia a un pensare elevato, essi rendono lo

spirito umano capace di risultati che, direttamente, con un lavoro proprio di conoscenza,

non potrebbe raggiungere. I simboli servono all’economia del lavoro spirituale, come gli

strumenti e le macchine all’economia del lavoro meccanico126

L’aspetto più interessante sta nel fatto che una tale risorsa non è tanto e

soltanto uno stratagemma artatamente introdotto a un certo grado dello sviluppo

umano, al fine del suo progresso, poiché i simboli, o per meglio dire l’attività

simbolica è riscontrata come carattere della nostra costituzione psichica,

perlomeno in larga parte dei suoi processi. Proprio qui si innesta il discorso sul

tratto economico del nostro spirito: la psiche ricorre naturalmente,

meccanicamente, senza che vi sia una consapevole intenzione, a segni via via

sempre più poveri di contenuto e ciò al fine di economizzare i processi più elevati,

di alleggerirli e migliorare così le prestazioni conoscitive. Uno degli esempi più

evidenti è il calcolo numerico, in cui la derivazione di un numero ignoto da uno

noto viene progressivamente perdendo la sua iniziale natura di procedimento

concettuale fino a divenire operazione meramente sensibile, ridotta a una semplice

derivazione di segni da segni sulla base di regole fisse127, e ciò in virtù del

parallelismo tra serie numerica in sé, sistema dei surrogati simbolici e metodo di

designazione di questi. Un tale sviluppo verso una semiosi esteriore è inoltre

naturale, attiene al comportamento della nostra psiche, che tende

costituzionalmente all’alleggerimento dei processi psichici al fine di migliorare le

126 Ivi, pp.70-71127 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.302. Torneremo su questo punto più avanti, occupandoci del concetto husserliano di logica

61

sue prestazioni conoscitive e a fronte dei limiti imposti alle sue capacità: tale è il

tratto economico del nostro spirito.

Considerazioni di questo genere richiamano molto da vicino le posizioni

di autori quali Mach e Avenarius, che prima di Husserl avevano riscontrato un

siffatto principio all’opera nel pensiero umano, in specie sul versante

scientifico128. Mach, segnatamente, riconosce alla scienza uno scopo

essenzialmente economizzante129, per la sua capacità di condensare ad esempio in

formule le regole per la riproduzione di un numero elevatissimo di fatti130,

alleggerendo così i processi psichici per via della sostituzione di un procedere,

husserlianamente, “proprio” - e perciò stesso molto più dispendioso - con uno ben

più semplice ed efficace. Gli accorgimenti economici, peraltro suggeriti dalla

stessa esperienza, si rivelano inoltre utili al fine di completarla ed estendere la

nostra conoscenza; ne sono un esempio le integrazioni che compiamo

inavvertitamente nel comprendere le azioni dei nostri simili131, e ancor più il

principio di causa, che assume i tratti humeani di un artificio mentale

inconsapevolmente formato nei rapporti con l’empiria e svolgente una funzione

economica nella comprensione dei fenomeni132. Avenarius si attesta su posizioni

simili, mettendo però ancor più al centro la natura psichica, o per meglio dire

biologica della funzione economizzante, come mostrato nel suo scritto del 1876

dedicato alla filosofia133. In queste riflessioni si parla del “principio della minima

energia” (kleinsten Kraftmaβes), che rende possibile l’adattamento degli individui

all’ambiente circostante regolando l’energia necessaria allo svolgimento dei

processi di pensiero nel senso della massima efficacia, ovvero scegliendo la

soluzione che garantisce il miglior risultato a fronte di un dispendio quanto

128 Solo nei Prolegomeni a una logica pura però una tale convergenza verrà esplicitamente riconosciuta. Un intero capitolo - il IX - è infatti qui dedicato al tema in questione, per quanto ricalibrato in senso parzialmente critico alla luce della prospettiva della “logica pura”; cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.201-19; in particolare la nota 11 chiarisce come ai tempi della Filosofia dell’aritmetica il principio economico, di cui trattano Mach e Avenarius, fosse stato adeguatamente riconosciuto 129 E. Mach Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt, Brockhaus, Leipzig 1883 (trad. it. E. Mach La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p.470) 130 Ivi, p.473131 « Quando alle azioni degli altri uomini da noi percepite aggiungiamo nel nostro pensiero sensazioni e idee non percepibili, ma simili alle nostre, la rappresentazione che ne risulta ha un valore economico, perché rende l’esperienza intellegibile, cioè la completa e la risparmia »; ivi, p.478 132 Ivi, pp.472-73133 R. Avenarius Philosophie als Denken der Welt gemäβ dem Prinzip des kleinsten Kraftmaβes. Prolegomena zu einer Kritik der reinen Erfahrung, Zweite unveränderte Auflage, Berlin 1903

62

possibile minimo della suddetta energia134. Un siffatto principio pretende di essere

il fondamento del pensiero teoretico, soprattutto della sua funzione centrale,

l’appercepire: nella determinazione di rappresentazioni ignote si procede infatti in

senso economico, come mostrato dall’inclinazione a elaborare sistemi in grado di

ordinare molteplici rappresentazioni sulla base di pochi elementi distintivi o dalla

tendenza a ricorrere nei nostri giudizi sulle cose a rappresentazioni derivanti

dall’abitudine135. Culmine dell’indagine di Avenarius sono poi i concetti generali,

anch’essi maturati a partire dal “principio della minima energia”: la sussunzione

di rappresentazioni sotto di essi non soltanto alleggerisce le prestazioni psichiche,

ma consente anche un accrescimento del contenuto, grazie alla determinazione del

particolare attraverso il generale. La comprensione stessa perciò, proprio in

quanto riconduzione del particolare al generale, si motiva a partire dalle esigenze

di adattamento dell’individuo, in quanto è il principio della minima energia a

essere all’origine di una siffatta sussunzione; si comprende allora perché

Avenarius consideri la filosofia come pensiero, comprensione del mondo in

conformità al principio della minima energia.

Le considerazioni husserliane attorno alla genesi e all’importanza della

funzione economizzante convergono con quelle svolte dai due pensatori. S’è visto

infatti come un siffatto tratto del nostro spirito emerga a fronte della finitezza

delle capacità umane, si tratti della limitata energia intellettiva disponibile per i

processi di pensiero136 o più in generale dei limiti del nostro intelletto. La sua

importanza è poi riconosciuta soprattutto in relazione ai processi intellettivi

superiori, al pensiero scientifico, a cui consente una maggiore efficacia nelle

prestazioni. Mentre però in Mach e soprattutto in Avenarius un siffatto principio è

considerato alla luce dell’evoluzione umana e della sua costituzione finalistica,

ovvero del suo adattamento all’ambiente, in Husserl, benché si segnali la presenza

di considerazioni del genere137, non è questa la prospettiva che prevale: l’ambito in

tal senso privilegiato è quello psichico, non quello biologico, e psicologiche sono

134 Ivi, p.3 e pp.11-12135 Ivi, pp.15-18136 « Se l’energia che è a disposizione dell’anima per lo sviluppo delle rappresentazioni fosse infinita, allora le potrebbe risultare davvero del tutto indifferente quanta di questa inesauribile quantità essa abbia sprecato – tutt’al più verrebbe in questione soltanto il dispendio di tempo a ciò necessario. Poiché però questa energia è in quantità finita, dobbiamo dunque attenderci che l’anima si sforzerà di compiere il processo appercettivo in maniera quanto più possibile finalistica, cioè con il dispendio di energia relativamente minore e corrispettivamente con il risultato relativamente maggiore »; ivi, p. 13 (trad. nostra). Cfr. anche E. Mach La meccanica nel suo sviluppo storico-critico cit., p.475137 Ad esempio, l’intero § 11 del capitolo 12^ della Filosofia dell’aritmetica

63

le analisi a esso dedicate. Un tale taglio gli consente di indirizzare le sue analisi

alla manifestazione più importante della funzione economizzante, quella che più

da presso riguarda i processi intellettivi e in generale lo sviluppo intellettivo

umano, ovvero la semiosi, il naturale ricorso a segni. Benché anche in Mach non

sia assente la messa in rilievo dei simboli come artifici economici - dal linguaggio

considerato soprattutto in funzione sostitutiva delle esperienze fino alla

riconosciuta importanza del simbolismo matematico e algebrico138 - è in Husserl

che emerge il loro ruolo centrale per l’economia del pensiero, proprio perché è

esclusivamente come semiosi, specie in chiave surrogante, che questo tratto si

manifesta nella psiche. È dunque alla luce dell’approccio psicologista che si

comprende la posizione privilegiata della semiotica in questa fase: le analisi

rivolte alla psiche rivelano infatti il suo naturale ricorso a segni in funzione

economizzante, per cui se da un lato la semiosi si rivela naturale in quanto fondata

nella nostra costituzione psichica, dall’altro è proprio la semiosi il luogo in cui si

mostra un carattere fondamentale della psiche medesima quale appunto il suo

tratto economico. Husserl perciò circoscrive la funzione economica al solo lato

semiotico perché solo questo è dato trovare nelle analisi dedicate alla psiche, il

principio economico non si dimostra affatto origine delle categorie dell’intelletto

(Mach) né fondamento dell’appercezione (Avenarius), rivelandosi comunque

essenziale al pensiero, soprattutto nei suoi gradi più elevati, proprio in virtù

dell’aspetto semiotico in cui si manifesta.

Al dato di fatto rappresentato dalla funzione economizzante e dal suo

operare semiotico se ne aggiunge infatti un altro ancor più decisivo e importante,

ovvero gli esiti prevalentemente positivi a cui approdano i processi simbolici, il

loro condurre in media e in prevalenza alla verità, a risultati giusti, pur

avvalendosi di meri surrogati139. A Husserl però non interessa spiegarne il perché,

risalire cioè dal dato di fatto alla sua spiegazione metafisica, rimontando a principi

che ne motivino la genesi (come ad esempio la saggezza della natura); quanto egli

vuol fare è invece operare analisi descrittive che illustrino come, in che modo

siffatti processi conducano alla verità, in un contesto dominato naturalmente da

leggi psicologiche. Sono infatti meccanismi di tipo associativo-riproduttivo a

essere qui dominanti:

138 E. Mach La meccanica nel suo sviluppo storico-critico cit., pp.470, 474-76139 Ivi, pp. 80-81

64

Ora, se effettivamente abbiamo compiuto spesso dei ragionamenti in una forma

determinata, e il loro tipo sistematico è facilmente afferrabile, questo tipo si imprimerà

nella memoria e, di conseguenza, in seguito, anche soltanto un sistema di premesse ad

esso conforme potrà essere sufficiente per riprodurre la proposizione conclusiva140

La semiosi è dunque fondata su e garantita da meccanismi psichici di tipo

associativo, è l’associazionismo a validarla e a renderla possibile, oltretutto per

via meccanica, senza che ve ne sia consapevolezza alcuna, in virtù del semplice

procedere dei meccanismi psichici che la qualifica come “naturale”. Anche qui è

all’opera il principio di economia, il tratto economico del nostro spirito nel suo

aspetto squisitamente semiotico: la raggiunta familiarità con una certa tipologia di

ragionamento fa sì che la psiche agisca con meri simboli alleggerendo così la sua

attività. Una tale illustrazione non è però ancora sufficiente a far capire perché i

processi simbolici conducano in prevalenza a risultati giusti, in quanto si limita a

mostrare in che modo e su quali basi la semiosi si genera e agisce141 senza però

chiarire quali criteri sovrintendano alla bontà dei suoi esiti.

Ed è a questo punto che interviene la semiosi artificiale. Motivare la

validità del procedimento naturale simbolico equivale infatti a elaborarne uno

parallelo a ciò consapevolmente mirato, che getti luce sulle esigenze

implicitamente soddisfatte dal meccanismo naturale; un siffatto procedimento

consiste in un sistema di segni, dove però questi ultimi vengono consapevolmente

escogitati e introdotti, per di più a fini conoscitivi, caratterizzandosi perciò come

artificiali142. I segni, o meglio i sistemi simbolici artificiali, sono tali non soltanto

in virtù del carattere immediatamente più evidente - ovvero il loro essere

inventati, escogitati -, ma soprattutto perché questo aspetto consente loro di

140 Ivi, pp. 83-84141 L’approccio psicologico alle questioni semiotiche (e non solo), tipico di questa fase pre-fenomenologica, si traduce in una considerazione genetica delle medesime, che riconduce cioè alla loro origine nella psiche. I modi di procedere simbolici, impropri, vengono infatti considerati a partire dalla loro genesi da quelli propri, precisamente “nella forma di semplificazioni più comode” (ivi, p. 83). La naturalità della semiosi è perciò riscontrata e analizzata sulla scorta di considerazioni genetiche, e ciò non vale soltanto per i suoi sviluppi più articolati, ma anche per gli elementi più semplici, come le rappresentazioni improprie: la priorità infatti spetta sempre al rappresentare proprio, tanto nel caso più ovvio delle rappresentazioni surroganti le corrispettive proprie, quanto in quello delle surrogazioni permanenti, che pur non rimandando a una priore rappresentazione propria, possono sorgere però soltanto a un certo ed elevato grado di sviluppo dello spirito umano, quando cioè si è raggiunta una profonda familiarità con l’equivalenza pratica tra elementi sostituenti e sostituiti (ivi, p. 77) 142 Ivi, p. 66: « Con i segni artificiali subentrano, come nuovo momento, l’influsso della volontà guidata da motivi di conoscenza e la capacità di regolare grazie a esso il corso dell’attività di giudizio conformemente a questi interessi »; definizione questa che ricorre pressoché identica nella seconda trattazione dedicata all’opposizione tra segni naturali e artificiali (ivi, p. 87)

65

adempiere a un compito fondamentale, quello cioè di illustrare, validare e in tal

modo garantire il retto funzionamento dei processi psichici - meccanismi

simbolici naturali - nella bontà dei loro esiti: è infatti solo un processo simbolico

artificiale a poter far questo, in quanto per l’appunto costruito al fine di render

possibile non soltanto la verità – cui era già sufficiente il meccanismo naturale –

ma la sua conoscenza, facendo comprendere perché un certo meccanismo conduca

a risultati giusti, a quali condizioni. Nel dettaglio, è l’univocità a rivelarsi qui

decisiva, in primis dei segni e poi nella determinatezza del ragionamento mediante

le premesse143 e questo suo ruolo condizionante lo si registra soltanto a partire dal

procedimento simbolico artificiale, nella costruzione e funzionamento del quale

l’univocità è indispensabile: è allora solo a prezzo di un’univocità

tendenzialmente presente che i processi simbolici naturali conducono alla verità,

ovvero soltanto in virtù del provvido matter of fact per cui i meccanismi

riproduttivi poc’anzi segnalati operano in media in senso univoco144.

L’opposizione tra segni naturali e artificiali mostra anche da qui il suo statuto sui

generis, poiché i suoi due poli non solo presentano un legame più stretto che in

tutte le altre coppie semiotiche, ma l’uno si rivela necessario all’altro: è infatti a

partire dalla semiosi naturale che sorge quella artificiale, come s’è visto in questo

paragrafo e come vedremo più accuratamente nel prossimo; ma al tempo

medesimo è solo in virtù dei sistemi simbolici artificiali che puo’ esser mostrato il

retto funzionamento di quello naturale, sì che inoltre questo possa esser assicurato

da eventuali e sempre possibili errori e, dove risulti necessario, venire corretto145.

Ma a ben vedere i segni artificiali sono comunque subalterni a quelli

naturali, tant’è che questi ne sono la condizione: e ciò non soltanto perché

l’introduzione dei primi è in parte finalizzata a render comprensibile e assicurare

il funzionamento dei secondi, ma soprattutto in quanto, come Husserl stesso

afferma, è nei procedimenti naturali che risiede l’origine di quelli artificiali.

143 Ivi, p. 85144 « Quel che facciamo in questo modo per motivi di conoscenza lo fa il meccanismo di riproduzione per cieca causalità…L’univocità dell’espressione linguistica e la determinatezza univoca del ragionamento mediante le premesse, sia dal lato psichico, sia da quello simbolico, sono le condizioni necessarie e sufficienti tanto per il procedimento meccanico cieco che per il procedimento meccanico logico » (Ibid.). Il fatto che qui il procedimento parallelo a quello naturale venga definito meccanico non toglie nulla al suo essere artificiale, in quanto per l’appunto escogitato in base a interessi cognitivi, quale quello di far comprendere come e perché si arriva alla verità. Semmai la meccanicità che esso progressivamente manifesta testimonia nuovamente il tratto economico del nostro spirito nel suo carattere squisitamente semiotico, ovvero nel trapasso da una semiosi con segni concettuali a una con segni esteriori.145 Ivi, p. 87

66

Questi ultimi infatti non ricalcano soltanto, per quanto con maggiore perspicuità,

le orme dei procedimenti naturali, al fine di comprenderli e valutarli, non si

limitano perciò a render sicura la conoscenza, poiché riescono inoltre a estenderla,

consentendo l’acquisizione di verità, di risultati inaccessibili per la semiosi

naturale oltre che indisponibili a un rappresentare proprio. Qui come altrove

Husserl ha presente il campo aritmetico con le sue problematiche, più in

particolare i procedimenti algoritmici, costituiti da segni artificiali in grado di

estendere il campo delle nostre conoscenze, come s’è visto a proposito del sistema

dei numeri naturali con i suoi concetti simbolici. Tutta la riflessione semiotica

husserliana del resto ha come sfondo ed è orientata dalle questioni del numero e

del calcolo, ed è con i segni artificiali che si giunge al punto decisivo, come

mostrato dalla già menzionata definizione dell’aritmetica:

L’aritmetica…non è in effetti che una somma di strumenti artificiali volti a

superare le insufficienze essenziali del nostro intelletto146

Ora siamo in grado di comprendere meglio cosa s’intenda qui per

strumenti artificiali, trattandosi per l’appunto dei segni artificiali con la loro

peculiare semiosi, nella quale a esser decisiva non è soltanto la natura di prodotti

dei suoi simboli, ma soprattutto l’uso che di essi vien fatto, improntato da interessi

conoscitivi, consapevolmente indirizzato all’acquisizione di determinati concetti,

al conseguimento di nuove verità. Con questo però non è che la semiosi naturale

venga tagliata fuori, anche perché, per ammissione dello stesso Husserl, le

medesime leggi naturali sono alla base dei segni naturali e artificiali147, cosa di per

sé abbastanza ovvia, in quanto entrambi sono all’opera nei processi di pensiero e

quindi rispondono alla sua legalità psichica. Il punto però è che una siffatta

legalità determina l’aritmetica stessa, che non si configura affatto come un sistema

ordinato di segni artificiali frutto esclusivo di una semiosi altrettanto artificiale,

come “il risultato di un’intenzione che preveda la meta”148: l’artificialità attiene

qui infatti, così come per il linguaggio, al carattere di invenzioni dei singoli segni,

non ai sistemi cui danno origine. In altri termini, si è di fronte a segni artificiali

che una volta introdotti rimangono coinvolti in una semiosi di tipo naturale, in

quanto la formazione dell’aritmetica e del linguaggio, con le complesse e 146 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 234147 E. Husserl Semiotica cit., p. 66148 Ivi, p. 89

67

articolate strutture a cui conduce, è frutto di “cieche interazioni di leggi di natura”

quali sono quelle della nostra psiche149, non di un preciso piano preordinato e

ispirato da interessi conoscitivi. La dipendenza dei segni artificiali dalla semiosi

naturale è allora ancor più fortemente ribadita, poiché non soltanto essi

rispondono nel loro operare alle leggi psichiche naturali, ma sono queste stesse nel

loro meccanico e automatico decorso a dar vita a complessi sistemi di segni

artificiali quali appunto quelli aritmetico e linguistico. Dove l’artificialità però non

sta affatto nei caratteri emersi a proposito della sua definizione – ovvero l’operare

consapevole conforme a fini conoscitivi – bensì nella natura delle entità

semiotiche, nel loro essere invenzioni, prodotti; in entrambi i casi si è perciò di

fronte a un misto tra artificio e natura.

Tutto questo consente di gettar definitivamente luce su come vada inteso

il tema dell’artificialità nelle riflessioni semiotiche husserliane: ovvero, sempre in

rapporto oppositivo a ciò che è naturale, che si tratti della genesi (prodotto e non

entità naturale) o dell’impiego dell’entità segnica (consapevole laddove l’altro è

cieco)150, sì che anche da questo lato si riscontra la dipendenza più volte

richiamata. Un segno artificiale è perciò tale innanzitutto perché inventato, in

quanto prodotto consapevolmente per certi scopi, che siano comunicativi o

scientifici; ed è proprio il suo ovvio carattere di invenzione a esser determinante,

in quanto, come s’è visto, la consapevolezza nel suo uso puo’ venire a mancare

nel momento in cui diviene possesso dei processi psichici, dove le interazioni in

cui è coinvolto sono per l’appunto cieche151. Emblematico in tal senso è quanto si

dice a proposito del linguaggio e dei suoi sviluppi. Benché i segni che lo

costituiscono siano stati inventati - allo scopo di manifestare eventi interiori e

permettere così la comunicazione - e siano perciò da considerarsi artificiali, la sua

struttura grammaticale è frutto di cieche leggi di natura con essi operanti, è il

risultato di un meccanismo psichico naturale152, da cui consegue che la validità 149 Ibid.150 In questo caso l’artificialità sta in un atteggiamento che non è quello naturale in cui procedono i processi psichici, in quanto questi sono oggetto d’osservazione a fini conoscitivi, cosa che richiama, mutatis mutandis, la dichiarata innaturalezza dell’atteggiamento fenomenologico.151 In tal senso ci è sembrato opportuno distinguere fra segno e semiosi artificiale, al fine di evidenziare nel primo caso l’aspetto genetico, mentre nel secondo il carattere operativo del segno: in tal maniera si è potuto poc’anzi parlare di una semiosi naturale con segni artificiali per descrivere i sistemi aritmetico e linguistico nel loro carattere misto, cosa che sarebbe risultata contraddittoria attenendosi alla mera definizione di segni artificiali presentata da Husserl, incentrata com’è sull’uso consapevole dei segni a carattere conoscitivo152 Ibid. Va detto però che Husserl non fornisce spiegazioni sull’effettivo operare di questo meccanismo, sulla maniera in cui si origina effettivamente il linguaggio con la sua articolata struttura.

68

della grammatica discende dalla legalità dei processi psichici, sì che le condizioni

della sensatezza delle nostre espressioni linguistiche rimontano a matters of fact di

natura psichica153.

Ma il punto centrale delle riflessioni husserliane attorno alla naturalità

della semiosi non sta però nell’espressività linguistica, quanto piuttosto nei

processi deduttivi, analizzando i quali si scopre come la funzione surrogante non

sia affatto un artificio consapevolmente escogitato al fine di introdurre un certo

tipo di segni, ma un tratto essenziale della psiche umana. Quando Husserl parla di

processi simbolici naturali è ai procedimenti deduttivi che intende riferirsi, ai

processi di giudizio, è in questi che emerge con maggiore evidenza il “tratto

economico del nostro spirito”, consistente per l’appunto nel ricorso meccanico,

automatico, involontario e perciò stesso naturale a meri surrogati, siano essi

naturali o artificiali.

In tal maniera sembrerebbe istituirsi, all’interno della semiosi naturale e

nel complesso in tutta la semiotica husserliana, una sorta di opposizione superiore

inglobante le diverse tipologie segniche - ivi comprese naturale e artificiale -,

ovvero quella fra segni intesi come contrassegni - come appoggi o sostegni per le

nostre attività psichiche (ad esempio quelli espressivi) - e segni fungenti da

surrogati154. Benché sia una distinzione effettivamente desumibile dalle analisi che

abbiamo affrontato, è però vero che sarebbe inopportuno intenderla nei termini

testé esposti, poiché i suoi elementi vengono riguardati come due momenti distinti

e successivi di un medesimo sviluppo e non come tipologie somme atte a dividere

l’intero dominio semiotico. Si tratta, in altri termini, di un’opposizione dinamica e

non statica, se vista dall’angolatura che qui Husserl predilige, a partire cioè dal

ruolo dei segni nel normale decorso dei processi psichici, perché scandisce lo

sviluppo per così dire naturale della semiosi. Tutto ciò a nostro avviso emerge

chiaramente osservando insieme le due diverse trattazioni dedicate

all’opposizione centrale nella classificazione husserliana, quella cioè fra segni

naturali e artificiali. Nella prima questa viene presentata a partire dal concetto

generico di segno, rilevando come sia da una naturale tendenza a servirsi di segni

153 Ben diversamente da quanto accadrà nella Quarta e Sesta Ricerca con la grammatica puramente logica, dove la scoperta della dimensione ideale impedisce di ricondurre la validità delle forme espressive a meri matters of fact154 A una siffatta conclusione giunge Parpan, parlando di un distinzione tra stellvertrenden e nicht-stellvertrenden Zeichen, dove quest’ultimi si configurano per l’appunto come Stützzeichen, tra i quali l’esempio maggiormente prominente è proprio quello degli Ausdruckszeichen; cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p. 33.

69

che ne vengono poi escogitati e introdotti altri per ciò stesso artificiali155. Con la

seconda trattazione il discorso viene al tempo medesimo estendendosi (in

ampiezza) e specificandosi (nei contenuti), in quanto l’opposizione viene

riguardata considerando una peculiare relazione semiotica, quella cioè surrogante

- solo accennata in precedenza - che definisce una determinata tipologia segnica,

le rappresentazioni improprie. Ciò che motiva una siffatta particolarizzazione è il

ruolo centrale che una tale tipologia riveste per la scienza, o meglio ancora per il

pensiero scientifico: nelle deduzioni, nei processi di giudizio, è infatti

progressivamente predominante la componente simbolica, in forza di fattori

psicologici caratterizzanti la nostra psiche - quali l’associazionismo e

l’abitudine -, in virtù dei quali avviene un naturale e progressivo trapasso dalla

dimensione propria a quella impropria dei ragionamenti. Ciò che accade è un

progressivo affidamento dei nostri processi psichici, del nostro pensiero, a meri

segni surroganti, in prima istanza concettuali ma poi prevalentemente esteriori,

quali appunto lettere, parole, proposizioni; segni come si vede artificiali, perché

appunto escogitati, anche se non ai fini destinati a divenire dominanti, poiché la

loro introduzione risponde all’intento di servirsene come sostegni per la memoria,

o come mezzi comunicativi. Risulta allora che l’opposizione fra contrassegni e

surrogati va vista all’interno di un’evoluzione regolata dai nostri naturali

meccanismi psichici, dove il tratto economico del nostro spirito agisce in maniera

tale da servirsi di segni introdotti originariamente in qualità sostegni - e quindi

accompagnati dal designato - via via come meri surrogati156 e per di più in

direzione di una sempre maggiore semplicità, come mostrato dalla progressiva

prevalenza dei segni esteriori rispetto a quelli concettuali. Un procedere cieco, del

tutto naturale, automatico e inconsapevole al punto da non lasciar riconoscere la

sua natura simbolica, corroborato in ciò dal carattere provvido della sua

meccanicità, prevalentemente orientata al vero. Parlare di segni naturali e

artificiali equivale allora a sottolineare da un lato la loro origine, dall’altro la

155 Osserva infatti Husserl che in molte culture la parola “cinque” ha lo stesso significato di “una mano” (E. Husserl Semiotica cit., p.66)156 Un discorso simile riguarda a nostro avviso il linguaggio. I segni vengono qui prodotti e introdotti come mezzi comunicativi, per divenir poi, progressivamente per via dei meccanismi psichici, surrogati, sì che si è di fronte a un misto di artificio e natura, dove il primo aspetto riguarda il segno e il secondo la sua semiosi( ivi, p. 87). Husserl ritiene perciò che la stessa grammatica sia una struttura naturalmente prodottasi, frutto di cieche leggi di natura (ivi, p. 89), da cui consegue che anche il linguaggio, fin nelle sua struttura, sia definito in prevalenza dalla funzione surrogante.

70

natura dei processi in cui agiscono e operano157, aspetto questo per il quale ci

siamo serviti del termine “semiosi”, al fine di evidenziare la dimensione operativa.

Riguardo alla semiosi, in specie naturale, v’è però da sottolineare ancora

un aspetto, che si rivelerà fondamentale per le nostre analisi. S’è appena visto il

suo carattere improprio, il suo ricorso a simboli – naturali ma soprattutto artificiali

– surroganti, a rappresentazioni improprie per l’appunto, decisamente povere in

quanto prevalentemente ascrivibili alla categoria dei segni esteriori; ebbene, un

tale tratto avvicina notevolmente il pensiero con i suoi processi psichici a un

calcolo. L’affidamento progressivamente esclusivo a meri surrogati fa sì infatti

che i ragionamenti, i processi di giudizio a carattere deduttivo, si assimilino a

operazioni con segni, a derivazioni segniche158, il che richiama da vicino la

definizione husserliana di calcolo

come quella specie di derivazione di segni da segni all’interno di un qualsiasi

sistema segnico algoritmico secondo le “leggi”, o meglio convenzioni, della

congiunzione, della separazione e della conversione, che sono proprie di questo

sistema159

Va da sé che il calcolo è un procedimento artificiale in entrambi i sensi

finora visti, ovvero riguardo alla natura dei suoi simboli così come per quanto

concerne l’operare con essi, consapevole e conoscitivamente finalizzato. Ma come

Husserl di continuo afferma è nei procedimenti naturali che va ricercata la genesi

di quelli artificiali, anche perché entrambi obbediscono alla medesime leggi,

quelle naturali per l’appunto. E lo stesso vale per il calcolo, la cui somiglianza con

la semiosi naturale è evidente, ricorrendo entrambi a meri simboli e su di essi

esercitandosi. Un’ulteriore conferma di questa discendenza la si puo’ trovare a

proposito di quanto Husserl afferma a proposito dei surrogati artificiali. A suo

dire, infatti, quelli che usiamo nella nostra comune attività di giudizio non sono

affatto “puri”, in quanto non v’è la comprensione di come stanno effettivamente le

cose, ovvero agiscono in virtù di ciechi meccanismi naturali e dunque senza che vi

157 In virtù di questi caratteri ci sembra che sia semmai la distinzione tra segni naturali e artificiali a inglobare le altre, poiché tutte le tipologie semiotiche fin qui trattate possono intervenire nei processi psichici.158 «…ma poiché i risultati del giudizio vengono espressi contemporaneamente in segni esteriori, ad esempio in proposizioni, questi segni entrano nel corso ulteriore del processo surrogando i giudizi reali, e la deduzione ha luogo, ora come prima, in forma simbolica »; ivi, p. 82. 159 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 303

71

sia consapevolezza alcuna, tanto che è un processo naturale quello che trasforma i

segni artificiali in surrogati. L’introduzione di surrogati artificiali puri, ovvero

accompagnati dalla consapevolezza sulla loro funzione, avviene soltanto a un

grado di sviluppo molto alto della cultura spirituale, a ulteriore dimostrazione

della loro dipendenza dalla dimensione naturale, qui nel senso di un’evoluzione

della nostra psiche; e si tratta di quei simboli che costituiscono l’aritmetica così

come la logica formale160, di quei simboli cioè che oltre a facilitare i nostri

processi psichici, assolvono ai fondamentali compiti di assicurare e ampliare le

nostre conoscenze. La concezione husserliana della matematica, più volte

richiamata, si riferisce propriamente ai surrogati artificiali “puri”, benché il suo

sviluppo e la sua struttura obbediscano a una semiosi naturale con segni artificiali.

Husserl tiene infatti a precisare che un’aritmetica “rigorosa, ben intesa e

logicizzata”161 deve operare con simboli di questo genere, in quanto solo in virtù

di una chiara consapevolezza di come si giunga alla verità è possibile la

conoscenza - e correlativamente, solo come operare simbolico consapevole la

scienza è possibile, ivi compresa la matematica. Affinché questo accada è

necessario che il procedimento naturale lasci il passo a quello logico ed è perciò

dell’idea husserliana di logica tipica di questa fase che dobbiamo ora occuparci.

§ 1.9 – Logica dei segni e psico-logica

Nelle indagini sinora portate avanti abbiamo volutamente lasciato da

parte un tratto essenziale della semiosi artificiale, il suo carattere logico. Abbiamo

agito così perché è solo dopo una accurata disamina dei procedimenti simbolici

naturali, dei meccanismi psichici, che il senso di una siffatta logica puo’ essere

adeguatamente fissato. Come afferma infatti Husserl

un procedimento logico non è qualcosa di toto genere diverso dal procedimento

naturale corrispondente. Entrambi fanno uso delle leggi psicologiche della nostra natura

e, in buona parte, delle stessi leggi162

Era dunque necessario dar prima conto della fisonomia e del

funzionamento dei meccanismi naturali, delle leggi psichiche, dai quali il

160 E. Husserl Semiotica cit., p. 88161 Ibid.162 Ivi, p.86

72

procedimento logico dipende, se non altro perché leggi naturali valgono per

entrambi i procedimenti. V‘è però, come sottolinea qui Husserl medesimo, una

differenza, che non travalica l’orizzonte psichico, in quanto rimanda a diversi

atteggiamenti da noi peraltro già individuati:

interviene, come fattore nuovo, l’influsso della volontà guidata da motivi di

conoscenza, e la capacità di regolare per suo mezzo il corso della nostra attività di

giudizio in maniera conforme proprio a questi interessi logici163

Come si vede, quanto si dice del procedimento logico ricalca la

definizione del segno - o meglio della semiosi - artificiale, il cui scopo viene

perciò a essere quello di rendere possibile la logica e con essa la conoscenza; e si

tratta di una delle acquisizioni più elevate dello spirito umano, possibili soltanto a

un certo grado della sua evoluzione, quello nel quale i surrogati artificiali sono

escogitati e introdotti con la piena consapevolezza della loro funzione - che ora

sappiamo essere logica - e non più quindi risultati di un’evoluzione retta da motori

psicologici164 che trasformi contrassegni artificiali in segni sostituenti.

Rimane però da chiarire in cosa consista la funzione logica dei segni

artificiali e di qui che cosa effettivamente sia la logica, visto lo strettissimo nesso

che la lega alla dimensione artificiale della semiosi. Va detto innanzitutto che lo

scopo ultimo della semiotica husserliana è proprio quello di fornire una logica dei

segni, come indicato peraltro dal titolo completo dell’opera che la riguarda, per

l’appunto Zur Logik der Zeichen (Semiotik). Quanto essa si propone è indagare,

verificare, render consapevoli del funzionamento dei procedimenti simbolici che

tanta parte hanno nella vita psichica e nei suoi processi intellettivi, e questo non

soltanto al fine di garantirne la positività degli esiti e farne comprendere le

ragioni, ma anche per estendere il dominio conoscitivo, per via appunto di

procedimenti simbolici artificiali appositamente elaborati. Tutto questo allo scopo

di render possibile la conoscenza come retta e consapevole acquisizione della

verità:

solo quando il procedimento stesso è un procedimento logico, quando abbiamo

la comprensione logica che esso, così com’è e perché è così, deve condurre alla verità, il

163 Ivi, p.87164 Ivi, p.88

73

suo risultato non si limiterà a essere de facto una verità, ma sarà una conoscenza della

verità165

Emerge da qui lo stretto nesso che lega la conoscenza alla logica, tanto

che questa viene definita poco dopo Kunst der Erkenntnis, della quale la semiotica

nel senso di Logik der Zeichen costituisce una delle parti fondamentali166. Il

termine Kunst richiama innanzitutto la semiosi artificiale (kunstliche), quindi quei

procedimenti simbolici elaborati in parallelo ai meccanismi naturali al fine di

mostrarne il funzionamento e accertarne la validità; ma soprattutto indica

inequivocabilmente quale sia la fisionomia della logica husserliana in questa fase

del suo pensiero, quella cioè di una Kunstlehre167, di una tecnologia, di una

disciplina pratica, volta ad analizzare le modalità tramite cui il pensiero si

appropria della verità e legata perciò a interessi pratico-conoscitivi. La

terminologia or ora adottata non appartiene, alla lettera, ai testi che abbiamo

finora analizzati, tant’è che il termine qui centrale di Kunstlehre compare nei

Prolegomeni a una logica pura ed è lì che viene diffusamente affrontata la

questione della logica come tecnologia; e si tratta di un approccio critico, che mira

a evidenziare la parzialità di una siffatta idea della logica. Ci siamo però serviti di

questa terminologia “tarda” in quanto a nostro avviso è proprio in questi termini

che si presenta la logica husserliana nella fase qui in diretto esame, sì che la

definizione di tecnologia fornita nei Prolegomeni puo’ valere, mutatis mutandis,

anche per essa:

se la dottrina della scienza si propone il compito più ampio di indagare sulle

condizioni in nostro potere, dalle quali dipende la realizzazione dei metodi validi, e di

fornire regole per determinare in che modo possiamo, mediante artifici metodici,

impadronirci della verità, delimitare e costruire scienze in maniera valida, e in particolare

trovare e applicare i molteplici metodi che promuovono il loro sviluppo, preservandoci

dagli errori sotto tutti questi riguardi -, allora essa si trasforma in tecnologia della

scienza168

165 Ivi, p. 90166 Ivi, p. 93167 Su questo punto è decisamente forte l’influenza brentaniana. Cfr. fra gli altri R.Bernet, I Kern, E. Marbach Edmund Husserl. Darstellung seines Denkens Hamburg, Felix Meiner Verlag GmbH, 1989 (trad. it. Edmund Husserl, Il Mulino, Bologna 1992, p.35) e soprattutto R. D. Rollinger Husserl’s position in the School of Brentano, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1999, p.23168 E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., pp. 45-46

74

Kunstlehre e Kunst der Erkenntnis sono espressioni perlomeno affini,

poiché entrambe fanno leva sul carattere pratico, metodologico, operativo della

logica, in quanto finalizzata a garantire l’obiettività della conoscenza e a

estenderne il dominio. Compiti, questi, a cui assolve illustrando i metodi, naturali

o artificiali, in grado di condurre alla verità, servendosi dei secondi non soltanto

per verificare i primi, ma anche per raggiungere risultati al di là delle prestazioni

naturali della psiche169. In tal senso si puo’ dire di essere di fronte a una

tecnologia, ovvero a una disciplina pratica, a una metodologia della conoscenza,

in quanto dominata da un interesse pratico quale il raggiungimento di un

determinato scopo, in questo caso la consapevole acquisizione della verità. E si

comprende allora piuttosto facilmente in che senso la logica dei segni abbia

un’importanza rilevante per l’idea di logica in generale. Questa deve infatti per

Husserl

impadronirsi dei procedimenti naturali dello spirito che giudica, esaminarli,

farne comprendere i valori di conoscenza, per poterne infine determinare esattamente i

limiti e la portata, e stabilire in rapporto a questo le regole generali170

Un compito a cui di fatto è la logica dei segni ad assolvere, in quanto è in

virtù dell’elaborazione di un procedimento simbolico parallelo, con la sua semiosi

artificiale, che i procedimenti naturali possono venir compresi nei loro valori di

conoscenza, rilevando le implicite condizioni cui sottosta il loro svolgimento

tendenzialmente orientato verso la verità e stabilendo così le regole generali di un

retto procedere, come ad esempio quelle che consentono a un procedimento

improprio di sostituirsi proficuamente al corrispettivo proprio171. La logica così

intesa, la logica in quanto Kunstlehre, richiama allora una psico-logica, una logica

dei processi psichici, poiché non soltanto i processi di giudizio sono

169 Sul carattere estensivo dei metodi artificiali logicamente intesi ci siamo più volte soffermati trattando il testo di Semiotica (ad esempio, pp. 71, 87, 94). Ma argomentazioni pressoché identiche ricorrono anche nella Filosofia dell’aritmetica: « Tutta l’arte logica mira a superare i limiti originari delle nostre attitudini mentali naturali e per favorire meglio queste ultime scegliamo, ordiniamo, colleghiamo e ripetiamo tutta una serie di attività che, prese isolatamente, ci metterebbero in grado di svolgere funzioni assai povere», p. 278. Anche qui il riferimento alla logica come arte, ovvero come Kunst, rimanda al suo carattere pratico, o meglio lo sottolinea e anticipa in certo modo il proseguimento del discorso che introduce, dove centrale è il suo carattere operativo nella prassi conoscitiva.170 E. Husserl Semiotica cit., pp. 93-94171 Ivi, pp. 85-86

75

tendenzialmente - e ciecamente - orientati verso la verità, ma anche i metodi

escogitati per giungervi fanno uso delle medesime leggi psicologiche. In tal

maniera non è tanto a una conoscenza intesa in senso teorico che una tale logica si

indirizza, quanto piuttosto alla prassi conoscitiva, giustificando e assicurando i

procedimenti naturali o artificiali in grado di condurre al vero, che consentono

cioè “di impadronirsi della verità”.

Logica dei segni e psico-logica formano così un plesso unitario in

ragione della loro mutua solidarietà, in quanto è solo in virtù della prima che puo’

maturare una consapevolezza dei nostri processi psichici, ed è soltanto perché

l’interesse va alla prassi conoscitiva e quindi alle modalità, in larga parte

improprie, in cui la psiche opera nei suoi ragionamenti, che una logica dei segni

assume un ruolo centrale. La Kunstlehre rimanda allora, come sua principale

condizione, a una Logik der Zeichen, in quanto simbolici sono i metodi -

finalizzati al conseguimento della verità - che essa si propone di indagare e

realizzare; spetta dunque a una logica dei segni, o meglio dei procedimenti

simbolici darne conto, illuminarne i presupposti di validità garantendone così il

corretto svolgimento, analizzando la semiosi naturale dei processi psichici dalla

quale hanno origine. Del resto, come si ricava facilmente dalla summenzionata

citazione dei Prolegomeni e come lo stesso Husserl afferma, è proprio la

costituzione psichica a rivestire un ruolo centrale per una Kunstlehre172, in quanto

è a partire dalla sua fisionomia e dal suo funzionamento che è possibile escogitare

procedimenti finalizzati all’acquisizione della verità; e visto il decorso largamente

improprio dei nostri processi di giudizio è inevitabile che in una siffatta tecnologia

la logica dei segni assuma un ruolo preminente. Intesa in questo senso, la logica si

rivela come una metodologia della conoscenza scientifica173, finalizzata a garantire

la correttezza dei procedimenti deduttivi e fondativi che caratterizzano la

scienza174, dove però l’accento non è posto affatto su quest’ultima, bensì sui 172 E. Husserl Prolegomeni a una logica pura in Ricerche logiche Vol. I cit., p. 174173 E. Husserl Sulla fondazione psicologica della logica in Id. Logica psicologia e fenomenologia cit., p. 169174 I processi psichici naturali che Husserl intende verificare e validare in Semiotik sono infatti quelli deduttivi, caratterizzanti per l’appunto le scienze, aritmetica compresa (E. Husserl Semiotica cit., pp. 82-86). La logica come Kunst der Erkenntnis mira perciò ad assicurare e in tal maniera render possibile la conoscenza scientifica, non tanto quella empirica; obiettivo questo che permane pur nel radicale cambiamento di prospettiva a proposito della logica e di impostazione nell’affrontarne le problematiche che si manifesterà con la stesura dei Prolegomeni, nei quali per l’appunto un siffatto compito è addirittura più esplicito: « Di fatto l’evidenza che segna come sussistente lo stato di cose rappresentato, o l’assurdità che lo segna come non sussistente…si presenta in modo immediato solo in un gruppo relativamente molto ristretto di stati di cose primitivi; noi apprendiamo come verità numerose proposizioni vere solo se esse vengono

76

processi psichici, sul conoscere come attività specificamente umana. I principi, o

meglio ancora le norme in tal senso vincolanti, sono perciò “regole tecniche di

un’arte specificamente umana”175, è a questi che mira e si richiama la Kunst der

Erkenntnis, al fine di assicurarsi il retto svolgimento dei processi psichici e poter

di lì costruire metodi artificiali conoscitivamente estensivi. Un esempio in tal

senso è rappresentato dai risultati a cui giunge il procedimento logico artificiale

incaricato di legittimare i processi deduttivi naturali. Le condizioni qui ritrovate,

ovvero l’univocità delle espressioni linguistiche e la determinatezza univoca del

ragionamento mediante le premesse, sono le regole che consentono a un

procedimento improprio di sostituirsi salva veritate a uno proprio176, regole quindi

che insegnano come operare efficacemente con le deduzioni simboliche, come

sostituire concetti con surrogati, che illustrano le ragioni per cui il tratto

economico del nostro spirito non pregiudica anzi favorisce l’acquisizione della

verità. In questo senso abbiamo introdotto l’espressione psico-logica, per indicare

cioè la peculiarità di una logica come disciplina pratica, come metodologia della

conoscenza tipicamente umana, le cui regole sono logiche proprio perché

tecnologiche, attinenti alla peculiare costituzione psichica umana177, ai

procedimenti tramite cui s’impadronisce della verità.

L’attenzione esclusiva rivolta alla conoscenza come prassi conoscitiva

specificamente umana ha un’influenza determinante sull’ambito che più ci

interessa, quello semiotico, in quanto è a partire da qui che si motiva la particolare

considerazione di cui è fatto oggetto il segno e - oltre al tenore complessivo - il

contenuto delle trattazioni che gli sono rivolte, nonché le lacune che da queste

emergono, non ascrivibili affatto a miopia o superficialità. Nei testi finora più da

presso affrontati Husserl è piuttosto esplicito nel riconoscere un ruolo e

un’importanza fondamentali ai segni, proprio alla luce dell’approccio tecnologico

alle questioni conoscitive:

metodicamente “fondate”….Ed il fatto che noi abbiamo bisogno di fondazioni perché la conoscenza, il sapere oltrepassi ciò che è immediatamente evidente – e quindi anche ovvio – non rende possibili e necessarie soltanto le scienze, ma con esse anche una dottrina della scienza, una logica» (E. Husserl Prolegomeni a una logica pura in Id. Ricerche logiche vol. I cit., p. 35). Un punto questo che Münch non considera nella sua critica alla conoscenza simbolica nei testi pre-fenomenologici, vista per l’appunto come un “ferro ligneo” in quanto priva della necessaria dimensione intuitiva (D. Münch Intention und Zeichen cit., pp. 126-27); la conoscenza di cui qui egli parla è infatti quella immediatamente evidente, non quella procedente per stadi successivi. Münch ha però ragione nel rilevare l’improprietà dell’idea conoscenza tipica di questa fase, nella quale ben poco spazio è riservato al conosciuto come entità trascendente la coscienza.175 E. Husserl Prolegomeni cit., p. 169176 E. Husserl Semiotica cit., pp. 85-86177 E. Husserl Sulla fondazione psicologica della logica cit., p. 170

77

Senza la possibilità di contrassegni esteriori e durevoli come appoggi per la

nostra memoria, senza la possibilità di rappresentazioni simboliche sostitutive di

rappresentazioni proprie più astratte, difficili da distinguere e da utilizzare oppure di

rappresentazioni che in quanto proprie ci sono del tutto negate, non ci sarebbe una vita

spirituale elevata e ancor meno una scienza. I simboli sono la grande risorsa naturale,

mediante la quale i limiti originariamente così angusti della nostra vita psichica vengono

superati178

In questo passo sono citate le due tipologie segniche a cui Husserl dedica

maggiore attenzione, ovvero contrassegni e rappresentazioni improprie, entrambe

essenziali allo sviluppo psichico umano, com’è evidente a partire dalle sue

realizzazioni più elevate, le scienze. Segni importanti, decisivi, in quanto è per

loro mezzo che le scienze possono costituirsi e consentire così il superamento dei

limiti congeniti all’intelletto umano, compito questo che sembra determinarne la

fisionomia in un ordine di considerazioni di schietto carattere psicologico,

antropologico, pratico, per cui ogni scienza viene riguardata in senso

metodologico, come insieme dei metodi che consentono l’approdo a verità e

contenuti altrimenti indisponibili alle limitate capacità umane, come s’è visto a

proposito della matematica e della logica al centro di queste riflessioni.

L’approccio alle questioni scientifiche, segnatamente logiche e aritmetiche, si

caratterizza perciò in senso psicologista, poiché l’interesse non va tanto ai

contenuti quanto piuttosto alla maniera in cui vi si giunge, e quindi alla

conoscenza come attività specificamente umana con i suoi peculiari processi

psichici. Correlativa è allora la considerazione della scienza in senso tecnologico,

metodologico, e a ben vedere già qui si puo’ riconoscere alla logica un valore

fondativo, per quanto in senso del tutto diverso rispetto a quel che avverrà nelle

opere immediatamente successive: se infatti suo compito è quello di impadronirsi

dei procedimenti naturali di giudizio a fini pratico-conoscitivi, verificandoli ed

estendendone le capacità, ogni scienza metodologicamente intesa troverà in essa

le sue condizioni, nel senso delle regole che presiedono alla costruzione e

all’efficace funzionamento di qualsiasi procedimento scientifico. Da qui emerge la

centralità della semiotica, non soltanto per il carattere simbolico dei metodi

scientifici, ma soprattutto perché la semiosi medesima investe gran parte dei

178 E. Husserl Semiotica cit., p. 70 78

processi psichici, il cui decorso è largamente improprio, per cui spetterà a una

logica intesa come logica dei segni la parte più significativa e consistente

dell’indagine volta a esplicitare quelle condizioni che consentono prestazioni

efficaci sotto il profilo conoscitivo179.

È dunque a partire dall’approccio psicologista alle tematiche logiche e

scientifiche che si motiva la centralità del segno nel periodo in esame, nella sua

necessità per il costituirsi della scienze come prodotto tipicamente umano, e ciò

non soltanto perché i segni consentono risultati ben al di là delle capacità umane,

ma soprattutto in quanto la semiosi è inscritta nel nostro spirito come uno dei suoi

tratti maggiormente caratterizzanti, tant’è che quei risultati sono possibili soltanto

per via di procedimenti simbolici artificiali fondati su quelli naturali: è solo infatti

in virtù della acquisita familiarità con i segni maturata a partire dalla conoscenza

dei nostri processi psichici che è possibile dar vita a sistemi simbolici artificiali.

La logica dei segni si rivela perciò come la parte decisiva della Kunst der

Erkenntnis, innanzitutto per via della semiosi naturale che caratterizza la nostra

psiche nei suoi processi deduttivi, e conseguentemente perché è l’unica in grado,

con i suoi procedimenti, di assicurare la verità essiccando le fonti dell’errore e di

estendere il dominio conoscitivo umano per via della costruzione di metodi

simbolici, nel rispetto di quelle regole che essa stessa ha permesso di ricavare dai

processi naturali.

Il privilegio accordato, in ambito più strettamente semiotico, alle

rappresentazioni improprie si spiega anch’esso a partire dall’approccio

psicologista alle tematiche logico-scientifiche e non tanto in considerazione della

loro indubbia efficacia in ambito scientifico, che è pur essa da motivare nella

medesima maniera: è infatti la costituzione psichica umana ad avvalersi in

maniera meccanica, naturaliter, di segni surroganti, a far uso di simboli senza più

il riferimento al designato e per giunta come se avesse a che fare con questo, in

virtù del tratto economico del nostro spirito più volte richiamato. L’efficacia dei

surrogati in ambito scientifico, lungi dallo spiegare il privilegio loro accordato,

deve piuttosto venir motivata essa stessa e ciò a partire dalla costituzione psichica

umana, dai peculiari processi psichici a fondamento della semiosi artificiale che

179 La maniera in cui tutto ciò avviene lascia emergere il più volte rilevato carattere tecnologico non soltanto a parte obiecti come finora s’è visto, ma anche a parte subiecti, in quanto è per via di procedimenti, di metodi simbolici che una siffatta logica puo’ portare avanti la sua indagine, da cui deriva che essa non soltanto si rivolge ai metodi e ai processi deduttivi, ma è essa stessa metodo e procedimento, perlomeno nella sua parte più consistente rappresentata dalla logica dei segni.

79

caratterizza i metodi e i procedimenti scientifici. La stessa decisiva importanza

attribuita all’aritmetica nel suo senso come s’è visto algoritmico180, come quel

sistema simbolico a cui sono dovuti gran parte degli sviluppi del pensiero

umano181, va valutata alla luce dell’approccio psicologista. Al di là degli interessi

derivanti dalla sua formazione, Husserl vi attribuisce un siffatto valore in

considerazione della peculiarità della nostra psiche, le cui attività in larga parte

simboliche rassomigliano, e di molto, a procedimenti algoritmici, a un calcolo, da

intendersi però non soltanto in senso schiettamente matematico, come operazioni

eseguite su dei numeri, ma nella maniera più ampia indicata nella Filosofia

dell’aritmetica, per la quale

Si puo’ concepirlo… come quella specie di derivazione di segni da segni

all’interno di un qualsiasi sistema segnico algoritmico secondo le “leggi”, o meglio le

convenzioni….che sono proprie di questo sistema

In larga parte dei suoi processi deduttivi, in virtù del loro carattere

simbolico, il pensiero opera in maniera simile, consistendo in derivazioni di segni

da segni secondo regole, quelle cioè psicologiche, affidandosi alla medesima

tipologia semiotica costituente il calcolo, le rappresentazioni improprie:

Spesso, già in singoli passaggi, non ci atteniamo né ai contenuti propri e pieni,

né ai contenuti parziali surroganti, ma semplicemente ai nomi e ai segni

scritti….procediamo meccanicamente lungo la serie, connettiamo ed eliminiamo le

componenti, come richiede lo schema ed otteniamo così un giudizio simbolico (una

proposizione) che vale per noi come segno di una verità. Più spesso tuttavia i singoli

passaggi vengono compiuti all’interno di un giudizio effettivo; ma poiché i risultati del

giudizio vengono espressi contemporaneamente in segni esteriori, ad esempio in

proposizioni, questi segni entrano nel corso ulteriore del processo surrogando i giudizi

reali, e la deduzione ha luogo, ora come prima, in forma simbolica182

180 Cfr. S. Centrone Logic and Philosophy of Mathematics in the Early Husserl, Springer, Dordrecht/Heidelberg 2010, p.29181 E. Husserl Semiotica cit., p. 71182 Ivi, p. 82. Su questo punto cfr. anche S. Centrone Logic and Philosophy of Matematics in the early Husserl cit., p.129. Lo sganciamento dei procedimenti matematici dal concetto di quantità è all’origine della matematizzazione della logica che conduce all’algebra booleana e al suo celebre calcolo logico (in proposito cfr. G. Boole The Mathematical Analysis of Logic, Macmillan, Barclay&Macmillan, Cambridge 1847 (trad. it. L’analisi matematica della logica, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp.3 e 5-6)); per una ricostruzione complessiva delle tappe che condussero alla sintesi booleana - ovvero delle riflessioni sulla logica maturate in Inghilterra a partire dagli anni ’20 dell’800 – cfr. Francesco Barone Logica formale e logica trascendentale,

80

La naturalità del progressivo e prevalente ricorso a meri surrogati

avvicina così i processi psichici deduttivi al calcolo ed è proprio per questo

carattere distintivo della nostra psiche che l’aritmetica, intesa in senso

algoritmico, ha potuto condurre lo spirito umano a sviluppi notevolissimi, dove si

dimostra nuovamente e sotto un altro aspetto come i procedimenti simbolici

artificiali si fondino su quelli naturali. La forte impronta psicologista delle

riflessioni qui illustrate, in virtù della quale l’orizzonte d’indagine è rappresentato

dalla psiche e dai suoi processi, fa sì che il problema della scienza venga

affrontato in termini marcatamente antropologici, da cui discende l’attenzione

esclusiva al suo aspetto metodologico, tecnologico, tarato sulla costituzione e sui

limiti della nostra psiche, dove il segno, in specie come surrogato, ha una funzione

decisiva, vista la sua somiglianza con il calcolo.

A ulteriore riprova dei caratteri qui richiamati, in particolare la

rassomiglianza fra pensiero e calcolo, v’è la peculiare angolatura dalla quale

Husserl osserva il problema della conoscenza. In un passo già in precedenza citato

si distingue tra verità e conoscenza della medesima sottolineando come in

quest’ultimo caso subentri la consapevolezza a proposito del procedimento che vi

conduce - a dispetto del decorso naturale dei nostri processi psichici,

tendenzialmente orientati verso la verità ma in maniera del tutto cieca,

inconsapevole, per una sorta di provvida naturalità -, nei termini della

comprensione logica del come e del perché si è giunti a quel risultato183. Ora, la

declinazione eminentemente metodologica, pratica, che il termine “logica”

assume è qui ribadita, poiché validare la conoscenza equivarrà non tanto a

legittimare i contenuti nella loro veridicità, quanto piuttosto a render consapevoli

dei metodi che vi conducono, nei termini di un processo di chiarimento che illustri

le modalità di funzionamento dei procedimenti simbolici ciecamente orientati

verso la verità evidenziandone le condizioni di validità184. Condizioni che sono

vol. II, L’algebra della logica, Unicopli, Mlano 2000 (I edizione 1965) e M. Trinchero Introduzione in G. Boole Indagine sule leggi del pensiero su cui sono fondate le teorie matematiche della logica e della probabilità, Einaudi, Torino 1976, pp. VII-CXXXV). Una siffatta idea di calcolo è molto vicina a quella che Husserl espone nella Filosofia dell’aritmetica (punto questo rilevato da Centrone nel già citato testo, p.75) e simile è anche l’impostazione psicologista dei due pensatori. Sui rapporti fra Husserl e Boole e soprattutto sulle critiche husserliane al calcolo booleano ci diffonderemo però nel prossimo capitolo.183 Ivi, p. 90184 Cfr. in proposito R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.59-60. In queste pagine l’autore distingue tre diversi significati del termine “logico”, in relazione ai procedimenti che possono fregiarsene: essi sono perciò logici se concettuali, se condotti con la chiara consapevolezza del loro funzionamento, se capaci di estendere la nostra conoscenza. Queste tre diverse declinazioni, a nostro avviso, sono però soltanto aspetti diversi dell’unico utilizzo del termine che Husserl

81

naturalmente quelle tacitamente rispettate dai processi psichici - a carattere

deduttivo - nel loro naturale orientamento verso il vero e che si tratta di mettere in

luce, a detta di Husserl, elaborando un procedimento simbolico artificiale

parallelo; costruendolo infatti si dovrà giocoforza prestare attenzione ai criteri da

seguire al fine di un suo retto ed efficace svolgimento, rendendosi così conto delle

condizioni che sovrintendono all’efficacia della deduzione dal lato soggettivo,

psichico e quindi pratico, metodologico, operativo:

l’univocità dell’espressione linguistica e la determinatezza univoca del

ragionamento mediante le premesse, sia dal lato psichico, sia da quello simbolico, sono le

condizioni necessarie e sufficienti tanto per il procedimento meccanico cieco che per il

procedimento meccanico logico185

Come si vede, si tratta di condizioni di natura psicologica, che indicano

quale sia la strada da seguire affinché un metodo abbia successo e sia quindi

efficace nel raggiungere la verità, condizioni che riguardano entrambe le tipologie

di procedimento, perché è sulla nostra costituzione psichica che vanno tarati i

metodi conoscitivi, sulle peculiarità del suo svolgimento, nella fattispecie tenendo

conto del decorso largamente improprio dei suoi processi più elevati, così che si

predilige in questa fase, per il quale “logico” è quanto è in grado di render possibile la conoscenza, in senso esclusivamente pratico, metodologico, operativo: tutti e i tre i significati infatti convergono verso quest’unico punto, compreso perciò il primo, in quanto un procedimento concettuale e non più soltanto meccanico motiva da sé i passi che conducono verso l’obiettivo preso di mira. Anche Willard ricava tre diversi significati, o meglio ambiti di applicazione dell’aggettivo “logico”, in parte diversi da quelli di Parpan: il rapporto genere/specie; il significato di una parola o di un’esperienza; gli strumenti in grado di estendere la conoscenza (D.Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.127 (nota 1)) Si tratta a ben vedere di una disamina più accurata rispetto a quella di Parpan, le cui tre distinzioni possono esser fatte rientrare complessivamente nella terza caratterizzazione dello studioso statunitense; va però precisato che questi ritiene prevalente, nelle opere husserliane, l’utilizzo del termine visto per ultimo, per cui anch’egli mostra di condividere la maniera in cui abbiamo inteso la logica nella nostra trattazione. 185 E. Husserl Semiotica cit., p.85. Münch ritiene problematica la natura del procedimento artificiale, perché ancipite. Da un lato infatti un siffatto procedimento è logico perché condotto sulla scorta di una chiara comprensione del suo funzionamento (ivi, p.90); dall’altro perché escogitato in base a considerazioni logiche, ovvero conoscitive (ivi, p.85). Due determinazioni, queste, che entrano in conflitto, considerando che esso tende a divenire meccanico, per cui risulterebbe “logico” solo in base alla seconda delle summenzionate caratterizzazioni (cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.125-26). A nostro avviso la questione si dirime affisando adeguatamente la prospettiva husserliana. Il procedimento artificiale è infatti logico perché risponde a intenti conoscitivi, consentendo di validare ed estendere la conoscenza e questo perché elaborato con la chiara comprensione delle condizioni che sovrintendono al suo funzionamento. La sua progressiva meccanicità non intacca in nulla la sua logicità in quanto quella comprensione è ciò che lo costituisce, ne è l’origine, a differenza del procedimento naturale, in cui non v’è mai traccia di comprensione alcuna, in cui cioè la meccanicità non è frutto di una comprensione oramai assimilata.

82

possa fondatamente “sostituire il ragionamento proprio mediante un operare

esterno con segni linguistici”186.

A partire da qui è possibile gettar luce sulla peculiare natura dello

psicologismo husserliano. L’affermazione secondo cui i processi naturali, ovvero

psichici, sono il fondamento di quelli artificiali, o logici, cui consegue che anche i

procedimenti logici fanno uso di leggi psicologiche187, non deve infatti far pensare

che un siffatto psicologismo sia quello bersagliato dalle critiche dei Prolegomeni,

secondo cui le leggi logiche sono meri matters of fact di natura psichica. Husserl,

anche in questa primissima fase, non si spinge mai fino a tal punto, anzi il suo

parlare ad esempio di “numeri in sé” lascia pensare che non dubitasse della

validità oggettiva ed extrapsichica di concetti e principi alla base di scienze quali

aritmetica e logica, pur non avendo ancora ben chiaro a quale orizzonte essa

andasse ascritta. Lo psicologismo ha piuttosto a che fare con la sua concezione

della logica come Kunstlehre, motivo per cui le sue riflessioni in merito si

concentrano sulla psiche: solo affisandone i caratteri, le modalità di

funzionamento è infatti possibile elaborare quei metodi che consentono di validare

la conoscenza ed estenderne il dominio. E in questo i segni occupano un ruolo

centrale, tant’è che la parte decisiva di una siffatta tecnologia è proprio la Logik

der Zeichen, in virtù della natura in larga parte simbolica dei processi psichici a

carattere deduttivo, dove per l’appunto le leggi psicologiche sono essenziali, in

quanto è a partire dai meccanismi associativi e riproduttivi della nostra psiche188

che è possibile giustificare e validare i metodi simbolici naturali così come

soltanto tenendone conto si escogiteranno efficaci metodi artificiali, logici. Si

comprende allora perché all’inizio di questo paragrafo affermavamo che le analisi

sul segno avrebbero permesso di collocare nella sua giusta luce lo psicologismo

husserliano: l’idea che alle leggi psicologiche obbediscano i procedimenti logici si

spiega infatti alla luce di una logica intesa come Kunstlehre, i cui metodi sono in

larghissima parte simbolici e resi possibili come tali dalla nostra costituzione

psichica, dal cui funzionamento discende la semiosi artificiale tipica di una logica

così intesa; siffatta affermazione, in altri termini, non implica la riduzione dei

principi della logica formale a leggi di causa-effetto, bensì sottolinea la necessaria 186 E. Husserl Semiotica cit., p.86 187 Ivi, pp.86-87 188 Parpan rinviene nel meccanismo associativo la legge fondamentale per il funzionamento dei metodi simbolici tanto naturali quanto artificiali (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.446 (nota 29)). L’associazionismo è infatti all’origine dei processi psichici impropri, ai quali si richiamano come al loro fondamento i metodi artificiali

83

dipendenza dei metodi simbolici dalla nostra costituzione psichica, in primis dalla

natura impropria di molti dei suoi processi. Se però da un lato lo studio del segno

ci consente di comprendere adeguatamente l’ottica psicologista tipica di queste

analisi, dall’altro è nel novero di una tale impostazione che la preminenza dei

segni si motiva e puo’ esser rettamente intesa. L’idea di logica come metodologia

della conoscenza tipicamente umana, dove l’interesse va alla maniera in cui è

possibile conoscere, alle condizioni della sua efficacia piuttosto che ai contenuti

conosciuti - idea questa che si estende, mutatis mutandis, a tutte le altre scienze,

aritmetica in primis -, fa sì che la semiotica emerga in primo piano e con tale forza

da lasciar da parte la dimensione semantica. Basti pensare alla tipologia

prevalente, ovvero i segni esteriori in funzione surrogante, prevalenza dovuta,

come s’è visto, alla loro capacità di facilitare i processi psichici più elevati, in

rispondenza al tratto economico del nostro spirito: in questo caso infatti si opera

senza ricorso ai concetti fondanti, il che equivale a dire che qui i segni non

esprimono, bensì sostituiscono il significato, tanto che il procedere con essi

diviene ben presto meccanico, un operare meramente segnico. In un tale contesto

non meraviglia allora l’attenzione rivolta agli aspetti schiettamente sensibili del

segno, alla loro costituzione materiale, in quanto anche questa si rivela decisiva a

fini conoscitivi:

anche differenze apparentemente futili, come quella tra lo scrivere con la penna

a inchiostro sulla carta e lo scrivere con il gessetto su una tavoletta coperta di polvere,

possono influenzare l’andamento dei metodi matematici. E tutte queste non dovrebbero

essere differenze anche di carattere logico? E una differenza, che influisce sulla

padronanza tecnica di un ambito conoscitivo, puo’ esser fatta rientrare tra le differenze

logiche189

La preminenza del segno è perciò da prendere alla lettera e nel senso più

stretto, come preminenza della mera “marca”, il cui aspetto sensibile è decisivo

per una logica intesa come Kunstlehre, come metodologia della conoscenza

tipicamente umana, in quanto anche da esso dipende l’efficacia dei metodi

conoscitivi, vista la sua influenza sulla “padronanza tecnica di un ambito

conoscitivo”. Le differenze fra gli strumenti di cui si servono i metodi sono perciò

essenziali, perché alcuni meglio di altri si rivelano adeguati per lo scopo

189 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.28884

perseguito, utilità misurata sulle caratteristiche della nostra psiche se un tale scopo

è la conoscenza metodologicamente intesa, per cui anche differenze

apparentemente estrinseche come quella fra segni scritti e orali hanno una decisiva

rilevanza logica, se i primi si rivelano incomparabilmente più efficaci per lo

sviluppo delle scienze190.

La preminenza della dimensione simbolica, già rilevata a riguardo delle

questioni aritmetiche, si motiva perciò soprattutto alla luce del concetto di logica

tipico di questa fase, quello cioè di una metodologia delle conoscenza, in tal senso

fondativa di tutte le altre scienze perché anch’esse metodologicamente intese,

aritmetica compresa191. Il segno perciò assume un ruolo di primo piano in quanto

strumento principe della psiche nei suoi atti cognitivi, cosicché la parte decisiva di

una logica come Kunstlehre non potrà che essere, come s’è visto, una Logik der

Zeichen, che mostri per l’appunto a quali condizioni psicologiche la validità e

l’efficacia dei metodi simbolici risponda, illustrandone il modo di funzionamento.

In questo però la dimensione semantica si rivela del tutto inessenziale: quei

procedimenti infatti si svolgono meccanicamente, il loro tratto precipuo e di

maggior interesse sotto un profilo metodologico è il loro render dispensabile il

ricorso al significato, tanto che i segni che li costituiscono si rivelano essere

surrogati. Giustificare quei metodi equivarrà perciò a rendere comprensibile in

quale maniera sia possibile sostituire un procedere “proprio”, indicare le

condizioni psicologiche che rendono possibile una siffatta sostituzione,

consentendo alla nostra psiche di alleggerire i suoi processi ed estendere così il

campo delle sue conoscenze.

Naturalmente non si vuol qui sostenere che la questione del significato

sia del tutto assente dalle considerazioni semiotiche husserliane, quasi che i segni

fossero mere pedine utilizzate ad arbitrio; piuttosto, è il rapporto con il concetto

rappresentato a istituire il segno192 e il rimando a esso è parte della giustificazione

logica del metodo simbolico193, laddove i segni, per parafrasare Wittgenstein,

190 Ivi, p.287191 Lo stesso Husserl riconoscerà successivamente che il fuoco delle sue considerazioni era andato progressivamente spostandosi dall’aritmetica alla logica, in quanto era a questa che doveva richiedersi la soluzione delle difficoltà presentate dalla prima in quanto scienza deduttiva. Cfr. E. Husserl Prefazione alla prima edizione delle “Ricerche logiche” in id. Ricerche logiche cit., pp.3-5192 Cfr. soprattutto la critica di Husserl al nominalismo in E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.213-20 (in particolare p.219); ma anche ivi, p.170. 193 Cfr. in proposito R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.52

85

“girino a vuoto”194. V’è però da dire che il significato fa la sua comparsa soltanto

laddove si tratti di validare o introdurre i metodi simbolici, a esso non è perciò

dedicata alcuna trattazione autonoma, che ne enuclei ad esempio le leggi o le

categorie, poiché è sempre in subordine a questioni semiotiche che se ne trova

traccia; il rapporto segno-significato si declina qui in maniera prettamente

psicologica, sono i meccanismi associativi e riproduttivi a renderne conto, in

quanto è per via di questi che i surrogati possono sorgere e venir, laddove occorre,

verificati, cosa che mostra da un altro versante come la questione del significato

sia subordinata a quella più strettamente semiotica. Un’ulteriore e indiretta riprova

è data poi dall’importanza attribuita agli aspetti sensibili delle entità segniche, che

abbiamo visto confluire nell’ambito di una logica metodologicamente intesa;

importanza questa inconcepibile laddove il segno si riveli subordinato al

significato, motivata invece nel momento in cui sia il primo, nella misura più

strettamente semiotica, a occupare il centro della scena.

La conseguenza più importante ed evidente della lateralità della

questione semantica sta nello scarso peso dato al linguaggio. Pur definendolo “il

sistema di segni più importante che possediamo”195 Husserl non ne fa mai il centro

della sua trattazione; ma soprattutto questa sua importanza non si motiva affatto a

partire dalla dimensione che più lo caratterizza, quella cioè espressiva, perché i

suoi segni - parole e proposizioni - vengono considerati in via esclusiva come

entità surroganti attive nei processi di giudizio196, in una maniera che come

abbiamo visto lo avvicina al calcolo. Soltanto con il progressivo spostamento

dell’interesse dal segno al significato il linguaggio guadagnerà in attenzione e la

dimensione espressiva diverrà prevalente, come avremo modo di vedere, sin da

subito, nel prossimo capitolo.

Prima però di chiudere con questa trattazione è opportuno tirare le fila su

quanto sin qui detto, così da indicare la direzione dei successi sviluppi. La

preminenza della dimensione simbolica fa tutt’uno con una concezione

metodologica della scienza, sì che anche la logica si configura come una

194 E. Husserl Semiotica cit., p.75 (dove peraltro si afferma che a fungere da significato puo’ esser sufficiente addirittura un surrogato di esso, una sorta di lacerto, purchè sia accompagnato da un giudizio di riconoscimento, a riprova di come la questione semantica sia affrontata da un versante prettamente psicologistico, regolato da meccanismi riproduttivi)195 Ivi, p.92196 Parpan osserva giustamente che in questi testi husserliani il linguaggio è riguardato in via esclusiva come mezzo di conoscenza, al servizio di esigenze conoscitive (R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.448 nota 2)

86

Kunstlehre o, per stare ai termini utilizzati in Semiotica, Kunst der Erkenntnis,

trovando in questo la sua funzione fondativa rispetto alle altre scienze. Una

siffatta prospettiva non impegna però Husserl in uno psicologismo che riconduca

le leggi logiche a meri matters of fact di natura psichica, ma attesta semplicemente

l’orientamento del suo interesse verso la dimensione esclusivamente soggettiva

della conoscenza, verso la maniera cioè in cui è possibile per un soggetto psichico

giungere a conoscere qualcosa. In questo la centralità del segno, strumento

principe dei metodi conoscitivi per via dell’origine della semiosi dai processi

naturali di pensiero che ne rende particolarmente efficace l’azione: si è visto

infatti come il tratto economico del nostro spirito stia a fondamento del ricorso a

segni in funzione surrogante, indicando così la via da seguire al fine di estendere

la conoscenza. Ora, come abbiamo notato più volte, da un tale ordine di

considerazioni il lato oggettivo della conoscenza - i contenuti conosciuti - è

pressoché assente; anche laddove si tratti di giustificare, validare, chiarire il

funzionamento dei metodi “tecnologici” è sempre alla psiche che è rivolta

l’attenzione, sono sempre condizioni psicologiche quelle che emergono. L’idea

che questo genere di analisi, benché importanti, non fossero sufficienti a fondare

una tecnologia logica non era ancora presente nei pensieri husserliani dell’epoca;

eppure, stando ai diversi luoghi in cui egli ripercorre il suo travaglio intellettuale,

già affiorava una forte insoddisfazione per una siffatta fondazione psicologica

della logica, in via esclusiva riguardo al lato oggettivo, ai contenuti di pensiero

logici, la cui validità per l’appunto oggettiva mal si concilia con

quell’impostazione prettamente soggettivista197. Sarà perciò da problematiche di

questo genere che Husserl si vedrà spinto a una diversa calibratura dell’idea di

logica, o in altri termini all’elaborazione di un diverso tipo di fondazione, quale

appunto si manifesta nella “logica pura” dei Prolegomeni. Tutto questo ha

ovviamente le sue ripercussioni sulla semiotica. L’indirizzamento sempre

maggiore verso i contenuti conoscitivi fa sì che i segni perdano il ruolo di

preminenza attribuito loro, in quanto è ai significati che li esprimono che andrà

l’attenzione e non ai segni, che ne fornivano soltanto una caratterizzazione

indiretta. Da un versante più prettamente logico, quello della fondazione della

Kunstlehre, questo spostamento di tradurrà in un interesse esclusivo per il

significato e le sue categorie, in quanto essenziali alla validità di una metodologia

197 Cfr. E. Husserl Prefazione alla prima edizione delle “Ricerche logiche” cit., pp.4-5. 87

della conoscenza, così come alla costruzione di qualsivoglia teoria, di qualsiasi

scienza; il fatto poi che le categorie del significato assurgano allo statuto di

contenuti, con una loro precisa e nuova dimensione - né fisica né psichica -, farà sì

che i segni, lungi dal sostituire i significati, saranno piuttosto mezzi per esprimerli,

o anche intenderli, sì che la legalità alla base del linguaggio non sarà più di natura

psicologica198. Perciò, con il prevalere della dimensione semantica su quella

simbolica, i segni non avranno come funzione preminente quella surrogante, in

quanto loro compito precipuo sarà l’esprimere, con la conseguenza che il

linguaggio sarà salvaguardato nella sua autentica fisionomia e riportato al centro

dell’interesse.

A ben vedere inoltre la scomparsa della funzione surrogante dalle analisi

semiotiche attesta, oltre che la prevalenza delle questioni semantiche da cui del

resto è spiegata, anche il venir meno dell’impostazione psicologista in rapporto ai

contenuti. Questi infatti non saranno più da intendere come parti effettivamente

presenti alla psiche, come immanenze psichiche, cosa che rendeva impossibile il

concetto di contenuto extrapsichico; piuttosto si parlerà di entità trascendenti la

coscienza e da essa intese, e proprio per via di segni significativi. In tal maniera il

segno non avrà più il compito di sostituire entità impresentabili, permettendoci

comunque di parlarne e affisarne i caratteri, seppur per via indiretta; ma sarà

piuttosto il mezzo che indirizza verso di essi, verso la loro presentazione intuitiva,

in virtù di quell’interesse verso la dimensione contenutistica della conoscenza che

porta alla luce una nuova dimensione oggettuale, quella ideale, per l’appunto né

fisica né psichica. Già da qui si comprende allora come il segno, in sé e per sé e

come tale, come mero segno esteriore, sia incompatibile con una impostazione che

miri “alle cose stesse” quale quella fenomenologica, dove appunto è la

conoscenza intuitiva, e non quella “simbolica”, a essere non tanto centrale, bensì

esclusiva. Punto questo, così come gli altri or ora segnalati, che troverà adeguato

svolgimento nelle nostre prossime analisi.

198 Esemplare in tal senso è la Quarta ricerca88

§ 2 – La fase intermedia

§ 2.1 – Calcolo e linguaggio

Al fine di dare inizio allo sviluppo dei temi poco più che elencati al

termine del precedente capitolo intendiamo qui riprendere e approfondire un

aspetto della semiotica husserliana colà trattata, riguardo al quale non si era andati

al di là di un qualche semplice accenno, ovvero la somiglianza fra processi

deduttivi naturali e procedimenti algoritmici, o se si preferisce tra pensiero

(psichicamente inteso) e calcolo. Il ricorso progressivo e naturale alla semiosi

surrogante, in rispondenza all’ormai noto tratto economico del nostro spirito,

avvicinava di molto l’attività giudicante della psiche a operazioni segniche di

stampo algoritmico, a patto di intendere il calcolo in senso non strettamente

matematico, con il suo vincolo alla dimensione quantitativa dei numeri, ma in

quello più ampio a cui giungono del resto le stesse riflessioni husserliane

sull’aritmetica, secondo le quali, lo si è visto

si puo’ concepirlo… come quella specie di derivazione di segni da segni

all’interno di un qualsiasi sistema segnico algoritmico secondo le “leggi”, o meglio le

convenzioni….che sono proprie di questo sistema199

Una simile idea di calcolo era in verità piuttosto comune negli ambienti

logici all’epoca in cui Husserl dava inizio al suo Denkweg. La riflessione sui

fondamenti della matematica portata avanti dalla scuola di Cambridge a partire dal

secondo decennio dell’800 aveva progressivamente condotto, per via delle

problematiche sorte in questa disciplina, a liberare il calcolo dal suo esclusivo

riferimento alla quantità in vista di una sua sempre maggiore formalizzazione, uno

sviluppo che ebbe il suo culmine nell’algebra della logica di George Boole200; in

tal maniera il calcolo si declinava nei termini di un’algebra simbolica, dove a

esser centrali sono le regole di combinazione dei simboli e non la loro

199 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p. 303. Le “convenzioni” naturalmente sono qui regole di natura psicologica, trattandosi per l’appunto di processi simbolici naturali e non di procedimenti artificiali quali appunto gli algoritmi. 200 Per una sintetica ma esaustiva ricostruzione degli sviluppi qui solamente accennati rimandiamo al già citato testo di Francesco Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della logica

89

interpretazione, sì che un medesimo procedimento algebrico puo’ esser valido per

diversi ambiti scientifici. Sulla scorta di questo è possibile ravvisare una certa

convergenza con le riflessioni husserliane a proposito del calcolo, soprattutto a

motivo del fatto che è proprio con Boole che lo svincolamento dalla dimensione

quantitativa diviene effettivo, liberandosi dalle resistenze che ancora

interessavano quelli che possono esser considerati i suoi precursori. La novità di

Boole non stava però soltanto in questo, in una più decisa posizione a favore

dell’algebra simbolica; l’elemento più significativo risiede piuttosto

nell’interpretazione logica di un siffatto calcolo, segnatamente in senso

estensionale201, che lo metteva in grado di rispecchiare, o meglio di “dare la forma

dei nostri inferimenti discorsivi”202. Questo perché, secondo lo studioso

anglosassone, la logica si fonda su fatti che hanno la loro sede nella struttura della

mente umana203, da cui discende che

ciò che rende possibile la logica è l’esistenza, nella nostra mente, di nozioni

generali: la nostra capacità di concepire una classe e designare con un nome comune gli

individui che ne sono membri204

Se dunque come voleva Whately la logica è “scienza del ragionamento”,

il cui ufficio più proprio sta nell’analisi dei processi della mente nel

ragionamento205, la sua natura non potrà che essere estensionale, visto il

comportamento della nostra psiche negli atti che la costituiscono. L’inflessione

marcatamente psicologista di queste analisi è quella che consente inoltre alla

logica di presentarsi come calcolo. A detta di Boole infatti questo non è

semplicemente un suo abbellimento estrinseco, una forma tra le altre in cui possa

esprimersi, in quanto ne è piuttosto l’esclusiva manifestazione, la logica in altri

termini non puo’ che presentarsi in maniera computazionale, in quanto v’è

un’esatta concordanza fra le operazioni dell’algebra e quelle del ragionamento206,

sono le leggi del pensiero a prescrivere una siffatta manifestazione e a vietarne

altre207, tanto che le indagini sulle leggi dei segni e su quelle del pensiero

201 F. Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della logica cit., p.78202 Ivi, p.81 203 G. Boole L’analisi matematica della logica cit., p.3204 Ivi, p.6205 F. Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della logica cit., p.20206 G. Boole Indagine sulle leggi del pensiero cit., p.15207 Ivi, p.23

90

conducono a risultati equivalenti208. Si comprende allora come per Boole la

matematizzazione della logica non sia una teoria proposta fra le altre al fine di

assicurarle il congruo grado di scientificità, bensì l’unica via da percorrere al fine

di coglierne l’esatta natura, perché matematici sono le sue forme e i suoi

processi209, tanto che egli definisce suo scopo precipuo quello di costruire “la

matematica dell’intelletto umano”210.

Alla luce di queste considerazioni emerge una certa affinità tra le

posizioni booleane e husserliane. La preminenza attribuita al simbolismo discende

in entrambi dalla natura del pensiero, dei nostri processi psichici, per i quali il

ricorso a segni è tutt’altro che estrinseco, ma è un tratto essenziale della loro

natura, sì che il pensiero si dimostra perlomeno affine a un calcolo algebrico

meramente formale, in quanto liberato dal vincolo ai significati211, foss’anche

soltanto il concetto di quantità. Un’affinità che deve però essere ancora calibrata

nella maniera adeguata, ovvero ridimensionata alla luce delle numerose critiche

mosse da Husserl all’algebra della logica, critiche estremamente importanti nel

novero del nostro lavoro, in quanto consentono di mettere in luce alcuni degli

aspetti che indirizzano verso le nuove prospettive husserliane in campo non

soltanto semiotico. Prima però di darne opportunamente conto è necessario

premettere un’osservazione di carattere metodologico e filologico. Nelle nostra

esposizione il testo di riferimento sarà la recensione all’opera di Ernst Schröder

Vorlesungen über die Algebra der Logik e gli appunti presi per la sua stesura,

quindi non esplicitamente Boole, bensì il suo epigono più fedele e tecnicamente

capace. Il motivo di questa scelta risiede nel fatto che il suddetto testo husserliano

contiene una critica serrata e articolata dell’algebra della logica, molto più

pregnante e perspicua, a nostro avviso, degli scritti rivolti esplicitamente al

fondatore del calcolo logico212, senza considerare che le osservazioni che ne

costituiscono il testo valgono per Schröder come per Boole, proprio perché rivolte

208 Ivi, p.42209 Ivi, p.24210 G. Boole L’analisi matematica della logica cit., p.9211 Molto opportunamente Trinchero rileva tra le influenze più incisive in Boole quella del filosofo scozzese Dugald Stewart, nella cui opera il ragionamento è esplicitamente assimilato a un calcolo algebrico, poiché in esso si prescinde del tutto dai significati. Cfr. M. Trinchero Introduzione in G. Boole Indagine sulle leggi del pensiero cit., p.XXXI. 212 Si tratta in particolare di una lezione tenuta da Husserl nel 1895 sulla nuove ricerche a proposito della logica deduttiva, una cui sezione è dedicata per l’appunto a Boole. Per una sua analisi rimandiamo a S. Centrone Logic and Philosophy of Matematics in the Early Husserl cit., pp.75-80, dalla quale peraltro emerge come le critiche rivolte al calcolo logico booleano siano sostanzialmente identiche a quelle indirizzate a Schröder.

91

a quell’idea di logica comune a entrambi. A ciò si aggiunga che la recensione

all’opera di Schröder risale al 1891, contemporanea perciò alla Filosofia

dell’aritmetica, sì che le novità in essa emergenti possono considerarsi davvero un

primo inizio della via che condurrà alle rielaborazioni non soltanto semiotiche

delle Ricerche logiche. Forti di questi chiarimenti possiamo dare ora inizio

all’esposizione delle obiezioni husserliane

Le critiche all’algebra della logica si appuntano sulla sua pretesa di

fornire un’accurata ed esaustiva esposizione della logica deduttiva, di presentarsi

come una logica siffatta. In particolare, si contesta a Schröder una eccezionale

discrepanza fra gli obiettivi proposti e la loro realizzazione. Ciò è evidente già

dalle prime battute del testo, laddove la pretesa schröderiana di attribuire alla sua

logica l’analisi di ogni truismo, di ogni verità immediata ed evidente, cozza con la

ristrettezza delle sue analisi, con il loro assoluto formalismo, in virtù del quale

giudizi identici non meramente formali rimangono fuori dalla trattazione, come

accade ad esempio quelli matematici del tipo 2<3213. Pur concedendo al logico

tedesco la legittimità della sua delimitazione al campo della deduzione puramente

formale, la situazione non migliora, anzi le critiche si fanno più serrate e, per

quanto ci riguarda, si rivelano ben più rilevanti. Una logica come teoria generale

della deduzione deve riguardare tutte le attività costitutive delle scienze deduttive

che non sono affatto esaurite dal mero concludere conseguente cui si rivolge in

esclusiva la logica schröderiana214; soprattutto, Husserl tiene a sottolineare come il

calcolo stesso non sia affatto un concludere conseguente e, a rigore, una

deduzione215. Con questo tocchiamo il punto nevralgico delle critiche husserliane

all’algebra della logica. Quello proposto da Schröder (e Boole) è infatti un calcolo

che non opera deduzioni, perché è una tecnica semiotica mirante a sostituirle, è un

mero surrogato di queste, da cui discende che essa non puo’ affatto presentarsi

come una teoria della deduzione, consistendo piuttosto il suo autentico ufficio in

una surrogazione delle deduzioni per mezzo di operazioni segniche. Per dirla con

le parole di Husserl

213 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik”, in Husserliana XXII, Den Haag, Nijhoff 1970, p.5. In proposito cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., p. 134 214 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.6215 « Ma è il calcolare un dedurre (Schlieβen)? Nient’affatto. Il calcolare è un cieco procedimento con simboli secondo le regole meccanico-riproduttive della trasformazione e trasposizione di segni del rispettivo algoritmo ». Ivi, p.7 (trad. nostra)

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l’intero processo [del calcolo] risparmia e sostituisce molteplici deduzioni pure,

ma esso stesso non è alcuna di queste216

Con questo diviene allora chiara l’autentica natura del calcolo logico:

esso “è dunque un calcolo delle pure conseguenze, non però la sua logica”217, da

cui discende che lungi dal presentarsi come una teoria della deduzione necessita

piuttosto di una siffatta teoria al fine della sua giustificazione e legittimazione,

così come accade a ogni metodo conoscitivo. Per riassumere quanto qui detto, si

puo’ dire che prima, in senso condizionale, dell’algebra della logica deve esservi

una logica dell’algebra, in grado di legittimare il calcolo nelle sue pretese

conoscitive, proprio perché questo, in quanto metodo, non è né una teoria della

deduzione né esibisce la sua stessa logica218. L’errore del calcolo logico è stato

quello di aver confuso uno strumento per facilitare la deduzione con una teoria di

questa medesima, laddove è solo sulla base di una siffatta teoria che il calcolo

puo’ esser escogitato e reclamare un autentico valore conoscitivo. Una riprova

indiretta di quanto or ora detto sta nella molteplicità di metodi algoritmici fioriti

all’epoca di Husserl: qualora infatti il calcolo estensionale fosse l’autentica teoria

della deduzione non vi potrebbero essere calcoli diversi in grado di condurre alla

soluzione dei compiti deduttivi, per cui si mostra evidentemente come l’algebra

della logica proposta da Schröder non rispecchi affatto il canone delle attività

conoscitive219, non sia perciò quanto pretende di essere.

Le osservazioni qui raccolte ed esposte confermano e apportano

maggiore chiarezza alle posizioni espresse da Husserl nei testi trattati nello scorso

capitolo. Si è visto infatti come in Semiotik i procedimenti simbolici algoritmici,

ricondotti a una semiosi artificiale, non si configurassero affatto nei termini di una

logica della deduzione, valendo piuttosto come strumenti, atti a verificare i

processi naturali di pensiero e ad estenderne l’ambito conoscitivo. La somiglianza

216 Ibid. (trad. nostra)217 Ivi, p.8218 Cfr. D. Willard Logic and the objectivity of Knowledge cit., pp.139-40219 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.8. Oltre a rilevare come il calcolo estensionale non sia l’unico, sì che già per questo non puo’ affatto proporsi come l’autentica teoria della deduzione, necessitando piuttosto di una siffatta teoria, Husserl mostra inoltre come esso in verità non sia nemmeno sullo stesso piano degli altri, ma in posizione subordinata rispetto al calcolo intensionale, poiché “di fatto ogni giudizio estensionale è in verità un giudizio intensionale” (ivi, p.19, trad. nostra). Un’esposizione più accurata e dettagliata non soltanto della pari efficacia del calcolo intensionale, ma anche della sua maggiore congruità alle leggi del pensiero, è contenuta in un altro breve scritto di Husserl, ovvero Der Folgerungskalkül und die Inhaltslogik in Husserliana XII cit., pp.44-66 (su questo punto cfr. anche D.Willard Logic and the objectivity of Knowledge cit., pp.141-42)

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riscontrata tra calcolo e processi psichici di giudizio, in virtù del decorso

largamente improprio di questi, non vale a fare della logica un calcolo, quanto

piuttosto a garantire l’efficacia dei procedimenti algoritmici in termini di

prestazioni conoscitive. Husserl sottolinea infatti l’importanza di una logica dei

segni la cui natura non è affatto quella di un calcolo, poiché si serve di strumenti

simbolici artificiali al fine di indagare e render manifesti i processi naturali di

giudizio, sì da illustrare i modi di funzionamento di questi e costruire a partire da

ciò metodi efficaci, quali ad esempio gli algoritmi. Sì comprende allora, anche alla

luce delle analisi di Semiotik, per quale motivo Husserl affermi che il calcolo

logico non sia affatto la sua stessa logica, o per meglio dire, la logica delle pure

conseguenze: il suo scopo, lo si è visto, è infatti quello di surrogare le deduzioni e

al fine di riuscirvi è necessario che siano esposte le condizioni che rendono tutto

questo possibile, è necessaria in altri termini una logica dei segni che

s’impadronisca dei procedimenti naturali dello spirito da cui i metodi simbolici

artificiali, come il calcolo, hanno origine e dipendono per la loro validità. Per la

sua scoperta natura di metodo il calcolo rimanda alla logica come Kunstlehre

tipica di questa fase e non è affatto questa stessa logica, poiché come si è visto in

precedenza sta a una logica così intesa, soprattutto in quanto Logik der Zeichen,

fornire le condizioni di validità di qualsiasi metodo conoscitivo simbolico, sta a

essa mostrare a quali condizioni la surrogazione sia possibile, indagando le

modalità in cui si svolgono i procedimenti naturali dello spirito, perché “è nei

processi naturali che si trova l’origine di quelli artificiali”220.

La critica al calcolo logico conferma e chiarisce ulteriormente gli assunti

sulla semiotica tipici degli esordi della riflessione husserliana. La preminenza

attribuita al segno rimonta alla sua natura di efficace strumento conoscitivo,

soprattutto nella funzione surrogante, in coerenza con una logica intesa come

Kunstlehre; la somiglianza tra calcolo e pensiero, per via della natura largamente

semiotica di quest’ultimo, non vale allora a fare del primo una logica della

deduzione, ma soltanto a garantirne l’efficacia come strumento conoscitivo, anche

perché la semiosi surrogante che caratterizza entrambi è volta a facilitare i

processi deduttivi, non a validarli. Husserl del resto aveva chiarito la natura del

calcolo come strumento proprio laddove lo aveva svincolato dal consueto 220 E. Husserl Semiotica cit., p.87. Un siffatto richiamo è del resto esplicito anche nella recensione a Schröder, laddove si afferma che la mancanza fondamentale del calcolo logico è quella di non dire nulla sulle Geistesoperationen che ne stanno a fondamento; cfr. E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.8

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riferimento alla quantità, ovvero nella Filosofia dell’aritmetica, illustrando inoltre

a quali condizioni il suo operato possa rivelarsi efficace e valido: a esso deve

infatti precedere la conversione dei pensieri in segni e seguire la conversione dei

segni risultanti in pensieri221. Un punto questo ribadito nella recensione a

Schröder, dove si osserva come il calcolo non possa affatto presentarsi come una

teoria della deduzione proprio perché è solo una parte dell’attività deduttiva,

preceduto e seguito dai due processi or ora menzionati222. In questo stesso luogo si

registra una forte presa di posizione di Husserl contro l’eccessivo formalismo

della logica schröderiana, contro la sua pretesa di scaricare le difficoltà relative

allo studio delle cose sullo studio dei segni223, che sembrerebbe prima facie

contraddire l’importanza attribuita alla Logik de Zeichen. A ben vedere però

quanto qui si contesta è il meccanicismo della logica schröderiana, la sua

riduzione a una mera manipolazione segnica, ovvero ancora una volta la

confusione tra una tecnica della deduzione e la logica di essa224; se si riconosce al

calcolo logico la sua autentica natura di metodo simbolico, si comprende in che

senso la Logik der Zeichen si distingua dallo Studium der Zeichen cui si riferisce

Schröder. Quanto si richiede non è infatti uno studio del segno qua talis, che ne

faccia oggetto autonomo di trattazione, come se la logica - e le attività che

rientrano nel suo novero - fosse una questione prettamente semiotica, di calcolo

per l’appunto; piuttosto è necessaria una logica dei segni in quanto strumenti, una

teoria dei metodi simbolici che ne ritrovi le condizioni di validità nei processi

naturali dello spirito, che mostri come quella meccanicità sia un derivato di natura

psicologica, dovuta cioè alla natura della nostra psiche, che illustri in altri termini

il funzionamento dei nostri processi psichici - simbolici in larga parte - al fine di

escogitare metodi artificiali altamente efficaci in senso conoscitivo, come appunto

il calcolo logico. Senza una logica in grado di fornire una fondazione dei processi

computazionali nel pensiero naturale il loro condurre a risultati esatti, osserva

Husserl a proposito di Boole, si rivela come un inspiegabile miracolo225.

221 E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., p.303222 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.10 223 Ivi, p.9224 In proposito cfr. anche E. Husserl Der Folgerungskalkül und die Inhaltslogik cit., p.53225 Cfr. S. Centrone Logic and Philosophy of Mathematics in the Early Husserl cit., p.80. Ci sarebbe da discutere sulla congruità di quest’affermazione husserliana, soprattutto a motivo della fondazione psicologica della logica - in quanto Kunstlehre - che egli in questa fase reclama. Boole infatti fonda il suo calcolo logico in senso schiettamente psicologista, giustificandone la natura estensionale a partire dalla tipicità degli atti psichici (cfr. G. Boole L’analisi matematica della logica cit., p.6) così come psicologista è l’impianto di fondo di tutta la sua trattazione. Basti pensare alla celebre legge degli indici, principio distintivo del calcolo logico proprio perché legge

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Il confronto con una prospettiva come quella schröderiana (e booleana),

nella quale decisiva importanza è attribuita ai segni e ai procedimenti simbolici,

aiuta a delineare meglio le posizioni husserliane sul segno di cui ci siamo finora

occupati. La somiglianza tra pensiero e calcolo emersa dalle pagine di Semiotik

non vale infatti a fare della logica un algoritmo, poiché essa è piuttosto ciò che

fonda e rende efficaci i metodi simbolici; tutto questo coerentemente con la

declinazione tecnologica che essa assume in questa fase della riflessione

husserliana, nella quale per l’appunto la logica ha il compito di indagare le

condizioni che consentono di approntare metodi finalizzati al conseguimento della

verità226, condizioni di natura squisitamente psicologica. Soprattutto, la critica al

meccanicismo del calcolo logico mostra come lo scarso interesse rivolto alla

dimensione semantica non attesti affatto una sua sottovalutazione, perché si

motiva alla luce della già ricordata natura metodologica tipica della logica. Il fatto

che la tipologia prevalente nei metodi conoscitivi, così come nella semiosi

naturale che ne è condizione, sia quella surrogante fa sì che il significato non

occupi il centro della trattazione; va detto però che una siffatta funzione si motiva

ed è possibile soltanto a partire dalla previa presenza dei significati, poiché

subentra dopo l’acquisita familiarità con essi, è solo a fronte di un significato, o

meglio di un concetto, proprio o simbolico, che la surrogazione puo’ aver senso,

così come i metodi simbolici da essa contraddistinti. Quanto Husserl osserva a

proposito del meccanicismo del calcolo logico conferma quanto qui detto: è solo

perché rispecchia le leggi del campo d’indagine a cui si applica che un simile

calcolo puo’ dirsi pertinente, giusto e giustificato.

Le riflessioni husserliane sull’algebra logica non valgono però soltanto

come contributi chiarificatori227, né ci si puo’ limitare ad ammettere che qui

del pensiero (ivi, pp.20-22), a cui egli riconduce addirittura l’assioma fondamentale della metafisica, ovvero il principio di non-contraddizione (G. Boole Indagine sulle leggi del pensiero cit., pp.76-78). Francesco Barone riscontra in questo la contestata apertura filosofica di Boole, ovvero il non essersi limitato al piano della costruzione formale, avendo ampliato il suo campo d’indagine al momento costruttivo del formale, all’attività umana da cui trae origine, ovvero alle leggi del pensiero in senso psicologico (F. Barone Logica formale e logica trascendentale II. L’algebra della logica cit., p.88). A fronte di questo si puo’ forse ritenere che Husserl reputasse insoddisfacenti le conclusioni di Boole sui processi psichici fondanti (abbiamo visto infatti la sua contrarietà a identificare la logica formale con quella estensionale) e che sia questo a renderlo sì un eccellente tecnico logico, ma al contempo un assai modesto filosofo della logica (cfr. E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.9). 226 Cfr. in proposito E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., pp.45-46227 Willard sostiene che sia stato proprio l’influsso dell’algebra della logica a provocare la rottura di Husserl con la logica psicologica di stampo brentaniano, ovvero con l’idea che a fornire una logica dell’aritmetica debba essere una teoria delle rappresentazioni simboliche (cfr. D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.115). Questo perché Husserl, al termine dei suo

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Husserl giunga maggiormente in chiaro riguardo alle sue posizioni, soprattutto in

ambito semiotico; a ben vedere infatti si notano delle novità importanti, delle quali

una in particolare merita la nostra attenzione: la messa in rilievo della differenza

tra calcolo e linguaggio228. Finora abbiamo assistito a una sostanziale

assimilazione di quest’ultimo all’altro, non perché Husserl ne disconoscesse le

specificità, ma in virtù di un’ottica che accordando la sua preferenza ai segni

surroganti non le poneva mai al centro del suo interesse, cosicché il linguaggio

veniva sì considerato il più importante sistema segnico, ma solo per la sua

indubbia efficacia nel produrre rappresentazioni improprie, surroganti, non quindi

per la sua specifica capacità espressiva. Quanto qui accade è non soltanto uno

spostamento di attenzione verso quest’ultima, ma soprattutto una radicale messa

in discussione di quell’assimilazione, che segna a nostro avviso un primo decisivo

passo in direzione dei nuovi sviluppi husserliani.

L’approfondimento relativo ai simboli algoritmici, maturato e

manifestato nel confronto con il calcolo logico, conduce infatti Husserl a una

maggiore chiarezza attorno alla peculiare natura semiotica di calcolo e linguaggio.

Spunto in tal senso decisivo è la pretesa schröderiana di rifondare la logica a

partire dalla sostituzione del linguaggio naturale, di cui si serve il pensiero

giudicante, con un procedimento algoritmico privo delle sue incompletezze, cosa

che consente la trasformazione della logica in un calcolo229. Una posizione che

Husserl attacca nel suo assunto fondamentale, di base, ovvero l’evidente

identificazione tra linguaggio e calcolo, dove per l’appunto quest’ultimo è visto

lavoro sull’aritmetica, si rende conto che gran parte del lavoro matematico è di natura algoritmica, per cui non è più una logica psicologica nel senso di una teoria della rappresentazione a poter fondare e validare le attività aritmetiche, “perché in esse non si sta rappresentando, né inferendo. Si sta calcolando” (ivi, p.116, trad. nostra). In tal maniera è aperta la via a una logica in grado di giustificare, validare, fondare l’utilizzo di siffatti algoritmici, punto questo che segna la separazione tra le posizioni husserliane e il calcolo logico booleano-schröderiano. Quella di Willard è un’interpretazione che tra i suoi molti meriti ha quello di sottolineare la vicinanza tra le posizioni or ora menzionate e non manca affatto di acutezza; ciononostante, non possiamo condividerla appieno. A seguire quanto egli afferma, sembrerebbe che già con la recensione a Schröder Husserl avesse fatto definitivamente i conti con la fondazione psicologica della logica, perchè la fondazione del calcolo logico indirizza già verso la logica pura. S’è però visto come in Semiotik, soprattutto a motivo di una logica come Kunstlehre, fosse proprio da leggi di natura psicologica che la validità dei metodi algoritmici dipendeva. Dal confronto con l’algebra della logica emergono comunque elementi che rappresentano un primo passo verso la nuova prospettiva husserliana dei Prolegomeni, anche se non nel senso dell’interpretazione di Willard, come si puo’ vedere di seguito nel nostro scritto. 228 Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.65 e D. Münch Intention und Zeichen cit., p.138. Questi in particolare rileva un’altra novità negli scritti dedicati a Schröder, ovvero la critica al concetto psicologista di evidenza (ivi, pp.135-38), su cui però noi non ci soffermeremo. 229 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.20

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come un nuovo - più accurato e per ciò stesso maggiormente funzionale a scopi

conoscitivi - linguaggio230; a suo dire v’è invece una netta differenza, che rimonta

alla specificità espressiva di quest’ultimo, perlomeno trascurata negli scritti fin qui

trattati:

La peculiare prestazione del linguaggio consiste nell’espressione di fenomeni

psichici, di esso abbiamo bisogno in parte per la comunicazione dei medesimi, in parte

come sostegno di natura sensibile per i nostri processi di pensiero interiori…D’altro lato

l’opera del calcolo consiste in questo, nel suo essere un metodo della deduzione simbolica

per una certa sfera conoscitiva231

La nettezza con cui ora viene riconosciuta una siffatta differenza

sconfessa qualsiasi possibile accostamento tra linguaggio e calcolo, nei termini

delle differenti funzioni che siffatti sistemi simbolici sono in grado di svolgere; la

prevalenza progressiva di una semiosi surrogante nell’utilizzo del linguaggio da

parte della nostra psiche non vale a rigore ad avvicinarlo al calcolo, ma semmai a

mutare i suoi segni in simboli algoritmici, in quanto è impossibile per un segno

linguistico, proprio perché tale, venir disgiunto dal pensiero che - necessariamente

- accompagna232. Né è possibile, per converso, percorrere la direzione opposta,

facendo cioè del calcolo un linguaggio, con buona pace degli algebristi logici à la

Schröder. E questo non perché i segni algoritmici, in quanto semioticamente

marche, non possano assumere un significato linguistico, esprimere cioè un

concetto, un oggetto in quanto inteso; un simbolo, ad esempio “a”, puo’ esprimere

infatti un concetto numerico qualsiasi, così come il simbolo “+” esprime la

connessione sommatoria. Soltanto, nel calcolo in cui per l’appunto compaiono

come segni algoritmici la loro funzione non sta nell’espressione di quei concetti,

che semmai sostituiscono, proprio perché il calcolo consiste nella derivazione di

meri segni da segni, in operazioni a carattere prettamente semiotico, ché laddove

230 Husserl rintraccia l’origine di questo fundamentale Irrtum nella convinzione leibniziana che l’escogitazione di un linguaggio ideale e formale quale quello della characteristica universalis fosse di per sé condizione del calculus ratiocinator, laddove essi si fondano invece su principi diversi (cfr. E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension in Husserliana XXII cit., pp. 390-92)231 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.21 (trad. nostra)232 Ibid. ed E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p. 394. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.67

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ciò non avvenisse e fosse la funzione espressiva a caratterizzare quei segni

semplicemente non si calcolerebbe233.

In queste considerazioni, a ben vedere, si registra una crescente

attenzione alla dimensione semantica, non soltanto in virtù di una più decisa

sottolineatura della specificità del linguaggio, che da essa non puo’ mai

prescindere, ma soprattutto a motivo di uno sguardo più ampio su cosa sia

effettivamente da intendersi per “significato”. Si è visto come nei primissimi testi

husserliani questo consistesse nell’oggetto, in senso lato, per cui il segno sta; ben

più articolata è invece la posizione che emerge negli scritti preparatori alla

recensione a Schröder, dove emergono due ulteriori sensi in cui va inteso il

significato. In primo luogo quello linguistico, consistente per l’appunto nel

concetto espresso, nell’oggetto inteso – e non meramente “sostituito”. E poi quello

che Husserl denomina “operazionale”, riguardante esclusivamente i segni

algoritmici: esclusi i due precedenti – in virtù della funzione sostitutiva che

caratterizza questo genere di segni – e risultando inammissibile un loro uso

arbitrario – che renderebbe l’algoritmo del tutto incongruo alla sua funzione

conoscitiva,

i segni algoritmici o i segni matematici come segni algoritmici hanno il loro

significato esclusivamente nelle regole della connessione, separazione, trasformazione, in

breve nelle regole delle operazioni le quali soltanto, nella loro totalità, rendono algoritmo

l’algoritmo234

La critica al nominalismo che Husserl conduce nell’appendice alla prima

parte della Filosofia dell’aritmetica si arricchisce così di un nuovo decisivo

elemento, in quanto anche laddove il meccanicismo dei procedimenti algoritmici

tende a spostare l’attenzione sul segno non v’è comunque uno schiacciamento

sulla dimensione meramente sensibile di questo, poiché i simboli, lungi

dall’essere utilizzati arbitrariamente, rispondono alle regole operative del sistema

cui appartengono, che conferiscono loro un significato perché ne disciplinano

l’uso, stabilendo il genere di connessioni, separazioni e trasformazioni possibili

per ognuno di essi. Con l’introduzione di questo genere di significato la non

coincidenza fra arte del calcolo e matematica, o se si preferisce il distacco dei

233 E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.393234 Ibid. (trad. nostra)

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procedimenti algoritmici dal concetto di quantità, emerso in conclusione della

Filosofia dell’aritmetica, acquista una maggiore pregnanza, e non solo essa. Si è

visto come il trapasso da un operare con concetti numerici simbolici a uno

meramente simbolico fosse dovuto all’abitudine, all’acquisita familiarità con quel

sistema concettuale, in conformità al tratto economico del nostro spirito; l’operare

con segni perciò dipendeva, come dalla sua condizione, da quello concettuale,

poiché soltanto come surrogati dei concetti i segni potevano assolvere alla loro

funzione. Con il significato operazionale invece non è più necessaria la

precedenza, in senso condizionale, della dimensione concettuale, né in tal modo

l’algoritmo si riduce a un gioco simbolico arbitrario: proprio perché i segni

rispondono a regole combinatorie che ne costituiscono il significato l’operare con

essi non soltanto è sensato a prescindere dal riferimento ai concetti, ma consente a

un algoritmo l’applicazione a diversi ambiti conoscitivi, a differenti campi

concettuali, a patto che i principi di questi siano formalmente identici alle regole

che lo costituiscono. In tal maniera non è soltanto a partire dalla dimensione

concettuale che si giustifica l’utilizzo dei segni, poiché un procedimento

simbolico non solo prescinde da questa per la sua validità, ma si rivela addirittura

in grado di servire alla soluzione di problematiche afferenti a diversi campi

concettuali. Lo sganciamento del calcolo dal concetto di quantità è perciò solo un

esempio, una manifestazione dell’autonomia della dimensione simbolica da quella

concettuale, punto questo peraltro già emerso nella definizione di calcolo come

mera derivazione segnica proposta nella Filosofia dell’aritmetica ma che assume

qui una fisionomia ben più delineata. L’indipendenza della dimensione semiotica

non è più soltanto guadagnata a partire dalla funzione surrogante dei segni e

perciò relativa, necessitando come sua condizione della precedenza della

dimensione concettuale – senza considerare che è il riferimento ai concetti, per

quanto via via eclissantesi, a costituire comunque il significato dei segni; la novità

qui emersa sta infatti in un’indipendenza ben più forte, assoluta, poiché è nel

novero di un sistema meramente simbolico che i segni acquisiscono il loro

significato e i concetti compaiono per così dire ex post, per cui non v’è più

soltanto il caso in cui il procedimento algoritmico sorge per astrazione da un

campo concettuale, ma anche quello in cui è il primo a disciplinare la propria

applicazione al secondo235. L’introduzione del significato operazionale permette

235 Punto questo rilevato anche da Centrone, benché in relazione a un testo differente e di poco successivo a quelli da noi qui trattati; la studiosa riscontra in questa novità, « che consiste nel

100

tutto questo, consente ai segni di essere significativi a prescindere da qualsiasi

riferimento concettuale e prima di ogni sostituzione, tant’è che essa non è più

disciplinata dal concetto da sostituire, bensì dalle regole che sovrintendono a un

sistema simbolico; e in un’ottica focalizzata sui metodi conoscitivi e sui motivi

della loro validità l’importanza di una siffatta acquisizione non potrà che apparire

evidente.

Con questo però le novità emergenti dal confronto con il calcolo logico

non sembrano affatto discostarsi dalla prospettiva husserliana descritta nel

capitolo precedente. S’è rivelata, è vero, una più forte attenzione alla dimensione

semantica, ma le considerazioni che la riguardano si collocano nel solco di una

logica intesa come Kunstlehre, poiché confermano l’interesse esclusivo verso i

procedimenti conoscitivi, tant’è che il significato operazionale compare per

l’appunto laddove si tratta di essi, concernendo il loro funzionamento. È perciò a

un altro versante che bisogna rivolgersi al fine di individuare i primi segni di un

mutamento di prospettiva, tornando cioè a occuparci della differenza tra

linguaggio e calcolo, forti delle importanti acquisizioni sulla diversità della loro

semantica. Nel rilevare la specificità delle prestazioni dei due sistemi simbolici

Husserl osserva come sia il loro rapporto con il pensiero a segnare nettamente la

distanza che li separa: i segni algoritmici infatti hanno il compito di sostituire il

pensiero, in funzione economizzante, quelli linguistici invece si rivelano come

suoi sostegni sensibili, mezzi espressivi che lo accompagnano stabilmente236. In

tal maniera non è però semplicemente ribadita la differenza che avevamo esposto

in precedenza, relativa alle diverse prestazioni dei due sistemi simbolici, stando

alla quale il linguaggio si limiterebbe a esprimere fenomeni psichici, rendendo

possibile la comunicazione o facilitando i nostri processi interiori; con esso,

afferma Husserl, “l’attività rappresentante e giudicante si verifica presso le cose

stesse (an der Sache selbst)”237. Si tratta di un’osservazione fondamentale, non

fosse altro perché per la prima volta viene esplicitamente formulato il celebre

motto della fenomenologia, in un contesto comunque ancora ben lontano

dall’essere fenomenologico. Quanto da essa si puo’ infatti trarre è il segnale di

una diversa considerazione non soltanto del linguaggio, bensì della semiosi

partire dalla costituzione di un sistema algoritmico per poi andare alla ricerca di possibili interpretazioni » l’essenza della “rivoluzione assiomatica” del tardo ‘800 (cfr. R. Centrone Logic and Philosophy of Mathematics in the Early Husserl cit., p.78 (trad. nostra)).236 E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394; cfr. anche id. Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.21237 E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394

101

impegnata nelle attività conoscitive, campo d’interesse costantemente precipuo

nel Denkweg husserliano. Nel capitolo precedente s’è visto come i contributi del

linguaggio in ambito cognitivo fossero dovuti alla sua assimilazione a un calcolo,

ovvero alla sua capacità di produrre rappresentazioni improprie; la sua specificità

espressiva risultava invece avulsa da un siffatto ordine di considerazioni,

rappresentando semplicemente il carattere originario dei segni linguistici e il cui

scopo esclusivo stava nel consentire la comunicazione fra individui. Gli scritti qui

in esame mostrano invece perlomeno un primo mutamento di prospettiva, non

soltanto in virtù della oramai nota differenziazione tra calcolo e linguaggio, ma

soprattutto perché i segni linguistici acquisiscono una loro valenza nelle attività

conoscitive proprio in quanto espressivi, per la specificità della loro natura di

sostegni sensibili del pensiero: con essi, e soltanto con essi, si giunge alle cose

stesse. Naturalmente si è qui ancora ben lontani dalle posizioni delle Ricerche

logiche, dall’impostazione fenomenologica così come dall’idea di logica pura,

considerando che Husserl continua ancora a rimandare a una logica dei segni in

quanto surrogati al fine di validare e fondare i metodi conoscitivi e a non

discostarsi perciò da una logica intesa come Kunstlehre; v’è pero da dire che una

siffatta considerazione del linguaggio lo esclude dal novero dei metodi

tecnologici, con la loro semiosi surrogante, sì che il suo valore scientifico non

consiste nell’alleggerire i processi psichici ed estenderne le prestazioni, bensì nel

condurre l’attività giudicante presso le cose stesse, ai concetti e ai giudizi. Il

riconoscimento della peculiare prestazione offerta dai segni linguistici palesa

perciò una prima importantissima acquisizione in vista degli sviluppi futuri.

Nell’Introduzione alle Ricerche logiche si afferma infatti che la logica deve partire

da un’analisi del linguaggio perché soltanto le discussioni linguistiche consentono

un chiarimento inequivocabile degli oggetti della logica; per dirla con le parole di

Husserl

…gli oggetti che la logica pura intende indagare si presentano anzitutto sotto

forma grammaticale. Più precisamente, essi sono dati per così dire nell’alveo dei vissuti

psichici concreti che nella loro funzione di intenzione significante o di riempimento di

significato (da quest’ultimo punto di vista, come intuizione illustrativa o evidente)

ineriscono a certe espressioni linguistiche, con le quali formano una unità

fenomenologica238

238 E. Husserl Ricerche logiche cit., pp.269-70 102

Considerazioni di questo genere presuppongono una visione del

linguaggio nettamente differente da quella emersa in Semiotik e che si vale delle

conclusioni da noi poc’anzi illustrate, dove per l’appunto è la peculiarità

espressiva a venire in primo piano e non la capacità di produrre rappresentazioni

improprie, surroganti. Sostenere che con il linguaggio l’attenzione è rivolta alle

cose stesse, ai concetti e ai giudizi, affermare in altri termini che è nel pensiero

linguistico, con la sua semiosi, che l’attività logica si compie - laddove in quello

algoritmico essa vien sostituita con un procedimento di mera derivazione

simbolica -, pur non conducendo ancora all’idea di una logica pura, rappresenta

comunque un punto di svolta decisivo, poiché consente di affisare la dimensione

in cui collocarsi al fine di individuare le categorie logiche. Ai segni linguistici è

perciò riconosciuta la proprietà fondamentale di condurre a manifestazione gli

oggetti e le leggi della logica perché è in essi che le sue attività hanno modo di

attuarsi, visto che giudizi e deduzioni non vengono qui rimpiazzati da

procedimenti simbolici, da segni surroganti, bensì si compiono nei segni che per

l’appunto ne danno espressione. Con questo la distinzione tra linguaggio e calcolo

assume un significato fondamentale in rapporto agli sviluppi successivi: la

sottolineatura della specificità espressiva dei segni linguistici fa sì che il

linguaggio non possa venir più considerato metodo, vista la sua inconciliabilità

con la semiosi surrogante, da cui consegue che non potrà più essere oggetto

d’analisi di una Kunstlehre bensì considerato alla luce di una logica di tipo

diverso, attenta e rivolta alla sua peculiare natura significante, espressiva, una

logica che proprio perché incentrata sui significati indirizzerà verso di esso il suo

campo preliminare d’analisi, una logica in altri termini qual è la

Wissenschaftlehre. Il riconoscimento del valore scientifico della semiosi

espressiva rappresenta perciò un primo ma comunque decisivo passo verso i nuovi

sviluppi logici (e fenomenologici), in virtù della messa in luce di un ambito

semiotico che reclama una diversa logica che lo validi e al tempo medesimo del

sistema simbolico a cui guardare nel momento in cui si scopre la necessità di

fondare i metodi conoscitivi non soltanto in senso soggettivo, pratico e quindi

psicologico, ma anche e soprattutto in termini obiettivi, a riguardo cioè dei

contenuti di pensiero e della legalità cui obbediscono: perché, come affermerà

Husserl nelle Ricerche logiche, “gli oggetti che la logica pura intende indagare si

103

presentano anzitutto sotto forma grammaticale”239. Se, com’è stato giustamente

osservato, in questi testi si registra una crescente attenzione di Husserl per la

questione del significato240, che indirizza di per sé verso la logica pura, è nella

riconosciuta specificità del linguaggio in ambito cognitivo che un tale interesse

trova la sua manifestazione più importante, in quanto consente di attribuire ai

segni un valore logico non soltanto ai sensi di una Kunstlehre, cioè come

strumenti in grado di migliorare le prestazioni conoscitive facilitando i processi

psichici per via della sostituzione dei concetti, ma soprattutto perché vien loro

riconosciuta, in quanto segni linguistici, la capacità di condurre presso le cose

stesse, di presentarsi come ciò in cui i concetti della logica - intesa qui non più

come tecnologia, bensì come Wissenschaftlehre -, gli oggetti logici trovano la loro

manifestazione. Con l’apposizione, accanto a quella surrogante, della semiosi

espressiva sono così palesati, dal punto di vista semiotico, gli estremi del

passaggio dalla Kunstlehre alla Wissenschaftlehre, dai metodi della scienza alla

dottrina della scienza, dove appunto il centro dell’interesse si sposterà dai segni

algoritmici a quelli espressivi, dal calcolo al pensiero linguistico.

A ben vedere però le novità qui emergenti non si apprezzano soltanto

nell’ottica retrospettiva della logica pura, ma anche in quella, altrettanto

retrospettiva, della fenomenologia, limitatamente alla maniera in cui compare al

suo esordio nelle Ricerche logiche. Husserl difatti afferma che è nel pensiero

linguistico che le attività logiche “accadono presso le cose stesse”, a differenza di

quanto avviene con quello algoritmico, dove altra è l’attività che si verifica,

ovvero “un’attività sensibile secondo regole semiotiche fisse” in funzione

surrogante241. Una siffatta dicitura apre la strada alla considerazione

fenomenologica dei vissuti, o meglio degli atti significanti, proprio perché è in

essi che si costituisce il significato e si giunge perciò alle cose stesse, perché è a

partire da essi che le fenomenologia puo’ assolvere al suo compito chiarificatore

in merito alla logica pura, occupandosi cioè degli atti conferitori di senso –

intenzioni significanti – e di quelli che validano il significato – riempimenti di

significato - gli atti nei quali per l’appunto sono intesi e manifesti gli oggetti

logici. Anche da questo versante è possibile perciò riscontrare, seppur in forma

embrionale, l’indirizzo che seguiranno le successive analisi husserliane, dove per

239 Ivi, p.269240 R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.68241 E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394

104

l’appunto il motto fenomenologico si concretizza in analisi descrittive di atti

significanti. A corroborare questi indizi proto-fenomenologici è del resto la

sottolineatura della specificità espressiva dei segni linguistici, per la quale il

significato non sta nell’oggetto associato, in quanto essi esprimono stati

psichici242, come ad esempio quelli che si rivolgono agli oggetti intendendoli;

senza considerare, inoltre, il rilievo fatto a proposito della grammatica, secondo

cui essa

non insegna come dobbiamo (sollen) giudicare, non fornisce neanche regole su

come noi possiamo produrre indirettamente giudizi giusti attraverso artifici simbolici,

bensì soltanto come dobbiamo esprimere correttamente giudizi in conformità al

linguaggio243

Punto questo che verrà ripreso nella Quarta Ricerca e che starà a fondamento

della distinzione fra unsinnig e sinnlos.

Dal confronto con il calcolo logico emergono perciò elementi che pur

non manifestando ancora una rottura con la prospettiva costituita dallo

psicologismo e dall’idea di logica come Kunstlehre si presentano comunque

allotropi, perché pur comparendo e discendendo da essa acquisiscono una valenza

che difficilmente vi puo’ esser ricondotta e che possono in virtù di ciò venir

considerati come primi indizi del futuro mutamento prospettico, nell’ambito

semiotico così come in quello più vasto della riflessione husserliana da cui

dipende e deriva. Altri però sono i testi ancora da analizzare al fine di cogliere con

maggiore pregnanza, ampiezza e chiarezza lo svolgersi di un siffatto mutamento,

nei quali ben più decisive acquisizioni è dato riscontrare - a partire dal celebre

concetto di intenzionalità - scritti la cui trattazione ci impegnerà sin dal prossimo

paragrafo.

§ 2.2 – Il carattere semiotico dell’intenzionalità alle origini

La constatazione fatta a principio delle nostre riflessioni sulla

manchevolezza di cui a lungo ha dato prova la critica husserliana nel trascurare i

242 Su questo punto cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., p.139243 E. Husserl Besprechung von E. Schröder “Vorlesungen über die Algebra der Logik” cit., p.21 (trad. nostra)

105

testi pre-fenomenologici acquisisce maggior vigore a fronte dei testi che qui e nel

prossimo paragrafo affronteremo, nei quali è chiaramente osservabile la genesi e il

progressivo emergere di quel concetto d’intenzionalità la cui rilevanza per la

fenomenologia medesima è così decisiva da esser oramai proverbialmente nota.

Con questo naturalmente non si vuole affatto esprimere un giudizio negativo su

quanti hanno affrontato un tema così centrale rilevandone la provenienza dalla

formazione husserliana, in particolare da Brentano e più ancora nello specifico

dalla sua scuola; le nostre stesse riflessioni del resto non potranno che tenerne

conto e sottolinearne più volte l’indubbia incidenza e importanza. Nostro scopo è

piuttosto quello di mostrare dall’interno il percorso che conduce Husserl

all’intenzionalità delle Ricerche logiche, proiettandolo sullo sfondo dei nostri

interessi specificamente semiotici, e questo non soltanto in virtù del taglio che

abbiamo scelto per le nostre analisi, ma ben più intrinsecamente a motivo

dell’importanza che le questioni semiotiche hanno mostrato di rivestire per la sua

primissima elaborazione. Seguendo questa traccia e l’impostazione che ne deriva

ci occuperemo in questo paragrafo di una coppia di testi sostanzialmente coevi e

di argomento affine, ovvero il manoscritto K I 55 e il secondo degli Studi

psicologici per la logica elementare. Tema di queste indagini è una distinzione

che abbiamo già affrontato nelle pagine precedenti, quella tra rappresentazione

proprie e improprie, qui però trattata ai sensi di una terminologia differente che

denomina le due, rispettivamente, come intuizione e rappresentanza. Mutamento

terminologico che non risponde ovviamente a mere preferenze lessicali di stampo

stilistico, ma che si nutre di considerazioni afferenti alla semantica invalsa

riguardo al termine rappresentazione, che rischia di condurre a perniciose

equivocazioni nel momento in cui si facesse di esso il genere a cui ricondurre

come specie i due poli della suddetta distinzione. A detta di Husserl infatti ciò

condurrebbe a considerare questi ultimi come due identici modi di coscienza

distinti soltanto per il contenuto244, laddove invece la situazione è esattamente

inversa, come avremo modo di vedere nelle analisi che seguono.

Prima però di darvi effettivo corso è necessario un chiarimento a

proposito dei due scritti. L’affinità di argomento e l’antecedenza cronologica del

manoscritto sul testo dato alle stampe indurrebbe a pensare che il primo sia solo il

foglio di lavoro da cui è disceso il secondo; sta di fatto però che, come è stato

244 Cfr. E Husserl Psychologische Studien zur elementaren Logik in id. Aufsätze und Rezensionen cit. (ed. it. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.80)

106

giustamente osservato, pochi dei passi presenti nel manoscritto sono poi stati

trasferiti nel testo degli Studi, singolarità che si motiva a partire dalla differente

impostazione adottata nei due scritti: nel primo prevalgono infatti analisi di

stampo psicologico-genetico mentre il secondo puo’ dirsi un esempio di

psicologia descrittiva245. Una differenza certo rilevante, se si considera che i due

testi distano cronologicamente meno di un anno l’uno dall’altro - l’uno infatti è

del 1893, l’altro è stato pubblicato agli inizi del ’94 - e che se da un lato puo’

leggersi come segno del progressivo indirizzamento verso una impostazione

esclusivamente descrittiva, dall’altro però non vale ancora a escludere del tutto la

prospettiva genetica, poiché nel medesimo scritto Husserl sottolinea l’importanza,

accanto a quelle descrittive, delle analisi genetiche su rappresentanze e intuizioni

per il chiarimento della logica246. Punto questo che puo’ considerarsi una spia

dell’appartenenza degli scritti in esame al medesimo orizzonte di Semiotik e della

Filosofia dell’aritmetica, non soltanto in virtù dello psicologismo che informa le

analisi husserliane, ma anche nel merito delle problematiche a cui esse sono

rivolte, considerato che è nell’ottica del chiarimento della logica che si motiva la

loro genesi. E in questo la rappresentanza occupa un ruolo di primo piano, vista

l’importanza del rappresentare improprio in un siffatto contesto, quel

rappresentare cioè che, come è ribadito nel manoscritto, consiste in un

rinviare a qualcosa che non è affatto sempre presente, intendere quest’ultimo,

determinarlo adeguatamente, stare in sostituzione di esso247

Si sarebbe indotti allora a pensare che la rappresentanza, fatte salve le

precisazioni husserliane di cui abbiamo dato conto, sia del tutto identificabile con

le rappresentazioni improprie della Filosofia dell’aritmetica, quelle

rappresentazioni cioè che si servono di segni per presentare un contenuto e che in

Semiotik venivano perciò ricondotte nel dominio del segno. A un’analisi attenta è

però dato scorgere una significativa differenza, che per certi inverte la situazione:

non è più infatti la rappresentazione impropria a essere una specie per così dire del

segno, poiché qui è la rappresentanza a inglobarlo, distinguendosi per l’appunto in

245 Cfr. K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriffe: Die Texte von 1893, in “Brentano Studien”, 3, 1990-91, p.121. 246 E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.81247 Ivi, p.41

107

rappresentanza nel senso del segno e nel senso del concetto248. In tal maniera il

segno subisce un ridimensionamento rispetto alla classificazione di Semiotik, in

quanto la sua funzione si esaurisce nel mero volgere l’interesse a un contenuto

altro in una modalità del tutto estrinseca in rapporto a questo, sine fondamento in

re, che rammenta avant la lettre gli Anzeichen delle Ricerche logiche249; i segni

concettuali che avevamo visto colà all’opera perdono il loro statuto strictu sensu

semiotico poiché si parla qui piuttosto di rappresentanze concettuali,

circoscrivendo il dominio del segno a quelli che in Semiotik venivano del resto già

qualificati come segni in senso stretto, quelli cioè esteriori.

I motivi di un siffatto slittamento o mutamento risiedono a nostro avviso

nell’eccessivo formalismo, nel meccanicismo e nella vuotezza connessi all’uso di

meri segni, rilevata come s’è visto nella recensione all’opera di Schröder. Husserl

afferma ora che è improprio parlare di rappresentanza nel senso del segno, che il

designato non puo’ dirsi affatto rappresentato mediante segni250, cosa che porta a

rilevare più che una preferenza verso la rappresentanza concettuale, poiché in essa

in luogo della mera vuotezza e luogotenenza del segno subentra un certo grado di

intuitività. Se infatti è sempre il rinvio a qualcosa di non presente a definire la

rappresentanza - in quanto vissuto psichico che non include il suo oggetto, bensì

rinvia a questo tramite il proprio contenuto immanente - è però vero che il

contenuto rinviante, nel caso della rappresentanza concettuale, possiede le note

caratteristiche dell’oggetto inteso, sì che Husserl puo’ concludere che qui qualcosa

di uguale serve da rappresentanza a qualcosa di uguale251.

Attribuire la funzione di rappresentanza al concetto testimonia però

l’adesione di Husserl a un orizzonte ancora nettamente psicologista. Qui infatti i

concetti non sono significati ideali mediante i quali intendere un oggetto, bensì

contenuti psichici e psichicamente immanenti, distinti dai segni in virtù della loro

maggiore rassomiglianza al contenuto inteso252; anzi, proprio perché contenuti

psichici possono assolvere alla funzione della rappresentanza e venir perciò

necessariamente distinti dai segni, contenuti anch’essi, se come s’è or ora visto a

definire la rappresentanza è un contenuto immanente considerato in funzione

rinviante. Non si vuole comunque con quanto detto ridurre tutto a una differenza 248 Ivi, pp.41-42249 In proposito cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.158250 E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.42251 Ivi, p.47252 In ciò differiamo da Münch, per il quale i concetti, diversamente dai segni, non sono affatto sensibili; cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.161

108

fra contenuti, ché si andrebbe contro le esplicite posizioni husserliane secondo cui

è la nostra modalità di coscienza a rendere un contenuto rappresentante e

nient’affatto una distinzione contenutistica253; ma al di là del fatto che siffatte

considerazioni valgono soprattutto a distinguere la rappresentanza tout court

dall’intuizione, non si puo’ fare a meno di sottolineare come, ai fini di una

rappresentanza concettuale, il contenuto debba presentare determinati requisiti,

che consentano per l’appunto di rappresentare “qualcosa di uguale tramite

qualcosa di uguale”.

Un’ulteriore riprova della natura psichica dei concetti, condizione del

loro poter essere rappresentanze, la si trova nelle analisi husserliane delle entità

impossibili, come l’ormai noto quadrato rotondo. In casi come questi, vista

l’ovvia impossibilità di una unità materiale fra le note caratteristiche da ambo i

lati, grande risalto viene dato alle parole: la loro unione nelle espressioni

linguistiche funge da rappresentante, a essere qui uniti infatti sono contenuti

segnici e non concettuali, con cui per di più si ha una certa familiarità254. Quanto

qui accade è un singolare incastro fra i le due tipologie di rappresentanza: i segni

infatti rinviano ai concetti che a loro volta fungono da rappresentanti, per quanto

sia poi l’unità “figurale” tra i segni a rendere possibile la rappresentanza

concettuale. E in questo la funzione espressiva delle parole è lungi dall’esser

riconosciuta. Benché infatti Husserl parli di un rapporto intimo tra parola e

contenuti di accompagnamento, ovvero i concetti-contenuti psichici a essa

associati, facendo addirittura riferimento al rapporto espressione-significato255,

sarebbe perlomeno azzardato vedere in questo un preludio alle posizioni della

Prima ricerca e ciò per due motivi: innanzitutto i concetti che qui dovrebbero

fungere da significati sono contenuti psichici; inoltre il rapporto tra parole e

concetti risulta mediato dall’associazionismo, poiché anche laddove Husserl lo

descrive come intimo è pur sempre in un contesto psicologista che ciò avviene,

tant’è che egli lo paragona a quello che in virtù dell’abitudine si istituisce fra una

qualità tattile e un oggetto visivo256.

Sotto questo profilo quindi non si registrano significativi passi avanti

rispetto ai testi visti in precedenza, nonostante nella recensione a Schröder fosse

emersa una diversa e più penetrante considerazione del linguaggio, non ancora 253 Cfr. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p. 46 e soprattutto pp.76 e 134.254 Ivi, pp.47-48255 Ibid.256 Ivi, p.43

109

però fatta valere da Husserl nella sua effettiva pregnanza a causa del permanere di

un’impostazione marcatamente psicologista. Il rapporto intimo tra espressione e

significato, avvistato nella suddetta recensione e qui esplicitamente riconosciuto, è

infatti viziato dall’associazionismo e dalla natura psichica dei significati, per cui

l’invito “alle cose stesse” si concretizza nel rivolgimento ai contenuti psichici

intesi e alle rappresentanze concettuali in grado di rendere motivato e fondato il

ricorso a meri segni. Non bisogna infatti dimenticare che è sullo sfondo degli

interessi per la validazione dei metodi algoritmici e, più latamente, della

Kunstlehre257 che si stagliano le considerazioni husserliane sulla rappresentanza;

studiarne la genesi e il comportamento ha perciò come obiettivo quello di far

comprendere come dei procedimenti meramente simbolici possano condurre alla

verità - e le analisi sulla rappresentanza concettuale nei suoi rapporti con

l’intuizione da un lato e la rappresentanza segnica dall’altro rispondono a questi

scopi. Al fine però di delineare nella loro esatta caratura siffatti rapporti è

necessario introdurre un nuovo elemento, o per meglio dire è tempo di trattare

l’argomento che dà il titolo a questo nostro paragrafo: stiamo parlando

ovviamente dell’intenzionalità.

Uno dei primi punti da mettere in chiaro, alla luce di uno sguardo che

proprio perché carico delle acquisizioni successive non puo’ che essere

retrospettivo, è la natura genetica della trattazione sull’intenzionalità contenuta nel

manoscritto, che induce a porre una netta distanza dalle analisi descrittive delle

Ricerche logiche. E per quanto negli Studi sia manifestamente all’opera

un’impostazione squisitamente descrittiva è comunque sempre sul terreno delle

non rinnegate considerazioni genetiche che essa si impianta, tanto che entrambe le

prospettive sono da Husserl considerate necessarie ai fini dei chiarimenti richiesti

dalla logica. Che quindi ci si trovi di fronte a un concetto di intenzionalità ancora

molto distante da quello divenuto oramai proverbiale è cosa da tenere ben

presente, senza per questo comunque sminuire o peggio rinnegare l’importanza di

queste primissime acquisizioni. La natura genetica di queste analisi tradisce

ovviamente un impronta marcatamente psicologista; meno ovvio è però forse il

contesto problematico dal quale sorgono, che risulta in senso lato semiotico,

relativo all’importanza che la semiosi ha nei nostri processi psichici naturali. La

naturalità della semiosi è infatti qui riguardata a partire dalla sua stessa genesi,

257 In proposito cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.170 e S. Besoli Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.14

110

riscontrata da Husserl in un sentimento di impedimento che sorge laddove la

connessione abituale fra contenuti viene interrotta258; in questi casi l’interruzione

del continuum fa sì che il contenuto presente non sia più l’oggetto dell’attenzione,

di quel notare di per sé che in questa fase definisce l’intuizione259, ma una sorta di

“trampolino” che spinge verso il contenuto abitudinariamente connesso ma qui

assente. È questo sentimento, a detta di Husserl, “che imprime al fenomeno il

carattere di un’intenzione o rappresentanza”260, dove l’accostamento dei due

termini vale qui come una sorta di endiadi, poiché solo a quelle rappresentazioni

definite rappresentanze è ascrivibile il carattere dell’intenzionalità. Ed è su questo

importantissimo punto che dovremo ora soffermarci.

Le analisi genetiche condotte sulla rappresentanza si collocano nel solco

tracciato da Semiotik in merito alla trattazione della semiosi - la cui origine stava

per l’appunto nei processi naturali del nostro spirito - e ne costituiscono un

approfondimento. Si è già visto infatti come il segno sia qui una specie della

rappresentanza, senza considerare che anche laddove questa è di tipo concettuale è

pur sempre il carattere semiotico che la distingue dal mero concetto, ovvero il suo

“riferirsi a”, cosicché, seppure esplicitamente distinte dai segni, le rappresentanze

concettuali mantengono una caratura latu sensu semiotica, per via della loro

costitutiva dinamica rinviante261. Quanto qui si registra, al netto delle

diversificazioni terminologiche, è perciò un essenziale contributo chiarificatore

alle questioni centrali di Semiotica, ovvero i processi naturali della nostra psiche e

la loro validazione. Si chiarisce innanzitutto, per via dell’analisi genetica delle

rappresentanze, l’origine della semiosi naturale, riscontrata ora nel sentimento

d’impedimento che si prova a fronte dell’interruzione di un decorso abituale di

contenuti psichici: se infatti una melodia che andiamo ascoltando viene interrotta,

avvertiamo una mancanza e il contenuto attualmente presente spinge verso quello

mancante, lo intende nel senso del tendere-verso, funge insomma da “trampolino”

258 Cfr. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.50259 Ivi, p.75260 Ivi, p.50261 Si deve poi rammentare come la terminologia husserliana non sia particolarmente controllata in questa fase. Basti pensare al fatto che nei testi dedicati allo spazio, sostanzialmente coevi a quelli che qui stiamo trattando, Husserl non parla di rappresentanze concettuali laddove si tratti di concetti che stanno appunto per oggetti non presenti o impresentabili, bensì di segni concettuali; cfr. in proposito E. Husserl Philosophische Versuche über den Raum in Studien zur Arithmetik und Geometrie, Husserliana XXI pp.262-310 (trad. it. Libro dello spazio, Gerini e Associati, Milano 1996, pp. 68-71).

111

e diviene così una rappresentanza262. Proprio alla luce di questa origine naturale

della rappresentanza si spiega e si motiva il ricorso a meri surrogati che

caratterizza i nostri processi psichici:

In sé e per sé è già massimamente rimarchevole che un atto psichico possa

rinviare, al di là del suo contenuto immanente, a qualcosa che non è in alcun modo

cosciente. E tuttavia sembra che noi ne abbiamo in certo modo coscienza: infatti…mentre

ci abbandoniamo ai contenuti che hanno funzione di rappresentanza , noi crediamo di

avere a che fare con gli oggetti stessi di cui si ha rappresentanza263

La funzione surrogante, al centro della trattazione in Semiotik, si svela

qui come una modificazione, o meglio occultamento dell’intendere che

contraddistingue la rappresentanza, secondo meccanismi di natura schiettamente

psicologica: il sentimento d’impedimento all’origine dell’intenzionalità si mostra

particolarmente debole, sino a giungere alla latenza, in quei casi in cui si è di

fronte a rappresentanze piuttosto abituali e frequenti come i complessi espressivi,

dove è un altro genere di sentimento, quello di familiarità, a prendere il

sopravvento. Qui a detta di Husserl si è di fronte a una comprensione impropria,

apparente, qual è quella che regola il nostro affidamento a meri surrogati, dove

il sentimento di impedimento, originariamente forse molto visibile, viene

dunque indebolito fino all’impercettibilità, in virtù dell’abituale disattenzione e del

sentimento di familiarità che in questi contesti cresce264

La validazione dei processi psichici fondati su meri surrogati, ovvero

della semiosi naturale e dei suoi procedimenti, consisterà perciò in una sorta di

riattivazione del sentimento sedimentato, occultato, latente, in un rivolgimento più

attento a siffatte rappresentanze che svelandone la manchevolezza ridesti il

sentimento di impedimento da cui dipende la loro costitutiva e teleologica

intenzionalità.

La vera novità di questi testi sta perciò nella natura del contributo

chiarificatore che apportano alle problematiche husserliane di questa fase, sta cioè

nel concetto di intenzionalità che abbiamo sin qui descritto, perché è solo per sua 262 E. Husserl Logica. psicologia, fenomenologia, cit., p.50; cfr. anche K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.129263 E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.81264 Ivi, p.53

112

virtù che puo’ attuarsi un’autentica comprensione; e benché sia evidente la sua

distanza con il concetto perlomeno omonimo delle Ricerche logiche è comunque

identica l’istanza da cui è mosso, quell’invito alle cose stesse che abbiamo già

visto comparire nelle considerazioni su Schröder. La mutazione terminologica e

non solo che avviene con le rappresentanze sta nel fatto che la semiosi si scopre

affetta da un carattere di cui quello surrogante, sin qui prevalente, è soltanto una

modificazione, un carattere che alla staticità della mera surrogazione oppone la

sua intrinseca dinamicità, poiché l’intenzionalità si rivela essere “un processo

attivo volto all’eliminazione della mancanza”265, volto quindi verso l’intuitività,

verso le cose stesse. Ciò è evidente soprattutto negli Studi, il cui distintivo

carattere descrittivo, riconosciutogli dallo stesso autore, sta proprio nell’analisi dei

rapporti tra le due forme di rappresentazione, tra intuizioni e rappresentanze.

Al fine di darne conto è necessario però in via preliminare chiarire in

cosa consista la loro differenza. Delle rappresentanze si è già detto che il loro

carattere distintivo risiede nell’intenzionalità, ovvero nel tendere per mezzo del

contenuto immanente verso l’oggetto realmente inteso. Equivocando sulla lettera

di quanto or ora riportato si sarebbe indotti ad apprezzare qui il primo emergere

della distinzione fra contenuto e oggetto tipica della fase fenomenologica; che si

tratti per l’appunto di un’equivocazione è dimostrato dal rigido immanentismo che

impronta il testo husserliano, ravvisabile esplicitamente laddove Husserl afferma

che con le rappresentanze vi è

un tendere, per mezzo di contenuti qualsiasi dati nella coscienza, verso altri

contenuti non dati266

Ciò che viene meramente intenzionato è perciò un altro contenuto di

coscienza, il contenuto di un’altra rappresentazione, l’intuizione. Con essa la

distinzione tra contenuto immanente e intenzionato viene meno e non perché vi

sia identità fra di essi, ma perché nel suo caso non si puo’ affatto parlare di

intenzionalità. Dove infatti gli “oggetti” sono inclusi realmente, dove è il

contenuto immanente quello a cui si è rivolti, non v’è intenzionalità poiché non vi

è alcun tendere da cui sia affetto il contenuto immanente. Lo psicologismo che

265 K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.129; cfr. anche S. Besoli Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia, parte prima cit., pp.17-18266 E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.70. Senza considerare inoltre che laddove Husserl utilizza il termine oggetto lo pone tra apici.

113

caratterizza questa fase è qui particolarmente evidente, nei termini

dell’immanentismo psichico che non consente di ammettere una trascendenza in

senso rigoroso - pena la caduta in una manifesta contraddizione267. L’unico genere

di trascendenza qui ammessa è quella riguardante le rappresentanze, una

trascendenza cioè che si svolge in un campo d’immanenza, come mostrato dai casi

di quelle intuizioni i cui contenuti non coincidono di fatto con quanto si prende di

mira. Nel caso infatti di una melodia o di una cosa osservata solo da un lato il

contenuto immanente funge da rappresentanza268 in quanto non è ciò che a rigore

s’intende, o meglio si nota269, ma tende piuttosto verso l’oggetto come un tutto,

che non è però un contenuto immanente, bensì il decorso continuo dei contenuti

immanente a un atto unitario. Proprio per ovviare a queste difficoltà Husserl

propone di allargare lo spettro semantico del termine “contenuto”, stabilendo

che con ciò si debba intendere anche il decorso immanente dei contenuti o,

rispettivamente, il continuum immanente dei contenuti durante tutta la sua esistenza

continua270

La trascendenza di cui si parla a proposito dell’intuizione si muove

perciò in un campo di assoluta immanenza, poiché a rigore l’oggetto trascende

soltanto il singolo momento d’atto, tanto che il contenuto di questo assume la

funzione di rappresentanza; anzi parlare di “oggetto” - se si intende con ciò

riferirsi a un entità extrapsichica - è qui addirittura fuori luogo, poiché ciò verso

cui si tende è piuttosto un decorso di contenuti immanente a un atto psichico. Si

comprende allora perché parlavamo, con apparente paradossalità, di trascendenza

nell’immanenza: ciò infatti verso cui le rappresentanze - alle quali soltanto spetta

l’andare oltre, il trascendere, per via della differenza tra contenuto inteso e

realmente incluso - tendono è infatti il contenuto - in senso lato - di un’intuizione,

ovvero un’entità o un decorso di entità (psichicamente) immanente. E si

comprende inoltre il motivo per cui solo alle rappresentanze è attribuita

267 « Al concetto di un’unità obiettiva di parti e note caratteristiche di un determinato tipo, che coesistono indipendentemente dalla nostra coscienza, non corrisponde naturalmente alcuna intuizione; ciò sarebbe infatti una contraddizione »; ivi, p.73268 Come è stato giustamente osservato in questi casi infatti l’intuizione (con il suo contenuto parziale) si rivela segno per l’intuizione (dell’oggetto come un tutto); cfr. K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.125.269 Per Husserl infatti « solo ciò che è notato per sé puo’ essere designato come intuito »; E. Husserl, Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.75270 Ivi, p.74

114

l’intenzionalità: assegnarla anche alle intuizioni implicherebbe infatti una rottura

con l’immanentismo psichico che domina in questi scritti.

L’intreccio tra rappresentanze e intuizioni che abbiamo or ora visto

illumina già di per sé sul loro rapporto. Si mostra infatti come le seconde siano il

fine ultimo delle prime e al tempo medesimo la condizione, ovvero

rispettivamente il terminus ad quem e a quo. Dalle analisi sin qui svolte

quest’ultimo aspetto emerge con chiarezza: si è visto infatti come all’origine della

rappresentanza vi sia l’interruzione di un abituale decorso intuitivo, che dà origine

a quel peculiare sentimento d’impedimento da cui discende l’intenzionalità. Va

poi considerato che anche nelle rappresentanze è presente un contenuto intuitivo,

quello che funge cioè da rappresentante, a esse è necessaria la “percezione del

substrato segnico”271, che dev’esser perciò notato per sé e distinto dallo sfondo

percettivo affinché possa avvertirsi il suo carattere insaturo. Dall’altra parte il

tendere delle rappresentanze verso l’inteso spiega perché l’intuizione sia anche il

loro terminus ad quem o, per dirla con Husserl, “il fine ultimo di ogni

rappresentanza”272. Già solo per la sua origine essa presentava infatti una struttura

teleologica, come s’è visto nelle analisi genetiche del manoscritto; ma è nella

trattazione descrittiva degli Studi che un siffatto aspetto emerge con maggiore

pregnanza, poiché è qui che il rapporto fra le due tipologie di rappresentazione si

fa evidente:

se una rappresentanza si trasforma nel fenomeno ad essa correlato, ad es. in

un’intuizione immediatamente intenzionata da essa, allora l’immediato vissuto psichico

del fatto che ciò che è intuito è anche inteso dev’esser designato come coscienza

dell’intenzione riempita. In questo caso, dell’intuizione diciamo dunque che essa è

sorretta da una coscienza di intenzione riempita; della rappresentanza, più semplicemente,

che essa ha trovato il suo riempimento273

Osservata da una prospettiva schiettamente semiotica la situazione qui

descritta presenta spunti di notevole interesse. Le rappresentanze, a differenza

delle rappresentazioni improprie in Semiotik, non si limitano a surrogare contenuti

indisponibili e a operare nell’ottica del “come se”, poiché animate da

271 Cfr. B. Rang Einleitung in E. Husserl Aufsätze und Rezensionen cit., p.LII; ma anche K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit. p.130272 E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.71273Ivi, pp.71-72

115

un’intenzione che le spinge verso quei contenuti, la loro precipua funzione non sta

più tanto nel sostituire quanto nell’intendere, esse in altri termini non suppliscono

tanto e soltanto a una mancanza perché spingono piuttosto alla sua eliminazione:

parlare di riempimento, di intenzione riempita, attesta una semiosi di genere

diverso, dove il segno – che ricordiamo è (perlomeno) una delle specie della

rappresentanza – ha il compito precipuo di condurre in presenza delle cose stesse

piuttosto che fornirne un succedaneo. Pur con i limiti già intravisti e che

riprenderemo a breve un siffatto concetto di intenzionalità ha l’indiscusso merito

di instradare la riflessione husserliana verso la dimensione della presenza e

rafforza la critica al simbolismo matematico, con il suo formalismo dal carattere

eminentemente surrogante; l’origine della rappresentanza e il suo stretto nesso con

l’intuizione, certificato dal carattere teleologico dell’intenzionalità, mostrano con

evidenza come non sia più la surrogazione a determinare la semiosi, bensì l’in-

tendere, con la sua tensione verso l’intuizione, verso le cose stesse. Un siffatto

nesso, come è stato giustamente osservato, mostra come l’in-tendere qualcosa non

si esaurisca nel rivolgimento a un contenuto temporaneamente assente, bensì

spinga al suo stesso dissolvimento, a risolversi cioè nell’intuizione, dove per

l’appunto non v’è più traccia di intenzionalità274.

In virtù della fisionomia fin qui tratteggiata il concetto d’intenzionalità

tradisce un carattere marcatamente semiotico275. La sua genesi e la conseguente

esclusiva attribuzione alle rappresentanze mostra infatti una dinamica tipicamente

semiotica, dove il contenuto psichico diviene di fatto un segno per via dello “stare

per” rinviante276, in virtù cioè del rimando a un qualcosa di non presente che

determina il carattere della rappresentanza. L’intenzionalità funziona qui perciò

esclusivamente come rimando segnico, si esplicita come rinvio a un designato,

tanto che gli atti intuitivi a cui è teleologicamente orientata non presentano affatto

un carattere intenzionale, poiché in essi il contenuto è immanentemente presente.

Si è così di fronte a un’intenzionalità semiotica così come a una semiosi

intenzionale, in virtù della quale è nella teleologia del rapporto fra atti psichici

(diversamente) rappresentanti che va rintracciata la validazione dell’attività

274 K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit., p.129275Anche Münch sostiene qualcosa del genere, per quanto egli riscontri un’anticipazione di questo concetto di intenzionalità nella Filosofia dell’aritmetica; cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., p.123 276 Rang infatti parla in proposito di una Zeichenbewuβtsein; crf. B. Rang Einleitung cit., p.LII

116

simbolica surrogante tipica della nostra psiche277. I segni manifestano così un

carattere intenzionale assente in Semiotik che ridimensiona la centralità della

funzione surrogante, poiché la loro portata conoscitiva sta solo nella tensione

verso l’intuitività e si esaurisce laddove avviene il riempimento, nel momento in

cui si ha un’intenzione riempita, il segno in altri termini spinge non

semplicemente oltre sé ma al suo stesso superamento e risolvimento, è solo come

mezzo, ponte verso “l’oggetto”, verso le cose stesse che esercita la sua funzione

conoscitiva.

Giunti a questo punto è però necessario interrogarsi un po’ più a fondo

sulle effettive acquisizioni qui maturate, vista la ricorrenza di termini come

“riempimento”, “intenzione riempita” che letteralmente rimandano alle analisi

delle Ricerche logiche. Si è detto che in questi testi compare e si fa poi insistente

il richiamo alle cose stesse, all’intuitività; al fine però di valutarne la reale

consistenza si deve osservare cosa davvero s’intenda qui per intuitività e quale sia

la quidditas delle cose stesse. Il punto decisivo sta a nostro avviso nel fatto che

qui non v’è una distinzione fra comprensione e conoscenza, per cui il riempimento

intenzionale vale anche come condizione della prima. Particolarmente illuminante

in tal senso è quanto avviene con rappresentanze segniche quali le parole, le

espressioni verbali278: in casi come questi ciò a cui mira l’intenzionalità, una volta

ridestatasi, è il significato della parola, il suo contenuto significazionale279, il

riempimento intenzionale vale qui a rigore come comprensione e non

propriamente come conoscenza. L’intenzionalità dei segni linguistici sta perciò

nel loro rinviare al significato, per cui non è questo a rendere intenzionale il

simbolo mediando, improntando, informando il riferimento all’oggetto, non v’è

277 Dieter Münch ha riscontrato in ciò la novità rilevante di questi testi. A suo dire infatti il programma di chiarificazione della logica, interesse dominante delle analisi husserliane nella fase qui in esame, non ha più un carattere semiotico, poiché non consiste più nell’elaborazione di un procedimento algoritmico parallelo e consapevole in grado di validare i processi cognitivi e la loro semiosi; ma ne rivela uno psicologico, visto l’interesse esclusivo verso la coscienza intenzionale. A tal proposito egli parla coerentemente di un allontanamento dalla semiotica (cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.169-70). A nostro avviso, pur riconoscendo il mutamento avvenuto nella riflessione husserliana in merito alle modalità di chiarificazione, è però inopportuno parlare di una sorta di abbandono della semiotica, come se essa fosse oramai marginalizzata. Lo sta a dimostrare il carattere semiotico dell’intenzionalità, senza considerare che questa si scopre essere il carattere stesso della semiosi naturale. Si potrebbe allora dire che se a valle viene ridimensionato il ruolo della semiotica – in merito cioè alle procedure validanti – non lo è però a monte, poiché è pur sempre nel novero della semiosi naturale che si muovono le analisi sulla meinende Bewuβtsein. Punto questo che si motiva a sua volta a partire da un’impostazione empirico-psicologista qual è quella husserliana in questa fase. 278 Cfr. E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., pp.49, 50, 53, 77-79.279 Ivi, pp.53 e 77

117

qui la situazione tipica delle Ricerche per la quale un segno “esprime” un

significato che determina la maniera in cui è inteso l’oggetto, poiché qui a essere

inteso, nel senso dell’in-tendere, del tendere verso, è proprio il significato,

secondo un processo che rimanda al modello dei segni surroganti, dove il segno

“sta per” un contenuto, dinamizzandolo piuttosto che rimuovendolo. Il carattere

semiotico di questo genere di intenzionalità si fa allora particolarmente evidente,

poiché innanzitutto è a rappresentazioni non intuitive e simboliche che essa spetta

in via esclusiva; ma soprattutto è nei termini di un rimando segnico che si esplica,

secondo la semiosi finora vista, dove non solo non v’è la mediazione del

significato, ma questo è addirittura ciò a cui si rinvia280.

A fondo di questo sta la curvatura psicologista delle riflessioni

husserliane e l’immanentismo psichico che fa tutt’uno con essa. L’intenzionalità

viene infatti scoperta analizzando i meccanismi della nostra psiche, più nel

dettaglio è nel novero della semiosi naturale che trova la sua ratio cognoscendi, in

quanto si rivela come ciò che la rende possibile; di qui il suo carattere

marcatamente semiotico, esplicitato nel rinvio a quanto i segni (naturali e non)

sostituiscono, ovvero un contenuto psichico e non un oggetto esterno, sì che

perlomeno sotto il profilo semiotico la distinzione tra dati intuitivi e contenuti

significazionali si mostra di poca rilevanza: alla diversità del contenuto non

corrisponde infatti una differenza nella semiosi. Da ciò discende lo sfumare della

distinzione fra comprendere e conoscere, poiché nel momento in cui alle parole è

negata una funzione espressiva la comprensione del loro significato consisterà nel

presentare il contenuto che sostituiscono, nel riempimento di un’intenzione

nient’affatto significante, ma che semmai tende al significato, trattandosi per

l’appunto di un contenuto psichico a cui è associata e che a rigore non esprime.

Il limite dell’impostazione immanentista sta proprio in questo,

nell’impossibilità di mettere a fuoco la decisiva distinzione tra contenuto e

oggetto, poiché è sempre e solo con contenuti psichici che si ha a che fare; e la

conseguenza più vistosa sta nel carattere semiotico dell’intenzionalità, il cui

“riferirsi a” ha la natura di un rinvio indicale, perché non v’è nessun intendere che

lo costituisca, non v’è cioè alcuna determinazione della maniera in cui il designato

è inteso: in altri termini, non c’è alcuna intenzione significante, bensì 280 Da un’ottica retrospettiva la semiosi che qui si rivela ricorda da vicino quella tipica degli indici nelle Ricerche logiche, proprio per l’assenza della dimensione semantica, tant’è che è l’associazionismo a improntare e render possibile la teleologia delle rappresentanze con la loro aspirazione al riempimento

118

un’intenzionalità segnica, dove è il segno a farsi esclusivo carico dell’intendere,

ridotto a un meccanismo associativo. Sebbene qui venga sottolineata l’importanza

decisiva delle relazioni fra gli atti per la logica e la teoria del giudizio, sebbene

esse vengano descritte con espressioni tipicamente fenomenologiche quali

“riempimento intenzionale”, “coscienza dell’intenzione riempita”, si è comunque

ancora lontani dalla prospettiva delle Ricerche logiche, poiché a ben vedere non si

tratta di un riempimento del significato, bensì del mero segno, nella presentazione

di ciò per cui esso sta e non di ciò che significativamente intende: l’intenzionalità

muove infatti verso il colmamento di una mancanza, il mero segno mira

all’intuizione in virtù di meccanismi tipicamente psicologici, come l’associazione

e l’abitudine.

La trattazione husserliana sui rapporti fra intuizioni e rappresentanze va

perciò proiettata su uno sfondo semiotico e in questo va valutato il suo valore

conoscitivo Non bisogna infatti dimenticare che negli Studi psicologici sulla

logica elementare la logica è intesa ancora come Kunstlehre, il cui obiettivo sta

nella validazione dei metodi conoscitivi e nell’estensione della loro portata,

metodi in larga parte simbolici, per cui l’importanza riconosciuta ai rapporti tra

rappresentanze e intuizioni per la logica medesima va vista nel fatto che essi si

rivelano condizioni di validità di quegli stessi metodi, illustrando la maniera in cui

è possibile comprenderne e verificarne l’operare, il funzionamento. È perciò nel

novero della validazione e verifica dei metodi conoscitivi che l’intenzionalità

trova il suo valore conoscitivo, secondo un’impostazione che rimane

sostanzialmente identica a quella dei testi in precedenza affrontati. La novità

rilevante è senz’altro il ruolo decisivo assegnato all’intuizione, vista come ciò a

cui le rappresentanze – e i segni – tendono, sì che non è nella surrogazione che

consiste la portata conoscitiva dei segni, bensì nella tensione verso l’intuitività;

v’è però da dire che è nei termini della rimozione di una mancanza e quindi a

partire da una semiosi surrogante – e non significante – che si definisce il

riempimento intenzionale, con la conseguenza che la comprensione di una parola

non si discosta dalla percezione di un oggetto designato: in entrambi i casi infatti

si ha la presentazione di un contenuto psichico, il suo divenire immanente. In tal

maniera è ancora al segno che viene attribuito un ruolo di primo piano in ambito

logico, poiché il riempimento intenzionale vale come presentazione del contenuto

sostituito, compare nel novero della semiosi surrogante, è in un contesto semiotico

119

che l’intenzionalità viene scoperta così come – inevitabilmente, visto il genere di

semiosi – semiotica è la sua natura.

A ulteriore conferma di quanto detto v’è la maniera in cui Husserl

affronta la questione del pensiero concettuale. I concetti, con il pensiero che

costituiscono, sono considerati da Husserl delle costruzioni idealizzanti,

particolarmente utili in scienze quali la geometria, vista l’impossibilità di ottenere

empiricamente quanto con essi s’intende; si tratta in altri termini dei cosiddetti

contenuti significazionali. Questa loro natura fa sì che essi non costituiscano -

soltanto - il terminus a quo di un riempimento intenzionale, possibile o meno,

poiché è anche e soprattutto come terminus ad quem di un siffatto riempimento

che operano, nel momento in cui si ha a che fare con segni, quali le parole,

intenzionalmente rivolti verso di essi, vista inoltre la loro impossibilità di venir

sganciati dai segni. La conseguenza più rilevante di tutto questo sta nel fatto che i

concetti, i significati, non sono affatto la necessaria mediazione per giungere

all’intuizione, non sono parte sempre e comunque del riempimento, poiché

nell’intuizione un momento distintivo che s’impone all’attenzione puo’ servire,

in quanto segno, a indicare un altro elemento intuitivo, senza che vi sia alcuna

mediazione del pensiero concettuale281

E questo vale anche per quei segni che più degli altri sembrano

necessitare della mediazione concettuale, ovvero le parole, poiché le

rappresentanze linguistiche, come afferma Husserl, possono riferirsi ai dati

intuitivi anche laddove il pensiero concettuale recede282, a mo’ di un indice. A

rigore è perciò difficile riscontare qui la conoscenza descritta nelle Ricerche

logiche come adaequatio rei ac intellectus poiché la res è pur sempre un mero

contenuto psichico e dispensabile si rivela la presenza dell’intellectus, sì che a

venir riempito non è tanto il significato, quanto soprattutto il (mero) segno.

Affinché si apra la via a una siffatta idea di conoscenza è necessaria una più

attenta e diversa considerazione della dimensione semantica così come un

concetto più proprio di trascendenza: è necessaria, in altri termini, la distinzione

fra contenuto e oggetto, di cui è tempo ora - e non soltanto in merito a quanto

appena detto - di occuparsi.

281 E. Husserl Libro sullo spazio cit., p.69282 E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.81

120

§ 2.3 – Intenzionalità, contenuto e oggetto

Nell’introdurre l’importantissima distinzione cui abbiamo fatto più volte

cenno è indispensabile fare il nome di uno dei più insigni esponenti della scuola

brentaniana, cui del resto lo stesso Husserl apparteneva perlomeno quanto alla sua

primissima formazione: stiamo parlando di Kazimierz Twardowski e in

particolare del suo scritto Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle

rappresentazioni. Una ricerca psicologica (1894). A motivare la necessità di

questa nostra scelta interviene innanzitutto l’interesse che Husserl mostra di avere

per l’opera, testimoniato dai due scritti che egli vi dedica nel 1894: una recensione

e il ben più consistente – benché frammentario – manoscritto sugli oggetti

intenzionali283. Ma ben più che la semplice cronistoria delle letture husserliane è

quanto in esse emerge a produrre ragioni fondamentali, poiché, com’è stato da più

parti osservato, è dal confronto con l’opera di Twardowski che il concetto

fenomenologico di intenzionalità ha modo di delinearsi284, così come la

distinzione tra contenuto e oggetto a esso strettamente connessa. A ciò va poi

aggiunta la condivisione del medesimo orizzonte psicologista da parte dei due

allievi di Brentano, sì che “l’eresia” di Twardoswki apre la strada a quella ben più

rilevante e consistente di Husserl medesimo.

Va detto infatti che la distinzione tra contenuto e oggetto non è

letteralmente rilevabile dalle riflessioni brentaniane de La psicologia da un punto

di vista empirico: l’in-esistenza intenzionale, tratto distintivo dei fenomeni

psichici, riconduce la relazione intenzionale al riferimento dell’atto a un contenuto

immanente, sì che questo è fondamentalmente l’oggetto285; di qui consegue non

tanto il privilegio per la percezione interna, quanto l’esclusiva attribuzione a essa

dello statuto di percezione286, cosa che rende perlomeno difficile l’attuarsi di

un’autentica trascendenza.

283 Ivi, rispettivamente pp.125-29 e pp.87-124.284 Cfr. K. Schuhmann Husserls doppelter Vorstellungsbegriff, cit., p.132 e S. Besoli Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia, fenomenologia parte I cit., p.27 (nota 73).285 F. Brentano Psychologie vom empirischen Standpunkt, Hamburg, Meiner 1973 (ed. it. id. La psicologia dal punto di vista empirico vol. I, Laterza, Bari 1997, p.154). Cfr. anche S. Besoli Introduzione cit., p.29. 286 «La percezione interna non è solo l’unica immediatamente evidente, ma è di fatto la sola percezione nel vero senso della parola…Strettamente intesa, dunque, la cosiddetta percezione esterna non è una percezione, e quindi i fenomeni psichici possono venire definiti come quei fenomeni in relazione ai quali soltanto è possibile una percezione nel vero senso della parola »; F. Brentano La psicologia da un punto di vista empirico vol. I, cit., p.157

121

Ed è di qui che parte Twardowski per le sue analisi, dall’immanenza del

contenuto psichico e dalla sua conseguenza più rilevante, la confusione in merito

al termine oggetto. Questo infatti si riferisce tanto al contenuto intenzionale di un

atto quanto all’oggetto sussistente per sé, indistinzione che non soltanto si dà a

vedere nel linguaggio ma è addirittura da esso facilitata, se in esso entrambi

vengono definiti “rappresentati”287. Sciogliere una siffatta equivocazione equivale

perciò ad affisare non soltanto la distinzione tra contenuto e oggetto, ma anche a

delineare l’esatta fisionomia della rappresentazione. Già il solo parlare di

equivocità implica del resto l’ammissione di quella distinzione, che tuttavia

Twardowski non si limita a riprendere di peso da considerazioni altrui - come

quelle di Höfler - poiché ne dà prova a partire dal medesimo terreno su cui sorge

la deplorata confusione, quello cioè linguistico, in virtù di un’assunta analogia fra

pensiero e linguaggio. Se infatti il nome adempie a una triplice funzione,

provvedendo a render noto un atto rappresentativo, a destare in chi ascolta un

contenuto psichico che è il suo significato e infine a designare un oggetto, ne

risulta che quell’atto rappresentativo reso noto è costituito da due diverse

componenti, per l’appunto contenuto e oggetto288. L’ulteriore equivocità di cui

davamo conto, relativa al fatto che a entrambi è riferito il termine

“rappresentazione” - e che come egli afferma contribuisce non poco a render più

difficile un’esatta distinzione -, è nuovamente risolta su un terreno linguistico, con

l’introduzione della differenza fra aggettivi determinativi e modificanti, che

rispettivamente ampliano (o completano) e modificano il significato

dell’espressione cui appartengono289. L’aggettivo “rappresentato” ha sempre una

funzione determinativa in rapporto al contenuto, poiché ne completa il significato

determinandolo analiticamente290; diversa invece è la situazione quando si parla di

“oggetto rappresentato”, dove oltre che in funzione determinativa – per cui si

attribuisce all’oggetto una nuova determinazione, quella di esser parte della

relazione a un soggetto – l’aggettivo puo’ essere inteso in senso modificante – e in

tal caso è improprio parlare di oggetto, poiché in verità s’intende il contenuto

della rappresentazione, così come con “paesaggio dipinto” si puo’ intendere il

287 K. Twardowski Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen. Eine psycologische Untersuchung, Alfred Hölder, Wien 1894 (ed. it. in K. Twardoswki Contenuto e oggetto, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.58)288 Ivi, pp.63-65289 Ivi, p.66290 Intendiamo qui dire che il predicato “rappresentato” è già contenuto nel soggetto “contenuto” poiché questo, a detta di Twardowski, non puo’ che essere rappresentato (ivi, p.68)

122

quadro e non il suo soggetto291. È perciò alla luce della grammatica del termine

“rappresentazione” che si dissolve la confusione tra contenuto e oggetto derivante

dal loro essere entrambi rappresentati. Al fine rimediare agli inconvenienti di una

siffatta duplicità di significato, Twardowski suggerisce di emendare l’uso del

termine “rappresentare” nella maniera che segue:

del contenuto diremo che è pensato, rappresentato nella rappresentazione;

dell’oggetto diremo che è rappresentato per mezzo del contenuto di una rappresentazione

(o per mezzo di una rappresentazione)292

Se dunque sin qui si era soltanto mostrata la distinzione tra contenuto e

oggetto, ora è indicato di qual genere sia il loro rapporto: il primo è infatti il

mezzo tramite cui si rappresenta il secondo, è perciò sempre in maniera mediata

che ci si riferisce a esso, intendendolo in qualche modo. Il contenuto svolge così

una funzione significante, è il significato e non l’oggetto di una rappresentazione,

cosa che se da un lato distanzia Twardowski da Brentano, dall’altro non rompe

affatto con l’impostazione psicologista, che è per l’appunto comune a entrambi:

l’identificazione tra contenuto e significato rende infatti quest’ultimo una realtà

psichica, per cui non v’è spazio per una logica sganciata dalla psicologia293, come

accadrà invece con Husserl nei Prolegomeni.

La permanenza di una siffatta impostazione non si fa però sentire soltanto

a proposito del contenuto, poiché perlomeno altrettanto rilevanti sono le

conseguenze dal lato dell’oggetto. Il tacito presupposto delle considerazioni di

Twardowski è infatti che a ogni rappresentazione corrisponda un oggetto, se il

contenuto che per necessità spetta a una rappresentazione si riferisce

necessariamente a un oggetto. Da ciò il problema delle rappresentazioni rivolte a

oggetti impossibili e non esistenti, nelle quali non sembra ammissibile alcuna

controparte oggettuale. La chiave per risolvere questa impasse è ancora una volta

il parallelismo con i nomi, con la loro costitutiva differenza tra significare e

designare. Nel caso di una rappresentazione quale quella del quadrato rotondo

bisogna infatti distinguere in maniera simile, tenendo conto del fatto che con il

contenuto necessariamente inerente alla rappresentazione è dato un oggetto da

291 Ivi, pp.68-69292 Ivi, p.71293 Cfr. S. Besoli La rappresentazione e il suo oggetto: dalla psicologia descrittiva alla metafisica in K. Twardoswki Contenuto e oggetto cit., p.18

123

esso distinto, tanto che a essere inesistente non è certo il contenuto, bensì

l’oggetto che esso intende. In tal maniera la distinzione tra contenuto e oggetto

risulta ancor più rafforzata, poiché se le determinazioni contraddittorie inerissero

al primo questi non esisterebbe, dando luogo a un ferro ligneo come la

rappresentazione priva di contenuto; l’ammissione dell’oggetto per ogni

rappresentazione si rivela perciò necessaria proprio per queste medesime, per cui

si puo’ certo parlare di rappresentazioni i cui oggetti non esistono, ma non di

rappresentazioni che sono senza oggetto294

Alla facile obiezione sulla contraddittorietà di oggetti inesistenti che

tuttavia sussistono per una rappresentazione Twardowski risponde parlando di un

significato modificato di esistenza, quella cioè fenomenica, intenzionale, sì che

all’in-esistenza intenzionale del contenuto di brentaniana provenienza si affianca

qui l’esistenza intenzionale dell’oggetto, che non è affatto da intendersi come

effettiva, poiché qui l’oggetto esiste soltanto come termine di un rapporto

intenzionale, ovvero soltanto come rappresentato295. Un concetto di esistenza sui

generis, luogo centripeto delle critiche husserliane, ma che egli doveva giocoforza

ammettere, vista la sua idea del significato come parte effettiva dell’atto, come

contenuto psichico, a cui l’attribuzione di qualità contraddittorie avrebbe impedito

l’esistenza rendendo impossibile la rappresentazione qua talis. Un concetto che

sorge perciò dall’impostazione immanentista dello studioso polacco, al cui interno

però l’ammissione della differenza tra contenuto e oggetto provoca un corto

circuito abbastanza singolare, visibile nel necessario quanto paradossale sfocio

nella metafisica da parte di chi pur non rinnega la sua provenienza dalla psicologia

empirica:

tutto ciò che è, è un oggetto di un possibile atto di rappresentazione; tutto ciò

che è, è qualcosa. E di conseguenza qui è il punto in cui la discussione psicologica

intorno alla distinzione tra oggetto e contenuto della rappresentazione sfocia nella

metafisica296

294 K. Twardoswski Contenuto e oggetto cit., p.82295 Ivi, p.78296 Ivi, p.90

124

La metafisica a cui approda Twardowski - e che egli ha la pretesa di

ricondurre alla sua fisionomia più classica in quanto “scienza degli oggetti in

genere” - fa perno sul concetto generalissimo di oggettualità, coincidente con

l’essere rappresentato, sì che il suo diritto a porsi come regina delle scienze è qui

non soltanto ribadito, ma illuminato nella sua autentica valenza, in quanto “ciò di

cui si occupano le singole scienze non sono altro che gli oggetti delle nostre

rappresentazioni”297. Ed è in fondo l’unico genere di metafisica possibile per lo

psicologismo. Con Twardowski perciò l’intenzionalità opera ai sensi della

trascendenza, rimandando oltre il contenuto senza più essere il riferimento a esso,

com’era per l’in-esistenza intenzionale di Brentano; una sorta di retroreferenza

brentaniana è però da leggere nella necessità che il riferimento all’oggetto non sia

mai a vuoto, nella necessaria presenza del referente intenzionale,

nell’impossibilità cioè che vi siano atti senza oggetto298.

Le considerazioni critiche husserliane hanno come centro del loro

svolgimento proprio questo punto, poiché per Husserl è del tutto indifferente

l’esistenza dell’oggetto intenzionato per lo statuirsi della rappresentazione, per la

sua essentia. Egli riscontra infatti il vulnus apicale della posizione di Twardowski

in una confusione di piani, nell’aver cioè ascritto a una dimensione ontologica

differenze che invece rimontano al piano delle rappresentazioni e dei loro

rapporti, giungendo così al (falso) raddoppiamento tra oggetti veri e

intenzionali299, senza rendersi conto che

l’intera differenza tra vero e intenzionale si riduce a certe peculiarità e

differenze della funzione logica delle rappresentazioni, cioè delle forme dei possibili

nessi obiettivi in cui possono entrare le rappresentazioni, considerate esclusivamente in

base al loro contenuto obiettivo300

In virtù di questo diverso angolo prospettico risulta mutata la natura del

riferimento intenzionale, che non è più tarato sull’oggetto, bensì sulle

caratteristiche degli atti e sui loro nessi intenzionali, sì che le differenze in

questione non si misurano in termini ontologici, bensì psicologici o per meglio

dire fenomenologici: è infatti a partire dagli atti e dai loro nessi che si motiva

297 Ivi, p.92298 Su questo punto cfr. S. Besoli Introduzione cit., p.29 e p.32299 E. Husserl Oggetti intenzionali in id. Logica, psicologia, fenomenologia cit., p.91 300 Ivi, p.93

125

l’inessenzialità, la dispensabilità dell’oggetto per la rappresentazione intenzionale,

poiché è soltanto nei giudizi validi in cui si inseriscono le rappresentazioni che

puo’ esser mostrato se l’oggetto inteso esiste o meno301. Parlare di “oggetto

intenzionale” equivale allora a indicare il carattere distintivo della

rappresentazione, il suo “riferirsi a” che non necessita affatto della presenza del

referente, l’attributo “intenzionale” in altri termini

non “modifica” più l’oggetto in oggetto non-esistente, ma si intende ora un

oggetto nel senso in cui esso deve appartenere ad ogni rappresentazione, alle valide come

a quelle non valide; oppure un oggetto nel senso in cui si prescinde del tutto dalla relativa

questione di esistenza. Poiché l’estensione del concetto ”intenzionale” comprende anche

gli oggetti veri, non si puo’ parlare ora di una suddivisione302

L’oggetto perciò appartiene alla rappresentazione non come sua parte,

nei termini dell’in-esistenza intenzionale brentaniana che ancora fa capolino nelle

analisi di Twardowski303, bensì come suo terminus ad quem, la cui mancata

esistenza nulla toglie alla rappresentazione, poiché l’aggettivo “intenzionale” vale

a caratterizzare il riferimento dell’atto più che il suo oggetto. Laddove infatti si ha

a che fare con oggetti non esistenti Husserl utilizza sì una formula modificante,

parlando di “oggetti meramente intenzionali”, ma questo non vale ad ammetterne

ontologicamente la presenza quanto piuttosto a indicare la specificità del

riferimento a un oggetto “eventuale”304.

La via al riempimento intenzionale come atto conoscitivo è così aperta,

guadagnata attraverso il concetto di intenzionalità che Husserl elabora nel suo

301 La suddivisione degli oggetti in esistenti e non esistenti è infatti « una mera suddivisione delle rappresentazioni in rappresentazioni A, che si inseriscono in giudizi esistenziali validi della forma “A esiste”, e ancora in rappresentazioni B, che si inseriscono in giudizi esistenziali validi della forma correlativa “B non esiste” ». Ivi, p.95302 Ivi, p.96303 Per Husserl l’esistenza intenzionale dell’oggetto di cui parla Twardowski coincide infatti con la sua immanenza all’atto (ivi, p.92), cosa che rende alquanto difficile mantenere la distinzione tra contenuto e oggetto, inducendo piuttosto a una loro assimilazione (su questo punto cfr. E. Husserl Recensione a K. Twardowski, Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni intenzionali in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.132 così come S. Besoli Introduzione cit., p. 32 nota 82); di conseguenza il riferimento intenzionale si rivela di natura intra-mentale, richiamando da vicino la dottrina brentaniana dell’in-esistenza intenzionale. Una convincente ricostruzione dell’interpretazione husserliana (che di riflesso sottolinea un effettivo punto debole nella disamina di Twardowski) è offerta da Rang, secondo cui parlare di “oggetti rappresentati” nei casi di rappresentazioni di oggetti inesistenti ha un senso modificante, sì che l’oggetto rappresentato diviene il contenuto della rappresentazione (cfr. B. Rang Einleitung cit., pp. XXIV-XXV). 304 Ivi, p.97

126

confronto critico con Twardowski. Nel caso di questi essa si muove

sostanzialmente in un contesto di immanenza, rivolta a un oggetto che esiste solo

in quanto meramente rappresentato e perciò inerente all’atto, assimilandosi in tal

maniera all’in-esistenza intenzionale di Brentano, tanto che la stessa differenza fra

contenuto e oggetto non rompe del tutto con l’immanentismo psichico

brentaniano. La critica husserliana al falso raddoppiamento tra oggetto

rappresentato e oggetto vero mette capo invece a un diverso concetto di

intenzionalità, la cui caratteristica precipua sta nella sua autentica trascendenza,

nell’indirizzamento alla realtà extra-mentale che la connota sempre e dovunque,

poiché nella relazione intenzionale non sono i poli relati a istituire la relazione, ma

è questa stessa a farli emergere, segnando la dinamicità costituiva della coscienza,

il suo essere autotrascendimento, apertura verso il mondo, verso le cose stesse,

tanto che il riempimento intenzionale opererà da ora in senso schiettamente

conoscitivo, nei termini dell’adaequatio, della presenza “in carne e ossa” di ciò

che è inteso. Rompendo perciò con il rigido immanentismo che ancora limitava la

posizione di Twardowski l’intenzionalità opera in senso autenticamente

conoscitivo, in quanto è nell’intuizione di ciò che si è inteso, dell’oggetto pensato

mediante il significato che essa si compie e non nella presenza di quanto

conferisce senso al segno, del contenuto a esso associato e da esso sostituito.

Ed è da qui che è possibile valutare il peso reale della distinzione tra

contenuto e oggetto. Il piano di autentica trascendenza nel quale si muove il

concetto di intenzionalità necessita infatti di quella disgiunzione e in maniera ben

più radicale di quanto fatto da Twardowski, poiché l’oggetto rappresentato è

sempre il termine di un riferimento extra-psichico, laddove il contenuto è invece

in ogni caso parte reale dell’atto e non puo’ perciò mai venir meno.

Ma ancor più importante è un’ulteriore distinzione che Husserl rileva,

stavolta del tutto di contro a Twardowski, quella cioè tra contenuto e significato.

L’associazionismo psichico non vale infatti come spiegazione della comprensione

linguistica, poiché tutt’al più simili sono i contenuti evocati dalla coscienza di chi

ascolta un’espressione, giammai identici; di conseguenza il contenuto psichico

non puo’ mai coincidere con il significato, ma ne è il rappresentante, poiché esso è

sempre qualcosa di individuale, di dato qui e ora, laddove il significato è piuttosto

ciò che rimane identico nella molteplicità variabile dei contenuti305. La dimensione

305 E. Husserl Recensione a K. Twardowski, “Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni intenzionali” in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.130

127

semantica non puo’ perciò essere ricondotta all’empiria, poiché il significato è

piuttosto l’invarianza non empirica dei molteplici contenuti psichici, sì da non

poter mai essere qualcosa di osservabile, di realmente appartenente all’atto come

immanenza, bensì presente in esso in senso soltanto funzionale: si è così di fronte

alla prima formulazione dell’idealità dei significati306. Alla luce di questa

acquisizione diviene ancor più chiaro il rifiuto husserliano di fare dell’oggetto un

componente necessario per la rappresentazione, poiché è piuttosto il significato il

suo elemento distintivo, la sua essenza, ed è per giunta solo in virtù di esso che è

possibile il riferimento oggettuale.

Se in precedenza avevamo assistito alla comparsa di un doppio concetto

di rappresentazione qui radicalmente mutata è la situazione, perché le

rappresentanze decadono al ruolo di contenuti delle rappresentazioni, a motivo del

fatto che solo in quanto portatore di un significato il segno puo’ rappresentare

qualcosa, il contenuto in altri termini, distinto dal significato, è quella componente

reale che non rimanda di suo pugno a qualcosa, con la conseguenza che la

funzione surrogante non puo’ affatto dirsi rappresentativa, poiché l’intenzionalità

è ora di natura squisitamente significante e non semiotica, e il rimando è sempre e

comunque mediato dal significato, non rivolto verso di esso. La distinzione tra

espressioni e indici è così implicitamente stabilita, poiché il pensiero concettuale

non recede laddove si tratti di parole, o meglio ancora di proposizioni - che

Husserl annovera fra le rappresentazioni -, non v’è mai un rinvio associativo,

desemantizzato, poiché è solo in quanto significative che le espressioni

linguistiche posso dirsi intenzionali.

La centralità della dimensione semantica sancisce così il decadimento

della funzione surrogante dei segni, come mostrato fra l’altro dalla diversa

calibratura del carattere improprio della coscienza. L’improprietà infatti non

riguarda qui il rapporto tra segni e significati, bensì quello fra questi e gli oggetti,

poiché non si manifesta più nell’affidamento a meri segni come se fossero i

concetti sostituiti, ma riguarda il riferimento dei significati a oggetti inesistenti, il

loro far parte di giudizi che giudicano su rappresentazioni di oggetti come se si

trattasse di oggetti veri e propri307. Il come se, cifra distintiva della dimensione 306 Ibid.; per un esplicita menzione dell’idealità cfr. E. Husserl Oggetti intenzionali cit., p.114307 « Le rappresentazioni “Giove” e “il sommo degli dei olimpici” hanno lo stesso oggetto intenzionale, vale a dire ‘Giove’ è il sommo degli dei olimpici – secondo la mitologia greca » Ivi,p.97. L’oggetto a cui si riferiscono i significati è qui infatti non il dio, bensì la rappresentazione che i greci avevano di questo dio; su questo punto cfr. B. Rang Einleitung cit., p. XXXVI e S. Besoli Introduzione cit., p.38

128

impropria308, si declina perciò in maniera diversa, in accordo alle nuove

acquisizioni husserliane, non mettendo più capo all’ambito semiotico bensì a

quello semantico, sì che l’omissione inconsapevole a fondamento dell’improprietà

non attiene alla dimensione concettuale - a motivo dell’imprescindibilità dei

significati - bensì a quella oggettuale – vista la dispensabilità dell’oggetto nel

novero della rappresentazione: parlare infatti di oggetti inesistenti come se tali non

fossero non conduce infatti ad affermazioni esistenziali su realtà extramentali,

bensì a rilevare le relazioni che intercorrono tra significati diversi a partire dal loro

comune e ipotetico campo di riferimento309.

Alla centralità della questione semantica è poi strettamente legata

l’irruzione della dimensione ontologica, pressoché assente nelle analisi sin qui

affrontate. Il significato si rivela infatti il veicolo della trascendenza, consentendo

l’apertura all’essere come realtà extra-psichica, in virtù di un concetto di

intenzionalità ritagliato su di esso e che fa corpo con la sua duplice distinzione dal

contenuto e dall’oggetto. Si è visto come sia da escludere una coincidenza con

questo, poiché il significato è piuttosto il modo in cui l’oggetto è inteso, la

maniera in cui si attua il riferimento – intenzionale – a esso, per cui sempre

mediata concettualmente è la nostra presa sulla realtà empirica, che è per

l’appunto intesa, in qualche modo intenzionata. E la conseguenza in tal senso più

rilevante sta nell’emergere di un’idea di conoscenza come corrispondenza, come

adaequatio rei ac intellectus, in quanto è solo nel riempimento del significato,

nella presentazione intuitiva dell’oggetto così come è stato inteso che essa si attua,

cosicché è scoperto il valore dell’intenzionalità come via verso le cose stesse.

Sotto un profilo più strettamente semiotico ciò provoca la lateralizzazione della

funzione surrogante in ambito cognitivo, poiché non si tratta più di validare i

metodi conoscitivi simbolici presentando i contenuti per cui i segni stanno, ma di

presentare quanto i significati, costitutivi dei segni in quanto espressioni,

intendono: in altre parole, nel momento in cui l’attenzione di Husserl si rivolge

soprattutto al lato oggettivo della conoscenza, agli oggetti conosciuti più che ai

308 Cfr. B. Rang Einleitung cit., p.XXXVII309 Una siffatta concezione ha importanza soprattutto per l’analisi dei fondamenti della geometria, riconducendo a un’impostazione formalista: « Tutte le proposizioni della geometria, quelle esistenziali come quelle nomologiche, sottostanno a un’assunzione generale mai espressa, perché ovvia: posto che ci sia uno spazio, che ci sia una molteplicità del tipo in tal modo determinato (definito esattamente nei fondamenti), allora esistono in essa queste e quelle formazioni, per le quali valgono queste e quelle proposizioni e così via. L’esistenza e la non-esistenza matematica sono dunque un’esistenza e una non-esistenza soggette a posizione ipotetica dei fondamenti »; E. Husserl Gli oggetti intenzionali cit., p.106

129

soggetti conoscenti, si ha il passaggio da una semiosi surrogante a una espressiva.

Ma a ben vedere è la stessa centralità del segno a essere ridimensionata dalla

dimensione semantica, poiché solo in quanto significanti i segni possono riferirsi

intenzionalmente a qualcosa e contribuire in tal maniera alla conoscenza, con la

conseguenza che il loro rapporto con il significato non si esplicherà più ai sensi di

un rimando, ma come una innige Einheit, nella quale il significato non è il termine

di un riferimento segnico, ma ciò che lo inabita, lo anima.

In questo si rivela fondamentale l’altra distinzione in precedenza

menzionata, quella tra significato e contenuto. L’aver ascritto a una dimensione

ideale il primo fa sì che la sua appartenenza all’atto sia di natura funzionale e non

reale310 e impedisce di considerarlo termine di un rimando meramente segnico -

come accadeva laddove si trattava di contenuti associati o semplicemente sostituiti

-, poiché è piuttosto il significato a consentire al segno il rimando a qualcosa, a

qualcosa per l’appunto di inteso e non meramente surrogato, poiché il rimando si

muove nella trascendenza e non più nell’immanenza psichica dell’atto. Deprivato

della natura semantica fin qui riconosciutagli il contenuto decade a mera

rappresentanza, cui la variabilità connaturata alle entità empiriche, lungi

dall’essere un vulnus, ne é in verità il tratto caratteristico, poiché differenti

possono essere le manifestazioni in cui si incarna il significato, in senso tipologico

(segno, immagine) e all’interno delle medesime tipologie (segni, immagini); anzi

è proprio in virtù di una siffatta variabilità che il differente status del significato

puo’emergere, in quanto identità ideale nella molteplicità empirica, sì che i segni

non esprimono soltanto il significato, ma consentono di affisarne l’autentica

natura. L’immanenza del contenuto va perciò declinata, contra Twardowski, in

senso semiotico, essendo questa la funzione dei contenuti in grazia della loro

stessa individualità empirica, che non consente a una loro identificazione con i

significati311.310 E. Husserl Recensione a K. Twardowski, “Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni intenzionali” in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.130 311 L’aver identificato contenuto e significato ha condotto Twardowski al raddoppiamento rimproveratogli da Husserl. Egli infatti trovava necessario ammettere la presenza di oggetti non-esistenti proprio in virtù dell’immanenza del contenuto, della sua reale esistenza come parte dell’atto, cosa che rendeva impossibile riconoscergli quegli attributi che spettano agli oggetti impossibili, pena la sua – paradossale – impossibilità di esistere; un’impasse superata ammettendo appunto gli oggetti non-esistenti come portatori di qualità contraddittorie (cfr. K. Twardowski Contenuto e oggetto cit., pp.76-77). Husserl ha buon gioco nel dimostrare come in tal maniera la difficoltà, lungi dell’esser risolta, sia soltanto spostata, poiché l’oggetto non-esistente, proprio perché “rappresentato”, è anch’esso immanente, è perciò parte reale dell’atto, cosicché la difficoltà non puo’ che riproporsi (cfr. E. Husserl Oggetti intenzionali cit., pp.109-110). Ma a ben vedere il punto della questione sta in altro. Se Twardowski, come Husserl, avesse riconosciuto al contenuto

130

Alla luce di queste acquisizioni è finalmente chiarita la distinzione tra

comprensione e conoscenza, ben più che opacizzata nei testi sin qui visti, a causa

della somiglianza relativa ai rispettivi modi di attuazione. L’apertura all’essere

garantita dal nuovo concetto di intenzionalità declina in senso esclusivamente

conoscitivo il rimando segnico, cosicché non è mai nell’ottica di un rinvio al

significato che si attua la comprensione, anche perché esso è l’essenza della

rappresentazione, qualcosa che necessariamente le appartiene perché la definisce,

per cui mai questa potrà esserne priva come accadrebbe qualora vi rimandasse;

piuttosto, è l’attuazione del riferimento a esser subordinata alla comprensione,

poiché solo comprendendo il significato si viene a sapere cosa s’intende con il

segno e come lo s’intende. In tal maniera è all’orizzonte intellettivo, al pensiero

che la comprensione rimanda come suo luogo, è cioè intellettivo l’atto in cui

matura il comprendere, non trattandosi più della presentazione intuitiva di un

contenuto psichico, anche perché l’intuizione è ora rivolta agli oggetti, alle cose

stesse come entità extra-mentali, cosicché è sul versante della conoscenza - e non

della comprensione - che va riguardata, una conoscenza ora intesa come

adaequatio rei ac intellectus o, nei termini della sua declinazione husserliana,

come sintesi fra atti significanti e atti intuitivamente riempienti.

A uno sguardo retrospettivo ciò che si lascia scorgere è una ricalibratura

dell’idea di conoscenza, dovuta all’attenzione per un aspetto sin qui trascurato,

ovvero il suo lato per così dire oggettivo, ontologico. In precedenza infatti era ai

sensi di un concetto pratico, operativo, metodologico di conoscenza che Husserl

conduceva le sue analisi, dove a venire in primo piano erano inevitabilmente i

metodi conoscitivi, il cui carattere prevalentemente simbolico garantiva al segno

un ruolo di primissimo piano. In un contesto del genere la comprensione valeva

come consapevolezza nell’utilizzo dei metodi, senza che con essa si aprisse alcuna

via a una dimensione trascendente, considerato che la conoscenza veniva colà

un mero carattere semiotico la difficoltà sarebbe svanita, riconoscendo cioè i molteplici rapporti che i contenuti posso intrattenere con l’oggetto significativamente inteso, potendo essere simili come le immagini o estranei come i segni (cfr. E. Husserl Recensione a K. Twardowski, “Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle rappresentazioni intenzionali” in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.130). In virtù di questa loro estraneità le qualità contraddittorie, ovvero i significati, sono loro attribuiti in senso soltanto funzionale, senza che vi sia una raffigurazione che condannerebbe il contenuto all’impossibilità di esistere. Sotto questo profilo si puo’ allora convenire con Husserl quando riscontra in Twardowski le falle tipiche di una teoria delle immagini in relazione all’analisi del contenuto (E. Husserl Oggetti intenzionali cit. p.91), benché lo studioso polacco si guardi bene dall’aderire a essa, ritenendola primitiva (K. Twardowski Contenuto e oggetto cit., p.119).

131

intesa come retta e consapevole acquisizione della verità312. L’insoddisfazione

crescente verso l’impostazione psicologista, a motivo della sua ardua

compatibilità con la validità oggettiva dei concetti matematici e logici313, spinge

l’interesse husserliano sempre più verso il lato oggettivo della conoscenza,

provocando la decisiva, in termini conoscitivi, irruzione della dimensione

ontologica314. In ciò si rivelano essenziali le acquisizioni finora riscontrate, dalla

netta distanziazione del campo linguistico dal concetto di calcolo - in virtù del

riconoscimento della sua peculiare semiosi - al genere di intenzionalità emerso in

questo paragrafo. Ed è invero soprattutto quest’ultimo a rivelarsi decisivo -

assieme alla distinzione tra contenuto, significato e oggetto con cui fa corpo -,

poiché orienta l’attenzione husserliana in maniera autentica verso le cose stesse e

non più in via esclusiva sui metodi per appropriarsene, quando non surrogarle.

Sotto un profilo schiettamente semiotico ciò segna il passaggio da una semiosi

surrogante a una espressiva, in virtù della centralità del significato come modalità

in cui l’oggetto è inteso, la cui distinzione dal contenuto vale poi come scoperta

della dimensione autenticamente logica, quella cioè ideale. E in riferimento alla

logica medesima si registra un ulteriore e fondamentale spostamento, quello cioè

da una logica dei segni – qual era quella tipica e congrua a un’idea metodologica

di conoscenza – a una logica dei significati e più in generale rivolta alle

oggettualità ideali.

Come però accennavamo poc’anzi non ci si puo’ limitare, sotto il profilo

che più dà il taglio alle nostre analisi, a registrare un semplice passaggio da un

genere all’altro di semiosi, poiché in verità ben più radicale è il mutamento

avvenuto: quanto è dato vedere è infatti una lateralizzazione della semiotica a

vantaggio della dimensione semantica. Nel momento in cui è nell’approdo alle

cose stesse che si definisce il concetto di conoscenza l’aspetto metodologico passa

in secondo piano, in una posizione di subordine, e così i segni, in quanto

costituenti dei metodi; in tal maniera è al linguaggio - la cui fisionomia

cominciava già a emergere nel confronto con Schröder - e a i suoi segni espressivi

312 Cfr. p.60 sg. del nostro scritto313 Cfr. E. Husserl Abbozzo di un prefazione alle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.201 e id. Ricerche logiche cit., pp.4-5314 Su questo punto cfr. anche D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.130-31, per quanto una siffatta posizione necessiti di una più adeguata calibratura, come vedremo nel prossimo capitolo. Molto opportunamente egli sottolinea poi come nei testi del 1894 non siano più la psicologia e la semiotica a essere in primo piano, bensì la struttura intenzionale della coscienza e l’ontologia (ivi, p.178)

132

che viene conferito una sorta di primato, proprio perché il termine del riferimento

semiotico non è meramente sostituito, bensì inteso. Pur tuttavia al segno non verrà

con ciò attribuita una funzione secondaria, poiché fondamentale sarà il suo ruolo

nelle Ricerche, come indispensabile, sebbene su un versante diverso rispetto a

quanto sin qui visto, sarà la sua occorrenza, non da ultimo per la stessa

conoscenza.

§ 3 – Fenomenologia e semiotica nelle Ricerche logiche

§ 3.1 – Kunstlehre e Wissenschaftslehre nell’ottica fenomenologica

Le analisi di questo ultimo capitolo si prefiggono di mostrare come vada

intesa la lateralizzazione della questione semiotica con l’approdo alla logica pura

nelle Ricerche logiche, per poi operare uno scarto interpretativo - sull’andamento

ricostruttivo del nostro percorso - al fine di rilevare se la marginalità del segno sia

in ultima istanza davvero possibile nell’ottica della fenomenologia, nella maniera

in cui è intesa laddove esordisce. Nel dar corso agli sviluppi di questi semplici

accenni, o ancor meglio nel dare riempimento a queste vuote intenzioni, vogliamo

partire da una questione che ha a lungo occupato le pagine precedenti, ovvero la

distinzione tra Kunstlehre e Wissenschaftslehre, e trattare più da presso

quest’ultima, finora soltanto accennata - o al più menzionata per determinare

133

distintamente la fisionomia di una logica intesa come tecnologia. Subordinata a

questo scopo, finora la nostra esposizione ha considerato i due poli come se

fossero diametralmente opposti, fino a farne gli estremi del percorso husserliano

sino alle Ricerche logiche. Si tratta ora di chiarire definitivamente il senso di

quella distinzione e la nostra maniera di intenderla, alla luce delle acquisizioni

maturate con il distacco dallo psicologismo.

Nei Prolegomeni a una logica pura, volti in un’ottica di per sé già

fenomenologica a fare chiarezza sull’idea di logica, Husserl prende le mosse dalla

definizione di logica come tecnologia315(Kunstlehre) mostrando in che senso essa

abbia il diritto di valere come una dottrina della scienza (Wissenschaftslehre):

se la dottrina della scienza si propone il compito più ampio di indagare sulle

condizioni in nostro potere, dalle quali dipende la realizzazione dei metodi validi, e di

fornire regole per determinare in che modo possiamo, mediante artifici metodici,

impadronirci della verità, delimitare e costruire scienze in maniera valida, e in particolare

trovare e applicare i molteplici metodi che promuovono il loro sviluppo, preservandoci

dagli errori sotto tutti questi riguardi -, allora essa si trasforma in tecnologia della

scienza316

Quanto qui (nuovamente) riportato, pur se di primo acchito pare

ridimensionare la nostra opposizione, ci consente in verità di affisarla nella più

giusta maniera. Alla dottrina della scienza, Husserl è esplicito in tal senso, spetta

un ruolo fondativo, tanto che essa si configura come la “scienza delle scienza”. La

logica come Kunstlehre assolve a un tal ruolo in senso prettamente metodologico,

nella fissazione delle norme che presiedono alla realizzazione dei metodi

scientifici, quelle norme cioè che consentono di fatto la realizzazione dello scopo

costitutivo della tecnologia: l’appropriazione della verità o, se si vuole,

l’avanzamento del sapere317. Il punto però sta ora nel riconoscere che con la

tecnologia della scienza non si è ancora raggiunto il terreno ultimo, poiché le

norme che la costituiscono rimandano come ai loro fondamenti a discipline

teoretiche, in grado di giustificare e validare i procedimenti che più da presso

315 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.27316 Ivi, pp.45-46317 Una logica così intesa è infatti per Husserl una disciplina normativa, che si trasforma in tecnologia nel momento in cui la norma fondamentale, indirizzante, diviene il raggiungimento di uno scopo pratico (ivi, p.63), nella fattispecie l’approdo alla verità

134

caratterizzano la scienza qua talis, ovvero le fondazioni318. Nell’ottica psicologista

sin qui trattata un tale compito veniva demandato alla psicologia, riguardando il

lato prettamente psichico delle fondazioni, il loro essere processi mentali la cui

validità rimonta all’operare di leggi naturali. L’insoddisfazione per questa

prospettiva, motivata sulla assoluta trascuratezza dei contenuti obiettivi della

scienza che rischiava di “psicologizzare” le oggettualità logico-matematiche,

emerge con chiarezza nell’autocritica portata avanti nei Prolegomeni, com’è

particolarmente evidente da questo passo:

i logici psicologisti….considerano la scienza più nel suo aspetto soggettivo

(come unità metodologica del conoscere specificamente umano) che nel suo aspetto

oggettivo (come idea dell’unità teoretica della verità) ed insistono perciò unilateralmente

sui compiti metodologici della logica, trascurando la fondamentale differenza tra le norme

puramente logiche e le regole tecniche di un’arte del pensiero specificamente umana319

L’interesse prevalente alla dimensione soggettiva della scienza – e

correlativamente della conoscenza – caratterizzava anche la riflessione husserliana

vista in precedenza; il punto di svolta sta qui non soltanto nella sua avvertita

insufficienza320, ma nella adeguata messa a fuoco della dimensione oggettiva con

la “idea dell’unità teoretica della verità”, perché è solo a partire da essa che si

svela la natura di quelle insufficienze, la loro incapacità di assicurare un

fondamento inconcusso alla scienza. Se la scienza trova nelle fondazioni il suo

tratto caratteristico e costitutivo non puo’ essere affatto sufficiente ricorrere

all’associazionismo empirico al fine di validarle, poiché questo vale solo a

motivarne l’occorrenza e a illustrarne il funzionamento nei meccanismi psichici,

non ad assicurarsi della loro fondatezza obiettiva, a dimostrare cioè la loro

incontrovertibilità. Il discorso deve perciò spostarsi sul nucleo teorico della

scienza, sulla sua unità obiettiva, ai sensi di un punto d’osservazione a parte

obiecti in cui è l’idea di scienza con i suoi contenuti a segnare la fisionomia della

logica in quanto Wissenschaftslehre, e in cui è riconoscibile l’attuazione del

celebre motto fenomenologico an die Sache selbst. Con questo l’aspetto 318 Ivi, pp.31-41319 Ivi, p.169320 Nell’autoricostruzione del suo travaglio intellettuale culminato nella stesura delle Ricerche logiche Husserl infatti afferma che i dubbi sull’impostazione psicologista, sulle sue debolezze in merito all’obiettività della scienza, lo tormentavano ben prima della pubblicazione del suo rivoluzionario testo. Cfr. E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.201

135

metodologico della scienza, con il suo riferimento alla psicologia della

conoscenza, non viene affatto tagliato fuori come inessenziale o peggio allotropo,

piuttosto ridimensionato nel suo valore, poiché sono altre le norme logiche in

senso pregnante321, quelle cioè che costituiscono la scienza nella sua natura

obiettiva, in cui si mostra ciò che essa essenzialmente è:

ogni scienza, secondo ciò che essa insegna (quindi obiettivamente,

teoreticamente), è costituita di verità, ogni verità si trova in proposizioni, tutte le

proposizioni contengono soggetti e predicati attraverso i quali si riferiscono ad oggetti o

determinazioni ecc.; le proposizioni come tali si collegano secondo premesse e

conseguenze, ecc. Ora è chiaro che le verità fondate in tali costituenti essenziali di ogni

scienza considerata come unità teoretica obiettiva, le verità cioè che non si possono

pensare soppresse senza sopprimere ciò che conferisce a ogni scienza come tale un senso

e una base obiettiva, formano evidentemente i criteri fondamentali322

Se, come Husserl medesimo afferma, è a partire dalla ripartizione della

verità in campi, in unità obiettive che le indagini scientifiche devono orientarsi323,

è allora tracciata la fisionomia della logica pura, in quanto chiamata a definire i

concetti che appartengono all’idea obiettiva di scienza così come i nessi che ne

discendono analiticamente, una logica che è l’autentica Wissenschaftslehre,

considerato che la logica metodologica trova in essa “il primo e più essenziale

fondamento”324. Le norme infatti che regolano la tecnologia logica come “arte del

pensiero specificamente umana” non sono soltanto di natura psicologica,

antropologica, poiché a ben vedere il nucleo più significativo di esse consiste nella

trasposizione normativa delle leggi definite dalla logica pura, nella loro

applicazione pratica ai processi psichici a carattere fondativo, che ne fa le “regole

che stabiliscono come noi dobbiamo operare le fondazioni”325.

Ma la normatività non è affatto il tratto distintivo delle leggi puramente

logiche, quello che ne definisce la natura, tanto che solo in virtù di una

trasposizione esse acquisiscono il valore di norme; e non si tratta affatto di una

notazione corsiva, ma di un punto fondamentale in merito alla fisionomia della

321 Cfr. E. Husserl Sulla fondazione psicologica della logica in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.169322 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.171323 Ivi, p.25324 Ivi, p.172325 Ivi, p.173

136

logica pura. La sua mancata osservanza rappresenta infatti il punto debole degli

antipsicologisti, che declinando la contrapposizione tra psicologia e logica

sull’opposizione fra leggi naturali e normali non si sono avveduti del rischio che

v’era insito, quello cioè di confondere le leggi normative del pensiero con quelle

psicologiche326 - invalidando così la suddetta distinzione nell’atto stesso di

tracciarla. Il pericolo dell’equivocazione scompare invece laddove, con Husserl, si

svela l’esatta natura di quella contrapposizione, per cui

l’opposto di legge naturale come regola empiricamente fondata di un essere e di

un accadere fattuale non è la legge normale come prescrizione, ma la legge ideale nel

senso di una legalità che si fonda puramente nei concetti (idee, essenze concettuali pure) e

che perciò non è empirica327

Il rifiuto della normatività come tratto distintivo consente perciò di

mettere a fuoco il senso in cui è da intendersi la logica pura (die reine Logik),

quella logica cioè la cui legalità, puramente (rein) fondata nei concetti, sulle idee

come “essenze concettuali pure”, è di natura ideale. L’opposizione all’empiria che

definisce il senso di una logica non psicologica non va perciò declinata a partire

dalla prescrittività delle sue norme, in quanto lungi dall’essere un tratto dirimente

è piuttosto un carattere derivato, che rimonta, come ogni complesso normativo, a

un nucleo teoretico; ma è a partire da questo che va definita, la cui natura ideale,

puramente concettuale segna di per sé il distacco dalla dimensione empirica,

poiché mentre idealità e empiria si escludono vicendevolmente lo stesso non puo’

dirsi a proposito della normatività, che induce piuttosto a facili equivocazioni.

La distinzione tra Kunstlehre e Wissenschaftslehre discopre ora la sua

esatta caratura. La tecnologia della scienza puo’ infatti porsi come sua dottrina

solo in senso limitato, considerando cioè le scienze nel loro aspetto squisitamente

pratico, metodologico, assumendo pertanto una valore fondazionale solamente

parziale, poiché innestato sul lato esclusivamente soggettivo della scienza. Ma il

punto decisivo non sta tanto nella parzialità della sua ottica, quanto nel suo

rivelarsi insufficiente a proposito del suo stesso ambito, se i metodi che pretende

di fondare rimandano, come al nucleo più significativo delle loro condizioni, ai

contenuti obiettivi della scienza qua talis. L’apertura alla dimensione obiettiva

326 Ivi, p.159327 Ivi, p.175

137

della scienza e la sua adeguata determinazione non soltanto consente a Husserl di

venire a capo dei tormenti sul rischio della psicologizzazione delle entità logico-

matematiche, ma gli permette anche di rilevare i limiti che segnano la fisionomia

della Kunstlehre, in una maniera che rivela, superandole, le insufficienze delle

precedenti trattazioni. Qui infatti la validazione dei metodi conoscitivi consisteva

nel far maturare la consapevolezza a proposito del loro utilizzo, con il richiamo ai

processi psichici naturali come condizione, in linea con un’idea di scienza come

“arte del pensiero tipicamente umana”. Husserl ora non sconfessa affatto la

pertinenza di una siffatta prospettiva e del suo operato328, ma ne rileva la

lacunosità in rapporto alla fondazione della scienza, poiché oltre all’unità

soggettivo antropologica della conoscenza v’è l’unità oggettiva del contenuto di

conoscenza329, che non vale soltanto come necessaria integrazione dell’ambito

scientifico essendone piuttosto il fondamento essenziale. In tal senso non è

l’opposizione fra Kunstlehre e Wissenschaftslehre presa in astratto a caratterizzare

il percorso husserliano sino alle Ricerche logiche - anche perché, lo si è visto, non

si tratta affatto di termini reciprocamente escludentisi -, quanto piuttosto

l’emergere della loro disgiunzione, poiché nell’ottica in precedenza considerata

era a una logica di stampo metodologico che veniva attribuito un ruolo fondativo,

sì che la Kunstlehre veniva di fatto e tacitamente innalzata al ruolo di

Wissenschaftslehre; ora invece quest’ultima compare esplicitamente e come una

scienza puramente teoretica, che forma il più rilevante fondamento di ogni

tecnologia della conoscenza scientifica330.

L’approdo a questo genere di disgiunzione è indice dello spostamento

d’accento, del mutamento di prospettiva che impronta le analisi husserliane a

partire dai Prolegomeni, dove l’interesse non è più tanto e soltanto rivolto alla

conoscenza come attività specificamente umana, bensì alla teoria, ovvero a ciò

che costituisce l’oggetto della conoscenza teoretica. Il punto di partenza non è più

infatti costituito dalla prima, come avveniva soprattutto in Semiotik, poiché è

semmai a partire dall’idea di teoria ovvero di scienza in generale che vien posto il

problema relativo alle condizioni di validità della conoscenza: se infatti la teoria

consta di verità e di connessioni deduttive331, la conoscenza scientifica, o meglio

ancora teoretica - in quanto indirizzata alle prime e costituita dalla seconde - non 328 Ivi, p.172 e p.174329 Ivi, p.182330 Ivi, p.28331 Ivi, p.243

138

potrà che trovare in quella il proprio fondamento essenziale. In tal maniera le

condizioni reali, psicologiche della conoscenza vengono messe da parte come del

tutto irrilevanti rispetto a quelle noetiche, fondate cioè sull’idea di conoscenza in

generale, senza più riferimento al conoscere umano e perciò stesso a priori.

Proprio perché svincolate dalla soggettività empirica siffatte condizioni rimontano

al contenuto della conoscenza, ai concetti categoriali cui esso sottostà, sì che sono

le condizioni di possibilità della teoria, della scienza a determinare quelle della

conoscenza:

le leggi a priori concernenti la verità, la deduzione e la teoria come tali (cioè

l’essenza generale di queste unità ideali) debbono essere caratterizzate come leggi che

esprimono le condizioni ideali della possibilità della conoscenza in generale, ovvero della

conoscenza deduttiva e teoretica in generale, condizioni che si fondano appunto nel

«contenuto» della conoscenza332

Il passaggio dalla Kunstlehre alla Wissensschaftlehre si colloca dunque,

dandone testimonianza, sullo sfondo del mutamento prospettico della riflessione

husserliana, indirizzata ora primariamente alla dimensione obiettiva della

conoscenza, dove il soggetto conoscitivo non rappresenta più il tema centripeto

delle analisi in quanto determinato e condizionato nella sua stessa natura dai

contenuti cui si rivolge, poiché è l’oggetto a determinare la maniera in cui

accedervi, secondo una prospettiva che si rivela già in questo fenomenologica.

L’irruzione della dimensione ontologica, che abbiamo visto caratterizzare

la riflessione husserliana già a partire dal confronto con Twardowski, mostra qui

la sua esatta caratura, poiché è ai sensi della logica pura, formale che essa va

declinata, nei termini cioè di un’ontologia formale quale si svela appunto essere

una siffatta logica333. L’interesse ora preminente per i contenuti obiettivi della

conoscenza fa sì che logica non si presenti più come un’arte, una tecnica della

conoscenza (Kunst der Erkenntnis), in quanto il suo campo di indagine sta

appunto in quei contenuti, nell’oggetto di conoscenza in generale, qua talis,

ovvero nell’idea formale di oggetto, nel “qualcosa in generale”, in quell’a priori

formale che determina la logica come mathesis universalis334. Una tale scienza si

332 Ivi, p.244333 E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.198; cfr. anche V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, p.78334 E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.196

139

riferisce perciò agli oggetti pensati in forma puramente concettuale335, senza alcun

riguardo per le differenze empiriche, materiali fra di essi, proprio perché presi in

una generalità incondizionata, il suo riferimento è quindi « a quei concetti e leggi

che rappresentano i costituenti ideali di una teoria in generale »336, quei concetti

cioè validi per ogni contenuto conoscitivo in quanto riguardano l’oggetto in

generale. La logica pura come ”teoria delle teorie”, “scienza delle scienze” disvela

così una natura squisitamente concettuale, poiché riferita ai concetti costituenti

ciascuna teoria, cioè ai concetti categoriali di oggetto e significato337, se ogni

scienza è per l’appunto costituita da significati con cui sono intesi i suoi oggetti.

In tal maniera l’ontologia formale si scopre essere una logica dei significati338

poiché è con questi che essa, a ben vedere, ha che fare, ovvero con i concetti, i

significati di “significato” e “oggetto”, con ciò che con essi s’intende, categorie

supreme cui si riconducono i costituenti di ogni teoria - così come con le leggi

puramente fondate in esse, che abbracciano tutti i possibili significati e tutti i

possibili oggetti339. Del resto, come Husserl stesso afferma, ogni teoria è una

“connessione deduttiva di proposizioni date” determinate a loro volta dai concetti

dati340, per cui è nei concetti come tali, nei significati341 e nelle leggi fondate in

essi che si disvela la forma della teoria, senza considerare che gli oggetti non solo

sono da intendersi concettualmente (i concetti di “oggetto”, “stato di cose”,

“unità” ecc.), ma si presentano solo e soltanto come correlati delle categorie di

significato342.

È chiaro allora che l’interesse preminente per la dimensione obiettiva

della conoscenza - motivato a partire dalle insufficienze della precedente

prospettiva così come dai fraintendimenti che rendeva possibili e culminante

nell’elaborazione di una logica come teoria delle teorie - comporta una

335 E. Husserl Ricerche logiche cit., p.246336 Ivi, p.247337 Ivi, p.249338 « La logica pura è il sistema scientifico delle leggi e delle teorie ideali che si fondano puramente nel senso delle categorie ideali di significato, cioè nei concetti fondamentali che sono patrimonio di ogni scienza, poiché determinano nel modo più generale ciò che, dal punto di vista oggettivo, in generale rende scienze le scienze, cioè l’unità della teoria » E. Husserl Autopresentazione delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.173; su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.78339 E. Husserl Ricerche logiche cit., p. 251340 Ivi, p.248341 Nel marcare la sua distanza dalle posizioni di Herbart Husserl sottolinea come questi « non ha pronunciato l’unica parola capace di operare una chiarificazione nella definizione del concetto di concetto, non ha detto cioè che il concetto o la rappresentazione in senso logico non è altro che il significato identico delle espressioni corrispondenti »; ivi, p.225342 Ivi, p.249 e p.250; cfr. anche V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., pp. 80-81

140

lateralizzazione della questione semiotica a vantaggio di quella semantica, o se si

preferisce, segna il passaggio da una logica dei segni a una logica dei significati. Il

mutamento di prospettiva che induce Husserl ad assegnare alla logica uno statuto

teoretico prima ancora che metodologico fa sì che i segni recedano dal ruolo di

primo piano in precedenza loro attribuito, cui si aggiunge, in posizione ancor più

rilevante, l’insufficienza della logica dei segni in merito al suo stesso compito –

se, come s’è visto, il più rilevante fondamento di ogni tecnologia, di ogni metodo

scientifico, conoscitivo, è da ricercarsi in una scienza puramente teoretica qual è

appunto la logica pura343. La consapevolezza nell’utilizzo dei procedimenti

simbolici a carattere conoscitivo, centrale in una logica come Kunst der

Erkenntnis, si rivela del tutto secondaria nell’ottica di una logica pura, che proprio

per la sua essenziale estraneità all’orizzonte empirico prescinde da qualsiasi

riferimento alla soggettività conoscente; in tal maniera il segno si rivela del tutto

inessenziale in quest’ottica medesima, se non addirittura allotropo, vista la sua

natura schiettamente empirica. Ciò che in precedenza garantiva al segno un ruolo

di primo piano, ovvero la sua funzione nel novero della conoscenza, il suo essere

un essenziale strumento per la soggettività conoscente, lo relega ora ai margini,

poiché una logica come scienza obiettiva, come teoria pura, non abbisogna affatto

della componente simbolica per statuirsi, ponendosi al di qua di ogni questione

metodologica. Anzi, a ben vedere v’è una totale incompatibilità tra una logica

pura e la dimensione simbolica, vista la natura non empirica, ideale della prima e

quella empirica della seconda, ché qualora i segni si rivelassero necessari per una

logica così intesa essa non potrebbe affatto dirsi pura, ideale, nel senso cioè di

quella legalità che si fonda puramente nei concetti (idee) e perciò stesso non

empirica344.

Il radicale mutamento di prospettiva avvenuto nella riflessione

husserliana sulla logica, culminante nella disgiunzione fra Kunstlehre e

Wissenschaftslehre, pare estromettere da qualsiasi considerazione che si voglia

pertinente la semiotica, se ideale, puro, incontaminato da qualunque intromissione

empirica è il dominio della logica come disciplina fondamentale e fondativa in

seno alla scienza, cui del resto la stessa Kunstlehre rimanda come al suo nucleo

343 In tal maniera i metodi algoritmici che hanno occupato in precedenza la nostra trattazione rimontano a condizioni di natura ideale e non soltanto psicologica, per cui un’autentica logica dei segni è da cercarsi nella logica formale, pura elaborata nei Prolegomeni; su questo punto cfr. anche D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.175344 E. Husserl Ricerche logiche cit., p.175

141

teorico maggiormente rilevante. La componente simbolica si rivela infatti

costitutiva solo per quella logica congrua a una psicologia dal punto di vista

empirico, una logica come arte della conoscenza umana, il cui indirizzamento alla

verità si declina nell’analisi ed escogitazione dei metodi che consentono alle

soggettività empiriche di giungervi. L’abbandono della prospettiva psicologista

sembra così condurre a una esclusione dei segni nel novero della logica, rivelando

ulteriormente il forte nesso che lega, nelle considerazioni husserliane, psicologia e

semiotica. Certo, è pur vero che Husserl non rinnega affatto l’importanza di una

logica come disciplina pratica, né tantomeno la sua fondazione sulla psicologia

empirica345; v’è però da dire, o meglio da ribadire, che essa sconta la sua

essenziale dipendenza dalla logica pura, poiché è qui che trova i suoi principali

fondamenti, cosa che mostra l’insostenibilità di qualsivoglia logica empiristica o

psicologistica346, in quanto autonomo è il campo della logica propriamente detta,

di quella logica cioè che puo’ assolvere il compito di fondare tutte le altre

discipline proprio in virtù della sua natura a priori, formale, per il suo essere

mathesis universalis347.

Se ci si ferma alla prospettiva sin qui tratteggiata è inevitabile concludere

all’esclusione della dimensione semiotica dal novero della logica, vista la diversità

di genere tra il piano empirico – cui attengono i segni – e il piano ideale, non

empirico, in cui quella logica dimora; o al più, si puo’ parlare di una sua

marginalizzazione, poiché solo in virtù di una trasposizione motivata da interessi

pratici le leggi logiche intervengono a regolare i processi psichici e i segni che per

tanta parte li costituiscono348. Il punto però è che una siffatta prospettiva, quella

del logico puro, non è affatto condivisa da Husserl, che anzi considera “ingenua”

una logica che si arresti a essa, una logica cioè come mera mathesis universalis349.

Edificarla nel senso che per essenza le spetta, ovvero come disciplina autonoma

perché ideale, pura, costituita da entità in sé cui è del tutto indifferente l’essere o

meno conosciute, non è ancora sufficiente in un’ottica rigorosa quale vuol essere

quella cui il filosofo aspira; perché è pur vero che quelle oggettualità non solo

devono poter essere coscienti e conosciute350 ma di fatto già lo sono diventate, se è

stato possibile affisarne l’esatta fisionomia. L’ingenuità di una prospettiva 345 Cfr. E. Husserl Recensione a: M. Palágyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.179346 E. Husserl Ricerche logiche cit., p.220 347 E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.196348 E. Husserl Ricerche logiche cit., pp.173-74349 E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.197

142

meramente logica sta allora nel trascurare tutto questo, nel non occuparsi di quelle

attività psichiche che sole consentono (e hanno consentito) il presentarsi delle

oggettività ideali, nella sua mancanza di riflessività; dove invece è proprio della

filosofia, o se si preferisce di una logica pura propriamente filosofica farsi carico

di descrivere la “correlazione tra essere e coscienza”, “il coglimento ultimo del

senso dei concetti e delle proposizioni”, sì che la logica stessa assurge allo status

di disciplina filosofica351.

Ancor più che nella scoperta dell’idealità come dimensione

autenticamente logica, che ne fa una disciplina fondante e autonoma, sta qui la

verità novità delle analisi husserliane, ovvero, come egli stesso afferma, nel

compito di indagare “la correlazione tra oggetti ideali della sfera puramente logica

e vissuto psichico soggettivo come attività formativa”352, in un’indagine che

partendo dalle rispettive categorie di oggettualità ne rileva i modi coscienziali a

esse inerenti353, perché solo a partire da qui è possibile andare alle cose stesse354,

trattandosi appunto delle “fonti da cui scaturiscono i concetti fondamentali e le

leggi della logica pura”355: in altri termini, è la novità costituita dalle analisi

fenomenologiche. L’interesse ora predominante per la dimensione obiettiva della

conoscenza non vale affatto a sconfessare la posizioni husserliane riguardo alla

filosofia, concepita ancor sempre in termini gnoseologici e investita di un ruolo

chiarificatore, poiché essenziale è per Husserl non limitarsi all’acquisizione dei

contenuti, bensì anche al metodo che la consente, sì da venire in chiaro – nella

fattispecie – intorno ai concetti e ai fondamenti della logica pura osservandoli

laddove essi concretamente si manifestano356.

La preminenza dei contenuti influisce però sulla maniera in cui la

filosofia si esercita, determinando la sua fisionomia in un senso nuovo rispetto alla

tradizione, tanto da attribuirle un nome diverso quale appunto quello di

fenomenologia. Benché sia infatti la psiche la regione di pertinenza della filosofia,

poiché è pur sempre nei vissuti psichici che si ha traccia dei contenuti della logica,

non è però più alla luce degli atti che viene determinata la loro natura, con il

350 Cfr. E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.229351 E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.197352 Cfr. E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche in Logica, psicologia e fenomenologia cit., p.229353 Ivi, p.231354 E. Husserl Ricerche logiche vol.I cit., p.273355 Ivi, p.269356 Cfr. anche G. Piana Introduzione in E. Husserl Ricerche logiche vol.I cit., p.XX

143

concreto rischio di una loro psicologizzazione, bensì sono i contenuti medesimi -

in virtù del loro essere obiettivi, autonomi, ideali - a determinare la tipologia dei

vissuti nei quali si manifestano357, rendendo così comprensibile e attuabile il motto

fenomenologico an die Sache selbst. La piega obiettivistica della

fenomenologia358 impedisce alla considerazione degli atti di ricadere nello

psicologismo, proprio perché questi scontano la loro dipendenza dagli oggetti che

manifestano, ne sono determinati fin dentro la loro natura, tanto che non si tratta

più dei vissuti psichici di un soggetto empirico e come tale altrimenti possibile,

ma di entità altrettanto ideali e necessarie dei contenuti correlativi:

sia che noi come soggetti pensanti assumiamo noi uomini, sia che immaginiamo

angeli, diavoli o dei ecc., esseri qualsiasi che contano, calcolano, compiono operazioni

matematiche, l’attività e la vita interiori del contare e del compiere operazioni

matematiche sono, per necessità a priori, ovunque essenzialmente le stesse, se deve

risultare qualcosa di matematico. All’a priori della logica e della matematica pure, a

questo regno di verità incondizionatamente necessarie e generali corrisponde

correlativamente un a priori di tipo psichico.… e precisamente come molteplice vita

psichica di un soggetto in generale, nella misura in cui esso va pensato, nella pura

idealità, come tale da conoscere in sé ciò che è matematico359

La scoperta della dimensione ideale della logica apre perciò le porte alla

fenomenologia360 come analisi dei vissuti nella loro “essenza generica pura”, di

ciò che spetta loro in una generalità incondizionata361, nella fattispecie dei vissuti

in cui si attua la conoscenza in generale, se formale, al di qua di ogni concrezione

materica è l’ambito ontologico cui qui si rivolgono le analisi fenomenologiche,

quello cioè della logica pura362, sì che si comprende come Husserl possa

assimilare la questione delle “condizioni di possibilità della teoria” con quella

kantiana delle “condizioni di possibilità di un’esperienza”363. La stessa 357 In proposito cfr. anche V. De Palma Introduzione in E. Husserl Logica, psicologia e fenomenologia (sezione seconda) cit. p.160358 Cfr. V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., p.74359 E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche cit., p.239360 E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.200. Anche Willard rileva nell’approdo a una ontologia formale quale appunto la logica pura il fattore decisivo per la svolta fenomenologica; cfr. D. Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., pp.193-94361 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.283 e 284362 E. Husserl Abbozzo a una prefazione delle Ricerche logiche cit., p.198363 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.243. Alla luce di questa impostazione Husserl non poteva affatto consentire con l’impianto trascendentale kantiano, le cui facoltà non esita a definire “concetti mitici” (ivi, p.222), poiché è partire dagli oggetti conosciuti - nella fattispecie dalle entità della logica pura - che si definiscono le modalità di conoscenza, che si determina la soggettività

144

correlazione tra logica e teoria della conoscenza va perciò letta alla luce della già

ricordata piega obiettivistica delle analisi husserliane, poiché è in virtù di una

logica come ontologia formale e della sua natura ideale che è possibile una

considerazione fenomenologica dei vissuti come essenzialità pure, nel senso degli

unici vissuti possibili e perciò stesso necessari “se deve risultare qualcosa di

logico-matematico”. In tal maniera “la massima fenomenologica secondo la quale

per venire a capo della natura di un oggetto si deve descrivere l’esperienza che ne

abbiamo”364 non consente affatto una ricaduta nello psicologismo, poiché vale

come indicazione del luogo in cui è possibile approdare alle cose stesse.

Ed è partire da qui che va posta la questione semiotica, nel luogo cioè in

cui essa effettivamente dimora nella filosofia husserliana. La fenomenologia, lo si

è visto, si configura come la necessaria integrazione della logica pura, o meglio

ancora come la sua fondazione365, superando l’ingenuità di una disciplina

scientifica che non si preoccupa affatto di indagare le origini delle proprie

oggettualità, che rinuncia a chiedersi come sia possibile per essa avere a che fare

con ciò con cui ha a che fare. Le chiarificazioni gnoseologiche di cui si occupa la

fenomenologia, indirizzate ai luoghi in cui quelle oggettualità si manifestano -

ovvero i vissuti psichici -, si rivelano perciò fondative, proprio perché rivelano le

condizioni per cui la logica è possibile - ché se quei vissuti non vi fossero non

verrebbe certo meno la validità di leggi ed entità logiche, ma non potrebbe esservi

alcuna scienza che vi si riferisca, perché di essi non vi sarebbe traccia. In questo il

carattere ingenuo di una logica pura, ignara delle sue condizioni di possibilità,

così come il valore fondante delle fenomenologia. Ora, nel momento in cui essa si

propone di assolvere al proprio compito è proprio la dimensione semiotica a farsi

immediatamente incontro, ai sensi del sistema segnico più importante, il

linguaggio:

gli oggetti che la logica pura intende indagare si presentano anzitutto sotto

forma grammaticale. Più precisamente, essi sono dati per così dire nell’alveo di vissuti

psichici concreti che nella loro funzione di intenzione significante o di riempimento di

significato (da quest’ultimo punto di vista, come intuizione illustrativa o evidenziante)

conoscente364 Cfr. V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., p.80365 E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.269

145

ineriscono a certe espressioni linguistiche, con le quali formano una unità

fenomenologica366 V’è qui un esplicito riconoscimento del ruolo decisivo del linguaggio,

dell’espressione linguistica nel novero della scienza, ivi compresa la logica pura,

che sconta la sua ingenuità nel trascurare quanto le consente di esistere come

scienza, sì che pur non potendo più coincidere con una logica dei segni – vista la

natura ideale del suo ambito d’indagine – non per questo è autorizzata a escludere

del tutto la dimensione semiotica, se non vuol rimanere per l’appunto ingenua.

Nel rilevare l’imprescindibilità del linguaggio per l’accesso alle entità logiche la

fenomenologia si rivela “integrazione fondamentale della mathesis pura”367, e nel

novero più ristretto delle nostre analisi si registra quella preminenza della semiosi

linguistica cui facevamo risalire l’allontanamento dallo psicologismo, indice del

passaggio da una logica dei segni a una logica dei significati.

Quanto detto non comporta però alcuna identificazione della

fenomenologia con un’analisi grammaticale, ché altrimenti seriamente

compromesso sarebbe il compito attribuito all’operato fenomenologico, quello

cioè critico-chiarificatore nei riguardi della logica pura. L’autentica analisi dei

significati non puo’ infatti svolgersi sul piano prettamente linguistico, dove è

facile la confusione fra differenze logiche e grammaticali, concettuali e verbali;

piuttosto si tratta di regredire all’istituzione stessa dei segni significativi, di

analizzare cioè il rapporto tra espressione e significato così come si configura

laddove si istituisce, ovvero nei nessi fra gli atti di intenzione significante e

riempimento di significato368.

Già da qui è riconoscibile un tratto caratterizzante la riflessione

husserliana sui segni, ovvero il rischio dell’equivocazione legato al loro uso, o per

usare una terminologia più tarda il pericolo rappresentato dalla “seduzione dei

segni” - a fronte dell’imprescindibilità del segno per gli atti significanti e quindi

366 Ivi, pp.269-70367 Ivi, p.285368 Ivi, pp.278-79. In maniera ancora più esplicita, Husserl si perita di distinguere l’operato fenomenologico da una mera analisi dei significati delle parole nel più volte citato Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche, rilevando come l’ambito della fenomenologia sia incomparabilmente più vasto, occupandosi di ogni genere di vissuti e non soltanto di quelli legati ai fenomeni verbali. Se è rilevabile una certa preminenza di questi ultimi è in virtù della funzione ivi attribuita alla fenomenologia, cioè la «”chiarificazione” gnoseologica della mathesis universalis; e, poiché ciò che è logico è dato alla coscienza nei fenomeni logici, e questi sono fenomeni dell’enunciare, e quindi di un certo significare, l’indagine inizia appunto con un’analisi di questi fenomeni »; E. Husserl Abbozzo di una prefazione delle Ricerche logiche cit., pp.212-13

146

per la fondazione della logica come disciplina pura, del suo ruolo decisivo

nell’ambito fenomenologico al tempo delle Ricerche. A partire dalla difficile

conciliabilità tra queste due esigenze andrà perciò riguardata la semiotica

husserliana e si motiveranno le posizioni in merito alle diverse tipologie di segno

trattate nel suo testo, come vedremo meglio nei prossimi paragrafi.

Quello che però qui ci preme sottolineare è lo stretto legame tra la

semiotica e l’analisi dei vissuti psichici, che rappresenta senz’altro un punto di

continuità nella riflessione husserliana, poiché è nell’alveo psichico che si registra

l’insorgenza del segno. In tal maniera trova conferma la solidarietà già rilevata tra

psicologia e semiotica, in quanto seppur vien meno l’idea di logica come

tecnologia tipica dello psicologismo, incentrata sulla dimensione simbolica, è

esclusivamente nell’analisi della coscienza psichica che il segno rivela la sua

centralità, tanto che la fenomenologia è identificata ai suoi esordi con la

“psicologia descrittiva369.

E a ben vedere su questa linea di continuità si conferma un legame ancor

più importante, quello della conoscenza con la componente segnica: i segni infatti

non si limitano a dare espressione alle oggettualità, ma intervengono attivamente

nella loro conoscenza, poiché essa consiste nel riempimento intuitivo di

un’intenzione significante, dell’atto cioè responsabile della significanza

linguistica, che forma un’unità fenomenologica con i segni linguistici. L’idea

classica di conoscenza come adaequatio rei ac intellectus, che Husserl riconosce

come propria, rivela allora il segno come sua componente necessaria, in quanto

l’intellectus è qui intenzione significante, signitiva, simbolica370 e perciò stesso

bisognosa di riempimento intuitivo, non presentando l’oggetto inteso in carne e

ossa ma in maniera “impropria”, simbolica. I segni si rivelano perciò essenziali

369 Cfr. in proposito E. Husserl Autopresentazione delle Ricerche logiche cit., p.173 e id. Recensione a: M. Palágyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., p. 180. Husserl a dire il vero si rese ben presto conto dell’improprietà di una siffatta identificazione, come mostrato ad esempio dalle integrazioni alla seconda edizione delle Ricerche logiche, in particolare dall’Appendice III all’Introduzione (cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.282-83). Ma è nelle Idee che la distinzione tra psicologia descrittiva e fenomenologia viene tracciata nella maniera più chiara e definitiva, in virtù soprattutto della comparsa dell’epochè. (E. Husserl. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., Appendice IX, pp.394-97). In proposito rimandiamo anche ai testi in cui Husserl, forte delle acquisizioni esposte nelle Idee, rileva retrospettivamente le mancanze delle Ricerche logiche, ovvero E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., pp.213-14 e id. Compito e significato delle Ricerche logiche cit., pp.243-44. Sull’identificazione della fenomenologia con la psicologia descrittiva al tempo delle Ricerche così come sulla loro successiva differenziazione cfr. anche V. Costa Husserl, Carocci, Roma 2009, p.29370 Sulla scorta di questo Münch ha potuto parlare di “symbolischer Erkenntnis” in merito alle Ricerche logiche; cfr. D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.189-90

147

nel’ottica fenomenologica - e di rimando per la logica pura come disciplina

filosofica - poiché consentono l’approdo alle cose stesse e quindi in maniera ben

più rilevante che in precedenza, dove assolvevano a un compito meramente

surrogante. E proprio perché maturate all’interno di un’ottica che considera i

vissuti come essenzialità pure, una siffatta rilevanza del segno non attiene soltanto

alla costituzione psichica dell’individuo – com’era nella prospettiva psicologista e

antropologica di Semiotik – bensì all’idea di conoscenza qua talis, si rivela a essa

intrinseco, consustanziale, appartenente alla sua essenza e non semplicemente alla

natura empirica del soggetto conoscente. Conclusioni di questo genere sono a

nostro avviso inevitabili nella prospettiva delle Ricerche logiche, pur in presenza

di un riconoscimento esplicito da parte del loro autore, poco incline ad attribuire

ai segni un ruolo così importante, a motivo soprattutto del pericolo di equivocità

legato all’uso dei segni, nonché in virtù di una prospettiva che ha nei significati e

nella loro natura ideale uno dei suoi precipui oggetti d’indagine. Si tratterà allora,

nel prosieguo del nostro lavoro, di affrontare più da presso le questioni

semiotiche, mostrando le scelte in cui Husserl impegna e motivandole a partire

dalla prospettiva poc’anzi richiamata, a partire cioè da una fenomenologia volta in

via esclusiva alla chiarificazione della mathesis universalis e delle sue

oggettualità. E prima ancora che sui segni è necessario soffermarsi su queste

ultime, poiché sono esse a motivare e orientare la classificazione semiotica

husserliana, non soltanto per quanto concerne le tipologie ravvisate, ma anche nel

merito della loro considerazione.

§ 3.2 – La questione del significato nelle “Ricerche logiche”

§ 3.2.1 – L’idealità dei significati

Dar corso alle analisi delle oggettualità logiche equivale, come dovrebbe

risultare evidente dalle precedenti considerazioni, a occuparsi della questione del

significato e della sua natura ideale, dando conto non soltanto della maniera in cui

l’idealità vada correttamente intesa, ma anche delle problematiche che suscita

nell’ottica fenomenologica, se come s’è visto la natura psichica dei suoi oggetti

appare di per sé altra dalla dimensione in cui i significati dimorano.

Per venire al primo punto, ai fini di un’adeguata messa a fuoco dell’esatta

determinazione dell’ideale è opportuno esplicitare il debito contratto da Husserl -

148

e da lui stesso apertis verbis riconosciuto371 - con Hermann Lotze, in specie per

quanto concerne la sua interpretazione della platonica dottrina delle idee372 su cui

dovremo, seppur brevemente, soffermarci.

Esposta nel volume terzo della sua Logik, dedicato alla conoscenza, una

siffatta interpretazione viene introdotta nel novero di un confronto critico con lo

scetticismo, dove Lotze giunge alla fondamentale conclusione per cui “questo

mondo cangiante delle nostre rappresentazioni è il solo materiale su cui ci è dato

lavorare” e “che la verità e la conoscenza della verità consistono solo nelle leggi

di interconnessione ritrovate spesso all’interno di un gruppo dato di

rappresentazioni”373; ne consegue perciò che l’opposizione tra il mondo delle

rappresentazioni e quello delle cose, su cui si innesta uno dei tropi prediletti dallo

scetticismo, viene lasciata fuori come del tutto insussistente, sì che è all’interno

del primo che vanno riscontrati “i punti fermi originari di certezza”374. La dottrina

platonica delle idee risponde proprio a questo intento, poiché a detta di Lotze

rappresenta “il primo e più caratteristico tentativo di dar conto della verità che

appartiene al nostro mondo interno di rappresentazioni”375, poiché le entità ideali

non si rivelano altro che i concetti con cui si pensano le cose, distinte in ciò dalle

affezioni passivamente ricevute, ovvero dal fatto che queste ultime vengono

trasformate “in un contenuto oggettivo indipendente il cui significato è dato una

volta per tutte”376. Ricondotte al mondo del pensiero, o meglio ancora del

pensabile, le idee si rivelano i contenuti permanenti della coscienza, i significati

fissi e immutabili necessari alla concepibilità del mutamento medesimo, che è

sempre passaggio da una determinazione all’altra e non trasformazione dell’una

nell’altra, pena l’insorgere dell’indistinzione che renderebbe inconcepibile lo

stesso flusso eracliteo - come Lotze opportunamente rileva sulla scorta di quanto

Platone aveva già dimostrato, ad esempio nelle battute finali del Cratilo e

nell’esposizione della “seconda navigazione” nel Fedone377. Quanto detto non 371 Cfr. E. Husserl Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., p.181 e Abbozzo di una prefazione alla Ricerche logiche cit., p.202372 Heidegger rileva infatti, al fondo della critica allo psicologismo, la diversificazione fondamentale dell’essere dell’ente in due polarità opposte, ovvero reale e ideale; cfr. M. Heidegger Logik. Die Frage nach der Wahrheit V. Klostermann, Frankfurt am Main 1976 (trad. it. M. Heidegger Logica. Il problema della verità Mursia, Milano 1986, p.35) 373 H. R. Lotze Logik, Hirzel, Lepzig 1880 (trad. it Logica, Bompiani, Milano 2010, § 309, p.963)374 Ivi, § 312, p.973; su questo punto cfr. anche M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.44) 375 H. R. Lotze Logica cit., § 313 p.977376 Ivi, § 314, p.979377 « Eppure, mentre il nero diventa bianco e il dolce aspro, non è la nerezza stessa che passa nella bianchezza, né la dolcezza in asprezza…qualsivoglia mutevolezza le cose possano mostrare, ciò

149

vale però a ridurre le idee a meri prodotti del pensiero, tant’è che Lotze rifiuta di

parlare di un”porre”, di una “posizione” a loro proposito, proprio per escludere

che si tratti del risultato di un atto produttore378; piuttosto, egli parla di realtà

(Wirklichkeit) delle idee, una realtà che non potrà naturalmente essere quella del

mondo esterno, da cui si è prescisso, né quelle delle rappresentazioni, a motivo

della loro mutevolezza, bensì quella degli enunciati, che sono reali in quanto

valgono379. La dimensione esclusivamente rappresentazionale in cui si muovono le

sue analisi non impedisce a Lotze la distinzione tra rappresentazione e suoi

contenuti, tant’è che egli li assegna a due diversi ordini della realtà, quello cioè

della validità (Geltung) per i secondi e quello dell’occorrenza (Geschehen) per la

prima: se infatti è sempre e soltanto in una rappresentazione che le idee si

manifestano, e dunque in tal senso occorrono (accadono) nella nostra mente, è pur

vero però che questo genere di realtà non appartiene loro per essenza, com’è per le

rappresentazioni, poiché “noi tutti avvertiamo di certo, nel momento in cui

pensiamo una qualche verità, che non l’abbiamo creata per la prima volta ma

l’abbiamo riconosciuta”380. A occorrere sono perciò le rappresentazioni che le

hanno come contenuti e non - a rigore - le idee, ché laddove non occorressero in

quanto “non rappresentate” non cesserebbero d’essere reali – come “accadrebbe”

alle rappresentazioni – poiché in nulla sarebbe intaccata la loro validità,

riconosciuta e non generata dall’attività rappresentativa. Di ogni idea, e quindi di

ogni verità, si puo’ allora dire che

pur non pensandola, essa valeva prima e continuerà a valere senza riguardo ad

alcuna esistenza di qualunque tipo, delle cose o nostra, a prescindere dal fatto che essa

che sono in ogni attimo, lo sono sempre attraverso una fluttuante partecipazione a concetti che non sono transeunti, ma sempre identici e costanti » Ibid. Per quanto concerne i luoghi platonici dai quali emerge con una certa nettezza la dipendenza delle argomentazioni lotzeane rimandiamo a Platone Cratilo in Opere complete 2, Laterza, Roma-Bari 2003, 439c-440c e Fedone, Laterza, Roma-Bari 2005, 101a-b378 Heidegger fa opportunamente notare la disgiunzione dei concetti di “posizione” e “affermazione” e la preferenza accordata da Lotze a quest’ultimo, in virtù del legame con il trarre in essere da cui la prima è condizionata: « quel che si vuole intendere con le espressioni “esser-affermato” e “posizione” non ha a che fare con un venir-prodotto, e l’espressione “esser-affermato” è preferibile a “posizione” perché nell’affermazione trova maggiore espressione il fatto che io conosco qualcosa, dice Lotze, qualcosa che è già lì, mentre l’espressione “posizione” dice piuttosto che io dapprincipio traggo qualcosa da me stesso »; M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.47379 H. R. Lotze, Logica cit., § 316, pp.985-86. 380 Ivi, § 318, p.991

150

trovi o meno manifestazione nella realtà dell’essere, o un posto, come oggetto di

conoscenza, nella realtà del pensiero381

Il dilemma platonico – ma in tal senso soprattutto tardo-platonico – della

metessi non ha perciò motivo di sussistere in Lotze, che pur distinguendo ben

quattro diversi significati del termine “realtà” è pur sempre in un unico orizzonte,

quello rappresentativo, che fa muovere le sue analisi, tanto che le stesse entità

ideali si presentano solo e soltanto come contenuti delle rappresentazioni,

contenuti che, come egli afferma, verranno scoperti in esse “da chiunque, al pari

di noi, pensi a quelle rappresentazioni allo stesso modo”382. Punto questo che

rischia di gravare come un’ipoteca psicologista sulla riflessione lotzeana, come

Husserl stesso non mancherà di far notare laddove, pur riconoscendo i meriti del

logico tedesco anche e soprattutto per la sua formazione fenomenologica, opererà

una delimitazione critica nei confronti di questi383.

Stante questo, l’interpretazione lotzeana della Ideenlehre risulta

fondamentale nel percorso husserliano, poiché è al suo incontro che si deve la

scoperta della dimensione ideale con i caratteri che la contraddistinguono. Nel

circoscrivere le sue analisi al mondo delle rappresentazioni Lotze aveva elaborato

un concetto di verità che preclusa la via della corrispondenza presentava i caratteri

della stabilità, della permanenza, dell’identità rispetto a ciò che è mutevole e

transeunte384, rispetto cioè al mondo delle rappresentazioni, sì che da un lato

veniva schiusa la dimensione ideale mercé la messa in rilievo dei suoi caratteri di

identità, permanenza, generalità385 - e dall’altro era indicata la via per risolvere un

dilemma che, lo si è visto, tormentava Husserl, ovvero il rischio della

psicologizzazione delle entità logico-matematiche, in virtù della distinzione fra

occorrenza empirica della rappresentazione e validità atemporale del suo senso.

Con le parole husserliane:

381 Ivi, § 318, pp.991-92382 Ivi, § 4. p.141383 A proposito di Lotze - pur in riferimento a un passo diverso e ancor più esplicito rispetto a quello da noi per ultimo menzionato - Husserl affermerà infatti quanto segue: « Si parla continuamente del nostro pensiero, e precisamente in senso effettivamente antropologico….La considerazione viene continuamente riferita alla natura di tutti gli spiriti, che è compresa effettivamente come un fatto (Faktum) della realtà » cfr. E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.209384 Cfr. in proposito M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.45385 Ivi, p.40

151

con “proposizioni in sé” non si deve intendere altro se non ciò che nel

linguaggio quotidiano, che oggettualizza l’ideale, si designa come “senso” dell’enunciato

e che si definisce come la stessa e unica cosa laddove si dice ad esempio di diverse

persone che esse affermano la stessa cosa….la dottrina di Bolzano secondo la quale le

proposizioni sono oggetti, ma non hanno tuttavia un’”esistenza”, acquisisce allora il

significato facilmente comprensibile che a esse spetta l’essere o valere ideale degli

“oggetti generali” (quindi quell’essere che viene stabilito ad esempio nelle “dimostrazioni

d’esistenza” della matematica), ma non l’essere delle cose o dei momenti cosali non-

indipendenti, delle singolarità temporali in generale386

Quanto decisiva sia la scoperta della validità come statuto ontologico

delle entità ideali lo si riscontra ancor più se si tiene a mente il solco nel quale

Husserl aveva maturato la sua formazione filosofica, vale a dire la psicologia

brentaniana. Le idealità infatti, o in linguaggio più propriamente husserliano, “le

specie non sono nulla di reale, e se non sono nulla neppure nel pensiero, esse non

sono nulla in generale”, poichè “come potremmo parlare di qualcosa, senza che

esista almeno nel nostro pensiero?”387 Un’impostazione di questo genere viene ora

ritenuta da Husserl fallace, una “falsa metafisica”, poiché a ben vedere il reale

(Real) comprende nel suo dominio anche quanto è nella coscienza e non soltanto

quel che la trascende, sì che dissolta è così l’opposizione tra il dentro e il fuori

della coscienza tacitamente ammessa da quell’impostazione. Reale infatti è

“l’individuum”, ovvero “un hic et nunc”, il cui contrassegno fondamentale è per

l’appunto la temporalità388, che accomuna entrambe le dimensioni menzionate. Di

conseguenza gli oggetti pensati, proprio perché identici e immutabili a fronte della

mutevolezza che attiene all’empiria cosale e psichica - ché ad esempio in tutti i

vissuti che hanno a oggetto il numero 4 è sempre a quel numero con quelle

determinate proprietà che ci si riferisce - non potranno affatto dirsi “reali”, poiché

non inscrivibili nell’orizzonte individualizzante della temporalità, bensì “ideali”,

“irreali” in quanto atemporali, sì che lungi dall’essere entità fittizie avranno

piuttosto uno statuto ontologico proprio quale appunto quello della validità389:386 Cfr. E. Husserl Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., pp.181-82387 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.395388 Ibid.389 Il rapporto tra la temporalità e le oggettività ideali, qui soltanto accennato, verrà trattato con maggiore estensione e perizia in Esperienza e giudizio, in un contesto dove comunque radicalmente mutata sarà non soltanto la prospettiva fenomenologica husserliana, ma anche la concezione delle entità ideali; Cfr. E. Husserl Erfahrung und Urteil, Felix Meiner Verlag GmbH, Hamburg 1999 (trad. it. Esperienza e giudizio, Bompiani, Milano 2007, § 64c-d e §65, pp.629-61)

152

a chi è solito comprendere con essere solo l’essere «reale», con oggetti, oggetti

reali, sembrerà fondamentalmente erroneo parlare di oggetti generali e del loro essere;

mentre non troverà nulla da ridire chi prenderà questo modo di esprimersi come

un’indicazione della validità di certi giudizi, di quelli nei quali si giudica sui numeri, le

proposizioni, le figure geometriche ecc., e che quindi si domanda se il titolo di «oggetto

che è in verità» debba essere attribuito in modo evidente come correlato della validità del

giudizio a ciò su cui si esprime un giudizio390

Come già in Lotze, l’accesso alle entità ideali è qui guadagnato a partire

dall’orizzonte linguistico, al punto che solo in questo si definisce il loro statuto

ontologico, quella validità che in sé attiene al senso degli enunciati, delle

proposizioni, dei giudizi. In forza di ciò il privilegio assegnato da Husserl al

linguaggio nell’Introduzione alle Ricerche logiche acquisisce un profilo più netto

e un rilievo ben maggiore, poiché il darsi degli oggetti logici “sotto forma

grammaticale”391 rimonta alla qualità del loro essere, si manifesta come una

necessità fenomenologica, sì che solo come significati linguistici compariranno i

significati ideali, ovvero negli atti costituenti il linguaggio.

È in quest’ordine di considerazioni che si spiega il cosiddetto platonismo

husserliano, che proprio perché mediato dall’interpretazione lotzeana manifesta

come del tutto insussistente il rimprovero di “ipostatizzazione”. L’esistenza delle

entità ideali non si motiva infatti alla luce di una mitica pianura iperuranica in cui

dimorerebbero nella loro incontaminatezza, poiché piuttosto il richiamo di Husserl

va a quanto comunemente si ha dinanzi gli occhi quando si giudica o più

latamente si ha a che fare con entità logico-matematiche, dove per l’appunto

proposizioni e giudizi in nulla riguardano la realtà empirica, sia quella esterna

delle cose o interna della psiche, pur manifestando qualcosa che lungi dall’esser

fittizio è piuttosto essente in quanto valido392. Di conseguenza per Husserl non v’è

alcun χωρισμός tra piano reale e ideale poiché le idealità non sono affatto realtà

(nel senso del termine real), bensì si danno sempre e soltanto come validità, a

partire cioè dagli atti in cui gli enunciati si costituiscono, dove si manifesta nella

più chiara evidenza la necessità della fenomenologia e delle sue analisi in

relazione alla logica, se è il rivolgimento agli atti in cui il linguaggio si costituisce

390 E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.369391 Ivi, p.269392 E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.194

153

che consente alle sue entità di emergere nella loro autentica fisionomia, se è solo,

in altri termini, nella considerazione di quei vissuti psichici che si mostra la loro

natura ideale e il senso in cui va intesa.

§ 3.2.2 – L’idealità come specie

Al fine però di dar più adeguatamente conto del nesso che stringe le

entità della logica pura, ovvero i significati ideali393 agli atti è necessario

soffermarsi su un punto sin qui solo accennato, ovvero la definizione dei

significati come specie ideali. Ciò che caratterizza una specie, come noto, è il suo

occorrere in diverse manifestazioni, il suo “specificarsi” per l’appunto in differenti

entità empiriche come membri della sua estensione, senza naturalmente risolversi

nella loro molteplicità dispersa. Istituendo un parallelismo con casi in cui è

particolarmente manifesta una siffatta situazione Husserl afferma che il rapporto

intercorrente tra significati e atti – o per meglio dire intenzioni – significanti è

dello stesso genere di quello che sussiste fra la specie rosso e le strisce di carta

rosse394. La definizione di specie vale perciò a chiarificare un punto

descrittivamente inoppugnabile ma concettualmente problematico - e

fenomenologicamente fondamentale - quale il darsi del senso identico all’interno

di una molteplicità di atti empiricamente distinti, poiché evita di risolvere le entità

ideali nei vissuti psichici in cui non soltanto compaiono, ma al di fuori dei quali

non possono affatto manifestarsi; l’autonomia di quelle risulta perciò

salvaguardata in quanto specie, che pur fenomenizzandosi nell’empiria non si

risolvono in questa, mostrando per ciò stesso una natura ideale. A distinguerle poi

dalle altre consimili è la dimensione in cui si individuano, in quanto la loro

particolarizzazione non avrà luogo in entità fisiche – come nel caso del “rosso” e

della strisce colorate – bensì in atti psichici395, sì che tracciata in senso

fenomenologico è la distinzione fra oggetti e significati ideali. Atti psichici, o

ancor meglio vissuti intenzionali di cui i significati costituiscono nientemeno che

le specie, da cui discende, com’è stato giustamente osservato, che nelle Ricerche

logiche il significato è un carattere d’atto, un’ideale struttura d’atto che si

393 « …ogni qual volta si tratta di concetti, giudizi, inferenze, la logica pura ha a che fare esclusivamente con queste unità ideali che noi chiamiamo significati »: E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.359; cfr. anche id. Autopresentazione delle Ricerche logiche cit., p.173394 Cfr. E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.368e p.377 e id. Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., p.181395 In proposito cfr. anche D.Willard Logic and the Objectivity of Knowledge cit., p.183

154

singolarizza nei singoli casi psichici396. Questione centrale e comunque delicata,

su cui converrà indugiare ancora, esplicitandola con maggiore completezza a

partire dal tema forse maggiormente caratterizzante per la fenomenologia, vale a

dire l’intenzionalità.

S’è visto infatti come le entità ideali, pur manifestandosi in via esclusiva

nella regione psichica, non si individuino in contenuti qualsiasi, bensì in atti o per

meglio dire in vissuti intenzionali, distinti dagli altri contenuti proprio per la loro

natura intenzionale, ovvero per la loro caratteristica facoltà di “riferirsi a”, di

“dirigersi verso” qualcosa, di intendere cioè un oggetto in diverse modalità397. Il

punto qui fondamentale sta nell’aver fatto, dell’intenzionalità, il Charakteristikum

della coscienza398 in una maniera tale per cui essa non vale a istituire una relazione

tra due entità in sé costituite, in quanto è con la presenza del vissuto che è dato il

riferimento all’oggetto399 - anche se non necessariamente quest’ultimo - e anzi è

soltanto grazie a esso e in forza della sua natura costitutiva che si puo’ parlare di

qualcosa come un oggetto400. Quest’ultimo perciò si manifesta sempre e soltanto

396 R. Bernet Bedeutung und intentionalesBewuβtsein. Husserls Begriff des Bedeutungphänomens in Studien zur Sprachphänomenologie Verlag Karl Alber GmbH, Freiburg/München 1979, p.48397 Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.163398 Dove peraltro, com’è stato acutamente rilevato, si specifica il senso autentico in cui Husserl intende la psicologia descrittiva, che è tale perché indirizzata a ciò che rende psichico lo psichico, perché tesa all’esibizione di quest’ambito tematico e della sua struttura, per l’appunto intenzionale. Cfr. M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.67399 Ibid. Particolarmente esplicative in proposito sono le parole di Lenoci: «…emerge come l’intenzionalità non sia la proprietà estrinseca di una coscienza o di un soggetto già costituiti nella loro intima struttura…allorchè c’è un vissuto di coscienza, per sua intrinseca necessità essenziale, è anche dato un riferimento all’oggetto, e ciò accade indipendentemente dallo statuto ontologico dell’oggetto stesso » M. Lenoci Pensiero linguaggio verità. La riflessione husserliana sino alle “Ricerche logiche” Cusl, Milano 1986, p.176400 La considerazione fenomenologica dell’intenzionalità, e più latamente dell’intera coscienza, consente a Husserl di rompere con l’immanentismo brentaniano, né l’idea per cui è con l’intenzionalità che qualcosa diviene oggetto per noi vale a ridurre il mondo al vissuto di un pensante (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.175). A motivo di tutto questo v’è la fondamentale differenza fenomenologica esplicitata nella Quinta Ricerca tra contenuto reale e contenuto intenzionale (ivi, p.143), dove solo il primo a rigore è vissuto: «Le sensazioni e anche gli atti che le “apprendono o “appercepiscono” vengono vissute ma non si manifestano oggettualmente; esse non vengono viste, udite, percepite con un “senso” qualsiasi”. Gli oggetti d’altro lato si manifestano, vengono percepiti, ma non sono vissuti » (ivi, p.174). In forza di ciò puo’ dirsi acquisita – fenomenologicamente – la distinzione tra vissuto e oggetto, per cui «vissuto è l’intendere-il-mondo, mentre il mondo stesso è l’oggetto inteso» (ivi, p.175), sì che carattere fondamentale dello psichico si rivela il rimandare oltre sé, l’apertura alla trascendenza, a una dimensione cioè extrapsichica. Un rimando a ben vedere non immediato, perché mediato e di natura significativa, in quanto è sempre come in qualche modo intesa che la realtà si manifesta, le sensazioni sono di per sé apprese, interpretate, appercepite, ché solo questa eccedenza fa sì che esse possano manifestare un oggetto (ivi, p.174); a sua riprova vale del resto l’illustrazione della situazione controfattuale: «Se noi immaginiamo una coscienza anteriore a ogni esperienza, essa avrà la nostra stessa possibilità di avere sensazioni. Ma essa non vedrà le cose o gli eventi concreti, non percepirà gli alberi e le case, il volo degli uccelli o l’abbaiare del cane. Si sarebbe quasi tentati di esprimere questa situazione nei termini seguenti: ad una coscienza di questo genere le sensazioni non significano nulla» (cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.342). Di qui, il

155

come intenzionato, come in qualche modo inteso, si tratti degli atti in cui un

siffatto intendere è vuoto – le intenzioni significanti – o di quelli nei quali la sua

presenza è data in carne e ossa – le intuizioni che riempiono il significato; in altri

termini, l’oggetto si manifesta sempre e soltanto come in certo modo

“significato”. Se infatti i significati sono specie ideali degli atti, dei vissuti

intenzionali, di quei vissuti cioè in cui si stabilisce il riferimento all’oggetto, ne

deriva che per significato si debba intendere la modalità di quel riferimento401, e

questo a ben vedere non vale soltanto per gli atti espressivi in cui l’oggetto è

assente, quali appunto le intenzioni significanti, ma anche per le intuizioni

riempienti, dove per l’appunto l’oggetto è sì presentato in carne e ossa, ma pur

sempre inteso in quella certa maniera che consente il riempimento, ovvero

“significato” in quel modo402. Emerge così il forte nesso che lega l’intenzionalità

al significato, il loro vicendevole spiegarsi e determinarsi, ché se l’intendere rivela

una natura “significante” al tempo medesimo il significato disvela il suo status

intenzionale403.

Al fine di dar meglio conto di questo fondamentale nesso è necessario

discendere più a fondo nella considerazione fenomenologica degli atti, illustrando

in che termini le specie ideali si individuino in essi, a quali loro proprietà

rispondano: il che equivale a occuparsi del contenuto intenzionale. Dei tre concetti

che Husserl in proposito distingue404 ci occuperemo innanzitutto del secondo,

ovvero la materia intenzionale. Come noto, con questa espressione Husserl

intende il contenuto (intenzionale) di un atto, ciò in grazia di cui esso puo’ riferirsi

a una determinata oggettualità nella modalità in cui un tale riferimento si esplicita.

Con la materia infatti non è soltanto fissato il riferimento a un oggetto, ma anche

il modo in cui l’atto lo apprende405, tanto che i rapporti tra significato e oggetto

nesso assai stretto che lega l’intenzionalità al significato, come è illustrato di seguito nel testo.401 « un’espressione, cioè, acquista un riferimento all’oggetto per il solo fatto che essa significa, e quindi si dice giustamente che l’espressione designa (denomina) l’oggetto per mezzo del suo significato, ovvero che l’atto del significare è il modo determinato di intendere l’oggetto in questione » ivi, p.315402 « negli atti di riempimento è sempre necessario distinguere tra il contenuto, cioè tra ciò che nella percezione (categorialmente formata) è, per così dire, relativo al significato, e l’oggetto percepito. Nell’unità di riempimento, questo contenuto riempiente “coincide” con quel contenuto “intenzionante”, in modo tale che, nel vivere questa unità di coincidenza, l’oggetto che è contemporaneamente intenzionato e “dato” non ci sta di fronte in una duplicità, ma come unico oggetto »; ivi, p.317. 403 Su quest’ultimo punto cfr. anche F. Silvestri Segni significati intuizioni cit., p.158 (nota 118)404 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.187405 Ivi, p.201

156

illustrati da Husserl nella Prima Ricerca a proposito delle espressioni406 sono da

ricondurre alla materia407, definita del resto senso apprensionale408. O per meglio

dire, vanno ricondotti all’essenza intenzionale dell’atto, vale a dire all’unione di

qualità e materia come suoi due momenti solo astrattamente separabili, quei

momenti cioè che ne definiscono il carattere intenzionale determinando il

riferimento - rispettivamente - tanto in rapporto al suo carattere generale d’atto

(come rappresentazione, giudizio, desiderio ecc.) quanto in relazione

all’oggettualità intesa. Benché infatti sia la materia come senso apprensionale a

determinare la modalità in cui l’oggetto è inteso, e quindi il significato, Husserl

ritiene che sia a partire dall’essenza intenzionale che si ricavi il significato come

specie409. A motivo di ciò sta innanzitutto la già rilevata inseparabilità dei due

momenti all’interno dell’atto, che mai possono andar disgiunti l’uno dall’altro se

sono essi stessi a determinarlo qua talis. Ma soprattutto è il carattere del

significato come specie ideale degli atti a imporre una siffatta considerazione, di

quegli atti cioè che sono donatori di senso, ovvero intenzione significante e

intuizione riempiente. In questi infatti l’essenza intenzionale si configura come

un’essenza significazionale410 proprio perché è in essi che il significato si

costituisce, è in essi che in prima e ultima istanza ha modo di manifestarsi, è qui

in altri termini che il significato si individua costituendone l’essenza, per cui è ad

atti di questo genere che bisogna rivolgersi per ottenere il significato come specie

ideale, alla loro essenza - costituita per l’appunto da qualità e materia. Con le

parole di Husserl:

il riferimento ad un’oggettualità si costituisce in generale nella materia. Ma ogni

materia, così dice la nostra legge, è materia di un atto oggettivante e solo per mezzo di

un simile atto puo’ diventare materia di una nuova qualità d’atto in esso fondata411

406 « Due nomi possono avere significati diversi, ma denominare la stessa cosa. Ad esempio: Il vincitore di Jena – Il vinto di Waterloo; il triangolo equilatero – il triangolo equiangolo » E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.313. Su questo punto dovremo comunque ritornare successivamente, quando tratteremo più da presso la questione semiotica407 « Le stesse materie non possono mai presentare un riferimento diverso all’oggetto; è vero invece che materie diverse possono presentare uno stesso riferimento all’oggetto » E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.201408 Ibid.409 Ivi, p.206. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.171, R. Bernet Bedeutung und intentionalesBewuβtsein cit., p.48 e D. Münch Intention und Zeichen cit., p.188410 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.203411 Ivi, pp.279-80

157

Compare qui un concetto centrale nelle Ricerche logiche, quello di atto

oggettivante, nel cui novero rientrano tutti quei vissuti intenzionali in cui si

costituisce il riferimento a un oggetto, in cui qualcosa si “oggettiva” e che per ciò

stesso sono responsabili della materia di qualsivoglia atto: in altri termini, si tratta

della classe di quei vissuti in cui si costituisce il significato, ovvero degli atti

conferitori di senso quali appunto intenzione significante e intuizione

riempiente412. Agli atti significanti viene perciò attribuito un ruolo fondamentale,

in quanto “fondamento” degli altri vissuti intenzionali: affinché infatti un

desiderio o una volizione possano manifestarsi manifestando la loro intenzione

desiderativa e volitiva è necessario che quel qualcosa verso cui tendono sia inteso,

“significato”, “oggettivato” al di qua dell’eventuale compimento, del tutto

inessenziale al fine del loro statuirsi. Ma soprattutto è questo il genere di atti

coinvolti nel processo conoscitivo, sono cioè essi a rendere possibile la

conoscenza come la intende Husserl, vale a dire “adaequatio rei ac intellectus”413,

consistente per l’appunto nel darsi della cosa, o meglio nella presentazione

intuitiva di essa, nella maniera in cui è stata intesa dall’intelletto, dall’intenzione

significante.

A questa dinamica non sfuggono naturalmente le oggettualità cui più da

presso è dedicata l’attenzione husserliana, le entità logiche, per quanto la

situazione sia qui fenomenologicamente ben più complessa. Affinché sia infatti

possibile la loro datità e si giunga così alle cose stesse cui s’indirizza l’indagine

delle Ricerche logiche è necessario innanzitutto scovarne la fonte, che non potrà

affatto essere l’intuizione sensibile, trattandosi di oggettualità non empiriche,

“irreali”, bensì un nuovo atto intuitivo, che Husserl denomina “intuizione

categoriale”. La sua introduzione però, a ben vedere, si motiva a partire dalle

problematiche emergenti a proposito del riempimento di enunciati empirici, quale

ad esempio “la carta è gialla”. In questo caso se è vero che noi vediamo tanto la

carta quanto il colore giallo, è altrettanto vero che non siamo in grado di vedere

l’esser-colorato, quasi fosse una qualità che appartiene realmente alla carta così

come il colore. Né puo’ venirci in soccorso la percezione interna, la riflessione

sulla percezione, le cui datità non sarebbero affatto categorie come quella qui in

esame - ovvero l’essere predicativo - bensì il concetto di percezione (o al più i

412 Ivi, p.351. 413 Ivi, p.302

158

suoi elementi costitutivi)414, proprio perché si tratta di una riflessione che ha per

oggetto la percezione e non il percetto. Ne deriva allora che sarà a un nuovo

genere di intuizione che bisognerà appellarsi, la quale si riferisca all’oggetto

intendendolo in certo modo, ovverosia nella sua messa in forma categoriale415.

Al fine di chiarire di cosa si tratti e come tutto ciò avvenga possiamo

rifarci al nostro esempio. Nel dare riempimento al giudizio l’intuizione non si

limiterà a presentare soltanto una carta gialla, poiché piuttosto dovrà mettere in

relazione il giallo con la carta, sarà perciò necessario un atto sintetico che mostri

l’appartenenza del colore a quel sostrato, un atto cioè che rivolgendosi alla carta

percettivamente data ne noti la relazione con il giallo che le aderisce e la metta in

rilievo, mostrando così la presenza del rapporto predicativo, dell’essere-colorato-

della-carta. L’intuizione categoriale si rivela così un atto non-indipendente,

fondato416, poiché non puo’ che esercitarsi sul materiale offerto dall’intuizione

sensibile, rilevandone la relazioni implicite e dando così riempimento alle

intenzioni significanti rivolte non a oggetti semplici, ma ad oggettualità

categorialmente formate, nelle quali cioè compaiono forme categoriali (collettivi,

disgiuntivi, copula ecc.).

Al fine di evitare fraintendimenti - facilitati peraltro da espressioni quali

“messa in forma (Formung) categoriale” che indurrebbero a pensare a un ruolo

per così dire produttivo degli atti - è opportuno indugiare un momento sul senso di

quella fondazione. Benché infatti gli atti in questione siano definiti sintetici non si

deve pensare a una sintesi di stampo kantiano, come se quegli atti si fondassero

sulla sensibilità nel senso che questa offrirebbe loro il materiale da plasmare in

forza di categorie appartenenti all’intelletto, con l’inevitabile ammissione di un

residuo noumenico che destituirebbe di senso l’appello “alle cose stesse”. Le

categorie husserliane non costituiscono infatti il corredo trascendentale del

soggetto conoscente, a impedirlo è la natura intenzionale della coscienza417: gli atti

categoriali, come qualsiasi altro atto in quanto tale, hanno il loro oggetto

intenzionale, che nel loro caso è per l’appunto un’entità categoriale, quella che

essi “lasciano essere” a partire dal materiale offerto dalla intuizione sensibile418,

che presentano dinanzi ai nostri occhi proprio perché fondata sulle oggettualità 414 Ivi, p.443415 Ivi, p.445416 Ivi, pp.454-58417 Su questo punto cfr. anche M. Heidegger Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt am Main 1975 (trad. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Nuovo Melangolo, Genova 1999, p.89)

159

sensibili. Le due intuizioni, sensibile e categoriale, intendono - come atti

intenzionali - il medesimo oggetto sensibile in modalità diverse, come Husserl

stesso afferma senza possibilità di equivoci:

possiamo apprendere un oggetto sensibile in modi diversi. Anzitutto,

naturalmente, in modo semplice…..In questa apprensione esso si trova di fronte a noi, per

così dire, in una volta sola: le parti che lo costituiscono sono indubbiamente in esso, ma

non diventano per noi oggetti espliciti nell’atto semplice. Noi possiamo tuttavia anche

apprendere lo stesso oggetto in modo esplicativo: negli atti articolanti “mettiamo in

rilievo” le parti, negli atti relazionali poniamo in relazioni le parti messe in rilievo sia tra

loro, sia rispetto all’intero419

L’accesso alla entità categoriali necessita perciò di un particolare genere

d’intuizione perché è solo un atto intuitivo che puo’ presentare l’oggettualità in sé

stessa, è soltanto esso a poter rispondere positivamente all’appello “alle cose

stesse” in quanto condizione necessaria - benché non sufficiente - della

conoscenza420.

L’aver attribuito a un atto intuitivo l’accesso alle categorie conduce

necessariamente Husserl a un ripensamento dell’intelletto come facoltà

categoriale, a un diverso modo d’intendere il tradizionale concetto di “intelletto

puro”, così come la sua distinzione dalla sensibilità. Quest’ultima infatti va vista e

letta alla luce delle due tipologie di intuizione rilevate in quanto luogo in cui è

418 « Le “forme” categoriali non sono creature degli atti, ma oggetti che in questi atti diventano visibili a sé stessi. Non sono affatto creatura del soggetto, né tantomeno qualcosa di estrapolato negli oggetti reali, in modo che grazie a questa conformazione l’ente reale stesso venga modificato, ma essi presentano questo ente reale proprio autenticamente nel suo “essere-in-sé” » Ibid.419 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.454420 La conoscenza è infatti intesa come adaequatio per cui non è affatto sufficiente l’intuizione al suo attuarsi. Un punto in cui Husserl è particolarmente esplicito in tal senso sono la battute finali del § 24 della Seconda Ricerca. Prendendo a esempio l’intuizione totale attribuita in sede teologica alla divinità egli afferma che pur nella sua perfezione essa non potrebbe comunque assurgere al grado di conoscenza, poiché “intuire non equivale a pensare” (E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.440). Il motivo per cui una siffatta intuizione viene considerata una conoscenza sta nel fatto, continua Husserl, che noi immaginiamo un tale essere « come uno spirito che non è attivo soltanto nell’intuizione (in un’intuizione che pur essendo adeguata è priva di pensiero), ma dà anche forma categoriale alle proprie intuizioni, collegandole sinteticamente, e trova quindi, nelle intuizioni così collegate e formate, il riempimento ultimo delle proprie intenzioni di pensiero, realizzando con ciò l’ideale di una conoscenza totale » (ivi, p.441). Dove oltre a ribadirsi, o meglio ad anticiparsi il carattere necessariamente “intellettuale” dell’intuizione categoriale (su cui insisteremo a breve), si chiarisce come la conoscenza sia per l’appunto « non mera intuizione ma intuizione adeguata, che ha una forma categoriale e che si adegua pienamente al pensiero, o viceversa: lo scopo, la conoscenza vera è il pensiero che attinge evidenza dall’intuizione » (Ibid.), sì che a esser necessaria non è soltanto l’intuizione riempiente, ma anche l’atto cui del resto dà riempimento, vale a dire l’intenzione significante.

160

possibile chiarirla in via definitiva421, poiché l’intelletto si rivela a ben vedere la

“facoltà degli atti categoriali”422, sì da coincidere di fatto con l’intuizione

categoriale. Strettamente legato all’ampliamento del concetto di intuizione è

dunque un ampliamento di altro genere, quello cioè del concetto di pensiero,

distinto per l’appunto in eigentliches e uneigentliches Denken, dove la differenza

è quella tra gli atti categoriali riempienti e quelli meramente intenzionanti423. Un

punto questo che non invalida affatto l’idea di conoscenza fin qui vista, quasi che

il riempimento non fosse quello apportato dall’intuizione al pensiero ma da questo

a sé medesimo, ma ne rappresenta piuttosto la necessaria integrazione: gli atti di

pensiero riempienti sono infatti a rigore atti intuitivi, poiché conducono

determinate oggettualità alla manifestazione “in carne e ossa”, le “lasciano essere”

per ciò che in sé stesse sono e non le intenzionano meramente, dove a rivelarsi

decisiva è la loro fondazione sull’intuizione sensibile, a partire dalle cui datità

soltanto possono manifestarsi le entità categoriali. Con l’intuizione categoriale

perciò la distinzione tra pensiero e intuizione perde in certo senso la sua nettezza,

poiché pur definendosi il primo facoltà degli atti categoriali non puo’ però venir

ricondotto all’idea di un intelletto puro, tale perché sganciato da qualsiasi facoltà

della sensibilità424, piuttosto trovando fondamento in questa in merito alle

oggettualità che ne definiscono la natura.

V’è però un altro senso della Reinlichkeit che legittima l’idea di un

intelletto puro, un senso che ci conduce al tema per noi decisivo ma al quale ci

siamo sinora soltanto avvicinati, vale a dire la maniera in cui è possibile cogliere i

significati ideali. Finora infatti la nostra analisi ha dato conto dei riempimenti

correlativi agli atti in cui viene intesa un entità categorialmente formata, ma nulla

ancora si è detto sulla effettiva modalità d’accesso alle oggettualità categoriali

medesime. Per intendersi: presentare lo stato di cose corrispondente alla mera

intenzione equivale al suo riempimento, ma certo non è sufficiente a ottenere

l’oggettualità categoriale “stato di cose”, che necessita allora di un nuovo atto –

naturalmente – categoriale, un atto cioè che afferri “direttamente l’unità specifica

su base intuitiva”, ovverosia l’astrazione categoriale425. Non si tratta, a ben vedere,

di un atto che si ponga affianco all’intuizione dividendo il genere degli atti

421 Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit. p.303422 Ivi, p.498423 Ivi, p.495424 Ivi, p.485425 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I. cit., p.427

161

categoriali, poiché invero è nel novero di questa che esso rientra, trattandosi per

l’appunto di un atto originalmente offerente, in cui si manifesta un’entità in carne

e ossa, un’oggettualità cioè che in quanto tale non puo’ non darsi in un atto

intuitivo426. Le differenze rimontano invece a un altro ordine di considerazioni, a

principio del quale v’è la diversa maniera in cui si esplicita l’esser-fondato nel

caso dell’astrazione. Benché alla sua base, come per ogni atto categoriale, vi sia

un’intuizione sensibile come fondamento, nel suo caso gli oggetti presentati da

quest’ultima in quanto tale non sono co-intenzionati, come avveniva nel

riempimento di un determinato stato di cose - dove ad esempio la sintesi

predicativa come atto categoriale doveva pur intenzionare quegli oggetti per

intenderli come soggetto e predicato, che venivano così a costituire il suo oggetto

intenzionale. Con l’astrazione categoriale infatti le oggettualità sensibili

rimangono sì fondanti senza però più esser co-intenzionate, non costituiscono il

suo oggetto intenzionale, che è dato perciò in essa senza che vi compaiano le

entità sensibili fondanti. In tal maniera è in parte aperta la via che ci conduce al

rilevamento di quel senso della Reinlichkeit con cui è possibile riabilitare l’idea di

un intelletto puro nominata all’inizio dell’ultimo capoverso, in quanto è escluso

uno dei caratteri che più configgono con esso, ovvero l’individualità, se a definirlo

è la generalità delle sue nozioni. Solo parzialmente però, poiché a dover essere

esclusa ai fini di una “purezza” che aspiri a esser tale è tutto quanto la possa per

così dire opacizzare, intromettendo elementi allotropi: a dover esclusa è perciò,

oltre l’individualità, l’intera sensibilità. Se infatti ci si limitasse solo al concetto di

astrazione sin qui descritto difficilmente potrebbe emergere un carattere

categoriale, poiché a ben vedere anche un’astrazione sensibile non co-intenziona

le oggettualità fondanti, né è limitata all’individualità se i suoi oggetti sono

appunto concetti universali; perciò, se la diversità in cui si manifesta il rapporto di

fondazione vale ad affisare un’intuizione di specie diversa qual è appunto

l’astrazione, a renderla categoriale servirà l’estromissione rigorosa di quanto a

questo dominio s’oppone, ovvero di ogni carattere sensibile427, quali appunto

materialità e spazialità428. In tal maniera a essere esclusi non sono soltanto concetti

puramente sensibili - come “colore”, “casa” ecc. - ma anche concetti 426 In proposito cfr. anche M. Heidegger Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p.75: « Come “totalità”, “numero”, “soggetto”, “predicato”, “stato di cose” “qualcosa”, sono oggetti, così si dovrà concepire in modo corrispondente gli atti che li mostrano originariamente come intuizioni »427 E. Husserl Ricerche logiche, Vol. II cit., p.485428 M. Heidegger Prolegomeni alla storia del concetto di tempo cit., p.88

162

categorialmente misti come “esser-colorato (coloratezza)” - dove se l’essere

rimanda al dominio categoriale sensibile invece è il concetto di colore429. Priva di

qualsiasi riferimento all’individualità così come alla sensibilità nelle sue

componenti spaziali e temporali, l’astrazione categoriale o ideante si rivela l’atto

in cui si manifestano le oggettualità della mathesis universalis e nella quale per

ciò stesso si legittima l’idea di un intelletto puro nell’unico senso che Husserl puo’

consentire, quello cioè di un atto puramente categoriale, i cui oggetti sono per

l’appunto “concetti puramente categoriali” in quanto non affetti dalla

sensibilità430.

Con l’astrazione categoriale giunge perciò a compimento il cammino

indicato nell’Introduzione alle Ricerche logiche in quanto dischiusa è la fonte da

cui scaturiscono “i concetti fondamentali e le leggi ideali della logica pura”431. E

al tempo medesimo ancor più acuta diviene la critica allo psicologismo di quanto

già non fosse nei Prolegomeni. Colà infatti la confutazione delle sue posizioni

mirava a far risaltare la natura ideale delle oggettualità logiche ex negativo,

mostrando cioè il loro diverso status in opposizione alla dimensione empirica cui

di fatto riconduceva la riduzione psicologista; ma riguardo alla maniera effettiva

in cui il mondo delle idealità divenisse manifesto e potesse in tal modo

legittimarsi come tale, non si andava molto al di là di qualche pur importante

accenno432. Con l’astrazione ideante diviene finalmente comprensibile come

l’effettivo darsi delle entità logiche nella coscienza non valga affatto a

psicologizzarle, poiché la psiche non è il luogo in cui si producono, bensì quello

in cui si manifestano; con le parole di Husserl:

429 E. Husserl Ricerche logiche, Vol. II cit., p.485430 Ivi, pp.485-86431 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.269432 Ad esempio: « Ora anche la verità è un’idea: noi la “viviamo” come ogni altra idea in un atto di ideazione fondato sull’intuizione (un atto, in questo caso, di comprensione evidente) e nella comparazione cogliamo come evidente anche la sua unità identica di fronte a una disparata varietà di casi singolari concreti »; ivi, pp.142-143 (cfr. anche p.249 dove si accenna all’importanza della fenomenologia per la logica in virtù dell’accenno a un’ideazione adeguata, ovverosia all’astrazione categoriale). Anche Lenoci rileva l’insufficienza dei Prolegomeni ai fini dell’affermazione in positivo del mondo delle entità ideali, giudicandoli un lavoro necessario ma comunque preliminare in tal senso, preludendo così a un’indagine ulteriore qual è appunto quella fenomenologica. Soltanto, egli non rimanda alle analisi sull’astrazione categoriale della Sesta Ricerca, bensì alla Seconda e Quinta Ricerca, dove si analizzano “la peculiarità delle specie ideali, la struttura della coscienza e la natura dell’atto intenzionale” (cfr. M. Lenoci Pensiero Linguaggio Verità cit., pp.112-13); un rimando che a nostro avviso avrebbe un indiscusso valore qualora indicasse una tappa intermedia, poiché è invero la Sesta Ricerca, forte delle acquisizioni maturate nelle precedenti, a completare in via definitiva la fondazione fenomenologica della logica pura.

163

non nella riflessione sui giudizi o meglio sui riempimenti giudicativi, ma nei

riempimenti giudicativi stessi risiede veramente l’origine dei concetti di stato di cose e di

essere (nel senso della copula); non in questi atti in quanto oggetti, ma negli oggetti di

questi atti troviamo il fondamento dell’astrazione per la realizzazione di questi concetti433

In tal maniera una delle questioni che più tormentava la riflessione

husserliana, ovvero l’idea che un concetto fondamentale in aritmetica come la

collezione sorga dalla riflessione sull’atto del collegare, viene ora risolta alla luce

dell’impostazione fenomenologica, in virtù della quale non si guarda più all’atto

bensì a ciò che esso dà portandolo a manifestazione. E a ben vedere si rivela qui

un‘altra importante differenza in merito al rapporto di fondazione che caratterizza

l’astrazione ideante, che non soltanto non intenziona le oggettualità fondanti, ma

si scopre fondata in prima istanza sulle datità dell’intuizione categoriale - e

conseguentemente soltanto in ultima istanza sulle datità sensibili -, poiché è nei

riempimenti delle oggettualità categoriali che essa si esercita434, avendo per

l’appunto come oggetto le categorie e non i concetti sensibili.

§ 3.2.3 – La problematicità del significato come specie

Con questo però il nostro discorso non puo’ dirsi ancora concluso, poiché

invero complesse sono le problematiche che inevitabilmente si sollevano in

rapporto al significato. Se teniamo fermo quanto acquisito sinora a proposito

dell’astrazione ideante come fonte dalla quale scaturiscono le oggettualità della

logica pura, la situazione non sembrerebbe di per sé questionabile, in quanto esse

si ricavano dagli oggetti degli atti categoriali adeguatamente riempiti. A ben

vedere però questo vale a rigore soltanto per le categorie dell’oggetto e non per

quelle del significato, men che meno per i significati come specie. Il significato si

definisce infatti come modalità del riferimento all’oggetto e in forza di ciò è sì una

specie, ma sui generis, poiché si singolarizza laddove quel riferimento avviene,

vale a dire negli atti, per cui si rivela essere - come s’è visto - un carattere d’atto,

una struttura ideale che si individua nell’essenza intenzionale, o per meglio dire

significazionale degli atti significanti. Un atto di astrazione ideante che voglia

perciò volgersi ai significati dovrà riferirsi non agli oggetti degli atti bensì a

questi atti in quanto oggetti, poiché quelli non sono affatto l’intenzionato, bensì

433 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., pp.443-444.434 Ivi, p.486

164

quanto costituisce l’intenzione, sono cioè specie che non si individuano negli

oggetti intenzionati, ma negli atti intenzionali, per cui è su questi che deve

necessariamente esercitarsi, sono essi in altri termini i fondamenti dell’astrazione

richiesti. Con le categorie di significato si è allora di fronte a una situazione di

segno opposto, da cui discende che benché medesimo sia l’atto tramite cui si

dischiude il regno delle oggettualità logiche, diverse e per certi versi opposte sono

le rispettive modalità d’accesso, se in un caso è agli oggetti degli atti che bisogna

rivolgersi e nell’altro agli atti in quanto oggetti. O per meglio dire, con i significati

non è agli oggetti degli atti che s’indirizza l’intenzione, bensì ai loro contenuti,

perché non è certo il significato a essere oggetto dell’atto del significare,

divenendo piuttosto tale in un atto ulteriore qual è appunto l’ideazione che a esso

si rivolge fondandosi sull’enunciato significativo435.

E i contenuti sono qui le essenze significazionali degli atti, su di esse

viene operata l’astrazione che dà il significato, dove si palesano le difficoltà in cui

incorre la concezione husserliana del significato come specie. Se infatti ogni

specie, in quanto tale, si individua negli oggetti concreti che costituiscono il suo

ambito, sì che ciascuno di essi ha il suo proprio momento individuale che ne fa un

“caso” della specie medesima – come accadeva al ”rosso” e alle strisce di colore

rosso – ne deriva allora che anche per il significato avverrà qualcosa di identico,

ovverosia vi sarà nell’atto un momento individuale come particolarizzazione del

significato ideale, con la conseguenza che l’essenza significazionale degli atti non

sarà più semplicemente da intendersi come contenuto intenzionale, poiché a ben

vedere è “ciò che forma in essi il correlato fenomenologico reale (reel) del

significato ideale”436.

La conseguenza più evidente, benché non voluta o forse non

adeguatamente considerata, sta nella natura ibrida che l’essenza significazionale

viene ad assumere, scoprendosi come un concetto intenzionale-reale437, sì che

perlomeno ridimensionata risulta la distinzione fondamentale acquisita nella

Quinta Ricerca in merito ai contenuti d’atto, se non viziata da una palese

contraddizione.

435 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.370-71436 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.206437 Richiamandosi al passo husserliano citato per ultimo, Parpan fa opportunamente notare come il concetto del significato ai tempi delle Ricerche logiche si riveli essere uno “logisch-psicologischen Zwitterbegriff” proprio in quanto specie d’atto, ovvero come idea o concetto di un reale momento d’atto (R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.172)

165

Ma ancor più che in ambito fenomenologico è nel campo logico che si

manifesta una discrasia ancor più stridente, poiché la non chiarita natura di specie

del significato rischia di entrare in conflitto con quei caratteri che ne fanno

appunto una specie ideale, quindi di dar vita anche qui a una contraddizione e ben

più grave di quella or ora ravvisata in campo fenomenologico. Nei Prolegomeni

infatti la Reinlichkeit delle categorie del significato era stata ritrovata nella

peculiarità della loro estensione concettuale, composta non da entità empiriche

bensì da singolarità ideali438, laddove nella Quinta Ricerca è proprio un’estensione

empirica quella che caratterizza i significati, come s’è visto in merito all’essenza

significazionale. Un’aporia questa che per essere rettamente intesa richiede che si

completi il quadro in cui emerge, menzionando la distinzione fondamentale in

seno alle idealità che fanno capo al significato, quella cioè tra categorie e

singolarità ideali, ovvero (ad esempio) tra il concetto di “proposizione” e le

diverse proposizioni. È qui infatti che si motiva la reclamata purezza delle idealità

logiche, poiché a costituire l’estensione delle categorie di significato sono proprio

e soltanto le singolarità ideali, i singoli significati, per cui a essere specie sono a

rigore le categorie di significato, in quanto solo esse si individuano in casi

specifici quali appunto i singoli nomi, le singole proposizioni, i singoli giudizi e

via dicendo. L’errore che Husserl medesimo riconoscerà d’aver commesso nelle

Ricerche in merito alla concezione del significato emerge allora con nettezza

proprio da queste considerazioni, poiché consiste nell’aver considerato come

specie non soltanto le categorie del significato, ma anche le stesse singolarità in

cui queste si individuano, un errore del resto inevitabile qualora si concepisca

l’idealità in senso esclusivamente “specifico”439. La ristrettezza di questa

prospettiva in merito alla natura delle idealità viene a contaminare la Reinlichkeit

reclamata per le categorie logiche, poiché se è vero che la loro estensione è

costituita da entità ideali, è però altrettanto vero che a quest’ultime in quanto

438 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.182439 Particolarmente esemplificativo in tal senso è il § 33 della Prima Ricerca, dove dei significati - e quindi non soltanto delle categorie del significato - si dice « che formano una classe di “oggetti generali” o di specie »; ivi, p.370. V’è però da aggiungere che anche una simile prospettiva si rivelerebbe inaccettabile nell’ottica fenomenologica delle opere successive, Idee in primis. Qui infatti si riconosce un carattere specifico alle forme pure della logica, tanto che ogni proposizione si configura come una singolarizzazione di una determinata forma proposizionale; è però vero che siffatte forme pure non sono affatto generi rispetto a queste singolarizzazioni, tanto che la modalità per accedervi non consiste nella generalizzazione, che riconduce ciascuna specie al suo genere d’appartenenza, bensì nella formalizzazione, dove esclusa è ogni componente contenutistica della determinatezza data (cfr. E. Husserl Idee per un fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Vol. I cit., p.34)

166

specie spetta un’estensione e di natura empirica, vale a dire i correlati reelen dei

significati ideali, sì che le stesse categorie del significato palesano in ultima

istanza a un’estensione empirica e non più quindi “esclusivamente composta di

singolarità ideali”440.

Per evitare questa rovinosa conseguenza sarebbe stato necessario

riconoscere che le idealità non necessariamente devono essere specie, avvedersi

insomma che l’ideale ha il senso sì dell’irrealtà di contro all’empiria, ma non per

forza lo status del γένος, poiché come s’è visto

il “generale” come contenuto giudicativo, il senso, si specifica solo in questo o

in quel senso, mai però in atti. Il generale, l’idea rispetto alla realtà degli atti, è tutt’al più

l’essenza generale di atto, mai però contenuto d’atto441

Sarebbe stato necessario, quindi, riconoscere nei significati delle idealità

come unità di validità, delle singolarità ideali e nient’affatto delle specie, bensì

individuazioni di specie ideali, che in quanto tali non si singolarizzano a loro volta

in ulteriori entità e nei loro momenti442.

Ci si potrebbe però fondatamente chiedere: è davvero possibile intendere

in questo modo i significati? Non cesserebbero per ciò stesso d’essere caratteri

d’atto, in quanto non più specie che in essi si individuano? E quale sarebbe allora

il loro rapporto con questi, considerando che solo negli atti e non nei loro oggetti è

dato trovare qualcosa come il significato? Domande di questo genere mettono in

luce quella che è forse la deficienza centrale nella fenomenologia delle Ricerche

logiche, vale a dire la sua limitazione alla dimensione noetica della coscienza. La

concezione dei significati come specie fa infatti tutt’uno con questa limitazione,

440 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.182441 M. Heidegger Logica. Il problema della verità cit., p.42442 Su questo punto cfr. anche R. Bernet Bedeutung und intentionales Bewuβtsein cit., p.57. Poco più oltre egli osserva come la comprensione di una proposizione non consista nel comprendere la maniera in cui il parlante si riferisce all’oggetto, bensì ciò che è detto, ovvero il “pensiero” in senso fregeano (ivi, p.58). Effettivamente la concezione del significato di Frege è al riparo dalle difficoltà in cui si dibatte quella husserliana nelle Ricerche logiche. Riscontrando l’idealità in termini husserliani del pensiero, ovvero del senso, nella sua non percepibilità così come nell’indipendenza da qualsivoglia portatore – cosa che non consente di confonderlo con un contenuto psichico – (cfr. G. Frege Der Gedanke. Eine logische Untersuchung, « Beiträge zur Philosophie des deutschen Idealismus », I (1918-19), pp.58-77, trad.it. Il pensiero. Una ricerca logica, Guerini, Milano 1988, p.60) Frege non indulge ad alcuna concessione al regno della psicologia, poiché i sensi non si individuano affatto in controparti empiriche, ma vengono “afferrati” dai soggetti (ivi, p.68), per cui sono qualcosa che non gli inerisce come componente, ma con cui entra in relazione (ivi, p.74, nota 5), similmente al noema e al significato come Vermentheit cui Husserl giungerà nelle fasi successive della sua riflessione.

167

poiché induce a ritenere che in quanto caratteri d’atto essi non potranno che

singolarizzarsi in un loro momento reel, così come di natura empirica è l’entità in

cui si individua una specie oggettuale quale il colore. Il punto però qui trascurato e

decisivo sta nel fatto che la specie di un atto quale ad esempio il giudicare non è

affatto il giudizio come senso, bensì per l’appunto l’idea del giudicare, è essa e

non il significato a singolarizzarsi nei diversi giudizi come vissuti psichici.

Rendersi conto di questo conduce allora a una diversa e più adeguata

considerazione fenomenologica che riscontra la bipolarità costitutiva della

struttura d’atto, dove correlativamente alla componente noetica v’è quella

noematica. Per rifarsi ancora al caso del giudizio in esso sono infatti da

distinguere il giudicare e il giudizio come senso, ovvero il suo contenuto, che non

è più da intendersi come controparte reale di un significato ideale, bensì come

correlato del giudicare medesimo, componente sì costitutiva ma non per questo

effettiva (reel)443, trattandosi piuttosto del giudicato nel giudicare, di quanto gli

inerisce per essenza, tant’è che l’inesistenza dell’oggetto su cui si giudica non

pregiudica la possibilità del giudizio, poiché è semmai questo a poterla verificare.

Con la distinzione tra noesi e noema è quindi possibile ascrivere una natura ideale

ai significati senza però considerarli specie – trattandosi di correlati che in quanto

tali non si individuano ma si manifestano negli atti444, ovverosia di

intenzionatezze445, ideali in quanto componenti non reali (reel) degli atti e il cui

carattere precipuo è la permanenza identica a fronte della variabilità empirica dei

443 Cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Vol. I cit., pp.249-50444 Husserl stesso riconoscerà nel § 94 delle Idee i limiti della sua considerazione noetica dell’essenza intenzionale ai tempi delle Ricerche logiche, affermando che la considerazione noematica dell’atto è quella che consente di affisare il “concetto puramente logico di giudizio” richiesto dalla mathesis universalis (ivi, p.240)445 Cfr. E. Husserl Esperienza e giudizio cit., p.637. Dove fra l’altro si registra una più matura consapevolezza in merito all’idealità, in virtù dell’introduzione decisiva della dimensione temporale della coscienza, che consente di stabilire nella maniera più netta la differenza con l’individualità poichè « mentre l’individuale ha la “sua” posizione temporale e la sua durata, comincia in un punto per cessare in un altro ed essere poi un passato, l’irrealtà di cui parliamo ha l’essere temporale della sovratemporalità, della onnitemporalità che è pure un modo della temporalità » (Ibid.). E a ben vedere ciò consente di disgiungere il tema dell’idealità dalla dimensione del “valere”, poiché è alla luce della loro diversa temporalità e non in riferimento alla validità eterna del loro contenuto che si motiva la natura ideale delle proposizioni, vale a dire nel loro essere intenzionatezze, sensi, sì che « la proposizione “l’automobile è il più veloce mezzo di comunicazione” perde la sua validità nel tempo degli aeroplani. Tuttavia come proposizione una e identica essa puo’ sempre essere formata di nuovo da qualsiasi individuo nell’evidenza della distinzione; ed essa ha, come intenzionatezza, la sua identità irreale e sovratemporale ». Punto questo del tutto trascurato nelle Ricerche logiche, interessate in via esclusiva ai significati come componenti della logica pura, dove per l’appunto il tema della validità è irrinunciabile. Sul significato come Vermentheit cfr. anche R. Bernet Bedeutung und intentionales Bewuβtsein cit., p.59

168

vissuti psichici correlativi. E a ben vedere una simile concezione non stride affatto

con l’idea del significato come carattere d’atto, a patto però d’intendere un simile

carattere in senso noematico e non più noetico, come accade invece nelle Ricerche

logiche.

L’errore fondamentale commesso da Husserl sta allora nell’aver ritenuto

che i caratteri che contraddistinguono l’ideale siano ravvisabili solo nelle specie, e

di rendere in tal modo l’idealità dei significati “un caso particolare dell’idealità

dello specifico”446, con la conseguenza che il significato non viene individuato nel

correlato dell’atto significante, bensì in quel suo momento che ne è la

singolarizzazione, come se il genere dell’intenzione significante non fosse l’idea

di atto significante ma quella di significato. Un errore che deriva a nostro avviso

dal non aver tenuto adeguatamente distinti i due piani categoriali del significato e

dell’oggetto, nell’aver sovrapposto le istanze proprie di questo all’altro, mancando

in tal maniera la fondamentale distinzione tra le categorie logiche del significato e

dell’oggetto in quanto specie. Un punto questo che si manifesta con evidenza

laddove si tratta della modalità d’accesso a siffatti concetti categoriali, vale a dire

dal versante dell’astrazione ideante. Si è visto infatti come la sua Reinlichkeit si

motivi a partire dai suoi fondamenti immediati, vale a dire le datità dell’intuizione

categoriale, da cui le categorie vengono appunto ricavate447; come però per ogni

altro atto categoriale, datità sensibili sono le basi ultime di una siffatta astrazione,

poiché fondata su un’intuizione sensibile è l’intuizione categoriale che ne

costituisce il più immediato fondamento. Descrizione, questa, che è senz’altro

valida per quanto concerne le categorie dell’oggetto, su cui peraltro si motiva, ma

che non necessariamente mantiene la sua validità per l’altro genere categoriale: se

infatti le prime poggiano in ultima istanza su entità sensibili (la categoria di

relazione si ricava infatti sì dall’intuizione categoriale di una relazione, ma una

siffatta intuizione, per essenza, poggia su una datità sensibile), lo stesso non vale

per le altre, il cui riferimento ultimo sono i significati e dunque entità ideali.

Invece di fermarsi a questa evidenza descrittiva, Husserl ha ritenuto necessario

introdurre una particolarizzazione sensibile anche per il significato, costituita dalla

controparte reel dell’essenza significazionale, ovvero un contenuto, non potendo

naturalmente darsi un oggetto sensibile nel dominio del pensiero. Tarata sulle

istanze poste dall’oggetto, l’astrazione ideante delle Ricerche logiche mostra di

446 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369447 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.486.

169

non poter poggiare in ultima istanza su entità ideali, quasi come se un elemento

psicologista emergesse surrettiziamente a scompaginare la trama fenomenologica,

ai sensi di un’astrazione che si fatica a concepire come del tutto slegata da

elementi sensibili.

Quanto allora qui si manifesta è un errore imperdonabile in ambito

fenomenologico, ovvero un cedimento nella descrittività che definisce l’operato

stesso della fenomenologia per una sorta di μετάβασις εἰς ἄλλο γένος, poiché è

dalla sovrapposizione dei caratteri delle idealità dell’oggetto a quelle del

significato che discendono le problematiche sin qui scorte, dall’aver inteso come

specie non soltanto - com’era lecito - le categorie del significato, ma anche le loro

singolarizzazioni448, che a differenza di quanto accade per le categorie

oggettuali449 non lo sono affatto, trattandosi piuttosto di singolarità ideali.

Un’indicazione in tal senso veniva del resto fornita già dal testo delle

Ricerche logiche, dalla maniera in cui veniva introdotta l’idealità del significato

come specie, dove per l’appunto era dal paragone con le specie sensibili - rosso e

strisce di carta rosse - che si motivava quell’idea del significato. E a ben vedere

v’è un’ulteriore inammissibile conseguenza che deriva da quell’impostazione,

come Husserl medesimo riconoscerà più tardi. L’astrazione di una specie

comporta infatti una comparazione dei casi in cui essa si singolarizza ed emerge

come qualcosa di comune che si dà nella loro coincidenza. In quanto specie i

significati dovranno sottostare al medesimo processo al fine di venir ricavati, per

cui sarà dalla comparazione degli atti che sarà evinto il significato ideale, a partire

cioè dalla comparazione dei momenti d’atto, con la conseguenza che a fornire

un’idealità pura quale appunto il singolo significato non sarà un’astrazione

ideante, bensì sensibile, visto il suo riferimento alla componente psichica. O per

converso, data la natura che questa astrazione viene a rivelare, idealità pure come i

significati saranno avvicinate a concetti sensibili quale appunto quello di “colore”,

ridimensionando così la distinzione nettamente tracciata nel § 60 della Sesta

448 La considerazione del significato come specie manifesta secondo Parpan una confusione tra piani diversi, poiché conduce all’identificazione del rapporto tra genere categoriale (es. la “proposizione”) e singoli significati ideali (le singole proposizioni) con quello tra queste singolarità e gli atti (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.173).449 «Se ad esempio alla base dell’astrazione vi è l’intuizione di una relazione, la coscienza dell’astrazione puo’ rivolgersi allora alla forma della relazione in specie, in modo tale che resta fuori qualsiasi componente sensibile dei fondamenti della relazione » E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.486.

170

Ricerca450. Evitare l’insorgere di questa situazione dilemmatica è possibile

soltanto se si tiene fermo alla istanza descrittiva, poiché

la proposizione stessa è per tutti questi atti un identico come correlato di una

identificazione e non un universale come correlato di coincidenza comparativa. Il senso

identico non si singolarizza individualmente e, mentre il genere universale ha sotto di sé,

nella coincidenza, il singolo, il senso non ha sotto di sé alcun singolo451

Mosso invece dal paragone con l’ambito ideale degli oggetti Husserl ha

ritenuto che i caratteri essenziali452 del significato ne facessero una specie poiché

soltanto queste gli apparivano in tal maniera determinate; e per quanto fosse

un’evidenza descrittiva quella che lo conduceva a non confondere il vissuto

individuale con il significato in cui compariva, la descrittività veniva però meno

nel momento in cui quell’evidenza era fatta oggetto di un’interpretazione, poiché

l’identità del significato non veniva rilevata nei termini in cui effettivamente si

presentava – ovvero come correlato dell’atto significante, come noema – bensì

letta alla luce di tutt’altra evidenza, quella che attiene al regno delle specie

oggettuali453. Una siffatta e più acuta vigilanza fenomenologica avrebbe inoltre

impedito la discrasia in merito alla diversa attuazione dell’astrazione ideante,

rivolta in un caso agli oggetti degli atti e nell’altro agli atti in quanto oggetti,

tagliando così fuori gli ultimi residui psicologisti evidenti nell’ammissione di una

controparte psicologica del significato ideale. Con il noema infatti non è più l’atto

a essere fatto oggetto di considerazione al fine di ricavare le categorie del

significato, poiché è a ben vedere il suo correlato quello a cui ci si rivolge, a

quanto cioè dall’atto risulta intenzionato, a quanto vi si manifesta senza esser

realmente presente, ovvero all’oggetto vuotamente intenzionato nel ‘”come” del

suo manifestarsi454. 450 Ivi, pp.485-86451 E. Husserl Esperienza e giudizio cit., p.643452 Su questo punto cfr. anche J. N. Mohanty Husserl’Thesis of Ideality of Meaning in Reading’s on Edmund Husserl’s Logical Investigations, Martinus Nijhoff, The Hague 1977, p.77 e id. Edmund Husserl’s Theory of Meaning, Phaenomenologica 14, Martinus Nijhoff, Den Haag 1964, p.54. In quest’ultimo testo in particolare Mohanty afferma che il significato non va inteso in senso ontologico, bensì come inteso, come correlato d’atto (ivi, p.52). Posizione questa che a nostro avviso non valuta nella giusta misura la natura “specifica” del significato453 Particolarmente illuminante in tal senso è il § 31 della Prima Ricerca454 Sarebbe a questo punto interessante chiedersi se e che cosa abbia impedito a Husserl di rilevare il noema come costituente dell’atto già nel novero delle Ricerche logiche. A nostro avviso - ma si tratta soltanto di un’idea abbozzata, al limite della semplice suggestione - l’approdo a un siffatto fondamentale concetto è reso possibile dalla progressiva assolutizzazione della coscienza negli sviluppi della filosofia husserliana. Tracce in tal senso sono già ravvisabili nella Bedeteungslehre

171

La confusione husserliana tra i piani dell’oggetto e del significato non si

rivela però particolarmente destabilizzante per le Ricerche logiche, poiché non

impedisce l’attuarsi del compito fondamentale cui devono la loro genesi, quello

cioè di dar luogo a una logica come disciplina filosofica. Le categorie che la

strutturano sono infatti specie, si tratti dei concetti categoriali del significato o

dell’oggetto, per cui gli stessi problemi che abbiamo visto riversarsi

sull’astrazione non intaccano la sua natura di atto categoriale, di “fonte” da cui

essi scaturiscono, poiché è sul piano dei singoli significati ideali che quei dilemmi

sorgono e non sulle categorie che ne costituiscono per l’appunto genere. V’è però

da dire che quella certa miopia dello sguardo fenomenologico che abbiamo qui

ravvisato pur non impedendo l’accesso alle categorie - e quindi l’attuazione del

piano indicato già nei Prolegomeni - comporta a rigore sul piano fenomenologico

e in base a suoi stessi assunti un intorbidamento della Reinlichkeit reclamata per la

logica come Logik der Bedeutungen455, poiché i suoi costituenti rivelano in ultima

istanza un’estensione empirica, quella cioè dei singoli significati ideali in cui si

individuano. L’aspetto per certi versi paradossale di questa situazione sta nel fatto

che è proprio l’interesse per una logica pura a condizionare una siffatta

concezione dei significati ideali456 così come la sottovalutazione delle loro

problematiche, che verrà meno nel momento in cui la fenomenologia non vedrà

più ristretto il proprio compito alla fondazione di quella logica: solo a quel punto

del 1908 dove compare in nuce la differenza tra noesi e noema nei termini della correlazione tra significato fansico e ontico, in cui si chiarisce come al diverso modo del significare e del pensare corrisponde un diverso modo del significato e del pensato, ovverosia un diverso “tema” che è posto dinanzi agli occhi della coscienza e che non coincide con l’oggetto tout court (cfr. E. Husserl Vorlesungen Über Bedeutungslehre Sommersemester 1908, Martinus Nijhoff Publishers, Dordrecht/Boston/Lancaster 1987, trad. it. La teoria dl significato Bompiani, Milano 2008, pp.231-35). Ebbene in questo testo risulta chiaro come non ci si muova in un dualismo ingenuo soggetto-oggetto, poiché quest’ultimo «non è presente in altra forma che quella per cui viene giudicato appunto in maniera valida », per cui non risulta essere altro che “il perdurante identico” (ivi, p.477) nelle sintesi predicative, anche perché « nel pensiero e solo nel pensiero puo’ essere compiuta a priori la separazione tra lo stesso oggetto e il pensiero dell’oggetto. “L’oggetto stesso” rinvia a certe unità dell’identificazione che devono essere compiute nel pensiero identificante » (ivi. p.253). Proprio in virtù di questa assolutizzazione è possibile uno sguardo più attento alla strutturazione della coscienza, che diverrà ancora più acuto laddove con l’epochè verrà messo fuori circuito l’essere reale, sia fisico che psichico, e si rivelerà come a ogni atto sia propria per essenza una forma di correlazione: nel caso ad esempio di una percezione in tal senso “ridotta” « noi troviamo come qualcosa che appartiene ineliminabilmente alla sua essenza il percepito come tale…..L’albero simpliciter, la cosa della natura, è qualcosa di completamente diverso da questo albero-percepito come tale, che come senso percettivo appartiene inscindibilmente alla percezione » (E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Vol. I cit., p.227)455 Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.182456 Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.167-68

172

infatti il significato come singola entità ideale non verrà più delineato su misura

della categoria logica di significato.

La confusione di cui sinora abbiamo parlato nonché ribadito agli inizi

dell’ultimo capoverso è del resto particolarmente palpabile laddove si afferma che

i significati costituiscono una classe di oggetti generali457. Non viene meno allora,

si potrebbe con qualche ragione dire, la distinzione tra oggetto e significato che

tanta parte occupa nelle analisi husserliane, a partire dalla rilevazione dei loro

distinti ambiti categoriali sino a giungere alle acquisizioni della Prima Ricerca,

dove si distingue per l’appunto “tra ciò che l’espressione vuol dire e ciò su cui

essa dice qualcosa”458? Che una simile difficoltà fosse presente agli occhi di

Husserl è dimostrato in particolare dall’ultimo paragrafo della Seconda Ricerca.

Dopo aver affermato infatti che i concetti costituiscono i significati dei nomi, si

pone qui un’identificazione dei primi con gli attributi degli oggetti, con la

conseguenza che il “concetto” viene a essere un’entità sospesa fra i due piani del

significato e dell’oggetto, potendosi dire equivocamente concetti “sia gli oggetti

generali che le rappresentazioni generali (i significati generali)”459. A complicare

il quadro v’è inoltre la summenzionata affermazione che fa rientrare i significati

nella classe degli oggetti generali.

Al fine di sbrogliare questa intricata matassa è necessario anzitutto

osservare cosa davvero s’intenda per oggetto. E in ciò v’è da dire che Husserl è

abbastanza chiaro, ritenendo che esso debba intendersi nella maniera più ampia,

per cui coincide con il soggetto predicabile460, vale a dire “un qualcosa su cui è

possibile formulare enunciati sensati e veri”461. In forza di questo si comprende

come Husserl abbia potuto definire i significati una classe di oggetti generali,

trattandosi per l’appunto di entità su cui è possibile formulare enunciati sensati e

veri462, vale a dire in atti dove il significato stesso è reso oggetto, atti cioè

propriamente fenomenologici quali quelli riflessivi che rivolgendosi alle

intenzioni significanti rendono il significato oggetto per la coscienza463. Diviene

allora chiaro come sia il versante fenomenologico quello in cui si apprezza e si

delucida la distinzione tra significato e oggetto, perché un oggetto è tale solo per

457 Cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369 e p.370458 Ivi, p.313459 Ivi, p.492460 E. Husserl Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche cit., p.194461 E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche cit., p.226462 Cfr. in proposito E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369463 Su questo si veda l’intero § 34 della Prima Ricerca (ivi, pp.371-72)

173

una coscienza che vi si riferisce per via della mediazione di un significato, tanto

che i significati stessi possono essere oggetti, resi cioè tali da atti che a loro volta

sono significanti, dove si conferma come il significato non sia altro che la

modalità di riferimento a un oggetto, anche qualora questo sia un significato. Che

poi, per dirla con una battuta, il significato sia stato “reso oggetto” non soltanto in

termini fenomenologici, tanto da attribuirgli quei caratteri che s’addicono soltanto

alle entità oggettuali facendone perciò delle specie, rappresenta quell’errore di

fondo dell’impostazione husserliana su cui ci siamo già abbondantemente

soffermati. Quanto invece ci preme rilevare è la particolare evidenza con cui qui si

manifesta la saldatura fra fenomenologia e logica pura. Intesa come logica dei

significati464 essa non potrà che demandare alla fenomenologia la sua fondazione,

poiché è come carattere d’atto che si definisce il significato, come modalità in cui

qualcosa è inteso465, tanto che solo come in certo modo “significato” l’oggetto

puo’ manifestarsi, ovverosia come correlato466. Che però questo non valga affatto

a confondere i due piani, né a trasferire sul piano dell’oggetto quanto vale per il

significato – tanto che abbiamo sin qui registrato una tendenza per certi versi

opposta – è un punto fermo nella riflessione husserliana, che si motiva e si

chiarisce in ultima istanza a partire dalla diversa legalità che definisce,

determinandoli, i due piani - e di cui è ora tempo di occuparsi.

§ 3.2.4 – La Grammatica puramente logica e lo “uneigentliches Denken”

Un tema che si tratta di interrogare ancora a più fondo se si vuol cogliere

la specificità del significato in rapporto all’oggetto è lo statuto ontologico delle

entità ideali, vale a dire la validità. Dai passi husserliani in precedenza citati

sembrerebbe infatti che validità sia sinonimo di verità, tanto che a proposito delle

idealità si utilizzava la formula “oggetto che è in verità”467, sull’esempio degli enti

464 Ivi, p.360465 Su questo punto cfr. anche A. Bonomi Sul problema del linguaggio in Husserl, “Aut-Aut”, 118, 1970, pp.42-43466 Alla luce di questo si comprende la natura ibrida che in precedenza avevamo rilevato a proposito del concetto. Ogni scienza, com’è noto, si serve di concetti tramite cui cogliere le oggettualità che ne costituiscono il dominio, che vengono per l’appunto sussunte sotto di essi. La scienza delle scienze, la logica pura, occupandosi per l’appunto di ciò che costituisce l’essenza di una scienza dovrà trattare dei costituenti di questa in senso formale, ovvero di “oggetto” e “significato”; e se il concetto determina ciò che intendiamo quando parliamo di qualcosa, va da sé che esso assumerà i contorni di genere sommo, perché è partire dai concetti di “oggetto” e di “significato” che comprendiamo cosa s’intende con essi, un punto questo che come vedremo trova la sua più chiara delucidazione nella messa in luce della loro diversa legalità. Del resto, lo stesso Husserl nei Prolegomeni aveva rilevato come fosse proprio della logica pura aver a che fare con concetti di concetti (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.248) 467 Ivi, p.369

174

matematici il cui essere è per l’appunto quello che viene stabilito dalle

dimostrazioni d’esistenza468. D’altro canto però non è al piano veritativo che

rimonta l’essere dei significati, poiché sta piuttosto nel permanere identico di

ciascuno di essi a fronte della molteplicità empirica in cui comunque si

manifestano. Al fine di comprendere la peculiarità di questo essere e la maniera in

cui si possa parlare a rigore di validità dei significati senza con ciò renderli

dipendenti dall’oggetto per il loro sussistere, è necessario mettere in luce le

specifiche condizioni di possibilità del significato medesimo, muovendosi

innanzitutto e soprattutto sul piano fenomenologico.

Il punto a cui tener fermo nel dare inizio alle analisi è la definizione del

significato come modalità del riferimento all’oggetto da parte dell’atto. Un

riferimento come s’è visto esclusivo di una particolare categoria d’atti quali quelli

oggettivanti e che puo’ esplicitarsi in due distinte maniere, in senso cioè tetico o

sintetico, monoradiale o pluriradiale469. In questo è tracciata, o ancor meglio

rintracciata nell’alveo fenomenologico l’origine della distinzione fra nomi ed

enunciati, dovuta per l’appunto all’essenza significazionale degli atti, alla maniera

in cui qualcosa è inteso, ovvero per via di una denominazione che lo nomina

soltanto - e dove il “raggio intenzionale” è diretto soltanto all’oggetto - oppure

per mezzo di un intendere che ne metta in luce la caratteristiche, gli attributi che

gli appartengono e lo definiscono – dove invece v’è una pluralità di raggi

intenzionali che mettono in evidenza la sua articolazione, come avviene nella

sintesi predicativa. Nomi e proposizioni rimandano così agli atti in cui si

costituiscono, rimontano a differenziazioni nella materia degli atti oggettivanti,

dove si conferma la validità della chiarificazione fenomenologica anche in

rapporto alla dimensione linguistica. Per quanto poi concerne il loro rapporto

Husserl attribuisce una preminenza alle proposizioni, agli enunciati, perché è nel

novero da essi costituito che si chiarisce in via definitiva cosa sia il nome:

vediamo allora che le parole o complessioni verbali che valgono come nomi,

esprimono un atto concluso solo quando possono presentare un soggetto completo e

semplice di un enunciato…..quando possono assolvere la funzione del soggetto semplice,

senza variare la loro essenza intenzionale470

468 Cfr. E. Husserl Recensione a M. Palàgyi, la polemica tra psicologisti e formalisti nella logica moderna cit., pp.181-82469 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.269470 Ivi, p.250

175

Ancor prima che qui, nella Quinta Ricerca, una tale preminenza era già

stata espressa nella Quarta Ricerca, dove per l’appunto si rilevava come “ogni

struttura concreta di significato è una proposizione o interviene all’interno delle

proposizioni come loro possibile membro”471. Ne deriva allora che laddove si tratti

come nel nostro caso di mettere in luce le condizioni di validità dei significati è

alle proposizioni che bisognerà rivolgersi, o in altri termini alla maniera in cui è

possibile formare complessioni di significati valide. A instradare su questa via è

del resto la distinzione che Husserl considera fondamentale nel domino formale,

categoriale del significato, quella cioè tra significati indipendenti e non-

indipendenti - ovvero tra significati che possono o meno assolvere la loro

funzione significante in maniera autonoma e quindi senza bisogno di integrazioni,

o in termini più strettamente fenomenologici tra significati in grado o meno di

costituire o meno “il pieno e intero significato di un concreto atto significante”472.

Laddove infatti ci si riferisce a un oggetto categorialmente formato quale ad

esempio una congiunzione si manifesta con evidenza come i due termini congiunti

possano sussistere indipendentemente l’uno dall’altro e al di fuori della

congiunzione medesima, mentre lo stesso non vale per il significato della

particella “e”, che proprio perché “congiuntiva” abbisogna di membri da

congiungere affinché possa attuarsi quella certa modalità d’intendere l’oggetto, a

che il significato possa comprendersi473. Si comprende allora come a definire non-

471 Ivi, p.118. Dalla lettura di questo passo Parpan ricava la priorità delle proposizioni predicative nel discorso husserliano, considerando l’identificazione qui operata tra le proposizioni e i giudizi (ibid.; cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit. p.101). Una priorità che va però intesa nel senso di un privilegio - come Husserl stesso ammette esplicitamente nella Quinta Ricerca (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II, p.268) - motivato dagli interessi logici e gnoseologici che animano le analisi husserliane, e non come se a essa fossero da ricondurre le altre tipologie di sintesi (congiuntiva, disgiuntiva) che invece le si “contrappongono” (ibid.), come egli stesso del resto chiarirà in termini ancor più espliciti in Logica formale e trascendentale: « esse non fondano una unità categoriale di questo genere, né vi rimandano in qualche “modificazione” o in qualche altro modo – come se ciò che esse collegano e il collegamento stesso dovessero necessariamente presentarsi all’interno di una predicazione »; E. Husserl Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung 10, Halle 1929 (trad. it Logica formale e trascendentale, Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 300)472 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.103473 Husserl si pone esplicitamente il problema della comprensione dei sincategoremi - ovvero dei significati non-indipendenti - isolati, affermando che « noi comprendiamo lo e isolato perché ad esso si associa come significato anomalo l’idea indiretta, benché verbalmente non articolata di una certa particella a noi ben nota; oppure perché, con l’aiuto di vaghe rappresentazioni di cose e senza alcuna integrazione verbale interviene un’idea del tipo A e B » (ivi, p.106). Una comprensione in questo caso non soltanto dimidiata, vaga e non piena, ma che per esser comunque tale necessita del sopraggiungere per quanto anomalo dell’integrazione giustappunto richiesta.

176

indipendenti dei significati sia il bisogno d’integrazione che inerisce loro per

essenza474, da cui consegue che

un significato non-indipendente puo’ dunque realizzarsi soltanto in un atto non-

indipendente che sia parte di un atto significante concreto, puo’ concretizzarsi solo in

connessione con certi altri significati che lo integrano: esso puo’ “essere” solo in un

intero-di-significato475

Quanto però qui si richiede non è affatto un’integrazione qualsiasi,

poiché soltanto in determinati contesti quel bisogno puo’ essere soddisfatto, v’è in

altri termini una legalità ideale che regola l’integrazione in nuovi significati

determinando le modalità in cui un intero-di-significato puo’ costituirsi. E per

converso, poiché solo tramite forme connettive che hanno la natura di significati

non-indipendenti è possibile realizzare una connessione di significati476, siffatte

leggi saranno le condizioni di possibilità del significato medesimo, se è

innanzitutto nella - e come - proposizione che esso interviene.

Per cogliere la legalità in questione è necessario muoversi in senso

fenomenologico, garantirsi cioè la modalità in cui è possibile accedervi e che

Husserl individua nel processo di formalizzazione477, trattandosi per l’appunto di

leggi che determinano le forme pure del significato come genere categoriale478.

Sostituendo delle variabili alle componenti di una proposizione ad esempio

predicativa si otterrà non soltanto la forma ideale comune a tutte le proposizioni di

quel genere, ma si mostrerà anche a quali condizioni una siffatta struttura ideale

puo’ dirsi valida e per ciò stesso costituirsi. Nella forma Sèp gli elementi che

affiancano la copula non possono affatto venir particolarizzati ad arbitrio, ovvero

non è affatto indifferente che cosa si pone come soggetto e predicato. Detto in altri

termini l’analisi husserliana non si ferma affatto al piano sintattico, al rilievo del

rapporto fra soggetto e predicato come forma comune a ogni predicazione, poiché

le forme sintattiche non sono sufficienti a circoscrivere il campo della validità.

Come egli stesso afferma infatti, accanto o per meglio dire più a fondo delle forme

474 Ivi, p.102475 Ivi, p.103476 Ivi, p.107. Husserl stesso del resto chiarisce come la questione dell’essere dei significati non si ponga affatto per i tipi primitivi, “che hanno la loro origine nella pienezza dell’intuizione”, ovvero per i significati semplici, bensì per quelli risultanti dalla loro composizione (ivi, p.494)477 Ivi, p.108478 Su questo punto cfr. cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Vol. I cit., § 13, pp.33-35

177

sintattiche si pongono le forme nucleari che le prime presuppongono479, poiché per

l’appunto solo materie nominali, ovvero materie che hanno la forma nucleare del

sostantivo, possono occorrere come soggetto e soltanto materie aggettivali, con la

forma nucleare dell’aggettivo, possono fungere da predicati.

Nelle Ricerche logiche la distinzione fra queste diverse tipologie di

forme non è però esplicitata con la dovuta chiarezza, poiché le forme nucleari

vengono a ben vedere introdotte senza essere adeguatamente rilevate, né è facile

comprendere in che senso le forme sintattiche presuppongano “già come sostanze

sintattiche contenuti nucleari in e con forme nucleari qualsiasi “480. Ben più chiaro

nel merito è il testo di Logica formale e trascendentale. Qui infatti si mostra come

la materia sintattica – ovvero la materia ottenuta astraendo dalle forme sintattiche

soggetto, predicato, attributo ecc. – non sia affatto di per sé “informe”, poiché in

esse si rilevano forme diverse, quale appunto “sostantivo”, “aggettivo”, “relativo”,

che non solo si distinguono da quelle della sintassi, ma condizionano la stessa

messa in forma sintattica, poiché questa agisce appunto su materie già in tal senso

formate481. Forme definite nucleari poiché determinano intrinsecamente la materia

e perché questa si presenta quale nucleo identico di diverse formazioni, contenuto

comune da esse informato, come mostrato ad esempio da “rosso” e “il rosso”,

rispettivamente aggettivo e sostantivo con un medesimo “momento essenziale…

sotto l’aspetto materiale”482. Forme che costituiscono le autentiche categorie del

significato483, la cui intrinseca legalità determina le condizioni di possibilità del

significato medesimo perché discende dall’a priori “che si radica puramente

nell’essenza generale del significato come tale”484, sì che la disciplina che le ha

479 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit. p.115480 Ibid.481 E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., p.307. In tal senso estremamente chiaro e illuminante è quanto si dice in Esperienza e giudizio: « I termini della proposizione giudicativa non hanno solo la formazione sintattica del soggetto, del predicato ecc., come forme di funzioni, che convengono ai termini della proposizione come tali, ma essi possiedono ancora un altro genere di formazione sottostante, le forme del nucleo; il soggetto ha la forma nucleare della sostantività, e nel predicato la determinazione p sta nella forma nucleare della oggettività »; cfr. E. Husserl Esperienza e giudizio cit., p.507482 E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., p.308. Ancor più che nelle Ricerche logiche (per cui cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.120) si comprende qui cosa debba intendersi con il concetto, fondamentale in logica, di “termine”, ovvero la materia-nucleo (E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., p.310), da distinguere peraltro dalle materie sintattiche in unità con le loro forme, che a scanso di facili equivocazioni sono ora da intendersi come sintagmi (ivi, p.304)483 Su questo punto cfr. la preziosa Introduzione di Giovanni Piana all’edizione italiana delle Ricerche logiche (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.XXIX) e R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.106-108484 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.124

178

per oggetto, quella che Husserl definisce “morfologia pura dei significati”, si pone

come fondamento necessario della logica pura in quanto Logik der

Bedeutungen485.

La morfologia pura dei significati vale perciò a distinguere in maniera

netta e inequivocabile il senso dal non-senso. Nell’esempio fatto in precedenza

sono infatti le forme nucleari, le categorie del significato propriamente dette a

vincolare la particolarizzazione delle forme sintattiche, poiché non puo’ mai

essere un aggettivo o una relazione qua talis a occorrere come soggetto di una

proposizione predicativa, ma soltanto un sostantivo. L’indifferenza alla materia

che definisce la purezza della dimensione logica si rivela qui nella legalità formale

cui rispondono le componenti significative, dove a influire sulla composizione di

un intero semantico non è affatto la particolarità materiale dei significati, bensì la

maniera in essa è intesa, la categoria alla quale è ricondotta, perché è sempre e

soltanto come materia “categorialmente formata” (nominale, aggettivistica,

relazionale) che essa compare in un intero di significato486. Lo si è visto poc’anzi,

con l’entità sensibile “rosso”, nucleo che puo’ assumere le forme aggettivistica e

sostantivale e che rivela per l’appunto la legalità valida per i significati, per cui

nel campo dei significati vi sono leggi a priori secondo le quali i significati si

trasformano in vario modo mantenendo un nucleo essenziale 487

Responsabile di questo genere di trasformazioni è una legge che assieme

alla complicazione di significati in nuovi significati complessi488 è parte costitutiva

della morfologia puramente logica, ovvero la modificazione. Ogni significato

infatti puo’ per essenza mutarsi nella sua rappresentazione diretta, puo’ cioè

divenire “significato proprio” del significato originario, sì che la sua espressione

485 Ivi, p.118 e p.126486 « Ovunque, i concetti materiali (anche quelli superiori, come cosa fisica, spazialità, psichicità, ecc.) sono sostituiti da rappresentazioni indeterminate e generali di elementi materiali in generale, che hanno tuttavia categorie di significato ben determinate (ad esempio, significato nominale, aggettivistico, proposizionale) »; ivi, pp.118-19. A complemento di questo v’è da aggiungere la distinzione fondamentale tra momenti puri della forma e momenti che ricevono una forma -intendendo con questi ultimi quanto consente il riferimento alle cose (ovvero significato nominale ecc.) - dove vale la proposizione analitica, acquisita già nella Terza Ricerca, secondo cui ”in un intero le forme non possono in genere fungere come materie, e le materie come forme”. Se infatti il termine che consente il riferimento a una cosa venisse particolarizzato con un momento puro della forma si avrebbero palesi insensatezze: nel caso della proposizione predicativa Sèp verrebbe fuori qualcosa come un albero è e (ivi, p.110).487 Ivi, pp.113-14488 Si pensa qui naturalmente alle congiunzioni e alle disgiunzioni

179

verbale vale come nome proprio di quest’ultimo489. La particella “e” ad esempio

diviene nome proprio del suo significato in espressioni quali “’e‘ è una

congiunzione”, dove appunto il significato originario non è più espresso, bensì

denominato da essa, o ancor meglio dove “e” non è più ciò tramite cui ci si

riferisce a qualcosa bensì ciò su cui qualcosa si dice, non è più a ben vedere

significato, ma oggetto cui il significato si rivolge490. E in quanto “oggetto” in

certo modo significato, inteso in un atto tetico, un tale significato puo’ allora

essere soggetto di una proposizione predicativa, essere cioè “nome”. L’operazione

di modificazione si chiarisce allora, coerentemente con l’impianto e i fini delle

Ricerche logiche, sul piano fenomenologico, perché è un atto di nominalizzazione

a consentire di trasformare in nomi significati di genere diverso491, quell’atto cioè

che si riferisce teticamente, monoradialmente a un significato, sia esso un

sincategorematico, un aggettivo o una sintesi492, facendone per ciò stesso un

oggetto nel senso che qui esclusivamente si predilige, quello cioè logico, vale a

dire “un qualcosa su cui è possibile formulare enunciati sensati e veri”493.

Le leggi della modificazione e complicazione, assieme alle forme

primitive dei significati indipendenti (nominale, aggettivistica, proposizionale)

non costituiscono soltanto la sfera della morfologia puramente logica dei

significati494, ovvero la grammatica puramente logica, quell’impalcatura formale e

ideale che ciascuna lingua rivela al di sotto della sua veste empirica495. Esse infatti

489 Ivi, p.114490 Ivi, p.112491 Ivi, p.115492 Ivi, p.269 493 E. Husserl Compito e significato delle Ricerche logiche cit., p.226. La logica pura di cui parlano i Prolegomeni non potrà perciò non porsi come Logik der Bedeutungen, perché è sempre e soltanto come riferimenti di un significato, come termini intenzionali che gli oggetti si danno, che le oggettualità logiche si manifestano, compresi i significati medesimi. Su questo punto cfr. anche V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., pp.90-91 494 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.119 495 Ivi, pp.126-27. In proposito si registra un significativo mutamento terminologico tra la prima e la seconda edizione delle Ricerche logiche, poiché se in precedenza la morfologia pura dei significati era stata denominata “grammatica pura” ora diviene “grammatica puramente logica”. Mutamento che lo stesso Husserl rileva e di cui dà conto, osservando come una grammatica pura debba trattare di ogni genere di a priori linguistico, non limitandosi soltanto a quello logico, cosa che spiega perché ora la purezza sia assegnata soltanto all’ambito logico della grammatica e non alla grammatica tout court (ivi, p.128). Una siffatta limitazione non è ovviamente sfuggita agli interpreti né inosservate sono passate le sue conseguenze, tra le quali la più rilevante è senz’altro la sottovalutazione, se non il disinteresse per l’elemento propriamente linguistico (più in particolare cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.111; V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., p.90 (nota 21); F. Costa Husserl e il linguaggio in “Giornale di metafisica”, 14, 1992, pp.214-15 (dove si sottolinea come il linguaggio non sia affatto produttivo, ma si limiti a rispecchiare entità già costituite); R. Raggiunti The language problem in Husserl’s phenomenology, in A. Ales Bello The great chain of being and italian phenomenology, Analecta Husserliana, 11, D. Reidel, Dordrecht/Boston/London 1981, p.270 (dove si registra la priorità sul

180

rappresentano la condizioni di possibilità della pensabilità in genere, sono in altri

termini ciò che definisce l’intelletto qua talis496 per via della sua natura

intenzionale, poiché gli atti che lo costituiscono attuano il loro costitutivo

“riferimento a” sempre e soltanto attraverso quelle categorie con la legalità che

inerisce loro per essenza497.

Si tratta però di intendersi meglio sul tema della pensabilità nella

riflessione husserliana, su come cioè vada inteso il pensare e quindi il pensiero.

Come abbiamo già visto in precedenza si parla in proposito di atti, di vissuti

intenzionali, e più nello specifico di atti categoriali, sì che la distinzione

tradizionale tra sensibilità e intelletto, e correlativamente tra intuire e pensare, va

riletta e declinata nei termini della differenza fra dimensione sensibile e

categoriale498. Husserl stesso definisce infatti l’intelletto facoltà degli atti

categoriali499. V’è però da sottolineare che due sono i generi categoriali ammessi

da Husserl, vale a dire significato e oggetto, da cui discende che il pensiero stesso

dovrà ammettere un’ulteriore e importantissima distinzione qual è quella tra

uneigentliches e eigentliches Denken. A definire l’improprietà è qui come già

nella Filosofia dell’aritmetica il carattere non-intuitivo, il darsi di

rappresentazioni in absentia dell’oggetto, dove però non si tratta di segni in

funzione surrogante bensì di significati che intendono un’oggettualità senza che

questa sia presente, con la conseguenza che a regolare il pensiero improprio non

sono più leggi psicologiche, bensì ideali - quali quelle della grammatica

logicamente pura. Trattandosi in questo caso di forme categoriali l’improprietà va

vista nella dispensabilità dell’oggetto per le categorie del significato, che si

linguaggio di qualcosa di non linguistico come il pensiero indiretto con le sue leggi)). Emblematica in tal senso è la marginalizzazione dell’elemento comunicativo del linguaggio, di cui ci occuperemo diffusamente nel prossimo paragrafo496 Ivi, p.498497 Che quanto rilevato a proposito della grammatica esuli dal piano linguistico per coinvolgere la sfera del pensiero è pressoché un’ovvietà se si pone mente al fatto che già nell’Introduzione alle Ricerche logiche si erano stabiliti atti significanti a monte e come condizioni degli enunciati linguistici (cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.269-70). Un punto divenuto ben più chiaro nel momento in cui il significato si è mostrato come una specie d’atto singolarizzata nella essenza d’atto, dove a essere rilevante è soprattutto la materia come senso apprensionale. Nella Quinta Ricerca Husserl osserva infatti come le leggi della grammatica puramente logica stiano a fondamento della messa in forma categoriale operata dagli atti, rilevando che « da questo punto di vista, ciò che importa sono soltanto le materie (i sensi oggettivanti degli atti), nelle quali si esprimono tutte le forme nella costruzione delle sintesi oggettivanti »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.270498 Già nell’Introduzione alla Sesta Ricerca veniva stabilito questo punto (ivi, p.303), che trova però una più ampia, articolata ed esauriente trattazione nell’intero capitolo VIII della medesima ricerca499 Ivi, p.498

181

limitano a intendere senza perciò presentarlo, mentre come s’è visto poc’anzi è a

partire da un oggetto sensibile che si danno le forme categoriali oggettuali; e

correlativamente l’astrazione ideante rivela qui come suo fondamento il mero

pensiero, o se si preferisce il mero intendere significativo privo di riempimento, sì

che l’atto categoriale è in tal caso sui generis, poiché non riconduce mediatamente

o immediatamente alla sensibilità, come Husserl stesso aveva dichiarato nel § 60

della Sesta Ricerca500. La dimensione impropria acquisisce allora un’importanza

ben più rilevante di quanto avveniva nei testi d’esordio poiché non consiste

semplicemente nella surrogazione semiotica dell’oggetto ai fini

dell’economizzazione dei processi psichici, svelandosi piuttosto come ciò che

costituisce la necessaria modalità d’accesso al regno oggettuale medesimo e dove

perciò non v’è semplicemente un segno che sta per un oggetto non presente, bensì

un significato che lo intende501, per cui l’improprietà non si motiva empiricamente

sui limiti psichici di un soggetto, ma si svela come necessità oggettiva e ideale,

come condizione di possibilità dell’intelletto qua talis502 e dunque del pensiero.

Centrale in questo è il concetto di intenzionalità che definisce il pensiero

medesimo nei suoi atti, poiché qualsiasi pensato, in quanto “oggetto”, non potrà

che darsi come in qualche modo inteso, in certo modo significato, dunque

dipendente dalle categorie del significato. E a questo non sfuggono naturalmente

le categorie medesime, che sono sì date in virtù di un pensiero fondato

sull’intuizione - eigentliches Denken - ma anche intese in atti significanti, oggetto

cioè di intenzioni significative - uneigentliches Denken - a cui gli atti di pensiero

propri, le intuizioni categoriali, forniscono i riempimenti corrispondenti503

garantendone così la conoscenza. Dove ancora una volta si avverte il senso in cui

consiste l’improprietà delle categorie del significato, nel loro essere cioè prima

500 Ivi, p.485. Poco più in là nel testo si afferma a dire il vero che le forme significative sono forme categoriali in senso improprio (ivi, p.487), senza con ciò voler intendere che siano categorie in qualche modo dimidiate, ma a sottolineare l’inessenzialità di un’intuizione sensibile fondante, il fatto cioè che non necessariamente corrisponde a esse “un tipo di oggettualità categoriale” (ivi, p.494), ovvero un oggetto – in tal modo – categorialmente formato.501 Anche in questo è rilevabile il passaggio dal segno al significato come una delle possibili cifre attraverso cui leggere la svolta fenomenologica. V’è però da dire che Husserl anche nelle Ricerche logiche continua ad attribuire un carattere improprio di tipo surrogante ai segni, anche se solo a una precisa tipologia semiotica quale i simboli matematici, come avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo. 502 « Un intelletto con altre leggi che non siano quelle puramente logiche [scil. della grammatica puramente logica] sarebbe un intelletto privo di intelletto »; ivi, p.498503 Ivi, pp.494-95

182

facie non oggetti bensì quanto consente il riferimento agli oggetti504, ivi comprese

appunto le categorie oggettuali

La distinzione tra pensiero proprio e improprio505 consente inoltre di

venire a capo sul piano fenomenologico della distinzione fra significato e oggetto,

considerando che è pur sempre negli atti che entrambi si manifestano, pur nella

diversità in cui ciò avviene. Una diversità che si manifesta e giustifica nella

differente legalità che sovrintende ai due ambiti e in tal maniera li costituisce. Se

infatti le leggi del pensiero improprio sono quelle della grammatica puramente

logica, trattandosi dell’intendere significativo, delle modalità in cui è possibile il

riferimento all’oggetto, il pensiero proprio, avendo a che fare con il dominio

oggettuale, risponderà alle leggi “delle intuizioni categoriali secondo le loro pure

forme categoriali”506, ovvero alle condizioni di possibilità dell’oggetto, non a

quelle del riferimento a esso – leggi analitiche quali ad esempio i principi di

identità e non contraddizione.

Che poi si tratti di dimensioni tutt’altro che slegate, bensì correlative, è

mostrato dalla preferenza accordata da Husserl ai significati intuitivamente

riempiti, che è quanto dire alla questione della verità e quindi della conoscenza.

Laddove infatti si parla di significati validi - per giungere così al punto che aveva

aperto questo paragrafo - di validità dei significati, ci si riferisce sempre alla loro

traduzione intuitiva adeguata, la loro validità - ma non il loro essere - è in altri

termini identificata con la possibilità oggettiva507. E in questo ad avere un peso 504 Ciò non toglie naturalmente che le stesse categorie del significato possano essere rese oggetto di atti significanti, divenendo in tal modo oggetti e rispondendo così alle leggi valide per essi; il riferimento a esse sarà però comunque mediato da significati e quindi ancora una volta da categorie del significato nella loro funzione significativa - e non come termini di un riferimento oggettuale.505 Nella nostra esposizione abbiamo preferito discostarci dalla pregevole e insuperata traduzione di Giovanni Piana, che nei paragrafi più da presso dedicati alla distinzione tra eigentliches e uneigentliches Denken traduce invero “pensiero diretto e indiretto”. Una scelta, la nostra, che si motiva a partire dal largo spazio concesso alla tematica delle uneigentliche Vorstellungen nei capitoli precedenti, che venivano per l’appunto tradotte nella formula “rappresentazioni improprie”. Lo stesso Piana del resto non si attiene univocamente alla traduzione di uneigentlich con “indiretto”, tanto che nel § 61 della Sesta Ricerca il termine viene appunto tradotto con “improprio” (ivi, p.487; nell’edizione originale - nella versione da noi consultata - cfr. E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.714)506 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.492507 Ivi, p.496. A tal proposito, indicativo era quanto già si diceva nelle battute finali del § 31 nella Prima Ricerca. Nel giustificare infatti l’essere dei significati Husserl affermava che un tale modo di esprimersi è da considerarsi come indicazione della validità di certi giudizi, per cui il titolo “oggetto che è in verità” è da attribuirsi “a ciò su cui si esprime un giudizio”. (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.369) E un giudizio valido è qui un giudizio vero, per cui validi sono quei significati intuitivamente riempiti, oggettivamente possibili. Nella prima edizione dell’opera, laddove si considerava il discorso sull’essere dei significati come Anzeigen für die Geltung gewisser Urteile, compariva una nota assai significativa, che recitava “sei es nur für die supponierte Geltung” (E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.106, nota 2). Husserl infatti

183

decisivo è senz’altro l’influenza dell’es gilt lotzeano, contrassegno delle verità

ideali, tutt’altro che sorprendente in un’opera come le Ricerche logiche mossa in

prevalenza da interessi logici e gnoseologici.

L’orientamento logico-gnoseologico delle analisi husserliane fa sì che i

domini del significato e dell’oggetto, pur se garantiti nella loro autonomia dalla

rispettiva legalità, non solo si condizionino a vicenda, ma emerga in questo

vicendevole condizionamento una primarietà del campo oggettuale. A darne la

misura è la stessa concezione del significato nelle Ricerche logiche, il suo essere

un carattere d’atto, quel carattere cioè che ne costituisce l’essenza intenzionale in

quanto modalità del riferimento all’oggetto508. La stessa distinzione fra senso e

nonsenso matura e va colta a partire da una siffatta concezione. Si è visto infatti

come a produrre nonsensi sia il mancato rispetto della legalità inerente alle

categorie del significato, nel non tener conto ad esempio che in una proposizione

predicativa non puo’ esser predicato un termine relazionale, bensì aggettivale509. A

ben vedere questa impossibilità si motiva a partire dall’idea del significato come

modalità del riferimento all’oggetto, poiché nel caso di una pseudo-proposizione

quale “l’albero è e” a esser reso impossibile è proprio quel riferimento, non è

aveva già stabilito come il significato non dovesse nulla per la sua “validità”, per il suo essere al darsi dell’oggetto, sì da chiarire in nota come la validità del giudizio in senso veritativo potesse anche essere soltanto supposta. Nel prosieguo dell’opera comunque, laddove si tratterà - come nella Quarta Ricerca - del significato qua talis, a prescindere dall’esistenza dell’oggetto cui si riferisce, egli parlerà non della sua validità, bensì del suo “essere nel ‘mondo’ dei significati ideali” (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.116)508 Molto opportunamente Ernst Tugendhat rileva al fondo della considerazioni husserliane sul significato un “gegenstandstheoretisch Ansatz” (cfr. E. Tugendhat Vorlesungen zur Einführung in die sprachanalytische Philosophie Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1976, p.144), mostrato in maniera eminente dalle due modalità in cui il significato è inteso nelle Ricerche logiche, vale a dire come essenza dell’atto e modo di datità dell’oggetto - dove anche la prima manifesta un Gegestandsbezug, se l’atto è per l’appunto das Bewuβtsein von einen Gegenstand (ivi, pp.149-50) 509 Yehoshua Bar-Hillel rileva in questo il punto debole delle analisi husserliane sulla grammatica, nell’aver cioè stabilito come categorie del linguaggio qua talis quelle di una specifica lingua, o al massimo regione linguistica quale l’indo-europea (Y. Bar-Hillel Husserl’s conception of a purely grammar, in “Philosophy and phenomenological research”, 17, 1957, p.365). A dar man forte a questa tesi sono le manchevolezze che egli ritrova nel discorso husserliano, in specie laddove osserva che una proposizione quale “l’albero è una pianta” è sensata anche se una materia nominale quale “pianta” è qui al posto di una materia aggettivale, in funzione di predicato. Punto a dire il vero di cui lo stesso Husserl non sembra preoccuparsi, se anch’egli ritiene sensata un’espressione in tal senso simile quale “verde è un colore” (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.115); e non se ne preoccupa in forza del concetto di nome attributivo (ivi, p.255), di nomi cioè che fungendo da attributi possono venir sussunti sotto la categoria aggettivale. Come è stato poi giustamente osservato « quando Husserl ci parla di significati nominali, aggettivali o relazionali non dobbiamo lasciarci impressionare più di tanto dal fatto che nelle nostre lingue vi sono appunto nomi e aggettivi, ma dobbiamo esclusivamente richiamare l’attenzione alla differente funzione logica che i significati in quanto tali possono esercitare in un contesto più ampio – una differente funzione che si manifesta nella diversa modalità in cui la dipendenza o l’indipendenza del significato si realizzano »; V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci La fenomenologia cit., p.89

184

rilevabile cioè alcun indirizzamento a un oggetto. In tal maniera Husserl puo’

distinguere l’autentico nonsenso (das Unsinnige) da quanto di solito pur vi si

ascrive e che invece va considerato controsenso (das Widersinnig)510, da

suddividere in controsenso materiale e formale o analitico511.

Esempi del primo sono espressioni quali “quadrato rotondo”, dove è

l’incompatibilità dei concetti materiali a manifestare un’impossibilità,

un’incompatibilità che rimanda a leggi sintetiche a priori, ben diversamente da

quanto accadeva nei testi d’esordio, nei quali era l’impossibilità psicologica del

sussistere assieme delle rappresentazioni a motivare il nonsenso.

Diverso e maggiormente interessante è il caso del controsenso formale,

nel quale l’incompatibilità è fondata “nell’essenza pura delle categorie del

significato”, cosa che però non dà origine a nonsensi, in quanto le leggi che

entrano qui in gioco appartengono alla legalità dell’oggetto, mostrano cioè “che

cosa valga in rapporto all’oggettualità come tale in forza della pura ‘forma del

pensiero’”512, l’ambito di pertinenza è in altri termini quello dell’eigentliches

Denken, tanto che si fa questione dei significati non in merito al loro essere bensì

a proposito della loro validità obiettiva. Nei termini husserliani una proposizione

come “A e non-A” non è a rigore insensata, costituendo piuttosto come

controsenso un settore della sensatezza, come mostrato dal fatto che a essere

impossibile non è affatto la sua comprensione - che per l’appunto avviene - bensì

l’oggetto che intende. E lo stesso vale naturalmente per i controsensi materiali.

Ricondurre al nonsenso i controsensi equivarrebbe allora a indebolire, se non a

dissolvere la distinzione fra significato e oggetto, poiché in tal caso l’insensatezza

deriverebbe dall’impossibilità dell’oggetto, dalla sua inesistenza, che abbiamo

invece visto esser del tutto dispensabile per i significati.

Ciò che quindi caratterizza il nonsenso non è l’impossibilità dell’oggetto,

bensì l’impossibilità del riferimento all’oggetto, che decreta l’impossibilità della

comprensione, in quanto in tal caso a venir meno è proprio il significato nella sua

natura, come modalità di riferimento all’oggetto513. E in questo la concezione

510 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.116511 Ivi, p.124512 Ibid.513 A ciò si potrebbe facilmente obiettare, con un certo sapore sofistico, che in fondo anche il nonsenso viene compreso, per l’appunto come nonsenso, e in ciò sta la sua sensatezza. In questo caso però il nonsenso stesso diverrebbe, per essere affisato, oggetto di considerazione, un oggetto specifico con la legalità che lo contraddistingue - qual è appunto quella della grammatica logicamente pura. Rivolgendo a esso l’attenzione ci si rende immediatamente conto che gli attribuiti da cui è costituito non possono stare insieme in virtù di quella legalità, sì che un siffatto

185

husserliana del significato si rivela fortemente condizionata, o meglio improntata

dalla sua impostazione logica, poiché il criterio della sensatezza sta nell’apertura

verso l’oggetto, in ciò che consente la possibilità della conoscenza, in

un’intenzionalità conoscente resa in tal senso evidente dal processo di

formalizzazione, come magistralmente rilevato da Jacques Derrida ne La voce e il

fenomeno:

la differenza tra “il cerchio è quadrato e “verde è o” o “abracadabra”….è che la

forma di rapporto all’oggetto e di un’intuizione unitaria non appare che nel primo

esempio. Questa intenzione sarà qui sempre delusa, ma questa proposizione ha senso

soltanto perché un altro contenuto, insinuandosi in questa forma (S è P), potrebbe darci

un oggetto del conoscere e da vedere. Il “cerchio è quadrato”, espressione dotata di senso

(sinnvoll), non ha oggetto possibile, ma ha senso soltanto nella misura in cui la sua forma

grammaticale tollera la possibilità di un rapporto all’oggetto514

Forti di queste acquisizioni sull’idea del significato potremo ora

rivolgerci al tema che più da presso ha mosso le nostre analisi, vale a dire la

questione semiotica, poiché è a partire da una siffatta concezione che si motivano

e quindi in ultima istanza si chiariscono le considerazioni husserliane a proposito

dei segni, così come il peculiare atteggiamento che egli lascia tralucere nei loro

riguardi.

§ 3.3 – Per una fenomenologia del segno

§ 3.3.1 – La natura della distinzione tra indice ed espressione

Le considerazioni che inaugurano la trattazione semiotica husserliana

immediatamente manifestano la loro dipendenza e discendenza dalla questione del

oggetto, ovvero il significato, si rivela impossibile e dunque non-significato, nonsenso. Come afferma Husserl, paragonando questo caso con quello del controsenso materiale « il giudizio di incompatibilità è qui diretto alle rappresentazioni, là agli oggetti: mentre qui intervengono rappresentazioni di rappresentazioni, là intervengono semplici rappresentazioni nell’unità del giudizio » (ivi, p.117). L’accostamento con il controsenso materiale potrebbe di primo acchito sorprendere, considerando che non materiale è il dominio della grammatica puramente logica, cosa che indurrebbe a un paragone con il controsenso formale. A ben vedere però una siffatta scelta non rimonta a ragioni meramente espositive, né tantomeno puo’ dirsi opinabile. Le leggi che impediscono il controsenso formale riguardano infatti gli oggetti in generale, mentre qui si è di fronte a un’oggettualità specifica quale appunto il significato, che - come accade nel caso del “quadrato rotondo” con la sua legalità geometrica - risponde a un preciso ambito di leggi, quelle appunto della grammatica puramente logica, tant’è che nei nonsensi non è presente violazione alcuna dei principi di identità e non contraddizione.514 J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.139

186

significato, prima ancora che dalla maniera in cui essa è declinata e risolta nel

novero delle Ricerche logiche. Quanto si ha di mira è infatti la semiosi costitutiva

del linguaggio - nelle cui forme come s’è visto si presentano le oggettualità della

Wissenschaftslehre come Logik der Bedeutungen - al punto che nella sua

esposizione Husserl si riferisce al segno in funzione dell’espressione linguistica e

della sua esatta messa in rilievo. L’incipit della trattazione denuncia infatti la

frequente ed errata assimilazione del segno all’espressione, senza con ciò fornire

una definizione di segno, ma limitandosi a evidenziarne la funzione che lo

costituisce, quella dello “stare per”, al fine di evidenziare come questa non

necessiti affatto del significato per potersi istituire, si che l’espressività vale a

identificare una precisa tipologia semiotica e non il segno tout court515.

L’attenzione perciò non è tanto rivolta ai segni – come poteva essere in Semiotik

– bensì a circoscrivere il dominio espressivo nell’alveo semiotico confacente, ad

assegnare cioè al significato la tipologia semiotica che per sua natura reclama,

servendosi fenomenologicamente delle distinzioni più che delle definizioni. Da

queste distinzioni, attuate in senso alla struttura rinviante costitutiva del segno,

emerge infatti la peculiarità dei segni espressivi, vale a dire la natura intenzionale

del loro riferimento, dove per l’appunto il rimando semiotico non è affidato al

mero segno, non è questo di suo pugno a rinviare all’oggetto per cui sta, bensì è il

significato a renderlo possibile, sì che è il concetto di intenzionalità l’autentico

discrimine fra le diverse tipologie semiotiche. In questo, oltre che nella già

menzionata predominanza della questione del significato con cui del resto fa

corpo, si spiega la ben più scarna classificazione semiotica delle Ricerche logiche:

nel momento in cui il riferimento intenzionale si rivela costitutivo per la

conoscenza la differenza non potrà che essere fra segni intenzionali e non, il che

equivale a dire fra segni significativi e non, per cui le differenti tipologie ravvisate

in Semiotik andrebbero retrospettivamente ascritte al dominio dei segni non

espressivi, agli indici. Ed è al fine di illustrare con maggiore pregnanza e

515 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.291. In questa mancata definizione del segno Derrida vede una sorta di traccia del movimento che condurrà Husserl ad attribuire via via sempre maggiore importanza al significante come possibilità costitutiva della verità minando la sua adesione alla tradizione filosofica occidentale fondata sulla metafisica della presenza, movimento culminante nelle riflessioni sulla Origine delle Geometria (J. Derrida La voce e il fenomeno cit., pp.55-56). Una lettura che per quanto interessante e ricchissima di spunti non ci sentiamo di condividere, poiché a nostro avviso quella mancanza di definizione si spiega con l’interesse predominante per la dimensione del significato, che in termini derridiani colloca Husserl nella tradizione filosofica occidentale senza che si ravvisino elementi di frattura

187

fondatezza quanto siamo venuti sin qui dicendo che ci dedicheremo ora alla

distinzione fra espressioni e indici.

A esser oggetto di una più attenta analisi sono in prima istanza, seguendo

la scansione della Prima Ricerca, gli indici, gli Anzeichen, la cui funzione

caratterizzante è quella di essere indicazione di una cosa qualsiasi per un soggetto

pensante. Benché siano qui tracciate delle differenziazioni, ad esempio tra note

(Merkmals), segni naturali (fossili), mnemonici (il nodo al fazzoletto) o in

generale arbitrariamente prodotti (bandiere), esse non valgono a distinguere

diversi domini nel’ambito più generale del segno, poiché « non sopprimono

l’unità essenziale in rapporto al concetto di segnale » compendiata nella già

menzionata funzione indicativa516, che si tratta ora di intendere nei suoi termini

fenomenologici, non da ultimo per far risaltare in maniera più netta la distanza che

separa i segni indicativi da quelli espressivi. Nel trattare questo importantissimo

punto è opportuno riportare, per poi commentarle, le righe che Husserl vi dedica:

« Ora, come aspetto comune troviamo qui il fatto che oggetti o stati di cose

qualsiasi indicano a chi ha conoscenza attuale del loro sussistere la sussistenza di certi

altri oggetti o stati di cose, nel senso che la convinzione dell’essere dei primi è da lui

vissuta come motivo (e precisamente come motivo non evidente) per la convinzione o la

supposizione dell’essere dei secondi »517

L’accento va innanzitutto posto sull’attualità della conoscenza relativa al

sussistere degli indici: ciò che si intende è infatti la necessità che questi si diano

come effettivamente esistenti, o per meglio dire, presenti hic et nunc alla

coscienza conoscitiva e dunque percettivamente, non semplicemente immaginati,

ché qualora si trattasse di quest’ultima eventualità non potrebbero svolgere la loro

funzione - a differenza di quanto avverrà per le espressioni. Altro snodo

fondamentale è la peculiarità del nesso fra indicante e indicato, definito qui di

natura motivazionale e non evidente. Parlando di motivazione, Husserl vuole

intendere l’unità descrittiva che si istituisce fra gli atti giudicativi costituenti,

rispettivamente, stati di cose indicanti e indicati, unità cui corrisponde come

correlato lo stato di cose unitario dell’indicazione, che puo’ esser espresso in tal

maniera: qualcosa puo’ o deve esistere poiché è dato qualcos’altro, o altrimenti,

l’esistenza di qualcosa è motivo per la possibile esistenza di qualcos’altro.

516 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p. 292517 Ivi, pp.292-93

188

Orbene, benché nel correlato compaia un termine equivoco come il poiché, il

nesso motivazionale è per Husserl un rimando estrinseco, che nulla ha a che fare

con l’essenza delle entità connesse, come indicato dalla sua non evidenza.

L’evidenza qui mancante è quella relativa al coglimento di una connessione

necessaria perché fondata su una legalità ideale, sulla rispondenza cioè a un

legame obbiettivo - che quindi prescinde dai soggetti e dai loro vissuti - e ideale -

in quanto non empirico e valido atemporalmente -, come avviene ad esempio nei

rapporti tra premesse e conseguenze di una deduzione logica, dove infatti non si

parla di rimando, bensì di dimostrazione518. Nei casi ascrivibili all’indicazione non

v’è alcun rapporto di necessità tra indicante e indicato, di conseguenza si ha a che

fare con una connessione accidentale perché empirica, non fondata cioè

sull’essenza ideale delle entità in rapporto, lo stato di cose costituito dal suddetto

nesso non manifesta alcuna legalità ideale, bensì una semplice motivazione

empirica assimilabile al meccanismo psicologico dell’associazione519. Di

conseguenza, non manifestandosi alla coscienza alcuna idealità, non essendovi

passaggio deduttivo dall’uno stato di cose all’altro né una fondazione intrinseca

dell’uno sull’altro, il nesso motivazionale è un rimando estrinseco, non evidente.

Su questi caratteri dell’indice è però opportuno indugiare ancora un

momento, in particolare sulla necessità che l’indice sia esistente, sulla sua

necessaria presenza empirica. A richiederla è il meccanismo stesso che regola e

costituisce l’indicazione, vale a dire l’associazione psichica, per la cui attuazione è

necessario che un soggetto psichico si imbatta in qualcosa in grado non soltanto di

richiamare in lui qualcos’altro, ma anche di farsene per così dire testimone, di

rafforzare l’idea della sua sussistenza520. Affinché si attui il segno deve perciò

porsi in rilievo, colpire l’attenzione, deve cioè avere il carattere dell’importuno,

dell’imprevisto, perché è solo e soltanto esso con la sua presenza a poter dar conto

del designato, a rinviarvi come ciò che ne testimonia l’esistenza. In virtù di questo

è nell’ambito della passività, della ricettività che l’indice essenzialmente agisce,

ovverosia nella dimensione comunicativa, in quanto escogitato al fine di

manifestare a qualcuno qualcos’altro, laddove l’atto istitutivo è contumace. E ciò

si badi bene vale anche per i segni che l’individuo istituisce solo per sé stesso,

come il famoso nodo al fazzoletto, in quanto in tal caso si è in presenza di una 518 Ivi, pp.293-94519 Ivi, pp.296-97. Meccanismo associativo rilevabile soprattutto nella coscienza passiva dell’indice, ovvero nella sua comprensione520 Ivi, p.297

189

comunicazione differita con il proprio sé, dove fattualmente non identici sono

l’emittente e il ricevente. Il rinvio che istituisce qui la relazione semiotica è infatti

a esclusivo carico del mero segno, è cioè di natura semiotica e non semantica, è la

sua presenza empirica, corporea, materiale a renderlo possibile, tanto che non v’è

un significato che intenda l’oggetto designato, perché è il segno a richiamarlo, a

motivare la sua esistenza per via di un legame associativo e quindi empirico.

Nelle analisi dedicate all’indice così come nelle conseguenze che è lecito

trarne è facilmente riconoscibile la caratterizzazione del segno fornita nei testi

della fase pre-fenomenologica, anzitutto riguardo ai requisiti necessari per lo

svolgimento della funzione segnica, dove l’accento era per l’appunto posto sulla

sua materialità, quasi fosse un contrassegno521, tanto che le differenze sensibili

venivano addirittura considerate logiche522. E a ben vedere è di qui che si lascia

comprendere la ragione e i motivi della diversa classificazione semiotica che è

dato trovare nella produzione husserliana. Laddove si trattava, come accadeva

nell’ottica di una logica come Kunstlhere, di dar conto degli strumenti cognitivi

l’accento veniva inevitabilmente posto sui segni, sulle diverse maniere in cui si

articolava il rapporto al designato, insistendo persino sulle caratteristiche fisiche

dell’entità segnica523 e dando luogo a una classificazione semiotica ben più

consistente e corposa qual è quella contenuta in Semiotica. Se però si osserva con

attenzione lo sfondo in cui essa compare e sul quale si stagliano le diverse coppie

di opposizioni ci si accorge che siffatte differenziazioni esprimono tutte un profilo

psicologista, si riducono a suoi aspetti, in quanto di natura associazionista è il

rinvio che ciascuna compie verso il designato, sì che nell’ottica delle Ricerche

logiche tutte codeste varianti sono assorbite nel dominio unitario dell’indice.

Per conseguenza, vista soprattutto la primarietà ora attribuita al

significato, scarso peso viene attribuito alle opposizioni, potremmo dire, fra “meri

segni”, poiché a esser fondamentale è una distinzione del tutto nuova e ben più

radicale, che lungi dal porsi all’interno dell’insieme da quest’ultimi costituito ne

fa invece uno soltanto dei suoi poli, vale a dire la distinzione tra segni significativi

521 E. Husserl Semiotica cit., p.62522 Cfr. E. Husserl Filosofia dell’aritmetica cit., pp.287-89523 Emblematica in proposito è la distinzione fra segni identici ed equivalenti, dove per l’appunto la differenza sensibile vale a rendere non identici e quindi equivalenti due segni come “re” e “rex”. Cfr. E. Husserl Semiotica cit., p.65

190

e non, che assimila gran parte delle opposizioni di Semiotik ridefinendole in senso

radicalmente nuovo, a partire cioè dal significato - e non dal (mero) segno524.

La natura empirica, vale a dire motivazionale e quindi psicologica

dell’unità descrittiva che lo costituisce fa sì inoltre che l’indice - o potremmo dire

il mero segno, in quanto privo di significato - non possa reclamare alcun ruolo in

seno alla conoscenza, perché laddove vige un meccanismo associativo non v’è

spazio per la relazione intenzionale e non v’è perciò alcun significato che intenda

l’oggetto designato, per cui la teoria della conoscenza avente la fenomenologia

come base525 è posta al riparo da qualsiasi contaminazione psicologista. Ed anche

in ciò è avvertibile una netta cesura con i testi della fase pre-fenomenologica,

ancor più importante perché relativa all’ambito husserlianamente fondamentale,

quello gnoseologico. Se in essi il credito attribuito ai (meri) segni si nutriva delle

convinzioni psicologiste che manifestava, tanto che la conoscenza veniva ridotta e

ricondotta a una semiosi consapevole, la gnoseologia è ora invece del tutto

sganciata da presupposti empirici, poiché i segni non significativi, fondati

sull’associazionismo, esulano completamente dal campo d’indagine di una teoria

della conoscenza come adaequatio, dove l’intellectus è intenzionale. Il versante

soggettivo della conoscenza è perciò messo al riparo dallo psicologismo proprio in

virtù dell’esautoramento del segno, in quanto sono rapporti intenzionali a

determinare la conoscenza medesima, dove è il significato - nei termini di

significato intenzionante e senso riempiente - e non il segno a rivelarsi costitutivo.

In questo sta a nostro avviso lo snodo fondamentale nella riflessione

husserliana sul segno. Il “riferirsi a” costitutivo dell’intenzionalità è sempre un

riferirsi in certo modo a qualcosa, per mezzo cioè del significato come modalità

del riferimento all’oggetto, per cui non puo’ esservi soltanto una mera

associazione tra segno e designato, perché verrebbe a mancare la maniera in cui

quell’oggetto è inevitabilmente inteso, il modo in cui ci s’intende riferire a esso,

mancherebbe in altri termini quell’Überschuss costituito dall’appercezione, grazie

al quale un oggetto è inteso così come è inteso e - nel caso dei vissuti intuitivi

costitutivi del riempimento - in tal maniera presentato526. La primarietà del

linguaggio che abbiamo più volte sottolineato a proposito delle Ricerche si 524 Nei testi della prima fase la latenza della questione semantica e soprattutto l’assenza della dimensione ideale fanno sì che i segni linguistici si configurino quindi come indici e non come espressioni, tanto che la funzione segnica dominante, vale a dire la surrogazione, si costituisce sulla base di un rinvio di natura indicale, considerando che in essa il segno “sta per” il significato al quale rinvia, al concetto associato alla parola. 525 Ivi, p. 284

191

manifesta qui nel carattere del significato, il cui aspetto è per l’appunto quello di

un “voler dire qualcosa su qualcosa”527, o ancor meglio su un oggetto, dove

ribadita se non sancita è l’impossibile significanza dell’indice, che a rigore “non

vuol dir nulla”, non si rivolge a un oggetto intendendolo in un certo modo, bensì

rimanda a esso estrinsecamente, senza dirne alcunché, sì che in nulla risulta

arricchita la nostra conoscenza dell’oggetto quando si presenta alla mente. Anche

perché come Husserl stesso dirà in un testo più tardo, nel regno degli indici non

v’è alcuna grammatica528, per cui non puo’ nemmeno esservi riempimento

mancando un significato (intenzionante).

Considerazioni di questo genere ci conducono alla trattazione delle

espressioni, dei segni linguistici, vale a dire dei segni significativi. Già di qui si

comprende quanto siamo venuti dicendo poc’anzi a proposito della natura del

significato nelle Ricerche, vale a dire della fisionomia linguistica in cui si

presenta, poiché il suo essere modalità di riferimento all’oggetto si esplicita come

un “voler dire qualcosa su qualcosa”, tanto che, lo si è visto, di natura

grammaticale sono le leggi del pensiero uneigentliches, meramente significativo.

Proprio perché il significato si “costituisce” in atti di intenzione significante, in

vissuti nei quali ci s’intende riferire a qualcosa e dei quali quindi il significare è il

carattere d’atto, prive di significato saranno quelle manifestazioni esteriori che di

solito vengono associate all’esprimere, ovverosia i gesti e il gioco mimico: con

esse infatti non s’intende dire nulla in quanto non animate da un’intenzione per

così dire espressiva, si tratta in altri termini di manifestazioni istintive e non

intenzionali, che servono piuttosto come indici dei nostri vissuti per chi ci ascolta.

Per conseguenza sarà nel dominio esclusivo della Rede, del discorso e quindi del

linguaggio che andranno ricondotti i segni significativi e con ciò il significato529.

526 « L’appercezione è per noi l’eccedenza che sussiste nel vissuto stesso, nel contenuto descrittivo, di fronte all’informe esserci della sensazione, si tratta del carattere d’atto che , per così dire, anima la sensazione e per sua essenza fa sì che noi percepiamo questa o quella oggettualità »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. II, p.174. Su questo punto dovremo comunque tornare più avanti527 Su questo punto cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.48 e soprattutto R. Sokolowski Semiotics in Husserl’s Logical Investigations in D. Zahavi, F. Stjernfelt One hundred years of phenomenology. Husserl’s Logical Investigations revisited, Phaemenologica 164, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2002, p.177528 Cfr. Husserliana XX/2, Logische Untersuchungen. Erganzungband. Zweiter Teil. Texte für die Neufassung der VI Untersuchung, Zur Phänomenologie des Ausdrucks und der Erkenntnis (1893/94-1921), herausgegeben von U. Melle, Springer 2005, p.53. In verità Husserl si riferisce qui ai Signalen e non agli Anzeichen avendo in precedenza stabilito una differenza all’interno del genere dell’indicazione. Una differenza però del tutto assente nelle Ricerche logiche, come mostrato dall’uso sinonimico dei due termini nel § 2 della Prima Ricerca. 529 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.298

192

Con questo non si vuole naturalmente suggerire una dipendenza dei

significati dalle interazioni linguistiche, quasi che le parole in quanto segni

fossero la condizione dei significati – laddove la situazione è esattamente opposta.

Parlare dell’aspetto linguistico del significato vale piuttosto a rilevare come esso

si presenti a noi per via delle espressioni, nei termini di un voler-dire, in quanto è

nelle intenzioni significanti, negli atti costitutivi del linguaggio che si manifesta

individuandosi, sì che dall’ambito strettamente semantico rimarranno escluse –

come peraltro già poc’anzi emerso – tutte le manifestazioni esteriori non

linguistiche. Per conseguenza è nell’orizzonte fenomenologico che si motiva il

peso attribuito alle espressioni così come è di qui che va ricondotto e spiegato il

rapporto che le costituisce, quello tra mero segno, tra l’entità deputata a svolgere

una funzione semiotica e il significato. Ed è su quest’ultimo aspetto che si

soffermerà la nostra attenzione, dapprincipio soltanto per meglio rimarcare la

distinzione fra le due tipologie semiotiche.

La dipendenza più volte ricordata della semiotica husserliana dalle sue

convinzioni in merito ai significati e alla loro natura non soltanto è qui

particolarmente evidente, ma sola consente di comprendere le scelte cui Husserl

s’impegna, costituendone l’ineludibile sfondo. Già le analisi condotte in merito

all’indice possono invero instradarci verso il chiarimento di quanto siamo venuti

sin qui solo accennando. La fisionomia degli Ausdrücken si ricava infatti,

perlomeno in larga misura, per contrapposizione rispetto agli Anzeichen,

dall’esclusione cioè dei caratteri che li definiscono, per cui teleologicamente

orientato si scopre l’ordine espositivo della Prima Ricerca. L’intento husserliano è

quello di far risaltare la specificità dell’espressione, o ancor meglio la purezza del

dominio espressivo, che andrà perciò non soltanto nettamente distinto

dall’indicazione, ma anche per così dire decontaminato dagli aspetti indicali che

pur lo riguardano. A partire da questo si spiega la natura dell’espressione. La

relazione semiotica fra segno e designato non si istituisce infatti fra i suoi membri

costitutivi, poiché qui non v’è affatto una designazione del significato, rivelandosi

piuttosto quest’ultimo come ciò che invero consente il riferimento al designato. Di

altro genere dovrà allora essere il rapporto tra segno e significato, anzi a ben

vedere è addirittura improprio parlarne in questi termini, poiché non è che vi sia

dapprima un segno a cui vien poi conferito un significato, ma l’esser segno è qui

dipendente, ha come sua condizione necessaria la presenza del significato, in

193

assenza del quale si è di fronte a un semplice oggetto della percezione esterna530.

Situazione ben diversa da quella costitutiva degli Anzeichen, poiché per quanto

colà fosse comunque un certo modo di considerare una determinata entità a

renderla un indice, era però sufficiente una semplice associazione, un mero

accostamento fra oggettualità diverse a istituire il rimando e a costituire il segno.

Qui invece non basta accostare un A a un B per rendere il primo segno del

secondo, non basta cioè coordinare due entità in maniera tale che l’attenzione

dalla prima scivoli sulla seconda, ma è necessario che l’A si faccia latore di

qualcosa d’altro per svolgere la sua funzione segnica, o ancor meglio per essere

segno.

Si potrebbe allora sostenere che un rimando di questo genere viga tra

un’entità e il significato, che insomma il mero segno rinvii al significato così

come l’indice a quanto indica; lo stesso Husserl del resto afferma che la parola

distoglie da sé l’interesse per orientarlo verso il significato531. A ben vedere però

una siffatta concezione si rivela insostenibile nell’ottica delle Ricerche logiche.

Anzitutto la parola si costituirebbe qui come un indice, l’espressione in altri

termini rivelerebbe come sua condizione una relazione indicale, quindi

psicologica, rimandando all’associazionismo che legava segno e significato in

Semiotik, in specie per quanto concerneva i segni indiretti. L’espressione vedrebbe

quindi indebolita la sua distinzione dall’indice, poiché questo ne sarebbe invero la

condizione di possibilità, del suo essere cioè segno significativo. Husserl si

affretta perciò a precisare che la parola non motiva l’esistenza del significato

quasi fosse un’indicazione, poiché essa stessa non ha affatto bisogno d’esistere

per svolgere la sua funzione segnica, tant’è che nei soliloqui ci si serve di parole

inesistenti perché semplicemente rappresentate532.

Rimandando di qualche pagina la fondamentale trattazione del monologo

interiore possiamo qui osservare un punto decisivo della semiotica husserliana,

vale a dire la neutralizzazione del (mero) segno nell’ambito logico. Le parole

infatti, in netta antitesi rispetto agli indici, sono segni che per svolgere il loro

ufficio devono ritrarsi fino a passare inosservati, perché è ciò che li rende tali, che

consente loro il riferimento al designato a dover risaltare, a esser oggetto

d’attenzione, il mero segno si rivela in altri termini del tutto improduttivo poiché

530 Ivi, p.307531 Ivi, p.302532 Ivi, pp.302-303

194

non è con esso che si istituisce il rimando, ma con il significato che ospita, che

esprime, per cui lungi dal fungere come entità rinviante è piuttosto il supporto

affinché il rinvio semiotico si attui. Mentre nel caso dell’associazione è necessario

che un’entità sia notata e fatta oggetto d’attenzione affinché l’altra possa esser

richiamata, qui non puo’ esservi spazio per alcun associazionismo poiché il

(mero) segno vale solo come latore del significato, come sostegno al suo

manifestarsi, non è la sua fisicità d’esistente a consentire l’attuazione del rimando,

del rinvio verso un oggetto che non è per l’appunto richiamato bensì inteso.

Declinando la questione, soprattutto per comodità espositive, in termini

saussuriani si registra qui una totale irrilevanza del significante, al prezzo del

venir meno del linguaggio medesimo nella sua natura, che ha nella

indeterminatezza e nello sfumare dei contorni espressivi i tratti precipui del suo

agire, manifestarsi ed essere, sì che l’idealità lotzeana dei significati impone

un’ulteriore e diversa idealità al linguaggio, di natura cioè kantiana, nei termini di

un telos infinitamente lontano - per non dire irraggiungibile - quale è la lingua

ideale533. In questo senso è da intendere la già menzionata improduttività del

linguaggio, dove alla corporeità dell’indice s’oppone la diafanità, la trasparenza

delle espressioni534, in nome di significati che vi si rivelano senza però

costituirvisi, un’improduttività oltre che conseguente anche necessaria, ché

laddove non vi fosse le espressioni correrebbero il rischio dell’equivocazione.

Se dunque è nella presentazione del significato, nel lasciar scorgere la

sua presenza che sta la funzione costitutiva delle espressioni non potrà allora

esservi alcun rinvio operato dal (mero) segno, un rinvio che rivelerebbe una natura

indicale, per cui laddove s’incorrerà nel rischio dell’equivocazione saranno

sempre gli indici a intaccare la purezza del dominio espressivo. E per converso, il

rinvio a un’assenza o a una presenza comunque differita porterà con sé un siffatto

rischio, motivando perciò ex negativo il rapporto di intima coabitazione tra (mero)

segno e significato costitutivo dell’espressione.

Inevitabilmente si solleva qui una questione centrale nel novero delle

Ricerche logiche, quale è il rapporto tra logica pura e fenomenologia. La

trasparenza del (mero) segno matura infatti in ambito logico e si svela come

533 Ivi, pp.358-59. Torneremo su questo trattando delle espressioni essenzialmente occasionali534 Punto richiamato più volte nella letteratura secondaria. Cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.115; R. Bernet, I. Kern, E. Marbach Husserl cit., pp.219-20; F. Silvestri Segni significati intuizioni cit., p.112; F. Costa Husserl e il linguaggio in “Giornale di metafisica” 14, 1992, pp.214-15; R. Raggiunti The language problem in Husserl’s phenomenology cit., p.229

195

un’esigenza da essa imposta, che deve però riscontrarsi a partire dall’analisi

fenomenologica e non sovrapporglisi, pena il venir meno della descrittività. La

maniera in cui Husserl descrive fenomenologicamente il rapporto significante-

significato rivela il tentativo di render complementari queste istanze, dove però è

l’impronta logicista e i termini che ne delineano la fisionomia a rivelarsi, evidente

soprattutto nella limitazione alla dimensione noetica della coscienza tipica di

questa fase.

Particolarmente rilevante a questo proposito non è soltanto la preminenza

del significato, ma anche la sua natura, il suo essere cioè specie, che s’individua

per l’appunto nell’atto espressivo e abbisogna del segno soltanto come supporto

della sua manifestazione. Quel che in tal modo si svela è la solidarietà fra

l’esclusività della dimensione noetica e il rapporto segno-significato, poiché non

puo’ affatto esservi rimando del primo al secondo laddove il significato non è un

correlato intenzionale – noema – bensì è specie, che si individua e individuandosi

reclama il segno come luogo, dimora, o ancor meglio come sostegno (Stütze) per

l’atto significante, per il pensiero. In maniera prima facie piuttosto singolare qui

dove sembra registrarsi una certa prossimità con le assunzioni di Semiotik, in

merito al ruolo di necessario supporto del pensiero esercitato dal segno, si misura

invero la più netta distanza. Colà infatti si trattava di sostegni necessari

all’attuazione e all’ampliamento delle capacità della psiche, in merito soprattutto

al pensiero logico-formale, per cui era ai segni come strumenti che l’attenzione in

prima istanza si rivolgeva, in funzione perlopiù surrogante. Nelle Ricerche invece

il sostegno che il segno offre non concerne tanto la psiche, quanto il significato, o

ancor meglio la sua manifestazione, poiché la conoscenza non riguarda più la

giustificazione di procedimenti simbolico-formali, dove il rimando ai significati

sostituiti rendeva labili i confini con la comprensione, in quanto il significato è

necessario per così dire a quo e non ad quem e non puo’ perciò non esser sempre

presente, se è nell’intuizione di ciò che da questo è soltanto inteso che essa

consiste. Nel caso delle espressioni il rinvio è perciò sempre opera del significato,

in quanto rimando a un’oggettualità intesa, la sua natura è cioè intenzionale e non

associativa, con la conseguente lateralizzazione del (mero) segno che interviene

soltanto come sostegno, necessario non – si badi bene – all’attuarsi del rimando

costitutivo della semiosi, bensì al suo manifestarsi.

196

Nella lateralizzazione del segno si puo’ leggere allora un chiaro “segno”

del passaggio dallo psicologismo alla fenomenologia. Laddove infatti l’attività

della coscienza è determinata in via esclusiva dall’associazionismo il segno non

puo’ che assumere un ruolo centrale, come entità associante che consente il suo

attuarsi, tanto che i segni giungono addirittura a prendere il posto dei significati a

cui sono per l’appunto associati. In tal maniera ancora più scoperto diviene il

legame tra psicologia e semiotica, tra la dimensione psicologica e quella segnica,

conservato del resto nelle stesse Ricerche logiche con la disamina sull’indice.

L’emergere dell’intenzionalità ridimensiona notevolmente il ruolo del segno

poiché il suo rimando non è verso il significato bensì di natura significazionale, va

verso le cose stesse piuttosto che surrogarle, per cui i segni non soltanto

decadranno al ruolo di semplici supporti di un significato già costituito, ovverosia

sostegni per un rimando che non si attua bensì si manifesta attraverso di essi, ma

dovranno persino passare inosservati, la loro presenza dovrà notarsi solo nel suo

render presente quanto vi si manifesta, per cui non potrà esservi alcun ruolo e

quindi alcun rinvio operato dal (mero) segno, che rende soltanto visibile il

significato senza costituirlo, tanto che laddove l’entità puramente segnica acquista

rilievo è sempre come indice che viene operare ed è sempre al rischio concreto e

diremmo ineludibile dell’equivocazione che un tale operare si attua. Non puo’

allora esservi alcuna associazione segno-significato, ché altrimenti l’entità segnica

dovrebbe richiamare a sé l’attenzione come un indice al fine di dar corso a un

siffatto rinvio, mentre il significante esercita compiutamente la funzione a cui è

chiamato solo al prezzo della propria neutralizzazione, tant’è che la fluttuazione

semantica è sempre da imputare al significare e non al significato, dovendo il

primo - e non il secondo - ricorrere ai segni. Ne consegue allora che il rinvio

strettamente semiotico, operato dal segno qua talis, dal mero segno, andrà sempre

declinato alla maniera dell’indice, per cui nonostante le distinzioni essenziali è

soprattutto come indice che Husserl pensa il segno535, poiché nelle espressioni un

tale rinvio non si diparte affatto dall’entità segnica, che funge piuttosto come

supporto di quanto effettivamente rimanda al designato - vale a dire il significato.

Se prima, in merito alla funzione di sostegno assolta dai segni, avevamo

misurato una netta distanza tra le acquisizioni di Semiotik e delle Ricerche

logiche, ora e per un aspetto ancor più decisivo ci troviamo costretti a rilevare una

535 Cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.74197

certa prossimità, poiché empirica continua a essere la dimensione in cui il segno si

colloca, come mostrato peraltro dall’insistenza husserliana sulla necessità della

presenza intuitiva per l’indice. L’esigenza della neutralizzazione discende in

ultima istanza proprio da questo punto, se pura e quindi estranea all’empiria è la

logica delle Ricerche. Neutralizzazione che non potrà però risolversi in una

semplice estromissione della componente semiotica, poiché è anzitutto in segni, in

espressioni linguistiche che quella logica come s’è più volte richiamato si

presenta. Al fine di conciliare le diverse se non opposte istanze dell’idealità e

dell’empiria non rimane che escogitare un segno sui generis, che pur mantenendo

la necessaria funzione di sostegno non abbia però natura empirica, un segno in

altri termini ideale qual è appunto l’espressione. In questo si compendia il

discorso sin qui fatto sulla progressiva perdita di centralità della semiotica nella

riflessione husserliana, perlomeno per quanto concerne la logica: laddove infatti di

questa si tratti il segno subisce un’effettiva smaterializzazione, diviene invero un

irreale perdendo in ciò la sua connotazione empirica, rivelandosi per un segno sui

generis che solo al prezzo della perdita della sua natura puo’ esercitare una

funzione logica, mentre in precedenza era anche questa a garantirgli un ruolo di

primo piano. La funzione di mero supporto cui il segno espressivo assolve lo priva

della sua stessa corporeità non solo per così dire a parte subiecti – per cui passa

inosservata – ma anche a parte obiecti poiché l’entità che ospita lo trasfigura fino

a renderlo simile a sé, irreale, ideale e dunque al riparo dalle trame empiriche che

contaminerebbero la purezza della logica. Ed è solo e soltanto nell’esercizio di

una siffatta funzione, in qualità di sostegno che il segno puo’ esser guadagnato

alla logica - da intendere a rigore come disciplina filosofica - , ovvero inibendosi,

al prezzo del rinvio che pur dovrebbe costituirlo e che invece soltanto ospita come

già attuato, tant’è che laddove un rimando autonomo si attua sempre indicale è la

sua natura, si è invero sempre di fronte a un indice e dunque nell’empiria, nell’hic

et nunc. O per meglio dire nel luogo dell’equivocazione, non essendovi legame

alcuno fra il segno e ciò che designa, diversamente da quanto accade con il

significato, il cui rimando è necessario e addirittura costitutivo per la conoscenza,

se l’intuizione della res opera come riempimento di significato. Ne consegue

allora che l’idealità del segno linguistico è tale in virtù della peculiare funzione di

sostegno che esercita, discende cioè dall’idealità dei significati, gli appartiene in

198

virtù di quanto ospita e non per quel che è, tanto che la stessa entità puo’ venir

riguardata anche come una semplice oggettualità empirica536.

Su questo punto è però necessario spendere ancora qualche riflessione,

aprendo una breve parentesi in merito alla sua evoluzione nel Denkweg

husserliano. Nelle Ricerche logiche l’idealità del segno linguistico è ammessa pur

senza essere esplicitamente trattata, come mostrato nel § 11 della Prima Ricerca:

se ci poniamo il problema del significato di un’espressione qualsiasi (ad es.

resto quadratico) non intendiamo ovviamente come espressione questa formazione

fonetica pronunciata hic et nunc, questo suono fuggevole, che non ritorna mai identico.

Intendiamo l’espressione in specie537

In questa citazione, oltre a ribadirsi il carattere specifico con cui

l’idealità è intesa, l’accento è a ben vedere posto sul significato dell’espressione,

un significato tratto dall’ambito logico della mathesis universalis (resto

quadratico), per cui è soprattutto nei termini dell’idealità del significato

manifestato che va riguardato il carattere ideale del segno espressivo, linguistico,

con concessioni pressoché nulle alla sua natura sensibile. Negli sviluppi successivi

del suo pensiero Husserl affronterà più da presso il tema dell’idealità del

linguaggio, a partire già dalla Bedeutungslehre, dove un’intera appendice gli è

dedicata e dove soprattutto essa non è più intesa in senso specifico. Ancor più

rilevante è il chiarimento apportato nel merito, la cioè maggiore esplicitezza:

536 A fronte di quanto or ora affermato, si potrebbe sostenere che anche nel caso dell’indicazione v’è un’idealità, una forma che si presenta identica nelle sue diverse manifestazioni, ovvero il rapporto indicativo medesimo, concretato nello stato di cose per cui «certe cose possono o debbono esistere poiché sono date certe altre cose » (E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.293). Per quanto Husserl non si esprima parlando di idealità, qualcosa del genere puo’ esser a nostro avviso sostenuto, se idealità è ciò che emerge comparativamente come il permanente identico nelle più diverse manifestazioni. Ciononostante, indice ed espressione non vedono diminuita la loro distanza: se infatti nel primo l’idealità è quella del rapporto come forma comune a ogni indicazione, nella seconda sono i termini del rapporto stesso a essere ideali - laddove nell’altro caso sono empirici - e per di più intrinsecamente legati, tant’è che il riferimento costitutivo dell’esser segno puo’ attuarsi solo in virtù della coalescenza di significato e rappresentazione di base, la quale per l’appunto rende l’oggetto rappresentato segno, e segno espressivo. Torneremo su una così decisiva questione più avanti, quando ci dedicheremo più da presso a un’analisi fenomenologica del segno, misurando la diversa incidenza per la fenomenologia dell’indice e dell’espressione. 537 Ivi, p.309

199

Questa parola italiana “Re” non è una cosa del mondo reale, non è neanche una

cosa immaginata, non è niente che possa singolarizzarsi in tali cose o determinatezze

cosali. È un’unità ideale538

Nel momento in cui Husserl, come peraltro già si evidenzia dalla

citazione or ora riportata, considererà l’idealità del segno linguistico non

limitandola al solo ambito logico, una sempre maggiore attenzione sarà rivolta al

lato sensibile dell’espressione, non più soltanto sostegno diafano del significato,

ma sua componente essenziale benché “spiritualizzata”:

Dunque tanto il sensibile quanto ciò che è relativo-al-significato di una forma

spirituale, di un’opera culturale di qualsiasi genere, è ideale; noi scorgiamo infatti in

modo assolutamente diretto l’identità di ciò che intendiamo ogni qualvolta ripetiamo

l’atto dell’intendere. Ciò vale ugualmente per l’identità della pura parola, del puro

discorso – puramente considerati dal lato sensibile – nella ripetizione dell’atto discorsivo

e dei suoni o segni scritti e stampati che appaiono539

Considerazioni simili si trovano in Logica formale e trascendentale, dove

Husserl riconosce al linguaggio l’idealità delle produzioni culturali in quanto

“formazione spirituale obiettiva” e dove l’accento è posto con forza anche sul lato

esclusivamente sensibile, al cui proposito si deve parlare di una corporeità

spirituale540. Il segno non è più allora soltanto necessario al manifestarsi

dell’idealità, bensì alla sua stessa costituzione, perdendo in ciò la trasparenza

attribuitagli al tempo delle Ricerche, dove l’interesse esclusivo per le oggettualità

logiche induceva alla trascuratezza della sua componente sensibile, vista come un

intralcio per il rischio dell’equivocazione. Il significato, in altri termini, non si

rivela più soltanto nel segno, ma si costituisce per necessità in esso, per cui

l’idealità di questo andrà riguardata autonomamente, poiché nel caso della

produzioni culturali sono proprio certi segni e non altri a esser responsabili di una

certa idealità, per cui non potranno affatto passare inosservati né venir trascurati.

E un’acquisizione di questo genere si ripercuoterà sulla stessa trattazione delle

538 E. Husserl La teoria del significato cit., Appendice II, p.439539 E. Husserl Die Struktur der Sprache und die darin gegründete Möglichkeit einer doppelten Forschungsrichtung in Phänomenologische Psychologie Husserliana vol. IX, Nijhoff, Den Haag 1962, ed. it. La struttura del linguaggio e la possibilità ivi fondata di una doppia direzione d’indagine in Semiotica cit., p.187540 E. Husserl Logica formale e trascendentale cit., pp.37-38

200

oggettualità della mathesis universalis, culminando nelle riflessioni sull’Origine

della geometria, dove per l’appunto costitutivo sarà il ruolo del segno e quindi del

linguaggio. Com’è stato infatti giustamente osservato “costituire un oggetto ideale

è metterlo a disposizione permanente di un puro sguardo”541, sì che l’incarnazione

linguistica provvede alla costituzione e produzione di un siffatto oggetto, con la

conseguente paradossalità dell’idealità medesima:

la parola non è più semplicemente l’espressione di ciò che, senza di essa,

sarebbe già un oggetto: riafferrata nella sua purezza originaria, essa costituisce l’oggetto,

è una condizione giuridica concreta della verità. Il paradosso è che senza quel che appare

come una ricaduta nel linguaggio - e quindi nella storia - ricaduta che alienerebbe la

purezza ideale del senso, quest’ultimo resterebbe una formazione empirica, imprigionata

come un fatto in una soggettività psicologica, nella testa dell’inventore. Anziché

incatenarlo, l’incarnazione storica libera dunque il trascendentale542

Opposta è invece la situazione al tempo delle Ricerche, dove l’unica

idealità che interessa, quella logica, non abbisogna affatto dei segni per costituirsi,

tanto che la produttività riscontrata nell’Origine della geometria cozza contro

l’improduttività del segno di cui siamo più volte venuti parlando. L’insistenza nel

definire la componente segnica come mero sostegno è una riprova di tutto ciò,

così come quella sulla diafanità, sulla trasparenza, che risponde sì alla esigenza,

costante nella riflessione husserliana, dell’univocazione, ma che non vale a

salvaguardare il linguaggio nella sua attività costitutiva, bensì a neutralizzarla,

fonte di possibili increspature su una superficie che si vuole invero traslucida.

Perciò l’idealità del segno linguistico (sommessamente) introdotta nelle Ricerche

è quella del segno significante, dell’espressione in specie e non della mera marca

come entità sensibile, ridotta del resto a un mero sostegno la cui trasparenza vale

più alla sua neutralizzazione che come suo requisito543.

Lo stesso primato assegnato alla Rede si comprende a partire da un

siffatto sfondo, nell’ottica cioè della rarefazione del segno linguistico, perché è nel

parlare, nell’esprimersi che il significato è in assoluto rilievo rispetto al segno, a 541 J. Derrida Introduction à L’origine de la gèometrie, Presses Universitaires de France, Paris 1962 (ed. it Introduzione a Husserl “L’origine della geometria”, Jaca Book, Milano 1987, p.131)542 Ivi, p.130543 La maniera in cui è qui intesa l’idealità del segno linguistico consegue dall’accentuazione del carattere ab-soluto delle entità logiche, che relega all’improduttività del mero sostegno il linguaggio per il timore dell’equivocazione non ultimo psicologista (su questo punto cfr. anche J. Derrida L’origine della geometria cit., p.130)

201

differenza di quanto accade con la scrittura. Nelle Ricerche infatti non puo’

esservi alcun rimando attuato dal mero segno se non quello dell’indice, un

concetto come quello di ri-attivazione non puo’ affatto trovare spazio, poiché

laddove la presenza fisica, empirica del segno è in primo piano si è sempre di

fronte a un rimando indicale, psicologico, un rinvio invero al vissuto psichico più

che al senso in esso inteso. Tematiche quali l’intersoggettività, la comunità

linguistica, non possono qui trovar spazio, poiché la costituzione delle verità ideali

per la soggettività ha l’aspetto dell’approdo a qualcosa di già costituito, l’identità

nella permanenza è ratio cognoscendi e non essendi di esse; in ciò la

marginalizzazione del linguaggio, ridotto a mera superficie traslucida di un senso

che solamente vi si riflette. Per conseguenza la focalizzazione esclusiva sulla Rede

non si traduce in un privilegio accordato alla comunicazione, poiché quest’ultima

non solo non interviene attivamente nella costituzione del senso, ma si rivela

foriera di possibili equivocazioni, se l’atto che conferisce il senso è presente nella

coscienza del destinatario come termine del rimando segnico, ovvero di

un’espressione che agisce come un indice. A venire in primo piano è perciò la

corporeità del segno espressivo, la sua presenza fisica e dove di questa si tratta è

sempre l’indice a fare la sua comparsa, come s’è appena visto.

Non resta allora che trovare una dimensione della Rede in cui emerga la

purezza espressiva al netto della contaminazione indicale, in cui sia il significato a

emergere in primo ed esclusivo piano, nel quale il segno si riduca all’irrealtà di un

sostegno diafano e sia invero trascurabile da passare del tutto inosservato, perché

mai su esso potrà soffermarsi l’attenzione. Un ambito quindi nel quale l’atto

significante sia sempre presente e mai differito nelle trame del rimando indicativo,

possibile soltanto laddove non si attui comunicazione alcuna senza con ciò stesso

cessare di esprimere, o per meglio dire di esprimersi, l’ambito cioè della vita

psichica isolata, del monologo interiore. Ed è di questo che dovremo ora

occuparci, al fine di far risaltare la specificità dei segni espressivi, che è poi

quanto dire - in risonanza tutt’altro che casuale con la dimensione logica - la loro

purezza.

§ 3.3.2 – Comunicazione ed espressione

202

La diafanità dell’espressione, imposta dalla logica pura dei significati,

trova un limite pressoché invalicabile nella comunicazione, che ne è pur la

dimensione originaria544. Il che vale già a segnare un limite netto del linguaggio in

merito al significato, poiché a sorgere con esso è piuttosto il luogo

dell’adulterazione che non quello della costituzione del significato medesimo, così

come a ribadire l’esigenza della sua neutralizzazione.

Sin dall’origine infatti il linguaggio è ancorato alla corporeità e

materialità dei segni che lo costituiscono, poiché è a questi che l’emittente e il

ricevente devono affidarsi per comunicare, gli aspetti fisici del discorso sono cioè

essenziali e perciò tutt’altro che rarefatti, smaterializzati. Ma la corporeità del

segno, lo si è visto, è attributo precipuo dell’indice, per cui le parole, benché

significative, fungeranno qui come segnali, vi sarà invero una singolare

coabitazione delle due tipologie semiotiche nella medesima entità, dove già si

intravede in quale verso andrà cercata la purificazione delle espressioni

linguistiche. Comunicare, per Husserl, consiste nello scambio reciproco di

informazioni, nel render noto qualcosa a qualcun altro, un qualcosa che non è a

ben vedere il significato, bensì il vissuto psichico significante, il pensiero del

parlante. Il significato si scopre perciò del tutto indifferente al dominio della

comunicazione, l’approdo a esso non verrebbe pregiudicato dalla sua scomparsa, a

differenza di quanto avverrebbe per i vissuti psichici altrui, suo vero e proprio

oggetto.

E qui la situazione è invero singolare, sotto diversi aspetti. Anzitutto,

benché si dica che tutte le espressioni agiscono in un contesto comunicativo come

Anzeichen545, si tratta a ben vedere di indici sui generis, poiché la natura

dell’espressione reagisce sulla funzione indicale condizionandola. È infatti un

segno significativo, e proprio in quanto significativo a svolgere una siffatta

funzione, il significato è qui una componente strutturale dell’indice e del suo

rimando, poiché è in quanto espressione che il segno rinvia e puo’ rinviare al

vissuto del parlante. La formula usata da Husserl per descrivere quanto qui accade

è Kundgabe, render noto, formula che non compariva nella trattazione più da

presso dedicata all’indice perché attiene specificamente al contesto comunicativo,

con il suo peculiare intreccio fra espressione e indice che reagiscono l’uno

544 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.299. Punto questo costante nella riflessione husserliana, in netta continuità con Semiotica (cfr. E. Husserl Semiotica cit., p.87)545 E. Husserl Ricerche logiche vol. I cit., p.300

203

sull’altra. Se infatti la corporeità propria dell’indice è necessaria affinché la

comunicazione si istituisca è anche vero che il significato gioca un ruolo tutt’altro

che secondario, facendo sì che il segno sia per l’appunto segnale del vissuto

psichico. V’è pero un ulteriore aspetto, ancor più rilevante, che illumina ancor più

sul senso della Kundgabe. Il rimando indicale che qui si attua non esaurisce la sua

peculiarità in quanto si è sin qui esposto, poiché l’oggetto potremmo dire indicato,

meglio ancora reso noto è costitutivamente precluso all’intuizione, non potrà mai

presentarvisi, non v’è insomma un semplice differimento bensì un’assenza

incolmabile. Come afferma Husserl

Si tratta della grande differenza tra l’apprensione effettiva di un essere in

un’intuizione adeguata e l’apprensione presuntiva di un essere in una rappresentazione

intuitiva ma inadeguata546

L’inadeguatezza è qui naturalmente quella del segno, o per meglio dire

quella della sua funzione, è qui che esso assurge in primo piano poiché

l’ascoltatore non puo’ che affidarvisi, non potendo fare altrimenti. Emerge allora

una differenza tra improprio (uneigentlich) e inadeguato (inadäquat) nell’ambito

linguistico di loro pertinenza, poiché diverso è il rapporto all’assenza che li

costituisce: nel primo caso, dov’è il significato ad agire, non v’è alcun rischio per

la comprensione, che si muove per l’appunto nel dominio esclusivamente

semantico e non intuitivo, dove l’oggetto è inteso e non semplicemente

richiamato; nel secondo, dove il significato semmai reagisce sul segno che attua il

rinvio, la comprensione è invero minacciata poiché non v’è affatto un intendere,

ma un render noto di stampo comunque associazionista, v’è cioè il rimando a

un’assenza che non è soltanto quella dell’oggetto indicato, ma dell’atto che dona il

senso, per cui il rischio dell’equivocazione oltre che concreto è di per sé

ineludibile, vista la costitutiva impossibilità di intuire quanto puo’ esser soltanto

reso noto. Ovunque il segno compaia nella sua fisicità, nella corporeità del suo

essere, dovunque cioè la sua presenza lungi dal rarefarsi sia piuttosto

indispensabile, a esser minacciata è la fenomenologia medesima, nel suo sforzo

chiarificatore e nel suo indirizzamento alle cose stesse, proprio perché è sempre

una non-presenza che segna la sua comparsa. Neutralizzare il segno equivarrà

allora a sottrarre il linguaggio alla dimensione comunicativa, all’empiricità che la 546 Ivi, p.301

204

costituisce, purificando cioè le espressioni da qualsiasi contaminazione empirica,

vale a dire con gli indici, snaturandolo per certi versi, se originariamente

comunicativa è la sua natura. Si tratterà in altri termini di sciogliere il linguaggio

da qualsiasi vincolo con la soggettività empirica, protagonista della

comunicazione, attribuendo la responsabilità dell’equivocazione in via esclusiva

al segno inteso come indice, come accade non soltanto laddove si tratti della

Kundgabe ma anche a riguardo delle espressioni wesentlich okkasionelle, definite

del resto anche subjektiven.

Questione a cui Husserl dedica uno spazio ben maggiore di quanto avesse

fatto con la comunicazione - nel cui novero si puo’ dire rientri - in considerazione

dell’entità del rischio che essa comporta, poiché qui la fluttuazione appare legata

al significato e non al segno. A venir dapprincipio ripreso è il discorso sulla

Kundgabe ma in un’ottica diversa che ne costituisce l’approfondimento, con

riferimento cioè ai casi in cui il contenuto informativo coincide con quello inteso,

significato, denominato, dove quindi il vissuto psichico non è soltanto reso noto

bensì espresso547. Un punto come accennavamo piuttosto spinoso perché è il

significato dell’espressione a rivelarsi dipendente dalla soggettività empirica, la

variazione dei contesti comunicativi comporta invero una parallela variabilità del

significato, per cui è il significato e non il segno a rivelarsi luogo dell’equivoco:

Le medesime parole io ti auguro felicità, con le quali ora io do espressione ad

un augurio, possono servire ad infinite altre persone per dare espressione ad auguri che

hanno lo “stesso” contenuto. Eppure sono di volta in volta diversi non soltanto gli auguri,

ma anche il significato degli enunciati ottativi. Poniamo che la persona A si trovi in

presenza della persona B e che la persona M si trovi di fronte alla persona N. Se A augura

a B la “stessa” cosa che M a N, il senso della proposizione ottativa è manifestamente

diverso, dal momento che esso implica la rappresentazione delle persone che si trovano di

fronte548

A venir minacciata è allora nientemeno che l’idealità dei significati, la

loro natura ideale e inequivoca, poiché questi si rivelano costitutivamente

contaminati dall’empiria, sì che essa non puo’ riguardare più soltanto il segno

significante. La componente empirica, soggettiva non è semplicemente resa nota,

riconducibile alla Kundgabe, a un segno che agisce come indice, poiché piuttosto 547 Ivi, p.347548 Ivi, p.348

205

è espressa, concerne invero l’Ausdrücken e dunque il significato. Per conseguenza

l’indeterminatezza di cui qui si tratta si espliciterà sì, come sempre, in un rimando

indicale, operato però dal significato e non dal segno.

È in questi termini che si delinea la situazione in merito alle espressioni

soggettive essenzialmente occasionali, quelle forme del discorso “nella quali colui

che parla porta ad espressione normale qualunque cosa che lo riguardi o sia

concepito in relazione a sé stesso”549, come ad esempio “io”, “qui”, “là” e via

discorrendo. In casi come questi la parola opera infatti un’indicazione che ha però

dalla sua la permanenza dell’idealità, in quanto ciascuna espressione occasionale

orienta in maniera rigida il verso in cui indica, esplicita cioè una funzione

generale fissa550, v’è invero un carattere generale del rinvio determinato nella sua

forma benché indeterminato nel contenuto cui addita che rappresenta l’elemento

comune, il permanente identico a fronte della variabilità dei contenuti, che

distingue una siffatta plurivocità dall’equivocità accidentale551. Non si tratta

insomma di un rinvio qual è quello dell’indice vero e proprio, poiché è ai sensi

dell’idealità che l’indicazione si attua, il suo ambito è ovvero inteso, in quanto

circoscritto da un’entità ideale quale il significato e non da una empirica quale il

(mero) segno.

Sulla scorta di questo Husserl puo’ allora ritrovare una duplicità

semantica costituiva delle espressioni essenzialmente occasionali, distinguendo tra

significato indicante e indicato, dove il primo è il carattere comune e generale del

rinvio determinato dall’occorrere del contenuto, con cui il secondo si manifesta552.

In questi casi infatti il significato espresso dalla parola si scopre dipendente

dall’esperienza empirica nella sua stessa natura, poiché il suo rimando

all’oggettualità intesa è invero indeterminato perché variabile, diverso a seconda

della soggettività che lo esprime, è in altri termini un rinvio alla cui

determinazione è necessario il ricorso all’esperienza del soggetto. O per meglio

dire, a esser dato non è, come accade con le espressioni obiettive, il rinvio, bensì

la sua rappresentazione indeterminata, e più che intendere con esse è indicato ciò

che s’intende553, per cui l’intuizione si svela qui necessaria non tanto, o meglio

soltanto, per la conoscenza, ma soprattutto per la comprensione. Non a caso

549 Ivi, p.353550 Ivi, p.352551 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.318552 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.353553 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.322

206

Husserl utilizza il termine eigentlich a proposito del significato indicato554, a

sottolinearne la dipendenza dall’intuizione e a registrare correlativamente un

diverso tipo di improprietà, che non è più quella del mero inteso che caratterizza e

definisce l’uneigentliches Denken, perché a mancare è proprio la determinazione

di quest’ultimo, tanto che qui non si puo’ affatto concepire pienamente il

significato senza l’intuizione correlativa555. Se in un caso l’Uneigentlickeit vale a

definire la peculiarità del significato, la sua indipendenza dall’intuizione ai fini

della sua piena costituzione e comprensione, nell’altro è proprio questo a venir

meno, perché il termine di riferimento, l’oggettualità intesa non si limita a

riempire il significato, ma lo determina come ciò a cui esso soltanto addita,

configurandosi e costituendosi come significato indicato. Con questo però non si

vuole affatto sostenere che una parte del significato risieda nell’intuizione, quanto

piuttosto che con questa esso giunge a determinarsi, vale a dire che è l’intuizione a

consentire al significato di dispiegare pienamente la sua natura di modalità di

riferimento all’oggetto, determinandola concretamente556; e a venir presentato è

del resto un contenuto che vale però a determinare il significato, necessario alla

comprensione prima ancora che alla conoscenza, sì che nella coscienza

dell’ascoltatore v’è una successione tra due tipologie del rinvio, indeterminata

(significato indicante) e determinata (significato indicato)557.

Come si vede, è nella comunicazione che una siffatta distinzione agisce,

si fa esplicita, perché è in essa che i segni espressivi sono immessi in trame

indicali, laddove cioè si tratti di comunicare qualcosa a un ascoltatore, per il quale

l’espressione essenzialmente occasionale funge in senso indicante fin quando non

giunge la rappresentazione di ciò che è indicato. L’improprietà che mina la

comprensione del senso si manifesta con l’insorgere nella dimensione semantica

dell’indice, e quindi con la comunicazione, dove trova la sua dimensione

554 E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.89555 Nel § 63 della Sesta Ricerca, dedicato per l’appunto alle leggi dell’uneigeintliches Denken, si dice invece che « si puo’ peraltro concepire come effettuato qualsiasi significato senza l’intuizione correlativa » (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.493), avendo però di mira soprattutto la dimensione categoriale, punto questo che fa ancor di più risaltare la peculiarità delle espressioni essenzialmente occasionali.556 Ivi, pp.318-19557 Cfr. in proposito quanto Husserl afferma sulla distinzione tra significato indicante e indicato riguardo a un’espressione essenzialmente occasionale quale il dimostrativo “questo”, dove si tratta per l’appunto dei « due pensieri che, subentrando l’uno all’altro, caratterizzano la comprensione: in un primo tempo la rappresentazione indeterminata di qualcosa che s’intende con il questo, poi la modificazione che sorge dall’aggiungersi della rappresentazione, l’atto di un rinvio determinatamente diretto. In quest’ultimo atto risiede il significato indicato, nel primo il significato indicante »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.322

207

originaria, si tratti degli Anzeichen, della Kundgabe o delle espressioni wesentlich

okkasionelle. È infatti la comunicazione l’ambito di appartenenza di tutti questi

casi di improprietà, il suo svolgersi è segnato dal rimando a un’assenza -

insolubile o meno - che rende necessari i segni nella loro fisicità, segni peraltro

che proprio in virtù del loro occorrere in un contesto comunicativo vedono la loro

natura espressiva costitutivamente intrecciata con una funzione indicale,

subiscono invero una sorta di ibridazione con gli indici, se com’è stato

giustamente osservato “si ha indicazione ogni volta che l’atto conferente il senso,

l’intenzione animatrice, la spiritualità vivente del voler-dire, non è pienamente

presente”558. Laddove il segno intervenga nella sua corporeità si ha sempre, come

peraltro già appurato poc’anzi, una funzione indicale e laddove questa agisca si è

inevitabilmente alle prese con la comunicazione, per cui è all’instabilità del

rimando indicale, alla sua contingenza che va imputato il rischio della

equivocazione.

Una conferma in tal senso è offerta dalla maniera in cui Husserl risolve il

problema posto dalle espressioni occasionali, la minaccia da esse apportata

all’idealità dei significati, alla loro natura stabile, rigida, fissa. Non in questi è

infatti da ricercarsi la ragione della fluttuazione, bensì nel significare, negli atti

che conferiscono senso alle espressioni559, fondati su una componente segnica, per

cui il significato vede minacciata la sua univocità nel venir espresso, nel momento

cioè in cui si incarna in un segno, vero e unico responsabile dell’indeterminatezza.

Un punto del resto già evidente se si tiene a mente che espressione essenzialmente

occasionale è per definizione “ogni espressione alla quale inerisca un gruppo

concettualmente unitario di significati possibili”, determinabile a seconda delle

situazioni in cui agisce560. Come si vede non sono qui i significati a essere

indeterminati, bensì l’attribuzione di un significato all’espressione, il

conferimento di un senso tra i molti possibili, non sono perciò questi a passare

l’uno nell’altro, bensì le espressioni a poterne assumere di diversi, non v’è alcuna

fluidità semantica ma solo un’instabilità semiotica. Siffatte espressioni intendono

perciò un significato stabile, idealmente unitario quanto il contenuto di quelle

obiettive561, perché pur sempre determinati sono i significati che ciascuna di esse

puo’ assumere, laddove l’indeterminatezza riguarda la soggettività con i suoi atti, 558 J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.70559 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.359560 Ivi, p.351561 Ivi, p.357

208

il significare con il suo inevitabile ricorso ai segni562, per cui è a questi che in

ultima istanza va ricondotto il rischio dell’equivocazione, tanto che la sua

riduzione o al limite eliminazione avviene sul piano strettamente semiotico, con

l’escogitazione del “necessario numero di parole-segno…di espressioni

esattamente significative”563.

La stessa distinzione tra significato indicante e indicato agisce

effettivamente soltanto nel contesto comunicativo, ovvero laddove è necessaria la

mediazione di un segno esistente, per cui è ancora una volta a partire da questo

che si instaura la relazione indicale. Per quanto infatti, a differenza della

Kundgabe, sia qui un significato ad agire da indice, è pur vero che una siffatta

indicazione si attua nella sua improprietà dove il segno si pone in rilievo, ché è

sempre per la sua datità percettiva che il rinvio si attua, non potendo l’ascoltatore

che rifarvisi. Anche qui perciò l’improprietà e la minaccia dell’equivocità

insorgono in forza del segno, perché è dove deve ricorrere a un segno

necessariamente esistente che il significato agisce in senso indicante, e ovunque

sia costretto a comparire nella sua fisicità è sempre in una trama indicale che il

segno si trova coinvolto. Non soltanto allora l’indice deve venir percepito come

esistente ma per converso dove l’esistenza empirica del segno è inevitabile

l’indice non puo’ affatto venir ridotto, escluso dall’ambito espressivo, e con esso

l’improprietà e il rischio dell’equivocazione. Quest’ultimo insorge quindi laddove

il segno è in primo piano, perché è questo e non il luogo in cui il significato

effettivamente dimora a presentarsi, a esser dato, e opera come una mediazione

che per la sua fisicità è tutt’altro che trasparente, agendo piuttosto in qualità di

rappresentante di una non-presenza a cui rinvia senza intenderla, com’è proprio

562 Ivi, p.343.Ci appare perciò del tutto insostenibile la soluzione di Lanfredini in merito al problema posto dalle espressioni occasionali, secondo la quale qualsiasi intenzione significante e quindi qualsiasi significato è indeterminato, per cui è sempre l’intuizione ad apportare la determinatezza come ultima differenza specifica del genere “significato” (R. Lanfredini Husserl. La teoria dell’intenzionalità, Laterza, Bari 1994, pp.91-94). L’intuizione, nei casi delle espressioni obiettive, non apporta infatti alcun contributo alla comprensione del significato, che è chiaramente compreso a prescindere dal darsi o meno dell’oggetto a cui si riferisce, diversamente da quanto accade per le espressioni essenzialmente occasionali.563 Ivi, p.358. Husserl si affretta subito a precisare che si tratta di un ideale irraggiungibile, poiché se “la ragione oggettiva non ha limiti”, se “ciò che è ha i suoi rapporti e le sue qualità in sé fissamente determinate”, si riscontra al tempo medesimo la “deficienza delle determinazioni spaziali e temporali”, ovverosia la « nostra incapacità di definirle in altro modo che mediante la relazione alle esistenze individuali già date prima, mentre queste stesse esistenze sono inaccessibili a una determinazione esatta, non resa confusa da espressioni che hanno un significato essenzialmente soggettivo » (Ibid.). Si ribadisce perciò come l’indeterminatezza non stia affatto dal lato del significato, bensì da quello del significare, dal lato cioè degli atti significanti e quindi nei segni cui necessariamente ricorrono.

209

del (mero) segno. Una conferma immediata e definitiva la si trova se ci si pone dal

lato del parlante. Questi non attua a ben vedere alcun rinvio indicale in quanto da

subito presente è per lui la rappresentazione determinativa, il significato indicato,

che invero propriamente indicato non è perché non puo’ esservi alcun

differimento, ma rilevabile al limite come componente, come aspetto di un

significato inscindibilmente unitario564. L’esistenza del segno è perciò del tutto

inessenziale in quanto l’atto significante è immediatamente presente nella sua

coscienza e si serve sì di segni, ma semplicemente rappresentati, poiché non v’è

nulla che esuli dal dominio della coscienza medesima, il senso è nei suoi atti e non

in altri, per cui non v’è alcuna non-presenza che necessiti d’essere indicata da un

segno esistente.

In tal maniera nella presenza a sé della coscienza è guadagnata la

dimensione nella quale emerge la purezza espressiva, al netto di qualsiasi

contaminazione indicale che minacci equivocità in merito al significato565, una

dimensione cioè nella quale è il senso ad acquisire rilievo e non il segno - che

invero si ritrae sino all’impercettibilità. L’espressione perciò guadagna la sua

purezza in netta opposizione a quanto accade per l’indice, vale a dire al prezzo

della sua esistenza, nella sua più spinta rarefazione, avvicinandosi così a quelle

inesistenze empiriche che si propone di manifestare, assimilandosi cioè alle

idealità, ai significati, in virtù dell’inessenzialità del corpo empirico per la sua

funzione costitutiva. Come ogni altra idealità quella del segno si manifesta

opponendosi alla contingenza dell’empiria, con la differenza che in questo caso si

ha a che fare con un’entità originariamente empirica, per cui è nella sua

neutralizzazione, nella sua riduzione all’irrealtà che manifesta una natura ideale,

ovvero laddove la sua presenza venga trascurata, perché è nel lasciar essere

un’oggettualità originariamente ideale che consiste la sua idealità. Se il significato

manifesta la sua natura ideale quando viene fatto oggetto d’attenzione, con il

segno si verifica un processo per certi versi opposto, poiché la sua idealità emerge

nell’irrealtà che non gli pertiene originariamente ma alla quale deve venir ridotto,

vale a dire dove più che essere lascia essere, dove cioè distoglie l’attenzione da sé

per orientarla su quanto in esso semplicemente si manifesta. L’idealità del segno è

564 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.322565 Come è stato giustamente osservato « ogni volta che la presenza immediata e piena del significato sarà sottratta, il significante sarà di natura indicativa….ogni discorso, o piuttosto tutto ciò che nel discorso non restituisce la presenza immediata del contenuto significato, è in-espressivo »; J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.72

210

perciò guadagnata al prezzo della sua natura, che è quanto dire al prezzo della sua

neutralizzazione, per cui è laddove cessa di essere ciò che è che ha valore per la

fenomenologia e per la logica, il suo contributo è tanto più efficace quanto più

tende alla propria scomparsa. La vita psichica isolata, o ancor meglio - vista

l’importanza più volte ricordata del linguaggio per l’apprensione delle entità

logiche - il monologo interiore acquisisce un ruolo fondamentale in virtù

dell’interesse precipuamente logico che muove la fenomenologia agli esordi, ai

sensi di una Logik der Bedeutungen con i suoi significati precostituiti e perciò

intangibili, per i quali la comunicazione e dunque i segni lungi dall’esser luogo

costitutivo sono piuttosto fonte dell’equivoco. La riduzione dell’indice vale allora

come neutralizzazione del segno, poiché è soltanto dove il significato si specchia

in una superficie diafana566, dove non v’è invero differimento che si è certi

dell’approdo alle cose stesse, dove cioè il segno vale a supportare e non

semplicemente ad annunciare la presenza dell’atto significante.

Per la verità anche riguardo all’espressione pura, priva della funzione

informativa, Husserl parla di un rinvio dalla parola al significato, che però appare

ben da subito diverso da quello dell’indice567, come peraltro già riscontrato pur

senza il dovuto approfondimento. Il mero segno espressivo infatti non ha bisogno

d’esser percepito come esistente, tant’è che ci si accontenta di parole

semplicemente rappresentate, non si tratta perciò di un rapporto empirico fra due

esistenti nel quale uno motivi per via associativa la presenza dell’altro, è al di qua

di ogni empiria, nel campo fenomenologico che qui piuttosto ci si muove. Un

rinvio di questo genere, in maniera ben più che significativa, non è più

denominato Anzeigen bensì Hinzeigen568, con un termine cioè che vale a

sottolineare lo strettissimo rapporto che lega qui i due poli, un rapporto invero

all’insegna della Innigkeit poiché si tratta delle componenti di un vissuto

internamente unitario569, simile alla già menzionata relazione tra significato 566 Nella Quarta Ricerca Husserl afferma infatti che “la lingua, nel suo materiale verbale, deve rispecchiare fedelmente i significati possibili a priori” (E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.96). In proposito è stato giustamente osservato che i segni assumono una funzione denotativa e non connotativa in rapporto ai significati, sì che la produttività del linguaggio risulta del tutto assente (F. Costa Husserl e il linguaggio cit., p.221).567 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.302568 E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.42. Su questo punto cfr. anche J.Derrida La voce e il fenomeno cit., p.74569 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.302. A dire il vero soltanto qui Husserl parla di un rinvio della parola, del mero segno al significato, ché nel prosieguo sarà sempre nei termini di una innige Einheit che quel rapporto verrà declinato. Rinvio che come abbiamo sottolineato è perlomeno sui generis poiché non v’è mai un differimento, il termine a cui si rimanda è invero sempre presente, sì che i due poli si pongono per l’appunto come componenti di un’entità unitaria

211

indicante e indicato nella coscienza del parlante. Il termine Hinzeigen è del resto

utilizzato da Husserl a proposito del rimando del significato all’oggetto570, un

rimando cioè del tutto diverso da quello associativo poiché in questo caso v’è

un’unità vissuta tra segno e designato571, si è cioè di fronte non a un mero

accostamento bensì a un’unità d’atto572, a un dato di fatto fenomenologico

primitivo573, se solo in quanto in certo modo significati, intesi gli oggetti si

presentano alla nostra coscienza. Quello dell’Hinzeigen è perciò un rimando

interno, meglio ancora non estrinseco, perché compare laddove v’è un’unità

fenomenologica tra i termini del rinvio e non un associazione psichica, per cui la

sua opposizione all’Anzeigen vale anche a distinguere i domini della psicologia e

della fenomenologia574.

A esser necessaria, al fine di un retto intendimento del segno soprattutto

linguistico nella filosofia husserliana, è allora un’analisi fenomenologica di esso

ben più approfondita di quella sin qui emersa, perché è in quest’ambito che

l’espressione non soltanto si costituisce, ma rivela la sua decisiva portata per la

conoscenza, dove già s’intuisce lo spostamento che la considerazione semiotica

subisce dal piano logico a quello fenomenologico.

§ 3.3.3 – Fenomenologia del segno linguistico

Il lettore attento rammenterà che in precedenza il richiamo all’orizzonte

fenomenologico era servito soltanto a far risaltare le differenze fra le due tipologie

quale il vissuto significante. Anche in questo è rilevabile come la preferenza per la Rede nella Ricerche logiche vada letta ai sensi del monologo più che del dialogo, dell’esprimersi piuttosto che dell’esprimere, del comunicare. In appunti più tardi dedicati alla riscrittura della Sesta ricerca confluiti in Husserliana XX/2 si parlerà in maniera molto più dettagliata e pregnante del rinvio della parola al segno, distinguendo la signifikative Intention – il rimando attuato dal significato – dalla signitive Intention, ovvero dal rimando che il segno effettivamente attua al significato, un rimando non più riducibile alla relazione fra componenti di un’entità unitaria; in testi dove per l’appunto maggiore importanza, se non proprio la centralità, è assegnata alla dimensione comunicativa570 E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.46571 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.307572 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.327573 Ivi, p.332574 Nel suo prezioso e più volte menzionato testo Dieter Münch assimila gli indici alle intenzioni, in virtù dell’appercezione necessaria alla loro comprensione e statuizione, senza considerare che in essi è presente un riempimento. Un’intenzionalità comunque sui generis poiché priva del nucleo semantico e definita perciò indessicale (D. Münch Intention und Zeichen cit., pp.216-17). Che all’Anzeigen possa venir attribuita una qualche intenzionalità è cosa che non puo’ essere affatto accettata. Il rimando intenzionale ha infatti sempre una irriducibile natura semantica, il “riferimento a” che lo definisce è sempre costituito dal significato in quanto modalità del riferimento all’oggetto. Se si parla di riempimento a proposito del rimando indicativo lo si fa nei casi delle espressioni occasionali – che Münch non considera però in questo contesto, limitandosi agli indici propriamente detti – dove v’è innanzitutto un significato e non un mero segno.

212

semiotiche fondamentali, a distinguere con maggiore pregnanza l’espressione

dall’indice; ora che le nostre analisi hanno isolato la purezza espressiva del segno

linguistico si tratta di indagare più da presso gli atti in cui esso compare e si

costituisce, così come avviene per qualsiasi altra entità a cui l’attenzione si

rivolga.

Sfrondata delle componenti indicali che intervengono nella dimensione

comunicativa l’espressione si rivela essenzialmente costituita da un fenomeno

fisico e dal significato che l’anima575, elementi che vanno fenomenologicamente

ricondotti agli atti in cui si costituiscono, vale a dire – rispettivamente –

l’intuizione sensibile del mero segno e l’atto che conferisce il significato. Si tratta

allora di indagare il rapporto che regola i due vissuti, che non potrà naturalmente

essere di natura associativa, ma si manifesta nei termini di una peculiare unità

fenomenologica fra di essi, esplicitata in un altrettanto peculiare rapporto di

fondazione576. Ed è su questo che dovremo ora soffermarci.

Già in precedenza avevamo sottolineato come nell’espressione il mero

segno funga semplicemente da supporto, da sostegno per il significato, una

situazione che tradotta in termini fenomenologici mostra l’intuizione come

fondamento dell’atto significante poiché è essa a presentare quel necessario

sostegno. I due atti vengono perciò a costituire un’unità di fondazione, che “in

termini puramente fenomenologici” è così descritta:

il significare è un carattere d’atto che assume questa o quella impronta e che

presuppone come fondamento necessario un atto del rappresentare intuitivo. È in

quest’ultimo che l’espressione si costituisce come oggetto fisico. Ma essa diventa

espressione, in senso pieno e autentico, solo mediante l’atto fondato577

La peculiarità di questa fondazione, e del suo carattere necessario,

emerge dal confronto con quanto sin qui visto in merito ad altri atti altrettanto

necessariamente fondati, vale a dire le intuizioni categoriali. La situazione si

presenta infatti radicalmente diversa, anzitutto per la natura degli atti coinvolti nel

rapporto di fondazione, dove a essere intuitivo, a differenza di quanto avveniva in

precedenza, è solo l’atto fondante. In questo va ricercato il senso fenomenologico

del termine “sostegno” (Stütze) che Husserl utilizza a proposito dei segni 575 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.304576 Ivi. p.343577 Ibid.

213

espressivi. L’atto fondato infatti non abbisogna dell’atto fondante per aggiudicarsi

il suo oggetto, bensì per acquisire il suo contenuto e quindi per realizzarsi, non v’è

qui un’oggettualità che necessiti di un’altra come base per potersi manifestare

poiché a ben vedere non si dà oggettualità alcuna per l’atto fondato, per

l’intenzione significante, che lungi dal presentarla piuttosto vi rinvia. Di

conseguenza l’intuizione fondante vale a presentare un’entità che nulla ha a che

fare con l’oggetto intenzionato, questo non ha in quella il fondamento della sua

manifestazione - com’era nei casi dell’intuizione categoriale - ma solo il sostegno

per essere meramente inteso, per cui il rapporto di fondazione vale esclusivamente

dal lato dagli atti, senza un corrispettivo nel versante oggettuale. La peculiarità di

una siffatta fondazione è del resto esplicitamente rilevata da Husserl, laddove egli

parla, e proprio in raffronto a quanto accade con gli atti categoriali, di una

connessione “extraessenziale”,

poiché l’espressione stessa, cioè il complesso fonetico che si manifesta (il segno

scritto oggettivo ecc.) non vale come elemento costitutivo dell’oggettualità intesa

nell’atto complessivo e neppure, in generale, come qualcosa che le appartiene

“intrinsecamente” o che in qualche modo la determina. Perciò gli atti che costituiscono il

complesso fonetico contribuiscono all’atto complessivo – ad es., un’asserzione – in modo

caratteristicamente diverso da quello degli atti fondanti precedentemente discussi, come

gli atti parziali inerenti ai membri predicativi nelle predicazioni complete578

L’intuizione fondante non contribuisce perciò in nulla alla costituzione

dell’oggetto inteso, quanto essa presenta subisce sì un’apprensione diversa da

parte dell’atto fondato, ma tale da renderlo del tutto estrinseco rispetto a ciò che si

ha di mira, tanto che al suo posto potrebbe subentrare qualsiasi altro contenuto, se

ci si riferisce a esso non per intuire un’entità bensì per intenzionarla meramente.

La mediatezza connessa all’uso del segno, qui espressivo, si motiva

fenomenologicamente a partire dalla natura fondata dell’intenzione significante,

che necessita di un contenuto fornito altrove per realizzarsi e realizzare il proprio

riferimento intenzionale, diversamente da quanto accade con le intuizioni. Parlare

di sostegno vale allora a segnalare e si spiega alla luce di una peculiare fondazione

fenomenologica qual è quella che struttura l’atto significante, vale perciò a dar

conto del plesso unitario costituito da (mero) segno e significato, dove l’uno puo’

578 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.194214

fenomenologicamente essere solo tramite l’altro: se infatti è solo per mezzo di un

(mero) segno che il significato puo’ costituirsi per una coscienza è altrettanto vero

che è la presenza di questo a trasformare un contenuto sensibile qualsiasi in

espressione, a farne cioè un segno linguistico.

Si potrebbe a questo punto sostenere che nel caso delle intenzioni

significanti l’entità intuita, in virtù del suo ruolo di mediazione, non funge come

oggetto bensì da supporto per arrivare ad altro, vale a dire come rappresentante.

Una conclusione che però non tiene adeguatamente conto della natura stessa della

fenomenologia, ovvero della sua messa fuori gioco di qualsiasi posizionalità

trascendente579, del fatto che l’oggetto fenomenologicamente non è dato580. Se

l’epochè non è ancora a rigore esplicitata ben salda è invero l’acquisizione

dell’atteggiamento fenomenologico, con il suo orientamento verso i puri vissuti,

verso le loro leggi e strutture essenziali581, dove la messa fuori gioco di

qualsivoglia appercezione empirica vale a rilevare le pure componenti dei vissuti

medesimi582. Un atteggiamento che trova una esplicita e rigorosa applicazione

nella analisi della Quinta e soprattutto Sesta Ricerca dedicate alla conoscenza,

agli atti in cui essa si compie, quelli cioè oggettivanti, vale a dire intenzioni

significanti e intuizioni riempienti. L’esclusione dell’oggetto induce a ricercare

negli atti, segnatamente intuitivi, l’elemento responsabile del riempimento

conoscitivo, l’effettivo apportatore di conoscenza, che Husserl denomina pienezza

(Fülle) e ritrova nel contenuto fenomenologico, reale (reel) delle intuizioni

medesime583. In termini strettamente fenomenologici, l’intuizione dell’oggetto

consiste nell’apprensione di siffatti contenuti, ovvero nel carattere d’atto che

costituisce un’eccedenza (Überschuβ) “di fronte all’informe esserci della

sensazione” e animandola fa sì che l’oggettualità sia da noi percepita, sì da poter

concludere che

ciò che, in rapporto all’oggetto intenzionale, viene detta rappresentazione

(intenzione diretta ad esso nei modi della percezione, del ricordo, dell’immaginazione,

della riproduzione immaginativa, della designazione) viene detta apprensione,

579 Ivi, p.174580 Ivi, p.391581 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.286582 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.186583 Ivi, pp.377-78

215

interpretazione, appercezione, in rapporto alle sensazioni realmente appartenenti

all’atto584

I contenuti appresi costituiscono lo statuto intuitivo dell’atto, il “sistema

delle determinazioni dell’oggetto che cadono nella manifestazione”585, vale a dire

la pienezza586. È perciò nei termini di una siffatta componente degli atti che va

spiegata la conoscenza, è per sua virtù che si realizza, tanto che Husserl distingue,

accanto all’essenza intenzionale, l’essenza conoscitiva degli atti medesimi, alla

quale spetta, oltre alla qualità e alla materia, la pienezza o contenuto intuitivo587.

Quest’ultimo è invero definito da Husserl “contenuto intuitivamente

rappresentante”, per cui è perlomeno improprio sostenere che solo il segno funga

da rappresentante. La differenza tra intuizione e intenzione significante non andrà

perciò ricercata nel fatto che soltanto in una il contenuto funga da rappresentante

perché nell’altra è invero l’oggetto a darsi; l’esclusione fenomenologicamente

motivata di questo induce piuttosto a concentrarsi sulla diversa maniera in cui i

contenuti medesimi agiscono da rappresentanti nelle due tipologie d’atto. Il

contenuto rappresentante è infatti una componente strutturale di qualsiasi atto

oggettivante accanto a qualità e materia, sì che ogni genere d’atto rivela come

necessaria la presenza di un contenuto sensibile in funzione per l’appunto

rappresentante588. In virtù di questo suo ruolo una siffatta componente non si pone

affatto accanto alle altre due in maniera irrelata, costituendo invero un’unità

fenomenologica con la materia, poiché se da un lato v’è in ogni atto un contenuto

584 Ivi, p.174. Cfr. anche E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.342585 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.379586 « La pienezza della rappresentazione è tuttavia il sistema delle determinazioni ad essa relative, per mezzo delle quali essa rende presente il suo oggetto mediante l’analogia o lo coglie come dato in sé stesso »; ivi, p.376587 Ivi, p.396. La preminenza attribuita all’essenza intenzionale è dovuta alla sua indispensabilità per l’atto oggettivante, ben diversamente da quanto accade con l’essenza conoscitiva: le intenzioni significanti sono infatti atti oggettivanti privi del momento della pienezza (ivi, p.395). Per esprimerci nei termini di una distinzione più volta comparsa in questo testo e dalla decisiva importanza possiamo dire che la comprensione sta all’essenza intenzionale come la conoscenza all’essenza conoscitiva. 588 Gli atti categoriali non fanno in ciò eccezione. L’intuizione categoriale presenta infatti un contenuto rappresentante sensibile al pari dell’intuizione sensibile, vale a dire il legame psichico fra gli atti fondanti (ivi, p.475), un momento psichico non-indipendente. Nel merito Dieter Lohmar rileva uno spostamento nella tessitura della Sesta Ricerca: mentre nel VI capitolo un tale rappresentante è qualcosa di non sensibile, nel VII è invece un’entità sensibile quale appunto il legame psichico fra gli atti (D. Lohmar Phänomenologie der Mathematik Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1989, pp.48-51). Ne consegue che ciò che procura la conoscenza è un’entità intuitiva, sì da rendere impossibile la conoscenza matematica come deduzione di giudizi da un sistema assiomatico, dove non v’è appunto necessità di un contenuto intuitivo, di un fondamento nell’intuizione (ivi, pp.60-61)

216

intuitivo che consente la rappresentazione, dall’altro un siffatto contenuto deve

alla materia il suo carattere di rappresentante, poiché è in quest’ultima che si

costituisce il senso in cui qualcosa viene rappresentato. L’unità fenomenologica

tra contenuto rappresentante e materia viene da Husserl denominata

rappresentanza (Repräsentation)589, concetto fondamentale perché consente

all’analisi fenomenologica di raggiungere la sua completezza, di rilevare cioè in

via definitiva la struttura essenziale di ogni atto, dove non è semplicemente la

materia bensì la rappresentanza a rivelarsi come componente strutturale accanto

alla qualità590.

Ed è a partire da essa, ovvero dal genere di rapporto intrattenuto con la

materia – e non con l’oggetto, fenomenologicamente non dato – che va spiegata la

natura del contenuto rappresentante, motivata la ragione della sua diversa

funzione rappresentativa, sì che è qui che in ultima istanza le analisi sul segno

trovano il loro compimento, in una considerazione fenomenologica piuttosto che

semiotica. Affinché un contenuto possa dirsi segno è necessario infatti che il suo

rapporto con la materia sia di natura estrinseca, accidentale, ovvero che “tra la

peculiarità di tale contenuto e la peculiarità specifica della materia significativa

non troviamo alcun vincolo di necessità”, rapporto che definisce la rappresentanza

propria della intenzioni significanti, ovverosia la rappresentanza signitiva591. In

termini fenomenologici è perciò più opportuno parlare di rappresentanze signitive

piuttosto che di segni, poiché è nella specificità dei caratteri d’atto che essi si

costituiscono come tali, nel peculiare rapporto con la materia che ne definisce i

caratteri, sì che è alla luce dell’accidentalità ed extraessenzialità di questo che si

spiega l’eterogeneità tra segno e designato, o ancor meglio tra espressione ed

espresso592, vale a dire il suo essere mero supporto.

Lo stesso rinvio operato dal segno rimonta a questa situazione

fenomenologica. Le intenzioni significanti, per via della rappresentanza signitiva

da cui sono costituite, rappresentano soltanto impropriamente l’oggetto, poiché in

esse non vive alcun suo aspetto, si tratta in altri termini di intenzioni vuote, vale a

589 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.391590 Ivi, p.394591 Ivi, pp.392592 La stessa idealità del segno linguistico è riconducibile alla situazione fenomenologica che lo costituisce: « È ad esempio indifferente che i caratteri di cui è costituita una parola siano caratteri a stampa, oppure siano fatti di legno o di ferro, ed è indifferente anche che essi si manifestino oggettivamente come tali. Ciò che conte è soltanto la costante riconoscibilità della forma (Gestalt), ma neppure in quanto si tratta della forma oggettiva di una cosa di legno, ecc., ma in quanto forma che sussiste effettivamente nel contenuto sensibili ostensivo dell’intuizione »; ivi, p.389

217

dire “bisognose di pienezza”593. In virtù di questo il contenuto rappresentante non

ha alcun carattere ostensivo – a differenza di quanto accade con le intuizioni – per

cui è rinviando oltre sé stesso che adempie alla sua funzione rappresentativa594,

rimandando invero alla corrispettiva intuizione riempiente, dove è la

rappresentanza intuitiva, con il suo “nesso intrinseco e necessario tra la materia e

il rappresentante”595, ad apportare la pienezza richiesta.

La descrizione pura, che omette ogni posizionalità trascendente, ha a che

fare solo con atti e contenuti d’atto e in questi deve rilevare le differenze tra

intenzioni signitive e intuitive; perciò è nei termini della diversità delle rispettive

rappresentanze, a partire cioè dalla differente natura dei contenuti rappresentanti e

della loro apprensione che va appurata quella distinzione, dove è l’intervento della

fondazione a giocare un ruolo decisivo: nel caso dell’intuizione infatti non v’è

fondazione su un contenuto fornito altrove, perché non v’è mediatezza ma

immediatezza, il contenuto presenta e non rinvia, in esso l’oggetto si manifesta in

virtù del nesso intrinseco con la materia, per il fatto cioè che “ci sono posti dei

limiti dal contenuto da apprendere per via di una certa sfera di somiglianza ed

eguaglianza, quindi per via della sua natura specifica”596, sì che esso non vale qui

a fondare un altro atto ma a presentare l’oggetto per l’atto di cui è contenuto. La

messa fuori gioco dell’oggetto, lungi dall’impedire l’approdo all’idea di

conoscenza, è piuttosto la condizione del suo retto intendimento, poiché è nel

concetto fenomenologico di pienezza (Fülle) che trova la sua ragion d’essere, se

del resto è come riempimento (Erfüllung) di un atto significante, vuoto e

bisognoso di pienezza, che essa si manifesta, quindi nel rapporto fra

rappresentanze con diverso segno di pienezza597.

Il risultato più rilevante che le considerazioni sin qui svolte lasciano

apprezzare è il significativo spostamento che la riflessione semiotica subisce dal

piano logico a quello fenomenologico. L’approdo alla Wissenschaftslehre esclude

di per sé i segni dalla riflessione logica in nome della sua purezza, confinati alla

metodologia della conoscenza con cui più non si identifica essendone piuttosto

condizione. Il venir meno del primato della Kunstlehre non conduce però a un

593 Ivi, p.376594 Ivi, p.388595 Ivi, p.392596 Ibid.597 « Questa pienezza è dunque un momento caratteristico delle rappresentazioni accanto alla qualità ed alla materia; una componente positiva naturalmente soltanto nel caso delle rappresentazioni intuitive, una mancanza in quello delle rappresentazioni signitive »; ivi, p.376

218

parallelo accantonamento del segno in ambito conoscitivo, bensì a un mutamento

del genere della sua considerazione, non più (soltanto) psicologica, ma – come s’è

appena visto – fenomenologica. L’ottica psicologista dominante faceva sì che le

analisi semiotiche della fase pre-fenomenologica culminassero nella trattazione

delle rappresentazioni improprie, surroganti, in quella tipologia semiotica che più

di ogni altra si rivelava utile alle prestazioni conoscitive perché conforme ai

meccanismi della psiche umana. Laddove invece non si tratta dei metodi

conoscitivi bensì dell’idea stessa di conoscenza non è all’utilità dei segni per la

prassi conoscitiva umana che si rivolge l’interesse ma al ruolo che essi rivestono

in seno alla conoscenza medesima. Differenza decisiva, poiché testimonia dello

spostamento dal piano empirico, psicologico, a quello ideale, fenomenologico.

Analisi infatti che guardino alla conoscenza come attività specificamente umana

vedranno viziata la loro portata di verità dalla contingenza, poiché è certo

pensabile una psiche diversa per la quale esse non saranno punto valide, sì che sul

piano semiotico non puo’ affatto essere la trattazione della rappresentazione

impropria a dare la misura del ruolo del segno per la conoscenza, visto il suo

legame con un certo matter of fact. Lo è invece il concetto di rappresentanza

signitiva, che attiene all’unità fenomenologica degli atti in cui la conoscenza

essenzialmente si compie e lungi dall’essere una certa tipologia semiotica

rappresenta piuttosto l’essenza dei segni che intervengono nella relazione

conoscitiva. La lateralizzazione del segno non avviene perciò soltanto in ragione

dell’approdo a una logica pura, poiché invero si motiva a partire dalla

fenomenologia con la sua descrizione pura dei vissuti, che lascia emergere il

segno come mero supporto nella relazione conoscitiva in virtù del peculiare

rapporto fenomenologico costituivo della rappresentanza signitiva - componente

essenziale dell’intenzione significante. L’accantonamento della funzione

surrogante dei segni diviene allora inevitabile, non soltanto perché

indissolubilmente legata a una logica come Kunstlehre ma anche in ragione della

matrice psicologica cui rimontava la primarietà accreditatagli; e la fenomenologia,

che vuol dar conto di cosa sia la conoscenza e non di un suo particolare decorso,

riscontra una semiosi ben diversa, qual è quella che regola l’indirizzamento alle

cose stesse, teleologicamente orientata al darsi dell’oggetto598, in linea con la 598 Per la verità anche nelle Ricerche è presente una trattazione sulla funzione surrogante dei segni nel pensiero rigorosamente scientifico, per quanto tutt’altro che centrale non solo nell’economia dell’opera ma anche riguardo alle sue analisi più specificamente semiotiche, vale a dire il § 20 della Prima Ricerca. Qui Husserl si avvale delle acquisizioni maturate nella recensione all’opera

219

peculiare natura del significato o ancor meglio della sensatezza emersa nel

precedente paragrafo – dove, si ricorderà, era nell’indirizzamento all’oggetto che

essa si è rivelata consistere.

Le analisi fenomenologiche portate avanti in questo paragrafo non hanno

però ancora del tutto chiarito il ruolo del segno per la conoscenza, tantomeno per

la fenomenologia medesima, perché non del tutto chiara è la natura del rapporto

fra segno e significato, se vi sia invero una necessità in tal senso e di qual genere.

Ed è di questo che dovremo ora occuparci, avviandoci così alla conclusione del

nostro scritto.

§ 3.4 – I segni e la fenomenologia: le lenti dello sguardo fenomenologico

Per dar corso alle riflessioni nella direzione poc’anzi indicata è

necessario interrogarsi, ancora più fondo di quanto non abbiamo fatto, sul

peculiare rapporto di fondazione che lega segno e significato e che costituisce gli

atti significanti. Benché nel corso della Prima Ricerca si parli più volte di

un’unità intima, di una fusione tra le due componenti599 è pur sempre nei termini

di quella fondazione che essa va intesa, come mostrato non soltanto già nella

stessa Prima Ricerca600 ma soprattutto nella Quinta, dove un siffatto rapporto è

messo a confronto con la situazione apparentemente simile che si realizza con gli

atti categoriali.

Nel rimarcare la differenza fra le due tipologie di fondazione Husserl

sottolinea l’inessenzialità del complesso fonetico fondante di contro alla necessità

dell’oggettualità fondante per gli atti categoriali, perché a differenza di quanto

di Schröder, approfondendole in senso fenomenologico. I segni aritmetici infatti, lungi dal ridursi a mere entità fisiche, sono invero dotati di un significato di gioco, vale a dire operazionale, costituito dalle regole di calcolo cui obbediscono, che solo consente loro di esplicare la funzione supplente (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.337). Una funzione esercitata non sul mero significato, bensì sui segni aritmeticamente significativi, poiché a essere un surrogato è il medesimo segno, soltanto animato, potremmo dire, da una diversa intenzione significante, poiché non sono certo i segni « gli oggetti della considerazione del pensiero: noi viviamo piuttosto interamente all’interno della coscienza del significato o della comprensione » (ivi, p.336). La primarietà che il significato acquisisce a scapito del segno nella dimensione logica è qui ribadita con forza, poiché non soltanto i procedimenti simbolici devono la loro validità e possibilità ai significati che si incaricano di sostituire e che dunque li precedono; ma anche laddove è con essi che più da presso si opera è ancora il significato, e non il segno, a esser oggetto di considerazione. La distinzione tra due generi di significato, originario e operazionale, deve condurre a detta di Piana,a una parallela distinzione in ambito semiotico, ovvero tra espressione e simbolo (G. Piana Introduzione in Ricerche logiche Vol. I cit., p.XXXII), sì che quest’ultimo viene a essere una sorta di terzo genere segnico. Rilievo acuto che non soltanto ci sentiamo di condividere ma che abbiamo fatto nostro nel corso di tutto questo capitolo sulle Ricerche logiche, dove non casualmente si è evitato di usare il termine “simbolo” come sinonimo di segno. 599 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.305-306600 Ivi, p.343

220

accade con questi esso “potrebbe persino venire completamente a cadere” (er

könnte sogar gänzlich in Fortfall kommen)601. Un’affermazione quest’ultima

piuttosto impegnativa, poiché induce a concludere sulla dispensabilità del segno

per il significato non soltanto in ambito logico, com’è ovvio per una logica

ideale602, ma anche nel campo fenomenologico, sì da mostrare l’inessenzialità del

segno, o ancor più specificamente del linguaggio, per il pensiero medesimo e non

soltanto per la costituzione del significato. Al fine di intenderla è innanzitutto da

tener presente il contesto in cui compare, dove a tema è il diverso genere d’unità

che si realizza fra gli atti. Nel merito è soprattutto al diverso contributo dell’atto

fondante nella costituzione dell’oggetto dell’atto fondato che si rivolge

l’attenzione, dove - come abbiamo in precedenza visto e poc’anzi ribadito seppur

solo in accenno - in un caso il primo si rivela necessario e nell’altro irrilevante,

poiché l’oggettualità che esso presenta vale a rendere possibile il rinvio

all’oggetto inteso dal secondo e non quest’oggetto medesimo. L’extraessenzialità

della connessione fra gli atti è perciò riguardata dal versante oggettuale, dove si

sottolinea l’irrilevanza del segno per la costituzione del’oggetto più che la sua

inessenzialità per l’atto significante, il suo poter venir meno, problematica questa

che Husserl affronta direttamente in un altro luogo dell’opera, il § 15 della Sesta

Ricerca. A tal riguardo è la dimensione conoscitiva a fare da sfondo, poiché ci si

chiede se le intenzioni signitive possano ricorrere al di fuori della funzione

significante, vale a dire se nei rapporti di riempimento il segno linguistico, la

parola è necessaria all’attuarsi della conoscenza. E la risposta pare inequivocabile:

i casi di conoscenza senza parole dimostrano la dispensabilità del segno, poiché il

riconoscimento di un oggetto presentato dall’intuizione puo’ avvenire anche

quando ci sfugge la parola: in tal caso, afferma Husserl,

l’intuizione attuale suscita una disposizione associativa diretta all’espressione

significante; ma viene attualizzata solo la componente significante dell’espressione

stessa, che a sua volta ritorna, seguendo la direzione inversa, all’intuizione da cui è stata

suscitata, rifluendo in essa con il carattere di un’intenzione riempita603

601 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.194; cfr. anche E. Husserl Logische Untersuchungen cit., p.421602 Su questo punto è particolarmente esplicito il § 35 della Prima Ricerca (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.372-73)603 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.359

221

In verità sarebbe azzardato concludere nella maniera che qui viene

suggerita. In altri luoghi infatti Husserl sottolinea la necessità dell’espressione per

l’atto significante e proprio nella situazione conoscitiva604, senza considerare che

le riflessioni del paragrafo precedente sulla rappresentanza hanno rilevato come

componente necessaria degli atti il contenuto rappresentante, che nelle intenzioni

significanti è per l’appunto il segno. Le parole husserliane sono nel merito

piuttosto chiare:

L’atto puramente signitivo sarebbe una mera complessione di qualità e materia

se in generale potesse sussistere di per sé stesso, cioè se potesse formare di per sé stesso

un vissuto unitario. Ma ciò è per esso impossibile; noi lo troviamo sempre in aderenza a

un’intuizione fondante. Questa intuizione del segno non ha certamente “nulla a cha fare”

con l’oggetto dell’atto significativo, cioè essa non entra rispetto a questo atto in nessun

rapporto di riempimento; ma essa realizza in concreto la possibilità dell’atto come

possibilità di un atto assolutamente non riempito605

E ancora:

La materia significativa ha bisogno solo in generale di un contenuto di

supporto….Il significato non puo’ stare sospeso a mezz’aria, ma in rapporto a ciò che

esso significa è pienamente indifferente il segno di cui esso è per noi significato606

L’extraessenzialità del segno sta qui non nella sua dispensabilità, bensì

nella sua estrinsecità rispetto all’oggetto, in un senso perciò più debole di quanto

abbiamo poc’anzi visto, poiché se inessenziale è a quale segno si ricorra

necessario invece è che un qualche segno si dia. Come uscire allora da questa

obiettiva impasse, documentata dal testo stesso delle Ricerche e non

semplicemente sorta dalla sua interpretazione? Una lettura più attenta del passo

del § 15 poc’anzi citato si mostra a ben vedere carente in quanto a chiarezza, a

causa della assimilazione delle intenzioni signitive con le Leerintentionen tipiche

dei decorsi percettivi, quale ad esempio l’ascolto di una melodia607, quasi che il

rimando associazionista proprio dell’aspettativa spieghi anche il rapporto di ben

604 Ivi p.335605 Ivi, p.388606 Ivi, p.392607 Ivi, p.360. Su questo punto cfr. anche R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., pp.465-66 e pp.467-68

222

altro genere che caratterizza il riempimento conoscitivo, come peraltro la

citazione stessa indurrebbe a pensare. La situazione è invero

fenomenologicamente differente e chiama in causa il genere della rappresentanza

signitiva. In questo caso infatti v’è la necessità di un’intuizione fondante il cui

oggetto diventi per l’appunto contenuto dell’atto signitivo, oggetto che però come

ogni altro puo’ essere presentato con diversi gradi di pienezza608, in maniera

perciò eventualmente vaga, o addirittura - come Husserl stesso dirà in un testo più

tardo al fine di chiarire una siffatta situazione - vuotamente rappresentato,

potendosi invero dare

la possibilità che le rappresentazioni vuote che sono dirette a un complesso

fonetico, ma che in quanto vuote non lo portano a coscienza conformemente alla

manifestazione, siano legate agli atti conferitori di senso609

Rappresentazioni vuote dotate però anch’esse di un certo contenuto

intuitivo, per cui è a partire da questa complessa situazione fenomenologica che si

motiva la necessità del segno per le intenzioni significanti, la sua indispensabilità,

anche qualora semplicemente rappresentato. Si conferma perciò quanto rilevato in

merito alle componenti degli atti nel precedente paragrafo, segnatamente riguardo

alla rappresentanza, cha ha tra le sue componenti strutturali il contenuto

rappresentante, sia esso dato o rappresentato per mezzo di un ulteriore contenuto;

che è quanto dire la necessità del segno per le intenzioni significanti e quindi per il

significato.

Sul genere di una siffatta necessità non si possono all’evidenza nutrire

dubbi, la sua è infatti una natura fenomenologica, concernendo in via esclusiva gli

atti e non gli oggetti, men che meno le entità logiche. Ogni vissuto intenzionale,

questa la conclusione cui giunge la Sesta Ricerca, è costituito da qualità e

rappresentanza di base, dove quest’ultima ha tra le sue componenti costitutive i

contenuti appresi “che indicano se l’oggetto è rappresentato per mezzo di questo o

quel segno, oppure per mezzo di questi o quei contenuti ostensivi”610. E a ben

vedere la necessità fenomenologica del segno non si limita soltanto al versante del

608 Ivi, p..397-98609 E. Husserl La teoria del significato cit., p.185. Parpan, sulla scorta di Kern, rileva come Husserl stesso si sia successivamente accorto del’errore commesso nel § 15 della Sesta Ricerca, al quale le considerazioni qui riportate e altre contenute in testi successivi intendono porre esplicitamente rimedio (Cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.468)610 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.394

223

significato, riguardando piuttosto l’attuarsi della conoscenza medesima. Se infatti

quest’ultima è da intendersi come adaequatio rei ac intellectus, ovvero in termini

più propriamente fenomenologici come riempimento di un atto significante611, il

segno si rivela necessario, poiché la rappresentanza signitiva è per l’appunto ciò

che costituisce, assieme alla qualità d’atto, l’intenzione significante.

Benché si assista a un effettivo accantonamento della componente

semiotica nell’ambito squisitamente logico per via dell’approdo a una Logik der

Bedeutungen il segno continua a rivestire un ruolo decisivo e imprescindibile per

la conoscenza, se si vuole addirittura più forte, poiché non si tratta più di un

matter of fact, di un dato di fatto empirico, psicologico quale la conformazione

della nostra psiche con i suoi limiti - bensì dell’idea di conoscenza medesima e

degli atti in cui si costituisce, rilevata da un’analisi che mette fuori gioco “tutte le

appercezioni della scienza empirica e le posizioni esistenziali”612 ed è in tal senso

pura, ideale. Il segno si svela perciò necessario non soltanto per la conoscenza

come attività specificamente umana, in un senso squisitamente psicologico, bensì

è tale per la sua idea, per ciò che essa è e non puo’ non essere, vale a dire in senso

fenomenologico613. Nei termini della semiotica per così dire fenomenologica sin

qui emersa è pensabile una coscienza che non ricorra a indici ma non una che non

si appoggi alle espressioni come “meri segni”, dove in fondo non si fa che ribadire

l’inessenzialità della comunicazione nel novero delle Ricerche logiche.

Ma ancor più che per l’idea di conoscenza in genere è nell’economia di

quest’opera che il segno viene a rivestire un ruolo decisivo, o meglio per il genere

di fenomenologia qui inaugurata, rivolta in via esclusiva alle oggettualità della

logica pura, che è quanto dire alla dimensione del significato. L’accesso ai

significati è infatti reso possibile da una riflessione logica in senso

fenomenologico, che si rivolga cioè agli atti in cui essi si costituiscono per la

coscienza, vale a dire alle intenzioni significanti, che hanno come componente

essenziale il segno, trattandosi di rappresentanze signitive. L’astrazione ideante si

esercita perciò sul fondamento di siffatti vissuti, nei termini di una riflessione che

611 « Quando si parla di conoscenza dell’oggetto e di riempimento di significato si esprime dunque la stessa situazione, soltanto da punti di vista diversi. La prima espressione si dispone dal punto di vista dell’oggetto intenzionato, mentre solo la seconda prende come punti di riferimento gli atti da entrambi i lati »; ivi, p.332612 Ivi, p.186613 Per queste ragioni non possiamo convenire con quanti hanno rilevato la necessità del segno solo per gli atti di pensiero più elevati (cfr. R. Parpan Zeichen und Bedeutung cit., p.467 e R. Raggiunti The language problem in Husserl’s phenomenology cit., p.244) riducendola per l’appunto a una mera questione fattuale

224

si rivolge all’atto del significare, nella quale cioè a esser reso oggetto è il suo

contenuto e non quanto esso intende, quel significato che si manifesta a partire dal

segno, nell’espressione614.

La situazione che qui si delinea presenta una fisionomia invero

paradossale, costituita dal peculiare rapporto che si innesta fra logica pura e

fenomenologia e che fa perno sulla distinzione fra significati in sé ed espressi. Se

infatti l’espressività è inessenziale nel dominio logico non lo è affatto in quello

fenomenologico, in forza della necessità del segno per le intenzioni significanti,

per cui lo strato pre-espressivo a cui rimonta la regione dei significati si

documenta necessariamente a partire dalle espressioni, è insomma solo

l’espressività a poter dar conto di quanto la precede, in essa soltanto puo’

manifestarsi quanto è pre-espressivo. Ne deriva allora che è nell’espressione, nel

segno linguistico che logica pura e fenomenologia si incontrano e trovano la

chiave di lettura del loro rapporto, è qui in altri termini che si motiva l’accesso

fenomenologico alle entità logiche. Il paradosso per cui lo strato pre-espressivo

abbisogna dell’espressione per darsi e lasciarsi scorgere in quanto tale viene così a

essere la verità fenomenologica del rapporto fra logica pura e fenomenologia,

poiché è l’analisi dei puri vissuti a rivelare tanto l’irriducibilità del significato al

significare, all’intenzione significante, e quindi alla dimensione espressiva –

quanto la necessità di quest’ultima per il suo darsi e per accedervi. Un paradosso

che invero si risolve nella considerazione della logica come disciplina filosofica.

La lateralizzazione del segno imposta dalla logica pura non ha perciò il

suo corrispettivo fenomenologico nella messa da parte di questo, ma anzitutto

nella scelta di una precisa tipologia semiotica. L’esclusivo rilievo dato alle

espressioni si spiega infatti alla luce della fenomenologia medesima, del suo

indirizzamento alle cose stesse e quindi agli atti in cui si manifestano, dove la

componente segnica vale al compiersi del significato per la coscienza e non alla

sua sostituzione nell’ottica di un’economizzazione dei processi psichici. In questo

si puo’ leggere il passaggio dallo psicologismo alla fenomenologia, nella

distinzione tra calcolo e linguaggio e nell’assoluto rilievo acquisito ben presto da

quest’ultimo in ambito semiotico, se è in esso che “l’attività rappresentante e

giudicante si verifica presso le cose stesse (an der Sache selbst)”615. In tal maniera

614 Cfr. in particolare il § 34 della Prima Ricerca615 E. Husserl Aus Entwürfen Husserls zu seiner Schröder-Rezension cit., p.394; cfr. le pp.91-92 di questo nostro scritto

225

non è il linguaggio a esser reso oggetto precipuo d’analisi, poiché è solo a partire

dagli atti, dai vissuti puri della coscienza che si costituiscono le espressioni, a

render significante un segno non è affatto il sistema linguistico di cui è parte bensì

l’atto conferitore di senso616, in virtù di un significato che lungi dal costituirsi

linguisticamente si rivela invero prelinguistico, una specie ideale che ha nelle

intenzioni significanti le sue individuazioni617. Il piano fenomenologico subordina

così a sé quello linguistico, come mostrato peraltro anche dalla legalità costitutiva

della Grammatica puramente logica, che concerne in prima istanza gli atti

significanti, l’uneigeintliches Denken, e pur essendo l’impalcatura ideale di ogni

lingua non rivela una natura linguistica bensì fenomenologica618.

Il rilievo fenomenologicamente assunto dall’espressione non deve però

fuorviare, inducendo magari a pensare a una costante centralità del segno nel

Denkweg husserliano sino alle Ricerche logiche, quasi che il passaggio da una

Logik der Zeichen a una Logik der Bedeutungen si traducesse nel privilegio

accordato a una diversa tipologia semiotica. Le espressioni devono infatti la loro

rilevanza al fatto di essere segni significanti, è il significato in altri termini,

conformemente alla natura di una logica pura di cui ci si propone di schiudere le

fonti, a essere centrale e a imporre determinate scelte semiotiche, tanto che come

s’è dianzi visto la semiosi linguistica è subordinata al piano fenomenologico, ai

vissuti nei quali il significato come specie si individua. Ed è nell’ottica di una

fenomenologia degli atti significanti che il ruolo assunto dall’espressione va

indagato, nel luogo in cui si è mostrato e motivato, al fine di illustrarne l’esatta

616 « …gli oggetti che la logica pura intende indagare si presentano anzitutto sotto forma grammaticale. Più precisamente, essi sono dati per così dire nell’alveo di vissuti psichici concreti che nella loro funzione di intenzione significante o di riempimento di significato (da quest’ultimo punto di vista, come intuizione illustrativa o evidenziante) ineriscono a certe espressioni linguistiche, con le quali formano una unità fenomenologica »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.269-70617 Laddove invece i significati non preesistano alla lingua è nei termini esclusivi della sua analisi che puo’ spiegarsi il rapporto tra segno, o ancor meglio tra significante e significato, come avviene appunto in De Saussure: « Si prenda il significante o il significato, la lingua non comporta né delle idee né dei suoni che preesistano al sistema linguistico, ma soltanto delle differenze concettuali uscite fuori da questo sistema »; F. De Saussure Cours de linguistique générale, Edition Payot, Paris 1922 (trad. it. Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 2009, p.145). L’idea di un atto conferitore di senso non solo è qui del tutto assente, ma esplicitamente rigettata, perché è nel sistema linguistico che i significati vengono a costituirsi: « è una grande illusione considerare un termine soltanto come l’unione di un certo suono con un certo concetto. Definirlo così, sarebbe isolarlo dal sistema di cui fa parte »; ivi, p.138. Non a caso De Saussure rifiuta di utilizzare il binomio corpo-anima come metafora per spiegare l’unità significante-significato costituiva del segno linguistico (ivi, pp.125-26), diversamente da quanto accade a Husserl (“sinnbelebter Wortlaut”, “sinnbelebten Ausdruck” cfr. E. Husserl Logische Untersuchungen cit., pp.44-45). 618 Su questo punto cfr. anche V. Costa Idealità del segno e intenzione nella filosofia di E. Husserl cit., p.255 nota 24.

226

fisionomia, dove emerge con maggiore chiarezza quanto di per sé già rilevato

nella pagine precedenti, vale a dire come il ruolo del segno in ambito

fenomenologico stia nella sua più spinta neutralizzazione.

Quelle analisi hanno invero già consentito di rilevare la funzione dei

segni linguistici per le intenzioni significanti mercé la messa in luce della loro

stessa costituzione, giungendo a definire come supporto la prestazione offerta dai

segni linguistici, un termine dal senso fenomenologico ben preciso. Con esso

infatti si vuole intendere l’essenzialità dell’espressione per il compimento delle

intenzioni significanti così come l’extraessenzialità del rapporto tra i termini

costitutivi di essa, significante e significato. Declinata in questa maniera l’istanza

dell’extraessenzialità non soltanto non contraddice quella opposta

dell’essenzialità, quasi che il segno fosse e al tempo stesso sotto un medesimo

riguardo non fosse necessario, ma consente invero di darne la giusta misura,

poiché l’estrinsecità del rapporto con il significato fa sì che il segno sia necessario

soltanto come un mero supporto, a prescindere dalle peculiarità che lo

contraddistinguono, qualunque esse siano.

Il profilo che in tal maniera l’espressione rivela in sede fenomenologica

consente di far chiarezza sulla sua stessa idealità, sulla maniera in cui essa è intesa

nelle Ricerche logiche. Che anche le parole, i segni linguistici siano entità ideali è

esplicitamente affermato da Husserl nel § 11 della Prima Ricerca, in forza della

permanenza identica che emerge a fronte della variabilità empirica delle loro

occorrenze. L’idealità che qui si ha di mira rimonta però al significato, è quella

della espressioni in specie, che esprimono sempre lo stesso significato619. Va da sé

che il significante deve presentare una forma riconoscibile nella sue diverse

manifestazioni empiriche, ma non è questo il genere di idealità che a Husserl

primariamente interessa, si tratta piuttosto di una condizione necessaria ma non

sufficiente al manifestarsi di una ben altra idealità, quella dell’espressione e non

del mero significante, dove è la natura ideale del significato espresso a rivelarsi

decisiva.

Non si puo’ allora sostenere che l’idealità del significante è condizione di

possibilità di quella del significato620, non soltanto perché pre-lingistica è la natura 619 « ….se ci poniamo il problema del significato di un’espressione qualsiasi (ad es. resto quadratico) non intendiamo ovviamente come espressione questa formazione fonetica pronunciata hic et nunc, questo suono fuggevole, che non ritorna mai identico. Intendiamo l’espressione in specie. L’espressione resto quadratico rimane identica a sé stessa indipendentemente da chi la pronuncia »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.309620 V. Costa Idealità del segno e intenzione nella filosofia di E. Husserl cit., p.264

227

di questo, ma anche perché la situazione per così dire fenomenologica è

esattamente contraria, è per il fatto di esprimere uno stesso significato ideale che

un’entità intuitiva diviene un significante ideale. Si potrebbe però correggere il

tiro della posizione testé rigettata, sostenendo che l’idealità del significante è la

condizione fenomenologica di possibilità del significato, ovvero che l’accesso a

questo è reso possibile dalla permanenza identica del mero segno, che in questa

stia la necessaria ratio cognoscendi, benché non essendi, del significato come

specie ideale. Ma anche così una simile posizione, pur nella sua maggiore

aderenza al quadro d’insieme delle Ricerche logiche - se non altro perché tiene

conto della più volte ricordata natura pre-linguistica dei significati -, non puo’

però essere accolta. Certamente è un’unità fra due idealità a costituire

l’espressione ma questo non puo’ indurre ad assegnare un simile rilievo al

significante, tale da renderlo in certo qual modo oggetto d’attenzione. A impedirlo

è l’assoluta e quindi esclusiva primarietà di cui gode il significato, è a esso infatti

che va esclusivamente l’attenzione, tanto che anche a fronte di significanti

idealmente diversi puo’ manifestarsi, come nel caso delle espressioni tautologiche,

delle espressioni cioè reciprocamente corrispondenti in lingue diverse (ad es.

zwei, deux, due)621: qui infatti l’idealità del significato emerge non in virtù

dell’identità del significante, bensì come permanente identico a fronte della

diversità dei significanti medesimi, pur intesi nella loro idealità. Rilevante agli

occhi di Husserl non è tanto l’idealità del significante, del mero segno, la sua

forma sempre identica nella diversità delle occorrenze empiriche622, bensì quella

dell’espressione, la cui natura ideale non sta soltanto e semplicemente in quel

genere di identità, ma nell’esprimere sempre lo stesso significato, sì che è

l’idealità di quest’ultimo ad assorbire quella del significante costituendo in tal

maniera l’espressione come oggettualità ideale623.

Definire come supporto la funzione dei segni linguistici, nei termini

fenomenologici che la delineano e motivano, equivale ad attribuire ben scarso

peso alla natura del significante, alla sua fisionomia, poiché è nel passare del tutto

621 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.313622 In termini fenomenologici si tratta della riconoscibilità della forma del contenuto rappresentante nelle rappresentanze signitive; cfr. E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.389623 « Sostanzialmente, si ripete quindi il ‘medesimo’ enunciato, e lo si ripete perché esso è appunto l’unica e più appropriata forme espressiva per quell’elemento identico che si chiama il suo significato…ciò che l’enunciato vuol dire è sempre la stessa cosa. È qualcosa di identico, comprendendo questo termine in senso stretto: si tratta di un’unica e identica verità geometrica »; E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit.,, pp.310-11. E ancora: « l’espressione è l’elemento accidentale…l’essenziale è il concetto, il significato idealmente identico »; ivi, p.362

228

inosservato che il segno esercita al meglio quel genere di funzione, alla maniera di

un sostegno impalpabile per qualcosa che pur solo lascia emergere. E non si tratta

a ben vedere di una scelta individuale del fenomenologo bensì di una conseguenza

imposta dall’analisi fenomenologica, dalle cose stesse, dovuta cioè alla natura

degli atti in cui per necessità il significato si individua e dove perciò, ancora una

volta, è la concezione del significato come specie a rivelarsi determinante. La

preminenza va infatti agli atti che conferendo il senso costituiscono l’espressione,

per cui non è il linguaggio a costituire il senso bensì all’opposto è questo a

renderlo possibile, sono cioè i significati a costituire il linguaggio e non viceversa,

tanto che la comprensione della parola rivela una natura fenomenologica e non

linguistica624. In ciò il primato assegnato al monologo interiore sulla

comunicazione, dove l’atto significante ha la preminenza perché vissuto da noi

stessi e per ciò stesso immediatamente presente, e dove quindi l’espressione è del

tutto improduttiva, ovvero inerte, poiché non rimanda all’atto che pur la

costituisce ma si dà in sua presenza, per la sua presenza.

L’improduttività del linguaggio qui particolarmente evidente e

sottolineata da diversi interpreti625 si declina nei termini della diafanità, della

trasparenza che la fenomenologia reclama per i segni linguistici. Reclama, ma non

puo’ garantire. Indirizzate alle fonti da cui scaturiscono le entità logiche626, vale a

dire gli atti significanti, le sue analisi pure rilevano nella struttura di questi la

radice dell’equivoco, in forza di un segno necessario soltanto come un supporto

qualsiasi, che è quanto dire per il legame inessenziale fra segno e significato. In

tal maniera il significare concreto non è affatto garantito dal rischio

624 « Quando comprendiamo i simboli senza sostenerci su alcuna immagine fantastica, non ci troviamo affatto in presenza di un mero simbolo; vi è qui piuttosto la comprensione, questo vissuto-atto di genere peculiare, che si riferisce all’espressione illuminandola e che, conferendo a essa un significato, la mette in rapporto con l’oggetto »; ivi, p.333. Una siffatta posizione avvalora i rilievi che Michael Dummett fa in merito alla concezione husserliana del rapporto fra segno e significato. Egli ritiene infatti che essa sia estremamente vicina al modello linguistico di Humpty Dumpty, il personaggio di Alice’s Adventures in Wonderland in grado di intendere qualcosa d’altro rispetto alle parole effettivamente pronunciate, una concezione cioè « stando alla quale una parola, pronunciata in una certa occasione, ha il significato che ha perché il parlante la investe di quel significato » (M. Dummett Origins of Analytical Philosophy, Harvard University Press, Cambridge 1993, trad. it. Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2001, p.61). Di qui la critica di Dummett secondo cui « una parola della lingua ha il significato che ha non perché un gran numero di persone ha deciso di attribuirle quel significato; i parlanti la usano come dotata di quel significato perché quello è il significato che la parola ha nella lingua » (Ibid.) Una critica che non tiene però conto della natura ideale, precostituita dei significati, del fatto cioè che i significati che Husserl ha in mente sono entità logiche, quella della mathesis universalis. 625 Cfr. fra gli altri F. Costa Husserl e il linguaggio cit., pp.214-15, R. Raggiunti The language problem in Husserl’s phenomenology cit., p.255, F. Silvestri Segni significati intuizioni cit., pp.112-13626 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.269

229

dell’equivocazione ma ne è minacciato per la sua stessa essenza, poiché è ai sensi

dell’arbitrarietà che si declina il suo necessario ricorso al segno, visto il suo

inessenziale legame con il significato627. V’è dunque una precisa ragione

fenomenologica per cui il segno è additato come luogo dell’equivoco, e

correlativamente non è soltanto a motivo della natura ideale dei significati che la

responsabilità della fluttuazione semantica è addossata al significare, poiché

invero è nella natura degli atti significanti, nella loro stessa struttura costitutiva

che si radica la possibilità, o meglio il rischio dell’equivoco.

L’ìndirizzamento alle cose stesse che definisce la fenomenologia si svela

in ciò completo, poiché il suo giungere alle fonti concerne anche quelle

dell’equivoco, da cui del resto è motivata la sua istanza fondamentale, quella

chiarificatrice, nella quale si esplica il compito fondativo nei riguardi della logica

pura. In questo sta il ruolo tutt’altro che marginale rivestito dal segno nella

fenomenologia delle Ricerche logiche. Le espressioni infatti non sono soltanto il

punto di partenza necessario per la chiarificazione della logica pura, in forza

dell’incarnazione linguistica dei significati che la costituiscono628, perché la loro

necessità attiene ai vissuti puri di cui sono componente essenziale. Nelle schiudere

le fonti delle entità logiche la fenomenologia riscontra l’ineludibilità dei segni e

descrivendone la natura li rileva come un medium necessario per approdare alle

cose stesse, lasciandole scorgere per ciò che sono. Proprio in questo è da ricercarsi

la via per far fronte al rischio concreto dell’equivocazione, che consiste per

l’appunto nel rendere i segni del tutto trasparenti, diafani, improduttivi, sostegni di

un significato che in essi si rivela soltanto, un’esigenza che trova la sua più

efficace realizzazione nel monologo interiore e addita al telos infinitamente

lontano della lingua ideale629.

V’è però da dire che a rigore l’espressione è segno per l’oggetto e non

per il significato, lungi cioè dall’essere il designato quest’ultimo è piuttosto ciò

che consente il riferimento a esso, ovvero all’oggetto, tanto che nelle Ricerche

logiche si afferma che in verità essa non esprime il suo significato poiché è

piuttosto l’atto riempiente, in cui l’oggetto si dà nella sua presenza, a essere

espresso630. L’espressione si rivela così del tutto simile al segno di De Saussure,

627 A partire da questa situazione fenomenologica si spiega perché “al di sotto delle parole possono subentrare in un secondo tempo altri concetti” (ivi, p.271) e dunque la loro possibile equivocità. 628 Ivi, p.267629 Ivi, pp.358-59630 Ivi, p.305

230

poiché con essa s’intende l’insieme, o meglio il totale costituito da significante e

significato631 e non semplicemente il primo. Ma, ed è qui il punto fondamentale,

al centro della fenomenologia husserliana sta il significato come entità ideale, pre-

linguistica, per cui è al suo rapporto con il (mero) segno che si rivolge l’interesse,

se è questo soltanto a poterlo manifestare. Husserl infatti parla di segni come di

ciò che realizza il significato nella vita psichica dell’uomo632, di meri segni come

supporti e non soltanto come espressioni che designano l’oggetto, o meglio

l’espressione è vista soprattutto dal lato del significato nella sua qualità di

supporto, come mera espressione.

A esser oggetto esclusivo dell’indagine fenomenologica è infatti logica,

gli atti espressivi che ne costituiscono il dominio, per cui è all’espressione qua

talis che si rivolge l’interesse, alla sua costituzione e agli elementi che la

determinano e non a quanto a rigore essa esprime, al suo rapporto con quanto

viene espresso. Per conseguenza l’improduttività da noi più volte richiamata non è

quella dell’esprimere nei riguardi dello strato che subisce l’espressione, non

concerne cioè la funzione dell’espressione in rapporto al senso degli atti, che in

essa trovano la forma dell’universale, non è in altri termini l’improduttività

sottolineata in Idee, forte della distinzione tra senso e significato del tutto assente

nelle Ricerche633. Non puo’ esserlo perché concerne la struttura stessa

dell’espressione, il rapporto tra mero segno e significato, dove a partire dalla

natura ideale e prelinguistica di questo si vuol sottolineare la trasparenza, la

diafanità che deve assumere il significante, condizione essenziale per depotenziare

il rischio dell’equivoco e motivata fenomenologicamente dalla natura del mero

segno come semplice supporto. A essere qui al centro è il significato nella sua

natura ideale, quello che in Idee verrà definito significato logico o espressivo al

fine di distinguerlo dal senso, dal nucleo noematico634, per cui una fenomenologia

come quella delle Ricerche rivolta alla fondazione di una logica pura isola

l’espressione dai suoi rapporti con l’espresso e ne fa suo tema esclusivo in quanto

“medium specificamente logico”635, indagando perciò il segno espressivo ai sensi

del rapporto che lo costituisce e non per quello che intrattiene con quanto viene da

631 F. De Saussure Corso di linguistica generale cit., p.85632 E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., p.372633 Per tutto questo cfr. il § 124 di Idee 634 Cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica Vol. I cit., p.308635 Ivi, p.309

231

esso espresso636. In forza di questo è soprattutto nel senso saussuriano di

significante che si parla di segno, intendendo cioè, nel linguaggio husserliano, la

“mera espressione”, il supporto invero necessario alla manifestazione dei

significati, poiché è la dimensione prelinguistica del significato logico e non il

dominio pre-espressivo dei sensi noematici a esser oggetto esclusivo di

considerazione637.

La diafanità, la trasparenza che si è reclamata per le espressioni è per ciò

quella del mero segno in rapporto al significato, non dell’espressione nei riguardi

dell’espresso, come emerge in maniera evidente nella Quarta Ricerca, più da

presso dedicata alle questioni relative alla dimensione del significato nei suoi

elementi costitutivi e nella legalità che la concerne, dove per l’appunto è nei

termini sin qui rilevati che si intende il segno:

E se inoltre la lingua, nel suo materiale verbale, deve rispecchiare fedelmente i

significati possibili a priori, essa deve anche disporre di forme grammaticali che

consentano di conferire a tutte le forme distinguibili dei significati un’«espressione»

distinguibile, cioè, per il momento, una «segnatura» (Signatur) sensibilmente

distinguibile638

Il rapporto segno-significato si manifesta perciò come leitmotiv della

riflessione semiotica husserliana, in quanto questione centrale laddove si tratti di

costituire la logica come disciplina, di fondarla come scienza, per cui l’idea di

logica si conferma lo sfondo su cui proiettare le riflessioni sul segno, pur nel

mutato panorama che si disegna in superficie. Di qui il ruolo del mero segno come

tematica centripeta delle analisi più da presso semiotiche639, dove la novità più

rilevante delle Ricerche sta nell’aver reso questo non soltanto un indice – nel cui

alveo puo’ retrospettivamente ricondursi la rappresentazione impropria di

636 Un discorso del genere, rilevando le condizioni della chiarezza espressiva a prescindere dai suoi rapporti con quel che viene espresso, si rivela fondamentale anche in merito a quest’ultimo(cfr. ivi, pp.311-12), se è in virtù dell’espressione che i sensi noematici degli atti assurgono al regno del logos e vengono così guadagnati al pensiero scientifico 637 Derrida stesso, nel parlare del segno espressivo come medium, si riferisce soprattutto al significante, nella fattispecie al fonema, all’immagine acustica saussuriana (cfr. J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.114) e non a quanto effettivamente De Saussure intende con segno (e a rigore Husserl con “espressione”), pur in un’opera che legge il ruolo dell’espressione tenendo conto delle acquisizioni maturate in Idee (ivi, p.112)638 E. Husserl Ricerche logiche Vol. II cit., p.96639 Un punto del resto che segna una certa continuità nella riflessione semiotica husserliana considerata in questo nostro scritto, poiché il mero segno è sovrapponibile al segno esteriore di Semiotik

232

Semiotik, per via del rinvio di stampo associazionista all’entità surrogata,

significato in primis – bensì un supporto, che “sta per” qualcosa che solo

attraverso di esso si manifesta, se è al significato e non alla mera marca sensibile

che si rivolge l’attenzione. La neutralizzazione che abbiamo più volte menzionato

sta appunto in questo, con il linguaggio ridotto a mera trasparenza su cui si

riflettono le entità ideali, che lo priva di qualsiasi funzione costitutiva e fa della

dimensione che gli è più propria, quella comunicativa, il luogo dell’equivoco640, in

forza della corporeità non più diafana del segno. L’affermazione secondo cui per

Husserl “il momento della crisi è sempre quello del segno”641 va letta intendendo

quest’ultimo come significante, marca, mero segno, e riferita al suo emergere in

primo piano nei contesti comunicativi in cui, non a caso, agisce come indice642 ed

è quindi ben lungi dal (poter) esser neutralizzato643.

640 L’assenza di una funzione costitutiva del linguaggio fa tutt’uno con la messa da parte della dimensione comunicativa e il correlativo privilegio accordato al monologo interiore,. Laddove infatti il linguaggio verrà visto non solo come costituito bensì come costituente sarà la comunicazione a venire in primo piano e quindi l’intersoggettività, a scapito del solipsismo: « Poiché riconoscere nel linguaggio ciò che costituisce l’oggettività ideale assoluta, tanto quanto la esprime, non è forse un altro modo di annunciare o di ripetere che l’intersoggettività trascendentale è condizione dell’oggettività? »; J. Derrida Introduzione a Husserl “L’origine della geometria” cit., p.132 641 J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.119642 Su questo punto cfr. anche V. Costa Volerne sapere. Intenzionalità e produzione del significato in J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.162. 643 Sulla scorta di Derrida Costa rileva la debolezza del primato assegnato al monologo interiore dalle analisi husserliane - e conseguentemente le difficoltà di ottenere la reclamata trasparenza per i segni. Tenendo soprattutto conto degli sviluppi successivi alle Ricerche logiche egli riscontra l’impossibilità di un uso univoco del segno linguistico, poiché nel linguaggio, sia parlato che scritto, non si fa altro che iterare marche di cui si ignora la provenienza, in virtù del rapporto passivo che il parlante ha con la lingua (V. Costa Idealità del segno e intenzione della filosofia di E. Husserl cit., pp.264-67). In tale maniera l’idealità del significato si rivela condizionata da quella del significante (ivi, p.264) con conseguenze deleterie per l’univocità del senso, « se ciò che costituisce l’espressività del linguaggio è la forma ideale e se questa è il risultato degli atti di ripetizione » (ivi, p.267), vale a dire se l’idealità del significante è costituita come effetto retroattivo degli atti di ripetizione (ivi, p.265; su questo punto cfr. anche id. Volerne sapere. Intenzionalità e produzione del significato in J. Derrida La voce e il fenomeno cit., p.166). I rilievi di Costa, acuti e senz’altro pertinenti nel novero più ampio della riflessione sul segno nel Denkweg husserliano, hanno anche il merito di far risaltare per contrasto la posizione husserliana nelle Ricerche. Proprio perché l’accento è posto in via esclusiva sull’idealità dei significati come specie, sulla loro validità che prescinde da qualsiasi linguaggio costituito ed è in tal senso pre-linguistica, l’idealità del significante è subordinata a quella del significato, sì da consentire la posizione di privilegio al monologo interiore così come il richiamo alla trasparenza del mero segno. Derrida stesso - nell’atto di ridimensionare il contrasto che Merleau-Ponty riscontra in merito alla concezione del linguaggio tra le Ricerche e i testi successivi, Logica formale e trascendentale e Origine della geometria in primis (cfr. M. Merleau-Ponty Signes, Gallimard, Paris, 1960, trad. it. Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, pp.117-18) - sottolinea come la funzione del linguaggio nelle Ricerche, che Merleau-Ponty definisce accessoria, sia riconducibile a una fase preliminare della filosofia husserliana, dove per l’appunto l’accento andava posto sulla « autonomia degli oggetti ideali costituiti nei confronti di un linguaggio esso pure costituto » (J. Derrida Introduzione a Husserl “L’origine della geometria” cit., p.130).

233

L’interesse per la logica, o ancor meglio l’intento fondativo che lega i

Prolegomeni alle Ricerche, delinea la fisionomia della fenomenologia agli albori e

orienta la riflessione semiotica sul mero segno, determinandone i caratteri.

Definire il ruolo del segno a riguardo del significato logico come “segnatura” ne è

la prova, perché dà la misura di come esso debba essere inteso in ragione della

fenomenologia che lo concerne, vale a dire come un supporto in cui il significato

si rivela senza però costituirvisi, nel quale le sue categorie e forme si rispecchiano,

donde la diafanità che ne rivela la neutralizzazione. Se perciò la fenomenologia

delle Ricerche logiche appunta il suo sguardo in via pressoché esclusiva su un

siffatto ambito, sulle entità della logica pura, sui significati ideali e quindi sugli

atti in cui essi si particolarizzano, i segni linguistici sin rivelano per così dire le

sue lenti, perché è attraverso di essi che nelle intenzioni significanti si individua il

significato644, sì che soltanto per loro mezzo è possibile affisarlo, supporti

traslucidi che proprio nel passare inosservati adempiono efficacemente alla loro

funzione.

In conclusione vorremmo suggerire una possibile rivisitazione delle

tematiche sin qui trattate alla luce degli sviluppi successivi della riflessione

husserliana, nell’alveo cioè della fenomenologia trascendentale che si annuncia in

Idee e delle questioni che solleva in rapporto al linguaggio - diverse e di una

problematicità ancor più radicale di quella finora emersa, pur se soltanto nella

forma dell’accenno, a proposito del rapporto fra espressione ed espresso.

Questioni che non concernono perciò il rapporto fenomenologico tra gli strati

espressivo e pre-espressivo perché ne sono invero a monte, riguardano cioè il

costituirsi della fenomenologia medesima come teoria, che dev’essere comunicata

per venir intesa e compresa: si tratta in altri termini del ruolo e della natura che il

linguaggio assume per la fenomenologia trascendentale nel suo esporsi.

Innanzitutto, in quanto essenzialmente espressione, si scopre come

mezzo volto per l’appunto a esprimere un significato già altrove costituitosi; a

questo però si aggiunge il suo carattere esclusivamente mondano, in quanto è nel

mondo che si manifesta ed è del mondo che parla, le parole che lo costituiscono

sono perciò mondane, come è stato giustamente sottolineato645. Il linguaggio 644 Husserl a dire il vero reclama la traduzione intuitiva dei significati al fine di coglierli in maniera chiara e inequivoca L’intuizione però non mette fuori gioco l’intenzione significante e con essa i segni in cui si compiono, ma le offre il suo riempimento (E. Husserl Ricerche logiche Vol. I cit., pp.338-40), trattandosi dell’unità fenomenologica fra gli atti in cui si costituisce la conoscenza 645 E. Fink Die phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, in Studien zur Phänomenologie, Den Haag, Nijoff 1966, trad. it. La filosofia fenomenologica di

234

perciò non puo’ mai esser trascendentale, è sempre parte attiva e integrante

dell’atteggiamento naturale, per cui anch’esso viene trasceso, salvo poi dovervi

ricorrere per dar voce alla teoria fenomenologica. Da ciò si deve concludere che

non potrà mai esprimere il significato trascendentale, anche perché i suoi

significati sono sempre categoriali mentre la sfera ridotta della soggettività

trascendentale, in quanto origine, è il dominio del pre-categoriale, come mostrato

peraltro dalla messa fuori circuito della logica pura646.

Viene allora da chiedersi qual genere di significato sia quello

trascendentale, se non puo’ dirsi categoriale, poiché i significati linguistici in cui

si esprime necessariamente una teoria, una filosofia, sono per l’appunto

categoriali e mondani647. L’epochè in cui si realizza la riduzione mette fra

parentesi il linguaggio medesimo in cui la teoria fenomenologica ha la sua

condizione di possibilità in quanto teoria: è questa la paradossalità in cui si dibatte

il corpus teoretico fenomenologico. Ed è per questo che il linguaggio, se è

condizione di possibilità della fenomenologia in quanto teoria, non lo è di essa in

quanto atteggiamento; ed è per questo allora che il linguaggio non potrà che esser

mezzo, in quanto per l’appunto non costituente e luogo di mediazione.

Comprendere la fenomenologia non consiste allora nell’attenersi al testo e ai

significati espressi, comprensione che inchioderebbe nella dimensione mondana

che si deve trascendere; le parole qui, più che segni espressivi, assomigliano a

degli indici, in quanto più che esprimere un significato additano, rinviano verso

una dimensione altra, indicano una via che chi vuol comprendere deve

necessariamente seguire, la via cioè della riduzione fenomenologica.

La situazione che qui si delinea è allora ben diversa da quella vista a

proposito delle entità logiche, dei significati ideali, anch’essi pre-linguistici, pre-

espressivi. Questi infatti trovavano nell’espressione il luogo in cui realizzarsi per

la coscienza, potevano e dovevano invero essere espressi tanto da costituire il

segno linguistico come tale. Nel caso invece dell’atteggiamento fenomenologico

Edmund Husserl nella critica contemporanea in E. Fink Studi di fenomenologia 1930-1939, Lithos, Roma 2010, p. 234646 Cfr. E. Husserl Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Vol. I cit., § 59647 « L’inadeguatezza di ogni resoconto fenomenologico, che ha il suo fondamento nell’espressione mondana di un senso non mondano, non potrebbe trovare rimedio neanche con l’invenzione di un linguaggio tecnico….La proposizione fenomenologica ospita in sé, per una necessità essenziale, un conflitto interno tra il significato letterale mondano e il senso trascendentale che viene alluso »; cfr. E. Fink La filosofia fenomenologica di Edmund Husserl nella critica contemporanea Studi di fenomenologia 1930-1939 cit., p.236

235

fondamentale non si ha semplicemente a che fare con una dimensione pre-

espressiva che condiziona l’espressione, bensì con quanto a rigore non puo’

affatto essere espresso, perché fenomenizzandosi in una dimensione mondana si

occulterebbe piuttosto che mostrarsi. In forza di questo le parole non possono

esprimerlo come fanno con i significati logici bensì limitarsi a indicarlo come

dimensione non mondana, per così dire di lontano648.

La teoria fenomenologica diviene quindi nella sua esposizione

un’indicazione di metodo, comprenderne le parole non equivale soltanto

all’afferramento del loro significato necessariamente mondano, poiché questo è

solo lo stadio iniziale che deve condurre oltre sé, alla realizzazione della

riduzione. La soggettività trascendentale, tematica centrale della fenomenologia,

non viene qui a rigore intesa, significata, ché questo ne farebbe un essente

mondano; piuttosto viene indicata, come una meta raggiungibile solo attraverso

un mutamento d’atteggiamento, indicata perciò così come si indica un luogo

additando la via che vi conduce; e affinché vi sia un approdo, la via deve essere

percorsa, deve cioè esser attuata la riduzione, per cui l’esposizione della

fenomenologia - se vuol davvero adempiere al dovere della comprensione, che ne

motiva la genesi - deve condurre alla realizzazione dell’atteggiamento

trascendentale, in quanto è solo come esperienza personale che la fenomenologia

puo’ esser compresa; o, per usare le parole Eugen Fink

senza avere esperienza personale di questo superamento e oltrepassamento

[quello cioè dell’atteggiamento naturale], nessuno puo’ ottenere un reale accesso alla

filosofia fenomenologica649

648 Nei termini husserliani sin qui emersi si potrebbe dire che i lemmi utilizzati da Derrida per la differànce agiscano per l’appunto come indici piuttosto che come espressioni. Cfr. J. Derrida Marges – de la philosophie Les Edition de Minuit, Paris 1972 (trad. it. Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, pp.29-57)649 E. Fink Was will Phänomenologie Edmund Husserls? in , in Studien zur Phänomenologie, Den Haag, Nijoff 1966, trad. it. Che cosa vuole la fenomenologia di Edmund Husserl? in E. Fink Studi di fenomenologia 1930-1939, Lithos, Roma 2010, p.246. In un suo articolo Robert Sokolowski rileva la funzione indicante delle parole come loro parte costituiva e integrante. Soffermandosi in particolare sui segni grammaticali egli vi ritrova la funzione di segnali per la costituzione delle oggettività categoriali, in quanto invitano l’uditore a compiere i correlativi atti categoriali (R. Sokolowski Grammatik und Denken, in AA. VV. Sprache, Wirklichkeit, Bewuβtsein: Studien zur Sprachproblem in der Phänomenologie, Phänomenologische Forschungen, K. Aber Freiburg/München 1988, p.35). Sokolowski giunge così ad affermare che comprendere un’oggettualità categoriale – come i sincategoremi “e”, “o”, “è” – consiste nello svolgere l’attività corrispondente. Una funzione che invero le parole rivestono con maggiore pertinenza a proposito dell’atteggiamento fenomenologico, indicando cioè la via per la sua realizzazione.

236

Quanto qui esposto in verità conferma uno dei leitmotiv della

fenomenologia, riguardante la comprensione dei significati: in essa infatti

l’attenzione va sempre al vissuto conferente il significato, sia esso assieme a

quello costituente il segno per via di una innige Einheit o si presenti piuttosto

come termine di un rinvio semiotico. V’è però una sostanziale differenza, che

riguarda la peculiarità della situazione che fin qui abbiamo descritto. Nel caso

della retta comprensione di un’esposizione fenomenologica, sia essa scritta od

orale, non ci si richiama a un vissuto mondano, ovvero conferente un significato

mondano, sia esso empirico o ideale. Piuttosto, si attua un rimando che si acquieta

non in questo o quel vissuto, ma in un radicale cambiamento di atteggiamento, in

un’estraneazione da tutta la significatività mondana che sola consente la

comprensione, mondanamente paradossale, di quanto esposto; le parole lette o

ascoltate, nel loro inevitabile significato mondano, indicano, proprio per via di

questo, verso una differente prospettiva, che possono descrivere soltanto

mondanamente, pur essendo ultramondana. E che in un siffatto contesto le

espressioni funzionino come indici non puo’ naturalmente sorprendere, poiché di

natura comunicativa è il contesto della fenomenologia nel suo esporsi e costituirsi

come teoria.

Quella che in tal maniera si scorge è, a nostro avviso, la prospettiva più

adatta da cui riguardare il rapporto fra fenomenologia e linguaggio, poiché il ruolo

dei segni linguistici non è più indagato a partire da un ambito determinato a cui le

analisi fenomenologiche si rivolgono, ai sensi cioè di una fenomenologia

applicata, bensì a riguardo della fenomenologia come disciplina filosofica,

fondamento di ogni altra scienza, che ha appunto come suo campo d’indagine la

dimensione dell’incontrovertibile, dell’assoluto, di ciò che non puo’ non essere.

Una prospettiva che abbiamo qui soltanto potuto abbozzare, con l’auspicio di

esser perlomeno riusciti a mostrarne la valenza per eventuali e future analisi.

237

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