Pa-Jetta

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Giancarlo Pajetta Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. on. Giancarlo Pajetta Bandiera italiana Parlamento italiano Camera dei deputati Giancarlo Pajetta Luogo nascita Torino Data nascita 24 giugno 1911 Luogo morte Roma

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Politica

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Giancarlo Pajetta

Da Wikipedia, l'enciclopedia

libera.

on. Giancarlo Pajetta

Bandiera italiana Parlamento

italiano

Camera dei deputati

Giancarlo Pajetta

Luogo nascita Torino

Data nascita 24 giugno 1911

Luogo morte Roma

Data morte 13 settembre

1990

Professione Giornalista

Partito Partito Comunista

Italiano

Legislatura AC, I, II, III, IV,

V, VI, VII, VIII, IX e X

Gruppo PCI

Collegio Torino

Pagina istituzionale

Giancarlo Pajetta (Torino, 24

giugno 1911 – Roma, 13

settembre 1990) è stato un

politico e partigiano italiano.

Indice [nascondi]

1 La vita e la politica

2 Opere

3 Note

4 Altri progetti

5 Collegamenti esterni

La vita e la politica[modifica |

modifica wikitesto]

Gian Carlo Pajetta con

Nicolae Ceaușescu

Nato in una famiglia

benestante da genitori che,

pur non essendo iscritti al

partito, si dichiaravano

comunisti (il padre Carlo era

avvocato e la madre Elvira

Berrini era maestra

elementare), fin da giovane

espresse le sue idee

antifasciste, frequentando il

Liceo Classico Massimo

D'Azeglio di Torino e si

iscrisse al Partito Comunista

d'Italia. Per questo fu espulso

per tre anni da tutte le scuole

d'Italia nel 1927 e

condannato a due anni di

reclusione, che

rappresentarono per lui,

ancora minorenne, una prova

durissima.

Pajetta, da giovane, si formò

intellettualmente leggendo i

classici del movimento

operaio ed alcuni autori

anarchici. Nei soggiorni di

prigionia studiò le lingue,

lesse Einaudi, Gaetano De

Sanctis, Gentile, Croce,

Volpe, oltre a Verga e ai

romanzieri francesi e russi

dell'Ottocento.[1]

Nel 1931 andò in esilio in

Francia e con lo pseudonimo

di "Nullo" divenne segretario

della federazione giovanile

comunista, direttore di

Avanguardia e

rappresentante italiano

nell'organizzazione

comunista internazionale.

Nel 1933 fu inviato in

missione segreta a Parma

con l'obiettivo di convincere

alcuni membri del fascismo

ad abbandonare il regime,

ma fu scoperto dalla polizia

fascista il 17 febbraio dello

stesso anno: fu quindi

condannato a ventun anni di

carcere per "attività

eversiva". Dopo alcuni

trasferimenti carcerari (a

Roma fu detenuto con

l'amico Ercole Pace), venne

liberato a seguito della

caduta del fascismo il 23

agosto del 1943 e,

successivamente, prese parte

alla Resistenza partigiana,

entrando a far parte, con

Luigi Longo, Pietro Secchia,

Giorgio Amendola e Antonio

Carini, del Comando generale

delle brigate d’assalto

Garibaldi [2].

Nel 1944 fu nominato,

insieme a Ferruccio Parri ed

Alfredo Pizzoni, presidente

del Comitato di Liberazione

Nazionale dell'alta Italia: da

questa posizione intavolò

trattative diplomatiche con

gli alleati anglo-americani e

con il futuro Presidente del

Consiglio dei ministri Ivanoe

Bonomi. Divenne anche Capo

di stato maggiore (ovvero

vice-comandante nazionale)

delle forze militari partigiane.

Nel 1947 fu il protagonista

dell'occupazione della

Prefettura di Milano in

seguito alla rimozione del

prefetto Ettore Troilo, da

parte del ministro degli

interni Mario Scelba. Nel

1948 entrò nella segreteria

nazionale del partito, del

quale fu il responsabile esteri

(membro, tra l'altro, del

Consiglio di Presidenza del

Comitato Italia-Vietnam), e

ne fece parte fino al 1986,

anno in cui fu destinato

all'incarico, molto più

defilato, di presidente della

commissione di garanzia.

Fu deputato al Parlamento

nazionale dal 1946 fino alla

morte, e al Parlamento

europeo dal 1984. Morigerato

nella vita privata (viveva in

un piccolo appartamento di

un anonimo condominio di

via Monteverde), in

Parlamento e sui giornali

dell'epoca, Pajetta era noto

per la veemenza e la

causticità dei suoi discorsi: fu

lui che nella primavera del

1953 - durante la discussione

della cosiddetta legge truffa -

entrò a Montecitorio con una

riga di sangue che scorreva

dal capo, lamentando che un

cordone di "celerini [3] di

Scelba schierato davanti alla

Standa di via del Corso"

aveva impedito il passaggio

di alcuni deputati socialisti e

comunisti verso la Camera, e

che alla sua esibizione del

tesserino di parlamentare

avevano risposto

manganellandolo. Fino agli

anni sessanta capitò spesso

che alla Camera, nella foga

della discussione, saltasse

fuori dal suo banco per

andare ad "invadere" le

postazioni altrui ed era perciò

considerato anche una figura

"pittoresca" della politica

italiana di allora. Grande era

anche la sua capacità

oratoria che gli permetteva,

con una sola battuta, di

mettere in ridicolo il discorso

degli avversari politici. Per

questo era l'uomo di punta

del PCI durante le messe in

onda di Tribuna Politica, alle

quali parteciperà

assiduamente, contribuendo

a rendere celebri alcune

puntate di quella storica

trasmissione RAI.

Nel 1956 fu inviato dal

partito a Mosca insieme a

Celeste Negarville.

Fu più volte direttore de

l'Unità e, per breve tempo,

del periodico

politico-culturale Rinascita.

Esponente della corrente

riformista rappresentata da

Giorgio Amendola prima e

Giorgio Napolitano poi, fu

uomo di vivace intelligenza,

di grande abilità dialettica e

molto amato dai militanti

(come si vide, da ultimo,

nella grande partecipazione

di popolo al suo funerale). Fu

sempre assolutamente leale

verso il partito, inteso come

entità collettiva

rappresentata dai suoi

dirigenti, anche quando le

sue opinioni personali

divergevano dalla linea

politica espressa dai

segretari, prima Palmiro

Togliatti e poi Enrico

Berlinguer: di quest'ultimo

tenne comunque l'orazione

funebre, quando la sua morte

improvvisa lasciò il partito

stordito e in angoscia (i

militanti erano allora milioni),

proprio perché

universalmente riconosciuto

come l'uomo che in quel

momento ne rappresentava

meglio la storia e l'unità.

Enrico Berlinguer in primo

piano; alle sue spalle Pajetta,

Pietro Ingrao e Ugo Pecchioli

(di profilo); in ultima fila, a

sinistra Achille Occhetto, a

destra Davide Lajolo, detto

Ulisse

Nella sua veste di

responsabile delle relazioni

estere con i "partiti fratelli",

fu inviato al congresso del

PCUS del 1980 a Mosca ad

esprimere il dissenso del PCI

dalla politica di Breznev in

Afghanistan ed in Polonia, ed

in quella circostanza la sua

allocuzione fu fatta tenere

non nella sala del Congresso

al Cremlino bensì nella Casa

del Sindacato, dinanzi ad una

gelida platea che non

applaudì.

Fu lui ad accogliere il

segretario del MSI Giorgio

Almirante a Botteghe

Oscure[4] quando il leader

missino volle andare a

rendere omaggio alla camera

ardente di Berlinguer,

provocando una certa

sorpresa tra l'immensa folla

che attendeva di entrare.

Quattro anni dopo, alla morte

di Almirante nel 1988, fu lui

stesso a rendere omaggio

alla camera ardente dello

storico avversario politico,

suscitando anche in questo

caso una certa sorpresa. Al

momento della scelta del

successore di Berlinguer,

Pajetta era considerato ormai

troppo anziano per

partecipare alla guerra di

successione (ed inoltre egli

era molto caro al popolo del

PCI ma pochissimo al suo

gruppo dirigente) ed inutile

fu la sua opposizione al

progetto di Achille Occhetto,

ovvero la trasformazione del

PCI in Partito Democratico

della Sinistra.

La firma di Pajetta era

costantemente presente sulla

stampa comunista, sia su

l'Unità che su Rinascita. Ma

fu solo negli anni ottanta,

alla fine della sua carriera

politica, che, liberato (pur

controvoglia) dagli impegni

politici pressanti, cominciò a

scrivere libri, dalla forte

caratterizzazione

autobiografica. Pajetta morì

all'improvviso la notte del 13

settembre del 1990 nella sua

casa di Roma, di ritorno da

una Festa dell'Unità, prima di

vedere la fine del suo partito.

Il suo funerale fu

accompagnato dalle note de

L'Internazionale e di

Bandiera Rossa e la sua bara

fu seguita da una bandiera

rossa con falce e martello,

proprio come lui stesso

aveva sempre immaginato.

Alla cerimonia parteciparono

circa 200.000 persone, tra

cui pure il suo tradizionale

rivale, anche nel campo della

politica estera, Giulio

Andreotti. Miriam Mafai,

giornalista e scrittrice, è

stata per gran parte della sua

vita la sua compagna, dal

1962 fino alla morte.

Opere[modifica | modifica

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Lo scandalo dei mille miliardi

in Parlamento, con Gennaro

Miceli e Pietro Ingrao, Roma,

Editori Riuniti, 1963.

Socialismo e mondo arabo.

Rapporto presentato alla I

commissione del Comitato

centrale del PCI, febbraio

1970, Roma, Editori Riuniti,

1970.

I comunisti e i contadini, con

Gerardo Chiaromonte, Roma,

Editori Riuniti, 1970.

La lunga marcia

dell'internazionalismo, Roma,

Editori Riuniti, 1978.

I comunisti per la distensione

e il disarmo, Roma, Editori

Riuniti, 1979.

Le crisi che ho vissuto.

Budapest, Praga, Varsavia,

Roma, Editori Riuniti, 1982.

Il ragazzo rosso, Milano, A.

Mondadori, 1983.

Il ragazzo rosso va alla

guerra, Milano, A. Mondadori,

1986.

Note[modifica | modifica

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^ Roberto Gervaso, La

mosca al naso, Interviste

famose, Rizzoli Editore,

Milano 1980, p.71.

^ Vedi: Luigi Longo, I centri

dirigenti del PCI nella

Resistenza, Roma, Editori

Riuniti, 1973, pag. 38.

^ La "Celere", progettata

come "squadra" o

"compagnia", anche se poi

cresciuta al rango di reparto,

era la forza di pronto impiego

per l'ordine pubblico della

polizia (che allora si

chiamava ancora "Pubblica

Sicurezza"). Unità creata da

Giuseppe Romita nel primo

dopoguerra, fu dotata di

mitragliatrici pesanti ed

addirittura di mortai, e si

distinse come un vero e

proprio reparto di pronto

impiego militare, idoneo a

situazioni belliche, ed

utilizzato soprattutto in

occasione di manifestazioni

politiche.

^ Al civico 5 di via delle

Botteghe Oscure, vicino

Piazza Venezia, nel centro di

Roma, si trovava la sede

centrale del Partito

comunista italiano.