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Keynote speaker: Romano Luperini – L’intellettuale in esilio http://www.laletteraturaenoi.it/ MAURIZIO ACTIS-GROSSO è docente di Lingua, Letteratura e Civilizzazione italiane presso il Dipartimento di Italianistica dell'Università PARIS OUEST NANTERRE LA DEFENSE; autore di una tesi di Dottorato sull'opera omnia narrativa e poetica di Giorgio Bassani e di una tesi di Habilitation sulla tematica dell'esilio nella trilogia istriana di Fulvio Tomizza; specialista della letteratura del XIX-XX° secolo, dell'ebraismo italiano, delle identità minoritarie, dell'esperienza esiliaca e della trascrizione memoriale di tali tematiche in campo romanzesco di cui si fanno l'eco numerosi suoi articoli in proposito. Absrtact Anna Maria Mori e le metamorfosi del lutto esiliaco Autrice di una trilogia romanzesca imperniata sul dramma dell'espulsione della Comunità italiana da Pola nel 1946-47 e sulla dilaniante esperienza esiliaca che ne è conseguita, Anna Maria Mori rievoca in tre tempi memoriali le tre tappe psicanaliticamente individualizzate dello sradicamento dalla propria terra e le illustra letterariamente: alla fase iniziale della violenza e dell'urgenza dell'esilio ( Bora , 1999), assimilabile alla fase euforica della speranza di una terra d'accoglienza in Italia, si sostituisce la fase delusiva della crudele realtà a torto idealizzata che sfocia nell'idealizzazione a ritroso della patria perduta ( Nata in Istria , 2006) prima di concludersi nella disperante riconoscenza dell'impossibilità di una pacificazione definitiva del legame fra luogo di nascita ed identità propria ( L'anima altrove , 2012). Tale trilogia propone a livello letterario un riflesso speculare delle tappe psicologiche vissute: se Bora adotta le necessarie caratteristiche del resoconto storico atto a memorizzare i fatti all'origine del dramma e le reazioni epifaniche di una nuova coscienza di sè nel momento dell'imminente frattura, Nata in Istria si confà maggiormente al peso indispensabile del ricordo di quanto è stato perso in un tentativo di rielaborazione psichica degli antefatti esiliaci, quasi a mo' di un diniego della realtà mentre L'anima altrove , terza via tra resoconto storico e memorie familiari, trova nel concetto di "romanzo documentario", d'altronde ambientato evidentemente in una lunga seduta psicanalitica, la propria conclusione ossia la realtà finalmente riconosciuta di una ferita insanabile imposta dalla violenza della Storia. *** ELISA AMADORI è dottoranda in Interpretazione, filologia dei testi e storia della cultura presso l'Università degli Studi di Macerata, impegnata in un percorso di ricerca sul tema Lo smeraldo di Mario Soldati tra surrealismo e distopia . È intervenuta al Convegno internazionale, promosso dall'I.R.C.I., L'esodo giuliano-dalmata nella letteratura (Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013) con la relazione I testimoni muti , volta a indagare l'opera di

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Keynote speaker: Romano Luperini – L’intellettuale in esilio http://www.laletteraturaenoi.it/

MAURIZIO ACTIS-GROSSO è docente di Lingua, Letteratura e Civilizzazione italiane presso il Dipartimento di Italianistica dell'Università PARIS OUEST NANTERRE LA DEFENSE; autore di una tesi di Dottorato sull'opera omnia narrativa e poetica di Giorgio Bassani e di una tesi di Habilitation sulla tematica dell'esilio nella trilogia istriana di Fulvio Tomizza; specialista della letteratura del XIX-XX° secolo, dell'ebraismo italiano, delle identità minoritarie, dell'esperienza esiliaca e della trascrizione memoriale di tali tematiche in campo romanzesco di cui si fanno l'eco numerosi suoi articoli in proposito.AbsrtactAnna Maria Mori e le metamorfosi del lutto esiliacoAutrice di una trilogia romanzesca imperniata sul dramma dell'espulsione della Comunità italiana da Pola nel 1946-47 e sulla dilaniante esperienza esiliaca che ne è conseguita, Anna Maria Mori rievoca in tre tempi memoriali le tre tappe psicanaliticamente individualizzate dello sradicamento dalla propria terra e le illustra letterariamente: alla fase iniziale della violenza e dell'urgenza dell'esilio (Bora, 1999), assimilabile alla fase euforica della speranza di una terra d'accoglienza in Italia, si sostituisce la fase delusiva della crudele realtà a torto idealizzata che sfocia nell'idealizzazione a ritroso della patria perduta (Nata in Istria, 2006) prima di concludersi nella disperante riconoscenza dell'impossibilità di una pacificazione definitiva del legame fra luogo di nascita ed identità propria (L'anima altrove, 2012). Tale trilogia propone a livello letterario un riflesso speculare delle tappe psicologiche vissute: se Bora adotta le necessarie caratteristiche del resoconto storico atto a memorizzare i fatti all'origine del dramma e le reazioni epifaniche di una nuova coscienza di sè nel momento dell'imminente frattura, Nata in Istria si confà maggiormente al peso indispensabile del ricordo di quanto è stato perso in un tentativo di rielaborazione psichica degli antefatti esiliaci, quasi a mo' di un diniego della realtà mentre L'anima altrove, terza via tra resoconto storico e memorie familiari, trova nel concetto di "romanzo documentario", d'altronde ambientato evidentemente in una lunga seduta psicanalitica, la propria conclusione ossia la realtà finalmente riconosciuta di una ferita insanabile imposta dalla violenza della Storia.

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ELISA AMADORI è dottoranda in Interpretazione, filologia dei testi e storia della cultura presso l'Università degli Studi di Macerata, impegnata in un percorso di ricerca sul tema Lo smeraldo di Mario Soldati tra surrealismo e distopia. È intervenuta al Convegno internazionale, promosso dall'I.R.C.I., L'esodo giuliano-dalmata nella letteratura (Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013) con la relazione I testimoni muti, volta a indagare l'opera di Diego Zandel, esule di seconda generazione, e arricchita da un'intervista all'autore (Atti in corso di pubblicazione). Al XX Convegno AIPI di Salisburgo (settembre 2012), L'Italia e le arti, ha presentato l'intervento I veri film di Soldati sono i suoi romanzi (Atti in corso di pubblicazione). Ha partecipato al XIV Convegno MOD di Messina (giugno 2012), Sublime e antisublime nella modernità, con la relazione «Scire nefas, ridere licet»: gli esiti del Sublime nel romanzo distopico. Al suo percorso di formazione si aggiunge il diploma della Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica dell'Archivio di Stato di Perugia e l'abilitazione all'insegnamento per la classe di concorso A051. Ha conseguito a Perugia la Laurea di primo livello in Lettere moderne e la Laurea specialistica in Storia, filologia e analisi del testo letterario, discutendo, sotto la tutela del Professor Giovanni Falaschi, rispettivamente le tesi Autocensure e pentimenti in testi letterari editi prima e dopo la seconda guerra mondiale e Le commedie di Luigi Groto (1541-1585).

AbsrtactVerso estEsordirò con una dichiarazione: “Abbasso le frontiere”. In tutti i sensi, nel senso di abbassarle, fisicamente, e in senso politico.Lo dico da uomo la cui famiglia è stata attraversata dalle frontiere e – proprio a causa delle frontiere - dalla drammatica esperienza dell’esodo, con il suo calvario dei campi profughi. [...]Una terra [l'Istria] che si definiva proprio per questa sua originalità, di essere un punto di incontro di popoli diversi ma, straordinariamente qui, essendo autoctoni gli uni e gli altri, per molti versi, simili. Per cui uno, prima di essere italiano, croato o sloveno, si riconosceva innanzitutto istriano (Diego Zandel, Conferenza Dopo l'allargamento quali frontiere?, Gorizia, Kulturni Dom, 25/10/2003).

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L'intera opera di Diego Zandel, autore appartenente alla seconda generazione dell'esodo giuliano-dalmata, è attraversata dal senso della frontiera.Verso Est, il cui sottotitolo Racconti di oltre confine orientale e dell'Egeo con i ricordi del Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma già fornisce chiare indicazioni in tal senso, unisce le tre componenti biografiche dell’autore legate alla frontiera: l’esodo, la comunità di esuli del Villaggio, in cui la famiglia si trasferì poco dopo la sua nascita, e il cosmopolitismo greco, proprio della cultura della moglie, di madre greca, dell’isola di Kos.In questo contesto va inserita anche la scelta di dedicare all’autore bosniaco Ivan Andrić un saggio critico, del 1981, scritto a quattro mani con Giacomo Scotti e identificato da Cristina Benussi come conversione di Zandel al romanzo; così si esprime Lina Galli in merito: «Uomo di confine [Zandel] ha avuto la sensazione precisa dell’aldilà, specialmente della più lontana Bosnia, che domina tutti gli scritti dell’Andrić».L'intervento si arricchisce di riflessioni nate dal colloquio con lo stesso autore, intervistato per l'occasione.

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CHIARA BACOCCOLI è Dottore di Ricerca in Italianistica presso l'Università degli Studi di Perugia; è stata Visiting Student presso la Cambridge University. Si è occupata di aspetti della tradizione classica nel secondo Settecento italiano. Ha partecipato al al XIII Convegno Internazionale MOD “Memoria della modernità” (Napoli, 7-10 giugno 2011), con la relazione L’antico e l’attuale. e al Convegno “VI. Dies Romanicus Turicensis – Variante e varietà” (Zurigo, 27-28 giugno 2011) con un intervento dal titolo Vivere come Socrate, morire come Socrate. Ha collaborato con il contributo Vestire alla greca: toga, tunica e altro nella letteratura italiana del Settecento alla miscellanea Pensando tra gli oggetti. Dai Greci ai giorni nostri, Morlacchi 2012. Ha fatto parte del Comitato Organizzatore del Convegno Internazionale <<Già troppe volte esuli>>. Letteratura di frontiera e di esilio (Perugia, 6-7 novembre 2013).

AbstractMaestri nell’esilio. Un aspetto della ricerca di modelli classici nel XVIII secoloLa celebre frase di Carlo Cattaneo «E così Ugo Foscolo diede alla nuova Italia una nuova istituzione: l'esilio!>> è stata già da lungo tempo soppesata dalla critica e dalla storiografia: se da un lato la decisione di Foscolo segna certamente un punto di svolta nella visione politica ed individuale della vita in esilio, numerosi studi hanno ampiamente analizzato come la sua esperienza si inserisse in una rete preesistente di analoghe vicissitudini, in particolar modo concentrate nel decennio rivoluzionario (1789-1799). Resta tuttavia un problema aperto: quali fossero i modelli cui si rifacevano, prima di Foscolo, gli esuli italiani, e quali siano state le fonti che servivano agli espatriati per la costruzione di una propria identità personale e di gruppo; quali insomma le radici, gli snodi concettuali e la grammatica della loro discorso d’esilio. Dalla seconda metà del Settecento, infatti, ed in particolare durante il periodo rivoluzionario, l’interesse per la ripresa attiva di temi e figure dall’antichità classica si fa estremamente cospicuo, fornendo un serbatoio da cui trarre esempi e modelli teorici allo scopo di leggere e modificare attivamente la situazione politico-sociale del tempo.Il presente lavoro si propone anzitutto di evidenziare quali siano effettivamente state le fonti classiche predilette da scrittori in esilio nella seconda metà del XVIII secolo; in seguito, affronterà aspetti dei modi in cui tali autori riprendono gli elementi del mondo classico, tramite l’analisi di stereotipi, richiami più o meno espliciti, variazioni e innovazioni di temi tratti dalla tradizione greco-latina, allo scopo di gettare una maggiore luce sulla loro costruzione della propria immagine di ‘esiliato’.

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MAURIZIO BASILI è docente a contratto di Letteratura Tedesca e Lingua e Traduzione Tedesca presso le Università di Cassino e della Tuscia. Si è occupato in particolar modo di Letteratura Svizzera, pubblicando una monografia sullo scrittore Thomas Hürlimann e saggi sulle opere di Robert Walser. Per la casa editrice Portaparole ha inoltre curato e tradotto "La signorina Else" di Arthur Schnitzler. È di prossima uscita presso lo stesso editore una storia della letteratura elvetica dal 1945 ai giorni nostri.

AbsrtactLa figura di Hans Sahl, un esiliato tra gli esiliati

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Con questo intervento si vuole porre l'accento sull'intellettuale ebreo tedesco Hans Sahl, il quale nelle sue opere autobiografiche Memoiren eines Moralisten (Memorie di un moralista, 1983) e Das Exil im Exil (L'esilio nell'esilio, 1990) offre un quadro dettagliato delle principali figure della Exilliteratur, di quelle personalità, vale a dire, che durante il dodicennio nero e oltre, avverse alla politica hitleriana, abbandonano la Germania e l'Austria per continuare a vivere e far arte. Sahl può essere considerato "l'ultimo testimone" di quella generazione di scrittori ed è stato egli stesso un esiliato: si rifugia prima a Praga, Zurigo e Parigi, in seguito a New York. Il suo nome e la sua opera, però, non sono particolarmente conosciuti e anche i germanisti spesso gli riservano al massimo una citazione nelle note a piè di pagina dei loro scritti sulla letteratura del periodo nazista. Oltre all'esilio obbligato per sfuggire al regime, che lo accomuna ad altri scrittori dell'epoca, Hans Sahl vive però, al contempo, quello che percepisce come un esilio tutto personale — das Exil im Exil per l'appunto — dovuto al suo pensiero intellettuale che si manterrà sempre indipendente: lo scrittore avverte come negativo non soltanto il nazismo, ma anche lo stalinismo, ideologia abbracciata da numerosi scrittori contemporanei — Anna Seghers ad esempio — e si dice convinto che la libertà dello spirito e dell'espressione umana siano un bene prezioso e che una stampa e una letteratura indipendenti, responsabili, prive di qualsivoglia costrizione ideologica, siano condizioni fondamentali per lo sviluppo umano e la lotta ideologica. Partendo dalle sue opere, in particolar modo dagli scritti autobiografici, con tale proposta si vuole offrire un quadro di questo doppio esilio di Hans Sahl e cogliere il pretesto per accennare ad altre figure di esiliati tedeschi e austriaci su cui l'autore stesso si sofferma.

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MARIA BORIO si è laureata in lettere moderne. Ha scritto su Vittorio Sereni e Eugenio Montale e ha pubblicato la monografia Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (2013). Collabora a «Allegoria», «Moderna», «La Rivista di Letteratura Italiana», «Studi novecenteschi», «Strumenti critici». E' redattrice di www.leparoleelecose.it, www.laletteraturaenoi.com (Palumbo editore) e di "Nuovi Argomenti" (www.nuoviargomenti.net). Attualmente svolge un dottorato di ricerca in letteratura italiana presso l'Università per stranieri di Siena e si occupa di poesia italiana del Novecento.

AbstractPrima e dopo l’11 settembre: esperienze di frontiera nell’Occidente raccontato dalla poesia italiana contemporanea Il mio intervento si propone di analizzare la rappresentazione che è stata data dalla lirica italiana contemporanea a esperienze di frontiera, intese in particolare come forme di violenza e di guerra, rispetto al clima di “pace occidentale” che ha caratterizzato, più o meno uniformemente, la fisionomia complessiva delle società d’Occidente nell’arco temporale che va dagli anni Novanta all’11 settembre 2001 e che è stato poi completamente infranto. Riprendo l’espressione “pace occidentale” dalla seconda raccolta di Antonella Anedda (Notti di pace occidentale, 1999), che ha descritto la percezione del lato notturno del clima di serenità democratica in una stagione storica dominata dalle propulsioni liberiste sganciate dagli entusiasmi degli anni Ottanta. Mi concentrerò sul modo in cui la poesia sia riuscita a dare rappresentazioni liriche tragiche di una frontiera oscura, filtrata da mezzi di comunicazione sempre più sofisticati e diffusi, attraverso varie tipologie formali: le forme chiuse usate da Franco Fortini in Composita solvantur (1994), le forme libere di Antonella Anedda, la poesia-saggio di Franco Buffoni in Guerra (2005). Nel rapporto tra queste raccolte si vedrà non solo l’uso di vari strumenti retorici, ma anche un rafforzamento icastico e ineludibile della violenza come esperienza che, da una percezione di frontiera negli anni Novanta (le immagini della guerra del Golfo, ad esempio, creano uno shock mediatico, ma non stravolgono la sostanza delle vite private: cfr. Composita solvantur), arriverà a imporsi dopo l’11 settembre come introiezione quotidiana e psichica del dramma, che i mezzi di comunicazione rendono continuamente disponibile. La presenza icastica, quasi paradigmatica della violenza e, soprattutto, di denuncia che non scade nel moralismo, se confrontata con la liberalizzazione estrema e incondizionata delle sue immagini massmediatiche, è rappresentata in particolare dalla poesia-saggio di Guerra.

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MARIA ESTHER BADIN è Ordinario di Letteratura Italiana presso la Facultad de Filosofía y Letras, Universidad de Buenos Aires; responsabile del Seminario de “Lectura Dantis” e della cattedra ‘Giacomo

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Leopardi’; direttrice dell'Area d’Italianistica; membro delle Maestrie di ‘Teatro Latinoamericano y Argentino’ y ‘Letterature Straniere comparate’; visiting Professor (Università degli Studi ‘La Sapienza’, Tor Vergata, Witswatesrand, South Africa, Perugia,Cagliari). Ha pubblicato parecchi volumi, saggi e articoli nel paese e all’estero.

AbsrtactMigrazione e teatroL’idea di frontiera rimanda, in primo luogo “ad esperienze geograficamente e storicamente determinate” ..luoghi e culture fronteggiandosi lungo barriere concrete.” La letteratura di confine o esilio in senso esistenziale e morale: patimenti e ingiustizie esite sin dall’ origine dei tempi. Oltre ai testi bibblico-religiosi, c’è un Dante esule ‘inacettato’ a pocchi km di Firenze; e un Consolo diviso tra due sponde: Sicilia e Milano frontiere limite di un’unica Italia che, travagliattamente arrichisce l’identità. Difficile determinare le frontiere di un artista: sia chi scappa-adotta un altro paese un’altra lingua. Mentre Amélie Nothombun si confessa straniera nel Giapone natale e nella scrittura scoprirà che: “Gli altri sono la frontiera”, il limite; c’è chi si permette un’ idea felice tra patria-esule che ha a che fare con esperienze culturali più che geografiche: spazio interiore, coesistenza delle diversità che non si ‘fronteggiano’ mai, non sono barriere, dice Borges:

me gusta pensar que soy un escritor europeo en el exilio. Ni hispánico ni americano ni hispanoamericano, sino un europeo expatriado.

Il nostro contributo punta a mettere in rilievo le profonde esperienze raccolte dal teatro argentino sulle problmatiche del fenomeno immigrazionale italiano, vedendo oltre al sainete- grottesco, altri aspetti di queste opere comico-drammatiche ancora vive. Non solo residuo temporale - esistenza che oggi non si potrebbe spiegare - ma continuità che risulta da una compromissione critica e riflesione sociale aggiornata su basi odierne.Più che La Nonna (1977), ormai nota si osserverano altri testi, altri aspetti che riguardano (diamo adesso solo un’ essempio) la ‘doppia emmigrazione’ raccogliendo un’altro dramma: una nuova pena di contrapasso (Roberto Cossa: Gris de Ausencia. 1981).

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VALENTINO BALDI è lecturer in letteratura italiana e letterature comparate presso la University of Malta. La sua ricerca segue due linee principali: quella del modernismo italiano, con particolare attenzione rivolta a Svevo, Pirandello, Gadda, Joyce e Kafka; e quella del rapporto tra letteratura e psicoanalisi (in particolare Freud e Matte Blanco). Ha pubblicato il suo primo libro per Marsilio, nel 2010: Reale invisibile. Mimesi e interiorità nella narrativa di Pirandello e Gadda. È in uscita il suo secondo libro:Psicoanalisi e letteratura, Guida, Napoli. Fa parte della redazione di Allegoria e del blog La letteratura e noi, diretto da Romano Luperini.

AbstractTerre desolate. Apocalissi ed esilio in The Road di McCarthyQuesto progetto si confronterà con la narrativa di Cormac McCarthy ed in particolare con uno dei suoi romanzi più celebri, The Road, pubblicato nel 2006. Se il tema della frontiera è sempre stato centrale nei romanzi dello scrittore americano (The Border Trilogy, 1990), con The Road McCarthy sembra ridefinire i termini della propria scrittura, cancellando uno dei punti saldi dei suoi romanzi precedenti: l’equazione che permetteva di accostare il mito della frontiera con un percorso di formazione. Nichilista, fuori dal tempo e sospeso in uno spazio grigio e cadente, The Road diventa metafora di un nuovo concetto di frontiera, che lo scrittore approfondisce nel suo testo teatrale Sunset Limited, messo in scena per la prima volta nell’anno di pubblicazione del romanzo. Nel viaggio epico ma anche assurdo dei protagonisti di The Road si individueranno le caratteristiche di una scrittura apocalittica ed allegorica in cui è l’umanità tutta che sembra posta in una situazione di esilio da se stessa.

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ESTEFANÍA BOURNOT studied German and Romance Philology at the Universities of Barcelona, Tübingen and Zürich. She was visiting lecturer at the Westfälische Wilhelms-Universität Münster in 2011

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and is now completing her Phd. about travel in contemporary Latin American writers at the Potsdam Universty under the direction of Prof. Ottmar Ette.

AbstractGamboa y Neuman: escrituras desde el margenEn mi ponencia pretendo centrarme en la obra de Santiago Gamboa y Andrés Neuman, como ejemplos simbólicos de una tendencia en la literatura latinoamericana actual que se extiende más allá de las fronteras nacionales y ofrece una nueva perspectiva del panorama de las letras hispanoamericanas en lo que va del S. XXI. El movimiento es un parámetro fundamental para comprender a estos dos autores y muchos otros que, en la misma estela, han hecho del viaje, la emigración, y la experiencia “transfronteriza” uno de los motivos centrales de su escritura.Escritas desde una perspectiva histórica muy diferente a la de los autores del boom y los clásicos de las vanguardias de la primera mitad del XX, las obras de Gamboa y Neuman se inscriben más bien en la dinámica de un mundo globalizado que, bien sea a través de los medios de comunicación o posibilidades de movilidad mucho más accesibles, ha suprimido en gran parte esas fronteras que escindían a la población en dos realidades antagónicas (centro/ periferia). Tal y como señala Ette (2001), la literatura contemporánea no está ligada necesariamente a una conciencia supraindividual de estado / nación / lengua, sino que es una literatura “sin residencia fija”, entre mundos, culturas y lenguas diferentes. Es necesario pues aportar una nueva terminología y estructuras de análisis que se adapten a la pluralidad y “movilidad” de esta estas producciones más recientes, para no reducir su significado a través de clasificaciones o etiquetas simplistas.En relación a esto, los estudios antropológicos de Clifford (1997) y los recientes aportes de Ludmer (2010) y Aínsa (2012) acerca de la reconfiguración del espacio en la literatura contemporánea en Hispanoamérica pueden arrojar cierta luz sobre las escrituras producidas “desde los márgenes”, en las que ya no cabe la pregunta “where are you from?” como “where are you between?”(CLIFFORD, 1997).

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JOHN BUTCHER ha conseguito il PhD presso l'University College London. Ha svolto ricerche post-dottorato presso le Università di Pavia e di Roma "La Sapienza". Ha pubblicato saggi e articoli sulla letteratura italiana del Quattrocento, Ottocento e Novecento (Boiardo, Gnoli, Aganoor Pompilj, Montale, Domenico Rea). Attualmente è in corso di preparazione una monografia sui "Pastoralia" di Matteo Maria Boiardo.

AbstractGli Epigrammata di Michele Marullo, autobiografia di un esule greco Michele  Marullo  nacque  a  Costantinopoli  intorno  al  1453,  anno  della  caduta  della  capitale bizantina.  Con  la  famiglia  si  trasferì  prima  in  Dalmazia,  poi  ad  Ancona  e  infine  a  Napoli,  dove si  formò  in  stretto  contatto  con  Giovanni  Pontano  e  Jacopo  Sannazaro,  presto  elevandosi  tra  i maggiori  poeti  umanisti  di lingua latina.  I  quattro libri  di  epigrammi  (Firenze,  Societas Colubris, 1497) narrano la vita e le vicende sentimentali di un io sofferente. Accanto alla tematica amorosa, campeggia in primo piano quella dell’esperienza dell’esiliato, di un uomo a cui scorreva nelle vene il sangue dei re di Dime ma che si trovò spinto ad allontanarsi dalla patria e a condurre la propria esistenza oltremare, indotto a un vagabondaggio senza fine. Gli epigrammi di Marullo trattano della patria  perduta,  delle  frustrazioni  dell’esule,  dando  voce  a  un’aspirazione  di  riscatto  intimamente sentita.  Nell’edificare  un’immagine  sfaccettata  di  esule, il  poeta  esplora la  propria identità  scissa e  riannoda  le  fila  di  una  ferita  mai  rimarginatasi.  Alle  sollecitazioni  derivanti  dai  classici  della letteratura latina,  soprattutto  dalla  produzione lucreziana  e  catulliana,  si  uniscono  varie istanze  di novità,  in  modo  tale  da  fare  del corpus epigrammatico  marulliano  una  testimonianza  unica  della vita di un uomo tormentato da un sentimento di disorientamento e di smarrimento interno. La mia relazione si propone di indagare le forme e i modi di questa autobiografia in versi, sottolineandone insieme gli tratti più caratteristici e quelli più originali nel quadro generale della letteratura di esilio.

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GIUSEPPE ANTONIO CAMERINO Professore Emerito di letteratura italiana, relatore in innumerevoli convegni internazionali, ha tenuto lezioni  anche in numerose sedi estere, ed è statoGastprofessor in

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Germania (Heidelberg) e Visiting Professor e professore onorario (dal 2001 al 2004) nel Regno unito (Hull). È condirettore di “Aghios. Quaderni di studi sveviani”, membro dell’Advisory board di “Annali di Italianistica” e presidente dell’Edizione nazionale delle opere di Italo Svevo, istituita dal Ministero dei BB. CC. LL. E’ socio ordinario dell’Accademia Nazionale dell’Arcadia, di Villa Vigoni Centro Italo-Tedesco e dell’Accademia Pugliese delle Scienze. Ha dedicato volumi al Settecento, al linguaggio di Alfieri e  Leopardi e numerose analisi a Dante e a molti antichi e moderni. Ha pubblicato volumi e saggi   su Svevo scrittore della Mitteleuropa, sulla presenza di Nietzsche in Slataper, Campana e Saba, su Michelstaedter. Ha anche portato alla luce lettere di Pellico, Carducci, Svevo, d’Annunzio, Slataper, Cardarelli e Montale. AbstractLe frontiere di Trieste e la posizione di SlataperAnche attraverso l'analisi di qualche testo epistolare di fondamentale importanza, finora rimasto nell'ombra, si viene a documentare come il pensiero politico-culturale di Scipio Slataper negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale è molto lontano, a differenza di quanto non sia stato finora considerato, rispetto a quello degli altri letterati e collaboratori della "Voce" prezzoliniana, legati a scelte interventiste di forte stampo nazionalistico. Il sogno di Slataper, simile per molti versi a quello di pochissime altre menti illuminate della Trieste 'austriaca' (il socialista Vivante, i fratelli Stuparich) di veder sorgere sulle ceneri della vecchia monarchia austroungarica una libera confederazione di popoli, fedeli alle proprie identità culturali ed etniche, ma liberi e apertissimi agli scambi in ogni campo dell'attività umana, sarà purtroppo infranto dai brutali e terribili eventi che si susseguono velocemente dopo l'assassinio di Sarajevo.

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FLORIANA CALITTI è Professore associato (L-Fil-LET/10;10/F1) Università per Stranieri di Perugia (dal 2006), dove insegna Letteratura italiana, Didattica del testo letterario e Letterature comparate nei Corsi di Laurea e Laurea magistrale, è membro del Collegio ristretto del Corso di dottorato di ricerca “Scienze letterarie, librarie, linguistiche e della comunicazione internazionale”, è delegato del Rettore per l’Assicurazione della Qualità di Ateneo e Responsabile Presidio della Qualità di Ateneo. Le sue ricerche si sono concentrate soprattutto sulla poesia del Rinascimento, sul dibattito teorico intorno all’imitazione, sulle diverse tipologie di petrarchismi e sulle questioni metriche (come quella legata all'ottava rima nel volume "Fra lirica e narrativa" 2004 o quello appena pubblicato su Luigi Baldacci: "Il petrarchismo scoperto da Baldacci", 2012) dando origine a diversi interventi critici in volumi miscellanei o in atti di convegni fino ai saggi per l’"Atlante della letteratura italiana" a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà (Einaudi 2010 e 2011). Gli studi sulla trattatistica rinascimentale sono confluiti nell'antologia "Arte della Conversazione nelle Corti del Rinascimento" 2003 che contiene, oltre ai testi commentati, un "Lessico della Corte", premesse, storia del testo, bibliografie. Un secondo filone di ricerca si concluderà con la pubblicazione di una nuova edizione del "Saggio sul Petrarca" di De Sanctis per l’“Edizione Nazionale delle Opere di Francesco De Sanctis” (“Il giornale dell'amore: De Sanctis legge Petrarca” 2008). Più di recente la ricerca triennale sulle «Biblioteche d'autore» l'ha portata alla catalogazione della biblioteca Pasolini in corso di stampa (già usciti alcuni saggi sul poeta e giornalista 2009 e 2010, di recente "Pasolini legge la 'Storia' di Elsa Morante" 2012 e un articolo sulla biblioteca di Gadda e Pasolini in via di pubblicazione) e all’indagine su “Biblioteche patrie” ( «Le biblioteche “patrie” degli scrittori: trasformazioni e tendenze fra Sette e Ottocento» 2012). Ancora, in chiave comparata il “topos” di Valchiusa (2003) e il saggio su montagna e letteratura identitaria italiana fra ‘700 e ‘800 (2010). E’ stata visiting professor all’università di Ain Shams, Il Cairo dove nello scorso anno ha partecipato ad un convegno per i Cinquant’anni dell’Italianistica a Il Cairo come membro del comitato scientifico e con una relazione su “L’ottica del deserto in Giuseppe Ungaretti” appena pubblicato. Cura la sezione Cinquecento della "RLI" e collabora al DBI e all’ "Enciclopedia Machiavelliana" Treccani.

AbstractPetrarca peregrinus ubique nelle letture di Giuseppe UngarettiPetrarca è uno dei modelli indiscussi (insieme con Leopardi e i petrarchisti per quanto riguarda la tradizione italiana) di Ungaretti ed è certamente, come dimostrano i saggi specifici sulla sua poesia, ma anche gli accenni en passant in alcuni scritti di viaggio, una fonte preziosa per la tematica che vede l’esilio, l’essere esuli e “peregrini ovunque” centrale in un percorso che potremmo definire come dalla finzione autobiografica (Petrarca) alla biografia poetica (Ungaretti). Nell’asse della lunga durata poetica italiana alla

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quale Ungaretti dichiara esplicitamente di aggrapparsi, come ci si aggrappa ad un’àncora, le immagini della propria autobiografia legate all’essere nato già sradicato, deraciné, esule, profugo, girovago, viandante, pellegrino, vagabondo come frutto di «innumerevoli innesti», trovano conferma e sostanza poetica anche in tutta l’opera di Petrarca: dall’autodefinizione di peregrinus ubique «Nullaque iam tellus, nullus michi permanet aer; incola ceu nusquam, sic sum peregrinus ubique» delle Epystole III, 19, 15-16 del titolo, fino a racconti sotto il segno dell’esilio e a paragoni con esiliati famosi come Ulisse o a una sradicata peregrinazione continua come indicato in Fam. I, 1 22, in un progetto di automitobiografia di forte impronta agostiniana, della solitudine, del silenzio. D’altra parte a questa tematica dell’esilio è spesso associata (e sempre presente ancora in Petrarca, pur partendo dalla classicità e da Dante) è la metafora correlata della petrosità, del deserto. L’ottica del deserto come chiave interpretativa, come topos ricorrente di tutta la produzione poetica e saggistica di Ungaretti e come strumento straordinario di creazione per analogia di immagini che accostano il beduino e il nomade del deserto con lo sradicamento della guerra. Il mare, il deserto, la lontananza e il miraggio, una costellazione di temi e immagini tutte strettamente correlate. Così come la pietrificazione, la petrosità della poesia di Petrarca (pietra, sasso, tomba) e il paesaggio carsico della guerra fanno un insieme omogeneo con la sua terra d’origine che lo ha visto nascere già esule, in una petrosa e friabile Alessandria d’Egitto (come la petrosa Itaca dell’Ulisse foscoliano già diventato mito da Dante a Petrarca fino ad Ungaretti o come l’errare alla ricerca di una Laura in un paesaggio nel quale Valchiusa si fa desertica, cfr. Egitto di sera) tra mura in cui «non ci si sta che di passaggio» come nella storia della classicità del viaggio di quell’esule ma predestinato Enea da cui mutua il suo alter ego femminile: l’africana Didone.

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GIOVANNI CAPECCHI è ricercatore di Letteratura italiana all'Università per Stranieri di Perugia. Si è occupato dell'opera di Giovanni Pascoli (con "Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli", del 1997, e "Voci dal 'nido' infranto. Studi e documenti pascoliani", del 2011, nonchè curando la raccolta delle "Prose disperse" nel 2004 e l'antologia "Giovanni Pascoli" per Le Monnier Università nel 2011) e ha pubblicato, tra l'altro,  i volumi "Palazzeschi e la leggerezza" (2003), "Lo scrittore come cartografo. Saggio su Marcello Venturi (2007) e "Lo straniero nemico e fratello. Letteratura italiana e Grande Guerra" (2013). E' autore di studi - su rivista e in atti di convegno - sulla letteratura risorgimentale.

AbstractNato all’esilio: Foscolo tra Zante e l’InghilterraL’intervento si propone di ripercorrere il periodo inglese di Foscolo, attraverso gli scritti (e, in particolare, attraverso le pagine di critica letteraria, tra le quali gli studi dedicanti al grande esule Dante) e utilizzando il materiale epistolare e documentario a disposizione, dando importanza anche alle testimonianze degli esuli che visitano Foscolo e che offrono importanti notizie sulla sua permanenza oltre Manica, tra realtà e ‘mito’, misera quotidianità e fondazione dell’istituto dell’esilio.L’esilio, in Foscolo, non coincide tuttavia con gli anni trascorsi fuori dall’Italia, dopo il marzo 1815, in Svizzera e poi a Londra. La sua biografia è scandita dalla perdita di un luogo, sempre raccontata come “esilio” in documenti privati e in testi letterari, da Zante a Venezia (esilio che sta alla base, tra l’altro, del notissimo sonetto A Zacinto), da Venezia a Milano (un esilio che trova la sua rielaborazione letteraria, per esempio, in In morte del fratello Giovanni e nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis), ma anche in seguito a trasferimenti e fughe da una città all’altra, in una continua erranza, tra Firenze, Genova, la Piccardia.

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FLAVIA CAPORUSCIO si è laureata in Lettere nel 2005 presso la Sapienza Università di Roma con una tesi dal titolo Una lettura comparata del Terzo Mondo: Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, nel 2011 è risultata vincitrice di una borsa di studio per il Dottorato di Ricerca in Italianistica presso la medesima università con un progetto su Cristina Trivulzio di Belgiojoso. I suoi campi di ricerca riguardano la letteratura comparata, le scritture femminili e la letteratura italiana dell’Otto-Novecento. Collabora con la «Rassegna della Letteratura italiana».

AbstractSouvenirs dans l’exil ovvero l’esilio come modus narrandi

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Il contributo vuole proporre una lettura dei Souvenirs dans l’exil (1850), la raccolta di lettere inviate dall’esule risorgimentale Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871) all’amica Caroline Jaubert, quale testo esemplare di una scrittura unhoused, che riflette la condizione di extraterritorial writer dell’autrice. La condanna all’errance, infatti, condivisa dalla scrittrice con più di una generazione di compatrioti impegnati nella causa indipendentista, rappresenta un terminus post quem che impone all’esule non soltanto una ridefinizione della propria identità ma anche una diversa declinazione della scrittura. La lente dell’esilio diviene allora la cifra unificatrice di un testo assolutamente ibrido come i Souvenirs, i cui ripetuti cortocircuiti spazio-temporali, che orientano la scrittura ora verso il passato ora verso il presente, senza soluzione di continuità, impongono alla scrittrice l’adozione di un modello narrativo aperto, che alterna scrittura diaristica e scrittura memorialistica. All’interno di tale architettura compositiva i senhal dell’esilio sono rintracciabili innanzitutto nella pratica di una scrittura che assume il punto di vista alienato e alienante connaturato allo straniamento geografico, nel rifiuto di una struttura narrativa tradizionale e nella conseguente adozione di una poetica del frammento.La condizione di dépaysement consente all’autrice di acquisire una inedita visione, quanto mai nitida, del passato e di operare un montaggio postumo dei momenti veramente significativi della sua vita, riletti sotto il segno dello strappo dell’esilio. Il binomio memoria-esilio, suggerito sin dal titolo, sorregge l’intera intelaiatura dell’opera, a conferma di quanto lucidamente intuito da Edward Said, secondo il quale «almost by definition exile and memory go together».

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SIMONE CASINI***

SANDRO CERGNA è ricercatore presso il Dipartimento di studi in lingua italiana dell’Università Juraj Dobrila di Pola (Croazia). Ha partecipato a vari convegni nazionali e internazionali, pubblicando saggi in libri e riviste specializzate. I suoi campi d’interesse scientifico riguardano la letteratura italiana, la poesia in dialetto d’area veneto-giuliana, l’influsso della psicanalisi sulla letteratura italiana del Novecento.

AbsrtactEsilio, testimonianza, letteratura nei Ricordi istriani di Giani StuparichDalle sensibili evocazioni del paesaggio istriano nel libro di memorie dello scrittore triestino, ciò che emerge e accompagna tutti i ricordi-racconti di Stuparich è un tono di appena soffusa malinconia, a tratti nostalgico, ma mai patetico, altre volte più acutamente doloroso, che scaturisce dalla disillusa e rassegnata presa di coscienza di un’irrimediabile, quanto ingiusta e sofferta perdita: la perdita dell’amato mondo della sua infanzia, l’Istria. La separazione della penisola istriana dalla Venezia Giulia e dall’Italia, che ha avuto come conseguenza l’esilio degli italiani dall’Istria nel secondo dopoguerra, la cancellazione – promossa dalle nuove autorità – di un patrimonio di storia, di cultura e tradizioni, è illustrata da Stuparich con una prosa fluida e coinvolgente, con calda partecipazione di chi quella terra l’ha conosciuta e sentita propria, senza però mai scadere nel mediocre o nel pietoso, senza cedere all’acrimonia o al rancore per l’ineluttabile perdita del locus amoenus. Dai Ricordi emergono ritratti di istriani illustri e di gente del popolo, schizzi di paesaggi di campagna e di mare, di cittadine e di borghi ammirati e frequentati dallo scrittore, rievocati in una loro dimensione quasi onirica, primigenia, e resi attraverso l’uso calibrato di un discorso che non raramente dal prosastico si eleva a fughe di delicata e limpida liricità. Nel lavoro, oltre ad evidenziare tali zone di contaminazione tra generi, si indagano e si portano alla luce i momenti di rottura intimi, psicologici e culturali provocati dalla delineazione e dall’erezione di un confine, mai prima esistito. Ad emergere, così, sono due spazi, due piani, paralleli e vicini ma scissi da uno iato quasi insuperabile: il mondo del noi e dell’al di qua, e il mondo del loro e dell’al di là del bloco: termine con il quale i triestini indica(va)no il confine, sorto subito dopo Muggia, con l’ex Jugoslavia.

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MARTINA DAMIANI E FABRIZIO FIORETTI sono assistenti al Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università Juraj Dobrila di Pola (Croazia), dove insegnano materie legate alla lingua e alla letteratura italiana. Frequentano gli studi dottorali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Zagabria

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dove stanno ultimando le proprie testi. Hanno partecipato a diversi convegni internazionali e pubblicato alcuni dei loro lavori. Oltre al comune interesse per la letteratura dell’Istria e della Dalmazia, Martina Damiani si occupa anche della commedia rinascimentale e dei gender studies, mentre Fabrizio Fioretti della letteratura popolare e in particolare della letteratura siciliana.

AbsrtactL’esilio degli intellettuali italiani dai territori asburgici: il percorso di Nani MocenigoGli intellettuali italiani dell’Istria e della Dalmazia si opponevano all’ingiusta politica asburgica che nella seconda metà dell’Ottocento favoriva gli interessi slavi a discapito di quelli italiani. Con tale intento, il letterato e giornalista zaratino Girolamo Enrico Nani Mocenigo fonda a Rovigno nel 1886 la rivista letteraria «La Penna», che accentua l’importanza di combattere per la propria identità culturale. La rivista serviva da tramite per inviare ai dominatori un forte messaggio sul valore intellettuale degli italiani nella regione che non poteva essere in alcun modo limitato. Non ottenendo dalle autorità l’effetto sperato, lo scrittore passa a Pola e fonda nell’ottobre del 1887 «Il Giovine Pensiero», bisettimanale politico in cui attacca direttamente i rivali nella lotta per la supremazia linguistica e culturale in Istria, gli slavi. Sospettato di irredentismo è costretto a esiliare in Italia, dove continua la sua carriera giornalistica e nel 1902 diventa direttore generale del «Corriere della Sera».L’esperienza del suo sradicamento dall’amata patria, si trova racchiusa nei suoi drammi e nello specifico in Una tempesta nell’ombra del 1899. Il protagonista dell’opera è uno scrittore colpito da cecità totale che soffre a causa dell’impossibilità di vedere i luoghi a lui cari e decide di raccogliere le sue dolorose memorie affinché non vengano dimenticate. Il rammarico del personaggio è alimentato dalla consapevolezza di essere stato privato della libertà tanto ambita, che gli fa percepire, con chiarezza, di essere ormai inutile. Tale sentimento sembra rispecchiare quello nutrito dall’autore che lontano dalla propria terra non poteva lottare per i diritti dei suoi concittadini.In Urla, urla!... Scene marinaresche del 1902, assistiamo invece a veri e propri sfoghi dei personaggi più umili che gridano la loro miseria, accompagnati dal mare in tempesta e dalle violente raffiche di vento che riflettono il loro stato confusionale di fronte a cambiamenti troppo rapidi. Le vicende turbolente dei pescatori che nel dramma sono inghiottiti dal mare, potrebbero essere quelle delle città litorali in cui Nani è vissuto, Zara, Rovigno e Pola, dove l’italianità osteggiata trascinava i suoi abitanti verso l’esilio.

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ILARIA DE SETA si è formata all’Università di Napoli Federico II e ha perfezionato gli studi all’University College Cork. Si è specializzata nell’indagine dello spazio nel romanzo dell’Ottocento e del Novecento: Nievo, Pirandello, Tozzi, Svevo, Tomasi di Lampedusa. È stata borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, con una ricerca su Borgese. Ha insegnato lingua e letteratura italiana presso UCC e altre istituzioni in Irlanda. Attualmente è Maître de conférences all’Università di Liegi.

AbstractAuto-esilio americano e World Republic nei diari inediti di Giuseppe Antonio BorgeseBorgese (1882-1952) trascorse all’incirca gli ultimi venti anni della propria vita negli Stati Uniti. La partenza, dovuta al dissidio con il fascismo, avvenne grazie all’invito della California University. Trovandosi nel Stati Uniti nell’agosto del ’31, non giurò fedeltà al governo fascista, spiegandone le ragioni nel ’33 e ’34 in due lettere memoriale a Mussolini. Il rientro, al termine della guerra, fu suggellato dal temporaneo ritorno all’Università di Milano. Il periodo americano, al di là dell’attività accademica, fu inagurato dalle corrispondenze per il «Corriere della Sera», poi raccolte in Atlante americano (1946, l’edizione del ’36 fu bloccata dalle autorità fasciste) e Città assoluta e altri scritti (1962, postuma) e si concluse nel nome di organizzazioni di portata internazionale e intercontinentale, quali il Committee to frame a World Constitution, che sfociò nell’opera Foundation of the World Republic (1953, postuma). I diari, tuttora inediti, testimoniano dei rapporti con la comunità di esuli italiani, come Lionello Venturi, Gaetano Salvemini e Arturo Toscanini, (e con l’antifascista Mazzini Society), ed europei, come Erich (von) Kahler, Herman Broch e Thomas Mann; nonché dei sentimenti contrastanti di Borgese riguardo alla vecchia patria e alla nuova terra di accoglienza. Basti pensare che l’ottenimento dell’‘american citizenship’ si tradusse, nella redazione diaristica, nel passaggio dall’italiano all’inglese. In questa relazione si intende dare conto delle tracce lasciate nei diari e in altri documenti di carattere autobiografico, relative alla condizione di «auto-esilio»: dalle amarezze nei rapporti con l’Italia (dalla famiglia alle istituzioni), all’entusiasmo con cui, animato dal

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desidero di superare i confini, le barriere, i limiti nazionali, intraprese il disegno utopistico: «the World Republic», che gli valse nel ’52 la nomina al Premio Nobel per la pace.

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ELIS DEGHENGHI OLUJIĆ è ordinaria di Letteratura italiana al Dipartimento di studi in lingua italiana dell'Università Juraj Dobrila di Pola (Croazia). Attualmente è direttore del Dipartimento e responsabile della Cattedra di letteratura italiana. È autrice di recensioni, prefazioni, di numerosi saggi scientifici e di critica letteraria pubblicati in volumi e riviste e curatrice di antologie. Il suo campo di ricerca privilegiato è la letteratura istro-quarnerina e la produzione letteraria degli Italiani che vivono in Croazia e Slovenia. In riviste, miscellanee, atti di convegni ha pubblicato saggi incentrati sull'analisi ed il commento critico delle opere di autori istro-quarnerini e su problematiche riguardanti la letteratura istro-quarnerina.

AbstractLa terra e le origini ritrovate: il ritorno in Istria, spazio fisico e interiore, di Anna Maria MoriCon un'analisi puntuale che s'incentra in particolare su due opere, Bora e Nata in Istria, l'intervento pone in rilievo la figura e l'opera di Anna Maria Mori, nata a Pola (Croazia), che ha lasciato bambina al termine della Seconda guerra mondiale. Giornalista di vaste esperienze e scrittrice affermata, ha lavorato dapprima alla radio, poi nei periodici femminili, alla terza pagina del «Messaggero» di Roma, e fino al 1995 come inviato di cultura e spettacoli a «la Repubblica», di cui è stata tra i fondatori. Ha collaborato con la televisione, per la quale nel 1993 e nel 1997 ha curato una serie di servizi sull'Istria, intitolati rispettivamente Istria 1943-1993: cinquant'anni di solitudine e Istria, il diritto alla memoria. La realizzazione dei documentari è stata l'occasione che le ha permesso di (ri)scoprire il legame con le sue radici istriane, e mantenere una promessa fatta alla madre: ritornare in Istria. Un'Istria alla quale si è accostata con maggiore passione dopo aver letto Una valigia di cartone di Nelida Milani. La lettura di Una valigia di cartone è stata illuminante almeno per tre ragioni: perché è un libro che parla dell'Istria, perché è scritto da una donna e perché le protagoniste dei racconti sono figure emblematiche dell'universo femminile istriano. Leggendo l'opera della Milani, la Mori ha capito che ne condivideva i sentimenti, ha sentito il bisogno di andare in Istria e a Pola, a conoscere quella scrittrice che aveva fatto scoccare dentro di lei la scintilla. Dall'incontro con la Milani è nata Bora, un'opera che racconta due esili contrapposti, ma sostanzialmente uguali. È la testimonianza autentica e sincera del dolore e del senso d'ingiustizia che prova chi subisce l'allontanamento forzato dalla terra in cui è nato. Ma è anche la testimonianza dell'intolleranza degli uomini per il diverso, e del dolore di chi resta a vivere nel proprio ambiente, ma lo vede mutare e deve adattarsi a un "nuovo" che si presenta devastante e dirompente. Nel 2006 Anna Maria Mori ha pubblicato per la Rizzoli Nata in Istria, un viaggio nella geografia e nella storia istriana, scritto in prima persona sul filo della memoria e dei sentimenti non solo per ritrovare le proprie origini, ma per far conoscere un mondo rimasto per troppo tempo nell'ombra, con tutto il suo patrimonio di cultura. Un mondo che, secondo la Mori, va comunicato non tanto a coloro che direttamente o indirettamente vi sono legati, ma agli altri, a tutti gli italiani che dell'Istria sanno poco o niente, e per i quali essa rappresenta solo una suggestiva destinazione turistica. Difatti, l'Istria è stata per più di mezzo secolo un buco nero nella coscienza italiana, una terra dimenticata e rimossa, insieme al suo carico di storia. Nata in Istria è un'opera particolarmente ispirata con la quale, passo dopo passo, la Mori si riappropia completamente, definitivamente e orgogliosamente delle sue radici istriane e dello splendore della sua terra, che nel tempo è stata teatro di molte dominazioni e di svariati influssi culturali, che ne hanno determinato la complessità. Nascere in Istria è perciò diverso che nascere in altri luoghi: «[…] è il destino di portarsi dentro, incomunicabile, segreta, quasi indicibile, una diversità che, quando la pensi, diventa un dolore e, come tutti i dolori veri, è persino fisico: una piccola fitta allo stomaco, il respiro che improvvisamente ti manca», spiega l'autrice. Esser nati in Istria ed essere istriani per la Mori vuol dire esser stati testimoni del dopoguerra più lungo e sanguinoso d'Europa, essersi sentiti stranieri nella propria terra, più d'una volta e in varie epoche. Ma nascere in Istria è anche un grande privilegio, perché vuol dire essersi bagnati nel mare più bello del mondo, custodire nella memoria paesaggi e colori unici, possedere un bagaglio di tradizioni, di miti, riti e leggende, portarsi dentro sapori e profumi mediterranei e mitteleuropei, che s'imprimono indelebilmente nella mente tanto da forgiare persino il carattere.

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MICHELANGELA DI GIACOMO, Dottore di Ricerca all’Università di Siena, Borsista presso l’Institut d’Estudis Catalans di Barcellona, è ora Cultore della materia presso il Ciscam- Università di Siena. Lavora sulle relazioni tra migrazioni interne, movimento operaio e trasformazioni urbane a Torino e Barcellona negli anni ’60. Vincitrice del premio della Presidenza della Repubblica/Fondazione Spadolini per la tesi di Dottorato nel 2012 e di quello del Senato della Repubblica per la tesi di Laurea del 2009. Ha pubblicato saggi tra gli altri in “Storiografia” (2009), “Studi Storici” (2010), “Memoria e Ricerca”(2012), “Dimensioni e Problemi della ricerca Storica” (2012), “Historia, Trabajo y Sociedad” (2013). Ha collaborato ad una ricerca sui partiti della sinistra europea per la Sciences Po University Press (Bruxelles, 2011).

AbstractFoggia-Torino solo andata. Codificazione dell’identità migratoria nelle memorie di due protagonistiLa migrazione interna degli anni Sessanta, senza attraversare frontiere geo-politiche, ha avuto nell’economia dello sviluppo italiano un ruolo di cesura analogo a quello delle più codificate migrazioni internazionali, dando luogo a veri e propri stati di esilio e clandestinità in patria per milioni di persone. L’inserimento in realtà sociali, geografiche, politiche ed economiche completamente differenti dal panorama conosciuto negli anni della maturazione e della formazione – l’abbandono di paesi rurali del Mezzogiorno per cercare una collocazione nelle città industriali del Nord-Ovest– è stato un processo fortemente conflittuale tanto per i singoli individui coinvolti nella migrazione che per le società di arrivo che da quei flussi si vedevano sconvolte. Attraverso canali di socializzazione dei più svariati – il quartiere, il lavoro, la parrocchia, l’associazione regionale, i partiti ed i sindacati – la fusione di sostrati culturali e sociali differenti ha avuto modo di generare una terza società in cui tuttavia non è mancata la persistenza e la generazione di una auto-rappresentazione di sé su base regionale dai caratteri fortemente codificati. Il paper intende proporre la lettura in parallelo di due narrazioni dell’esperienza migratoria dalla provincia di Foggia a Torino, entrambe con uno sbocco di militanza nel Pci, ma a diversi livelli culturali e di consapevolezza. La prima è la vicenda, raccontata più volte dal suo protagonista in interviste, libri giornali, dibattiti televisivi di Bonaventura Alfano, esponente di spicco della Cgil piemontese – si prenderanno in particolare in esame le sue memorie Mirafiori e dintorni (Ediesse, Roma, 1997). La seconda è il manoscritto autografo ed inedito delle memorie di Antonio Circiello, iscritto al Pci torinese, che nel 1988 mise nero su bianco la sua esperienza (è conservato presso l’Istituto Piemontese A. Gramsci). L’idea è che, per quanto si tratti di scritture diversissime per capacità narrativa (una di un semi-analfabeta, densissima di dettagli scabrosi; l’altra risultato di una consapevolezza del senso sociale della propria traiettoria personale di altissimo livello, dunque raccontata più volte secondo moduli narrativi ricorrenti), entrambe finiscono per rendere conto di un clima di costruzione della rappresentazione del “meridionale” mutuata molto dal contesto mediatico e solo in ultima analisi appoggiata su esperienze reali. Un gioco delle parti tra società di partenza e società di arrivo in cui ciascuno ha aggiunto qualcosa nella costruzione del paradigma del contadino trasformatosi di colpo in operaio della catena di montaggio. I due esempi, dunque, possono illustrare l’idea di una costruzione sottotraccia di un’épos della migrazione interna, di entità assolutamente minore rispetto ai canoni dell’esilio o della Grande migrazione transnazionale, ma non per questo meno densa di rappresentazioni stereotipe.

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NOVELLA DI NUNZIO si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Perugia con una tesi di impianto teorico da titolo Le teorie dell’oralità negli anni della crisi della critica, e ha conseguito il dottorato di ricerca in Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi di impianto ermeneutico dal titolo: Antinaturalismo del giovane Svevo. È stata visiting student presso la Toronto University (Department of Italian Studies). Ha collaborato con il Museo Sveviano di Trieste. Ha pubblicato saggi su Debenedetti, Auerbach, Michelstaedter e sulla narrativa modernista italiana (novellistica e romanzo). Attualmente collabora con l’Università di Perugia e con l’Istituto Italiano di Cultura di Vilnius. Pur continuando a lavorare su Svevo, sul quale ha in programma la pubblicazione di una monografia, ha allargato le sue ricerche alla narrativa italiana modernista degli anni Venti, Trenta e Quaranta, argomento sul

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quale ha cominciato a pubblicare nuovi saggi, tra cui un lavoro di prossima uscita su Rubè di Borgese e un altro sulla narrativa di Tommaso Landolfi.

AbstractLa funzione letteraria dell’ebreo erranteLa figura dell‘ebreo, storicamente e culturalmente simbolo dell‘esperienza dell‘esodo e dell‘esclusione, in epoca moderna, e in modo particolare tra la fine dell‘Ottocento e la seconda metà del Novecento, ha subito un nuovo processo di simbolizzazione che ha spostato l‘asse semantico da una dimensione storica, esterna e collettiva di popolo a una dimensione esistenziale, interiore e individuale. Un passaggio ancora ulteriore, specificamente novecentesco, ha poi aggiunto un valore letterario, tanto narrativo quanto critico a questa traslazione di significato. In altre parole, nel Novecento si assiste a un‘opera di stilizzazione dell‘ebreo errante (si pensi, tra gli altri, ad autori come Blanchot, Sartre e Gramsci), che porta tale figura ormai transtorica a costituire uno strumento particolarmente produttivo di creazione e di interpretazione. Giacomo Debenedetti è il critico italiano che dimostra più consapevolezza rispetto a questo fenomeno, sia dal punto di vista operativo, nell‘utilizzo per esempio dell‘ebreo come chiave da una parte per la realizzazione del personaggio di Amedeo e dall‘altra per l‘interpretazione di autori come Svevo e Proust; sia dal punto di vista teorico, attraverso una riflessione profonda sull‘ebraismo che parte dalla storia del popolo d‘Israele e arriva all‘astrazione transebraica dell‘ebreo. L‘intervento si propone di analizzare tale percorso critico attraverso una lettura delle poco conosciute Cinque conferenze sui Profeti pronunciate da Debenedetti del 1924.

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FEDERICA DITADI ha conseguito la laurea presso l’Università di Padova con una tesi dal titolo Pier Paolo Pasolini e il Terzo mondo e il diploma ITALS presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Attualmente è dottoranda presso l’Università di Padova con un progetto di ricerca sul tema: Americanismo gramsciano.

Abstract«I subalterni possono parlare?»: le risposte di Antonio Gramsci e di Edward W. Said Questo intervento si propone di instaurare un dialogo a distanza tra l’ideologia gramsciana e il pensiero critico di Said, di cui, nel 2013, si celebra il ventennale della pubblicazione di Cultura e imperialismo e il decennale della morte: il punto di partenza sarà il concetto gramsciano di «Americanismo» che, al pari dell’«Orientalismo» saidiano, si configura come un’immagine soggettiva costruita dal di fuori (in particolare dall’Europa) di una realtà geografica, sociale e culturale (da un lato, l’America statunitense; dall’altro l’Oriente). Nei Quaderni, il tema dell’«Americanismo» sembra “esplodere” agli inizi della loro elaborazione (in particolare nel biennio 1927 – 1929) per poi ad acquistare una dimensione organica, nell’ultima fase del lavoro, attraverso la sistemazione (sia pure parziale) del rispettivo quaderno speciale, in cui l’«Americanismo» viene affrontato anche attraverso i temi del taylorismo e del fordismo, del rapporto tra Nord e Sud in Italia e nel mondo e di quello tra Europa e America. Gramsci analizza due tipi di marginalità, da un lato quella napoletana, dall’altro i subalterni. Nel Quaderno XXII, con una metafora poetica, «il mistero di Napoli», Gramsci introduce il discorso sul Nord e Sud in Italia, individuando il «mistero» nell’incongruenza del carattere improduttivo e parassitario del tessuto economico e sociale della città, a fronte della fantasia concreta e della vivacità di azione dei suoi cittadini: Napoli, per la sua vocazione di città animale e senza forma, finisce per diventare una porta verso il Sud del mondo e verso l’Oriente, configurandosi quindi come una “subalterità” in opposizione al “dominante” ed “egemone” Nord. Tuttavia, nel Quaderno XXV, cronologicamente vicino al XXII, Gramsci definisce i “subalterni” come coloro che «vivono ai margini della storia», identificando la marginalità come mancanza di potere e di parola, intensa come discorso auto-legittimante che conferisce senso alle cose, permettendo di rendere il proprio punto di vista “senso comune”.Said sembra riprendere l’analisi gramsciana prima, in Orientalismo (1979), analizzando il modo con cui l’Occidente ha costruito l’immagine dell’Altro, e poi in Cultura e imperialismo (1993), esaminando il nesso tra espansione coloniale e romanzo europeo: Said individua una duplice modalità attraverso cui i “subalterni” hanno trovato una possibilità espressiva; la voce dell’”altro” sembra emergere da un lato dalla rilettura e

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dalla reinterpretazione dell’archivio della cultura occidentale in modo contrappuntistico, dall’altro dall’analisi del folklore nel quale sembra riemergere il passato indigeno che era stato soppresso dai meccanismi dell'imperialismo.

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ELGIN KIRSTEN ECKERT is Assistant Professor of Italian Cultural Studies at the Umbra Institute in Perugia. Her main areas of research are Twentieth century and contemporary Italian literature (especially cultural identity and memory in contemporary narrative, both in Sicily and in South Tyrol). She received her Ph.D. at Harvard University with a dissertation on the representation of cultural memory in the works of Andrea Camilleri.

AbsrtactThrough the eyes of a child: exile and migration in two south tyrolian novelsThe period most covered in fiction about South Tyrol is the German-Italian “Option” agreement: in 1939 Mussolini and Hitler agreed on a population transfer based on ethnicity. South Tyrolians were given the choice to emigrate to Nazi-occupied territories or stay in Italy and accept their complete Italianization. 86% of the population chose exile, while only 14% chose to stay behind in their native land. This paper will analyze two particular literary accounts dealing with this (self)imposed exile, which divided the South Tyrolian community. Claus Gatterer’s fictional autobiography Schöne Welt, böse Leut. Kindheit in Südtirol (translated into Italian with the title Bel Paese, brutta gente; Beautiful Country, Nasty People) is one of the first authors who tried to show this conflict in a non-biased manner and give account of the myriad of issues concerning exile. He chooses to tell his story from the perspective of a child, in order to lend credence of innocence to his narration and investigate weighty matters in a voluntarily Joseph Zoderer’s Wir gingen [We left] provides another moving testimonial about the devastating historical moment. He also uses a child’s perspective to deal with serious issues from a viewpoint of innocence. His story beautifully complements Gatterer’s account, as his family left South Tyrol, while Gatterer’s family refused exile and stayed behind despite the continued threats and physical Major focus in my paper will be on the authors’ narration of exile as both a physical state and a state of mind (dislocation of identity, psychological uprootedness, nostalgia, and literary self/estrangement). As any discourse about exile “provides focal point for theoretical reflections about individual and cultural identity” (Susan Suleiman Exile and creativity, Duke UP, 1998) problems of nationalism, racism, and war (closely tied to those) will also be examined closely.

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LUCA FAZZINI  si è laureato all’Università degli Studi di Siena. Attualmente è studente magistrale in Studi Comparati nell’Universidade Classica de Lisboa. Ha partecipato ad alcuni convegni e la sua area di interesse, in questo momento, riguarda le letterature di lingua portoghese e le relazioni tra violenza, memoria e letteratura.

AbstractEsperienze marginali: la Luuanda di Luandino VieiraL’universo coloniale si presenta come intrinsecamente diviso. Da un lato l’occidentale che gestisce la macchina del potere e, dall’altro lato, il nativo, considerato impermeabile all’etica e negazione di valori, relegato al di fuori del mondo “civile”, in condizione subalterna. Di fatto, il mondo coloniale si presenta come diviso in un “dentro” e un “fuori”. Tale bipartizione, oltre che mentale – il filosofo Frantz Fanon parla, a tal proposito, di alienazione del colonizzato – è anche fisica: la metropoli e la periferia dell’impero, ma anche il centro delle città creole e i propri suburbi: un’interminabile estensione di povertà in cui il nativo è costretto a sopravvivere.Di contro, lo scrittore postcoloniale deve spezzare le catene imposte dall’egemonia culturale per affermare la propria identità, attraverso un movimento che coinvolga i due poli del contesto politico di cui è vittima. Per questo, il nigeriano Homi Bhabha ha coniato l’espressione “Terzo Spazio”, ovvero quello spazio liminare che si pone tra il dentro e il fuori e che mira a distruggere tale logica binaria.Su questo movimento poggia l’opera dello scrittore angolano José Luandino Vieira. Nato in Portogallo, lo scrittore attraversa la frontiera fisica che divide metropoli e colonia per vivere e raccontare un’altra Angola.

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L’intervento che vorrei proporre riguarda una lettura dell’opera Luuanda (testo centrale nel canone angolano, tradotto in tutto il mondo – in Italia da Feltrinelli - e vincitore di numerosi premi). Composta da tre estórias, Luuanda è frutto di questo movimento attraverso la frontiera. Tale movimento arriva a coinvolgere anche la lingua: il portoghese viene arricchito da tutto un nuovo lessico e la stessa sintassi ne risulta “africanizzata”. La lingua viene così deterritorializzata (Deleuze e Guattari) attraverso un forte coefficiente di sperimentalismo che richiama le esperienze di modelli come James Joyce e Guimarães Rosa.

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DONATELLA FISCHER è Italian Lecturer presso l’Università di Glasgow (School of Modern Languages and Cultures, Italian Section).

AbstractPaolo Rumiz e la ricerca della frontieraPer questo convegno vorrei presentare un intervento sulla percezione e la ricerca della frontiera in alcuni testi dello scrittore/giornalista triestino Paolo Rumiz. In particolare, mi baserò su tre opere che esplorano e ridefiniscono il concetto di “frontiera”: È Oriente (2003), La mela cotogna di Istanbul (2010); e Trans Europa Express (2012).Nell’ambito della letteratura triestina (letteratura di frontiera per antonomasia), l’opera di Rumiz riapre la questione del “confine” e del suo significato ed interpretazione storica e culturale. Nell’intraprendere viaggi che lo portano alle propaggini più orientali della nuova Europa, ripercorrendo fiumi mitici come il Danubio, Rumiz riesplora il concetto di ‘frontiera’ alla luce di un Europa profondamente cambiata politicamente e geograficamente. La frontiera che egli cerca e alla quale spesso si appiglia quasi per proteggersi dalla volgarità della globalizzazione, è molto diversa da quella descritta da Claudio Magris nel celebre testo Danubio (1986). In un ‘oriente’ straziato da guerre e bombardamenti, la frontiera che Rumiz cerca di ritracciare è soprattutto un’esigenza dell’anima ed una ricerca –paradossalmente- di libertà. Quale scrittore triestino, Rumiz ha naturalmente una particolare sensibilità verso la concezione di esistenza e di cultura liminale. Ma i suoi i testi, pur partendo da quest’eredità culturale, vanno ben oltre i margini della letteratura triestina e si immergono invece in quell’europa ‘orientale’ con cui Trieste aveva profondi legami e dove proprio i ‘confini’ definivano tali legami. Oggi la cancellazione praticamente totale delle frontiere ha cancellato, secondo Rumiz, la particolarità e in fondo l’unicità di molte terre e, forse di nuovo paradossalmente, reso l’Europa ancora più ‘lontana’.

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LAURA FOURNIER FINOCCHIARO è Maître de Conférences di lingua italiana presso l’Università Paris 8. Si è occupata di retorica e mitografia nazionale nell’Ottocento, in particolare nei volumi Giosuè Carducci et la construction de la nation italienne (Caen 2006) e Carducci e Pascoli. Perspectives de recherche (“Transalpina”, n°10, Caen 2007). Ha curato vari volumi collettivi sulle rappresentazioni della nazione in Italia e in Europa, tra i quali Gallomanie et gallophobie: le mythe français en Europe au XIXe siècle (Rennes 2012), e con J.-Y. Frétigné, L’Unité italienne racontée (2 voll., Caen 2012-13). I suoi ultimi studi portano sul pensiero letterario e la fortuna critica di Giuseppe Mazzini (Mazzini. Un intellettuale europeo, Liguori 2013, in corso di stampa.

AbsrtactLa nazione degli esuli del Risorgimento Gran parte del pensiero politico risorgimentale, così come della letteratura e della critica letteraria si sviluppa in esilio, poiché  è spesso lontano dall’Italia e dalla censura che possono essere pubblicati gli scritti dei patrioti. Gli studi di Maurizio Isabella (Risorgimento in esilio, 2011) e Silvia Tatti (Il Risorgimento dei letterati, 2011) hanno recentemente riportato alla luce l’importanza di questa letteratura d’esilio.In questa comunicazione, ci interesseremo in particolare al tema dell’esilio nella produzione degli esuli risorgimentali, per studiare il modo in cui gli esuli italiani svilupparono un discorso identitario che promosse l’esilio come una vera e propria “istituzione” e come un mito per i patrioti italiani desiderosi di costruirsi una patria ideale. Analizzando alcuni esempi di poemi e memorie che mettono in scena l’esilio (di Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Pietro Giannone, Giovita Scalvini, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Mazzini…) ci

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interrogheremo sull’immagine della nazione che emerge dagli scritti degli esuli, e valuteremo gli effetti dell’allontanamento dalla patria sull’espressione dell’identità nazionale.

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LAURA FOURNIER FINOCCHIARO è Maître de Conférences di lingua italiana presso l’Università Paris 8. Si è occupata di retorica e mitografia nazionale nell’Ottocento, in particolare nei volumi Giosuè Carducci et la construction de la nation italienne (Caen 2006) e Carducci e Pascoli. Perspectives de recherche (“Transalpina”, n°10, Caen 2007). Ha curato vari volumi collettivi sulle rappresentazioni della nazione in Italia e in Europa, tra i quali Gallomanie et gallophobie: le mythe français en Europe au XIXe siècle (Rennes 2012), e con J.-Y. Frétigné, L’Unité italienne racontée (2 voll., Caen 2012-13). I suoi ultimi studi portano sul pensiero letterario e la fortuna critica di Giuseppe Mazzini (Mazzini. Un intellettuale europeo, Liguori 2013, in corso di stampa.

AbsrtactLa nazione degli esuli del Risorgimento Gran parte del pensiero politico risorgimentale, così come della letteratura e della critica letteraria si sviluppa in esilio, poiché  è spesso lontano dall’Italia e dalla censura che possono essere pubblicati gli scritti dei patrioti. Gli studi di Maurizio Isabella (Risorgimento in esilio, 2011) e Silvia Tatti (Il Risorgimento dei letterati, 2011) hanno recentemente riportato alla luce l’importanza di questa letteratura d’esilio.In questa comunicazione, ci interesseremo in particolare al tema dell’esilio nella produzione degli esuli risorgimentali, per studiare il modo in cui gli esuli italiani svilupparono un discorso identitario che promosse l’esilio come una vera e propria “istituzione” e come un mito per i patrioti italiani desiderosi di costruirsi una patria ideale. Analizzando alcuni esempi di poemi e memorie che mettono in scena l’esilio (di Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Pietro Giannone, Giovita Scalvini, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Mazzini…) ci interrogheremo sull’immagine della nazione che emerge dagli scritti degli esuli, e valuteremo gli effetti dell’allontanamento dalla patria sull’espressione dell’identità nazionale.

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ALICE FLEMROVA si è laureata in filologia italiana e spagnola presso la Facoltà di Lettere dell'Università Carlo IV di Praga, dove dal 2004 insegna. Autrice di due monografie (su Italo Svevo e sul romanzo italiano del primo Novecento). Ha curato l'antologia della prosa e drammaturgia italiana contemporanea, ha partecipato alla nuova edizione ceca del Dizionario degli scrittori italiani. Ha pubblicato numerosi saggi in ceco e in italiano, p. es. su Svevo, Brancati, Pirandello, Cantoni, Bontempelli). Traduce narrativa e saggistica (p. es. Pirandello, Svevo, Bontempelli, Camilleri, Tabucchi, Eco, Benni, Saviano,Vasta). Tre volte le è stato conferito il premio di Josef Jungmann per la traduzione.

AbstractTre modi di essere esuli. Hostovský, Škvorecký e KunderaLa necessità di lasciare la casa, volontariamente o no, è uno dei motori della vita moderna, Egon Hostovský (intervista con J. Liehm, 1973)La storia culturale cecoslovacca del Novecento è stata segnata da due grandi ondate dell'emigrazione intellettuale dal paese: dopo il 1948 (il colpo di Stato comunista) e dopo il 1968 (l'invasione e occupazione sovietica). Le aveva preceduto un'altra ondata, quella del 1938, quando se ne andarono soprattutto gli ebrei. La relazione vuole presentare tre scrittori cechi che hanno lasciato il paese e nelle loro opere hanno trattato il tema dell'esilio sia dal punto di vista della loro storia personale, sia come un'esperienza universale. Sono: Egon Hostovský (1908 Hronov – 1973 Montclair), Josef Škvorecký (1924 Nachod – 2012 Toronto) e Milan Kundera (1929 Brno). Škvorecký e Kundera rappresentano la seconda ondata dell'emigrazione, Hostovský, ebreo (cugino dello scrittore Stefan Zweig), è dovuto andarsene in esilio due volte, nel 1938 e nel 1948 quando dopo il breve rientro in patria lascia la Cecoslovacchia definitivamente. Ci concentreremo sui tre romanzi degli scrittori citati: 1. E.Hostovsky: Všeobecné spiknutí [La Congiura universale] (Praha: Melantrich 1969; trad. inglese: The Plot, Doubleday 1961); 2. J. Škvorecký. Příběh inženýra lidských duší (Toronto: 68 Publishers 1977; trad.italiana: Il racconto dell'ingegnere delle anime umane, Fandango 2010) e 3. M. Kundera. Nesnesitelná lehkost bytí (Toronto: 68 Publishers 1985; trad. italiana: L'insostenibile leggerezza di essere, Adephi 1985). Anche se i romanzi hanno nei primi due casi un chiaro sfondo

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autobiografico, ci interesserà piuttosto la rappresentazione letteraria del tema dell'esilio, dell'essere esule e i ricorrenti motivi: solitudine, incomunicabilità, nostalgia, adattabilità x inadattabilità, lingua materna x lingua adottata, ricordi x oblio (anche volontario). Le analisi avranno sempre il carattere comparativo, tramite le tre personalità, tre destini, tre poetiche diverse cercheremo di far vedere uno spaccato della storia cecoslovacca, e sullo sfondo della memoria collettiva far risalire scelte e immagini individuali.

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FRANCISCA GARCIA es chilena. Licenciada en Letras Hispánicas por la Universidad de Católica de Chile y actualmente, candidata a doctora en Lenguas Románicas por la Universidad de Potsdam en Alemania. Ha trabajado sobre literaturas y artes contemporáneas latinoamericanas, especialmente en el contexto de dictaduras. Ha realizado investigaciones en ese campo para proyectos individuales y colectivos, académicos y curatoriales. Actualmente, junto a un equipo de trabajo, ha reconstituido el archivo del artista chileno exiliado en Alemania, Guillermo Deisler (1940-1995), cuya publicación se espera para fines de este 2013.

AbstractTerritorios continuos. Una lectura fronteriza al proyecto poético-político de Guillermo DeislerMi propuesta de trabajo se basa en revisar las principales estrategias que propone el proyecto poético-político del poeta visual, editor, archivista y escenógrafo chileno Guillermo Deisler (1940-1995), para romper la condición de exilio, a partir de 1973, cuando el autor debe radicarse forzadamente en Europa, luego del golpe militar de Augusto Pinochet en Chile. Para ello realizaré una lectura sobre las nociones de “poesía visual” y “arte-correo” que atraviesan toda su producción y que permiten al artista re-activar su proyecto desde Plovdiv, Bulgaria, entre 1974 y 1986, y luego, desde Halle an der Saale, en la ex República Democrática Alemana, entre 1986 y 1995. “El exilio nos dio una especie de condición de archipiélago, de islas diseminadas en territorios difíciles de cruzar para el contacto directo. De esto sale la necesidad de establecer otras rutas, buscar otros caminos para la comunicación”, señala Deisler en 1986. A partir de esta cita orientaré mi lectura para revisar, primero, cómo la “poesía visual” constituye un testimonio gráfico de la identidad en tránsito y al mismo tiempo, una estrategia poética que permite atravesar las fronteras de las lenguas específicas para la recepción planetaria; en segundo lugar, cómo el canal de comunicación del “arte-correo” y la puesta en movimiento de su literatura, permite al artista estar presente en distintos territorios a pesar de la ausencia forzada de su cuerpo. Para la comprensión de ambas estrategias será preciso atender a los diálogos, cooperaciones y apropiaciones estéticas que realiza el artista de vanguardias internacionales, como el neoconcretismo brasileño, la novísima poesía latinoamericana y la poesia visiva italiana (Eugenio Miccini, Michele Perfetti, Sarenco y Luciano Ori).

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ELENA GIOVANNINI ha conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Bologna e il dottorato di ricerca in Letteratura Tedesca all’Università di Pavia. Attualmente è assegnista di ricerca e contrattista all’Università di Bologna. Si è occupata soprattutto della ricezione del mondo islamico nella letteratura di viaggio tedesca tardomedievale, della rifunzionalizzazione del mito faustiano nella letteratura tedesca dell’esilio e della manipolazione ideologica di Goethe nel Terzo Reich.

AbstractEsilio, frontiere e confini in La novella degli scacchi di Stefan ZweigLa novella degli scacchi (Schachnovelle, 1941), ultimo testo redatto in Brasile prima del suicidio dall’esule austriaco Stefan Zweig, narra la vicenda del colto e raffinato dott. B. che, in viaggio su un piroscafo da New York a Buenos Aires, sfida a scacchi il rozzo e ignorante campione del mondo Czentovic. Riaffiora così in B. il ricordo dell’incarcerazione ad opera della Gestapo; durante i mesi di reclusione proprio un manuale di scacchi è stato l’unico legame con il mondo, ma anche l’involontario viatico per la follia.Se la traversata per mare – topos letterario dello sradicamento con una profonda valenza liminale – e la prigionia di B. richiamano in maniera più evidente l’esperienza dell’esilio, è però l’intera novella a fondarsi sul concetto di confine, tematizzandolo a molteplici livelli: psicologico (la labile linea di demarcazione fra salute e malattia, la scissione interiore di B.), linguistico (l’incomunicabilità, la lingua cifrata degli scacchi, la sperata funzione salvifica del linguaggio poetico), narrativo (l’incorniciatura e le frontiere interne al testo)

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e spaziale (il progressivo restringimento dello spazio di agibilità esistenziale che rinvia allo sradicamento). La narrazione è dunque attraversata da numerose linee di demarcazione, riconducibili alla dicotomia bene vs. male simboleggiata proprio dai quadrati bianchi e neri della scacchiera.Al termine della novella, ogni tentativo di valicare i confini, di ricollegare ‘prima’ e ‘dopo’, ‘al di qua’ e ‘al di là’, ‘io’ e ‘mondo’ risulta però illusorio: sanare l’anima di B., lacerata dal totalitarismo e dall’emigrazione, è molto difficile; porre fine all’esilio di Zweig è invece del tutto impossibile, poiché quel ‘mondo di ieri’, che l’artista rimpiange e che dà il titolo alla sua autobiografia (Die Welt von Gestern, 1944), non esiste più, spazzato via dall’orrore della storia e dalla disumanità.

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ALBERTO GODIOLI è Newton International Fellow all’Università di Edimburgo, con un progetto sulle forme del riso nel romanzo europeo dal realismo romantico al modernismo. Ha compiuto i suoi studi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. È autore del libro «La scemenza del mondo». Riso e romanzo nel primo Gadda (ETS, 2011), e di vari studi su narratori e poeti del ventesimo secolo; sta ora lavorando a una monografia sul comico e l’umorismo nelle novelle di Pirandello, Svevo e Palazzeschi.

AbsrtactLa figura dell’esule in Bassani e il paradigma della novella moderna Nella narrativa di Bassani, alla figura dell’esule – coatto o volontario, letterale o metaforico – viene assegnato un rilievo simbolico primario: ne sono esempio i protagonisti delle Storie ferraresi, Athos Fadigati negli Occhiali d’oro, l’intera famiglia Finzi Contini, Edgardo Limentani nell’Airone. In tutti questi casi, in modo più o meno diretto, la declinazione dell’esilio in termini esistenziali si lega al senso di sradicamento costitutivo della storia e della cultura del popolo ebraico. Il mio obiettivo sarà sottolineare come, per definire la fisionomia dell’emarginato nelle sue varie sfumature, l’autore muova da un assiduo confronto con la tradizione del realismo otto-novecentesco, e in particolare con il grande codice della novella moderna: attraverso un complesso dialogo intertestuale (finora indagato solo in parte) con modelli quali Čechov e Hawthorne, Flaubert e Joyce, Bassani recupera un topos del genere – quello appunto dell’individuo posto ai margini della vita civile –, adeguandolo alla rappresentazione di un trauma storico ben determinato. Gli esuli di Bassani rinviano dunque a una categoria di personaggi che trova nella forma breve un habitat certo non esclusivo, ma comunque privilegiato: del resto, il principale nucleo simbolico della novella moderna è stato spesso individuato nel «disturbo di un sistema» da parte di un «corpo estraneo» (Gailus), ovvero da parte di «figure eslegi che vagano ai confini della società» (O’ Connery). Anche rifacendosi a questo preciso paradigma di genere, Bassani eleva il tema dell’esilio a metafora di una radicale inappartenenza del personaggio uomo al proprio destino.

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SRECKO JURISIČ insegna letteratura italiana presso l'Università di Spalato, in Croazia. Si occupa prevalentemente di Otto-Novecento italiano e ha pubblicato, su riviste e volumi in Italia e all'estero, una quarantina di articoli e curatele dedicate a D'Annunzio, Pirandello e Camilleri. È uno dei traduttori di Pirandello in lingua croata. Fa parte del Comitato direttivo dell'Associazione Internazionale dei Professori d'Italiano, ed è Direttore del Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Lettere dell'Università di Spalato.

AbstractUno scrittore italiano nato in Sicilia. La “poetica” dell'esilio in CamilleriL'intervento si incentra sulla duplice disanima dell'esilio. La sua rappresentazione letteraria e la stessa condizione d'esule di Camilleri, e le implicazioni dell'esilio sulla poetica camilleriana.

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ELISABETH KERTESZ-VIAL è ex-allieva della Scuola Normale Superiore di Fontenay-aux-Roses, insegna da vari anni letteratura e filologia italiana all’Università dell’UPEC ex-Parigi 12. I suoi  contributi appaiono in varie riviste in Francia, in Italia, in altri paesi europei e negli Stati Uniti. La sua ricerca verte sui rapporti e la circolazione dei modelli culturali tra la Francia e l’Italia dal periodo del Risorgimento fino agli anni Sessanta - ha co-organizzato ultimamente un convegno su Gianfranco Contini tra Italia e Francia – che

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verrà pubblicato sulla rivista “Ermeneutica letteraria”. Oltre a recenti studi pirandelliani, si è interessata nel corso degli anni al “roman noir” e a vari scrittori emarginati un tempo dalla Storia ma molto presenti culturalmente quali Italo Svevo, Primo Levi, Giorgio Bassani.

AbstractL’uomo dalla macchina da scrivere: l’esilio volontario di Luigi Pirandello (1928-1935)Dopo l’esperienza del Teatro d’Arte, chiuso nel 1928, e diretto da lui per quasi quattro anni, Luigi Pirandello soggiorna quasi ininterrottamente fuori dall’Italia. Accademico nel ’29, Premio Nobel nel ’34, viene richiamato a Roma molto frequentemente dal Regime al quale aveva vistosamente aderito tanti anni prima. Negli ultimi anni di vita, lo scrittore critica il Duce e la politica culturale del governo fascista. Rifiuto politico, antagonismo profondo, semplice deusione ? E da parte del Regime : tentativi di seduzione dell’ormai famoso Pirandello, ostilità, retorsione ?Se la posterità critica non ha certo evitato la domanda delle relazioni tra potere e arte pirandelliana, ha tenuto poco conto di quegli anni trascorsi dall’Agrigentino tra Berlino, Parigi, Nuova-York e Buenos Aires. Gli archivi consultabili a distanza di più di settant’anni della morte dello scrittore permettono oggi di esaminare sotto una nuova luce il periodo, dal ’29 al 35’, di questo allontanamento volontario. Allorché si sa quanto la propria storia natia e famigliare dello scrittore sia stata segnata dalla relegazione fuori dal Regno d’Italia, durante il Risorgimento, del nonno materno che mori a Malta, escluso dall’amnistia, circondato dalla moglie e dai figli, e la risonanza che ebbero questi fatti nell’opera pirandelliana; ricorderemo qui che i testi teatrali importanti e gli ultimi racconti – e non solo i carteggi ufficiali o privati – offrono la possibilità di conoscere un’altra «tranche de vie» paradossalmente misconosciuta, ma certamente rivelatrice di un punto focale spesso dimenticato quello dell’esilio improbabile dell’ultimo Pirandello, che fu costretto – in circostanze molto meno tragiche, certo di quelle dell’avo – a lasciare il proprio paese, durante la sua giovane età e negli anni che hanno preceduto la fine, avvenuta nel ‘36.

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BOŠKO KNEŽIĆ da ottobre 2010  è assistente universitario di Teoria e storia della letteratura all’Università degli Studi di Zara, Dipartimento di Italianistica. Convegni scientifici: 1. Zadarski filološki dani 4, Università degli studi di Zara, Zara, 30. 9. – 1. 10. 2011, B. Knežić, „Boris Akunin nell'ambito del giallo russo contemporaneo“. 2. Language, Literature and Mythology, Faculty of Foreign Languages, Alpha University, Belgrado, 25. – 26. 5. 2012, B. Knežić, „Gli elementi della mitologia biblica ed antica nelle opere di Gabriele D'Annunzio“. 3. Književnost, umjetnost, kultura između dviju obala Jadrana (i dalje od mora) / Letteratura, arte, cultura tra le due sponde dell'Adriatico ed oltre, Zara – Preko, 25. – 27. 10. 2012, B. Knežić, „Gabriele D'Annunzio a Zara tra le due guerre“. (insieme a: Nedjeljka Balić-Nižić). 4. Language, Literature and Religion, Faculty of Foreign Languages, Alpha University, Belgrado, 24. - 25. 5. 2013., B. Knežić, "Il neoguelfismo di Niccolò Tommaseo". Conferenze pubbliche: aprile 2013 1) „Tommaseo e Sebenico“, in organizzazione di: Sibenicum – urbs iuventutis, Sebenico. 2) „Cenni storico – letterari di Sebenico“, in organizzazione di: Camera di comercio italiana, desk Sebenico. Pubblicazioni: 1) KNEŽIĆ, Boško, Gli elementi della mitologia biblica ed antica nelle opere di Gabriele D'Annunzio in: Language, Literature and Mythology / Jezik, književnost i mitologija. Zbornik radova s međunarodnog znanstvenog skupa, Beograd 25. i 26. 5. 2012. Beograd, Alfa univerzitet, Fakultet za strane jezike, 2013., pp. 294. - 310.

AbstractL’eterno esule dalmata sugli esempi di Tommaseo e Bettiza Vista l’esperienza tragica ancora forte e viva del “secolo della guerra” appena passato, il sintagma “esilio” assorbe una connotazione esclusivamente negativa. Tuttavia, l’esilio non va sempre studiato come un fenomeno estremamente negativo, tantomeno come uno strumento che serve soltanto per perseguitare e sterminare certi gruppi politici o etnici diversi. Il più famoso esule dalmata, il sebenzano Niccolò Tommaseo, concepiva il suo esilio quasi come un compito messianico, che lo spinse ad abbattere le strette frontiere, dipinte da un forte sentimento del nazionalismo che soffoca il libero sviluppo del pensiero umanista. Fu appunto l’esilio che aiutò Tommaseo, sulla via del romanticismo nazionale, ad imporsi a livello internazionale che non potesse essere circoscritto da nessuna frontiera o confine umano. Cento anni dopo Tommaseo a Spalato nacque Enzo Bettiza, il cui cammino della vita, appunto come quello di Tommaseo, fu segnato da diversi esilii, sia volontari che forzati.

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Lo scopo di questo intervento è innanzitutto quello di dare l’immagine del mistico esule dalmata sull’esempio di Bettiza e Tommaseo, l’uomo che vive al bivio tra Oriente e Occidente, ma che non appartiene del tutto né all’Occidente “avanzato” né all’Oriente “esotico”, ma che fa da ponte tra le diverse culture e civiltà.

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ANNE-MARIE LIEVENS è Ricercatore di Letteratura spagnola. Nella sua attività di ricerca si è specializzata nei rapporti culturali fra Italia e Spagna nel Cinquecento, pubblicando articoli e tre monografie sull’argomento (Il caso Ulloa. Uno spagnolo “irregolare” nella editoria veneziana del Cinquecento , 2002; Martínez versus Ulloa. Due autori, un “Arcipreste de Talavera”, 2008; Napoli spagnola (sec. XVI): plurilinguismo e interazioni culturali, 2012), alternati a incursioni nella letteratura spagnola del Novecento.

AbstractL’arcangelo dall’ala spezzata: l’esilio di Alberti in Noche de guerra en el Museo del PradoQuando la rievocazione di un’urgenza storica passa attraverso la sensibilità di un poeta, avviene spesso che il fatto in sé  trascenda i limiti dell’aneddotico per rivestirsi di significati più profondi, soprattutto se la memoria opera in condizioni lenite dallo scorrere degli anni e in una lontananza anche spaziale. Questo è il caso di Rafael Alberti in Noche de guerra en el Museo del Prado (1956), il cui il ricordo dell’evacuazione del museo all’indomani dello scoppio della Guerra Civile (1936) si riveste di una valenza simbolica che travalica i limiti dell’esperienza individuale.Noche de guerra è «pièce dell’esilio» ma anche «pièce degli esiliati»: di un uomo sradicato dalla propria patria ma anche di un intero popolo bandito dalla propria vita; di quadri in fuga ma anche di personaggi goyeschi esiliati dalle proprie tele di fronte all’urgenza di erigere barricate; di un arcangelo con l’ala spezzata esiliato dal cielo ma anche dalla propria memoria, perché ormai non ricorda più l’annuncio che doveva portare a Maria. Dal piano storico, dunque, a quello dell’esistenza, il tutto in un «acquaforte in un prologo e un atto».

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ALESSANDRA LOCATELLI insegna lingua e letteratura italiana dal 2008 presso il Dipartimento d'Italiano della facoltà di lettere dell'UHA (Université de Haute Alsace) a Mulhouse, Francia. Attualmente ricopre la posizione amministrativa di PRAG (Professeur agrégé), insegnante di liceo distaccata presso l'università, e sta lavorando su una tesi di dottorato dal titolo Il tema dell'esilio nell'opera di Fulvio Tomizza. Ha pubblicato un articolo dal titolo: Fulvio Tomizza, écrivain de frontière, in Cahiers de la Méditerranée , Université de Nice, n. 86, Juin 2013. 

AbstractFulvio Tomizza tra esodo ed esilioLa frontiera e l’esilio sono temi centrali nell’opera e nella vita dello scrittore istriano Fulvio Tomizza. Il critico letterario Paolo Milano aveva ravvisato in Materada, il primo romanzo di Tomizza, pubblicato nel 1960, un esempio italiano di « letteratura di frontiera ».Con Materada e gli altri due romanzi che compongono la Trilogia istriana, Tomizza consegnava alla letteratura e alla memoria collettiva il destino di una comunità multiculturale e plurilingue che la storia del XX° secolo aveva dilaniato, con le drammatiche vicende culminate nei cambiamenti di frontiera politica e nel conseguente esodo di gran parte della popolazione originaria.La narrazione realista di queste prime opere narrative, segnata dalla dimensione corale, è seguita da una serie di romanzi e racconti d’ispirazione autobiografica dove il tema dell’esilio diventa una condizione esistenziale che segna la vita dell’esule, fatta di precari equilibri spesso travolti. Il dramma dello sradicamento e la difficoltà di ambientamento sono fonte di un intimo disagio che culmina con la depressione e la tentazione del suicidio. Il monologo, lo stralcio di diario, l’estemporaneità delle sensazioni veicolano una visione del mondo problematica e caratterizzata dalla frustrazione della parzialità nella quale il narratore è costretto a vivere.Le visioni oniriche che pervadono molte opere sono la via d’uscita da una realtà bloccata, un modo per ricomporre il passato e il presente, e sperimentare una forma di ubiquità.All’indagine sulla storia contemporanea individuale e collettiva, Tomizza ha affiancato una produzione letteraria costituita da romanzi a sfondo storico-documentale. Queste opere hanno in comune l’ostracismo al

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quale sono stati condannati i protagonisti di processi noti e meno noti per eresia religiosa. In tal modo lo scrittore denuncia l’universalità della condizione dell’individuo perseguitato e spesso condannato alla fuga.

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ABELE LONGO è responsabile del Master di Traduzione presso la Middlesex University di Londra, dove insegna traduzione audiovisiva e letteraria. Tra le sue pubblicazioni: con  Edgar Schröder, 'Traduzioni e trasgressioni, la  Lysistrata di Astragali Teatro',  in Fabio Tolledi (a cura di) Roads and Desires. Appunti di viaggio di un teatro in Palestina; Besa,  Nardò ,  2010; ‘The Cinema of Ciprì and Maresco: Kynicism as a Form of Resistance’, in William Hope (a cura di)  Italian Film Directors in the New Millennium, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge, 2010; ‘Subtitling the Italian South’, in Jorge Díaz-Cintas (a cura di) New Trends in Audiovisual Translation, Multilingual Matters, Bristol, 2009.

AbstractRoma, viandanza dell’esilio - Rafael Alberti tradotto da Vittorio BodiniRafael Alberti visse a Roma dal 1963 al 1977, ultima tappa dell’esilio che lo aveva visto lasciare la Spagna nel 1939 per andare prima in Francia e stabilirsi in seguito in Argentina. All’esperienza romana è dedicata la raccolta Roma peligro para caminantes, pubblicata in Messico nel 1968 e in Italia (Mondadori) nel 1972 con il titolo Roma, pericolo per i viandanti. Se nel periodo precedente la poesia di Alberti si era caratterizzata come recupero della memoria e nostalgia struggente per l’Andalusia, con l’arrivo in Italia si contestualizza invece nel presente, animata dal desiderio di scoperta di quella che era stata la terra dei suoi avi. Di Roma, Alberti apprezzerà gli aspetti popolari, testimoniati dal suo “via-andare” per vicoli e vie secondarie, in itinerari sospesi di una mappa esistenziale che ha come coordinate principali la poesia di Gioacchino Belli e i richiami barocchi di Luis de Gòngora e Francisco Delicado. Di questa fase poetica si vuole tracciare l’influenza e l’apporto di Vittorio Bodini, che di Alberti era stato amico fraterno oltre che traduttore di alcune raccolte. L’importanza di Bodini, morto a Roma proprio prima della pubblicazione dell’edizione italiana, nel 1970, è rilevata dallo stesso Alberti che nella prefazione così ricorda l’amico: “Insieme imparammo il nostro Trastevere, la sua sozza e sgangherata miseria, il suo mistero e incanto popolare, estatico e rumoroso, muto improvvisamente e solitario.” Bodini, antifascista e di ideali socialisti, che aveva soggiornato in Spagna dal 1946 al 1949, è conosciuto soprattutto come ispanista. Grande poeta, ingiustamente trascurato dalla critica, cantò il Salento, sua terra d’origine, in un esilio volontario che traduce in una personalissima cifra stilistica immagini e tòpoi dei poeti della Generazione del 1927, ai quali aveva dedicato il saggio seminale I poeti surrealisti spagnoli (Einaudi, 1957) e che oltre ad Alberti annoverava tra i suoi maggiori esponenti Lorca e Salinas.

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MASSIMO LUCARELLI è professore associato di letteratura italiana presso l’Università della Savoia (Chambéry), dove ha diretto dal 2008 al 2013 la Sezione d'italiano. Ex normalista, addottoratosi all'Università di Perugia con una tesi sulle fonti manieriste e barocche di Ungaretti, ha ottenuto il “Premio della critica Angelo Marchese 2005” grazie a uno studio ungarettiano e il “Premio Tasso 2004” grazie a un saggio su due dialoghi cinquecenteschi sulla corte. Ha pubblicato inoltre articoli su Iacopone, Dante, Mazzini, Pascoli, Gadda, Alianello, Tabucchi e sul canone della letteratura italiana in Francia. Attualmente si sta occupando soprattutto di riso spirituale e di pentimento nella poesia italiana medievale.

Abstract“En exil / partout”, alla frontiera delle lingue : esilio e frontiera nella poesia bilingue di Ungaretti“Sono un frutto / di innumerevoli contrasti d’innesti”. Così Ungaretti si autodefinisce in Italia, penultimo componimento de Il porto sepolto (1916). Per le note ragioni biografiche, il “figlio di emigranti” (1914-1915) si presta particolarmente ad essere studiato focalizzando l’attenzione sulla dialettica tra senso di sradicamento nazionale e ricerca di un’identità europea; tra rilettura della tradizione e innovazione avanguardista; tra un sentimento di bramata italianità e un desiderio costante (almeno fino al 1939, anno di pubblicazione presso Gallimard di Vie d’un homme, con due inni scritti “directement en français”) di posizionarsi al di là della frontiera linguistica nazionale come poeta bilingue, francese e italiano, cosmopolita o – meglio ancora – apolide (il Girovago dell’omonimo testo di Allegria di Naufragi: “In nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare”).

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Date queste premesse, non stupisce ritrovare temi quali frontiera ed esilio nella poesia di Ungaretti, che potrebbe anzi essere considerata anche come una poesia di frontiera (tra due lingue) la cui poetica è nutrita da una certa idea di esilio (esilio della parola da un Assoluto poetico e – dagli anni Venti in poi – religioso). La nostra comunicazione cercherà di ripercorrere l’evoluzione di questi due temi nella produzione ungarettiana, non senza una particolare attenzione alla sua dimensione bilingue: dalla frontiera bellica di Fratelli, annullata dall’universale senso di “fragilità” comune a tutti i soldati, alla frontiera temporale tra luce e buio, nella quale sorge tanta poesia aurorale del secondo Ungaretti; dall’esilio esistenziale dell’ “agneloup / en exil / partout” (Calumet) e del “nomade / adunco” (Dolina notturna) di Allegria di Naufragi, all’esilio metafisico del “profugo” (Ultimi cori, 1) della Terra promessa, passando per l’esilio cristiano e metapoetico del Sentimento, in cui il poeta, “esiliato in mezzo agli uomini” (La pietà), si sforza di “popolare di nomi il silenzio” (La pietà) attraverso una poesia che “d’un’eco/ popoli l’esule universo” (Eco).

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GABRIELLA MACRÌ è professore associato in Letterature comparate presso il Dipartimento di Lingua e Letteratura Italiana dell’Università «Aristotele» di Salonicco. Insegna Letterature comparate, Letteratura italiana delle origini e Lingua italiana. Si occupa in particolare di: forma breve nella letteratura europea contemporanea, letteratura e guerra, traduzione letteraria e ricezione del testo, intertestualità tra letteratura italiana e neogreca. Ha tradotto in italiano vari romanzi e racconti greci, ha pubblicato su riviste letterarie italiane e greche, è membro del Comitato scientifico della rivista di poesia comparata Semicerchio e redattore della rivista Poliphilos del Dipartimento di Lingua e Letteratura Italiana dell’Università di Salonicco dove è direttore del master «Lingua e cultura italiana».

AbstractDittatura greca del 1968 e intellettuali in esilio: i percorsi diversi di Vassilis Vassilikòs e di Periklìs Korovinis.Nell’aprile del 1967 in Grecia un golpe militare portò a una dittatura che durò sette anni. Alcuni intellettuali riuscirono a fuggire e andare all’estero dove organizzarono, insieme ai militanti e studenti greci democratici, alle organizzazioni internazionali e nazionali di vari stati europei vari movimenti di protesta riuscendo a coinvolgere l’opinione pubblica praticamente di tutta l’Europa.Tra i partecipanti c’erano Vassilis Vassilikòs e Periklìs Korovessis, i due autori su cui sarà incentrata la mia comunicazione. Vassilis Vassilikòs apprese la notizia del golpe mentre si trovava in Francia. Non ritornò in Grecia ma rimase in esilio alternando la sua permanenza all’estero tra Parigi e Roma. Le opere scritte in questo periodo, ma anche negli anni successivi, sono connotate da una scrittura autobiografica dove traspare la nostalgia della Grecia e una certa inquietudine per il futuro incerto.Perikìs Korovessis è un intellettuale impegnato nella militanza di sinistra. Durante i primi giorni del golpe venne arrestato e torturato. Riuscì a scappare a Parigi dove denunciò in un rapporto steso alla Commissione Diritti Umani del Consiglio d’Europa e ad Amnesty International le torture subite dagli oppositori al regime dittatoriale. Il libro, considerato letteratura di testimonianza, venne pubblicato in Francia e poi tradotto in varie lingue europee.In questa comunicazione si intende esaminare il modo in cui un evento così  tragico è stato trasmesso dai due autori ed è diventato forma letteraria, nonostante sia stato generato da motivazioni e finalità differenti. 

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TERESA MALARA è dottoranda al terzo anno  in “Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo” presso l’Università per stranieri di Perugia. Collabora, inoltre, con la rivista culturale “Quaderni calabresi”, e con l’Università per stranieri di Reggio Calabria.

AbstractLa condizione di straniera nella Medea di Corrado AlvaroIl contenuto del testo con cui intenderei partecipare mira a porre l’accento sulla rilettura di Corrado Alvaro del mito di Medea in La lunga notte di Medea. Quando Alvaro riscrive la tragedia, la potenza distruttrice di Medea sembra essersi esaurita completamente. I suoi delitti sono relegati su uno sfondo mitico non più credibile, ella è semplicemente una donna abbandonata dal proprio marito, che si trova ad essere esclusa ed

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emarginata perché straniera, respinta dalla comunità che la ospita, colpevole di essere diversa agli occhi intolleranti dei Corinzi. Ecco cosa scrive Alvaro nell’introduzione della sua tragedia:

Medea mi è apparsa un 'antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e o i campi di profughi. Secondo me, ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame: estingue il seme di una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio di disperato amore materno.

Nella rilettura del mito lo scrittore spoglia la donna della sua terribilità voluta da Euripide, conferendo alla maga colchidea una sfaccettatura estremamente attuale. L’uccisione dei figli, che fa di Medea una terribile assassina, scaturisce da quell’annientamento sociale subito dal quale intende sottrarre anche i figli, così ossessionata dall’isteria collettiva scatenata dalla paura per quel che la donna ormai non rappresenta più si vede costretta a scegliere una soluzione disperata. A indurre a tragici epiloghi sono la fama e la diversità di Medea e non Medea stessa. Ella si rivela, così, come un’immigrata appassita ed indomita che, sepolte le origini regali, si dispera per il futuro suo e della sua prole. Dai dialoghi della tragedia emergono con chiarezza tematiche relative agli esiliati, agli stranieri non integrati, ai diversi che fanno di questa Medea un personaggio estremamente umano e moderno, dilaniato tra incertezza e paura.

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CHIARA MARASCO è cultrice di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università della Calabria, dove ha conseguito nel 2006 il dottorato di ricerca in Scienze letterarie, retorica e tecnica dell’interpretazione con una tesi su Simulazione e dissimulazione nel teatro di Italo Svevo. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sullo scrittore triestino in riviste e convegni (in particolare ha partecipato alla miscellanea Italo Svevo. Il sogno e la vita vera, a cura di Mario Sechi, Donzelli, Roma, 2009 con un saggio dal titolo Teatralità e narrazione in Italo Svevo). Si è occupata inoltre di Vittorini, di Saba, di letteratura triestina, di letteratura fantastica, di Stefano Benni e del racconto italiano del Novecento.

AbstractAlla periferia del mondo: il vicino e l’altrove. Le cicatrici della memoria nella letteratura triestinaIl grande prodigio dello spirito: la memoria; e questa parola mi avvince come se fosse antichissima anch’essa, dimenticata e poi di nuovo recuperata dal fondo (Elias Canetti)Nella Prefazione a Trieste nei miei ricordi, Giani Stuparich confessa che se Trieste, alla fine della seconda guerra mondiale, avesse avuto la stessa sorte toccata alle altre città italiane probabilmente non avrebbe mai scritto quelle pagine: quelle pagine diventano invece, dopo le umilianti occupazioni straniere e la dolorosa mutilazione dell’Istria, l’unico strumento per provare a ricucire le sanguinanti cicatrici della morte e dell’esodo. L’esodo istriano-dalmata diventa il momento più tragico della storia affannosa e tormentata di una particolare area geografica, che nonostante tutto, è diventata nel corso del Novecento, fucina di scrittori che più di altri hanno saputo interpretare il disagio, la fatica dell’esistenza, quell’inquietudine tipica della modernità che Scipio Slataper aveva già riconosciuto nelle contraddizioni proprie di Trieste: “commercio e letteratura, salotto e citta vecia, carso e lastricato, sloveni e italiani”. L’appartenere al mondo asburgico, alla Mitteleuropa, il desiderio di libertà e di unione all’Italia genera il disagio dei triestini, costretti a vivere una situazione di ‘diversità’ che per esempio Svevo identificava in «quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino», un’assenza che è tipica degli scrittori triestini: la consapevolezza di una mancanza di qualcosa che è stato loro strappato, l’identità. Vivere per sottrazione è la sintesi di questo malessere che permane sotterraneo nell’anima dei triestini e che fa di Trieste una città di frontiera: di passaggio, di approdo, che accoglie e che respinge e che diventa nelle pagine dei suoi autori meta verso cui convergere, città-mondo, luogo del degrado e dell’emarginazione sociale, ma anche del riscatto, luogo di contrasti e antinomie, città tentacolare e fantasma, città letteraria. “Destino di frontiera” era già quello avvertito da Slataper, ma che diventa lacerante condizione esistenziale per chi vive da protagonista l’esodo istrianodalmata: “dove finisce Scipio Slataper comincia Fulvio Tomizza” aveva intuito Biagio Marin, altro interprete della letteratura triestina. Seguendo questa linea ideale che da Slataper conduce a Tomizza e a Bettizza, la letteratura triestina, già connaturata per la sua ricerca di verità e di chiarificazione interiore, diventa ricerca nella

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memoria da parte di chi si sente a sua volta frontiera perché sopravvivere significa vivere sopra, cioè al di là della morte e della vita, e forse anche altrove rispetto alla propria vita.

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LORENZO MARI è  dottorando in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali presso l’Università di Bologna, con un progetto di ricerca riguardante le narrazioni e le rappresentazioni della famiglia nell’opera letteraria di Nuruddin Farah. Dirige la collana “L’altra lingua”, dedicata alla poesia dialettale italiana e alla poesia straniera in traduzione, per la casa editrice forlivese L’Arcolaio.

AbstractUn riconoscimento mancato. L’esperienza italiana (1976-1979) di Nuruddin FarahCome ha ricordato, tra gli altri, Lidia Curti (2006), durante la sua pluridecennale esperienza di esilio, lo scrittore somalo Nuruddin Farah ha vissuto in Italia per almeno tre anni, dal 1976 al 1979. In questo periodo, l’autore, che aveva già pubblicato due romanzi in lingua inglese (1970, 1976) e uno in lingua somala (1973) – quest’ultimo, censurato dalle autorità del governo di Siad Barre e a tutt’oggi introvabile – cerca senza successo di prendere contatto con alcune case editrici, abbandonando, infine, ogni tentativo di scrittura in lingua italiana.Oltre a segnalare la scarsa attenzione del circuito editoriale, nonché del dibattito culturale italiano, verso la propria storia coloniale e postcoloniale – dibattito che, dopo decenni di “rimozione” riaffiorerà con determinazione soltanto alla fine degli anni Novanta – la mancata trasformazione di Nuruddin Farah in un “autore postcoloniale in lingua italiana” avrà un’influenza determinante in alcuni dei romanzi successivi, in lingua inglese, dell’autore (1981, 1983, 1993, 2004). In queste opere, non si riscontra soltanto la rappresentazione dell’eredità del colonialismo italiano in Somalia – fase terminata nel 1960, con la fine dell’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia) – ma anche la critica della società italiana contemporanea all’autore, la quale – non avendo avviato un serio processo di decolonizzazione culturale e politica – si trova invischiata in una situazione che a più riprese Farah individua come “neo-coloniale”.Oltre a quest’analisi, s’impone un confronto storico-culturale che segnali la disparità tra l’esperienza di esilio postcoloniale, non adeguatamente “riconosciuta”, di Nuruddin Farah e quella degli esuli argentini e cileni, accolti, con una certa simpatia politica e culturale, negli stessi anni Settanta – esperienza, quest’ultima, che sarà anch’essa “rimossa” più tardi, nel contesto di un recente discorso, di matrice xenofoba, che considera l’Italia “invasa” da migranti, rifugiati ed esuli solo a partire dagli anni Novanta.

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ROSY MARTUCCI si è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne (Inglese, Francese, Tedesco)  presso l’Università Orientale di Napoli. E’ abilitata all’insegnamento di tutte le tre lingue di laurea. E’ stata docente di Lingua Inglese e di Lingua Francese. Ha pubblicato testi di civiltà e cultura inglese, americana, e dei popoli di lingua inglese. E' ora in congedo per completare  il Dottorato in Studi Umanistici, Italianistica, Letteratura Comparata  presso l’Università di Salerno, campus di Fisciano (UNISA), dove attualmente sta lavorando ad un Progetto di ricerca riguardante la letteratura italo-canadese ed italo-americana (Giose Rimanelli, Mary Melfi). Dal gennaio 2014 sarà a Toronto per una cotutela di Dottorato presso il Department of Italian Studies.

AbstractMary Melfi e Giose Rimanelli: fra testi letterari di frontiera ed esilio ed esigenze linguistiche espressive

Il Canada è bello perché vergine, selvaggio, disperatamente infinito….Io dico che tutti gli uomini che hanno patito torti, hanno sofferto…dovrebbero venire qui per sentirsi liberi (Giose Rimanelli, Biglietto di Terza).

È importante ricordare. I ricordi sono simili a baci mandati attraverso una stanza, con tante buone intenzioni, afferrali e ti sentirai meglio (Mary Melfi, Ritorno in Italia. Conversazioni con mia madre).

E Casacalenda, paese molisano, vanta i natali di due grandi scrittori espatriati in Canada e negli Stati Uniti: Mary Melfi e Giose Rimanelli. Oggetto di questo saggio sono: Mary Melfi, una delle più  importanti scrittrici italo-canadesi e il suo memoir Italy Revisited. Conversations with my mother, (Guernica, Toronto, 2009),

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tradotto in italiano con il titolo Ritorno in Italia. Conversazioni con mia madre (Iannone, Isernia, 2012) e  Giose Rimanelli, poeta e scrittore italo-canadese e italo americano e il diario di viaggio Biglietto di Terza (1958), pubblicato in italiano e poi in inglese dalle Editions Soleil di Toronto, Ontario, Canada. Entrambi gli autori, attraverso questi testi, intraprendono il viaggio nella tematica naturalistica dell’emigrazione. In Mary Melfi l’identità, la cultura, il lato metafisico dell’esistenza umana, le difficoltà di stabilire un’identità coerente femminile, la dislocazione culturale e linguistica, ed il tentativo di creare una nuova realtà sono i temi dominanti della sua arte scrittoria. In Giose Rimanelli, a partire da  Biglietto di Terza, resoconto e memoriale del suo primo viaggio in terra canadese, ritroviamo la memoria autobiografica e i temi della partenza e del viaggio, elementi questi, attraverso i quali la sua stessa esistenza viene messa in gioco. E’ un viaggio interminabile il suo, un viaggio verso l’ignoto, il viaggio di ogni uomo quando è costretto a recidere le proprie radici. E’ un viaggio alla ricerca esistenziale del sé. Le esigenze linguistiche espressive dei due testi spaziano dall’uso del dialetto molisano, all’italiano e all’inglese. Rimanelli si sofferma sulle molteplicità delle differenze anche linguistiche del Nord –America e, in particolare, dell’idioletto contaminato degli italiani d’America, e degli americo-italiani. La lingua usata diventa contaminata, ma molto colorita e un espediente dello scrittore per ritrarre scene di vita della comunità italiana emigrata. Il problema della lingua si riscontra anche in Ritorno in Italia.Conversazioni con mia madre.: “Il primo giorno di scuola passai da essere Maria ad essere Mary…(…) La lingua è un’arma che quelli al potere usano per prevaricare, non per favorire chi potere non ne ha”. La ricerca di identità della figlia, nel testo di Mary Melfi, è un viaggio a ritroso nel passato e nella cultura di appartenenza, e   si contrappone alla sofferenza della madre che vede nell’emigrazione la causa dell’incomunicabilità con la figlia stessa: “Non è un tavolo che ci separa, ma un oceano”. La parola “oceano” esprime tale sofferenza, ma allo stesso tempo c’è nella madre la consapevolezza che quello è il prezzo che deve pagare a causa dell’”emigrazione”. Il destino di entrambi i protagonisti dei due testi e anche dei due scrittori, sarà quello di abbracciare la lingua inglese che diventerà, con la lingua italiana e il dialetto molisano (la lingua dei padri), il nuovo mezzo di espressione e di identità culturale.

All’improvviso il passato è importante. Improvvisamente ho troppo grigio nei capelli. Nei miei pensieri. Cerco aiuto e mi rivolgo a mia madre. (Mary Melfi)

Le relazioni umane più vere devono basarsi su condivise e scambiate esperienze creative(…).La cosa più importante è creare… (Giose Rimanelli).

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MARTA MEDRZAK-CONWAYAbstractEsuli newyorchesi, esuli triestini: affinità tra i protagonisti ebreo-americani e i personaggi svevianiAmerica è di definizione la patria degli esuli, un Paese di confine tra il vecchio e il nuovo, dove il nuovo raccoglie e tramuta elementi del vecchio creando un ente organico – un melting pot. Il raison d'être di America, e soprattutto degli Stati Uniti, è l'essere la crocevia delle culture. New York rappresenta l'essenza del Nuovo Mondo ed essendo il nucleo dell'”americanità” – grazie alla vicinanza di Ellis Island – produsse una delle migliori e più variegate letterature “dell'esilio”. Tra essa spicca la prosa dei rifugiati dall'Est Europa, specie di origine ebraica, della prima e seconda generazione. La prosa ebraica in America narra non solo l'esperienza dello straniamento, le difficoltà e le conseguenze dell'assimilazione nel nuovo Paese, rafforzati dal fatto di appartenere al popolo “senza patria”, ma anche un pizzico dell'esperienza umana universale. La posizione degli ebrei è peculiare: la loro è sempre l'esperienza del doppio esilio.Curioso è il fatto che per quei rappresentanti della cultura ebraica negli Stati Uniti la narrativa di Italo Svevo, ben radicato nella propria città – un crogiolo di culture par excellance, “città di frontiera” (si potrebbe dire alquanto affine a New York, un genere della “piccola mela” che Trieste fu in epoca) – da Alfred Kazin chiamato uno degli “dei di questo mondo”, fu particolarmente significante. L'intervento analizzerà alcune opere degli scrittori americani, soprattutto di Saul Bellow e di Bernard Malamud, per caratterizzare l'esule del tutto particolare – l'Ostjude in America, con la sua esperienza del doppio esilio. Con quell'abbozzo del protagonista ebreo-americano si proverà a capire il legame tra gli scrittori ebrei in America e Italo Svevo, nonché – innanzitutto – a rispondere alla domanda che cosa possano avere in comune i protagonisti ebreo-americani e quelli dello scrittore triestino.

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ANDREA PAGANINI ha conseguito il dottorato in letteratura italiana all'Università di Zurigo, insegna italiano ed è ricercatore e scrittore. Nei suoi lavori critici ha studiato in particolare l'opera dei letterati  italiani che durante la Seconda guerra mondiale erano in esilio in Svizzera: Piero Chiara, Giorgio Scerbanenco, Ignazio Silone ecc. Ha pubblicato fra l'altro Un’ora d’oro della letteratura italiana in Svizzera (2006), Lettere sul confine (2007) e L’ora d’oro di Felice Menghini (2009). Dal 2009 dirige le edizioni „L’ora d’oro“. Nel 2012 ha ricevuto il Premio Letterario Grigione.

AbsrtactLa letteratura italiana in Svizzera durante la Seconda guerra mondialeDopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 e la successiva occupazione tedesca, alcune decine di migliaia di cittadini italiani hanno cercato rifugio in territorio svizzero: militari e civili, ebrei e avversari del regime, gente comune e intellettuali. Fra di essi figurano non pochi scrittori che, benché in terra straniera, hanno trovato la possibilità di continuare a scrivere e in parte a pubblicare grazie all’incontro e alla collaborazione con il mondo letterario della Svizzera italiana.Il loro esilio in terra elvetica e la loro opera di quel periodo formano, per chi si occupa di letteratura, un campo d’indagine interessantissimo e finora poco esplorato. Si tratta prevalentemente di carteggi e di opere letterarie vere e proprie: romanzi, racconti, poesie e saggi critici.Negli ultimi 13 anni, prendendo le mosse da un importante ritrovamento di documenti risalenti a quel periodo, ho potuto scoprire e in parte portare alla luce un fermento insospettato e un tassello di letteratura meritevole di attenzione e di cittadinanza nella storia letteraria italiana. Nel mio intervento vorrei soffermarmi – nei tempi necessariamente brevi – sui motivi della fuga, sull’esperienza dell’esilio e sulla produzione letteraria dei seguenti scrittori: Piero Chiara, Giorgio Scerbanenco, Arturo Lanocita, Indro Montanelli, senza strascurare Ignazio Silone (che in Svizzera ha trascorso un esilio assai più lungo). Si potrebbero proporre anche Giancarlo Vigorelli, Aldo Borlenghi, Pitigrilli (Dino Segre), Luciano Erba, Diego Valeri, Sabatino Lopez, Fabio Carpi, Giansiro Ferrata, Angelo Magliano, ecc., ma per ragioni di tempo sarà necessario limitarsi. Il denominatore comune tra gli scritti che intendo presentare è l’attenzione rivolta all’esperienza del fuoruscitismo e dell’esilio.

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CLAUDIO PANELLA è dottore di ricerca in Letterature e Culture Comparate e cultore della materia in Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università degli Studi di Torino. Con Stefano Tubia è autore di Pistoia in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni (ETS, 2013), edito a cura di Alba Andreini. Ha pubblicato saggi in volume e in rivista sulla rappresentazione letteraria del lavoro industriale e postindustriale, e su Francesco Biamonti e la cultura ligure.

AbstractFrancesco Biamonti: L’esilio e il regno sul confine italo-franceseNato e vissuto nell’estremo Ponente ligure, a San Biagio della Cima, Francesco Biamonti (1928-2001) è stato un autentico uomo di confine e ha condensato nella propria scrittura un inesausto dialogo con la storia, la luce e il paesaggio della frontiera italo-francese. Questo particolare confine geografico e l’idea stessa di confine hanno assunto un ruolo decisivo nell’opera di Biamonti, anche nel quadro dell’avvertimento di una sempre più acuta crisi culturale e politica.Da un lato, lo scrittore amava ripetere che “il paesaggio è una compensazione”, citando di frequente la raccolta di racconti di Albert Camus L’Exil et le Royaume (1957): “Io credo che uno si metta ad amare le cose per crearsi un piccolo angolo dove rifugiarsi. L’esilio e il regno, no? Ci si sente in esilio al mondo ed allora ci se ne crea uno proprio. […] Non è l’amore che spinge a scrivere; è il disagio, la ferita che c’è fra noi e il mondo” (F. BIAMONTI in PAOLA MALLONE, «Il paesaggio è una compensazione». Itinerario a Biamonti, De Ferrari, Genova 2001, p. 50).Dall’altro, i suoi personaggi “a galla nel paesaggio” sono passeur e migranti, marinai con il “male del ferro” ed esuli in bilico tra due mondi, il mare e la terra, l’Italia e la Francia, la cui cultura filosofica e poetica s’intreccia a quella ligure e la sostiene.

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L’intervento ricostruirà tali soglie storiche, geografiche ed esistenziali con citazioni dalle opere di Biamonti e dalle molte che lui amava citare intertestualmente (oltre che a Fransè, il romanzo del 2005 di Erminio Ferrari, che, omaggiandone la poetica, fa di Biamonti un personaggio letterario trasferitosi sul confine italo-svizzero attraversato da clandestini, contrabbandieri e trafficanti di droga).

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FLAVIANO PISANELLI insegna Lingua e Letteratura Italiana all’Università Paul Valéry – Montpellier 3 (Francia). Poeta e traduttore, ha dedicato molti studi critici all’opera letteraria e cinematografica di Pier Paolo Pasolini e di altri autori italiani del XX e XXI secolo (Ungaretti, Montale, Quasimodo, Tondelli, Silvana Grasso, Gesualdo Bufalino, Alda Merini, Mario Scalesi, ecc.). Attualmente la sua ricerca scientifica si focalizza sullo studio della poesia italofona della migrazione (Gëzim Hajdari, Barbara Serdakowski, Vera Lucia de Oliveira, Carlos Sanchez, etc.).

Abstract Dire, scrivere e tradire la frontiera. La poesia italofona della migrazione (Gëzim Hajdari, Vera Lùcia de Oliveira, Nader Ghazvinizadeh e Barbara Serdakowski).A seguito dell’intensificazione dei flussi migratori dal sud-est verso il nord-ovest del mondo, la critica letteraria italiana ha cominciato a registrare, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, un numero crescente di romanzi, opere poetiche e racconti scritti e pubblicati in lingua italiana da autori migranti che hanno fatto della scrittura il vettore attraverso il quale essi rappresentano agli italiani la loro nuova ‘dimora’, utilizzando una lingua detta d’adozione o d’elezione.Al contrario, il pubblico italiano, non senza qualche reticenza di ordine culturale e politico, inizia a confrontarsi con la rappresentazione di uno ‘spazio geografico e mentale’ tracciato da uomini e donne capaci di rimettere in discussione le nozioni di identità, di patria e di lingua.Vivendo l’esperienza dell’erranza, della dislocazione interna ed esterna, della deterritorializzazione e dell’oscillazione tra due o più lingue, questi poeti costruiscono, grazie ai loro testi in lingua italiana, un’identità, una cultura e una lingua che, per la loro natura plurale e composita, agiscono in modo tale da riuscire, al contempo, a modificare il sistema culturale, linguistico e letterario del paese d’accoglienza e a rinviare agli italiani un’immagine inedita di loro stessi.Attraverso la lettura e l’analisi di testi di Gëzim Hajdari (Albania), Vera Lùcia de Oliveira (Brasile), Nader Ghazvinizadeh (Iran) e Barbara Serdakowski (Polonia), presenteremo in un primo momento i caratteri principali di questa poesia italofona e mostreremo in seguito come tale produzione poetica arrivi a creare nuovi orizzonti di riflessione su tematiche inerenti alla lingua, all’identità, alla rappresentazione di sé e dell’altro in un contesto interculturale. Cercheremo inoltre di spiegare le posizioni attuali della critica italiana rispetto a questa produzione poetica e di identificarne, infine, i principali canali di diffusione.

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PAOLO PUPPA è ordinario di storia del teatro e dello spettacolo alla Facoltà di Lingue e di Letterature dell'Università di Venezia. Ha insegnato e diretto laboratori teatrali in università straniere, come a Londra, Los Angeles, New York, Princeton,Toronto, Middlebury, Budapest, Parigi, Lilles. Oltre a numerosi volumi di storia dello spettacolo e monografie e saggi vari, tra cui studi su Pirandello, Ibsen, Fo, D'Annunzio, Svevo, Rolland, Goldoni. Nel 2010 La voce solitaria, Bulzoni, storia del monologo in Italia. Di recente, presso Liguori Racconti del palcoscenico: dal Rinascimento a Gadda. Nel 2013 è stato co-editor di Differences on stage, per la Cambridge Scholars. Come commediografo, ha all'attivo molti copioni, pubblicati, tradotti e rappresentati anche all'estero, tra cui La collina di Euridice (premio Pirandello '96) e Zio mio (premio Bignami-Riccione '99). Si ricordano, in particolare Famiglie di notte (Sellerio 2000) e Venire, a Venezia (Bompiani 2004). Sempre nel 2006 ha ottenuto il premio come autore dall’Associazione critici di teatro per Parole di Giuda da lui stesso recitato. Nel 2008 ha vinto il premio teatrale Campiglia marittima con Tim e Tom. Nel 2009 sono uscite Lettere impossibili presso Gremese. In 2012 ha pubblicato per Titivillus Cronache venete e per Editoria & spettacolo Le commedie del professore.

Abstract Tra la Sicilia pirandelliana e la Norvegia ibseniana: la novella Lontano e la disgrazia/grazia di essere straniero

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Partendo della novella pirandelliana del 1902, Lontano, di impronta ibseniana l’intervento mette a fuoco le diverse, contraddittorie implicazioni relative alla grazia/disgrazia di Babele. Ambivalenza costitutiva del ruolo dello straniero, tra paria e Dio nascosto, nell’ottica del piccolo campanile e dell’intolleranza verso l’allofono. Figure emblematiche nella memoria letteraria e teatrale riguardo all’esilio linguistico, dal mito del buon selvaggio allo Straniero di Camus, da The room di Pinter a Stranieri di Tarantino. La diaspora ebraica e la tournée dell’attore: due modi diversi di intendere l’escursione in terre dall’idioma diverso. La risposta del plurnguismo della commedia dell’arte e del corpo performativo ai limiti della comunicazione verbale.

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CRISTIANO RAGNI è dottorando di ricerca in Italianistica e Letterature Comparate (XXVIII ciclo) presso l’Università degli Studi di Perugia, dove è stato anche tutor didattico di Letteratura inglese. Si occupa principalmente di Rinascimento e, in particolare, dell’influenza degli studi del giurista Alberico Gentili nell’Inghilterra elisabettiana. Su questo, ha presentato un intervento in occasione della Shakespeare Graduate Conference 2013, al British Institute di Firenze.

Abstract«La prole dello schiavo di Crusoe». L’identità “liquida” nelle Antille di Derek Walcott.Originario dell’isola caraibica di Saint Lucia, il Premio Nobel Derek Walcott ha ben indagato, all’interno della sua vastissima produzione poetica, l’esperienza del vivere in un crogiuolo di razze e lingue differenti e spesso in conflitto tra loro: «Ho dell’olandese, del negro e dell’inglese in me, o sono nessuno, o sono una nazione.»Tra i principali autori della cosiddetta letteratura postcoloniale di lingua inglese, Walcott riflette da sempre sulla realtà della sua terra d’origine, i Caraibi, in quanto ex luogo colonizzato, in cui continuano a permanere i lasciti dell’impero inglese, primo fra tutti la lingua. In questo mio intervento, prendendo in esame alcune delle poesie scritte dal 1948 a oggi, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti fondamentali dell’opera di Walcott, in quanto autore rappresentativo contemporaneamente di culture differenti e testimone delle loro travagliate relazioni. In primo luogo, vorrei evidenziare la consapevole scelta di questo poeta di comporre i propri versi in inglese, la lingua degli ex colonizzatori, in cui però egli magistralmente intreccia i suoni e i ritmi del patois della sua isola nativa. In secondo luogo, vorrei anche soffermarmi sulla costante riflessione di Walcott circa il ruolo dell’artista, del poeta posto di fronte alla sfida di definire la propria identità - e quella della propria patria. Sfida che per il poeta diventa però anche - significativamente - libertà di re-inventarsi ex novo nel contesto fluido dell’isola, fluido come il mare che di questa identità diventa spesso metafora.Vorrei cercare di mostrare dunque come egli abbia lentamente, ma in modo sempre più deciso, elaborato una propria idea di identità che, senza tacere critiche o sorvolare sugli inevitabili conflitti latenti, punta piuttosto a salvare il meglio delle varie culture esistenti sull’isola. Del resto, proprio il suo «impegno multiculturale», unito alla coerente «visione storica», è stato il motivo del riconoscimento del Nobel nel 1992.

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FELICE RAPPAZZO allievo di Carlo Muscetta, insegna all'Unversità di Catania Letteratura Italiana e Letteratura Italiana Contemporanea. E' redattore di "Allegoria" e collabodara con le riviste "Moderna" e "L'Ospite Ingrato". La sua attività di ricerca si è concentrata soprattutto su autori e intellettuali del Novecento italiano, sul dibattito critico, sulle traduzioni d'autore, ma anche su questioni di teoria e di metodo, dalla storiografia letteraria alla teoria dell'interpretazione, al decostruzionismo.

AbstractFrontiere di Franco FortiniL’idea di frontiera e di esilio è frequente, come si sa, nella saggistica e nella poesia di Franco Fortini; essa rimanda spesso alla condizione dell’intellettuale, “ospite ingrato” – appunto – alla mensa del potere e del moderno. Ma, al di là dell’allegorismo evidente in queste immagini, la condizione del limite e della soglia, del confronto con il noto e con l’ignoto, prendono spunto talvolta da situazioni reali, da confronti con l’alterità culturale e politica nella quale ci si specchia. Prenderò in esame tre momenti di Fortini legati a reali

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esperienze e occasioni di scritti che possiamo considerare reportages: l’incontro coi giovani tedeschi nel dopoguerra (Diario tedesco); il viaggio in Cina nei primi anni Cinquanta (Asia maggiore); il rapporto conflittuale con l’ebraismo, le visite a Gerusalemme (I cani del Sinai, Extrema ratio e altri scritti). In queste circostanze la cstruzione del soggettoe l’esperienza dell’altro si rimandano come in uno specchio, entro un modello culturale, tuttavia, che rifugge dall’etnocentrismo e dall’esotismo, e che ripudia anche l’egocentrismo psicologico.

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ELEONORA RAVIZZA è assegnista di ricerca presso il dipartimento di anglistica dell'Università di Bergamo. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Lingue e Letterature Euroamericane nel 2012 in cotutela fra l'Università di Bergamo e la Justus-Liebig Universität di Giessen (Germania) con la tesi (Be)Coming Home. Figurations of Exile and Return as Poetics of Identity in Contemporary Anglo-Caribbean Literature . È stata membro dell'International Graduate Center for the Study of Culture (GCSC) presso l’università di Giessen, e dell'European PhD Net “Literary and Cultural Studies”- Anglista e comparatista, si occupa principalmente di letterature post-coloniali, ibridità culturale, letteratura ed identità, filosofia del linguaggio.

AbstractPercorsi alla ricerca del sé e dell'altro nella letteratura d'esilio anglo-caraibica.“The pleasure and paradox of my exile is that I belong wherever I am”, affermava lo scrittore barbadiano George Lamming descrivendo la propria esperienza di soggetto coloniale trapiantato nell'Inghilterra dei primi anni cinquanta. Per Lamming, così come per molti scrittori caraibici appartenenti alla grande ondata migratoria nota come “Windrush generation”, l'esilio è una condizione indissolubilmente legata alla contraddittorietà del proprio essere “esuli”, “immigrati”, “stranieri”, “diversi” in una terra che, nonostante tutto, si insiste nel chiamare “madrepatria”. Eppure l'esilio non è solo il prodotto di contingenze geografiche. Attraversare l'Atlantico significa ripetere ed invertire il senso delle diaspore che hanno dato origine ai Caraibi, nonché ripercorrere in senso inverso i processi costitutivi di soggettività ibride e coloniali. L'esilio come scelta consapevole diviene per George Lamming, così come per Sam Selvon,V. S. Naipaul, Wilson Harris, Andrew Salkey, Roger Mais, e Michael Anthony punto di partenza della ricerca di una identità personale e collettiva, nonché occasione per ridefinire il labile confine fra sé e altro, qui e altrove, colonizzato e colonizzatore. L'esilio come esperienza paradossale di alienazione e ricongimento è il tema centrale di questo intervento che si focalizzerà in particolar modo The Pleasures of Exile – una raccolta di racconti autobiografici, saggi letterari, riflessioni storiche pubblicate da George Lamming nel 1960 – oltre che su alcuni romanzi che descrivono la vita quotidiana di immigrati caraibici nella Londra del secondo dopoguerra. Le analisi dei testi scelti cercheranno in particolar modo di interrogarsi su come le rappresentazioni scelte dell'esilio dello scrittore caraibico veicolino teorie del linguaggio, del discorso e della rappresentazioni che trasformano gli autori stessi da soggetti coloniali a produttori consapevoli di discorsi ibridi alternativi.

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JELENA REINHARDT ha conseguito nel 2012 il Dottorato in Letterature Comparate presso l’Università di Perugia. Nel 2008 ha pubblicato un ampio saggio sull’Elettra di H.v.Hofmannsthal, di cui ha curato una nuova traduzione (Premio «Leone Traverso – Opera Prima» sezione del «Premio Monselice»). Ha curato con U. Treder il volume Sorelle di Saffo sorelle di Shakespeare e con G.L. Grassigli Fellini-Satyricon.Tra memoria, racconti e rovine: un sottosuolo dell’anima. Ha pubblicato diversi interventi sul rapporto tra Schiller e Max Reinhardt, su aspetti della poetica di Herta Müller, Canetti e Uhlman. 

AbstractDalla periferia al centro: la figura del taglio in Elias Canetti e Herta MüllerIl mio intervento si propone di analizzare la dinamica del rapporto centro-periferia relativamente sia all’esperienza biografica, sia alla produzione poetica di Elias Canetti e di Herta Müller. Muovendo innanzi tutto dalla prospettiva degli studi postcoloniali, mi concentrerò poi sulla figura del taglio inteso da un lato come l’espressione di una categoria psicologica, dall’altro di una condizione fisica. Entrambi gli autori hanno, per certi versi, fatto esperienza di un percorso simile: di provenienza da un contesto di periferia, Elias

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Canetti dalla Bulgaria e Herta Müller della Romania, hanno tuttavia conquistato l’inclusione nel centro forte mediante la vincita del premio Nobel per la letteratura, come autori di lingua tedesca. I due autori, dunque, hanno adottato per la loro produzione letteraria una lingua del centro, il tedesco appunto. Non si è trattato, in ogni caso, di un uso automatico, bensì il risultato di un percorso di faticosa acquisizione, caratterizzato peraltro da un rapporto non privo di conflitti dovuti alla connessione del tedesco con la tragedia dell’olocausto e, nel caso di Müller, all’ulteriore complicazione dell’esperienza della dittatura di Ceausescu. Il mio intervento si soffermerà, in particolare, su come la figura del taglio inciso nel corpo, che in Canetti si esprime nella celebre immagine del taglio della lingua e in Herta Müller nel taglio delle mani/dita, diventi la metafora di una condizione identitaria in frammenti, che ha perso la sua unità perché sottoposta all’esperienza della separazione e dell’esclusione connesse ai concetti di frontiera, margine, confine. La fragilità del corpo, l’ossessione della possibilità di essere così facilmente violato, diventa il segno della fragilità dell’identità connotata sempre in relazione ai concetti di estraneo e di straniero, indissolubilmente legati al gesto di valicare i confini.

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ILARIA ROSSINI ha conseguito la Laurea magistrale in Letteratura italiana e linguistica presso l’Università degli Studi di Perugia; ha frequentato i corsi di philosophie de la religion, e philosophie morale presso l’Université Paris 1 Panthéon, Sorbonne; la sua tesi di laurea  Lungo  il  cammino  di  Florio,  una  lettura  del  Filocolo  di Giovanni Boccaccio è stata insignita del Premio Boccaccio 2011 per la miglior tesi di laurea di argomento boccacciano. Ha frequentato un master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo organizzato dalla Eidos communication. Attualmente si occupa della ricezione del Boccaccio giovanile nel Rinascimento europeo e, in particolare, francese.

AbstractIl mio intervento si pone l’obiettivo di analizzare l’esilio di Dante Aligheri, nel racconto che ne fa Giovanni Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante (1357-1361). Le motivazioni politiche all’origine della condanna del poeta, il suo pellegrinaggio, durato più di tre lustri, attraverso le corti italiane che gli offrirono riparo e il rifiuto sdegnoso di fare ritorno dietro pagamento dell’oblatio sono aspetti già ampliamente messi in luce dalla critica. Il Trattatello, nelle pagine dedicate, ci offre però un punto di osservazione particolare della vicenda, per la vicinanza cronologica e la partecipazione emotiva: Boccaccio infatti, oltre a ripercorrere in modo puntuale le tappe dell’esilio, getta una luce livorosa sulle cieche scelte politiche della Repubblica fiorentina.“Oh ingrata patria, quale demenzia, quale trascurataggine ti teneva, quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il tuo unico poeta con crudeltà disusata mettesti in fuga, e poscia tenuta t’ha?”. Accanto ai toni dell’invettiva contro Firenze, compaiono poi quelli dell’ammirazione per il rigore magistrale con cui Dante sopporta l’iniquità della condanna e per la consapevolezza dolente con cui egli vive il conflitto tra speranza tradita e desiderio di ritorno. La ‘fiorentinità’ di Dante, nell’accezione di vicinanza etica ed amorosa alle sorti della sua città, è un tratto essenziale del carattere: per questo l’esilio assume la portata di un’esperienza di totale distruzione e scissione, confortata – mai risolta – dal sentimento dell’onore con cui il poeta elabora la sua radicata percezione di diversità rispetto ad una comunità moralmente crollata (“l’essilio che m’è dato, onor mi tegno […]”). Boccaccio rende giustizia a questo complesso scenario, politico ed umano, e nella sua aspra ricognizione si può intravedere qualcosa della durezza delle opere dell’ultima fase della sua vita, segnata anche per lui da un periodo di allontanamento, di ben diversa drammaticità, dagli incarichi pubblici. Lo scopo del mio lavoro sarebbe dunque quella di analizzare l’esperienza feroce dello sradicamento attraverso gli occhi dell’ammiratore, aggiungendo anche un piccolo tassello alla costellazione degli studi sul rapporto tra Alighieri e Boccaccio.

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VALENTINA SARDELLI ha conseguito la laurea in lingue e letterature straniere (germanistica e anglistica) all'Università di Siena, Dottorato di ricerca in letterature straniere moderne (germanistica) all'Università di Pisa, e il Diploma DITALS per la didattica dell'italiano L2 all'Università per Stranieri di Siena. Docente di Lingua e letteratura italiana in Austria e Stati Uniti; relatrice in convegni a Roma Tre, Tor

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Vergata, Università tedesca di Praga. Ambiti di ricerca: letteratura praghese in lingua tedesca, letteratura tedesca dell'esilio.

Abstract“La vera patria è la lingua”. Gli intellettuali ebreo-tedeschi da minoranza praghese a comunità esule “Die wahre Heimat ist eigentlich die Sprache”: “in realtà la vera patria è la lingua”, scriveva Wilhelm von Humboldt nel 1827. Per questo coloro con cui l'idioma è condiviso sono e restano i concittadini, sia pure di un paese che esiste solo per chi continua a ricordarlo ed evocarlo.Il 15 marzo 1939 l’esercito nazista occupa Praga e la Cecoslovacchia. Nei giorni precedenti, e fino alla turbolenta vigilia di quella data, molti intellettuali appartenenti alla comunità di origine ebraica e di madrelingua tedesca fuggono dal paese, dalle case e dalla vita conosciuta fino ad allora: in un attimo tutto diventa passato, in eredità solo i ricordi, la paura e la propria lingua. “Meine Heimat ist, was ich schreibe”: “la mia patria è ciò che scrivo”, confesserà Johannes Urzidil, uno degli esuli, quasi accogliendo il suggerimento di Von Humboldt. Urzidil è narratore, saggista, giornalista e, insieme alla moglie Gertrude Thieberger, poetessa e sorella del Friedrich Thieberger che insegnò ebraico a Franz Kafka, attraversa in treno l’Europa, si nasconde per due anni nelle campagne inglesi, poi arriva a New York. Tra i fuggitivi anche gli scrittori: Max Brod, che si salva in Palestina, Hans Günther Adler, che si rifugia a Londra, Felix e Robert Weltsch, che si stabiliscono a Gerusalemme, Franz Werfel, che giunge in California dopo due anni trascorsi in Francia, e non solo. Personalità forse poco conosciute, ma certo testimoni straordinarie del proprio tempo; minoranze in patria, ma parti di una grande famiglia di esuli all’estero: le loro storie si intrecciano, le loro paure si somigliano, le loro fughe si concludono ovunque nella scrittura, pubblica e privata, che ricrea una comunità dispersa e rafforza un’identità definita.

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SIRIANA SGAVICCHIA insegna Letteratura italiana contemporanea nell'Università per Stranieri di Perugia. Si è occupata e ha scritto di autori dell'Ottocento e del Novecento che appartengono in prevalenza al versante della sperimentazione linguistica ed espressiva (Imbriani, Pascoli, Savinio, Morante, Ortese, Pasolini, Rosselli, D'Arrigo, Giuliani, Pagliarani, Pierro, Insana, e altri). Tra le sue pubblicazioni, l'edizione, con A. Cedola, della prima redazione del romanzo Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo (I fatti della fera, Rizzoli, 2000) e una monografia dedicata all'autore (Il folle volo. Lettura di Horcynus Orca, collana "Giacomo Debenedetti", 2005). Tra le pubblicazioni recenti, il volume dedicato a La Storia di Elsa Morante (ETS, 2012) e la monografia Carlo Emilio Gadda (Lemonnier-Mondadori Education, 2012).

AbstractL'intervento si propone di analizzare il rapporto fra esperienza vissuta, memoria e scrittura  dell'esilio. Il caso di Amelia Rosselli è paradigmatico nell'ambito dell' ampio e discusso orizzonte degli studi intorno all'esilio e ai totalitarismi e possiede evidenti risvolti sia nell'ordine della riflessione filosofica che alla pratica della scrittura. 

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CRISTINA TERRILE insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Tours. Autrice di saggi vari su autori italiani del Novecento (Pirandello, Svevo, Tozzi, Borgese, Palazzeschi, Banti, Delfini, Calvino, Gadda, La Capria ed altri), sulla critica letteraria e sul rapporto fra letteratura e filosofia, ha pubblicato i libri La crise de la volonté ou le romanesque en question. Borgese, Green, Perutz, Pirandello, Kafka (Paris, Champion, 1997) e L’arte del possibile. Ethos e poetica nell’opera di Tommaso Landolfi, (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007); sta ultimando la monografia « Sono gli altri che mi fanno diventare » : Aldo Palazzeschi e la poetica del cospetto. Affiliazione professionale: «Maître de conférences» (Habilitation à Diriger des Recherches) in Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università François Rabelais di Tours.

AbstractIl "dispatrio" di Luigi Meneghello: la polarità come fondamento di poetica.

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Il volontario «dispatrio»  di Luigi Meneghello coincide con un’esigenza oscuramente sentita come fondamentale: «Io volevo andare in Inghilterra, la cosa mi eccitava in modo più complesso, su un oscuro piano esistenziale» (Il dispatrio). La condizione di espatriato appare in effetti indissociabile dai fondamenti di una poetica per la quale la distanza è fondatrice. In uno dei numerosi bilanci della sua esperienza inglese, Meneghello riconosce la funzione cruciale della nuova, diversa «sostanza» culturale che si trova ad assorbire: «Non si trattava di una cultura che ne soppiantava un’altra, ma della formazione di un secondo polo culturale» (La materia di Reading). La cultura inglese, tanto ammirata, («Ero andato lassù come su un altare», Il dispatrio) introduce nella vita intellettuale dello scrittore vicentino una prima consapevole «forma di polarità»: «Era come se per poter pensare, o perfino sentire, occorresse lasciar fluire la corrente tra i due poli» (La materia di Reading). Questa prima esperienza della distanza e dell’estraneità, quella dell'italiano in Inghilterra, accenderà, in seguito, per rifrazione, un altro polo, il terzo, quello di Malo. Nell’oscillazione, nella «corrente alternata», nel distacco, l’arte di Meneghello trova la sua prospettiva imprescindibile: per «arrivare il più vicino possibile alla realtà delle cose» (Discorso in controluce), la scrittura letteraria non può svilupparsi all’ombra del «derivativo» (i materiali d’accatto della cultura italiana, con tutti i suoi orpelli retorici), ma deve attingere dall’«originario», cioè da un’esperienza diretta, empirica (un’experience, precisa Meneghello), al tempo stesso vicina ed estranea. Rispetto alla cultura nostrana, col suo bagaglio di parole spente, astratte, refrattarie, la «materia» di Malo e la Matter of Britain offrono entrambe, seppur diversamente, il privilegio di un'esperienza culturale e linguistica «originaria», non addomesticabile, fatta, al tempo stesso, «di partecipazione e di distacco». Per dire questa realtà, non discorsiva, ma intuitiva, la scrittura di Meneghello si assesta in una zona di confine, fra diversi serbatoi linguistici da cui essa assorbe gli «enzimi essenziali», cioè le parole che, in virtù del loro suono insolito, per lo più intraducibile, creano «un curioso senso di intensificazione», facendo splendere nuovi frammenti del reale.Vorrei proporre un esame degli scritti di Meneghello (in particolare, quelli sulla sua esperienza di espatriato) alla luce di questa polarità fondatrice, nella quale la distanza (culturale e geografica) è condizione necessaria per arrivare più vicino alla realtà delle cose.

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TIZIANO TORACCA è dottorando in Italianistica e Letterature comparate all’Università di Perugia e si occupa di Paolo Volponi e del romanzo italiano degli anni Settanta. Si è laureato in Giurisprudenza e in Lingua e Letteratura Moderna all’Università di Pisa. Ha pubblicato articoli sul mensile di politica e letteratura «Il Ponte» e recensioni sulla rivista di critica cinematografica «Rifrazioni». Ha scritto e pubblicato alcuni saggi sul cinema noir e sul regista Alexander Sokurov. Ha lavorato come docente di legislazione sociale e da qualche anno tiene un corso di scrittura creativa in un centro diurno per malati mentali.

AbstractUno sdradicamento drammatico: Pasolini verso il Terzo MondoA partire dai primi anni Sessanta, Pasolini comincia a viaggiare regolarmente in Oriente e in Africa. Contrariamente al mondo occidentale, sempre più dominato dal consumismo e dall’omologazione, l’Oriente e l’Africa appaiono infatti all’autore dei luoghi incorrotti attraverso i quali è ancora possibile rappresentare una realtà alternativa.In questo intervento mi propongo di analizzare alcune opere che Pasolini elabora tra il 1961 e il 1975 e che scaturiscono direttamente dall’esperienza dei suoi viaggi ai confini dell’Occidente. In particolare, mi propongo di chiarire come esse trovino origine in quel progressivo e drammatico sradicamento dell’autore dalla tradizione patria. Come aveva intuito Moravia, è a quest’altezza, infatti, che Pasolini sposta la sua ricerca del sacro e dell’autentico dalle borgate romane al Terzo mondo. Nonostante Pasolini resti il testimone più acuto delle vicende italiane di quel periodo, molte sue opere nascono da un moto contrario: dall’esigenza di immaginare un altrove in grado di contrapporsi alla rivoluzione antropologica in atto nei paesi occidentali. Mi riferisco, in particolare, a L’odore dell’India, volume che raccoglie articoli scritti nel 1961 al termine di un viaggio in India e in Kenia; a Il padre selvaggio, sceneggiatura del 1962, riscritta come episodio di un film mai realizzato (Appunti per un poema sul Terzo Mondo), pubblicata nel 1967 e poi, con valore propriamente letterario, nel 1975; ad alcuni testi di Poesia in forma di rosa, quarta raccolta di versi dell’autore, pubblicata per la prima volta nel 1964; ad Appunti per un film sull’India e ad Appunti per un’Orestiade africana, documentari presentati a Venezia nel 1968 e nel 1973.Queste opere tematizzano una sorta di frontiera antropologica e contribuiscono a chiarire quale tipo di realtà Pasolini sentisse minacciata dalla spinta omologante del mondo occidentale.

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MASSIMILIANO TORTORA insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Perugia. È direttore de «L’Ellisse. Studi storici di letteratura italiana» e redattore di «Allegoria». Ha pubblicato saggi e volumi su Ungaretti, Montale, Bassani, le riviste e le politiche culturali; si è occupato di narrativa breve, specificamente di primo Novecento (Svevo e Tozzi), e di poetiche moderniste (Sul modernismo italiano, curato insieme a Romano Luperini).

AbstractL'<<esilio>> e la <<patria>> sognata in Mediterraneo di Eugenio MontaleIn Mediterraneo, terza sezione di Ossi di seppia, Montale mette in scena un dialogo tra l’io lirico e il mare, inteso nella sua funzione di padre, divinità superiore, ente trascendente. Nei confronti di quest’ultimo l’io lirico avverte una dolorosa separazione, tanto più bruciante poiché seguita ad un tempo, immemorabile (quello dell’infanzia), in cui tra i due poli vi era perfetta fusione e contiguità. È qui che prendono corpo i concetti di «patria sognata» e di “esilio” («L’esiliato rientrava nel paese incorrotto»), che si istituiscono sì in questa sezione, ma che di fondo informano l’intera raccolta. Una lettura di Mediterraneo alla luce dell’«esiliato», della «patria sognata», delle «terre straniere», ma con uno sguardo sempre aperto a tutti gli Ossi di seppia, è ciò che si prefigge in questo intervento.

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MIRELLA VALLONE Mirella Vallone è ricercatrice di Lingua e Letterature Anglo-americane presso l’Università degli Studi di Perugia. È autrice di Quella rara intensità. Henry James tra narrativa e teatro (Edizioni Campus, 2003) e di Ciò che si muove ai margini. Identità e riscrittura della storia nazionale in Toni Morrison, Gloria Anzaldua e Bharati Mukherjee (in uscita per Aguaplano Editore). Ha scritto articoli e saggi su vari autori americani e ha tradotto e curato per la Collana Nuovo Mondo l’edizione italiana di La sovranità e la bontà di Dio. Racconto della prigionia di Mary Rowlandson (Morlacchi Editore, 2008).

Abstract“Here, there, and elsewhere”: esilio e identità in Crescent di Diana Abu-JaberNell’influente opera Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione l’antropologo Arjun Appadurai spiegava come nel mondo contemporaneo la giustapposizione delle migrazioni di massa e del rapido flusso di immagini mediate avesse creato un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività moderne e, distinguendo, a proposito delle prime, tra diaspora di speranza, diaspora di terrore e diaspora di disperazione, sottolineava come ognuna di esse portasse l’immaginazione, intesa come memoria e desiderio, a strutturarsi in mitografie che sono carte per nuovi progetti sociali.Tra le varie forme di dislocazione e discontinuità, un posto particolare è occupato dall’esilio, definito da Said quel fenomeno “irrimediabilmente secolare e insopportabilmente storico, singolarmente avvincente da pensare ma terribile da sperimentare”, contraddistinto dalla impossibilità del ritorno.Il paper intende prendere in esame le varie forme di sradicamento che caratterizzano la società statunitense contemporanea, che hanno messo in discussione i concetti stessi di identità e cultura nazionali, ridisegnandone i confini, attraverso l’analisi del romanzo Crescent (2003) della scrittrice arabo-americana Diana Abu-Jaber, ambientato prevalentemente nel quartiere arabo di Los Angeles. I personaggi del romanzo, siano essi immigrati, rifugiati, esuli, studenti stranieri o americani di seconda generazione, sono tutti esuli, poiché soffrono forme diverse di esilio fisico o mentale; la scrittrice mette in scena la loro ricerca di un passato assente, di una casa perduta, la lotta per redimere quell’assenza e, per quanto riguarda i due protagonisti, anche il lento e difficile ritorno a casa.

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ALESSANDRO VITI ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Siena. Oltre a vari saggi di teoria della letteratura, italianistica e letteratura comparata nell’ambito di Ottocento e Novecento su riviste, volumi collettivi e atti di convegno, ha pubblicato il volume monografico sulla critica tematica Tema (Guida, Napoli 2012) e ha curato Ascoltate degli esuli il canto. Un’antologia tematica della poesia

Page 33: persistenzeorimozioni.files.wordpress.com file · Web viewKeynote speaker: Romano Luperini – L’intellettuale in esilio MAURIZIO ACTIS-GROSSO. è docente di Lingua, Letteratura

risorgimentale (Nerosubianco, Cuneo 2010). Ha inoltre collaborato alla stesura di una bibliografia ragionata delle antologie di racconti italiani del Novecento per la rivista Moderna (2010, XII, n. 2).

AbstractL'esilio nel romanzo risorgimentale: ricognizione di una (quasi) assenzaOltre a essere il romanzo inaugurale del mito letterario dell’unità nazionale, Le ultime lettere di Iacopo Ortis introduce quella che diventerà una figura cardine della letteratura risorgimentale: quella dell’esule politico. La lezione di Foscolo contribuisce a far sì che, a partire dagli anni Venti del secolo, il tema dell’esilio si ritagli un ruolo fondamentale nella costruzione della mitologia risorgimentale. Il personaggio dell’esule errante con la patria nel cuore compare sotto varie declinazioni nei libretti d’opera e in numerose poesie, spesso autobiografiche. Non altrettanto si può dire dei romanzi, in cui il tema dell’esilio, anche quando ha un ruolo importante nell’intreccio, viene trattato come di sbieco, senza sottolineature enfatiche come invece avviene nella lirica coeva. Soffermandosi su alcuni dei più importanti romanzi italiani dell’epoca quali Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo (1840), Doctor Antonio (1855) di Giovanni Ruffini, Le confessioni di un italiano (1858) di Ippolito Nievo, l’intervento si propone di investigare le ragioni di questa divaricazione di trattamento del tema nei diversi generi letterari.

Incontri d’autore: ospite Diego Zandel http://www.diegozandel.it/