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ESAMINIAMO UNA RICERCA DI ROBOTICA EDUCATIVAPROF.SALVATORE COLAZZO

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Università Telematica Pegaso Esaminiamo una ricerca di robotica educativa

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1

1 ROBOTICA EDUCATIVA --------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

1.1. L’IDEA PROGETTUALE -------------------------------------------------------------------------------------------------------- 4

2 UN ALTRO MODO DI APPRENDERE ---------------------------------------------------------------------------------- 6

3 L'IPOTESI DI RICERCA ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 8

3.1. IL DISPOSITIVO SPERIMENTALE ---------------------------------------------------------------------------------------------- 9

4 IL DISEGNO SPERIMENTALE LE PROCEDURE ------------------------------------------------------------------ 12

4.1. DIGRESSIONI ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------14

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1 Robotica educativa

Esaminiamo la ricerca riportata nel quarto capitolo del testo Di F. Celi e D. Fontana, Fare

ricerca sperimentale a scuola (Erickson, Trento, 2003). La ripercorriamo al fine di comprenderne la

struttura.

A scuola si imparano solo contenuti o si apprendono delle abilità che poi possono essere

trasferite in contesti differenti? Ci riferiamo ad abilità come l’acquisizione di un metodo di studio,

la disposizione a riflettere, ecc. Come fare a coltivare e a potenziare queste abilità? Come riuscire a

motivare gli allievi quando abbiano perso interesse nei confronti della scuola e delle sue attività?

Spesso la demotivazione dipende dal fatto che il discente, avendo subito delle frustrazioni,

probabilmente a causa della difficoltà ad acquisire quelle abilità che consentono l’efficace

acquisizione dei contenuti, perde interesse nei confronti dell’apprendimento. In questi casi può

risultare capace di recuperare il discente svogliato un’azione mirata a sviluppare un metodo di

studio.

Se in una classe mi trovo di fronte ad un gruppo di soggetti poco motivati allo studio,

distratti, iperattivi, poco disponibili a seguire le attività scolastiche, ho qualche strategia efficace per

tentare di recuperarli? E una volta applicata ho la possibilità di affermare con una qualche

fondatezza: “questa strategia funziona più di quest’altra”?

Le ricerche di solito si fanno per rispondere ad alcune domande. Per fare una ricerca, quindi,

bisogna avere un problema. Nel nostro caso il problema che ci troviamo a dover fronteggiare è

quello dei ragazzi scarsamente motivati. Quando il problema è troppo complesso conviene

semplificarlo, scomponendolo in sottoproblemi.

Nel campo educativo quest’impostazione non è un dato acquisito. Spesso ci si trova di fronte

ad obiezioni del tipo: “la realtà educativa è troppo complessa, solo uno sguardo olistico la può

cogliere, vale l’intuizione del docente, che interpretando momento per momento le situazioni, trova

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le soluzioni volta a volta più idonee”. Tale obiezione viene contrabbattuta da chi pensa che

convenga adottare anche in campo educativo un atteggiamento sperimentalista, che non contesta la

complessità della realtà educativa, ma ritiene che valga la pena comunque isolare degli aspetti,

individuare delle situazioni problematiche, ipotizzando nessi causali e tentare di abbozzare delle

soluzioni da sottoporre a rigorosa verifica.

Ogni attività di ricerca sperimentale nasce da una riduzione della complessità. Ciò significa:

individuare un numero finito di variabili e tentare di trovare delle risposte “certe”, che derivano

dalla manipolazione ad hoc delle variabili, che consente di poter produrre qualche inferenza sul

funzionamento della realtà, meglio: di un pezzo della realtà. Se si vuol fare ricerca sperimentale

bisogna diventare abili a ridurre la complessità, cioè a riformulare le domande che inizialmente si

presentano a noi (e che generalmente sono piuttosto generiche, ampie e piuttosto difficili da

gestire): vanno scomposte in domande più semplici, dominabili da piccoli dispositivi di ricerca.

Risulta chiaro che lo scopo fondamentale della ricerca sperimentale è tentare di controllare la realtà.

E quest’atteggiamento genera rimostranze in chi rifiuta lo sperimentalismo in pedagogia: per quanti

sforzi si faccia – essi affermano – per controllare la realtà, questa sarà sempre più ricca di

qualsivoglia sforzo intrapreso a controllarla.

È indubbio che l’applicazione del metodo scientifico ha aperto enormi possibilità al dominio

dell’uomo sulle cose, tuttavia è altrettanto indubbio che essa ha mostrato dei limiti, che dipendono

in gran parte dalla sottovalutazione della complessità del reale e dalla hubrys dello sperimentatore

che pensa il metodo scientifico come esaustivo di tutte le possibilità di relazione con la realtà.

Quindi, il suggerimento che vogliamo offrire è che evitando ogni estremismo, ci disponiamo a

cogliere le opportunità che la semplificazione offre.

1.1. L’idea progettuale

Dopo questa digressione, riprendiamo a considerare la ricerca, il cui problema, in verità,

abbiamo enunciato molto sommariamente. Esistono dei ragazzi demotivati, che hanno difficoltà

nell’apprendimento. La prima domanda da farsi probabilmente è: questa difficoltà

nell’apprendimento è solo un problema che manifestano a scuola o si tratta di un deficit del

soggetto? In altri termini, ci troviamo di fronte a ragazzi normodotati o no? Se la risposta è sì, allora

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il problema va riformulato quantomeno aggiungendo al sostantivo apprendimento l’aggettivo

scolastico. Si tratta di ragazzi che manifestano difficoltà di apprendimento scolastico.

Noi sappiamo che accanto all’apprendimento formale esiste l’apprendimento informale e

non-formale. I soggetti che presentano difficoltà a scuola, tuttavia nei contesti differenti da quello

scolastico, apprendono (in maniera spontanea, cioè sotto la pressione di stimoli ambientali) una

gran quantità di cose. Ognuno di noi ha una naturale disponibilità ad apprendere, sostenuta da uno

spontaneo interesse e da una implicita motivazione. Vivere è apprendere. Com’è possibile che dei

soggetti che nell’interazione con l’ambiente manifestano notevole capacità ad apprendere, poi a

scuola non presentano un’altrettanto vivace disponibilità? L’apprendimento che avviene a scuola ha

natura differente da quello che avviene fuori da scuola: le dinamiche dell’apprendimento scolastico

seguono traiettorie proprie. È risultato di un’azione intenzionale di insegnamento, avviene

all’interno di un’organizzazione che si pone l’esplicito proposito di produrre apprendimento,

valutandone gli esiti, ecc.

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2 Un altro modo di apprendere

Il gioco è un’occasione preziosissima di apprendimento. Senza la necessità di eccessive

istruzioni formali, i bambini facendo realizzano situazioni ottimali di apprendimento. Immaginiamo

di osservare un bambino che gioca con un meccano, ebbene, egli esibisce abilità che potrebbero

sorprendere il docente, che a scuola compie una grande fatica a tentare di indurre apprendimenti

molto più elementari. Non può non venire spontaneamente alla mente l’idea che se quel bambino

potesse essere messo a scuola in condizioni similari, certo avrebbe risultati di apprendimento

migliori. Giocando, spesso il bambino mobilita le sue risorse cognitive, trova una motivazione

intrinseca che invece non riesce a trovare nei compiti scolastici. Ciò significa che il bambino, ad

esempio, giocando può compiere calcoli complessi, che però non riesce a replicare quando sia

messo di fronte ad un’attività scolastica. Come mai succede questo? È un problema di

rappresentazione del compito, di percezione del contesto…: esistono dei fattori che incidono sulla

mobilitazione delle risorse cognitive. Il problema quindi non è di funzionamenti, ma di capacità: il

soggetto ha le potenzialità, ma le circostanze non sono tali da favorire la loro attualizzazione. I

funzionamenti non sono supposti, ma concretamente verificati, in quanto osservati in contesti

differenti, più favorevoli al loro esprimersi.

Tra apprendimenti formali e apprendimenti informali si verifica quello che in letteratura è

chiamato “effetto doppio fondo”: vi è un comparto in cui si organizzano gli apprendimenti formali e

uno in cui si depositano quelli informali, il passaggio dall’uno all’altro non è sempre agevole,

poiché una caratteristica dell’apprendimento è quella della sua contestualizzazione, per essere

attivato ha bisogno di un catalizzatore, che generalmente si trova fuori dal soggetto, nell’ambiente.

Il complesso degli apprendimenti informali costituisce una sorta di inconscio cognitivo, non a caso

Michel Polanyi ha introdotto il costrutto di apprendimento tacito, che si esprime in situazione.

La “conoscenza tacita” di cui parla Polanyi appare dunque intrinsecamente connessa col singolo

individuo, con la sua esperienza, con il suo vissuto: grazie ad essa egli può far fronte alle situazioni

problematiche che via via gli si presentano, ma – ove richiesto di formalizzarla -, egli ha

grandissime difficoltà a farlo.

Polanyi sostiene, in sostanza, che noi possiamo conoscere ben più di ciò che col nostro

linguaggio riusciamo a dire. La conoscenza che noi possiamo esprimere attraverso le parole, i

numeri, gli schemi, i diagrammi, è solo la punta dell’iceberg dell’intera conoscenza che

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possediamo. Se la punta dell’iceberg è la conoscenza esplicita, il corpo dell’iceberg è costituito

dalla conoscenza tacita. Senza conoscenza tacita non ci sarebbero le “illuminazioni”, le intuizioni, i

flash soggettivi. Essa – sostiene Polanyi – è come incorporata nelle azioni e nell’esperienza degli

individui, i quali manifestano grande difficoltà ad esprimerla con parole o altra forma comunicativa

esplicita; è quindi una conoscenza che esiste, ma che non è facilmente visibile ed esprimibile. Essa

può essere dedotta attraverso l’osservazione dei comportamenti, per mezzo di discussioni di gruppo,

interviste ed indagini.

La conoscenza esplicita è codificata attraverso la lingua, può essere espressa per mezzo di

linguaggi altamente standardizzati (come la matematica), ha natura formale e sistematica. E’

archiviata nelle biblioteche, negli archivi, nei database. E’ trasferibile grazie a manuali, libri,

computer. Nel nostro Occidente a questa forma di conoscenza generalmente si è dato sempre un

gran peso e l’istituzione scolastica si è costruita attorno ad essa. La conoscenza esplicita è

facilmente duplicabile, è chiara ed evidente; al contrario la conoscenza tacita è intituiva, ambigua,

difficile da rappresentare, quando qualcuno tenta di esplicitarla il suo linguaggio acquista

andamento narrativo-interpretativo, metaforico.

La conoscenza tacita è una conoscenza “incorporata”, nel senso che chi agisce facendo leva

sulla propria conoscenza tacita, lo fa con l’intelligenza del proprio corpo, non ha distanza da cose e

persone, è un tutt’uno col proprio conoscere. Da ciò deriva la difficoltà di tradurla in parole, regole,

algoritmi.

Detto tutto ciò, la constatazione che il soggetto in situazioni ludiche fa riferimento al

repertorio degli apprendimenti impliciti, ci deve far riflettere. Proprio quegli allievi che presentano

difficoltà a scuola, sono quelli che non si sottraggono al gioco, e anzi in esso sono particolarmente

abili. Per loro quindi va pensato un percorso che sappia proporre i contenuti scolastici in forma

ludica, un percorso che sappia avvalersi del learning by doing (imparar facendo).

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3 L'ipotesi di ricerca

I giochi della serie Lego si prestano particolarmente a coniugare la dimensione ludica con le

esigenze dell’apprendimento scolastico. La questione di ricerca è: se inseriamo questi giochi dentro

un programma educativo opportunamente progettato i soggetti meno motivati, recuperano

motivazione riuscendo a pervenire a migliori risultati di apprendimento? La risposta alla domanda

va trovata con un opportuno dispositivo di ricerca, che consentirà una verifica fattuale dell’ipotesi

che i Lego possano essere utili a migliorare le prestazioni in termini di apprendimento di alcune

categorie di soggetti.

Il Logo è un linguaggio di programmazione pensato appositamente da Seymour Papert, un

docente del MIT, per insegnare in maniera divertente insieme la geometria e le tecniche di base

della programmazione. Una tartarughina virtuale può essere fatta muovere nello spazio dello

schermo, disegnando traiettorie e quindi figure geometriche, grazie a comandi ad essa offerti

mediante opportune istruzioni, formulate nel linguaggio che essa può comprendere. Per un certo

periodo nella scuola italiana si è fatto largo uso del Logo, poi è stato sostanzialmente abbandonato.

Il Logo quando nacque era destinato a muovere, attraverso semplici istruzioni formali, un

oggetto reale (un robot) nello spazio reale.

Si tratta di recuperare quest’uso del Logo, abbinandolo ai Lego. L’inventore del Logo ha

colto le opportunità educative di tale abbinamento e ha proposto il Lego-Logo, come sintesi tra il

mondo dei giochi reali e il mondo dei giochi virtuali, fra un apprendimento realizzato attraverso le

mani e un apprendimento attuato attraverso il pensiero.

Con i mattoncini del Lego si costruiscono delle piccole creature robotiche, con il linguaggio

di programmazione Logo si dà loro vita, si insegna loro a muoversi lungo direzioni predefinite, a

riconoscere i colori e a comportarsi in modo diverso a seconda del colore che il robot incontra. Il

Lego Logo è un modo ingegnoso per mobilitare gli apprendimenti informali verso la dimensione

più astratta e formale.

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La nostra ipotesi di ricerca quindi è: le possibilità offerte dalla costruzione di piccoli robot

(Lego Dacta) possano offrire possibilità utili a stare meglio a scuola e realizzare importanti obiettivi

didattici.

3.1. Il dispositivo sperimentale

Avendo l’ipotesi, possiamo pensare al dispositivo sperimentale per poter verificare l’ipotesi.

In verità la procedura sperimentale non è l’unica possibile. Potremmo ad esempio organizzare un

laboratorio, progettare e realizzare delle attività educative a cui far partecipare tutti i bambini,

osservare attentamente ciò che succede e alla fine dell’anno chiedersi cosa è successo.

Probabilmente, impostando così la questione, dovremmo constatare risposte molto diverse: i docenti

entusiasti ricaverebbero motivi a conferma del loro atteggiamento postivo, quelli scettici altrettanto

facilmente troverebbero conferma delle criticità supposte.

Una ricerca sperimentale nasce da una sospensione del giudizio, invece, e cerca di trovare

riscontri oggettivi di conferma/sconferma dell’ipotesi iniziale. Si fa una ricerca sperimentale avendo

una domanda e aprendosi alla possibilità che qualsivoglia risultato emerga è da accogliere, in

quanto è discriminante.

Il dispositivo sperimentale individuerà un metodo: chi sono i soggetti con cui conduciamo

l’esperimento? Come individuiamo il campione? Nel nostro caso si tratta di scegliere un numero

sufficientemente rappresentativo di soggetti che siano normodotati, ma demotivati e perciò a rischio

di dispersione. Rimangono evidentemente esclusi dal campione soggetti con problemi cognitivi

rilevanti. Per fare una prima selezione ci si può rivolgere agli insegnanti che individueranno un

certo numero. Su questi verrà fatta un’ulteriore selezione, sottoponendoli ad una batteria di test per

valutare le abilità cognitive di base, il grado di autostima, le caratteristiche metacognitive e

motivazionali, il grado di disagio e il possibile rischio di dispersione. Grazie ai risultati si potrà fare

quindi una selezione più fine di quella, piuttosto intuitiva, proposta dagli insegnanti.

I passaggi fondamentali quindi sono:

a) selezione delle classi;

b) prima selezione di un possibile campione, ad opera degli insegnanti;

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c) individuazione del campione vero e proprio, grazie ad alcuni strumenti psicometrici e

docimologici.

Inoltre il dispositivo individuerà il contesto in cui si svolgerà la sperimentazione. Nel nostro

caso è la scuola, ossia gli studenti sono studiati in situazione reale e non invece laboratoriale. Certo

questo rende l’esperimento un po’ meno controllabile, poiché i dati rischiano continuamente di

essere sporcati da una qualche variabile imprevista.

Tuttavia, nello specifico caso che stiamo esaminando, sono previste delle sedute in cui i

soggetti, prelevati dalla classe, vengono sottoposti, in un ambiente un po’ più gestibile, il

laboratorio di informatica, a stimoli, di cui è possibile misurare con una qualche esattezza la

risposta da ricondurre con ampia probabilità all’evento causativo.

Ancora: il dispositivo individuerà i metodi di misura per quantificare le variabili. Le

variabili dipendenti nell’esperimento che stiamo illustrando sono in un certo numero, le abilità

cognitive di base, l’autostima, la meta cognizione, la motivazione, il disagio, il rischio di

dispersione. Per misurarle vengono usati una serie di strumenti, i reattivi, di cui abbiamo parlato

sopra. Si è scelto di utilizzare, per quanto possibile, test standardizzati, cioè opportunamente

validati, sicché possiamo ritenere che siano in grado di misurare ciò che dicono di poter misurare

(affidabilità). A noi interessa rilevare che la pedagogia sperimentale utilizza dei costrutti di cui si

pone il problema di misurare. Se noi diciamo autostima, dobbiamo dire precisamente cosa

intendiamo per autostima, analizzando il concetto, cioè scomponendolo in unità più semplici,

quantificabili. Ad autostima corrisponde quindi uno strumento che è in grado dire quanta autostima

possiede il soggetto A.

A questo punto siamo in grado di delineare il disegno sperimentale e le procedure della

ricerca. Per quanto riguarda il disegno sperimentale: individuato il problema di ricerca, col

coinvolgimento dei docenti, si selezionerà il campione con cui condurre la sperimentazione,

dopodiché si dividerà il campione in due gruppi, avendo la necessità di disporre non solo del gruppo

sperimentale ma anche di quello di controllo. Quello sperimentale farà le attività formative con

l’uso dei Lego Dacta, l’altro invece no. L’assegnazione al gruppo sperimentale o a quello di

controllo avverrà in maniera casuale, mediante sorteggio. Le attività formative con i robot,

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consisterà nella progettazione, realizzazione e collaudo dei robot. Si tratterà di attività in cui la

dimensione collaborativa è esaltata, così come la costruzione attiva di artefatti, che richiederà la

soluzione di problemi concreti e di una disponibilità a riflettere sugli effetti delle proprie azioni. Nel

mentre il gruppo sperimentale sarà impegnato in queste attività, l’altro, quello di controllo,

continuerà a fare ciò che normalmente si svolge in aula. Alla fine dell’esperienza una valutazione,

con gli stessi reattivi iniziali, consentirà di confrontare i risultati dei due gruppi e di verificare il

miglioramento intervenuto eventualmente in quello sperimentale rispetto alla situazione iniziale.

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4 Il disegno sperimentale Le procedure

Per quanto attiene alle procedure si tratta di delineare con la massima precisione possibile il

tipo di attività che il gruppo di controllo dovrà fare. Ad esempio: 2 sedute alla settimana della

durata di 2 ore nel laboratorio informatico, alla presenza di un docente sperimentatore e di un tutor,

ecc. , per un totale di 8 incontri, per n. 16 ore in totale.

Durante gli incontri, grazie ad una griglia di osservazione sistematica, ogni studente verrà

attentamente studiato. Le procedure quindi argomentano dei limiti spaziali e temporali

dell’esperimento, dicono di come il dispositivo di ricerca è concretamente gestito. A livello di

procedure, quanto più si riesce ad essere dettagliati tanto meglio è. Programmando rigorosamente

l’intervento didattico, si riesce anche a renderlo replicabile, e, ove occorra, modificabile in qualche

passaggio.

Il caso che stiamo presentando, nel concreto, ha dato esiti molto positivi, in quanto i ragazzi,

col procedere dell’intervento hanno manifestato la capacità di acquisire concetti anche complessi,

utili a rendere possibile la realizzazione dell’artefatto progettato. Già l’osservazione sistematica ha

potuto rilevare l’importanza dei risultati conseguiti, ma poi la misurazione finale ha dato ulteriore

certezza a questi dati. Oltre ai test per la misurazione delle variabili dipendenti, è stato fornito un

questionario ai docenti chiedendo loro di esprimere il loro giudizio sull’andamento degli studenti

del gruppo sperimentale, in merito alla motivazione allo studio e alla riuscita scolastica. I soggetti

del gruppo di controllo, sottoposti ai medesimi meccanismi valutativi, non hanno presentato

incrementi di punteggio apprezzabili rispetto ai valori esibiti all’inizio della sperimentazione. Tutti

questi risultati dicono che l’ipotesi iniziale è stata ben formulata, in effetti una didattica volta a

mettere gli studenti meno motivati nelle condizioni di progettare, realizzare e collaudare dei piccoli

robot, si rivela efficace per incrementare l’autostima, diminuire il disagio a scuola e rimotivarli.

Tra le procedure concretamente immaginate, una si è rivelata particolarmente interessante:

alla fine del percorso i ragazzi hanno realizzato una presentazione dei risultati del loro lavoro ai

propri compagni di classe, a cui hanno mostrato gli artefatti realizzati, hanno spiegato il

funzionamento del programma che li faceva agire. Attraverso questa presentazione i ragazzi della

sperimentazione hanno ricevuto dei feedback molto importanti per la loro autostima e per il

recupero della motivazione allo studio.

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Terminata la sperimentazione, bisogna sottoporla ad interpretazione, bisogna discuterne gli

esiti, capire cosa è veramente successo. La fase della discussione è molto importante in ogni

sperimentazione. Può succedere che ottenuti dei risultati, non si comprenda veramente la portata e

non si apprezzino le conseguenze di ciò che si è ottenuto.

I ragazzi che hanno partecipato all’esperienza con Lego Dacta hanno trovato la possibilità di

impegnarsi con successo in attività di apprendimento che hanno riscosso il loro gradimento ed il

loro interesse. Non così quelli che hanno continuato nella routine delle attività scolastiche, essi

hanno continuato a trovare nella loro esperienza di studenti occasioni di frustrazione. Possiamo

affermare che Lego Dacta è un dispositivo didattico che fa ritrovare interesse agli studenti

demotivati? Il nostro esperimento non autorizza ad azzardare una conclusione di questo genere. La

ristrettezza del nostro campione, la limitatezza del tempo avuto a disposizione ci autorizzano solo a

dire che esistono buoni motivi per pensare che in certe circostanze Lego Dacta può funzionare, la

sperimentazione andrebbe estesa per poter dare alla nostra ipotesi una minima pretesa di

universalità.

D’altro canto noi abbiamo avuto a disposizione qualche decina di casi di ragazzi di alcune

scuole collocate in una certa regione, abbiamo tenuto sotto controllo un numero in fondo limitato di

variabili, abbiamo verificato il successo dell’esperienza immediatamente dopo la sua conclusione,

ma siamo sicuri che l’effetto motivante duri nel tempo? Cosa succede a questi ragazzi dopo qualche

mese?. La nostra ipotesi iniziale propriamente non è stata provata, ma piuttosto corroborata

apportando qualche caso a supporto. La nostra sperimentazione l’ha resa un po’ più forte di quanto

non fosse prima della sperimentazione. Altri ricercatori possono partire dalla nostra esperienza per

tentare di smontarla in qualche modo; altri ancora la potranno ripetere in circostanze diverse e

vedere se regge ancora; altri infine la potranno originalmente assumere per studiare un diverso

dispositivo di ricerca, applicare altre procedure, ecc.

Immaginiamo che la comunità scientifica moltiplichi sperimentazioni tipo quella del nostro

caso e che l’ipotesi regga, allora noi saremo autorizzati a dire che molte prove suffragano l’ipotesi

per cui una didattica di tipo costruttivista che unisce utilmente la dimensione informale e formale

dell’apprendimento, valorizza la ludicità e la collaboratività, aiuta a sostenere la motivazione degli

allievi, riducendo il rischio di dispersione scolastica.

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Rimane da capire perché una didattica di questo tipo è più capace di altre di interagire

positivamente con la motivazione e la metacognizione. La risposta non sta evidentemente nella

sperimentazione che abbiamo condotto, sta nelle teorie a cui scegliamo di riferirci. In sede di

discussione è opportuno iscrivere la sperimentazione in un framework teorico, che potremmo

molto grossolanamente descrivere così: noi stiamo male quando le cose non ci riescono,

l’insuccesso demotiva. Siamo bene invece in quelle situazioni in cui possiamo verificare l’efficacia

delle nostre azioni, imparare e mostrare ad altri i risultati del nostro impegno.

Da un punto di vista didattico: se riusciamo ad impostare un’attività che unisce l’attività

manuale con la destrezza mentale, gli allievi non solo non perdono motivazione, ma addirittura ne

acquisiscono di ulteriore, mobilitano tutte le loro energie, imparano ed imparano a capire come si

impara, di conseguenza stanno meglio a scuola, il loro stress diminuisce e diventano decisamente

più collaborativi. Nell’interpretare ciò che è successo in virtù della sperimentazione entrano in

gioco le convinzioni del ricercatore, le conoscenze che ha della letteratura. La discussione

dell’esperienza si avvale quindi della capacità ermeneutica dello studioso.

4.1. Digressioni

La ricerca che abbiamo presentato va assunta come un modello su cui è possibile esemplare

altre simili, e anzi sarebbe particolarmente interessante se ci impegnassimo a mettere in forma

qualche idea che ci balena nella mente in merito a dispositivi didattici che potrebbero funzionare

per risolvere efficacemente qualche problema di apprendimento.

È opportuno comunque sottolineare alcuni passaggi importanti che potrebbero non essere

adeguatamente valorizzati nello studio dei paragrafi precedenti.

A)Vi è un passaggio: nella presentazione dei risultati vi è un momento riflessivo, critico sui

limiti dei risultati della ricerca. L’équipe dice: i risultati che abbiamo raggiunto hanno una validità

limitata, poiché il campione esaminato è troppo ristretto, il periodo di sperimentazione limitato nel

tempo, ecc. Segnalare questi limiti suggerisce ad ulteriori ricercatori la possibilità di approfondire la

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ricerca, potendosi avvalere di vincoli meno stringenti. Questo del segnalare i limiti della propria

ricerca è un ottimo costume.

B) Molto spesso in una ricerca si utilizza qualche test standardizzato, il che significa che è

stato provato più e più volte, ha una sua coerenza, è stato validato, è affidabile. Capita che, nello

specifico, alcune dimensioni indagate dal test non siano significative. Per poter fare il lavoro di

sostituire un gruppetto di domande, riconducibili ad una data dimensione, bisogna impiantare una

ricerca onerosa sotto il profilo del tempo necessario e delle risorse economiche da impiegare. è

comunque sempre rischioso andare a smontare un test già validato inserendo altre dimensioni.

Probabilmente è meglio utilizzare un secondo test, che lavora specificamente sulle dimensioni che

vogliamo indagare e che non troviamo sufficientemente prese in considerazione dal primo test.