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Storie in ottomila caratteri Il cellulare squillò, in quella mite mattina di primavera, e io risposi. Era il titolare di un'agenzia di eventi che mi chiedeva di lavorare come hostess. Avevo lavorato ad un paio di concerti e racimolare un pò di soldi senza far niente dovette sembrarmi cosa buona e giusta. Per tanto risposi che non avevo improrogabili impegni che me lo impedissero. Alla soglia dei diciott'anni improrogabili impegni riecheggia come la scusa detta al telefono da un uomo in cravatta con in mano una valigetta di pelle nera. Telefonai ad un'amica per dirle che mi sarei recata presso la suddetta agenzia, in periferia, il pomeriggio stesso, e le chiesi di accompagnarmi. Accettò, si sarebbe fatta trovare lì. Persi anche quel giorno la mia quotidiana battaglia contro l'orologio, e la nota inefficienza dei mezzi di trasporto pubblico mi inferì il colpo di grazia. Telefonai all'uomo scusandomi per il ritardo. Lui sembrò giustamente e leggermente irritato. Dopo poco arrivai nella piazza dove avevamo appuntamento. Iniziammo a parlare. Aveva detto di dovermi vedere e io sapevo perfettamente che quando assumi delle hostess devi averle viste almeno una volta, devi aver verificato che sappiano parlare, cosa meno scontata di quanto forse si immagini. Devi assicurarti che siano non belle, ma ordinate, presentabili, devi dar loro un contratto da firmare, e adempiere ai vari obblighi del caso. La mia amica non era ancora arrivata. Lui mi disse che si occupava di organizzare delle feste. Si stava affrettando ad aggiungere "frequentate da gente facoltosa", quando la sua voce venne interrotta dal trillo del telefono. Era la mia amica che diceva di aver avuto dei problemi e di essere in ritardo. Sarebbe passata comunque a prendermi lì, alla fine di quell'incontro. Riprese a parlarmi. Mi disse dei soldi che altre ragazze stavano accumulando grazie a questo lavoro. Si trattava di feste private. Le frasi che uscivano dalla sua bocca non mi sembrarono coerenti con la mia presenza lì. I suoi discorsi non avevano la risolutezza di quelli di un uomo che sta svolgendo delle mere operazioni di lavoro. Al contrario di quanto mi era parso al telefono quando lo avevo avvisato del ritardo, non sembrava avere fretta di andarsene. Le sue parole non erano esplicite e inequivocabili come quelle di qualcuno che sta descrivendo le mansioni che io mi aspettavo di dover fare. Continuava a parlarmi di soldi, di quelli che gonfiavano i portafogli dei frequentatori delle feste in questione e di quelli che sarebbero potuti diventare miei. Per quanto stentassi a crederci, diventava sempre più chiaro che mi trovavo di fronte a un pappone. Mi scrutava attentamente. Ebbi la stessa sensazione di quando gli occhi leggono un'informazione che, una volta trasmessa al cervello, crea un corto circuito. Le tue pupille dicono una cosa e la tua ragione risponde che devono essersi sbagliate. Per forza. Allora Abbassi le palpebre, ti stropicci gli occhi e poi li riapri. E' tutto vero. Mentre dicevo a me stessa di essere la persona sbagliata nel posto nel sbagliato, alle mie orecchie, paradossalmente, arrivavano parole che descrivevano la mia adeguatezza per il lavoro per cui mi aveva chiamata. Di sicuro non suonarono come complimenti. Nella mia mente si andava configurando un mosaico di scene diegetiche di ville proibite, tratte dai capolavori di Kubrick. Quando ti trovi di fronte a qualcosa di nuovo il tuo cervello cerca un'esperienza che

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Racconto Breve.

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Storie in ottomila caratteri

Il cellulare squillò, in quella mite mattina di primavera, e io risposi. Era il titolare di un'agenzia di eventi che mi chiedeva di lavorare come hostess. Avevo lavorato ad un paio di concerti e racimolare un pò di soldi senza far niente dovette sembrarmi cosa buona e giusta. Per tanto risposi che non avevo improrogabili impegni che me lo impedissero. Alla soglia dei diciott'anni improrogabili impegni riecheggia come la scusa detta al telefono da un uomo in cravatta con in mano una valigetta di pelle nera.Telefonai ad un'amica per dirle che mi sarei recata presso la suddetta agenzia, in periferia, il pomeriggio stesso, e le chiesi di accompagnarmi. Accettò, si sarebbe fatta trovare lì.Persi anche quel giorno la mia quotidiana battaglia contro l'orologio, e la nota inefficienza dei mezzi di trasporto pubblico mi inferì il colpo di grazia. Telefonai all'uomo scusandomi per il ritardo. Lui sembrò giustamente e leggermente irritato.Dopo poco arrivai nella piazza dove avevamo appuntamento. Iniziammo a parlare. Aveva detto di dovermi vedere e io sapevo perfettamente che quando assumi delle hostess devi averle viste almeno una volta, devi aver verificato che sappiano parlare, cosa meno scontata di quanto forse si immagini. Devi assicurarti che siano non belle, ma ordinate, presentabili, devi dar loro un contratto da firmare, e adempiere ai vari obblighi del caso. La mia amica non era ancora arrivata.Lui mi disse che si occupava di organizzare delle feste. Si stava affrettando ad aggiungere "frequentate da gente facoltosa", quando la sua voce venne interrotta dal trillo del telefono. Era la mia amica che diceva di aver avuto dei problemi e di essere in ritardo. Sarebbe passata comunque a prendermi lì, alla fine di quell'incontro. Riprese a parlarmi. Mi disse dei soldi che altre ragazze stavano accumulando grazie a questo lavoro. Si trattava di feste private.Le frasi che uscivano dalla sua bocca non mi sembrarono coerenti con la mia presenza lì. I suoi discorsi non avevano la risolutezza di quelli di un uomo che sta svolgendo delle mere operazioni di lavoro. Al contrario di quanto mi era parso al telefono quando lo avevo avvisato del ritardo, non sembrava avere fretta di andarsene. Le sue parole non erano esplicite e inequivocabili come quelle di qualcuno che sta descrivendo le mansioni che io mi aspettavo di dover fare. Continuava a parlarmi di soldi, di quelli che gonfiavano i portafogli dei frequentatori delle feste in questione e di quelli che sarebbero potuti diventare miei. Per quanto stentassi a crederci, diventava sempre più chiaro che mi trovavo di fronte a un pappone. Mi scrutava attentamente. Ebbi la stessa sensazione di quando gli occhi leggono un'informazione che, una volta trasmessa al cervello, crea un corto circuito. Le tue pupille dicono una cosa e la tua ragione risponde che devono essersi sbagliate. Per forza. Allora Abbassi le palpebre, ti stropicci gli occhi e poi li riapri. E' tutto vero. Mentre dicevo a me stessa di essere la persona sbagliata nel posto nel sbagliato, alle mie orecchie, paradossalmente, arrivavano parole che descrivevano la mia adeguatezza per il lavoro per cui mi aveva chiamata. Di sicuro non suonarono come complimenti. Nella mia mente si andava configurando un mosaico di scene diegetiche di ville proibite, tratte dai capolavori di Kubrick. Quando ti trovi di fronte a qualcosa di nuovo il tuo cervello cerca un'esperienza che

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hai già vissuto per ricondurre ad essa quello che ti sta capitando in quel momento. Scava nella tua enciclopedia, e nella mia probabilmente non trovò niente, se non il cinema. Io non avevo alcuna conoscenza diretta di cose del genere.Quell'uomo Incominciò ad avvicinarsi. Le mie gambe si inchiodarono al sedile. Sentìì i battiti aumentare. E' assurdo come nei momenti peggiori tra i miei pensieri si intrufolino cose stupide, dev'essere il mio modo di esorcizzare un'emozione che si nutre di ipotesi, che hai il timore che si stiano concretizzando. Una si sovrappone all'altra e ogni alternativa che immagini è più meschina della precedente. Anche quella volta io reagì alla paura allo stesso modo. Al puzzle che prendeva forma nella mia mente si andarono ad aggiungere immagini rappresentative del ventaglio di soluzioni possibili che sarebbero servite a sottrarmi ad una situazione, che era il palese risultato di un beffardo equivoco. Le passai in rassegna una ad una in pochi instanti, che a me sembrarono una manciata d'anni. Somigliavano alle icone affisse sulle porte d'emergenza. Io ero uno di quegli omini bianchi su fondo verde con la testa sferica e staccata dal collo, che, mistero della cinematica, pur essendo privi di piedi, corrono lungo le scale in direzione della freccia. In un'immagine urlavo, nell'altra aprivo lo sportello dell'auto e scappavo, e così via. Mi trovavo in macchina, da sola, con un essere che nemmeno con un eufemismo in uno slancio di buon umore sarei stata capace di definire uomo.Fu quando il suo viso raggiunse il mio che la rassegna operata dalla mia mente sembrò non portare a nessun risultato, e che quell'abitacolo iniziò a sembrarmi una cella carceraria. Nessuna delle opzioni era ragionevolmente fattibile. Urlare non sarebbe servito dal momento che mi trovavo in un luogo per nulla affollato di una zona periferica. Sarei potuta scappare ma avrebbe potuto afferrarmi per un braccio, avrebbe potuto usare violenza su di me. Temevo che sarebbe potuto diventare aggressivo. Magari sarei riuscita a scendere dall'auto ma avrebbe potuto inseguirmi, investirmi. Iniziava ad essere buio. Pensai che era meglio non fargli percepire che si trovava di fronte ad una ragazzina impaurita. Era preferibile parlare, attendere che la mia amica arrivasse e andare via, tirando finalmente un sospiro di sollievo per il pericolo scampato.Avvicinò le sue labbra alle mie. Le piante dei piedi spingevano verso terra come a voler creare un varco, il movimento delle dita si era fatto così intenso che riuscivo a strappare via le punte dei capelli. il cuore pompava seguendo un moto quasi di ribellione, come se la cassa toracica gli stesse ormai troppo stretta. In certi momenti il tempo si dilata e io aspettavo di poter aprire quello sportello come si può attendere un goccio d'acqua nel deserto.Le sue dita percorsero i miei jeans, raggiungendo l'inguine, coperto dai pantaloni. Era meglio aspettare che si allontanasse da solo, declinando l'invito, tacito, a fare altrettanto, fingendo che fosse tutto a posto. Io mantenni un'apparente calma serafica per far sì che lui non si sentisse messo allo scoperto, che non mettesse in moto la macchina portandomi chissà dove. Non c'è mai fine al peggio. Senza far nulla dovetti illuderlo bene.Credette anche che una proposta del genere potesse apparirmi almeno degna di considerazione perché mi telefonò il giorno successivo, e invece di preoccuparsi che avrei potuto denunciarlo, invece di sparire senza lasciar traccia, mi inviò qualche sms in cui mi chiedeva di confermare la mia presenza ad una di queste feste.Mentre scrivo le dita sulla tastiera diventano appiccicose, il battito del cuore

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aumenta. Devo fermarmi per qualche istante perché le mani hanno preso a tremare. Ora come allora. Una sensazione di disagio mi riscalda il corpo, inizio a sudare e mi tocco i capelli con fare nervoso. Probabilmente è per questo che nessuno ha mai saputo di questa storia. Raccontarla è inevitabilmente riviverla.Dovrei vergognarmi di dire che mi diede praticamente della perfetta donna di malaffare. Invece credo di provare più imbarazzo per aver avuto così tanto imbarazzo dopo da non riuscire a raccontare l'accaduto, perché preferii dimenticare. Preferii relegare all'oblìo il fatto che quando non potevo far nulla per liberarmi da quella situazione mi si avvicinò, oltrepassando la linea immaginaria della bolla prossemica, che se superata da un estraneo ci provoca un fastidio immediato. Ma il mio non era fastidio, il mio era terrore. Una paura immobilizzante che non mi permise di allontanarlo.