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OPERE DI MISERICORDIA CORPORALE GIUBILEO STRAORDINARIO DELLA MISERICORDIA arcidiocesi di sant’angelo dei lombardi-conza-nusco-bisaccia

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opere di Misericordia corporale

giubileo straordinario della misericordia

arcidiocesi di sant’angelo dei lombardi-conza-nusco-bisaccia

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La fede in Gesù Cristo per la pienezza e l’operosità del comandamento dell’Amore

Prima Lettera di san Giovanni apostolo ( 3,16-20)

11Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. 12Non come Caino, che era dal Mali-gno e uccise suo fratello. E per quale motivo l’uccise? Perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste.13Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. 14Noi sap-piamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. 15Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui.16In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. 17Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? 18Figlioli, non amiamo a pa-role né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.19In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, 20qualunque cosa esso ci rimpro-veri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.

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A. vv. 11-12Il messaggio dell’amore scaturisce dal Vangelo udito dal principioIl messaggio … da principio … ci amiamo … Caino … le opere mal-vagie … giusteGv 13, 34; Gen 4, 5; 1Gv 3, 8; Eb 11, 4

B. vv. 13-15La variante dell’odio e della morte, vissuta e vinta nel mistero pa-squale Non meravigliatevi … vi odia … siamo passati dalla morte alla vita … perché amiamo … rimane nella morteGv 18, 21; Mt 5, 21 ss.; Gv 8, 44; 5, 24; Eb 6, 1

C. vv. 16-18Sull’esempio di Gesù, in noi rimane l’amore quando diamo per amoreIn questo … ha dato … anche noi … dobbiamo … chiude il proprio cuore … parola … lingua Gv 15, 12-13; 13, 14; Dt 15, 7 ss.; Gc 1, 22

B1. vv. 19- 22La verità del cuore che ama ed è aperto alla piena fiducia in Dio In questo … dalla verità … rassicureremo il nostro cuore … Dio è più grande … abbiamo fiducia in Dio … gli è graditoGv 18, 37; 21, 17; Rm 5, 1 ss.; Eb 4, 16; Gv 14, 13-14

A1. vv. 23- 24L’intreccio indissolubile del comandamento della fede e dell’amore è opera dello Spirito SantoIl comandamento … crediamo … amiamoci gli uni gli altri … rimani in Lui … dallo Spirito Gv 13, 34; 15, 17; Rm 6, 9

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Le opere di misericordia corporali Estratto di: Cosmacini, Giorgio. “Compassione.” Società editrice il Mulino, Spa, 2012. iBooks.

Le opere di misericordia corporale sono: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visita-re gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. Tenuto conto che i destinatari di queste opere di misericordia, con la sola esclusione di quelli citati per ultimi, versano tutti in condizioni di indigenza, varia-mente percepita, la predetta voce enciclopedica afferma che tanto mag-giore è l’indigenza e tanto più aumenta l’obbligo di aiutare il prossimo bisognoso; tanto maggiore è la possibilità personale di sollevare il pros-simo dal male in cui giace e tanto più grave il dovere di recare aiuto.I mali in cui giace il prossimo indigente sono rispettivamente: la “fame, la sete, la nudità, l’andare raminghi, l’infermità, la prigionia, la mor-te priva di sepoltura. I primi sei, con le relative opere di misericordia riparatrice, sono enunciati nel Vangelo di Matteo (25, 35-36), mentre il settimo, con l’opera che lo soccorre, è stato oggetto di un’addizione tarda, dettata dal trauma della «peste nera» della metà del Trecento con le sue morti selvagge e i suoi cadaveri insepolti.La miseria è una condizione di vita che, assumendo forme nuove e diverse, storicamente permane. È una condizione esistenziale di man-canza che, in quanto tale, richiede provvidenza, divina per chi ha fede e umana comunque. Attualmente, laddove permangono situazioni di penuria e di vita precaria, le opere dell’umana misericordia possono essere ancora esercitate nei modi adiuvanti della tradizione.Tuttora estesa è infatti l’umanità tragicamente afflitta dalla fame e dalla sete. Da essa ci separano non le distanze della geografia, ma i secoli della storia: per molte comunità afroasiatiche è ancora Medioevo.Non esigue, peraltro, sono anche le condizioni di vita miseranda che si annidano, alle nostre latitudini, nelle pieghe dell’odierna società bene-stante, dove l’opulenza dei tanti iperconsumi si specchia a rovescio nel-la miseria delle tante marginalità e povertà di ritorno. È un’opulenza spesso sfacciata che attualizza e ipertrofizza quelli che il saggio Epicuro diceva essere i «bisogni non naturali e non necessari» dell’uomo. Sono bisogni artificiali o artefatti che emergono da carenze non materiali, ma morali, non compensate dai valori di moralità e di giustizia cui si ispiravano le opere di misericordia tradizionali.È legittimo allora – ci chiediamo – parlare di un rovescio della medaglia

come necessità od opportunità finalizzata a realizzare e ad attualizzare, nella società postmoderna, i valori contenuti nelle antiche istanze di misericordia corporale, ma trasferiti in comportamenti nuovi e diversi, per così dire «rovesciati» nei confronti delle opere contemplate dall’eti-ca caritativa della tradizione cristiana?”Il rovescio della moneta che premia, oggi, le opere di una misericordia mirante, nella società postmoderna, a recuperare valori antichi e peren-ni, reca effigiate altre istanze. Il dar da mangiare agli affamati si ribalta nell’esigenza di sottoalimentare gli obesi; il dar da bere agli assetati si inverte nella regola di disassuefare i bevitori; il vestire gli ignudi di-venta il resistere alle invadenze della moda; l’alloggiare i pellegrini si discontinua nel non respingere gli immigrati; il visitare gli ammalati si problematizza nel non perdere il dialogo con i pazienti; il visitare i car-cerati si trasforma nel non aggiungere pena a punizione e il seppellire i morti si rende più compiuto nel dovere di rispettare la volontà e la dignità di chi muore.”

Dar da mangiare agli affamati. Sottoalimentare gli obesiDalla metà del Novecento i componenti della famiglia italiana che di-spone di un unico reddito pagano in termini di iponutrizione la propria indigenza socio-economica. Tra i ragazzi concepiti in tempo di guerra e i bambini cresciuti nel periodo della «ricostruzione» postbellica sono in tanti a presentare i segni di una duratura gracilità che dà dimostrazione di bisogni primari a lungo insoddisfatti.Però, a partire dal successivo «miracolo economico», si incomincia a essere diseguali non solo per iponutrizione, ma anche per ipernutrizio-ne. Nasce una generazione di bambini sovra-alimentati in vario modo che costituiscono l’avanguardia dei molti obesi di oggigiorno. Molti sono gli ipernutriti per una sorta di rivincita sulla fame secolare della propria classe di appartenenza o per ignoranza delle regole dietetiche della moderna scienza dell’alimentazione”.Per la popolazione indigente e indigena del Terzo Mondo, le preoccu-pazioni degli esperti sono orientate a compensare, con risorse aggiun-tive ed equilibratrici, i sottoconsumi derivanti da una sofferta povertà. Nei due mondi, nordamericano ed europeo, abitati dalla società bene-stante, gli esperti hanno invece da preoccuparsi di tutt’altro: di contra-stare gli iperconsumi di coloro che «devono le loro sofferenze ai loro cattivi sistemi di alimentazione» e a un «istinto pervertito da una cat-tiva educazione». Queste parole, però, non sono di oggi, ma sono state dette novant’anni fa da un medico premonitore, Eugenio Bajla, autore

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nel 1921 di un testo divulgativo recante La parola del medico su argo-menti vari d’igiene popolare.A distanza di quasi un secolo da quelle parole premonitrici, l’«istinto pervertito» e la «cattiva educazione» permangono; anzi, si sono diffusi su scala più vasta rispetto ad allora. Le antiche opere di misericordia rivolte a chi aveva da mangiare poco o niente si ribaltano nelle odierne opere educative miranti a una cultura dove abbia posto l’esigenza di sottoalimentare, o di dissuadere dal sovralimentarsi, chi ha da mangia-re tutto ciò che vuole e non si priva di nulla.Sottoalimentare gli obesi: in tale direzione è orientata la parte più consa-pevole della cultura medica e non medica. Barbara Buchner, che dirige il Climate Policy Initiative, ha recentemente aggiunto una motivazione in più, rendendo noto al Forum on Food and Nutrition (Milano, 2011) che i cibi che fanno meglio alla salute sono anche quelli che impattano meno dal punto di vista ambientale. Anche per questo la dieta medi-terranea è una grande risposta ai problemi economici presenti e futuri. Nel contempo il «Journal of American Medical Association» ha pub-blicato due studi di ricercatori autorevoli che dimostrano la possibilità di far dimagrire gli obesi facendoli mangiare meglio e, ovviamente, di meno.Meno e meglio. È una riscoperta, rovesciata, dell’evangelico dar da mangiare di più a coloro che non avevano cibo o ne avevano troppo poco. È una riscoperta, invariata, del medievale e rinascimentale stile sobrio di vita, in controtendenza rispetto allo stile oggi più diffuso e al dogma consumistico del cibo come commodity, secondo cui si può mangiare come più fa comodo per poi dimagrire con i farmaci contro l’obesità (o con gli interventi chirurgici di restrizione dello stomaco e di deviazione dell’intestino).Meno e meglio. È una riscoperta, aggiornata, dell’intuizione precorri-trice del poeta Stecchetti in favore di una trasformazione del costume alimentare che, reagendo a una concezione del cibo come merce ero-gata in modo standardizzato da una sorta di distributore automatico, arrivi – come suggerisce Giorgio Parazzoli nel dossier Il cibo giusto (Bologna, ottobre 2010) − «a toccare lo stile di vita e le scelte etiche in cui qualità sia sinonimo di equità e sostenibilità».Oggi lo stile di vita è sempre più spesso condizionato da una offerta molteplice e sovrabbondante di prodotti alimentari da parte del merca-to internazionale. Costanti, insistenti sono gli influssi psicologici (psi-copatologici) di messaggi pubblicitari ambigui, a senso e controsenso, dove il gusto del mangiar bene viene talora smarrito perdendosi nella

voglia del mangiar troppo. Se numerosi sono coloro che sono spinti a «mettersi a dieta», non pochi sono coloro che vengono indotti, inavverti-tamente, verso forme mentali e comportamentali di «bulimia nervosa».A questo proposito, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi men-tali[4], elaborato dalla American Psychological Association, definisce il rapporto avido con il cibo come un «comportamento compulsivo» che sfocia in una «malattia recente, propria delle società ricche e opulente dei nostri giorni», pressoché sconosciuta fino a qualche decennio fa. Gli influssi massmediali possono agire, con simmetria psicodinamica, inducendo fenomeni opposti: così alla «anoressia mentale» si contrap-pone o giustappone la bulimia, espressione anch’essa di una desolante solitudine e miseria affettiva, manifesta esteriormente, ma con eviden-za anche interiore. Contro tale tipo di nuova miseria è proponibile una nuova e attuale opera di misericordia.L’Italia è il paese dello stile di vita mediterraneo che tutto il mondo ci invidia. Il Comitato intergovernativo dell’Unesco ha recentemente in-scritto la dieta mediterranea nella lista del patrimonio culturale imma-teriale dell’umanità, offrendoci la lezione di una cultura alimentare del meno e del meglio pervasiva della scuola, dell’industria, del mercato, del tempo libero, oltreché, beninteso, della medicina e della sua ippo-cratica branca primaria, la dietetica”.

Dar da bere agli assetati. Disassuefare i bevitoriL’alcolismo può essere definito come perdita sistematica della libertà di astenersi dall’alcol. La definizione accentua il valore morale della lotta individuale e sociale contro di esso. Però una sua valutazione in termini medici, correlati a criteri epidemiologici, comprende vari gradi di alco-listi, dai bevitori ancora capaci di autocontrollo a quelli non più mode-rati e già disadattati, da coloro che oscillano tra eccessi e astinenze con comportamenti alternanti a coloro che versano in uno stato subconti-nuo o continuo di etilismo acuto o cronico, consumatori di qualsivoglia bevanda purché di elevato tasso alcolico, incuranti della sua tossicità.L’alcol è tuttora la droga a maggior diffusione. La sua rilevanza socia-le è vastissima. Esso è capace di indurre quel bisogno imperativo di assunzione, con crescente aumento di dose per ottenere il medesimo effetto, che dicesi «tossicodipendenza», tendente progressivamente al-l’«overdose»”.Un metodo per far fronte all’alcolismo è quello della sua prevenzione. Questa cerca di prevenire il fenomeno prima che si renda manifesto nella sua vastità. Preoccuparsi del problema presuppone un accultu-

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ramento non riducibile all’aggiornamento sui dati biomedici ed epide-miologici che lo caratterizzano, né, tanto meno, appiattito sulla base di distorcenti campagne pubblicitarie.La complessità, non riducibile, della prevenzione si basa invece su di una continuativa opera di educazione circa il bere e il non bere.Disassuefare i bevitori. È, a ben vedere, il sotto-problema medico-sani-tario, metabolico, «corporale», di una questione più generale, morale e sociale, concernente il metabolismo mondiale, «cosmico», del bere. Il bere artefatti sempre più sofisticati è infatti una caratteristica innaturale di quello stesso mondo dove l’acqua naturale, cioè l’elemento che piove dal cielo e che scorre sulla terra, viene imbottigliata e non fatta scorrere, ma viaggiare su camion per giungere ad abbeverare chi potrebbe attin-gere dai rubinetti di casa propria tutta quanta l’acqua potabile che gli è necessaria (compresa quella che gli serve per lavare e lavarsi). In altra parte del mondo, invece, si scavano pozzi nella febbrile ricerca dell’ac-qua che equivale alla vita e che manca: la penuria costringe intere po-polazioni a migrare, sospinte dalla siccità, oppure a bere acqua sporca o contaminata, con rischio di morte.Reagire al consumismo incontrollato o incentivato e limitare il gusto ec-cessivo di tale sorta di estetica enologica, più o meno coniugata col pia-cere non meno eccessivo di una sorta di dimestichezza etilica, si confi-gura oggi come un’opera di misericordia socioculturale ammodernata.L’importanza primaria del prevenire educando va ribadita, in chiusura di questo capitolo, anche per quanto concerne il cosiddetto «sballo da alcol», che oggi è una moda da week-end di molti giovani e giovanissi-mi che non sono bevitori. In questi casi non si tratta di una tradizionale «sbornia» o «ciucca» da smaltire e di una più o meno occasionale eva-sione dalla quotidianità, ma di un tentativo di evadere da un baratro psicologico attraverso una fuga nel futuro che si risolve paradossal-mente in una regressione nel passato. Sul piano fisiologico lo «sballo» si traduce spesso in un guasto organico arduo da riparare o addirit-tura irreparabile. Quanto più è difficile la terapia, tanto meno lo è la prevenzione educativa, che prepara i giovani a compiere le loro scelte responsabilmente, sia pure con il rischio di commettere errori, però con l’opportunità o necessità di diventare consapevolmente autonomi.

Vestire gli ignudi. Resistere all’invadenza della modaVestire gli ignudi è un modo o maniera di conferire rispetto e dignità alla vita umana, dall’alba al tramonto. Ciò ha un suo significato con valore simbolico nel Divino Bambino avvolto in fasce nella grotta di Betlemme e

nel vecchio Noè della Bibbia (Genesi 9, 21-23) che «dormiva mezzo ignu-do in mezzo alla sua tenda». Perciò fu deriso da Cam, padre di Canaan, [che] vide la nudità di suo padre e corse fuori a dirlo ai suoi fratelli. Ma Sem e Jafet presero un mantello, se lo misero sulle spalle e camminando all’indietro coprirono le nudità del loro padre.Qual è il nesso tra il «vestire gli ignudi» e il modo o la moda di vestirsi? La moda – sappiamo – è un fenomeno sociale ed è un fenomeno esteti-co. Come fenomeno sociale muove da diversi fattori, tra cui l’ambizione a elevarsi socialmente, l’attrazione delle figure divulgate dalla televisio-ne e dai rotocalchi, i condizionamenti consumistici esercitati dal merca-to. Come fenomeno estetico essa afferisce alla sfera dell’apparire o del «bell’essere». L’abbigliamento è un abbellimento. Il bell’essere integra il benessere e la salute.Nel volgere degli ultimi due secoli si è assistito a una trasformazione progressiva della moda, passata da fenomeno elitario a fenomeno di massa. Già fra Ottocento e Novecento si parlava, anche sotto questo aspetto, di «donne nuove», nettamente diverse da quelle che le aveva-no precedute. In parallelo alla loro liberazione sessuale dalla temperie sessuofobica dell’età vittoriana, la moda si era emancipata dalle sotto-gonne e dalle crinoline. Con Elisabetta d’Austria (1837-1898), l’impera-trice Sissi, era nato l’ideale della magrezza come fenomeno di moda. Alle radici della moderna anoressia c’era anche l’idea che associava alla ripulsa del cibo il culto di un corpo che non aveva più bisogno del cor-petto restrittivo, irrigidito dalle stecche di balena, per presentarsi come «modello» esemplare della «bellezza alla moda».A un livello meno regale era nato le bon marché, nuovo «tempio delle donne». Scriveva Émile Zola nel suo Au bonheur des dames[1] che il «paradiso delle signore» era quello di una nuova chiesa in cui la moda sostituiva la devozione religiosa: «Stiamo andando verso la religione del corpo, della bellezza, della seduzione e della moda».Per ancora troppa gente al mondo la nudità è povertà, è miseria. Per chi «veste alla moda», «vestire gli ignudi» deve voler dire almeno resi-stere a tentazioni irrispettose e almeno coltivare il senso della misura e del pudore. In assenza di tali valori minimali, tutto diventa spettacolo, ostentazione, realtà frivola e fittizia, mercificazione, «moda smodata».i può rispondere che, come per l’abbigliamento conforme alla moda, esistono criteri morali e sociali che vigono «proprio laddove il benesse-re individuale sembra essere dato come finalità dominante». È quanto scrive Georges Vigarello a proposito del corpo e dell’arte di abbellirsi. «Rendendo inevitabile e sempre più acuto il confronto fra norme indi-

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viduali e norme collettive», esiste il rischio che «il malessere [possa] ap-parire laddove il benessere si impone come ultimo criterio». Come dire: un eccesso fatuo e fittizio di benessere individuale acuisce la percezio-ne collettiva del difetto sociale di tale benessere, onde «il nostro mondo produce un lamento, suscitando un malessere tacitamente diffuso»[8].Reagire a tale malessere, percepito anche come rimorso, può voler dire recuperare i valori di una perduta misericordia interumana.

Ospitare i pellegrini. Non respingere gli immigratiI malati (per ora) inguaribili, gli emarginati e i reietti sociali, i migranti extracomunitari sospinti dalla fame e da altre impellenti necessità, sono oggi la folla dei «diversi» corrispondenti ai «poveri infermi», agli «in-franciosati», agli «incurabili», ai «pellegrini», ai «forestieri», agli «stra-nieri» di un tempo. Ospitare tutti costoro significa oggi, anzitutto, non re-spingere gli immigrati, i rifugiati che meritano una nuova forma di pietà.Pietà non tanto o non solo come compassione ispirata dalla sofferenza altrui, ma anche e soprattutto come rispetto interumano, come atten-zione dell’uomo per il suo simile, da lui diverso soltanto perché diversi sono il colore della pelle o la terra dov’è nato, il contesto socioeconomi-co in cui è cresciuto, la condizione sanitaria che a tale contesto è sovente associata. È un rispetto dovuto, e ben vengano ad alimentarlo la pietà misericordiosa, la carità ausiliatrice del volontariato laico o religioso, la cura soccorritrice della medicina igienico-terapeutica; ma che a esso non manchi la base istituzionale, politica e civica, di uno Stato senza pregiudizi, senza paure dell’altro, radicato nella propria tradizione multisecolare di accoglienza e assistenza.La Chiesa, pur con toni diversi e talora divergenti in rapporto ai tanti particolarismi del clero, tuttavia nei suoi vertici si è espressa chiara-mente in modo univoco. «Un immigrato è un essere umano» ha detto papa Benedetto XVI all’Angelus, domenica 10 gennaio 2010. È un es-sere umano che, ha soggiunto, è differente per provenienza, cultura e tradizione; ma è una persona da rispettare, e con diritti e doveri in particolare nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita.L’intervento del pontefice ha fatto seguito a quanto detto, con parti-colare riguardo al sottostante o sovrastante problema della confessio-ne religiosa praticata dalla maggior parte degli stranieri immigrati, dal cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha lasciato da poco la cattedra di sant’Ambrogio. Ambrogio era un immigrato transalpino che aveva battezzato sant’Agostino, un immigrato nordafricano.

Bisogna vincere – ha detto nel 2009 il cardinale ambrosiano nel messag-gio tradizionale rivolto alla comunità islamica milanese in occasione del Ramadam – quella povertà culturale che è il terreno in cui nascono e si sviluppano le forme incivili e intolleranti del fanatismo fondamen-talista che nega l’altrui libertà di culto.Ha soggiunto: “Cristiani e musulmani devono poter convivere nella reciproca stima e nel rispetto della legalità e dell’ordinamento civile, propri di ogni Stato laico e democratico.”Può sembrare strano che il richiamo alla democrazia e alla laicità pro-venga da un’autorità ecclesiastica; ma laico viene da laòs, «popolo», che è l’insieme di tutti, senza distinzione di ceto e di censo, di confessione e di razza, un insieme governato dalla laicità di rispetto che Enzo Bian-chi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose (interprete della tendenza «conciliare» diffusa nella Chiesa cattolica e critico di una «contro chiesa» che giustifica «chi uccide l’anima con il denaro e il potere»), contrappone alla laicità di rifiuto.Un rifiuto non dissimile è quello stigmatizzato da Laura Boldrini, com-missario delle Nazioni Unite per i rifugiati, che nelle sue «storie di uo-mini e donne in fuga» intitolate Tutti indietro[3] descrive l’incontro co-stante con il dolore di chi è costretto a scappare per sfuggire alla fame, alla persecuzione, alla guerra. Ma l’autrice descrive anche “l’Italia della solidarietà, degli uomini che mettono a rischio la propria vita (tra cui, ai primi posti, gli uomini della marina militare e della stessa polizia marittima) per salvare in mare i naufraghi partiti dalle coste africane, delle tante persone che nel rapporto quotidiano con immigrati e rifu-giati realizzano una integrazione vera e spontanea, gettando le basi per la società italiana del futuro”.

Visitare gli ammalati. Non perdere il dialogo con i pazientiL’etica caritativa del Medioevo cristiano [prevede] la figura del «Cristo medico» [che] si ribalta in quella del «povero cristo» malato, da curare e da salvare. Fiorisce uno spirito di carità assistenziale che si espande in un complesso di fondazioni ospitali, ospitaliere, con cui religiosi ze-lanti e laici devoti danno attuazione al comandamento evangelico di corrispondere con slancio ai bisogni cruciali del prossimo, con al primo posto quelli di salute prodotti da molte mancanze e produttivi di molte sofferenze. A tutti coloro che sono affetti da penurie e afflitti da pene si adatta la figura umana, immanente, del Cristo redentore, diversa da quella divina, trascendente, del Padre nei cieli.Alfieri di questo comune sentire sono, al passaggio tra l’Alto e il Bas-

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so Medioevo, figure di futuri santi quali Domenico di Guzmàn (1170-1221) e Francesco d’Assisi (1182-1226). «Gli atteggiamenti domenicani e francescani erano fondati su di una stessa antropologia» ha scritto Mi-chel Mollat ne I poveri nel Medioevo[1]: il dotto canonico e il poverello d’Assisi «si erano incontrati in una stessa identica maniera di vedere il mondo e gli uomini».In questa visione di carità, per frate Francesco alleviare la tribolazione della carne sottomessa allo spirito è un atto d’amore nei confronti di «frate corpo», il più fedele amico dell’anima; per frate Domenico prati-care la mortificazione della carne non esime dal curare la salute corpo-rale onde fortificare quella spirituale. A tale proposito, il domenicano Umberto de Romans, nel suo commentario alla regula sancti Augusti-ni (normativa agostiniana di molti Ordini religiosi), in polemica con quanti per fervore di santità e per sprezzo di tutto ciò che è terreno si fanno un obbligo di non usare medicamenti, scrive che secondo l’Eccle-siastico (38, 4) «l’Altissimo creò dalla terra le medicine» e che esistono tre buoni motivi per medicare i malati: la compassione, la comune utili-tà e l’aspettativa della ricompensa promessa da Cristo con le parole del Vangelo di Matteo (25, 36): «Ero malato e mi visitaste».La visita è dunque mossa da zelo motivato e da compassione. Com-passione, cum pati, «patire insieme», condividere con il «paziente» il peso della sua malattia. Quest’ultima, prima di essere considerata un’affezione, un guasto corporeo, è considerata un’afflizione, una pena coinvolgente corpo e anima, bisognosi di salus, guscio lessicale unita-rio di una duplice necessità – materiale e morale – cui sopperire «con passione», con partecipazione affettiva e con una assistenza provvida, motivata da «comune utilità».Cura del malato e terapia della malattia non sono sinonimi. Oggi la lingua inglese, come distingue tra disease, stato di alterazione dell’or-ganismo, e illness, stato di sofferenza della persona, così distingue tra l’aspetto terapeutico della medicina – to cure – e l’aspetto curativo – to care – della medicina medesima. Le finalità della terapia, perseguite da una medicina in progressivo sviluppo, sono subordinate a proce-dure tecniche che consistono in interventi manuali, strumentali, far-macologici, eseguiti con competenza. Più ampio è l’orizzonte culturale verso cui si proiettano le finalità della cura, alla quale tendono, oltre alle tecniche, le pratiche mosse da altre motivazioni o pulsioni, quali la premura, la partecipazione cosiddetta «simpatetica» o «empatica», la disponibilità.Nella società moderna – o «postmoderna», come si usa dire con riguar-

do alla società attuale nei paesi a sviluppo avanzato – è consolidato e ben fermo il valore insostituibile del medico tecnologo e «specialista». Tuttavia, il medico «generalista» è figura altrettanto e ancor più fonda-mentale perché è a lui, e non ad altri, che i pazienti spesso impazienti del giorno d’oggi, titolari di bisogni e di diritti, chiedono di non essere lasciati soli nelle fasi critiche della loro esistenza, nei momenti cruciali della malattia, della fragilità, della paura. In tali momenti la loro figura di riferimento non è quella di un tecnico, ma quella di un curante, il cui sapere comprende il saper fare tesoro degli apporti tecnici e dei pareri specialistici, ma comprende anche e anzitutto il saper essere un medico completo.”Anche se oggi si tende a pensare che un buon farmaco sia il migliore dei medici, resta vero il contrario, cioè che un buon medico è il migliore dei farmaci. Ogni sua visita, per richiamare quanto detto all’inizio di questo capitolo, sia un «trovarsi con qualcuno» per recargli non soltan-to l’apporto della scienza, su cui la medicina è fondata, e della tecnica, che dalla scienza discende, ma anche dei valori umani compresi nella tèchne originaria, da cui discende la medicina.

Visitare i carcerati. Non aggiungere pena a punizioneOggi l’universo del sistema penitenziario italiano comprende, in oltre 200 istituti di pena, una folla di quasi 70.000 detenuti, di cui circa la metà è costituita da imputati. È quanto emerge dal VII Rapporto na-zionale sulle condizioni di detenzione[2], che è molto eloquente e che al riguardo specifica: “I detenuti ristretti nelle 206 carceri italiane sono 68.527 [52.784 nell’anno 2000], di cui 25.164 sono i detenuti stranieri [14.057 nell’anno 2000]. In dieci anni i detenuti sono cresciuti di 15.743 unità e gli stranieri sono a loro volta cresciuti di 11.107 unità. I due terzi della crescita della popolazione reclusa è stata quindi determinata dagli stranieri.”Peraltro, sul finire dell’anno 2010 (cui si riferiscono i dati riportati), c’è una sorpresa: «nei primi sei mesi dell’anno, i detenuti sono cresciuti di ben 3.647 unità», mentre «negli ultimi tre mesi di sole 269 unità». Dal momento che «le leggi non sono cambiate», il fatto rilevante è rappre-sentato da un mutamento del regime di polizia: «i poliziotti arrestano meno perché [nelle carceri] non ci sono più posti».Il non esserci più posti ammette, per corollario, che il sovraffollamento delle carceri da parte della microcriminalità sociale è anche un alibi per non pochi macrocriminali fruitori, nelle pieghe di una legalità manipo-lata, di esenzioni, di sconti, di impunità. Così il carcere resta davvero,

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nell’immaginario ma purtroppo anche nella dura realtà, «la trappola dei semplici e il trastullo dei potenti».Oggi lo scenario del carcere è scomponibile in tre scene diverse in cui, nell’ottica di questo libro, può essere vista campeggiare la figura «del giusto»: il giusto tra i malfattori, peccatore fra peccatori; il giusto tra i reietti, solidale con le loro miserie; il giusto con le madri (e i famigliari), solidale con le loro sofferenze.Chi è oggi «il giusto» motivato da queste istanze? Prendiamo a prestito ancora una bella pagina di Bruno Fasani[3], missionario tra i carcerati, che, in un autocritico esame di coscienza, scrive: “Io [il giusto] ho un lavoro e una casa, io non sono figlio di tossicodipendenti, io non ho la madre prostituta, la famiglia divisa, il quartiere dove insegnano da piccolo a spacciare la droga o a fare i soldi senza piegare la schiena, io non sono caduto nell’alcol perché senza sicurezze psicologiche, perché sprovveduto di cultura, perché inserito in un contesto degradato.”Con quale «retorica verbale» posso io avvicinarmi «a chi sta dietro le sbarre?».“Fiorisce in me la parte di Caino che mi porto dentro e mi dimentico di avere davanti emarginati, sfortunati, stranieri, tossicodipendenti, ma-dri cadute nella follia, gente che non ha più nessuno con cui specchiarsi per sentirsi ancora un po’ amata e perciò utile e riscattabile. Li osser-vo con la coscienza del fariseo, per il quale la legge viene prima della persona e mi dimentico della loro dignità umana, dei loro diritti più elementari. […] E allora visitare i carcerati si trasforma in coscienza che c’è una loro dignità che attende segnali […]. C’è un visitare i carcerati che parte dal cuore e ha il profumo di una danza. Ma c’è un tacere in-differente e un defilarsi pilatesco che ha tutto il sapore di una prigione dell’anima”.Come il dolore è la pena in più del malato, che ne raddoppia la malat-tia, così l’indifferenza, che nasce dal vuoto di misericordia, è la pena in più che raddoppia la punizione comminata a molti dalle scorrettezze della natura e dalle sregolatezze della società. «Domina l’indifferenza», scriveva Enzo Biagi sul «Corriere della Sera» il 2 gennaio del 1997. «Oc-corre reagire con forza, moralmente e politicamente all’indifferenza», scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sullo stesso giornale il 6 giugno 2011. La reazione al vuoto che la genera passa at-traverso il recupero morale e sociale di un’antica, perenne misericordia.

Seppellire i morti. Rispettare la dignità dei morentiIl mestiere di medico è, come quello del prete, il mestiere più coinvol-

to da sempre nel morire altrui: coinvolto non tanto nella morte intesa come momento – il momento di cessazione delle funzioni vitali o del distacco dell’anima dal corpo – quanto nella morte intesa come evento – l’evento più cruciale della vita umana –, un evento solo talvolta istan-taneo o subitaneo, e perciò momentaneo (come la morte improvvisa), ma sovente più o meno lungo (come il tempo del morire, o della morte annunciata).Il (…) periodo (…) odierno della morte proibita, della morte tabù, sot-tratta ai parenti e nascosta ai morenti, chiamati «malati terminali» e consegnati alla loro solitudine nel finale dell’esistenza. «Chi sta mo-rendo ha bisogno di affetto, di aiuto, di non essere lasciato solo», scrive Norbert Elias in La solitudine del morente[4]. Questo bisogno è neglet-to nello scenario di una morte dominata da una medicina tecnicizzata, associata a una ossessione igienista scambiata per zelo e inserita in un contesto burocratizzato da «pompe funebri» ed «estreme onoranze».Sembra, a prima vista, che «l’esilio dei morti» nei cimiteri extraurbani – un esilio che Michel Vovelle nella Prefazione al citato libro di Maria Canella dice aver caratterizzato l’«età d’oro dei cimiteri» tra il 1860 e il 1920 – abbia avuto una sequela nell’«esilio dei morenti» negli ospedali, dove chi muore è spesso isolato, celato agli occhi altrui dietro un para-vento, trasferito in un locale appartato che anticipa la desolazione della camera mortuaria.Né molto diversa da questa «morte ospedaliera» è talvolta o sovente la «morte domiciliare»”.Tutto è mutato rispetto al quadro dipinto da L’Italia sanitaria cento anni fa. Nel Duemila esso appare anacronistico. La società in cui viviamo è sempre più frammentata: alla «famiglia allargata» di un tempo, aperta alla solidarietà extrafamigliare di vicinato, si è sostituita l’attuale «fami-glia nucleare» chiusa, rinserrata in se stessa senza tramiti di comunica-zione (come la monade leibniziana priva di porte e finestre). Spesso, nel suo seno, i suoi membri validi sono tutti o quasi tutti impegnati fuori casa e inadatti o restii (talora per una certa qual «indifferenza filiale» di cui non mancano gli esempi) a erogare lavoro in prestazioni assisten-ziali, in cure alla persona. Spesso, nella stessa casa, non c’è spazio per malati non autosufficienti, né tempo per malattie di non breve durata.Emarginato e solo in ospedale, il malato che attraversa il tempo del proprio morire non è meno solo ed emarginato in famiglia, nella realtà spesso ostile di oggi.Un’antica pietas accompagnava i morti che se ne andavano verso l’Ade. Un’antica misericordia accompagnava i corpi dei morti alla inumazio-

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ne, mentre le loro anime si libravano verso il Cielo. Le due motivazioni e pulsioni – rispettivamente precristiana e cristiana – non sono tradu-cibili oggi nelle generiche categorie della «pietà» e della «commisera-zione». Vanno invece tradotte nella categoria del «rispetto», del rispetto dei morenti ancor prima che dei morti.

Il rovescio della medagliaNella Premessa si è richiamato il Vangelo di Matteo (25, 35-36), laddove Gesù, nel suo discorso escatologico, parla della fine del mondo e del regno del Padre: “Venite, o benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno a voi preparato dalla creazione del mondo. Poiché io ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui senza tet-to e mi accoglieste; fui ignudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in carcere e mi veniste a trovare.Alle parole evangeliche la tradizione aggiunse poi, in ossequio al sim-bolismo contenuto nel numero sette, la settima opera di misericordia: «seppellire i morti»”.Nei sette capitoli di questo libro si è cercato di vedere in che modo siano evolute nel tempo le condizioni che motivarono quelle antiche opere. Sia qui concesso un paragone, per l’appunto di tipo evolutivo. Oggi si parla di medicina evoluzionistica, che, in un’ottica di muta-zione genetica e di vantaggio selettivo, riguarda l’adattamento dei vi-venti all’ambiente di appartenenza e l’importanza di quest’ultimo nei confronti di salute e malattia. I nostri antichi progenitori, per fare un esempio, sopravvissero in carenza di cibo grazie alla selezione gra-duale di geni che innalzavano la soglia della loro fame cronica tramite un’aumentata resistenza all’azione dell’insulina (l’ormone pancreatico che riduce il tasso di glucosio nel sangue stimolando l’appetito); oggi noi, lontani discendenti, siamo portatori degli stessi geni che però, mo-dificato l’ambiente di vita ostile e il nostro rapporto con il cibo, non sono più vantaggiosi, anzi sono evoluti in fattori di rischio minacciando diabete e obesità.Possiamo, in un’ottica di storia culturale simmetrica alla storia natura-le, parlare di una misericordia evoluzionistica? Modificate le condizio-ni genetiche delle antiche opere, queste appaiono mutate nei secoli in opere nuove, attuali, che questo libro ha cercato di delineare.Ricapitolando il filo conduttore dello svolgimento delineato, la que-stione odierna del cibo viene collegata al cosiddetto «peso ideale» che massimizzerebbe l’aspettativa di vita. Alla domanda emergente, sia nel mondo scientifico che tra la gente comune, «perché stiamo diventando

così grassi?», l’endocrinologa Simonetta Marcucci risponde: “Fat world titola la copertina di un famoso numero di «Newsweek» [agosto 2003] a fianco di una suggestiva immagine: un uomo con un’enorme pancia, al cui interno si intravede il globo terrestre. Il termine globesity, ben rappresentato da tale immagine, è stato coniato proprio per indicare la diffusione del problema del sovrappeso, di pari passo alla globalizza-zione dei modelli alimentari prevalentemente consumistici[1].Divorati dal cibo?, si chiede provocatoriamente il filosofo e storico del-la scienza Paolo Rossi (nell’editoriale che apre lo stesso numero della medesima rivista) quasi rispecchiando a rovescio il titolo del libro Il paese della fame dello storico delle idee e della letteratura Piero Cam-poresi[2].“La storia dell’alimentazione e la corrispondente storia della fame si intrecciano − scrive Rossi – alla cuccagna e al carnevale, all’abbuffata che immancabilmente seguiva i periodi di una disperata ed estenuante e cronica fame”.Il mangiare «sta tra natura e cultura» e, come muta la prima, così muta la seconda. Mutano dunque anche le opere per chi è penalizzato, un tempo in difetto e oggi in eccesso, dalle loro distorsioni.Lo stesso Paolo Rossi, nel libro Mangiare. Bisogno, desiderio, ossessio-ne, cita uno studio indicante che «in Italia i soggetti in sovrappeso sa-rebbero circa 18 milioni» e che «in altri paesi il fenomeno è largamente più diffuso»[3]. Il bisogno di nutrirsi, deviando nel desiderio di man-giare, porta a espiare il desiderio con l’ossessione che l’eccesso di peso e di massa grassa sono fattori di rischio elevato per malattie metabolico-degenerative quali il diabete e l’aterosclerosi, con le loro complicanze. A tale proposito, l’autore richiama la conclusione del libro Il cervello goloso del neuroscienziato André Holley:“Di fronte a fatti così complessi come quelli che caratterizzano la nu-trizione non ci è concesso di affidare l’indagine a un solo ramo del sa-pere[4]”.Al sapere medico-scientifico va perlomeno aggiunta – noi diciamo – l’arte di vivere supportata dalla consapevolezza della non artificialità della vita.Il dissetarsi, come lo sfamarsi, è «indelebilmente connesso all’artificia-lità delle tecniche» e «alle cerimonie e ai riti nei quali uomini e donne in ogni tempo si raccolgono attorno a un luogo dove è imbandita una mensa». O dove è allestito un simposio. Oggi il simposio non è più la bevuta collettiva degli antichi commensali durante o dopo il banchet-to, né tanto meno è l’agape dei primi cristiani in memoria dell’Ultima

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Cena. Non è più il tener corte bandita degli opulenti signori medievali e rinascimentali, né il bere vino dei vecchi operai al tavolo d’osteria nel tempo libero dalle fatiche dell’officina. Oggi, talora o sovente, è invece una festa rituale ad alto tasso alcolico dove la bottiglia passa e ripassa tra le mani dei giovani fino al binge drinking, allo sballo che apre le porte di un mondo fittizio, popolato da immagini di belle donne, di auto iperveloci, di successi effimeri scambiati per durevoli: un mondo che fa leva sulle tante fragilità individuali.La vita resa fragile da temperamenti e comportamenti distorti non è la vita corroborata dall’inclinazione e propensione verso cibi e bevande fatti oggetto di enogastronomia selettiva, raffinata, perfezionata e anche semplificata. Con quest’ultima non è affatto in disaccordo La convivia-lità[5], indicata da Ivan Illich come il «risveglio di coscienza» necessa-rio per stabilire entro quali limiti debba essere contenuta l’evoluzione, incentivata dal mercato, dei prodotti di interesse vitale primario come quelli rispondenti ai bisogni naturali di mangiare e di bere.Una vita fragile appare anacronistica nei paesi nord-occidentali del glo-bo, dove i bisogni primari sono da ritenersi soddisfatti su larga scala e dove la tecnomedicina dispensa una maggiore quantità e una migliore qualità della vita. In tale contesto appare strano ciò che è ovvio: che le fragilità individuali mantengono una grande rilevanza demografico-statistica e costituiscono tuttora un grave problema sociale.Per questo si può oggi affermare la necessità di opere di misericordia intese come offerta e donazione di un nuovo afflato sociale e morale. Le opere dettate dalla charitas cristiana hanno una storia che, come si è visto, rimonta più addietro nel tempo rispetto alla tradizione delle «compagnie della misericordia» fondate nel 1240 (o 1244) a Firenze dal capo dei facchini dell’Arte della Lana con lo scopo di trasportare gli infermi dalle loro case negli ospedali, di portare soccorso ai derelitti sparsi per le strade, di dare sepoltura ai morti abbandonati non meno dei vivi. Tanto più annose esse sono nei confronti delle successive con-fraternite religiose intitolate alla «misericordia» e ampliate nelle loro motivazioni e finalità, tendenti a «fare il bene» con la beneficenza o la pietà elemosiniera.La misericordia non è un’«arma pietosa», né lo fu la «misericordia», det-ta altrimenti asperges, che serviva a dare il «colpo di grazia» al nemico ferito, anche per non farlo languire miserabilmente. Non è nemmeno, come ha detto qualcuno, la prima e peggiore nemica della giustizia so-ciale. Della giustizia, concepita come giustezza, è invece un utile corol-lario. Di più, essa è un punto di equilibrio e di riferimento importante

per dare maggiori contenuti, nell’età della tecnica, alle cure dell’uomo.L’aver cura presuppone la «giusta misura» − la medietas della quale si è detto – che, traslata dal campo alimentare (del mangiare e del bere) al campo del vestire (dell’abbigliamento e dell’abbellimento), non soltan-to significa «moderazione», ma anche, in seno all’odierna società che premia l’apparire, il tenere nel debito conto due diverse realtà: l’una, valoriale e ideale, per cui l’estetica, in quanto categoria (kantiana) della sensibilità e del bello, non prescinde dall’etica del gusto e del giusto, l’altra, fattuale e contingente, per cui la bellezza è un prodotto che non tralascia gli affari, che è confezionato «alla moda» ma spesso esibito in misura «smodata» e che è declinato anche al maschile da supermodelli celebrati come «nuovi dei», ma in realtà ridotti a meri «indossatori».Anche nel campo migratorio dei tanti rifugiati, etichettati clandestini e come tali respinti, la «giusta misura» è quella di opporsi e reagire a certa ideologia od opinione corrente. Oggi la migrazione, fattasi mas-siccia, di popolazione afroasiatica sospinta da eurotropismo incalzante, finalizzato alla condivisione del benessere europeo, rende più agevole la propagazione di un malessere che inoltre è favorito dall’aumentata densità demografica di aree urbane in situazioni di degrado e povertà.Per queste nuove povertà di immigrati, «a prendere il sopravvento è il principio della indesiderabilità», scrive Antonio Sciortino, direttore di «Famiglia Cristiana», ricordando [il suo] Anche voi foste stranieri[6] a quanti affermano che «gli irregolari e i clandestini sono da espellere […], noi non li vogliamo». Ricordiamoci di «quando i naufraghi erava-mo noi», come ci aiuta a fare Gian Antonio Stella in una bella pagina in cui elenca gli «incidenti marittimi che costarono la vita a migliaia di emigranti italiani». Chiosa Sciortino:“Per un paese come il nostro [che fu patria di emigranti e] che si dichia-ra cattolico, è difficile capire come si possa discriminare gli stranieri e atteggiarsi poi a difensori del crocifisso”.Per queste nuove povertà d’oggigiorno c’è una duplice lezione mise-ricordiosa da apprendere: che, sotto l’aspetto preventivo, un buon si-stema di sorveglianza è in grado di individuare e isolare ogni rischio che possa diventare pericolo o danno; e che, sotto l’aspetto curativo, un buon sistema di accoglienza è altrettanto in grado di creare un’integra-zione accettabile, proponibile come risorsa per la società del futuro.Se l’aver cura ha il suo presupposto nella «giusta misura», questa ha massima rilevanza in medicina, che è l’arte curativa per eccellenza e che proprio per questo il vescovo e medico Isidoro di Siviglia (560-636), nell’opera Etymologiae od Origines (libro IV, 13, 4), apparentò etimolo-

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gicamente a medietas e definì philosophia secunda, intendendola come arte di ricerca della norma recte vivendi, via mediana tra eccessi e di-fetti, tra stati di ipo- e iper-funzione sul piano naturale (fisiopatologico) e tra condizioni di penuria e opulenza sul piano sociale (economico). Lungo tale via di mezzo, il cammino del buon medico, per giovare al paziente, deve compiersi seguendo i canoni della giustezza, della giu-stizia, dell’equità, delle «cose morali» − tà ethikà – secondo Aristotele. Solo così il curante può esaudire l’auspicio di Galeno: optimus medicus sit quoque philosophus.L’etica in medicina delimita un ambito di valori che ha una storia ultra-millenaria, conforme a una concezione alta del mestiere occupandosi di moralità e di doveri. Dal «testo dei doveri sui quali giurare», condensa-to nell’ippocratico Iusiurandum, essa è giunta fino all’odierna bioetica, metaforicamente etichettata al suo nascere (da Van Rensselaer Potter, 1971) un «ponte verso il futuro», via maestra di transito dei problemi morali destinati a interessare sempre più, nell’età della tecnica, le scien-ze della vita, con al primo posto la medicina.Esulano dal presente argomentare le questioni bioetiche «di frontiera» (d’inizio e fine vita) o attinenti «al quotidiano» (alla sperimentazione biologica e clinica, all’economia delle risorse, allo sviluppo sostenibile). Ne fa parte invece l’etica medica tradizionale debitamente aggiornata, il cui scopo è ancora e sempre quello di orientare il giudizio morale nel-le scelte da proporre e da compiere. È un’etica medica oggi approdata al rispetto per l’autonomia del paziente, con riguardo alla sua parteci-pazione informata al rapporto di cura.È un rispetto calato in un senso del limite che va condiviso da entrambi i soggetti coinvolti nel rapporto. Nell’attuale congiuntura di «rivolu-zione permanente» della medicina, per dirla con Norberto Bobbio, e di forbice sempre più stretta tra richieste e risorse, il limite è duplice: tecnologico, poiché la medicina pur avendo fatto e facendo passi da gigante, tuttavia non può fare tutto; ed economico, poiché la medicina, che non può fare tutto, non può dare tutto, indiscriminatamente. Ben si può dire, con aderenza all’odierna realtà del mestiere di medico: «Ben-venuta tecnologia, sei indispensabile però… dietro il computer ci deve essere Ippocrate».Il «senso del limite» inteso come giustezza si incarna anche, in altro contesto, nella figura del «giusto» che si oppone all’attuale ingiustizia del sistema carcerario. «Il nostro sistema carcerario è allo stremo», ha affermato il 24 giugno 2011 Patrizio Gonnella (presidente dell’Associa-zione Antigone) denunciando il fatto increscioso che nell’esorbitante

massa dei carcerati poco meno della metà sono i non processati e non giudicati, detenuti sotto custodia cautelare. «È un’anomalia tutta ita-liana, una percentuale più che doppia della media europea». E non è la sola anomalia: anche la percentuale dei detenuti stranieri e la per-centuale di coloro che hanno violato la legge antidroga sono doppie rispetto a quelle registrate nel resto d’Europa.Oltre a tali dati, le rilevazioni attinenti agli istituti di pena italiani sono rappresentative di una realtà quasi dovunque caratterizzata da «ristret-tezza di spazi, assenza di luce, privazione della libertà di lavarsi, esigui-tà delle ore d’aria».Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un intervento al convegno organizzato dai radicali italiani nel luglio del 2011, ha espres-so parole appassionate, denunciando il peso di «oscillanti» e «incerte» scelte politiche e legislative che ha gravato sull’Italia e l’ha condotta a “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quo-tidiana, fino all’impulso di togliersi la vita, di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire affollate è quasi un eufemismo”.Nel commentare le parole del presidente Napolitano, la rivista dell’am-ministrazione penitenziaria «Le due città» (XII, 9 settembre 2011) scri-ve: I fatali conflitti tra politica e magistratura, come li definisce il Presi-dente della Repubblica, rendono la nostra giustizia lenta e inefficace; il risultato si palesa in strutture penitenziarie che abbondano di persone ancora in attesa di giudizio e che arrivano a una sentenza definitiva solo molti anni dopo dal fatto-reato.Il che è in inaccettabile contrasto con la «giustizia [esercitata] in nome della legge e del popolo italiano».Ma «anche sulla giustizia il clima sta cambiando...», ha affermato il guardasigilli Paola Severino nella recente «Relazione sull’amministra-zione della giustizia nell’anno 2011».Il servizio giustizia, rivendicato dalla voce del presidente della Repub-blica, è il medesimo che l’articolo 32 della Costituzione repubblicana garantisce come inalienabile «diritto» della persona umana. È un diritto che scaturisce dal «rispetto» a essa dovuto; ed è lo stesso criterio di giu-stizia che inerisce alle opere di misericordia debitamente aggiornate. Nell’odierna età della tecnica, il cui avvento è stato giustamente salu-tato come il tempo di una maggiore libertà e di una maggiore dignità per tutti, per chi vive e per chi muore, una rinnovata pietas è l’attitudine virtuosa che può fare da salvaguardia a tali libertà e dignità”.

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Vangelo secondo Matteo (25, 37-40)

...Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti ab-biamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o as-setato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

• Dar da mangiare agli affamati…• Dar da bere agli assetati…• Vestire gli ignudi…• Ospitare i pellegrini…• Visitare gli ammalati…• Visitare i carcerati…• Seppellire i morti…

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liRISONANZA ESISTENZIALE

Gesti di carità: * Fatti… * Desiderati… * Che ci creano problemi, i più difficili... ____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

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“Credenziale” per la prossima confessione:

• Sottoalimentare gli obesi• Disassuefare i bevitori• Resistere all’invadenza della moda• Non respingere gli immigrati• Non perdere il dialogo con i pazienti• Non aggiungere pena a punizione• Rispettare la dignità dei morenti• …

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