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SECRETARÍA DE EDUCACIÓN EN EL ESTADO UNIVERSIDAD PEDAGÓGICA NACIONAL UNIDAD 161 MORELIA MICHOACÁN. PROYECTO DE DESARROLLO EDUCATIVO “LA PARTICIPACIÓN DE LOS PADRES DE FAMILIA EN LAS ACTIVIDADES EXTRA CLASE DE LOS ALUMNOS DEL GRUPO “101” DEL COLEGIO DE BACHILLERES PLANTEL ZACAPU” PRESENTAN: CHRISTIAN CHÁVEZ CARRANZA MIGUEL ÁNGEL DELGADO RAMÍREZ ASESOR: LUIS FELIPE DELGADO DARIAS Morelia, Michoacán Enero del 2015

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I libri del 2016Le dieci migliori letture dell'anno per la redazione e i collaboratori di Studio.

Di Aa.Vv.

0LikeLike

T a-Nehisi Coates – Tra me e il mondo (Codice edizioni) trad.

Chiara Stangalino

Perché dedichiamo tanto tempo e tanto spazio nella discussione pubblica ai

libri? Qualche volta me lo chiedo anche io. Di certo non per motivi

economici: quello editoriale è un mercato così piccolo che a stento si può

definire tale (girano talmente pochi soldi che ci si vergogna quasi a dirlo);

rispetto all’ebefrenica pervasività di Internet, poi, questi mattoncini di carta

sembrano innocui e stolidi come quelle ragazze tutte a modino ma un po’

noiose. Poi però arrivano dei libri – pochi, bisogna dirlo – che ti ricordano

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perché continuiamo a farlo nonostante tutto. Ta-Nehisi Coates ha scritto uno

di questi libri. Si intitola Tra me e il mondo ed è un testo personale e politico,

immaginato come la lunga lettera

di un padre al figlio piccolo

(quanto, in teoria, di più

paternalista possa esserci: avete

presente quei libri trombonissimi

con “spiegato a mio figlio” nel

titolo? Perché non ci parli un po’ di

più con tuo figlio, invece di

scrivere un libro a noi? Per fortuna

non è il caso di Coates), una

torrenziale e inarrestabile

invettiva, mai pacificata, mai

conciliante, rabbiosa, tagliente,

eppure anche struggente, piena

d’affetto e compassione,

un’invettiva contro i bianchi, e

contro il fondamento stesso

dell’identità americana: la

disponibilità del corpo nero, sua vendibilità e la sua distruttibilità (cioè

l’omicidio senza quasi conseguenze). E sulla paura, la paura di essere uccisi in

ogni momento, la paura che il tuo corpo e la tua vita sia comunque a

disposizione, che pervade e definisce la vita di tutti i cittadini di colore. Tra me

e il mondo mi ha insegnato molte cose, sugli Stati Uniti e le culture

subalterne, certo, ma anche, con un minimo di traslazione, anche sull’Italia e

sull’Europa di oggi. Sarà per questo che continuiamo a dare tanto peso ai libri.

Perché ancora oggi non c’è una “tecnologia” migliore per fare una cosa tutto

sommato semplice, ma non così scontata: farti aprire gli occhi. (Francesco

Guglieri)

Helen Macdonald – Io e Mabel (Einaudi) trad. Anna Rusconi

Più i libri perdono rilevanza, più sembra che escano cose interessanti da

leggere: quest’anno per esempio non si può certo rimproverare all’editoria

italiana di non aver intercettato e tradotto le uscite fondamentali della

narrativa straniera, a cui si sono aggiunti importanti romanzi nostri

(Starnone, Piperno, Albinati), a comporre un quadro molto ricco sebbene

sempre più avvolto dal dubbio “chi li leggerà tutti questi libri belli?”.

Prendiamo come simbolo di tutto il dubbio Io e Mabel, (che aveva in originale

il meraviglioso titolo H is for Hawk), il memoir che nel 2014 e 2015 ha

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entusiasmato Stati Uniti e Inghilterra e che nel 2016 è finito addirittura nella

Summer reading list di Obama. Ecco, in Italia è stato acquisito e tradotto, ma

in verità se ne è parlato pochissimo, è stato letto poco, semmai è diventato un

segno di riconoscimento per gli eletti della bolla. È una storia di

addestramento (addestramento di un animale – un rapace – ma anche

addestramento al dolore) e di solitudine, di lutto e di amore per la letteratura,

similmente a un libro uscito quest’anno in inglese che pare appartenere

curiosamente allo stesso genere in ascesa, il saggio-autobiografico-di critica-

letteraria-scritto-da-una-donna-sola: The Lonely City di Olivia Laing (c’è

anche Flâneuse di Lauren Elkin poi). È anche un libro che parla di un altro

libro, L’astore di T. H. White, fatto poi uscire a settembre da Adelphi, in un

interessante caso di co-marketing letterario. È il libro che in fondo più mi è

piaciuto leggere perché dalla sua ha un lingua potente, ricca di dettagli che la

amplificano – le piume, gli artigli, la carne di coniglio che si appiccica alle

mani, i boschi inglesi, la pioggia – e la capacità di sorprendere (un sentimento

che considero primario). Lo scelgo perché è l’unico libro che ho letto

quest’anno desiderando di fare a cambio con la vita della protagonista anche

dopo l’ultima pagina. Lo scelgo infine perché la letteratura più interessante di

questi anni – vorrei dire quella più interessante in assoluto ma forse è solo

quella che interessa più a me – è all’esatto opposto rispetto al massimalismo

dei Franzen o dei Safran Foer: le grandi storie non mi dicono più niente che

non sia stato già detto e mi danno la sensazione di essere continui revival,

cover eseguite benissimo; le piccole storie che restano nella coda nell’occhio

mi sembrano più giuste e adatte per questi tempi: nel 2016 sono ancora le

vicende personali a fare la grande letteratura di oggi. (Cristiano de Majo)

Jonathan Safran Foer – Eccomi (Guanda) trad. Irene Abigail

Piccinin

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Jonathan Safran Foer ci ha fatto

aspettare undici anni prima di

pubblicare il suo terzo romanzo e il

risultato valeva

l’attesa. Eccomi racconta uno

sgretolamento intimo, il

disfacimento di una famiglia, a

ridosso di uno sgretolamento più

ampio, il collasso dello Stato

ebraico. Per “libro dell’anno” si

possono intendere molte cose, un

libro che è pesato per il suo valore

letterario, un libro di cui s’è parlato

molto, oppure un libro che riflette

lo spirito del tempo: Eccomi è tutte

queste cose. È un romanzo-

romanzo, di quel genere che è

sempre più difficile leggere e

(forse) scrivere, che mette elegantemente a nudo rimpianti, mancanze e

piccinerie. Il titolo stesso, citazione biblica, è un attestato d’inadeguatezza:

«Quando Dio lo chiama, Abramo non dice “Che cosa vuoi?” Non dice “Sì?”

Risponde con una dichiarazione “Eccomi”», dove il sottotesto è che nessuno

di noi, piccoli uomini fragili, ne sarebbe capace. È anche un romanzo

preveggente, dove il connubio tra spaesamento personale e caos globale, oltre

a fare un po’ Sturm und Drang (la tempesta dentro di me e la tempesta fuori di

me, beh, insomma quella roba lì), ha anticipato gli umori di molti: il 2016 di

Jacob Bloch, il protagonista di Eccomi, faceva schifo già prima che

cominciasse a fare schifo anche il nostro. (Anna Momigliano)

Tom McCarthy – Satin Island (Bompiani) trad. Anna Mioni

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Satin Island è il testo letterario

che dovete leggere se coltivate un

legame di responsabilità con l’idea

di letteratura contemporanea e

futura. Se cioè pensate che la storia

delle forme e degli stili non si è

svolta senza generare

conseguenze. Se come McCarthy (e

come chi scrive) pensate che usare

certe forme e non porsi nemmeno

il problema rappresenti il

corrispettivo artistico dell’essere

creazionisti. La maggior parte dei

romanzi che vengono osannati dai

lettori, oggi, sono formalmente e

culturalmente

creazionisti. McCarthy è forse

l’autore vivente più vicino e aderente alla lezione superba e sperimentale del

Nouveau Roman e in particolare di Alain Robbe-Grillet, una lezione che ha

tecnicamente dominato ogni discorso letterario possibile e reale negli anni

’50, ’60, ’70, e poi come spesso accade è stata negletta ignorata o addirittura

indicata come il male (ricordo che ai primi anni della Scuola Holden, a Torino,

nel ’96-97, venni redarguito per aver elogiato Progetto per una rivoluzione a

New York di Robbe-Grillet: «è totalmente anti-narrativo», dicevano, «è

intellettualistico», chiosavano, «è per pochi», aggiungevano, «non tocca il

cuore», affondavano. Avevano torto, e in parte avevano anche ragione). Il

libro comincia proprio con la parola «Torino», da un “hub” aeroportuale,

quello di Torino-Caselle, dove il protagonista si trova prigioniero di quei vuoti

di opportunità che affollano le vite di tutti i frequent flyers: voli che non

partono, tempo che si dilata, prossimità forzata all’altrove assoluto, ma anche

nauseabonda sensazione di muoversi come in un videogioco classico, con

strade e mostri e gioie obbligate. Mentre è lì, in attesa, un signore che guarda

le news di un disastro ecologico gli dice: «Che tragedia», e lui, che si chiama

U, gli risponde non proprio simpaticamente che la parola “tragedia” deriva

dal greco tragos, che è il capro destinato al sacrificio. In quel non-tempo, U

riceve un sms che gli comunica una bella notizia professionale (quante volte

avrei voluto leggere o scrivere una semplice scena come questa, che

nell’Occidente capitalistico è l’equivalente di una chiamata divina, o

un’apparizione: il suo capo gli comunica che la loro società ha vinto la gara

per la realizzazione di un programma etnografico di enorme portata, dalle

ramificazioni impensabili e complesse. Un enorme lavoro, che U –

antropologo d’azienda – realizzerà con impegno e attenzione. Il romanzo, che

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come suggerisce la copertina è anche un trattato, un saggio, e tante altre cose,

coincide forse con il progetto etnografico stesso: una descrizione della

descrizione, un’adesione verbale e mentale al lenzuolo del mondo, del mondo

come viene percepito oggi dagli umani post-umani che stiamo

diventando. Ogni paragrafo, ogni riga, contiene citazioni e allusioni alla

temperie culturale più avanzata della nostra contemporaneità: un timbro

immerso nella materia del mondo com’è davvero, un cosmo assai diverso

dalle rassicuranti costruzioni di Jonathan Franzen (che forse McCarthy

annetterebbe alla categoria dei romanzieri creazionisti). Il motivo per cui

Robbe-Grillet non era amato alla Holden degli anni Novanta è perché

fondamentalmente i suoi testi “non raccontano storie”. Non si può accusare

McCarthy di non raccontare storie (ne racconta forse troppe). Non si può

neanche più fingere che il romanzo debba adattarsi a un ambiente

radicalmente cambiato dalla potenza divina della Tecnologia e dalla rapidità

del Capitale. Satin Island è un libro cruciale perché suona una sveglia che non

si può più spegnere. (Gianluigi Ricuperati)

Domenico Starnone – Scherzetto (Einaudi)

Già dal risvolto sembrerebbe tutto

meno che un libro per lettori

“giovani”: c’è il vecchio nonno

che scende a Napoli dal Nord per

trascorrere qualche giorno con il

nipotino di quattro anni che

nemmeno conosce, che non vede

mai, con i genitori fuori città per

un convegno e forse a un passo dal

divorzio. Poi ci sono le due indoli

(quella del bambino già adulta, da

odioso ventriloquo) e le due

generazioni che si fronteggiano da

distanze di siderurgica

incomunicabilità, quindi la tata

strega-maliarda che nei rari

momenti di tregua fra i due si

manifesta in qualche angolo della

casa, come a voler riaccendere per

fantasmatiche vie il duello tra nonno e nipote, così da fugare il dubbio che

sull’appartamento stesso aleggi un’opprimente atmosfera alla Insidious. Poi

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quello spirito agrodolce più francese che italiano, e che – per fortuna – piace

tanto ai napoletani. Dico per fortuna perché questa storia, tutt’altro che

“cool” a sentirne la trama in due battute (attualmente solo il “genere”, o

meglio la commistione tra generi, è considerata “cool”) in realtà rapisce,

riverbera di doppifondi, di luoghi e sensazioni che si animano al punto da

diventare, nelle mani di Starnone, più vivi dei personaggi in carne e ossa: il

balconcino da cui penetrano raffiche gelate di vento e dove al bambino è

vietato andare, ad esempio, è un personaggio vero e proprio; i disegni del

nonno sono personaggi anch’essi, “metaferendi” del grande tema al centro

delle ossessioni di Starnone: non tanto la vecchiaia, ma l’irrisione continua

rivolta alla vecchiaia da parte della giovinezza. È tutta giocata su una strana

asimmetria formale questa storia, ha i tempi e il peso di un racconto, non di

un romanzo, ma è l’assillo di questo scherno da parte dei giovani ciò che

interessa a Starnone, non avrebbe avuto senso aggiungere altra carne sul

fuoco per dirci qualcosa di più del rapporto tra il vecchio e la figlia, o il genero.

Starnone è uno scrittore che quando scrive non sbaglia mai: sa esattamente

dove condurre i personaggi, sa trovare la parola giusta al momento giusto per

mutare radicalmente l’opinione del lettore su qualcosa o qualcuno, come

Mario, il nipote. È un genio? È uno stronzetto? Quella che sembrerebbe

un’attitudine all’ambiguità psicologica estranea alla tradizione italiana,

questo tocco nero alla Cheever, è solo il contorno di luce, diciamo così, del

cuore nero della fiamma. E non c’è mai una parola dialettale di troppo, una

parola lontana da quelle che sentiamo per strada ogni giorno; non gli puoi dire

mai che è folcloristico, o che strumentalizzi la città di Napoli, o la lingua di

Napoli usandone i tic e i calchi collaudati. Starnone adopera la lingua italiana

come forse la adoperava solamente Calvino, con una morbidezza perfetta, con

ammirabile precisione, un’ironia intessuta di arguzie; è in grado di prendere

da questa pesante, complessa lingua, la nostra, l’essenziale più immediato, e

di restituire al lettore impercettibili scosse elettriche con una parola speciale

buttata lì ogni tanto, con uno sguardo addolorato sulle cose di ogni giorno.

Perché Starnone è soprattutto uno scrittore di storie, e come tale si controlla,

sa come non annoiare e accattivare anche il lettore più sfaticato. Conosce il

cinema, le serie tv. C’è tanto da imparare da queste pagine, specie per chi

vorrebbe scrivere. C’è il talento, ma c’è anche il mestiere. (Alcide Pierantozzi)

Emmanuel Carrère – Io sono vivo, voi siete morti (Adelphi) trad.

Federica e Lorenza Di Lella

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Essendo un uomo che ha fatto

del trovarsi in controtendenza

rispetto al resto del mondo un pur

doloroso motivo di vanto, Philip

Kindred Dick sarebbe

probabilmente contento di sapere

che il 2016 per lui è stato un grande

anno. Non che quello precedente

non gli avesse dedicato attenzione:

Amazon aveva fatto debuttare The

Man in the High Castle, una serie tv

ispirata al suo La svastica sul

sole, portando simboli nazisti sui

sedili della metropolitana di New

York, e Fanucci ci aveva dato le

milletrecento pagine de L’esegesi,

il suo vangelo esoterico finale. Ma

quest’anno sono stati

annunciati Blade Runner 2049, il

sequel del film che l’ha consacrato nel pantheon, e, a ma

ggio, una prossima serie televisiva di dieci episodi ispirati alle sue

opere: Electric Dreams: The World of Philip K. Dick, con Bryan Cranston. Non

bastasse, Adelphi ha ripubblicato la sua biografia del 1993 firmata da

Emmanuel Carrère. È un libro a due passi dal capolavoro, e se non si trattasse

di Carrère si potrebbe dire che chi l’ha scritto ha avuto vita facile. Sono sempre

stato convinto che Philip Dick sia il naturale destinatario di quel celebre

monologo di Kurt Vonnegut sugli scrittori di fantascienza: «Vi amo, figli di

puttana. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che

sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un

viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di

anni». Di cambiamenti in corso, nella California delle controculture degli anni

Sessanta e Settanta in cui viveva Dick, ce n’erano parecchi, e Carrère è abile

nel ricamarli e mostrare com’erano intessuti alle fantasie lucide e alle

ossessioni paranoiche che non abbandonavano mai il collega, un uomo di

certo abbastanza pazzo e sinceramente visionario per parlare di quel viaggio

nel cosmo. Nel libro appaiono in lontananza, come echi distanti, Richard

“Tricky Dick” Nixon, Charles Manson, Joan Didion, tra gli altri, ma il

protagonista assoluto ha un solo nome, e le sue paure patologiche, la sua

inscalfibile consapevolezza da oracolo, la sua frustrazione e i suoi amori

instabili colorano un mondo non meno rivelatorio di quelli delle sue distopie.

Leggendo Carrère, si scopre che Philip Dick ha sempre considerato la sua

fantascienza più “reale” di qualsiasi nonfiction. Nell’anno dell’elezione alla

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Casa Bianca di un appariscente miliardario che ha promesso di deportare

milioni di persone e costruire muri invalicabili al confine tra Stati Uniti e

Messico, credo sarebbe meglio iniziare a rileggerla. (Davide Piacenza)

Alessandro Piperno – Dove la storia finisce (Mondadori)

Mesi dopo aver finito di leggere

l’ultimo romanzo di Alessandro

Piperno, i personaggi sono ancora

perfettamente nitidi e vivi anche

perché il libro percorre inedite

strade cognitive. Asciugata la

scrittura rispetto ai suoi libri

precedenti, carteggiato lo stile e

snellito il lessico, le pagine

lavorano subdolamente a scolpire

scene, ambienti e soprattutto

personaggi, con l’effetto dei

messaggi subliminali. Sono in

scena due famiglie romane, molta

incertezza su come muoversi nella

vita, e tanti sentimenti

contrastanti: «Il padre sorrise. Lo

fece anche Federica, ma che voglia

di piangere! Se fosse stata lei la madre, avrebbe stretto il bimbo come un

peluche. Fu turbata dall’inopportunità di quel pensiero». Sorridere con il

desiderio di piangere, pensare qualcosa che scandalizza per primo chi formula

il pensiero. Ecco il tipo di intervento nella profondità dei personaggi inventati.

Altrove si legge: «La sua frase era suonata più brutale del pensiero che l’aveva

ispirata». La confidenza con l’anima inquieta dei personaggi e con le loro

aspettative frustrate, padroneggiata da Piperno, infonde nel lettore la

paradossale e illusoria percezione di aver conosciuto “esseri umani”

semplicemente leggendo una storia romanzesca. In una Roma calda, che cade

a pezzi, battuta da un vento africano e minacciata da temporali tropicali, i

protagonisti di Piperno prendono atto di relazioni sentimentali logore, di

matrimoni arrivati al capolinea. Tutti provano a ricominciare a vivere, a dire

bugie nella speranza di resistere a una forza centrifuga che li spinge lontano

uno dall’altro. Soltanto il finale – coraggiosissimo, spiazzante, traumatico –

riesce, per assurdo, a rimettere in fila le esistenze e a ridare un ordine al

mondo: «La stessa ragazza che aveva passato le ultime settimane a flirtare

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con l’idea della morte, era travolta dall’istinto di conservazione». (Francesco

Longo)

Gerard Russell – Regni dimenticati (Adelphi) trad. Svevo D’Onofrio

Penso che il 2016 sia stato uno

degli anni letterariamente più felici,

per quanto riguarda le cose uscite in

Italia. Personalmente, oltre la

riscoperta di un autore gigantesco

come Domenico Starnone, la mia

ricerca si è impostata organicamente

su due filoni: quello della natura e

quello della geopolitica. Ho letto di

astori, falchi pellegrini e filosofie

dell’orto da un trilocale di Milano

nord, poi è arrivato il caldo, sono

andato al mare, tra montagne che si

scapicollano nel Tirreno e quindi

molta natura e molti falchi, per

dedicarmi invece al Grande Gioco tra

Persia e Afghanistan e alla storia

delle religioni del Medio Oriente.

Quest’ultimo filone – la divulgazione storica, o storico-narrativa – mi ha

molto appassionato: c’entra anche la bravura di Adelphi di fare uscire, negli

ultimi anni e nella sua collana forse esteticamente più bella, titoli come Il

Grande Gioco o Alla conquista di Lhasa di Peter Hopkirk, Il ritorno di un re di

William Darlymple, e questo Regni dimenticati appunto. E c’entra,

banalmente, quello che succede nel mondo e che viene riportato dai siti di

notizie ogni giorno, quei nomi esotici un tempo (nei libri, nell’immaginario

occidentale, nei pochi ricordi di bambino delle diapositive di parenti

avventurosi) oggi diventati polvere grigia e palazzi vuoti. Gerald Russell fa un

viaggio culturalmente tra i più affascinanti, nei territori delle religioni

mediorientali in via di sparizione – yazidi, zoroastriani, samaritani, caldei – e

lo fa oggi ma anche mille e duemila anni fa per fotografare i momenti in cui

quei culti erano vivi e diffusi e dominavano quei deserti. L’effetto è la

meraviglia, prima, la sete di sapere più avanti, e lo straniamento, alla fine, per

la condizione dell’oggi, per Damasco, Palmyra, Baghdad. Questo preambolo

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per dire e dirmi qualcosa (e soprattutto per decidermi) sulla

impegnativa categoria di “libro dell’anno”: Regni Dimenticati è arrivato al

momento giusto, appassionandomi per quattrocento – quasi – pagine senza

nessun calo di tensione. E dire che ero in spiaggia. (Davide Coppo)

Emma Cline – Le ragazze (Einaudi Stile libero) trad. Martina Testa

Ci sono molti motivi per cui

potremmo definire Le ragazze il

libro dell’anno. Gli elementi del

fenomeno editoriale ci sono tutti, a

partire dalla ventisettenne

esordiente anche troppo

facilmente ascrivibile alla comoda

categoria del prodigio, perfetta

sulle copertina di Vogue UK e

portatrice di una bellezza «sinistra

e famelica» che, come ha scritto

Claudia Durastanti, ricorda fin

troppo quella delle protagoniste

del suo libro. Poi ci sarebbe anche

quella facilità con cui Cline sembra

padroneggiare la scelta di

ambientare le vicende della

protagonista all’interno di un fatto

di cronaca iper-noto, quello degli

omicidi della setta Manson. Un espediente che, almeno in potenza, avrebbe

potuto intaccare la storia da più parti, ma che l’autrice sa invece utilizzare e

“diluire” nel corso della sua storia, dimostrando una perizia di forma e

contenuto che non ha mancato di impressionare i critici (un po’ meno quelli

italiani, ma questa è un’altra storia). C’è infine quell’intuizione di fondo che

riporta Le ragazze al presente in cui è stato scritto, e conseguentemente letto e

consumato: il racconto militante dell’identità femminile, la storia di

formazione che si lega a quella dell’infatuazione della piccola borghese Evie

per la feroce spiantata Suzanne, vero snodo narrativo dell’intera vicenda. «Fui

travolta da un senso vertiginoso di solidarietà, il tono stanco ed equanime

della sua voce: pensai che sapevamo tutte e due cosa voleva dire essere sole,

anche se a ripensarci adesso mi sembrava stupido. Aver pensato che fossimo

così simili, quando io ero cresciuta con donne di servizio e genitori e lei mi

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aveva detto che per certi periodi aveva vissuto in macchina, dormendo sul

sedile del passeggero reclinato, con sua madre su quello del guidatore. Io, se

avevo fame, mangiavo. Ma c’erano altre cose che ci accumunavano, a me e a

Suzanne, un tipo diverso di fame». È una fame di sesso, ma non di sole

attenzioni maschili, di affermazione di sé e di conseguente emancipazione

dagli altri, dalle proprie madri, innanzitutto, la cui borsa ci rivela tutte le

insicurezze, dalle amiche d’infanzia, il cui tono improvvisamente ci sembra

troppo sguaiato, ma anche dai padri indolenti e dalle cotte adolescenziali, è in

fin dei conti una fame del proprio io, in quell’asfissiante ricerca continua che

sono la pre-adolescenza e l’adolescenza. È la parabola di quell’intesa

primitiva che può crearsi solo fra due donne, nel cui arco la personalità di Evie

si schiude senza però arrivare a un necessario compimento, come le parti del

racconto affidate alla sua controfigura adulta dimostrano. Si tratta di un

archetipo letterario su cui molte scrittrici si stanno dedicando negli ultimi

anni, le loro pagine più belle, una sorta di filo conduttore che unisce

idealmente Virginia Woolf, Dori Lessing, Elena Ferrante, Zadie Smith, Ottessa

Moshfegh e la stessa Cline. In un articolo uscito per il Guardian lo scorso

agosto, Alex Clark scrive: «Di recente, c’è stata una crescita della

rappresentazione letteraria di un particolare tipo di amicizia, che in passato è

stata tralasciata a causa di quelli che sembravano imperativi apparentemente

più potenti come l’eterosessualità e la maternità». E proprio l’amicizia fra

donne diventa, per le ragazze di Emma Cline ma forse anche per tutte le altre,

il terreno incestuoso dove far convergere tutte le spinte di una identità (sia

pubblica che privata) in continua, violenta, evoluzione. (Silvia Schirinzi)

Leonard Michaels – Sylvia (Adelphi) trad. Vincenzo Vergiani

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Sylvia è una piccola perla che si

inserisce nella lunga collana delle

storie che indagano il lato oscuro

dell’amore, quando le relazioni

assumono il sapore velenoso e

irresistibile della dipendenza, della

pazzia e della violenza. Sonata a

Kreutzer di Tolstoij o Un amore di

Dino Buzzati posso essere citati

come due prestigiosi progenitori

della storia di ossessione e sfacelo

che, con toni più freschi e

disincantati, questo libro mette in

scena. I paradossi e i giochi

perversi, l’odio e la passione, i

litigi, la gelosia, il sesso, il potere

del corpo della donna di attrarre e

incatenare. È come se Michaels

riuscisse a distillare la meticolosa

analisi introspettiva di Tolstoij, riducendola al minimo ma non a zero, e a

rendere più dolce e disperata la morbosa tensione erotica di Buzzati. Se il

sapore amaro che Sylvia lascia sulla lingua è nuovo e diverso è anche perché si

tratta di una storia vera (del resto anche Tolstoj per la sua Sonata prende

spunto da una vicenda autobiografica, un tradimento subito, un po’ come

Beyoncé per Lemonade). Leonard Michaels ripercorre il tempo trascorso con la

sua giovanissima moglie Sylvia, risalendo con lucidità straziante verso il picco

della sua follia e poi guardando giù, nel baratro vuoto lasciato da lei dopo il

suo suicidio. Ma quello che lega Michaels a Tolstoij e Buzzati è anche la

capacità dell’autore di dipingere la relazione come un nucleo inquieto

contenuto e attraversato da un ulteriore, più grande movimento. La storia di

Buzzati ha la forma di una spirale, un’ossessione che si inabissa in una Milano

palpitante e crudele, brulicante scrigno di miserie e bramosie. La tragedia di

Tolstoij segue l’andamento inevitabile, rettilineo, del treno in corsa sul quale

viene narrata, mentre Michaels schizza con pochi tratti – oltre le pareti della

casa in cui lui e Sylvia si sono auto imprigionati – una New York vaga, quasi

astratta, ridotta al «carnevale demente» di MacDougal Street, il cui delirio

sembra poter entrare dalle finestre insieme all’aria, contaminando la

coppia. La voce con cui Michaels ripercorre il passato è sarcastica, eppure, al

contempo, piena di tenerezza. Non c’è rancore né pentimento per tutto ciò che

è stato vissuto, quasi a dire che l’amore, anche il più malato e sbagliato e

doloroso, non si può giudicare o rinnegare: è come una malattia, una febbre

che sale e sale, e non si può fare altro che aspettare che passi, o che distrugga

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uno dei due. (Clara Mazzoleni)

Tag: Classifiche · Libri

Di Aa.Vv.

Pubblicato in data 21 dicembre 2016

I grafici che mostrano quantosovrastimiamo la presenza di musulmani …2 comments • 7 days ago•

travis_bickle — Meno del 4%. 10 volte menonumerosi degli evasori fiscali.

I russi, i russi, gli americani3 comments • 6 days ago•

Silvano Calzini — Bei tempi quelli dell'agentePalmer. Do you remember him?

Lo strano problema dei bagni italiani1 comment • 13 days ago•

zinodavidoff — Un grande MACCOSA.

Come Shirley Hazzard mi ha cambiato lavita1 comment • 2 days ago•

Silvano Calzini — Grazie per questo magnificopezzo. Confesso di non avere letto il romanzodella Hazzard, ma se lo trovo in libreria …

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