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Marina di Massa, 1° maggio 2015
“Un altro mo(n)do è possibile. Nuovi stili di vita per una famiglia cristiana e solidale”
Ogni cosa era fra loro comune. La famiglia educa alla responsabilità
Ogni incontro è un’occasione per condividere e approfondire la fede, non si tratta solo di dire e dare qual-
cosa ma di gustare la bellezza di quella fede che riempie di luce i nostri giorni. Ed è anche l’occasione per
ricevere. E tanto! Devo ammettere che nonostante l’impegno per la famiglia avevo una conoscenza piutto-
sto sommario di Federico Ozanam. Ed è una mancanza grave per uno come me che insiste molto sul valore
intrinseco e pedagogico santità coniugale. Ringrazio il caro Maurizio per aver colmato questa lacuna invian-
domi un testo breve ma denso per iniziare ad conoscere un gigante della carità, testimone di una carità che
scaturisce dalla fede e abbraccia tutta la vita e illumina tutti gli ambiti dell’esistenza.
1. Il ruolo della famiglia
È da lui che voglio partire perché nel breve resoconto biografico ho visto confermare un aspetto che tante
volte mi capita di sottolineare: la famiglia come luogo essenziale per la trasmissione della fede. La Societé
des Veilleuses, pensata dalla madre per venire incontro alle ragazze e alle donne in difficoltà; e la cura che il
padre, medico, offriva ai poveri della città, non potevano non lasciare una traccia nel cuore di questo gio-
vane. Un seme irrigato dalla grazia e che più tardi germogliato in quella straordinaria opera di carità che an-
cora oggi illumina il cammino dell’umanità.
Questa testimonianza mi fa pensare a quella di Madre Teresa. Quando morì il padre – Agnese aveva solo
dieci anni – la madre chiamò le sue tre figlie e disse loro: “Cari figli, ora siamo più soli. Da questo momento
dobbiamo raddoppiare la carità”. E nelle settimane successive – due volte a settimana – portava i suoi figli
nei quartieri più poveri per visitare gli ammalati e lavare gli anziani. E quando nel 1943, suor Teresa scrive
alla madre per comunicarle che era diventata superiora e che tutti la stimavano, ricevette questa risposta:
“Figlia mia, non dimenticarti che sei andata in India per i poveri”. Nel 1991, quando ebbe la possibilità di ri-
entrare nel suo Paese, l’Albania, Madre Teresa chiese di andare subito sulla tomba della madre. Davanti a
quella tomba disse: “Non ci sarebbe stata madre Teresa se non ci fosse stata quella madre”.
Testimonianze significative che ci mettono sulla strada di questo incontro che, a quanto mi scriveva Mauri-
zio, vuole rispondere a queste domande:
Alla luce degli Atti degli apostoli (e in particolare At 2, 44-45), può la famiglia cristiana divenire
proposta di benessere sociale? E noi, famiglie vincenziane, possiamo passare dall'aiuto della
Conferenza verso le famiglie in difficoltà, all'aiuto tra famiglie e famiglie, per diventare una “fa-
miglia solidale”, segno concreto di comunità cristiana che condivide i propri beni?
Il mio compito è quello di introdurre mettendo in luce la ricchezza del testo biblico e portando anche la te-
stimonianza personale di famiglie che hanno scelto di mettersi in gioco per scrivere pagine inedite di carità.
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Un’altra bella testimonianza familiare è quella vissuta dalla famiglia di Luigi e Zelia, i beati genitori di san-
ta Teresa. In quella famiglia la carità era il pane quotidiano. Luigi Martin partecipa attivamente alla Confe-
renza di san Vincenzo de’ Paoli. Una carità che rimane il più delle volte nascosta, nessuno avrebbe cono-
sciuto i molteplici gesti di carità compiuti da Luigi e Zelia se non ci fosse stato il processo di beatificazione
che ha chiesto di raccogliere tutte le testimonianze. La vita della famiglia Martin è ricamata di tanti episodi
in cui traspare l’amore per i poveri. Luisa Marais, per lunghi anni domestica in casa Martin, ha testimoniato:
“Io sola ho saputo quante monete da due franchi e quante porzioni di quello che si mangiava a tavola, ella
mi mandava a portare a dei poveri” (Celina, Incomparabili genitori, 145).
Anche Teresa ha conservato tanti ricordi. “Spesso durante quelle lunghe passeggiate incontravamo dei po-
veri, ed era sempre Teresa piccina a ricevere l’incarico di portare l’elemosina, e come n’era felice!” (Ms A,
n. 40). In una lettera Zelia racconta questo episodio:
Ritornando [da una passeggiata con le figlie], abbiamo incontrato un povero vecchio che aveva un
aspetto bonario. Ho mandato Teresa a portargli una piccola elemosina, è sembrato tanto commosso
ed ha tanto ringraziato che ho compreso che doveva essere molto infelice. Gli ho detto di seguirci,
che gli avrei dato delle scarpe. Gli è stato servito un buon pasto: moriva di fame. Non ti potrei dire di
quante miserie sia abbeverata la sua vecchiaia. Quest’inverno ha avuto i piedi congelati; dorme in
una catapecchia abbandonata, manca di tutto, va a rannicchiarsi presso le caserme per avere un po’
di minestra. Insomma, gli ho detto di venire quando vuole e che avrebbe ricevuto del pane. Vorrei
che tuo padre lo facesse entrare all’Ospizio: desidera tanto andarvi. Si sta trattando la cosa. (14
maggio 1876)
In effetti Luigi s’impegnerà non poco ma alla fine riuscirà ad ottenere l’alloggio presso l’ospizio pubblico. La
vera carità non si limita all’elemosina ma si preoccupa di dare una risposta seria alle esigenze dei poveri.
Una sera incontrò un ubriaco sulla strada, tutti lo scansavano, ma da buon samaritano, Luigi lo prese sotto
braccio e lo accompagnò fino a casa (Celina, 24).
Zelia prende sul serio l’invito ad amare il prossimo: accoglie in casa il vecchio padre, che era di umore piut-
tosto instabile, e si prende cura di lui fino alla morte (Celina, 144). “questo povero papà – scrive al fratello –
non sa cavarsela da solo: bisogna che io ne abbia cura, per prolungare i suoi giorni”. Ma quando gli propone
di trasferirsi, incontra la più viva resistenza: “gli ho spiegato che non potevo separarmi da lui, che mi rende
dei grandissimi servizi, insomma l’ho scongiurato a rimanere” (Lettera del 10 dicembre 1865). Quando la
domestica si ammala non la manda a casa o in ospedale ma si prende cura di lei e resta per tre settimane
accanto al suo letto (Celina, 148). Nel giorno della prima comunione di Leonia Zelia invita alla festa di fami-
glia una fanciulla povera che quel giorno si era accostata per la prima volta all’Eucaristia, e la fece sedere al
posto d’onore. tutti questi gesti – e tanti altri che sono scritti nel libro di Dio – lasciano una traccia indelebi-
le nel cuore delle fanciulle che apprendono fin dalla più tenera età che i poveri sono l’immagine di Gesù e
come tali vanno serviti e onorati.
San Vincenzo de’ Paoli amava dire che “i poveri sono i nostri padroni”. Luigi conosce e ama questa spiritua-
lità. Per questo insegna alle figlie ad onorare i poveri. Celina racconta questo episodio: “Una mattina incon-
trò in chiesa un vecchio che pareva sfinito, lo fece venire ai Buissonnets, del suo meglio lo rifornì di viveri e,
mentre costui se ne andava pieno di riconoscenza, ci fede inginocchiare ai suoi piedi, Teresa e me, perché ci
benedicesse” (Celina, 25). L’attenzione ai poveri s’imprime così chiaramente nel cuore di Teresa da diventa-
re preghiera.
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2. Una cornice ideale
Partiamo dunque dalla Scrittura. Dovrebbe essere sempre il punto di partenza e non solo nelle grandi occa-
sioni. In principio la Parola, scriveva il cardinale Martini. In principio, cioè prima di cominciare, c’è Dio, la Pa-
rola non è qualcosa ma Qualcuno. Parola di Dio, diciamo al termine della lettura liturgica. Non significa:
questa è la parola che parla di Dio; ma: è Dio che parla. Partiamo dalla Scrittura e cerchiamo di rimanere
ancorati ad essa, altrimenti corriamo il rischio di cercare altrove le motivazioni e la luce che orienta le scel-
te.
All’inizio degli Atti, subito dopo il racconto della Pentecoste (2, 1-13) e la prima predica di Pietro (2, 14-36),
le prime conversione (2, 37-41), troviamo un brano che descrive la vita della prima comunità:
« Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane
e nelle preghiere. 43
Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli
apostoli. 44
Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45
vendevano le loro
proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46
Ogni giorno e-
rano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con le-
tizia e semplicità di cuore, 47
lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo » (At 2, 42-47).
Nel libro degli Atti troviamo anche altri sommari come questi e in particolare At 4, 32-35 e At 5, 12-17. Al-
cuni elementi si ripetono ma possiamo anche individuare alcune particolari accentuazioni che vanno mag-
giormente evidenziate al fine di dare un quadro più globale dell’esperienza cristiana.
o Nel primo si pone l’accento sui sentieri fondamentali in cui si manifesta l’esperienza di fede (2, 42-47).
o Nel secondo si sottolinea maggiormente la comunione dei beni come segno e testimonianza della vita nuova ricevuta mediante lo Spirito(4, 32-35).
o Nel terzo si mette in risalto la fede degli apostoli che operano “miracoli e prodigi fra il popolo” fino al punto che anche dalle città vicine la gente accorre “portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti” (5, 12-17).
Secondo alcuni esegeti si tratta di un quadro eccessivamente idealizzato, ma non per questo lo dobbiamo
considerare poco realistico. Luca, infatti, non dimentica le tensioni e le inevitabili contraddizioni presenti
nella primitiva comunità; e non chiude gli occhi dinanzi alle divisioni:
- l’episodio di Anania e Saffira (5, 1-11),
- il malcontento sorto nella comunità tra ellenisti ed ebrei (At 6, 1)
- le divergenze dottrinali tra Paolo e i difensori più accaniti della prassi giudaica (At 15),
- lo stesso contrasto tra Paolo e Barnaba (15, 36-40).
Il racconto degli Atti non teme di considerare la debolezza che emerge nella Chiesa in questa prima fase. In
questi sommari, tuttavia, l’autore sacro intende presentare quell’ideale che orienta il cammino dei primi cri-
stiani e che sostiene la tensione spirituale della comunità in mezzo alle difficoltà. È come se Luca avesse vo-
luto indicare ai cristiani di ogni tempo una sorta di vademecum fondamentale, cioè quell’ideale che la Chie-
sa è chiamata a perseguire con coraggio! Costi quel che costi.
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3. Il soffio dello Spirito
Questo brano è posto a conclusione di un capitolo che inizia con la manifestazione dello Spirito. È questo
l’evento originario, a grazia da cui tutto scaturisce, la prima pietra di quella grande opera che la Chiesa è
chiamata a realizzare lungo i secoli. Tutto nasce dall’alto. Questo fatto offre un importante e decisivo crite-
rio per la vita ecclesiale che, ad essere sinceri, non sempre viene osservato. E cioè: la buona volontà e il de-
siderio di bene che alberga in ogni uomo non sono sufficienti per costruire il Regno.
Tutto inizia con l’attesa e l’accoglienza dello Spirito. Dopo l’irruzione dello Spirito a Pentecoste quel piccolo
gruppo di discepoli, in cui non mancavano divisioni e incomprensioni, diventa una comunità. La potenza
dello Spirito si manifesta anzitutto in uno nuovo stile di vita che sorprende e affascina. Il dono di Dio fonda
e sostiene l’impegno dell’uomo. Senza lo Spirito la Chiesa rimane una pura aggregazione umana, e perciò
incapace di essere nel mondo segno di quella vita che rinnova tutte le cose. La comunità cristiana nasce e
vive in forza dello Spirito che rinnova nella Chiesa la presenza di Cristo e unisce nell’amore persone che
hanno storie e caratteri molto differenti.
Dopo aver narrato i primi passi della comunità ecclesiale, l’autore offre uno squarcio contemplativo, pre-
senta gli elementi essenziali dell’esperienza di fede vissuta da coloro che hanno accolto l’annuncio della Pa-
rola. È una descrizione breve ma efficace, in essa troviamo tutti gli elementi essenziali del cammino che la
Chiesa è chiamata a percorrere, ricordiamoli brevemente:
o i pilastri che fondano e sostengono l’esperienza cristiana (2,42), o i prodigi che avvenivano per opera degli apostoli (2,43), o la comunione dei beni attuata da tutti i credenti (2, 44-45), o la preghiera comune e la letizia che accompagnava il cammino (2,46)
Questi elementi costituiscono senza dubbio la premessa e la condizione stessa del cammino ecclesiale. Se
venissero a mancare, o se uno solo di essi fosse assente, l’esperienza di fede risulterebbe senza dubbio fal-
sificata. In ogni tempo la Chiesa deve sempre confrontarsi su questo ideale che invita a intrecciare la di-
mensione mistica e quella sociale, la comunione con Dio e la vita fraterna, l’ascolto della Parola e le opere
compiute dagli apostoli. La Chiesa dunque da una parte viene continuamente generata dall’alto; e dall’altra
rimane saldamente legata alla storia:
o il duplice riferimento alla frazione del pane (2, 42.46) richiama la misteriosa ma reale presenza del Risorto; i miracoli e i prodigi (2,43) sono il segno che Cristo continua ad operare nella sua Chiesa mediante gli apostolo che Lui stesso ha scelto e inviato.
o La comunione dei beni, che Luca ha voluto incastonare al centro di questo sommario (2, 44-45), rappresenta l’espressione di una più profonda comunione interiore che solo la fede più generare: i credenti si trovano insieme (2,44) e ogni giorno spezzano il pane nelle case (2,46). Una corrente di vita e di amore unisce tutti i credenti e li rende “un cuor solo e un’anima sola” (4,32).
È evidente che la Chiesa primitiva non si limita ad annunciare la salvezza, ma si impegna a vivere il Vangelo.
La sua testimonianza, come quella di Gesù, è data in parole ed opere. Così facendo comunica la fede in mo-
do immediato ed efficace. Lo stile di vita della primitiva comunità affascina e stupisce, genera un’istintiva
simpatia nel popolo (2,47) e non sono pochi quelli che accolgono la parola della fede (2,48).
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4. Fede e carità
Mi avete chiesto di sottolineare la condivisione dei beni che l’evangelista Luca ha volutamente posto al cen-
tro di questo sommario. Una scelta che, se da una parte intende porre in evidenza questo aspetto,
dall’altra ricorda che questa esperienza è il frutto maturo di una vita di fede che si manifesta in quei diversi
e complementari elementi che vengono richiamati nel sommario. Non facciamoci illusioni e non vendiamo
illusioni. Lo stile della carità si acquista a caro prezzo.
Un bellissimo commento a questa pagina degli Atti e un degno approfondimento di questo tema è offerto
da Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est (2006). Papa Ratzinger rilegge la carità in tutte le sue diver-
se e complementari espressioni, a partire da Dio, fonte dell’amore. Se Dio è amore (il titolo dell’enciclica
riprende la stupenda affermazione della 1Gv 4,8), tutto ciò che viene da Lui ha l’impronta della carità. La
carità si esprime anzitutto nell’amore che unisce l’uomo e la donna, si manifesta nella vita ecclesiale e si
declina attraverso l’impegno a favore dei poveri. Uno solo è Dio e una sola la carità ma tante le sue manife-
stazioni.
Il Papa presenta la carità non come qualcosa che la Chiesa è chiamata a fare ma come l’espressione di una
precisa identità: “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe
anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza”
(n. 25). Annuncio della Parola (kerigma), celebrazione dei sacramenti (leiturghia) e servizio della carità (dia-
konia) sono dunque tre aspetti dell’unica missione: “Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non
possono essere separati l'uno dall'altro” (n. 25). Tutta l’attività della Chiesa consiste nel comunicare
l’amore di Dio: attraverso la Parola la Chiesa rivela l’amore di Dio, la liturgia permette all’uomo di riceverlo,
la carità di fare esperienza della sua paterna tenerezza.
L’enciclica insiste molto sul fecondo intreccio dei diversi elementi. Ed è proprio quello che oggi rischiamo di
dimenticare:
- da una parte la presunzione (tipica della nostra società che sventola la bandiera della laicità) di po-
ter accogliere la sfida della carità facendo a meno di Dio, un atteggiamento che talvolta fa capolino
anche in alcuni settori della comunità ecclesiale;
- e dall’altro la tentazione di ridurre il cristianesimo ad una liturgia che c’immerge nelle cose celesti e
ci fa dimenticare la responsabilità nei confronti della terra.
La nascita della Conferenza della carità è legata ad una sfida, lanciata e raccolta con quell’entusiasmo che
solo la giovinezza possiede e con quel coraggio che solo la fede può dare. L’accusa che la fede restava lon-
tana dalla realtà bruciava nel cuore di quei giovani che volevano incendiare il mondo con il Vangelo e li ha
spinti a dare una risposta concreta. L’idea di usare lo stesso nome di Conferenza è davvero geniale non so-
lo perché ricorda la genesi storica di questa avventura ma anche perché invita a non separare lo studio e
l’impegno concreto, la vita di preghiera dall’esperienza della carità. Vivere la fede significa valorizzare tutto
ciò che appartiene all’umano, anzi comporta il dovere di potenziare al massimo grado l’umana natura, co-
me ha detto Papa Francesco: “Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani,
quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero”
(Evangelii gaudium, 8).
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Dopo aver lavato i piedi, tra lo stupore generale dei discepoli (Gv 13, 1-5), Gesù si siede, riprende le vesti
del Maestro e lascia loro un insegnamento che ha il sapore di un testamento: “Sapendo queste cose, siete
beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17). Dopo aver mostrato con i fatti qual è lo stile di Dio, chiede ai di-
scepoli di fare altrettanto. Anzi, li ammonisce: la beatitudine non consiste nel sapere le cose ma nel mette-
re in pratica. Anche queste parole suonano come una sfida e sono rivolte a tutti i discepoli, anche a noi og-
gi. Gesù non vuole certo minimizzare il ruolo dell’insegnamento che lui stesso ha praticato ma ricorda che
la parola deve farsi carne e che la testimonianza del servizio è parte integrale di quel Vangelo che la Chiesa
è chiamata ad annunciare.
5. Fede e giustizia
Federico Ozanam e i suoi amici accolgono la sfida della carità perché hanno una consapevolezza che oggi
rischia di essere meno presente nel cuore e nella mente della comunità cristiana. Il nostro Beato aveva
l’intima certezza che il cristianesimo aveva un ruolo da svolgere e, di conseguenza, il dovere di partecipare
al rinnovamento della vita sociale. Il comando evangelico di essere “luce del mondo” comportava la neces-
sità di tenere alta la fiaccola della fede. Federico non solo s’impegna nella carità ma partecipa attivamente
alla vita politica e culturale del suo tempo, sollecita la comunità ecclesiale a prendere posizione. La sua è
una fede che entra nella storia.
Il cristianesimo ha qualcosa da dire. Anche oggi. Non è un’appendice del passato, un museo da custodire.
Oggi c’è anche il rischio di pensare che una società giusta sia capace di rispondere a tutti i bisogno
dell’uomo. Non credo che si sarà mai una società giusta (perché la natura umana resta fragile e soggetta al
peccato) ma sono certo che la società più giusta non toglie spazio alla carità perché avremo sempre bisogno
di persone disposte a supplire con amore alle oggettive mancanze del sistema sociale e a tutte quelle ne-
cessità che il welfare non può contemplare né prevedere.
Nell’enciclica citata Benedetto XVI ha affrontato, con la maestria che tutti gli riconoscono, il tema del rap-
porto tra giustizia e carità. Al termine di una breve ma densa riflessione (nn. 26-28), così conclude:
« Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore.
Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà
sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre
ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella li-
nea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe
tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui
l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato
che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente rico-
nosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle
diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto » (Deus
caritas est, 28).
La fede non rinnega la giustizia né la politica che ha il compito di promuoverla e di assicurarla, ma sostiene
la carità e genera esperienze sempre nuove non più e non solo come supplenza ma come profezia, cioè ca-
pacità di scrivere nell’oggi pagine di quel mondo che tutti attendono.
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6. La sfida della comunione
La comunione fraterna di cui parlano gli Atti non è frutto dello sforzo umano – l’illuminismo, padre del laici-
smo contemporaneo, è una nuova forma di pelagianesimo – ma è dono che viene dall’alto. Nella misura in
cui l’uomo accoglie la Parola, entra nella vita di Dio e riceve la grazia di diventare strumento di comunione.
È questa la radice della comunità ecclesiale e di tutte le differenti forme di carità.
La carità non è l’espressione singolare di un eroe che riscatta la mediocrità di tutti. Ci sono senza dubbio
uomini e donne che hanno avuto il coraggio di aprire strade inedite, proprio come il nostro beato Federico
Ozanam. Ma lo hanno fatto in quanto battezzati, sentendosi parte di una Chiesa che ha dato il latte della
fede e li ha sostenuto nella fatica della vita. I santi non si sentono e non sono eroi, sono semplicemente di-
scepoli di Gesù che hanno accolto la grazia e hanno vissuto con totale fedeltà la vocazione cristiana.
Il principale impegno della Chiesa non è di natura operativa ma riguarda proprio la fede, non si tratta cioè
di organizzare opere e strutture ma di comunicare e vivere la fede nella sua autenticità. Per questo il testo
biblico sottolinea anzitutto la dimensione comunionale come una realtà appartiene alla natura stessa della
Chiesa:
- “erano assidui … nell’unione fraterna (koinônia)” (2,42);
- “stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune” (2,44),
- “ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio” (2,45),
- “la moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola ... ogni cosa era fra loro comu-
ne” (4,32),
- “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone” (5,12).
La comunità primitiva si riunisce “assiduamente” (2, 42.46): nel testo greco vi è un verbo (proskartereô) che
vuol dire perseverare, aderire a qualcuno. L’Autore intende sottolineare che non si tratta di un entusiasmo
passeggero, ma di una scelta matura e consapevole, di uno stile di vita. Lo stesso verbo viene usato da Luca
per indicare la perseveranza nella preghiera: “Tutti questi erano assidui (proskarterountes) e concordi nella
preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14).
È importante sottolineare che l’ascolto della Parola genera la comunione fraterna (2,42): Luca usa qui il
termine koinōnia che nel NT indica sia la comunione con Dio che quella tra i credenti. È questo il banco di
prova, la verifica esistenziale della fede. La comunione fraterna è come un’impronta che lascia intravedere
l’ideale. Nel sommario successivo Luca dice che la primitiva comunità “aveva un cuor solo e un’anima sola”
(At 4,32). Questa profonda comunione si manifesta anche nel mangiare insieme:
“Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa, prendendo i pa-
sti con letizia e semplicità di cuore” (2,46).
È Cristo la radice e la forza dell’unità. Comprendiamo allora il riferimento alla “frazione del pane” e alle
“preghiere” (2,42). La fractio panis indica di per sé il pasto comunitario in cui il capofamiglia, secondo la
consuetudine ebraica, spezza il pane e lo distribuisce ai commensali. Ma nel contesto lucano esso fa riferi-
mento al banchetto eucaristico. Non avrebbe senso dire che la comunità era perseverante nel ritrovarsi a
tavola! La celebrazione eucaristica rappresenta dunque la sorgente sempre viva dell’unità. La preghiera
comune accompagna e sostiene la vita della Chiesa.
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Si realizza così quell’aspirazione profonda del cuore umano che la tradizione greca chiama “amicizia”. Que-
sto spiega perché la vita della comunità suscita simpatia nel popolo: essi vivono una fraternità che ciascun
uomo in fondo desidera. È questo l’orizzonte ideale che Gesù propone ai suoi discepoli: “che tutti siano una
sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda
che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). La comunità cristiana è segno e strumento di comunione nel mondo.
L’amicizia che intende Ozanam non è quella che il cuore istintivamente desidera. L’istinto ci porta a cercare
ciò che serve e spesso ci fa vivere solo nella cornice del bisogno. Il giovane Federico invece scrive all’amico
Curnier: “Il legame più forte, il principio di una vera amicizia è la carità, e la carità non può esistere nel cuo-
re di molti senza espandersi all’esterno”. L’amicizia non resta confinata nel bisogno ma diventa la premessa
per una vita audace.
7. La sfida della condivisione
La comunione fraterna, vissuta a partire dalla fede, è la premessa per quell’esperienza di condivisione che
da venti secoli illumina il cammino dell’umanità. La carità non nasce come progetto ma è uno stile di vita
che scaturisce naturalmente dall’esperienza di fede. La comunione che vivono i primi cristiani è così intensa
da generare una impegnativa forma di condivisione che l’Autore riassume così queste parole:
“Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune;
chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di cia-
scuno” (2, 44-45).
È un tema su cui ritorna nel secondo sommario: “e nessuno diceva sua proprietà quello che gli appartene-
va, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32). Ai cristiani non veniva chiesto di rinunciare automatica-
mente ai propri beni ma di essere pronti, se necessario, a metterli a disposizione della comunità in favore
dei più bisognosi. In altre parole: nessuno era obbligato a donare i propri beni. Il passaggio dalla comunione
alla condivisione è un’esigenza che scaturisce dalla carità che Dio ha posto nel cuore, ma rimane affidata
alla libertà dei singoli. La comunione di fede è un silenzioso appello alla condivisione. La disponibilità dei
primi cristiani ha come immediata conseguenza il fatto che “nessuno tra loro era bisognoso” (At 4,34). Nella
Chiesa primitiva si realizza così quell’ideale di condivisione presente nella religiosità ebraica e mai piena-
mente raggiunto (Dt 15,4).
La comunione che pervade la primitiva comunità non è soltanto un fatto spirituale (comunione affettiva)
ma si traduce nella condivisione (comunione effettiva). È uno degli aspetti più sorprendenti e originali della
fede, una scelta che in mille diverse forme nel corso dei secoli i cristiani hanno cercato di imitare. I padri del
deserto donavano ai poveri tutto ciò che non serviva per il loro sostentamento. I monaci e i religiosi scelgo-
no invece di mettere tutto in comune. Questo stile oggi coinvolge anche i laici: nei movimenti ecclesiali la
condivisione assume forme e impegni diversi ma appartiene ad ogni aggregazione. Una particolare espe-
rienza, nata nel ventesimo secolo, è quella di Nomadelfia incentrata sulla più totale condivisione, materiale
e spirituale.
Comunione e condivisione sono due facce dell’amore (Gv 13,34). Il comandamento che Gesù ha lasciato ai
discepoli come segno visibile della fede non può rimanere un vago sentimento ma si traduce in una comu-
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nione che abbraccia tutta la vita e tutto nella vita. Da una parte possiamo dire che la comunione è autentica
solo se genera un’effettiva condivisione; dall’altra dobbiamo riconoscere che se manca una sincera comu-
nione non è possibile aprirsi alla condivisione. Questo stile di vita appartiene all’umana natura, nel senso
che si tratta di un desiderio che ogni uomo porta in sé, ma difficilmente può essere vissuto senza la grazia.
Solo in Cristo possiamo percepire in tutta la sua radicalità quel legame che unisce tutti gli uomini in un uni-
co destino; e solo per mezzo dello Spirito possiamo tradurre la comunione fraterna in una effettiva e impe-
gnativa condivisione.
In uno dei suoi scritti, San Giustino, filosofo e martire del I secolo (morì verso 163), di origine palestinese,
descrive la celebrazione eucaristica che avveniva “nel giorno detto del Sole”. Dopo la proclamazione della
Parola seguiva la preghiera sul pane e sul vino e la distribuzione del corpo e sangue del Signore. E così si
conclude:
“Alla fine coloro che hanno in abbondanza e lo vogliono, dànno a loro piacimento quanto credo-
no. Ciò che viene raccolto, è deposto presso colui che presiede ed egli soccorre gli orfani e
le vedove e coloro che per malattia o per altra ragione sono nel bisogno, quindi anche coloro
che sono in carcere e i pellegrini che arrivano da fuori. In una parola si prende cura di tutti i
bisognosi”. (Prima apologia, cap. 67).
La carità è una dimensione essenziale e costitutiva della fede che fin dall’inizio accompagna l’esperienza del
cristianesimo. Non sono molti i testi della Chiesa primitiva a noi pervenuti, mi limito a due citazioni tratte
da due manuali di catechesi in cui troviamo una sintesi dottrinale e morale della fede:
Nella Didachè, scritta verso la fine del I secolo, tra le diverse esortazioni leggiamo: “Non allontanare chi ha bisogno, condividi ogni cosa con tuo fratello e non dire che sono cose tue. Se siete comuni in ciò che non muore, quanto più nelle cose che finiscono” (4,8).
Nella Lettera di Barnaba, scritta tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, con parole simili, se-gno di una comune adesione alla fede, l’autore ricorda i precetti fondamentali per quanti intendono incamminarsi nella via della luce: “Renderai comune ogni cosa col tuo prossimo e non dirai che è tua. Se avete in comune ciò che incorruttibile, quanto più quello che è corruttibile” (19,8); “Non ave-re le mani larghe nel prendere e strette nel dare” (19,9). Sulla via delle tenebre, invece, s’incamminano coloro che “non si curano della vedova e dell’orfano” e quanti “sono crudeli verso il povero, indolenti verso il sofferente” (20,2).
8. Un patto di solidarietà
La solidarietà è diventata oggi una parola chiave, esprime una cultura che cerca di sostituire o temperare
l’individualismo dominante con i valori dell’accoglienza e dell’ospitalità, con l’impegno a favore della pace e
lo sviluppo dei popoli. Lo sguardo al macro-sociale ci impedisce di riconoscere che la prima e fondamentale
esperienza di solidarietà è proprio la famiglia: essa è fondata nasce sul patto che unisce due persone diver-
se e in qualche modo estranee. In base a questo patto l’uomo e la donna scelgono di essere l’uno con
l’altro, l’uno per l’altro. Questa scelta di reciproca appartenenza genera una condivisione che abbraccia tut-
ta la vita, cioè tutti gli anni che Dio dona di vivere e tutti gli ambiti dell’umana esistenza. Questo patto di so-
lidarietà, vissuto nella totalità del proprio essere, coinvolge tutta la persona, in ogni sua dimensione.
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Il legame coniugale è la prima e più importante vittoria su ogni forma di individualismo. Se vogliamo com-
prendere cosa è la solidarietà dobbiamo guardare alla famiglia. La solidarietà, infatti, appartiene alla fami-
glia, è un elemento costitutivo del suo sorgere e del suo crescere. E difatti, se viene a mancare lo slancio di
solidarietà, se la legittima ricerca del proprio benessere prevale sul desiderio di donarsi all’altro, la famiglia
perde colpi e si trova ben presto svuotata, priva della sua forza costitutiva. E rischia così di crollare dinanzi
alle tempeste della vita.
La solidarietà coniugale è contagiosa perché genera un altro legame, quello tra genitori e figli. La comunio-
ne che lega gli sposi non li chiude in un cerchio dorato ma li apre alla procreazione. Il figlio è un dono che
nasce dalla comunione che si fa dono. Per la crescita del figlio è decisivo l’ambiente familiare: egli infatti
percepisce di essere persona nella misura in cui sente di essere l’oggetto dell’amore e della cura dei genito-
ri. In famiglia il figlio si sente accolto e amato come persona, al di là delle sue capacità e dei suoi meriti. In
tal modo egli comprende anche che il significato dell’esistenza umana consiste nel donarsi agli altri. Sono
queste le condizioni essenziali per una crescita serena ed armonica, per un’educazione efficace.
La famiglia appare così, per le nuove generazioni, la prima e fondamentale risorsa. Ed è questo il contributo
essenziale che essa può e deve dare all’umana società. L’accoglienza e l’educazione della vita è il suo com-
pito specifico e nessuna istituzione può sostituirla in maniera degna ed efficace. Alla famiglia, di oggi e di
sempre, noi dobbiamo anzitutto chiedere questo: di essere una famiglia, cioè un ambiente di vita e di amo-
re nel quale le nuove generazioni possano trovare le ragioni per cui vale la pena vivere ed inserirsi così da
protagonisti nel vivere sociale.
Una famiglia normale svolge un indiscutibile ruolo sociale. Il lavoro educativo, infatti, ha una forte valenza
sociale perché cura la crescita delle nuove generazioni. Gli studi sociologici più recenti mostrano che questo
contributo si rivela decisivo perché è un’opera di profilassi sociale. I media danno più risalto a quelli che
s’impegnano nel disagio sociale e trascurano quelli che, attraverso una paziente e intelligente opera di pre-
venzione, impediscono alle persone di cadere nel disagio. La famiglia è un’istituzione che lavora nel campo
della prevenzione. È la prima forma di volontariato perché si basa sulla più assoluta gratuità.
9. Il ruolo sociale della famiglia Non capisco come sia possibile fare della solidarietà un cavallo di battaglia e combattere la famiglia. È una
delle schizofrenie della cultura e della politica contemporanea che, a mio parere, impedisce o frena lo svi-
luppo umanistico della società.
Il legame coniugale e quello genitoriale sono le strutture portanti dell’impalcatura sociale. La famiglia è un
potente fattore di umanizzazione sociale, si fonda sui valori dell’accoglienza e dell’accudimento della per-
sona. La famiglia è uno dei pochi luoghi, forse l’unico, in cui il valore della persona non dipende dalle sue
capacità né dalle sue risorse economiche.
La debolezza della famiglia lascia ampia libertà alla cultura che esalta l’io egoistico, cioè quell’individualismo
che si esprime nelle più diverse forme. Una cultura come questa riduce oggettivamente gli spazi della soli-
darietà. Il primato dell’individuo contrasta alla radice con quella solidarietà che a parole vogliamo realizza-
re.
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La famiglia è il primo ed essenziale luogo in cui la persona cresce. Se viene meno la spinta e la ri-
sorsa che essa possiede, se smarrisce il suo compito tutta la società diventa più povera. Se la fami-
glia perde la sua stabilità chi preparerà la culla per accogliere il bambino non ancora nato? Se la fa-
miglia non riesce più a trasmettere serenità dove potrà il bambino trovare quella necessaria sicurez-
za affettiva per crescere? Se la famiglia si lascia travolgere da un ideale consumistico chi aiuterà
l’adolescente e il giovane a trovare i valori ideali che danno senso alla vita?
La famiglia è il luogo naturale della solidarietà: in essa s’impara ad accogliere e a rispettare l’altro. Il fatto
stesso di vivere in comune è un continuo invito ad uscire dall’istintivo egoismo. La famiglia è una “scuola di
umanità”, la prima ed essenziale via di socializzazione.
In famiglia ciascuno è accolto come persona, indipendentemente dalle sue qualità e dai beni che possiede.
Forse è l’unico ambiente in cui la persone non vale per quello che ha o per quello che sa fare. Al contrario,
in famiglia quelli che sono più deboli vengono custoditi con maggiore premura e tenerezza. In famiglia si
impara ad amare e ad essere amati, si scopre la gratuità dell’amore e si comprende che solo nel donarsi cia-
scuno ritrova veramente se stesso. La vita familiare non è priva di sofferenze, talvolta anche gravi, ma
l’amore riesce a dare un significato alle prove e permette di superare gli ostacoli.
Questa non è una pubblicità del Mulino bianco. Sappiamo bene che tante famiglie non sono capaci di tra-
smettere questi valori. Come ogni altra realtà sociale, la famiglia chiede di essere sostenuta. La costante
opera di penalizzazione dell’istituzione famiglia, che attraversa tutto il mondo occidentale, rappresenta un
vero suicidio sociale. Un progetto sociale che riconosce il ruolo della famiglia e s’impegna a sostenerlo, la-
vora per una società in cui i valori della solidarietà saranno maggiormente garantiti. Se la famiglia diventa
un oggetto privilegiato dell’impegno sociale, diventerà un soggetto di volontariato.
10. Famiglia e accoglienza minori
Accanto al ruolo educativo, la famiglia può svolgere un ruolo più attivo nella dinamica sociale. Questo com-
pito è rimasto nell’ombra perché da un lato perché non sappiamo cogliere la rilevanza sociale della vita co-
niugale e familiare, anche quella più ordinaria; e dall’altro perché gli stessi sposi non hanno ancora preso
coscienza che la famiglia come istituzione ha una specifica soggettività sociale e politica. Quando parliamo
di famiglia ci riferiamo a tutta la comunità domestica, genitori e figli.
Nella Familiaris consortio il Papa sottolinea “l’importanza sempre più grande che nella nostra società assu-
me l’ospitalità in tutte le sue forme” (FC 44); e chiama in causa proprio la famiglia:
“La famiglia cristiana è chiamata ad offrire a tutti la testimonianza di una dedizione generosa e disin-
teressata ai problemi sociali, mediante la scelta preferenziale dei poveri e degli emarginati. Perciò
essa, progredendo nella sequela del Signore mediante una speciale dilezione verso tutti i poveri, de-
ve avere a cuore specialmente gli affamati, gli indigenti, gli anziani, gli ammalati, i drogati, i senza
famiglia” (Familiaris consortio, 47).
Dinanzi ai gravi problemi dell’emarginazione e della devianza giovanile non poche famiglie possono trovarsi
spiazzate e inadeguate. Ma vi è anche una solidarietà quotidiana fatta di piccoli gesti che tutti possono
svolgere. Forse non sarebbe anacronistico applicare alla famiglie quelle opere di misericordia che una volta
costituivano i principali sentieri di carità e che per secoli hanno formato una lunga schiera di generazioni:
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custodire i bambini degli altri in caso di assenza dei genitori; assistere i malati; consolare quelli che
vivono nel dolore; concedere prestiti senza interesse in caso di necessità, ecc.
Questa solidarietà feriale non chiede alcuna specifica preparazione ma una grande carità, una sincera di-
sponibilità a donare il proprio tempo e le proprie risorse umane per il bene dell’altro.
La famiglia ha un compito specifico, legato alla sua fondamentale identità, ed è quello dell’accoglienza dei
minori. Migliaia di bambini e ragazzi, vittime del degrado sociale, vivono senza famiglia, rischiano di arrivare
all’età matura portando per sempre i segni del disagio e del disadattamento. Ad essi bisogna dare il calore
di una famiglia.
Aprire le porte di casa per dare ai minori il calore di una famiglia, vuol dire allargare la tenda della solidarie-
tà, continuare a fare lo stesso mestiere, con un maggiore surplus di amore. Un compito come questo ri-
chiede naturalmente una precisa preparazione e soprattutto una rete di volontariato che dia ad ogni nucleo
familiare la certezza di condividere con altri il proprio impegno. È importante sottolineare, però, che questo
impegno sociale, proprio perché chiama in causa la famiglia in quanto tale, rappresenta per la famiglia una
straordinaria opportunità di crescita.
11. La parola della testimonianza Nel secondo sommario lucano l’ideale della comunione dei beni è inserito, come se fosse una cornice, nel
contesto di un versetto che ricorda la forza e il coraggio della testimonianza:
“Con grande potenza (dynamis) gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Si-
gnore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia” (At 4,33).
La potenza, che in altri luoghi, si manifesta nei prodigi e nei miracoli, qui si rivela nella straordinaria comu-
nione che nasce dalla fede. La comunità dei credenti non si distingue per una diversa liturgia ma per un di-
verso stile di vita! Questo ideale ha contagiato i cristiani di ogni epoca. Sappiamo che nel terzo secolo nella
sola Roma la comunità ecclesiale, attraverso i diaconi, assisteva più di 1.500 poveri. È una strada che non
dobbiamo abbandonare. La carità è una “carta di credito”, l’unica forse che ci permette di presentarci al
mondo a testa alta. Dio legge nel cuore e vede la disponibilità e la fede. Ma gli uomini, nostri fratelli, non
sono capaci di leggere nel cuore, essi hanno diritto di vedere i fatti, di giudicare dalle nostre opere la qualità
e l’autenticità della fede.
L’impegno sociale della giustizia coinvolge tutti gli uomini in quanto tutti sono chiamati a dare il proprio
contributo per una convivenza che sia rispettosa della verità e della dignità di ogni uomo. Per noi cristiani
tutto questo assume il valore di una testimonianza, vogliamo cioè rendere trasparente il volto di Dio, desi-
deriamo far incontrare l’uomo con Dio. Il mistero si rivela nella carne, nella concreta umanità di ciascuno,
plasmata dalla grazia, Dio continua a rivelare il suo volto di Padre e la sua tenerezza materna. Troppe volte
il nome di Dio è stato utilizzato per giustificare progetti di disumana violenza. L’annuncio del Vangelo nella
Chiesa primitiva viene fatto non solo con le parole ma anche e soprattutto con la testimonianza della vita.
La vita della comunità ecclesiale diventa così un annuncio semplice ed efficace. Annunciare il Vangelo e te-
stimoniare la carità non sono due vie parallele e alternative ma due aspetti complementari dell’esperienza
cristiana.
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Conclusione
Le forme in cui si esprime la condivisione sono tante, una di queste è l’accoglienza di chi si trova nel disagio.
L’accoglienza e la condivisione sono dunque un banco di prova per la Chiesa di ogni tempo. È una testimo-
nianza concreta della fede, un annuncio efficace di quel Dio che per amore si è fatto solidale con l’uomo. Se
manca questa condivisione davvero la Chiesa è più povera e sola. La vera condivisione naturalmente non
coinvolge solo i beni materiali ma l’intera persona che mette a disposizione il suo tempo e le sue capacità
per meglio servire la Chiesa e i fratelli che sono maggiormente in difficoltà.
Concludo suggerendo di leggere e meditare questa riflessione poetica di Gibran, un autore libanese del No-
vecento:
Dai poco se doni le tue ricchezze, / ma se dai te stesso tu doni veramente. / Vi sono quelli che
danno con gioia / e la gioia è la loro ricompensa. / Nelle loro mani Dio parla / e dietro i loro occhi
/ egli sorride alla terra.
È bene dare se ci chiedono, / ma è meglio capire / quando non ci chiedono nulla. / E per chi è
generoso, / cercare il povero / una gioia più grande che donare / poiché, chi è degno / di bere al
mare della vita / può riempire la coppa / alla tua breve corrente.
E voi che ricevete - e tutti ricevete - / non lasciate che la gratitudine vi opprima / per non creare
un giogo in voi / e in chi vi ha dato. / Piuttosto i suoi doni / siano le ali su cui volerete insieme.