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Odissea/Libro XIII
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Omero - Odissea (Antichit)
Traduzione di Ippolito Pindemonte (1822)
Libro Tredicesimo
Libro XII Libro XIV
ODISSEA
LIBRO DECIMOTERZO
ARGOMENTO.
uovi regali ad Ulisse. Tutto collocato nella nave, che ad Itacadee condurlo. Egli saccommiata dal Re, e simbarca. I Feaci il depongonoin su la spiaggia, mentre dormia; e al lor ritorno Nettuno converte in
pietra la nave loro. Destatosi, Ulisse non riconosce la patria per cagionduna nebbia, che Pallade gli lev intorno. Questa gli appare in forma di
pastorello: glinsegna, qual modo dovr tenere, per uccidere i Proci; e glisuggerisce di nascondere in un antro vicino i doni, che i Feaci, in
partendo, avean lasciati sul lido. Finalmente il trasforma in vecchiomendico, acciocch niuno in Itaca il riconosca.
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tavansi tutti per loscura salaTaciti, immoti, e nel diletto assorti.Cos al fine il silenzio Alcinoo ruppe:Poich alla mia venisti alta, e di rameSolido, e liscio edificata casa,No, Ulisse, non credio che al tuo ritornoLonde tagiteran, comunque afflitto
Tabbia sin qui co suoi decreti il fato.Voi, tutti, che votar nel mio palagioDel serbato ai pi degni ardente vinoSolete i nappi, ed ascoltare il vate,Lanimo a quel chio vi dichiaro, aprite.Le vesti, e loro dartificio miro,E ogni altro don, che de Feaci i CapiRecaro al forestier, larca politaGi nel suo grembo accolse. Or dun treppiede
Anco, e dunurna il presentiam per testa.
Indi farem, che tutta in questi doni,Di cui male potremmo al grave pesoRegger noi soli, la citt concorra.
Disse; e piacquero i detti, e al proprio albergoCiascun, le piume a ritrovar, si volse.Ma come del mattin la bella figlia
Aperse il ciel con le rosate dita,Ver la nave affrettavansi, portandoIl bel, che onora luom, bronzo foggiato.Lo stesso Re, chentr per questo in nave,
Attentamente sotto i banchi il mise,Onde, mentre daran de remi in acqua,Non impedisse alcun de FeacesiGiovani, e loffendesse urna, o treppiede.N di condursi al real tetto, doveLa mensa gli attendea, tardaro i Proci.
Per lor dAlcinoo la sacrata possaUn bue quel giorno uccise al ghirlandatoDatre nubi Signor dellUniverso.
Arse le pingui cosce, un prandio lautoCelebran lietamente; e il venerato
Dalla gente Demodoco, il divinoCantor, percuote la sonante cetra.Ma Ulisse il capo alla diurna lampaSpesso torcea, se tramontasse al fine:Ch il ritorno nel cor sempre gli stava.Quale a villan, che dalla prima luceCo negri tori, e col pesante aratroUn terren franse riposato e duro,Cade gradito il Sole in occidentePel desio della cena, a cui savvia
Con le ginocchia, che gli treman sotto:Tal cadde a Ulisse in occidente il Sole.Tosto agli amanti del remar Feaci,E al Re pi, che ad altrui, cos drizzossi:
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Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illesoMandatemi; e glIddj vi guardin sempre.Tutti ho gi i miei desir: pronta la scorta,E della nave in sen giacciono i doni,Da cui vogliano i Dei che pro mi vegna.
Vogliano ancor, che in Itaca legregiaConsorte io trovi, e i cari amici in vita.
Voi, restandovi qui, serbate in giojaQuelle, che uniste a voi, vergini spose,E i dolci figli, che ne aveste: i Numi
Vornin dogni virt, n possa maiI d vostri turbar pubblico danno.
Tacque; e applaudia ciascuno, e molto instava,Si compiacesse allo stranier, da cuiUscita era s nobile favella.Ed Alcinoo allaraldo allor tai detti:Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giroPorgilo, acci da noi, pregato Giove,Saccommiati oggimai lospite amico.
Mesc laraldo il vino, e il porse in giro;E tutti dai lor seggi aglimmortaliNumi libaro. Ma il divino UlisseSorse, e dArete in man gemina poseTazza rotonda, e tai parole sciolse:
Vivi felici d, Regina illustre,Finch vecchiezza ti sorprenda, e morte,Comun retaggio degli umani. Io parto:Te del popol, de figli, e del marito
Il rispetto feliciti, e lamore.Disse, e varc la soglia. Alcinoo innanzi
Muover gli fece il banditor, che al rattoLegno il guidasse e al mare; e Arete dietroTre serve gli sped, luna con tersaTunica in mano, ed un lucente manto,Laltra con la fedele arca, e con bianchiPani la terza, e rosseggianti vini.Tutto da lor, come sul lido furo,I remiganti tolsero, e nel fondo
Della nave allogr: poi su la poppaSteser candidi lini, e bella coltre,Dove tranquillo il forestier dormisse.
Vi mont egli, e tacito corcossi.E qui sedean su i banchi, e, poich scioltaDal traforato sasso ebber la fune,Fatigavan co remi il mar canuto.Ma un dolce sonno al Laerziade, un sonnoProfondo, ineccitabile, e alla mortePer poco egual, su le palpebre scese.Come talvolta in polveroso campoQuattro maschi destrieri a un cocchio aggiunti,E tutti dal flagel percossi a un tempo,Sembran levarsi nel vto aere in alto,E la prescritta via compier volando:
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S la nave correa con alta poppa,Dietro da cui precipitava il grossoDel risonante mar flutto cilestro.Correa sicura, n lavria sparviere,Degli augei velocissimo, raggiunta,Con s celere prora i salsi fluttiSolcava, un uom seco recando ai Dii
Pari di senno, che infiniti affanniDurati avea tra larmi, avea tra londe,E allor, dobblio sparsa ogni cura, in braccioDun sonno placidissimo giacea.Quando comparve quel s fulgid astro,Che della rosea Aurora messaggiero,La ratta nave ad Itaca approdava.
Il porto qui del marin vecchio Forco,Che due sporgenti in mar lidi scoscesi,E luno allaltro ripieganti incontra,S dal vento riparano, e dal fiotto,Che di fune mestier non vhan le navi.Spande sovra la cima i larghi rami
Vivace oliva, e presso a questa un antroSapre amabile, opaco, ed alle NinfeNajadi sacro. Anfore, ed urne, in cuiForman le industri pecchie il mel soave,
Vi son di marmo tutte, e pur di marmoLunghi telai, dove purpurei drappi,Maraviglia a veder, tesson le Ninfe.Perenni onde vi scorrono, e due porte
Mettono ad esso: ad Aquilon si volgeLuna, e schiudesi alluom; laltra, che NotoGuarda, ha pi del divino, ed un mortalePer lei non varca: ella la via de Numi.
In questo porto ai Feacesi contoDirittamente entr lagile nave,Che sul lido and mezza: di s fortiRemigatori la spingean le braccia!Si gittaro nel lido; e Ulisse in primaCo bianchi lini, e con la bella coltre
Sollevr dalla nave, e seppellitoNel sonno, siccomera, in su larenaPoserlo gi. Poi ne levaro i doni,Chei riport dalla Feacia gentePer favor di Minerva, e al piede unitiLi collocaro della verde oliva,Fuor del cammin, non savvenisse in loro
Vandante, e la man su lor mettesse,Mentre leroe dormia. Quindi ritornoFean con la nave alla natia contrada.
Nettuno intanto, che serbava in menteLe minacce, che un d contra il divinoLaerziade scagli, cos il pensieroNe spiava di Giove: O Giove padre,Chi pi tra i Dei monorer, se onore
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Nieganmi i Feacesi, che mortaliSono, e a me deon lorigine? Io credea,Che della sua nativa isola ai sassiGiunger dovesse tra gli affanni Ulisse,Cui non invidava io quel ritorno,Che tu gli promettesti, e del tuo capoConfermasti col cenno. Ma i Feaci
Dormendo il trasportr su ratta nave,E in Itaca il deposero, e il colmaroDi doni in bronzo, e in oro, e in bei tessuti:Ricchezza immensa, e qual dallarsa TrojaRecato ei non avria, se con la preda,Che gli tocc, ne ritornava illeso.
O della terra scuotitor possente,Il nubiadunator Giove rispose,Qual parola parlasti? Alcun de NumiTe in dispregio non ha, n lieve foraDispregiar Dio s poderoso, e antico.Ma dove uom troppo di sue forze alteroTosasse ingiurar, tu ne puoi sempre,Qual pi taggradir, prender vendetta.
Mi starei forse, o nubipadre Giove,Nettun riprese, sio dal tuo corruccioNon mi guardassi ognora? Io de Feaci,Perch di ricondur gli ospiti il vezzoPerdano al fin, strugger vorrei nel mareLinclita nave ritornante; e in oltreGrande alla lor citt montagna imporre.
Ci, replicava il Nubipadre, il meglio,Ottimo Nume, anco a me sembra: quandoI Feacesi scorgeran dal lido
Venir la nave a tutto corso, e pocoSar lontana, convertirla in sasso,Che di naviglio abbia sembianza, e oggettoSi mostri a ognun di maraviglia; e in oltreGrande alla lor citt montagna imporre.
Lo Scuotiterra, udito questo appena,Si port a Scheria in fretta, e qui fermossi.
Ed ecco spinta daglillustri remiSu per londe venir lagile nave.Egli appressolla, e convertilla in sasso,E dun sol tocco della man divinaLa radic nel fondo. Indi scomparve.
Molte allor de Feaci in mar famosiFur le alterne parole. Ahi chi nel mareLeg la nave che ver noi solcavaLacque di volo, e che apparia gi tutta?Cos, gli occhi volgendo al suo vicino,Favellava talun: ma rimaneaLa cagion del portento a tutti ignota.Se non che Alcinoo a ragionar tra loroPrese in tal foggia: Oh Dei! clto io mi veggo,Qual dubbio vha? dai vaticinj antichi
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Del padre, che dicea, come sdegnatoNettun fosse con noi, perch securoRiconduciam su lacque ogni mortale.Dicea, che insigne de Feaci nave,Dagli altrui nel redire ai porti suoi,Distruggeria nelloscure onde, e questaCittade copriria dalta montagna.
Cos arringava il vecchio, ed oggi il tuttoSi compie. Or via, sottomettiamci ognuno:Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri,E dodici a Nettuno eletti toriSagrifichiam, perch di noi glincresca,N dalto monte la citt ricuopra.Disse. Penetr in quelli un timor sacro,E i cornigeri tori apparecchiaro.
Mentre intorno allaltar prieghi a NettunoDrizzavan della Scheria i Duci, e i Capi,Svegliossi il pari aglImmortali Ulisse,Che su la terra sua dormia disteso,N la sua terra riconobbe: statoNera lunge gran tempo, e Palla cintoLavea di nebbia, per celarlo altrui,E di quanto mestier dargli contezza,S che la moglie, i cittadin, gli amiciNol ravvisin, che pria de tristi ProciFatto ei non abbia universal macello.Quindi ogni cosa gli parea mutato,Le lunghe strade, i ben difesi porti,
E le ombrose foreste, e lalte rupi.Sguard fermo su i pi la patria ignota,Poi non tenne le lagrime, e la manoBatt su lanca, e lagrimando disse:Misero! tra qual nuova, estrania genteSono io? Chi sa, se nequitosa, e cruda,O giusta in vece, ed ospitale, e pia?Ove questa recar molta ricchezza,Ove ire io stesso? Oh nella Scheria fosseRimasta, ed io giunto alleccelsa casa
Daltro signor magnanimo, che accoltoDolcemente mavesse, e rimandatoSecuramente! Io dove porla, ignoro,N lasciarla vo qui, che altri la involi.Men che saggi eran dunque, e men che probiDe Feacesi i Condottieri, e i Capi,Che non alla serena Itaca, comeDicean, ma in questa sconosciuta piaggiaCondur mi fero. Li punisca GioveDe supplici custode, a cui nessunoCelasi, e che non lascia inulto un fallo.Queste ricchezze noveriam, veggiamo,Se via non ne port nulla la nave.
Dette tai cose, i tripodi superbiContava, e lurne, e loro e le tessute
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Vesti leggiadre; e non falliagli nulla.
Ma la sua patria sospirava, e moltiLungo il lido del mar romoreggiantePassi, e lamenti fea. Pallade allora,Di pastorello delicato in forma,Quale un figlio di Re mostrasi al guardo,
Sofferse a lui: doppia, e ben fatta vesteAvea dintorno agli omeri, calzariSotto i pi molli, e nella destra un dardo.Gio Ulisse a mirarla, e incontanenteLe mosse incontro con tai detti: Amico,Che qui primiero mi taffacci, salve.Deh non mi taffacciar con alma ostile:Ma questi beni, e me serba, che abbraccioLe tue ginocchia, e te, qual Nume, invoco.Che terra questa? che citt? che gente?Una dellondicinte isole forse?O di fecondo continente spiaggia,Che scende in sino al mar? Schietto favella.
Stolto sei bene, o di lontan venisti,La Dea rispose dallazzurro sguardo,Se di questa contrada, ospite, chiedi.Cui non nota? La conosce appienoQual ver lAurora, e il Sol, qual ver loscuraNotte soggiorna. Alpestra sorge, e male
Vi si cavalca, n si stende assai.Sterile non per torna: di grano
Risponde, e duva, e la rugiada sempreBagnala, e il nembo: ottimo pasco i buoi,E le capre vi trovano, verdeggiaDogni pianta, e perenne acqua lirriga.Sin dIlio ai campi, che dal suolo Acheo,Come sentii narrar, molto distanno,DItaca giunge, o forestiero, il nome.
Al nome della patria, che su i labbriDellimmortal son figlia di Giove,Sempi di gioja il Laerziade, e tardo
A risponder non fu, bench, volgendoNel suo cor sempre gli artifici usati,Contraria al vero una novella ordisse.Io gi dItaca udia nellampia Creta,Che lungi nel mar giace, e donde io venni,Met recando de miei beni, e ai figliLasciandone met. Di Creta io fuggo,Perch vi uccisi Orsiloco, il dilettoDIdomeno figliuol, da cui nel corsoUom non era col che non perdesse.Costui di tutta la Trojana preda,Che tanti in mezzo allonde, in mezzo allarme,Travagli mi cost, volea fraudarmi,Sdegnato, chio daltri guerrieri Duce,Sotto il padre di lui servir negassi.
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In quel, chei nella strada uscia dal campo,Gli tesi insidie con un mio compagno,E di lancia il ferii. Notte assai foscaLaere ingombrava, e, non che agli altri, a lui,Che di vita io spogliai, rimasi occulto.Trovai sul lido una Fenicia nave,E a queglillustri naviganti ricca
Mercede offersi, e li pregai, che in PiloMi ponessero, o in Elide divina,Dominio degli Epi. Se non che il ventoIndi gli svolse, e forte a lor mal cuore:Ch inganni non pensavano. Venimmo,Notturni errando, a questa piaggia, e a forzaDi remi, e con gran stento, il porto entrammo.N della cena favellossi punto,Bench ciascuno in grande uopo ne fosse:Ma, del naviglio alla rinfusa usciti,Giacevam su larena. Ivi un tranquilloSonno me stanco invase; e quei, levateDalla nave, e deposte, ovio giaceva,Le mie ricchezze, in ver la popolosaSidone andaro, e me lascir nel duolo.
Sorrise a questo la degli occhi Azzurra,E con man careggiollo, e uguale a donnaBella, di gran sembiante, e di famosiLavori esperta, in un momento apparve,E a cos fatti accenti il volo sciolse:Certo sagace anco tra i Numi, e solo
Colui saria, che dingannar nellarteTe superasse! Sciagurato, scaltro,Di frodi insazabile, non cessiDunque n in patria dai fallaci detti,Che ti piaccion cos sin dalla culla?Ma di questo non pi: ch dastuzie amboMaestri siam; tu di gran lunga tuttiDinventive i mortali, e di paroleSorpassi, tutti io di gran lunga i Numi.Dunque la figlia ravvisar di Giove
Tu non sapesti, che a te assisto sempreNelle tue prove, e te conservo, e graziaTi fei trovare appo i Feaci? E or venniPer ammonirti, e per celare i fattiCol mio soccorso a te splendidi doni,Non che narrarti ci, che per destinoNel tuo palagio a sopportar ti resta.Tu soffri, bench astretto, e ad uomo, o a donnaLarrivo tuo non palesar: ma tieniChiusi nel petto i tuoi dolori, e soloCol silenzio rispondi a chi toltraggia.
E tosto il ricco di consigli Ulisse:Difficilmente, o Dea, pu ravvisartiMortal, cui tappresenti, ancor che saggio,Tante forme rivesti. Io ben rammento,
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Che visitar tu mi degnavi un giorno,
Mentre noi figli degli Achivi a TrojaCombattevam: ma poich lalte torriRuinammo di Priamo, e su le naviPartimmo, e un Dio lAchiva oste disperse,Pi non ti scorsi, o del Tonante figlia,
N mavvidi unqua, che mentrassi in nave,Per cavarmi daffanno. AbbandonatoSolo a me stesso, e afflitto io ga vagando,Finch pria, che il tuo labbro in tra i FeaciMi confortasse, e nella lor cittadeMintroducessi tu, le mie sventureGlImmortali finiro. Ora io ti priegoPel tuo gran padre, quando in terra estrana,Non nella patria mia, credomi, e temo,Che tu di me prender ti voglia gioco,Ti priego dirmi, o Dea, se veramenteDegli occhi Itaca io veggio, e del pi calco.
E la Dea, che rivolge azzurri i lumi:Tu mai te stesso non oblii. QuindioNon posso ai mali abbandonarti in preda;Tal mostri ingegno, tal facondia, e senno.
Altri, che dopo error molti giungesse,Sposa, e figli mirar vorria repente;E a te nulla sapere, o chieder piace,Se con gran cura non assaggi e tentiPrima la tua, che invan taspetta, e a cui
Scorron nel pianto i d, scorron le notti.Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,Bench ritorno solitario, e tristo;Se non che al zio Nettun con te crucciatoDellocchio, che spegnesti al figlio in fronte,Repugnar non volea. Ma or ti mostroDItaca il sito, e a credermi io ti sforzo.Ecco il porto di Forcine, e la verdeFrondosa oliva, che gli sorge in cima.Ecco non lunge lopaco antro ameno,
Alle Najadi sacro: la convessaSpelonca vasta riconosci, doveEcatombi legittime alle NinfeSagrificar solevi. Ecco il sublimeNerito monte, che di selve ondeggia.
Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.Giubbil Ulisse alla diletta vistaDella sua patria, e baci lalma Terra.Poi, levando le man, subitamenteLe Ninfe supplic: Najadi Ninfe,Non credea rivedervi, e con devoteLabbra in vece io salutovi, o di GioveNate, a cui doni porgerem novelli,Se me in vita conserva, e d felici
A Telemaco mio concede amica
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La bellicosa del Saturnio figlia.Ti rassicura, e non temer, riprese
La Dea dagli occhi di cilestro tinti,Che dajuto io ti manchi. Or senza indugioNel cavo sen della divina grotta,Su via, poniam queste ricchezze in salvo,E di ci consultiam, che pi ti torna.
Tacque, ed entrava nella grotta oscura,Le ascosaglie cercandone; ed Ulisse,Loro, ed il bronzo, e le superbe vestiPortando, la seguia. Tutto depose
Acconciamente dellEgoco GioveLa figlia, e lantro dun macigno chiuse.Ci fatto, al pi della sacrata oliva
Ambi sedendo, e investigando larteDi tor di mezzo i temerarj Proci,Cos a parlar la prima era Minerva:Studiar convienti, o Laerziade, comeMetter la man su gli arroganti drudi,Che regnano in tua casa, oggi terzanno,E della moglie tua con ricchi doniChiedono a gara le bramate nozze.Ella, ognor sospirando il tuo ritorno,Ciascun di speme, e dimpromesse allatta,Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Ah! dunque, le rispose il saggio Ulisse,Me dellAtride Agamennn lacerboFato attendea nelle paterne case,
Se il tutto, inclita Dea, tu non maprivi.Ma tu la via, che a vendicarmi io prenda,Maddita, e a me soccorri, e quellaudaceSpirto minfondi, che accendeami, quandoSfemmo di Troja le famose mura.Mi starai tu del pari al fianco sempre?Io pugnar con trecento allor non temo.
Sempre al fianco mavrai, non muscirai,La Dea riprese dalle glauche luci,Di vista un sol momento in questa impresa.
Questi superbi, che le tue sostanzeMandano a male, imbratteran di sangueLimmenso pavimento, e di cervella.Ma io cos vo trasformarti, Ulisse,Che riconoscer non ti possa uom vivo.Cotesta liscia, ed ancor fresca pelle,Che le membra flessibili ti cuopre,Disseccher, raggrinzer: di biondoNulla ti rimarr sovra la testa,E te ciconderan miseri panni,Da cui lo sguardo di ciascun rifugga.Gli occhi poi s belli ora, e s vivaci,Saran s oscuri, e avran tai pieghe intorno,Che turpe ai Proci, e alla tua donna, e al figlio,Cui lasciasti bambin, cosa parrai.
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Tu prima cerca de tuoi pingui verri
Il fido guardan, che tama, ed amaTelemaco, ama la tua saggia donna.Il troverai, che guarder la neraGreggia, che beve dAretusa al fonte,E alla pietra del Corvo addenta, e rompe
La dolce ghianda, per la cui virtudeIl florido sul dosso adipe cresce.Quivi ti ferma, ed al suo fianco assisoDogni cosa il richiedi; ed io frattanto
Andr alla bella nelle donne Sparta,In traccia del figliuol, che vi saddusse,Onde saper di te dal bellicosoMenelao biondo, e udir, se vivi, e dove.
Perch non dirgliel tu, cui noto il tutto?Rispose il ricco di consigli Ulisse.Forse perch ei su linfecondo mareTormenti errando, come il padre, e intantoLe sue sostanze a male altri gli mandi?
Ci non taffligga, ripigli la Dea,Che cilestre in altrui le luci intende.Io stessa, nome ad acquistarsi e grido,Gi linviava l, ve nulla il turba:L, ve tranquillo, e dogni cosa agiato,Nel regal siede dellAtride albergo.So ben, che agguati in nave negra i ProciTendongli, desiando a lui dar morte
Pria, chei torni; ma invan: ch anzi, lui vivo,Coprir i suoi nemici, e tuoi, la terra.
Disse Minerva, e della sua potenteVerga leroe tocc. SinaridisceLa molle cute, e si rincrespa, rariSpuntano, e bianchi su la testa i crini;Tutta dun vecchio la persona ei prendeRotto dagli anni, e stanco; e foschi, estintiSon gli occhi, in che un divin foco brillava.Tunica trista, e mala cappa in dosso
Lamica Dea caccigli, ambo squarciate,Discolorate, affumicate, e sozze:Sopra gli vest ancor di ratto cervoUn gran cuojo spelato, e nella destraPose bastone; ed una vil bisaccia,Che in pi luoghi sapria, per una tortaCoreggia antica agli omeri sospese.
Preso il consiglio, che pi acconcio parve,Lun dallaltro staccrsi; e alla divinaSparta, del figlio in traccia, and Minerva.
Libro XII Libro XIV
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