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OCCHIALÌ RIVISTA SUL MEDITERRANEO ISLAMICO ISSN 2532 6740 N. 2 (2018) ISLAM E TEMPO SUCCESSIONI, CRONOLOGIE, ETERNITÀ

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OCCHIALÌ RIVISTA SUL MEDITERRANEO ISLAMICO

ISSN 2532 6740 N. 2 (2018)

ISLAM E TEMPO SUCCESSIONI, CRONOLOGIE, ETERNITÀ

OCCHIALÌ – RIVISTA SUL MEDITERRANEO ISLAMICO

Risorsa digitale indipendente a carattere interdisciplinare. Uscita semestrale Pubblicata da Occhialì – Laboratorio sul Mediterraneo islamico

Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione Università della Calabria

N. 2/2018 ISSN 2532-6740

Responsabile scientifico ALBERTO VENTURA Direttore editoriale VALENTINA FEDELE Comitato scientifico ALBERTO VENTURA (Università della Calabria) PAOLO BRANCA (Università Cattolica del Sacro Cuore) VALENTINA FEDELE (Università della Calabria) VALENTINA ZECCA (Università della Calabria) GIANFRANCO BRIA (Università della Calabria) GUSTAVO MAYERÀ (Università della Calabria) SABRINA GAROFALO (Università della Calabria) ANNA ELIA (Università della Calabria) Comitato editoriale GIACOMO MARIA ARRIGO (Università della Calabria) FABRIZIO DI BUONO (FLACSO Argentina) SARA MAZZEI (Università della Calabria) MANUELITA SCIGLIANO (Università della Calabria) Sito web: http://www.phi.unical.it/wp34/occhiali/ Email: [email protected] Copertina: Fabrizio Di Buono Elaborazione grafica: Giacomo Maria Arrigo

INDICE SEZIONE – VIAGGIO NELL’ISLAM ITALIANO: LA SICILIA E LA CALABRIA La terza direttrice delle conquiste arabe in Europa. L’Italia, gli Aġlabidi e Ibrāhīm II di Gustavo Mayerà » p. 4 SEZIONE – STUDI E RICERCHE Tempo e ritualità nell’Islam di Gianfranco Bria » p. 28 “Per il Tempo!” Uno Zeitbegriff islamico di Francesca Bocca » p. 43 Il curioso caso del Mahdi redivivo. Ricorrenza del Mahdismo dal colonialismo all’Isis di Giacomo Maria Arrigo » p. 55 Successione temporale, implementazione coranica e prospettiva escatologica. L’esegesi gender-inclusive di Amina Wadud di Martina Biondi » p. 73 La storia di un popolo e la scelta di un tempo: il calendario amazigh e la “questione” cabila di Valentina Fedele » p. 85 Tempo e preghiera: il programma giornaliero di Ghazālī di Simone Dario Nardella » p. 99 Fantascienza e distopia in Tawfīq al- Ḥakīm. Fī sanat malyūn di Marina Giacconi » p.112 SEZIONE – RECENSIONI H. Blasim et al., “Iraq+100, stories from a century after the invasion” di Sara Mazzei » p. 127

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SEZIONE VIAGGIO NELL’ISLAM ITALIANO:

LA SICILIA E LA CALABRIA

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La terza direttrice delle conquiste arabe in Europa. L’Italia, gli Aġlabidi e Ibrāhīm II

Gustavo Mayerà

Abstract: No discussion of the relations between the Christian-European and the Islamic world around the Mediterranean can be complete without knowledge of the Aghlabid Emirate. This Emirate was for more than a century one of the main channels of cultural and commercial exchange between the East and the West, as well as the most direct and concrete threat faced by the centre of Christendom in the long period of the Arab expansion. With Ibrahim II, this threat seemed to have almost been realized.

Keywords: Aghlabids – Arabs in Italy – Arabs in Sicily – Arabs in Calabria – Arab conquests – Ibrāhīm II Parole chiave: Aglabidi – Arabi in Italia – Arabi in Sicilia – Arabi in Calabria – conquiste arabe – Ibrāhīm II

*** INTRODUZIONE Nonostante altri episodi riferiti alle conquiste arabe ebbero, a causa dei ricorsi storici, una fama maggiore – pensiamo a Poitiers o agli assedi di Costantinopoli – furono le imprese di Ibrāhīm II, il più temibile emiro aglabide, l’episodio più realistico di conquista dell’Italia, di Roma e, di conseguenza, del cuore dell’Europa di quel tempo. Solo la caduta di Costantinopoli avrebbe potuto avere, in quel periodo, conseguenze pari a un’ipotetica conquista di Roma per le sorti della civiltà cristiana. Peraltro, le conferme di ciò sono nella enorme fama che Ibrāhīm ebbe sia tra i cronisti arabi sia tra gli occidentali del suo tempo, a differenza di Poitiers, che invece non ha alcuno spazio nelle cronache arabe.

Ibrāhīm II è un personaggio non molto conosciuto in Occidente tra i non esperti di storia islamica o medievale, e citare le sue vittorie o le sue sconfitte non suscita ricordi nella maggior parte della gente, ma, in realtà, le sue gesta furono memorabili e ciò è testimoniato dalla vasta documentazione, sia in arabo sia in greco sia in latino. La battaglia di Poitiers, certamente più celebre delle imprese dell’emiro africano, è documentata invece esclusivamente in fonti latine: come spesso accade, episodi emblematici per alcuni non sono sempre universalmente tali. Nonostante ciò, il corso della storia, per varie ragioni, diede poca risonanza

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agli eventi legati agli Aglabidi e a Ibrāhīm, e gran fama all’incursione araba nel territorio franco eroicamente arginata da Carlo Martello, assurto a simbolo della resistenza cristiana contro l’avanzata islamica. Probabilmente, da un lato il ruolo che i Franchi ebbero nella storia europea e dall’altro i modi con i quali si conclusero le conquiste di Ibrāhīm e la battaglia di Poitiers, spiegano perché a quest’ultima fu riservata in Europa una gloria memorabile e alla prima invece un sostanziale oblio. I re Franchi furono, durante il medioevo e anche dopo, il principale punto di riferimento del potere temporale legittimato da Dio e, dunque, è chiaro che una vittoria militare di questi doveva esser vista come un simbolo più emblematico di un tentativo di conquista, per quanto potenzialmente nefasto, finito a causa della precoce morte dell’invasore: Ibrahim morì per una grave dissenteria alle porte di Cosenza nel 902. A Poitiers fu un generale cristiano a sconfiggere gli Arabi, mentre Ibrahim fu fermato da una malattia ed è certamente più degna di fama oltreché utile la glorificazione di un generale che quella di un malanno.

I limiti massimi dell’avanzata araba nel mondo cristiano furono a Oriente Costantinopoli, a Occidente il regno franco e al centro Cosenza. Gli assedi arabi alla capitale dell’Impero Romano d’Oriente (668, 674-678 e 717) da una parte e la battaglia di Poitiers (732) dall’altra sono ricordati oggi in Occidente come gli eventi simbolici che fissarono questi confini. Quasi ignorata è, invece, la terza direttrice di invasione araba del continente europeo: quella centrale, attraverso la Sicilia e la Calabria, che raggiunse i suoi massimi risultati nel 902 grazie a Ibrāhīm II. L’avanzata degli Arabi nel Mediterraneo centrale giunse al suo apogeo piuttosto tardi, nelle ultime fasi di espansione del Califfato, in piena epoca abbaside e quasi 2 secoli dopo rispetto alla conquista della penisola iberica e all’ultimo assedio di Costantinopoli, ma è proprio in questi ultimi episodi che i musulmani riuscirono a colpire il cuore stesso della civiltà cristiana fino a Roma. Nel corso del IX secolo, Agareni1 provenienti da diverse regioni del Califfato Abbaside stabilirono colonie ed emirati sparsi in tutta l’Italia centro-meridionale, si allearono con varie città della penisola combattendone altre, giocando un ruolo profondamente inserito nelle dinamiche politiche di queste regioni, al punto da scontrarsi anche tra di loro a causa dell’intricata e mutevole trama di queste. La relativa stabilità di queste colonie permise agli Arabi di saccheggiare in lungo e in largo il territorio italiano, fin dentro addirittura alla basilica di San Pietro, ma il fine di queste operazioni fu solo appunto quello di fare bottino, senza alcuna velleitaria mira di gloriose conquiste. Diversi furono invece gli obiettivi dell’emirato aglabide che, a partire dall’827, ha avviato una lenta ma inesorabile conquista della Sicilia, è entrato via via più prepotentemente nelle dinamiche politico-militari della penisola italiana – stabilendo colonie, avviando commerci e intervenendo militarmente quando richiesto – ha, infine, provato, con Ibrāhīm

1 È giusto chiamare gli Arabi «Agareni» e non «Saraceni», nonostante quest’ultimo termine sia più diffuso, essendo discendenti di Agar e non di Sara.

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II, a conquistare l’Italia. L’emiro aglabide non riuscì nei suoi intenti, ma giunse più vicino di qualsiasi altro invasore arabo alla conquista di Roma. LE PRIME INCURSIONI ARABE IN SICILIA E NELLE SUE ISOLE MINORI L’Impero Romano d’Oriente (o Bizantino che dir si voglia),2 tra la fine del VII secolo e l’inizio dell’VIII, visse un periodo particolarmente difficile, in cui venne messa in pericolo la sua stessa esistenza. Nel 663 l’Imperatore Costante spostò la sua residenza a Siracusa, per cercare di difendere i possedimenti occidentali e, in particolare l’Africa, dall’avanzata araba, purtroppo per lui con risultati drammatici: nel 668 fu assassinato probabilmente a causa del suo despotismo autocratico che infastidiva non poco gli aristocratici locali. Tra il 674 e il 678 prima e tra il 717 e il 718 poi, la stessa Costantinopoli dovette affrontare due lunghi e drammatici cicli di assedi, da parte degli Arabi, ai quali riuscì però a resistere. Peraltro, in questo stesso periodo, i Bizantini si trovarono a combattere anche su altri due fronti: nei Balcani contro Bulgari e Slavi, in Italia contro i Longobardi (Ostrogorsky, 1993: 107-145). Insomma, nonostante qualche piccolo segnale di ripresa in alcuni anni, in questa fase l’Impero Bizantino visse un periodo in cui divenne sempre più difficile difendere i suoi possedimenti più periferici. Al contrario, il Califfato era in questi stessi anni in piena espansione, le sue conquiste sembravano inarrestabili e il suo territorio si estendeva ormai dal Sind3 (la regione corrispondente alla valle dell’Indo) all’Africa occidentale. Così, nel 698, dopo decenni di assalti, razzie, offensive e ritirate, gli Arabi, comandati da Ḥassān ibn al-Nu‘mān, sconfissero definitivamente i Romani d’oriente in Africa, conquistando l’esarcato di Cartagine (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 356; ibn Ḫaldūn in Amari, 1982, II, L, 171; Amari, 1933: I, 244; Lo Jacono 2003, 94). Le truppe e le navi di Costantinopoli abbandonarono il suolo africano per sempre, condividendo la sorte di quei Romani che, a causa delle continue incursioni arabe più che per preveggenza, già da anni avevano deciso di lasciare l’Africa per rifugiarsi in Sicilia, nelle isole minori che la circondano o altrove. Ma per molti di loro la scelta allontanò solo di pochissimi anni una sorte evidentemente segnata.

Sebbene già durante il Califfato di Mu‘āwīah, un omonimo del Califfo, Mu‘āwīah ibn Ḫudayǧ al-Kindī, portò guerra in Sicilia (Al-Balaḏurī in Amari, 1982: I, XXIV, 268; Ibn Ḫaldūn in Amari, 1982, II, L, 164), qui e nelle sue isole le incursioni arabe iniziarono con una certa frequenza dal principio dell’VIII secolo. Circa tra il 698 e il 703, per ordine del Califfo ‘Abd al-Malik e prima sotto 2 L’Impero Romano d’Oriente, nonostante col tempo andò sempre più grecizzandosi favorendo la denominazione storiografica di Impero Bizantino, non bisogna scordare che fu ufficialmente romano fino alla fine, tant’è che romani si consideravano i suoi cittadini e Rūm («Romani») erano chiamati dagli Arabi, i quali chiamavano, invece, gli altri Occidentali: Faranǧ («Franchi»). Noi per comodità useremo entrambe le denominazioni. 3 La prima colonia islamica nel Sind risale al 711-712 (Bernardini, 2003: 18).

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il comando di Ḥassān ibn al-Nu‘mān (Ibn Ḫaldūn in Amari, 1982, II, L, 163) e poi di Mūsā ibn Nuṣayr, gli Arabi costruirono una flotta di 100 navi, sgomberando il canale tra il mare e la laguna di Tunisi per poterla ospitare e difendere dai Bizantini. Questi ultimi avevano probabilmente una forza navale superiore a quella dei soli Arabi di Ifrīqiya (nome arabo dell’Africa romana e, precisamente, del territorio che andava da Biǧāya ad al-‘Aqabah, cioè dall’Algeria orientale alla Cirenaica),4 ma i pericoli non provenivano di certo solo dall’Africa. Dunque, la flotta romana non poteva avere in questo periodo la capacità di controllare contemporaneamente tutte le coste dei propri possedimenti, quasi tutti litoranei ed estesi da Septem Fratres (l’odierna Ceuta) alla penisola anatolica. Così, già nel 700, una flotta araba proveniente peraltro non da Cartagine ma dall’Egitto, comandata da ‘Abd al-Malik ibn Qaṭan e inviata dal Califfo ‘Abd al-Malik ibn Marwān in persona conquistò Cossira, l’odierna Pantelleria (Amari, 1933: I, 290 e ss.). Ciò fu il segno evidente che le ambizioni di conquista arabe andavano ben oltre l’Africa e che nessun luogo sul Mediterraneo poteva essere considerato un rifugio sicuro contro la marea islamica5.

Nel 704, ultimata la costruzione della flotta, Mūsā decise immediatamente di inviarla in Sicilia sotto il comando del figlio ‘Abd Allāh e saccheggiò una non precisata città ottenendo un grosso bottino. Così, l’anno seguente, il governatore d’Ifrīqiya decise di ripetere l’azione, ma prendendo di mira questa volta addirittura Siracusa, non direttamente, ma saccheggiandone i sobborghi. L’impresa fu un successo e ‘Ayyāš ibn Aḫyal, al quale Mūsā aveva affidato la flotta, tornò vittorioso e con un ricco tesoro.6 A questo punto, a parte un’infelice incursione in Sardegna nel 710, gli interessi di Mūsā si rivolsero a ovest e, in particolare, prima verso il resto dell’Africa occidentale (705-708), dove era necessario sottomettere i Berberi per garantire stabilità in queste zone, poi verso la penisola iberica, dove dal 711 iniziarono le operazioni di conquista con lo sbarco di Ṭāriq ibn Ziyād (Lo Jacono 2003, 115).

4 Il territorio che andava invece da Biǧāya all’Atlantico era detto Maġrib (Amari, 1933: I, 246). 5 Secondo alcuni scrittori fu di ibn Nuṣayr l’idea originaria del grande disegno delle conquiste arabe al di là del mare. «Ed era di rinnalzare la potenza che la schiatta semitica avea fondato in quelle medesime regioni quindici secoli innanzi, la quale non avea ceduto che alla virtù di Roma. Narra un compilatore che Mūsā, venuto a Cartagine, sentendo dir dai paesani berberi delle antiche imprese navali di quel popolo, si deliberasse a ritentare tal via; sì come poi occupata la Spagna gli lampeggiò alla mente di tornare in Oriente attraverso la terraferma di Europa; imitando e avanzando Annibale» (Amari, 1933: I, 291). 6 A queste prime incursioni dovrebbe risalire una leggenda che narra di un giovane monaco cristiano condotto insieme ad altri a Damasco come bottino di guerra in seguito a una razzia araba in Sicilia o in Sardegna. Cosimo – questo era il nome del giovane, al quale tutti i compagni si gettavano ai piedi per essere raccomandati a Dio – si disperava e piangeva perché non avrebbe potuto tramandare a nessuno le proprie conoscenze letterarie, scientifiche e teologiche apprese in tanti anni di studio. Così, un ricco cristiano peraltro nelle grazie del Califfo, ascoltati i lamenti del monaco, decise di prenderlo con sé per affidargli l’istruzione dei propri figli, uno dei quali si chiamava Manṣūr, poi diventato famoso con il nome di San Giovanni Damasceno (Amari, 1933: I, 302-303).

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Non si sanno per certo i motivi che indussero gli Arabi a rivolgersi verso la conquista del regno visigoto di Spagna anziché dei territori bizantini in Sicilia e in Italia già all’inizio dell’VIII secolo, ma probabilmente risultò più facile o semplicemente più vantaggioso agire in questa maniera. Certamente, la conquista della penisola iberica, una volta entrati sulla terraferma, richiedeva meno che in Italia il necessario sostegno di una flotta, lasciando ampie libertà di manovra agli eserciti di terra. Non bisogna scordare che, nonostante i successi anche in mare, gli Arabi erano certamente più avvezzi agli scontri terrestri, con la necessità di rivolgersi sempre ai Cristiani d’Egitto e di Siria per tutto ciò che riguardava la navigazione. Proprio Mūsā ibn Nuṣayr, per costruire il porto di Tunisi, l’arsenale e la flotta «avea messo mano a tai lavori, o alla costruzione delle navi, artigiani copti chiamati a posta d’Egitto» (Amari, 1933: I, 291-292). Infine, nonostante la debolezza dell’Impero Romano d’Oriente, in questi anni, certamente, i Visigoti non disponevano dei mezzi, delle risorse, dell’esperienza e nemmeno delle tecnologie e degli artifici dei Bizantini.7

Nel 720, le incursioni in Sicilia ripresero e, nonostante le continue rivolte berbere in Africa, che ostacolavano le avventure arabe d’oltremare e una tregua stipulata nel 728, gli Agareni assalirono l’isola altre 7 volte tra il 727 e il 735, ottenendo però solo in 4 occasioni i risultati sperati: furono sconfitti dai Bizantini una volta a causa di un assedio troppo a lungo protratto (729-730) e un’altra volta dalla flotta romana grazie al fuoco greco (733-734), una terza volta vi fu un esito incerto in battaglia campale (734-735). Inoltre, vanno ricordate anche due corse in Sardegna nel 732-733 e nel 735. In tutte queste occasioni, comunque, si trattò sempre di azioni volte a far bottino e non alla conquista (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV). Pertanto, bisogna aspettare il 740 per una spedizione araba in Sicilia con obiettivi di vera e propria occupazione, quando l’allora governatore d’Africa ‘Ubayd Allāh ibn al-Ḥabḥāb, con forze assai maggiori rispetto agli attacchi precedenti e con il sostegno di al-Andalus, decise di inviare sull’isola Ḥabīb ibn Abī ‘Ubaydah8 con chiari disegni di conquista. Pare che questa decisione sia stata mossa da notizie di malcontento in Sicilia nei confronti dell’Imperatore romano Leone III Isaurico a causa da un lato dell’imposizione della dottrina iconoclasta9 e dall’altro delle tasse esose. Ḥabīb sbarcò sull’isola, si accampò e inviò verso Siracusa, con truppe a cavallo, il figlio ‘Abd al-Raḥmān, che sia durante il tragitto sia sotto le mura della città sconfisse chiunque gli venne incontro, imponendo un assedio. Ottenuto un tributo dalla capitale siciliana, 7 Oltre alla flotta, all’esercito, alle risorse provenienti dai territori dell’Impero e all’esperienza millenaria, penso anche al celebre fuoco greco che, principalmente in mare e negli assedi navali, fu funesto nelle battaglie fra Bizantini e Arabi per questi ultimi. 8 Nipote di ‘Uqbah ibn Nāfi’, fondatore di al-Qayrawān e primo comandante arabo a raggiungere l’Atlantico. 9 Nel 730 Leone III impose al patriarca di Costantinopoli Anastasio di firmare un editto iconoclasta con il quale si ordinava la distruzione delle icone, con conseguente persecuzione degli adoratori di queste. Ciò provocò un dissenso generalizzato, ma concentrato principalmente in Occidente, dove l’opposizione del Papa finì col creare una seria frattura tra Costantinopoli e Roma e un indebolimento delle posizioni bizantine in Italia (Ostrogorsky, 1993: 147-150).

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Ḥabīb rivolse le sue truppe contro il resto dell’isola per occuparla, ma fu richiamato urgentemente in patria a causa di una rivolta berbera. Così si arenò il primo vero tentativo arabo di conquista della Sicilia (ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 171-172; Amari, 1933: I, 296 e ss.).

È interessante rilevare, riguardo a quest’ultimo episodio, che se in 40 anni di controllo dell’Africa gli Arabi ritennero di intraprendere una campagna di conquista della Sicilia solo in concomitanza con una grave crisi dell’autorità bizantina sull’isola come fu quella iconoclasta, probabilmente, nei 40 anni precedenti, non si verificarono altri tentativi d’occupazione anche a causa di una Sicilia fedele a Costantinopoli e tutt’uno con l’Impero Romano d’Oriente. Ricordiamo, a questo proposito, quanto influirono le controversie religiose tra cristiani sulla conquista dell’Egitto.10

Dopo il 740, alla guerra subentrò un’altra protagonista tra l’Africa e l’Italia: tra il 744 e il 750 in Ifrīqiya, Sicilia e Calabria giunse quella peste che già nel 718 aveva fatto strage tra gli assedianti di Costantinopoli. Inoltre, i Bizantini iniziarono a provvedere meglio alla difesa della Sicilia, con la costruzione di castelli e la presenza di un’armata che provvedesse a controllare i mari siciliani ed effettuare quando possibile qualche corsa contro i commerci musulmani. Infine, nel 750 ci fu il crollo della dinastia omayyade e la salita al trono della dinastia abbaside con la proclamazione a Califfo di Abū al-‘Abbās al-Saffāḥ.

Tutti questi avvenimenti, chiaramente, favorirono una lunga tregua tra al-Qayrawān e Bisanzio, che si protrasse, inframezzata solo da alcuni scontri non particolarmente rilevanti, per tutta la seconda metà del VIII secolo e per la prima parte del IX. Pertanto, di questo periodo è necessario sottolineare solo pochi pur se fondamentali avvenimenti.

Nel 761 giunse in Africa al-Aġlab, capostipite eponimo della dinastia aglabide, seguace prima di Abū Muslim, poi degli Abbasidi contro quest’ultimo, distintosi contro i Berberi nello Mzab,11 nominato governatore dell’Ifrīqiya e, infine, morto combattendo contro una tribù ribelle nel 767. Al-Aġlab lasciò un figlio di nome Ibrāhīm, che non subentrò immediatamente al padre nel governatorato dell’Ifrīqiya, ma si impose a un certo punto come unica possibilità di governo di questa provincia, da un lato grazie alle sue doti militari e politiche e dall’altro a causa di una ribellione che aveva causato la cacciata di un altro governatore. Così, nell’800, Hārūn al-Rašīd nominò Ibrāhīm governatore della provincia africana, che riuscì a reggere contrastando le sollevazioni, innanzitutto costruendosi un castello, la ‘Abbāsīyah, poco fuori da al-Qayrawān, dove rifugiarsi al sicuro in caso di pericolo, poi grazie a una migliore organizzazione dell’esercito e, non ultimo, con il denaro, distribuito sapientemente tra i vicini e anche tra i Berberi. Il governo di Ibrāhīm I, inoltre, favorì la pace nei confronti della Sicilia – nell’805 fu stabilita una tregua di 10 anni tra l’emiro d’Ifrīqiya e il 10 A proposito dell’occupazione araba di Alessandria d’Egitto scrive Lo Jacono: «Al termine di una trattativa col suo vescovo, il giacobita Ciro, una metropoli ben contenta di liberarsi dalla politica religiosa persecutoria di Costantinopoli si arrese a condizione …» (Lo Jacono, 2003: 50-51). 11 Regione dell’Algeria centrale a 600 km a sud di Algeri.

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patrizio di Sicilia Costantino – e mantenne rapporti cordiali con Carlo Magno, necessari questi ultimi considerata l’amicizia tra l’Imperatore franco e il Califfo abbaside. Ciò favorì relazioni pacifiche e scambi commerciali tra l’Africa, la Sicilia e il resto d’Italia, ma non evitò, comunque, altre incursioni provenienti dal regno idriside e da al-Andalus12, territori indipendenti sia dal Califfato abbaside sia dall’emirato d’Ifrīqiya.

Durante gli anni in cui governò l’amīr («emiro», «principe», «comandante») e wālī («governatore», «prefetto») – gli Aglabidi usavano entrambi questi titoli – Ibrāhīm I, l’Ifrīqiya diventò sempre più indipendente da Bagdad, finendo per diventare solo formalmente parte del Califfato, ma in pratica un emirato autonomo. L’unico limite al potere dell’emiro era la ǧamā‘ah, una sorta di senato cittadino costituito dagli šuyūḫ («anziani», sing. šayḫ) e dai wuǧahā’ («notabili», sing. waǧīh), che aveva una funzione attiva, almeno nelle decisioni più importanti.

Ibrāhīm I morì nell’812 e gli successero prima il figlio Abū al-‘Abbās ‘Abd Allāh (812-817) e poi Ziyādat Allāh nell’817. Il ricordo del primo di questi è legato, per ciò che ci riguarda, a una tregua decennale con i Bizantini, non molto rispettata, stipulata nell’813, che prevedeva anche uno scambio di prigionieri e la libera circolazione dei mercanti sia musulmani che cristiani tra l’Africa e la Sicilia; pare che il patto riguardasse anche gli Idrisidi (al-Māliki in Amari, 1982: I, XXVIII, 304; Amari, 1933: 273 e 356-357). In quello stesso anno, peraltro, iniziarono gli assalti arabi anche in Calabria, con una razzia presso Reggio. La Sicilia invece subì certamente un’incursione nell’819-820. Il secondo figlio di Ibrāhīm a succedergli in Ifrīqiya fu Ziyādat Allāh, noto perché fu durante il suo emirato che prese il via la conquista della Sicilia. Questi è descritto come un buon sovrano, colto, mecenate, costruttore e giusto. Nonostante ciò, durante il suo governo scoppiarono imponenti rivolte, che costrinsero l’emiro a rifugiarsi per due volte tra le mura della ‘Abbāsīyah. Nel primo episodio fu lui stesso a uscire in armi e sconfiggere gli assedianti, mentre nel secondo assedio, quando si giunse al punto di credere che ormai l’unica via d’uscita per Ziyādat fosse la fuga in Oriente, l’emiro fu salvato da un suo generale che riuscì a costituire un esercito di Berberi e neri a sud, sconfiggendo i rivoltosi. A causa delle discordie interne, poi, la rivolta perse vigore e dopo qualche anno finì. I ribelli sottomessi furono mandati a espiare la ribellione nella guerra di Sicilia (Amari, 1933: I, 269- 289 e 350-359).

12 Il regno arabo degli Idrisidi – da Idrīs ibn ‘Abd allāh (m. 791), che fu riconosciuto Imām – controllò, tra il 788 e il 985, i territori intorno a Walīla – la latina Volubilis, poco a nord dell’odierna Meknes – e Fez nell’estremo Occidente, mantenendosi indipendente sia dal Califfato Abbaside sia dall’emirato d’Ifrīqiya (Lo Jacono, 2003: 166-167; Amari, 1933: 353). Gli Arabo-Berberi di al-Andalus controllavano gran parte della penisola iberica. Dal 756 questo territorio diventò un Califfato indipendente da quello abbaside, grazie al nipote del Califfo Hišām, ‘Abd al-Raḥmān, che riuscito a salvarsi dagli Abbasidi e con l’aiuto della tribù materna dei Berberi Nafza, prese il potere in al-Andalus e instaurò una dinastia omayyade (Lo Jacono, 2003: 322 e ss.).

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LA CONQUISTA DELLA SICILIA CENTRO-OCCIDENTALE Come abbiamo visto, già dalla seconda metà del VII secolo e poi sia nell’VIII che al principio del IX, la Sicilia fu vittima di numerose corse, provenienti dai diversi emirati e Califfati arabi che si affacciavano sul Mediterraneo, e da un tentativo di vera e propria conquista nel 740, propiziato da una rivolta siciliana contro l’imposizione imperiale della dottrina iconoclasta. Ebbene, fu nuovamente una rivolta a favorire il secondo tentativo di conquista stabile della maggiore isola del Mediterraneo da parte degli Arabi e l’apertura della terza direttrice di invasione dell’Europa, questa volta attraverso l’Italia.

Sebbene le fonti sulle dinamiche di questa rivolta siciliana siano un po’ difficili da interpretare a causa di alcune incongruenze, di equivoci e di una certa confusione sulle date – più tra gli storici occidentali che tra quelli arabi in realtà – tutti i dati comunque convergono nell’attribuire a una serie di disordini e lotte interne tra il potere imperiale e alcuni comandanti di truppe locali, tra l’821 e l’826, la causa ultima che permise agli Arabi di metter piede stabilmente sull’isola (Amari, 1933: I, 367-381). Accadde, così, che a causa di una cattiva gestione dei malcontenti e dei disordini siciliani da parte dei patrizi mandati in loco da Bisanzio, un importante comandante di milizie locali di nome Eufemio, preso di mira come capro espiatorio dei rivolgimenti in atto attraverso accuse di natura morale che nulla avevano a che fare con le questioni politiche, fuggì nell’826 col suo seguito in Africa per cercare il sostegno dei Musulmani. Eufemio era convinto, infatti, che il suo esercito e le amicizie lasciate sull’isola avrebbero convinto gli Aglabidi a intraprendere al suo fianco la conquista della Sicilia. L’obiettivo di Eufemio, una volta conquistata la Sicilia con l’aiuto degli Arabi, era quello di diventarne governatore, con tanto di insegne imperiali, per conto dell’emiro. Con questi intenti, giunto sulle coste africane, Eufemio mandò una richiesta di aiuto a Ziyādat Allāh. Ma pare che anche gli avversari di Eufemio avessero mandato ambasciatori all’emiro africano, affinché non si rompesse la tregua dell’813.

Ziyādat Allāh era indeciso sul da farsi, essendo il consiglio dei notabili, riunito per l’occasione, diviso. Mentre i sostenitori della pace non vedevano un motivo valido per rompere una tregua così lunga, su questa pesavano le accuse di Eufemio ai suoi compatrioti, secondo le quali questi ultimi non avevano adempiuto a una delle condizioni pattuite nell’813, cioè quella di permettere il ritorno in patria a tutti i Musulmani presenti sull’isola. Accusa che gli ambasciatori bizantini rigettavano, sostenendo che quei Musulmani ai quali si riferiva Eufemio non erano più tali in quanto si erano convertiti al Cristianesimo e, dunque, era ora assolutamente impossibile per le autorità bizantine permettere un loro rimpatrio.

Il principale sostenitore della guerra era Abū ‘Abd Allāh Asad ibn al-Furāt ibn Sinān (Rīāḍ al-Nufūs in Amari, 1982: I, XXVIII, 300-302), un settuagenario qāḍī di al-Qayrawān, che aveva studiato con Mālik ibn Anas prima e con Abū

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Ḥanīfah poi, tenuto in grande considerazione sia dall’emiro che dal resto degli Arabi. Così, grazie a un discorso in cui si fondevano con arte gli insegnamenti coranici e le necessità pratiche, ibn al-Furāt seppe convincere l’emiro e il consiglio sull’importanza di cogliere un’occasione così vantaggiosa per rafforzare l’emirato e l’Islam. Inoltre, il qāḍī riuscì anche a farsi dare il comando dell’impresa, in modo da essere sicuro che questa fosse volta alla conquista dell’isola e non alle solite scorrerie (Amari, 1933: I, 382-393).

L’esercito africano, composto da Arabi, Berberi, Spagnoli rifugiati e dal ǧund – costituito quest’ultimo in gran parte da Persiani – ammontava a 10000 fanti e 700 cavalieri. Questi salparono con una flotta di 70 o 100 navi il 14 giugno 827 dal porto di Sūsah e iniziarono lo sbarco a Mazara il 17. Qui lo attendevano i seguaci di Eufemio, che Asad ibn al-Furāt evitò però di coinvolgere nel primo scontro contro i Bizantini. Scontro al quale si giunse il 15 luglio, quando Asad decise finalmente di schierare le sue truppe. I numeri dell’esercito bizantino non ci sono chiari, tenuto conto che quelli a noi pervenuti dalle fonti arabe sono di circa 150000 uomini – sono tipiche queste esagerazioni nel descrivere i nemici per esaltare le proprie vittorie. Ciò che è certo è che l’esercito siciliano fu sbaragliato e impalato, prima rifugiatosi a Castrogiovanni, fuggì poi in Calabria dove morì.

Dopo questa prima vittoria, Asad decise immediatamente di puntare su Siracusa e si mise così in marcia lungo la strada romana che costeggiava la sponda meridionale dell’isola. Una mossa questa che sarebbe potuta risultare nefasta per le sorti della capitale, le difese della quale avevano ancora bisogno di tempo per essere sistemate al meglio. Così, i Bizantini cercarono di rallentare l’avanzata musulmana pagando immediatamente dei tributi, sotto forma di ǧizyah. Asad accettò e riscosse una prima taglia di 50000 soldi d’oro e per questo fu accusato da alcuni storici arabi (ibn al-Aṯīr, ibn Ḫaldūn e al-Nuwayrī) di aver commesso un grave errore. È probabile che una breve tregua giovasse anche ai Musulmani, magari per organizzare l’assedio e riunire l’esercito. Fatto sta che appena il comandante africano si rese conto che un dilungarsi della tregua avrebbe potuto giovare solo ai difensori, piombò immediatamente su Siracusa, aggirando anche la fortezza di Acri, per evitare di perdere tempo in ulteriori scontri.

Giunto a Siracusa, Asad occupò le latomie a sud dei quartieri di Neapolis e Acradina, mettendo la città sotto assedio e bloccando anche i due porti, ma nulla poté fare di più, non avendo a disposizione armi da assedio. L’obiettivo di Asad era evidentemente quello di bloccare la città e affamarla, inducendola così alla resa; infatti, più che saccheggiarne i dintorni e affondarne le navi non poteva fare. L’assedio continuò per mesi e Asad dovette anch’egli affrontare la fame e la disperazione delle proprie truppe, che tentarono perfino di ammutinarsi richiedendo un immediato ritorno in patria, ma il comandante africano non cedette e riuscì a sedare la rivolta. Sebbene Asad fosse riuscito a ottenere qualche rinforzo dall’Africa, giunsero anche per i Siracusani degli aiuti da Bisanzio e da Venezia per ordine dell’Imperatore Michele il balbo, tanto che gli assedianti

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divennero assediati e dovettero difendere le loro posizioni fortificandosi contro gli eserciti bizantini giunti dall’esterno. I Musulmani ebbero la meglio, potendo così continuare l’assedio della città, che ormai durava da 10 mesi, ma le loro fortune stavano per finire, infatti, nell’estate dell’828 morì, non si sa se per malattia, per vecchiaia o per le ferite riportate, Asad ibn al-Furāt (ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 174). Questo evento portò scompiglio tra le truppe che, senza l’ausilio di ulteriori rinforzi dall’Africa – a causa di un inaspettato attacco di alcuni conti Toscani nel cuore dell’emirato – e decimati dalla malattia, furono costrette a ritirarsi a un giorno da Siracusa, nella città di Mineo – luogo più facilmente difendibile – sotto il comando di Eufemio. Da qui, gli africani prima presero sulla costa meridionale Girgenti e poi si portarono sotto le mura di Castrogiovanni, dove Eufemio trovò la morte, assassinato con l’inganno da due suoi amici. Nonostante ciò, l’assedio della rocca inespugnabile di Castrogiovanni continuò e a nulla valse il tentativo bizantino di rompere l’assedio in battaglia campale; sappiamo che i Musulmani iniziarono anche a battere moneta durante questo periodo. Fu così che solo dopo la primavera dell’829 i Bizantini riuscirono a scacciare gli assedianti, i quali, in seguito a due pesanti sconfitte furono costretti a rifugiarsi a Mineo. Alla fine dell’829, dopo due anni di guerra, solo quest’ultima città e Mazara erano ancora in mano agli Arabi, tanto da sembrare ormai giunto al termine il tentativo di conquista dell’isola (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 364-368; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 117-119; ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 173-177; Amari, 1933: I, 394-417).

Solo nell’estate dell’830 giunsero finalmente dall’Africa i tanto attesi rinforzi – tra i ventimila e i trentamila uomini – assolutamente necessari per portare avanti nuove azioni. Così, mentre una parte dell’esercito musulmano bloccava i Bizantini tra Castrogiovanni e Siracusa, uno stuolo fu mandato tra luglio e agosto verso Palermo, che fu, dunque, messa sotto assedio. Palermo era una città ricca, popolosa, ben difesa e con un importante porto, così, anche grazie alla memorabile resistenza dei suoi cittadini e agli aiuti dell’Imperatore Teofilo, che era intanto succeduto a Michele nell’829, riuscì a resistere per un anno. Tra la pestilenza che affliggeva la Sicilia ormai da anni e l’assedio, la popolazione fu decimata, passando pare da 70000 a meno di 3000 anime, così, nell’agosto dell’831 i palermitani si arresero (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 368-369; Cronaca di Cambridge in Amari, 1982: I, XXVII, 278; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 119-120).

La conquista di Palermo fu la vera base di partenza per la futura conquista del resto dell’isola e per le altre imprese nella penisola italiana. Fino all’831 gli Arabi erano riusciti a controllare solo piccoli castelli – anche Mazara era più una fortezza che una città vera e propria. Palermo era invece una grande città, con un territorio ricco e coltivato da numerosi contadini che garantivano a chi controllava questo territorio non solo un proprio sostentamento, ma anche la possibilità di mantenere un forte esercito, indipendentemente dai rinforzi provenienti dall’Africa. Questa ricchezza provocò inizialmente degli scontri tra i Musulmani, in particolare tra Spagnoli e Africani, ma nell’inverno dell’832

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Ziyādat Allāh nominò suo fratello Abū Fihr Muḥammad ibn ‘Abd Allāh ibn al-Aġlab al-Tamīmī luogotenente dei territori siciliani in mano agli Arabi – sostanzialmente tutta la Sicilia ad ovest di Caltanissetta – dando così stabilità alle conquiste. La Sicilia musulmana divenne un vero e proprio stato, relativamente autonomo dall’emirato africano – Abū Fihr aveva il titolo di ṣāḥib, che indica un vero e proprio capo di stato – e battente moneta propria.

La conquista di Palermo non garantì ai Musulmani soltanto il saldo controllo della Sicilia occidentale, ma anche la possibilità di tenere sotto scacco il resto dell’isola e intervenire direttamente nelle dinamiche politiche della penisola italiana. Durante gli anni ’30, ’40 e ’50 fino all’859, gli Arabi non riuscirono ad ottenere altre importanti conquiste in Sicilia, ma poterono sottoporre i territori bizantini a continue depredazioni, rinforzandosi, così, tanto dal punto di vista militare che finanziario. Fu solo nell’859 che, grazie a un traditore cristiano, i Musulmani riuscirono a giungere indisturbati dentro le mura di Castrogiovanni, attraverso un passaggio segreto, riuscendo così a impossessarsi della città (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 379-381; Cronaca di Cambridge in Amari, 1982: I, XXVII, 278; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 120-122). Questa fu abbandonata qualche anno dopo, ma nell’864 fu conquistata Noto, poi ribellatasi e ripresa nell’866, anno in cui fu assediata e ridotta alla resa anche Ragusa, riducendo ormai i domini Bizantini alla sola fascia costiera orientale della Sicilia tra Siracusa e Messina (al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 5-15; Amari, 1933: I, 418-486).

Infine, come abbiamo accennato, i Musulmani iniziarono a inserirsi nelle dinamiche politico-militari della penisola, in particolare grazie ai Napoletani, che, messi alle strette dal ducato di Benevento, chiesero aiuto proprio agli Aglabidi – nella seconda metà del IX secolo, i contrasti tra gli stati dell’Italia meridionale tra loro e le trasversali alleanze e inimicizie col Papa, il Sacro Romano Impero e l’Impero Bizantino favorirono le ingerenze musulmane nella penisola, il prosperare delle loro colonie e i saccheggi da Roma in giù – la stessa sede papale fu saccheggiata da truppe provenienti dall’Africa nell’846 e il suo contado fu depredato anche nei decenni successivi (ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 177-184; Amari, 1933: I, 504 e ss.). QUADRO GENERALE TRA IL IX E IL X SECOLO Tra la fine del IX e l’inizio del X secolo, l’espansione araba aveva ormai raggiunto il culmine e, a partire dalla seconda metà del IX secolo circa, la parabola storica del Califfato Abbaside aveva iniziato la sua fase discendente. Tra il IX e il X secolo l’Impero arabo divenne un complesso insieme di emirati, che, pur continuando ad essere formalmente dei domini del Califfato, furono in realtà dei regni indipendenti governati da dinastie di emiri spesso più potenti e influenti degli stessi califfi. Nonostante questa frammentazione, in taluni casi il Califfato

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continuò a espandersi proprio grazie alle conquiste di questi emiri, che con le loro imprese segnarono talvolta i limiti massimi dei confini califfali tanto in Oriente quanto in Occidente. In questo quadro, l’impresa di Ibrāhīm II in Sicilia e in Calabria fu un evento che ha un’enorme rilevanza storica, perché stabilì il margine estremo della marea araba sul territorio italiano13 e, dopo gli assedi di Costantinopoli e la conquista della penisola iberica, l’ultimo vero tentativo arabo di invasione dell’Europa.

Nel IX secolo, in Africa del nord, esistevano degli stati formalmente vassalli del Califfato14 e relativamente liberi dal controllo di questo: il regno degli Idrisidi,15 lo stato ḫarigita sufrita dei Midraridi,16 che tra l’823 e il 976 controllarono la regione di Siǧilmāsa (oggi detta Rissani) nell’odierno Marocco sud orientale, il territorio ḫarigita ibadita dei Rustemidi,17 che tra il 772 e il 909 dominarono su Tāhert nell’odierna Algeria settentrionale, l’Egitto, governato, fino alla conquista fatimide, dalle due dinastie dei Tulunidi18 prima (868/904) e degli Iḫšididi19 poi (935/969) e, infine, l’emirato aglabide, dal nome del governatore d’Africa e poi emiro Ibrāhīm ibn al-Aġlab (m. 812/197), comprendente l’Ifrīqiya, la Sicilia e, per un brevissimo periodo, anche gran parte dell’odierna Calabria fino a Cosenza e che durò dall’800 al 909.

L’Italia meridionale, nel IX secolo, era divisa tra ducati, principati, emirati e contee più o meno estesi, città autonome e l’Impero Romano d’Oriente,20 anche se la maggior parte del territorio era sotto il controllo di quest’ultimo e del ducato longobardo di Benevento. I Longobardi dominavano sulle zone continentali del territorio campano e su tutta la fascia al confine coi territori pontifici, sulla Puglia settentrionale e su parte della Lucania; dall’849 il ducato di Benevento si spaccò a causa di lotte intestine, così, si costituì nella sua parte occidentale il principato di Salerno. I Romani d’Oriente conservavano i possedimenti in Puglia, nel Bruzio e su gran parte delle zone costiere, uniti nel ducato di Calabria, mentre la Sicilia, come abbiamo accennato, fu persa durante il corso del IX secolo a causa dell’invasione aglabide iniziata nell’827. Inoltre, a queste grandi entità statali si 13 Non teniamo conto, in quest’ottica, delle conquiste di singole città costiere, come Bari e Taranto, o delle colonie del Garigliano (882 e per circa 30 anni) e Agropoli (seconda metà del IX secolo) o dei saccheggi, che nell’846 giunsero a colpire addirittura la basilica di San Pietro, perché non rientravano in un progetto di vera e propria invasione dell’Italia, come invece fu per l’impresa di Ibrāhīm: «Né alcuno li potea temere conquistatori, fino al passaggio di Ibrāhīm ibn Aḥmad» (Amari, 1933: I, 605). 14 Anche gli Omayyadi di Spagna ebbero in alcuni periodi una certa influenza su alcuni di questi regni. Ricordiamoci, infatti, che la penisola iberica era dominata da un regno arabo del tutto indipendente dal Califfato abbaside, anzi, diretto concorrente di questo e retto da una schiatta omayyade. 15 Vedi infra, 6 nota 11. 16 Dal soprannome del fondatore del regno: Midrār («elargitore di copiosa pioggia», m. 876) (Lo Jacono 2003, 162). 17 Dal nome del fondatore di Tāhert: Ibn Rustam (m. 788/171). 18 Dal nome del suo fondatore Aḥmad ibn Ṭūlūn (m. 884). 19 Dinastia fondata da Abū Bakr Muḥammad ibn Ṭuġǧ (m. 946/334), insignito dal Califfo al-Rāḍī del sovrano titolo sogdiano di iḫšīd. 20 Per un quadro generale sugli eventi storici riguardanti l’Italia e la Sicilia nel corso nel IX secolo vedi: Lo Jacono, 2003: 180-189; Ostrogorsky, 1993: 183-231; Cardini, Montesano, 2006: 159-164; Abulafia, 2013: 237-263; Amari, 1933: volumi 1 e 2; Loiacono, 2017: 65-100.

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affiancavano alcuni piccoli territori autonomi, come il ducato di Napoli, la contea di Capua e la repubblica di Amalfi. Infine, tra le varie, brevi e limitate conquiste agarene nella penisola meridionale, hanno certamente un rilievo maggiore gli emirati di Taranto (840-880) e Bari (847-871) per il ruolo importante che ebbero durante la loro non brevissima esistenza sia dal punto di vista politico-economico sia sotto il profilo culturale sia, nondimeno, per motivi d’ordine religioso; infatti costituirono anche un privilegiato luogo di imbarco per i pellegrini cristiani diretti in terra santa. Bari fu liberata dall’Imperatore del Sacro Romano Impero Ludovico, grazie alla breve alleanza tra quest’ultimo, i Bizantini e il ducato di Benevento, e scelse poi di rientrare nelle schiere costantinopolitane. Anche Taranto fu riannessa ai possedimenti bizantini durante le operazioni della grande impresa navale dell’ammiraglio Nasar,21 le gesta del quale vedremo in seguito. Il resto delle colonie arabe in Italia meridionale, tra le quali ricordiamo in particolare Amantea, Santa Severina, Tropea e quella del Garigliano furono riconquistate, a parte quest’ultima, dal celebre generale di Bisanzio Niceforo Foca22 nel corso della sua spedizione militare dell’885 in Italia, azione che riassicurò al controllo bizantino l’intero territorio del ducato di Calabria.

L’Italia centrale era sotto il dominio dei papi, che, ormai da più di un secolo, avevano scelto la protezione dei Franchi e, in seguito, del Sacro Romano Impero, ottenendo nel 754 dal re franco Pipino gli ex territori imperiali dell’Italia centrale e settentrionale, cioè la Romagna, l’Emilia, le Marche, il Lazio e l’Umbria (Cardini, Montesano, 2006: 87). Il resto del nord d’Italia era formalmente parte dell’Impero franco, ma costellato di importanti città relativamente autonome, politicamente influenti e ricche, tra le quali ricordiamo in particolare Genova e Venezia, che iniziavano ad avere un ruolo rilevante nelle dinamiche mediterranee. I Bizantini conservavano nel nord della penisola ancora solo un formale controllo della fascia costiera tra l’Istria e Comacchio, dopo che nel 751 l’esarcato di Ravenna fu conquistato dai Longobardi per poi passare ai Franchi e quindi al Papa. Anche queste province non scamparono alle razzie degli Agareni, i quali, facendo base a Bari da un lato e a Ischia e Napoli23 dall’altro, giunsero con le loro flotte fin nell’Adriatico settentrionale e su tutte le coste del Tirreno. IBRĀHĪM II DIVENTA EMIRO D’AFRICA Morto l’emiro africano detto «il Signor delle Grù», Abū al-Ġarānīq Muḥammad ibn Aḥmad, che regnò dall’864 all’875 (Amari, 1933: I, 490, nota 1), e lasciato un figlio ancora bambino, le genti di al-Qayrawān decisero di innalzare al trono il

21 Probabilmente un Mardaita di Siria (cfr. Amari, 1933: I, 556). 22 Nonno del futuro Imperatore Niceforo II. 23 Napoli ebbe spesso ottimi rapporti con gli Aglabidi: accordi commerciali e militari che andavano di pari passo e che garantirono alla città una grande prosperità in questi anni (Amari, 1933: I, 446 e ss.).

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fratello venticinquenne del sovrano defunto, Ibrāhīm ibn Aḥmad24 (Amari, 1933: I, 535; ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 391 e ss.; al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 19-21; Abulfeda in Amari, 1982: II, XLVII, 87; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 124, 147-153; ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 185-187; ibn abī Dinār in Amari, 1982: II, LVI, 278; ibn Wādirān in Amari, 1982: II, LVII, 302-303).

Uomo sagace e abile statista, Ibrāhīm seppe mettere ordine nelle questioni politiche dell’emirato accrescendo il suo potere a discapito della nobiltà e col favore del popolo, com’è tipico di ogni tiranno. Allo stesso tempo non fu un uomo di scienze e di lettere come i suoi predecessori, fu religioso, ma allo stesso tempo immorale e sanguinario, misantropo e solo. Infine, fu un abile e coraggioso comandante e un conquistatore con grandi ambizioni, che furono stroncate soltanto dalla malattia nel 902 a Cosenza, quando il destino della capitale della cristianità, obiettivo principale delle sue mire, sembrava ormai segnato.

Sebbene, principalmente nei primi anni di regno, avesse governato con giustizia, ponendo fine ai soprusi di governatori e funzionari, ascoltando tutte le settimane le richieste dei sudditi, dando esempio di astinenza e pietà, garantendo l’ordine, favorendo i commerci e costruendo importanti opere pubbliche civili e militari, Ibrāhīm riuscì a macchiarsi di innumerevoli crimini e memorabili scelleratezze. L’emiro aglabide eliminò ferocemente e con l’inganno non solo i ribelli e i nemici, ma ogni possibile minaccia: ospitò i capi di una tribù ribelle in un palazzo, in segno di perdono e amicizia, mandando poi i suoi soldati a farne carneficina;25 fece trucidare tutti i liberti della sua stessa stirpe, sostituendoli con nuovi schiavi; il solo sospetto di una congiura provocò un vero bagno di sangue nella sua residenza; in seguito a un incerto vaticinio dei suoi astrologi fece massacrare tutti i bambini che, in base a questo responso, in futuro avrebbero potuto attentare alla sua vita; umiliò giudei e cristiani, ponendo come segno distintivo sulle vesti dei primi una scimmia e dei secondi un maiale; eliminò chiunque minacciasse il suo potere o semplicemente la sua reputazione anche di sua mano e nei modi più crudeli. Sono così tante le narrazioni delle sue crudeltà che ci è impossibile riportarle tutte (Amari, 1933: II, 62-80).

LA CONQUISTA DI SIRACUSA Nell’867, a Costantinopoli, era salito al soglio imperiale Basilio I, con il quale prese avvio per Bisanzio una fase di rinascita e di espansione. Nei due secoli successivi l’Impero Romano d’Oriente riscoprì fasti ormai dimenticati e i primi 24 Amari sottolinea che non si trattò di usurpazione, essendo il diritto di primogenitura non consueto presso gli Arabi, essendo l’investitura del Califfo solo cerimoniale ed essendo, dunque, il popolo e, direi, gli anziani in particolare, i veri elettori di un sovrano (cfr. Amari, 1933: II, 65). 25 Peraltro questa azione diede libertà alla tribù dei Kutāma, che fu in seguito il braccio armato degli ismailiti che causarono la fine dell’emirato aglabide (cfr. Amari, 1933: II, 70-71; Mayerà, 2017: 32-33).

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segni di questa ascesa si devono proprio a Basilio, che da subito dimostrò di voler dare una svolta alla disastrosa decadenza che lo precedette. Così, Ibrāhīm decise di reagire immediatamente con una prova di forza esemplare, cercando di portare a segno un’impresa più volte fallita prima del suo avvento, la conquista di Siracusa.

Già nell’877, dopo aver devastato i territori di Rametta,26 Taormina, Catania e di altre città che non conosciamo, i Musulmani, comandati da Ǧa‘far ibn Muḥammad, saccheggiarono anche il contado di Siracusa, mettendo poi sotto assedio la città.

Secondo la ricostruzione di Amari, Siracusa, al tempo di questo assedio, era ormai ridotta alla sola Ortigia, da un lato a causa di una popolazione decimata da cinquant’anni di guerre e saccheggi, dalle pestilenze e dalla povertà, e dall’altro perché risultava certamente più facile difenderla; infatti, i quartieri di Siracusa posti sulla terraferma erano certamente fortificati ma si estendevano su una superfice troppo ampia per poter essere difesi a dovere. Non a caso, il comandante arabo stabilì il suo quartier generale nella cattedrale vecchia, posta fuori da Ortigia, in una zona quasi certamente ormai spopolata.

Gli scontri si verificarono quindi nel punto dove Ortigia era ed è collegata alla costa da un ponte posto tra il porto grande e il porto piccolo (ibn Šabbāṭ in Amari, 1982: I, XXXIV, 349-350), dove gli Arabi questa volta portarono diverse armi da assedio: elopoli,27 mangani di grandezza mai vista fino a quel tempo, che ora potevano anche abbattere le mura delle città e che furono utilizzati per la prima volta sempre dagli Arabi d’Africa nell’871 nell’assedio di Salerno, infine, venivano anche utilizzate mine, portate da soldati, messi a testuggine, fin sotto le fortificazioni per abbatterle. Inoltre, gli Africani attaccavano anche dal mare, dove prima sconfissero una flotta inviata da Costantinopoli, poi abbatterono le fortificazioni dei due porti e in seguito provarono anche assalti marittimi dai quali però i Siracusani si difesero con valore. Il grosso della flotta bizantina non giunse mai, perché il capitano, che si mise in viaggio verso la Sicilia con enormi ritardi ingiustificati, fu a un certo punto raggiunto dalla notizia che Siracusa era stata presa e tornò quindi a Costantinopoli a domandare pietà a Basilio. Infine, ad aprile, crollò un lato della torre del porto grande, costringendo ormai i Siracusani a una resistenza disperata.

Ma non erano solo le armi arabe a minacciare Siracusa, infatti, si aggiunse la carestia, che portò prima a un aumento vertiginoso del prezzo del grano, al quale si aggiunse poi l’impossibilità di rifornirsi di pesce a causa dell’embargo navale. Così, a causa di un assedio che durava ormai da mesi e dei saccheggi degli anni precedenti, la fame, come purtroppo è più volte accaduto nella storia, finì per

26 Città a pochi chilometri da Messina, nella quale, tra il IX e il X secolo, si rifugiarono gran parte dei Messinesi per sfuggire agli Arabi. Per questa ragione, nelle cronache di questi anni, è più citata questa città rispetto a Messina (Amari, 1930: 570). 27 Una tettoia di pietre ricoperta di vimini, sotto la quale era posta una trave per percuotere le mura (Amari, 1933: 537 nota 2).

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indurre gli assediati, pare, addirittura a cibarsi di altri uomini: prima i cadaveri dei soldati morti, poi i bambini.

A questo punto il destino di Siracusa era ormai segnato e, così, la mattina del 21 maggio 878 (Cronaca di Cambridge in Amari, 1982: I, XXVII, 279), la breccia creatasi con il crollo della torre del porto grande, in qualche modo rattoppata e strenuamente difesa per un mese anche in combattimenti corpo a corpo, fu definitivamente aperta, permettendo ai soldati africani di entrare infine in città. Il resto della storia, come sempre accade in situazioni come questa, è un susseguirsi di massacri, senza distinzione tra uomini, donne e bambini, masse di civili ridotti in schiavitù, rapine e violenze d’ogni genere. Nonostante ciò, le cronache ci narrano anche un episodio in cui prevalse la pietà o, comunque, il rispetto: trovato, infatti, l’arcivescovo, nascosto dietro l’altare della cattedrale e senza l’abito talare, pare che un certo Sam‘ūn, un soldato musulmano che parlava greco, 28 gli chiese chi fosse e, scoperto che si trovava di fronte l’arcivescovo, si fece accompagnare nella stanza dove erano conservati i vasi sacri, un’enorme quantità di metalli preziosi, e lì lo chiuse salvandogli la vita. L’arcivescovo fu in seguito portato a Palermo e lì imprigionato, non prima di aver avuto modo di conversare col governatore arabo di questioni religiose (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 396; al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 15-16; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 147; Amari, 1933: 531-551).

Finiva, così, la Siracusa antica, depredata di tutte le sue ricchezze e ridotta a un cumulo di macerie. Pare che in nessun’altra città conquistata gli Arabi ottennero maggiori ricchezze di quelle acquisite con la presa di Siracusa.

LA CONTROFFENSIVA BIZANTINA

A questo punto, il destino del resto dell’isola e anche di gran parte dell’Italia sembrava segnato, avendo eliminato gli Arabi quello che era certamente il più importante baluardo cristiano dell’Italia meridionale. Tuttavia, come abbiamo visto e nonostante questa grave perdita, l’Impero Romano d’Oriente era in una fase di ripresa rispetto ai due secoli precedenti, come dimostrò proprio con la veemente reazione che seguì lo smacco siracusano.

Basilio riorganizzò sia la flotta sia l’esercito, i quali, negli anni che seguirono i fatti di Siracusa, oltre ad essere rafforzati nel numero, trovarono anche due comandanti presto diventati celebri per le loro imprese: Nasar29 e Niceforo Foca.30 Così, nell’estate dell’880, mentre era impegnata a depredare le coste ioniche, la flotta araba fu attaccata con successo di fronte il litorale greco dalla flotta bizantina comandata da Nasar, che riuscì a bruciare gran parte della navi musulmane.31 A questo punto, Basilio ordinò al suo ammiraglio di continuare 28 Probabilmente un colono siciliano (Amari, 1933: I, 545). 29 Vedi infra, 13 nota 21. 30 Vedi infra, 13 nota 22. 31 La flotta araba contava 60 navi, mentre quella bizantina 140 (Amari, 1933: 555-556).

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verso ponente, così, presso Reggio, i Bizantini riuscirono a distruggere ciò che restava del naviglio arabo, per dirigersi poi verso Palermo (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 397; Cronaca di Cambridge in Amari, 1982: I, XXVII, 279). Allora, avendo ormai il controllo del mare, prima Nasar si dedicò ad assaltare le navi mercantili, arrecando un enorme danno agli Africani già fiaccati da una carestia quell’anno, poi sbarcò a Cefalù e stabilì una testa di ponte nelle Madonie. Fatto ciò, ritornò verso le coste calabresi dove, con l’aiuto delle truppe di terra comandate dal protovestiario Procopio e da Leone Apostippi, riuscì a riportare sotto il controllo bizantino alcuni territori occupati, ottenendo un’altra vittoria contro i Musulmani a Capo Stilo e permettendo a Leone di riconquistare Taranto. Nonostante ciò, i Musulmani continuarono senza problemi a saccheggiare i territori di Catania e Taormina, riuscendo due anni dopo anche a riprendere il controllo sulle Madonie. L’intervento militare di Nasar, dunque, non fu in grado di modificare la situazione siciliana, ma diede comunque nuovo slancio ai Bizantini che, dopo decenni di sconfitte, erano riusciti finalmente ad ottenere importanti vittorie sia sul mare sia sulla terraferma, riacquisendo il controllo navale tra la Grecia e l’Italia, ritornando in possesso dell’importantissima Taranto e riconquistando anche alcuni territori calabresi.

Ottenuto il controllo dei mari, fu Niceforo Foca che ristabilì l’autorità bizantina su gran parte dell’Italia meridionale, dimostrando che l’unico vero baluardo contro i Musulmani era l’Impero Romano d’Oriente.

«Tra i piccoli stati italiani in lotta reciproca, Bisanzio rappresentava l’unico fattore stabile e perfino Roma, che si vedeva minacciata dai continui attacchi arabi alla costa italiana, dovette chiedere aiuto all’imperatore bizantino»32 (Ostrogorsky, 1993: 215).

Niceforo giunse in Italia con nuovi rinforzi provenienti dal tema anatolico e

coi valorosi Pauliciani, ultimando le conquiste di Nasar. Prima assediò e conquistò Santa Severina e Amantea, lasciando i Musulmani liberi di tornarsene a Palermo, poi riprese anche Tropea. Alla fine della sua campagna militare tutta la Calabria e gran parte della Puglia erano tornate sotto il controllo bizantino. Inoltre, Niceforo si distinse dai suoi predecessori, i quali non avevano scrupoli a rendere schiavi, quando necessario, i loro correligionari italiani per pagare i soldati, non distinguendosi molto dagli Agareni da questo punto di vista. Niceforo, al contrario, sebbene avesse fatto anch’egli un gran numero di schiavi per spingere i soldati a combattere, durante l’imbarco a Brindisi per il ritorno a Costantinopoli, con l’inganno fece salire sulle navi prima l’esercito e poi liberò gli italiani catturati. Questi, per la gratitudine verso il loro benefattore, innalzarono sulla spiaggia una statua del santo che porta il suo nome. Lo stesso si può dire di Basilio, il quale si distinse, come il suo comandante, per l’emancipazione degli

32 «Questa situazione spiega l’atteggiamento conciliante che il papato assunse allora verso Bisanzio nelle questioni ecclesiastiche» (Ostrogorsky, 1993: 215).

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schiavi e la donazione di terre. Purtroppo, il loro esempio non fu seguito sempre dai successori, favorendo in alcuni periodi una certa avversione italiana contro Costantinopoli, che ha inevitabilmente condizionato la stabilità dell’Italia bizantina nei secoli successivi (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 400; al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 18; Amari, 1933: I, 583-586).

LA NUOVA AVANZATA AGLABIDE E LA RIVOLTA SICILIANA Niceforo, dopo la campagna italiana, dovette tornare a difendere le province dell’Asia Minore, lasciando gran parte dell’Italia meridionale in mano bizantina, ma non per questo al sicuro da nuove offensive musulmane. Inoltre, la situazione si aggravò con la morte di Basilio nell’886, perché il successore, Leone VI, spostò l’attenzione in Oriente, trascurando le province italiane.

La presenza di popoli e culture diverse dava all’Italia meridionale un aspetto multietnico e multiculturale certamente affascinante e molto interessante per chi ha modo di studiarne i caratteri e le dinamiche, ma, allo stesso tempo, ciò era causa di una frammentazione deleteria da un punto di vista strettamente politico-militare. Gli stati e le città del sud d’Italia erano continuamente il lotta tra loro e con il Papa, il Sacro Romano Impero non aveva la forza di prendere le redini della situazione e, anzi, finiva spesso per alimentare le discordie, quindi, restava solo l’Impero Bizantino a difendere l’Italia, Roma e la cristianità. Ma, come abbiamo detto, con la salita al soglio imperiale di Leone VI, anche quest’ultimo baluardo sembrò in procinto di crollare. Così, già nell’888, gli Aglabidi ritornarono all’attacco in Calabria, sconfiggendo una flotta bizantina a largo di Milazzo e, in seguito, saccheggiando la città di Reggio e il suo contado, per tornarsene poi a Palermo con un ricco bottino.

Solo le discordie interne tra Arabi e Berberi e tra Palermo e al-Qayrawān salvarono negli anni novanta del IX secolo l’Italia da nuove avanzate musulmane. Ibrāhīm cercò con fatica di risolvere le discordie e vi riuscì solo dopo anni di lotte intestine, così, dall’892 all’896 anche la Sicilia orientale fu risparmiata dagli assalti. Tra l’895 e l’896 si giunse addirittura alla stipula di una tregua tra Aglabidi e Bizantini (al-Bayān in Amari, 1982: II, XLIV, 18-20; Amari, 1933: I, 571-575).

Nell’898 Ibrāhīm provò a risolvere la rivoluzione siciliana, promettendo ai rivoltosi che avrebbe castigato solo i capi, un certo Abū al-Ḥusayn ibn Yazīd e un al-Ḥaḍramī. Così fece e, se il primo di questi riuscì ad avvelenarsi portando Ibrāhīm a rifarsi sui figli, l’emiro poté scatenare la sua solita crudeltà sul secondo: il carnefice, attraverso motteggi, fece credere al condannato di avere salva la vita, ma appena questi accennò un sorriso per l’inganno, Ibrāhīm fermò questo gioco scellerato, ordinando al boia di ammazzare al-Ḥaḍramī a bastonate.

Ciò non pose fine alle rivolte, che ripresero nell’899, così, si decise di mandare in Sicilia un esercito di quindicimila uomini comandato dal figlio di Ibrāhīm,

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Abū al-‘Abbās ‘Abd Allāh. Questi, grazie alle sue capacità militari e all’esperienza, riuscì infine a riprendere Palermo, che era in mano ai rivoltosi comandati da un certo Rikmawayh (ibn al-Aṯīir in Amari, 1982: I, XXXV, 400-402; Amari, 1933: II, 81-89). La Sicilia fu riappacificata, peraltro senza le tipiche scelleratezze di Ibrāhīm; il figlio, infatti, era:

«Uomo erudito, savio, prode, uno dei più famosi cavalieri [del suo tempo], e con ciò capitano dotto e sperimentato, bell’ingegno, versato nelle scienze [legali] e non ignaro della dialettica» (ibn al-Aṯīir in Amari, 1982: I, XXXV, 403-404).

Rikmawayh e i suoi fuggirono, chi a Costantinopoli chi in altri luoghi

cristiani, per non poter essere mai raggiunti dall’ira di Ibrāhīm. Sedata la rivolta, ‘Abd Allāh passò a saccheggiare Catania, Messina e Reggio,

sbaragliando il debole, disunito e mal organizzato presidio imperiale calabrese. Infine, tornò a Palermo con un grande bottino da mandare in Africa e amministrò la Sicilia, con giustizia, fino alla primavera del 902 (ibn al-Aṯīir in Amari, 1982: I, XXXV, 402-403; ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 185-186; Amari,1933: I, 90-92).

IBRĀHĪM II E L’ULTIMA AVANZATA ARABA IN EUROPA Giunte al Califfo dall’Africa le lamentele degli avversari di Ibrāhīm per le sue vessazioni e crudeltà, da Bagdad giunse all’emiro l’ordine di abdicare in favore del figlio ‘Abd Allāh e poi di raggiungere la capitale. Così, Ibrāhīm ordinò al figlio di tornare in Africa e, nel mese di rabī‘ primo (13 febbraio – 14 marzo) del 902, consegnò a questi l’emirato. Con ciò bisogna precisare che questa accondiscendenza di Ibrāhīm pare fosse favorita dalla consapevolezza della grave situazione che si stava presentando in Africa a causa dell’alleanza tra la tribù berbera dei Kutāma e gli Ismailiti, che, in effetti, causarono la fine dell’emirato aglabide nel 909 (Amari, 1933: II, 95-96; Mayerà, 2017: 32-33). Ibrāhīm, invece, non accettò di dirigersi immediatamente a Bagdad, sostenendo che gli era impossibile attraversare l’Egitto a causa dei cattivi rapporti coi Banū Ṭūlūn, che amministravano questo paese. Dunque, Ibrāhīm, decise di avviarsi, sì, verso Bagdad, ma attraverso l’Italia, partendo quindi per una guerra santa che avrebbe portato, secondo i suoi progetti, alla conquista di Roma e Costantinopoli. Inoltre, indossò gli abiti del pellegrino, avendo come ultimo fine quello di giungere, dopo il successo della sua guerra santa, in pellegrinaggio alla Mecca. Così, radunato un esercito, organizzata una flotta e con un abbigliamento adatto alla sacralità dei suoi obiettivi, Ibrāhīm II partì per la Sicilia (Amari, 1933: II, 96-98).

Giunto a Palermo l’8 luglio 902, Ibrāhīm iniziò a reclutare anche qui soldati e marinai, tanto da formare un esercito veramente poderoso, col quale il 17 mosse su Taormina. Qui i difensori non attesero tra le mura, ma vennero fuori dalla

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città e affrontarono i musulmani in battaglia campale. Lo scontro fu durissimo e gli Africani furono sul punto di ritirarsi, quando Ibrāhīm stesso si mise alla testa dei suoi uomini e, recitando il Corano,33 affrontò i nemici corpo a corpo, infondendo nei suoi l’impeto che permise di mettere in fuga gli avversari. I Bizantini in parte fuggirono sui monti, in parte altrove, mentre alcuni tornarono in città per difendere la cittadella di Taormina, rifugiandosi quindi nel castello. I musulmani inseguirono i nemici fin sulle montagne e poi entrarono in città, dove, sempre grazie al carisma di Ibrāhīm, si arrampicarono su per la rocca, riuscendo infine a violare le fortificazioni e a conquistare quella che, dopo la presa di Siracusa era diventata la capitale della Sicilia bizantina. Infine, mantenendo fede alla sua rinomata ferocia, Ibrāhīm massacrò, senza distinzione, uomini, donne e bambini e, quando gli fu portato il vescovo, al rifiuto di convertirsi di questi, l’aglabide lo mandò al supplizio, gli fece strappare il cuore, fece scannare gli altri prigionieri sul suo cadavere, dando poi i corpi alle fiamme ed esclamando: «Così sia consumato chi mi resiste» (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 393-394; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 151; ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 187; Amari, 1933: II, 99-105).

Presa Taormina, Ibrāhīm mandò i suoi uomini contro le altre città della Sicilia ancora in mano ai Bizantini, i cittadini delle quali cercarono patti o di pagare la ǧizya, ma non ottennero altro che la vita; gli abitanti di Rametta furono anche costretti ad abbandonare la rocca e tutti i castelli furono smantellati. Dopo essere stato l’artefice della conquista di Siracusa, l’aglabide riuscì a conquistare anche il resto della Sicilia. A questo punto, Ibrāhīm giunse a Messina, ma vi restò solo due giorni, e il 26 di ramadan, 3 settembre, attraversò lo stretto.

Ibrāhīm attraversò tutta la Calabria centro-meridionale senza trovare ostacoli, giungendo nei pressi di Cosenza. Qui gli vennero incontro ambasciatori giunti da varie città per chiedere l’amān, che Ibrahīm non concesse, rispondendo:

«Tornate ai vostri e dite che prenderò io cura dell’Italia e che farò degli abitatori quel che mi parrà! Speran forse resistermi il regolo greco o il franco? Così fossermi attentati qui innanzi con tutti gli eserciti! Aspettatemi dunque nelle città vostre; m’aspetti Roma, la città del vecchiarello Piero, coi suoi soldati germanici; e poi verrà l’ora di Costantinopoli!» (Amari, 1933: II, 111). Dopo questo incontro, Ibrāhīm marciò su Cosenza, fece accampare l’esercito

sulle sponde del Crati o del Busento – al-Nuwayrī parla di un fiume, ma non specifica quale dei due fiumi che attraversano la città (al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 152) – e impose l’assedio.

A questo punto, ogni speranza di salvare l’Italia dall’invasione sembrava perduta. L’Imperatore Leone VI aveva rinunciato a mandare truppe in Calabria, ma, vista la chiara intenzione di Ibrāhīm di conquistare Costantinopoli, preferì

33 «Per i miscredenti saranno tagliate vesti di fuoco, sarà versata loro sulla testa acqua bollente che corrode le viscere e la pelle, verranno colpiti con fruste di ferro» (Ventura, 2010: 22: 19, 20, 21).

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usare l’esercito per prepararsi alla difesa della capitale imperiale. D’altra parte, nessun ducato o città del sud d’Italia poteva immaginare di affrontare l’esercito musulmano. Dunque, non restava che barricarsi nelle città, aspettando l’arrivo di Ibrāhīm e cercando di non essere travolti, seppur con scarse speranze. Addirittura, il console, il vescovo e gli ottimati di Napoli giunsero alla decisione di smantellare il Castel Lucullano, diventato in quegli anni un monastero, per preservarne le ricchezze, salvare le spoglie di San Severino e trasportare tutto nella città partenopea. Infine, ad aggravare il terrore ci pensò la caduta di una moltitudine di stelle la notte del 18 ottobre e solo San Severino,34 secondo Giovanni Diacono apparso in sogno a un bambino, riuscì a dare fiducia ai napoletani, annunciando che li avrebbe protetti lui dal cielo.

Ibrāhīm non partecipò all’assedio perché ammalato e mandò, così, i suoi figli, mentre altre truppe furono inviate a saccheggiare il contado della città. Per più di 20 giorni si combatté intorno alle mura della città e si faceva sentire tra le truppe la mancanza del carisma e della volontà del comandante. Intanto, la malattia si aggravò e Ibrāhīm decise di ritirarsi da solo in una chiesetta nei dintorni di Cosenza – San Michele secondo Giovanni Diacono, San Pancrazio secondo la cronaca di Bari (Amari, 1933: II, 115 nota 1). Dice Giovanni Diacono che un prigioniero fuggito dal campo dell’esercito musulmano raccontò che, in questa chiesa, durante il sonno, comparve a Ibrāhīm in sogno un vecchio maestoso, che, minacciato di morte dal tiranno, gli scagliò il bastone contro. Il giorno dopo Ibrāhīm chiese ai prigionieri cristiani chi fosse questo vecchio e scoprì essere San Pietro. Da quel giorno la malattia del comandante aglabide si aggravò, fino a portarlo alla morte (Giovanni Diacono, 2007: 85-86). Secondo altri furono le preghiere di Sant’Elia a far ammalare Ibrāhīm. Fatto sta che, il 23 ottobre, Ibrāhīm morì.

I Cosentini, non sapendo della morte di Ibrāhīm, finirono comunque per arrendersi, chiedendo l’amān, che gli fu concesso, con il pagamento della ǧizya. Ma, il figlio di Ibrāhīm, Ziyādat Allāh, che intanto aveva preso il posto del padre, decise comunque di tornare in Africa. Così, giunte le truppe mandate a depredare i dintorni di Cosenza, l’esercito aglabide fece ritorno a Palermo (ibn al-Aṯīr in Amari, 1982: I, XXXV, 394-396; al-Nuwayrī in Amari, 1982: II, XLVIII, 152-153; ibn Ḫaldūn in Amari, 1982: II, L, 188; Loiacono, 2017: 95-100). Ibrāhīm II fu sepolto a Palermo, secondo al-Nuwayrī e ibn Ḫaldūn, mentre ibn al-Aṯīr scrisse che il corpo fu portato ad al-Qayrawān.

CONCLUSIONI L’emirato aglabide da lì a pochi anni cadde sotto i colpi del nascente Califfato ismailita dei Fatimidi, ma gli Arabi continuarono a regnare in Sicilia per altri 150

34 Un tedesco, addirittura, pensò che il cattivo presagio riguardasse non solo l’Italia, essendo stato visto anche altrove (Amari, 1933: II, 113).

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anni e in Spagna per molti altri secoli. Nonostante ciò, l’impresa di Ibrāhīm II fu l’ultima avanzata araba in Italia e in Europa e la morte dell’emiro aglabide a Cosenza segnò il limite più prossimo al cuore della civiltà cristiana mai raggiunto dall’Islam, nonché la fine del sogno di ibn Nuṣayr di vendicare la semita Cartagine.35

In Oriente iniziavano ad avanzare le schiatte turche e presto i loro imperi si sarebbero affacciati sul Mediterraneo. La lenta decadenza del Califfato Arabo avrebbe lasciato il posto a questi popoli centro-asiatici, i quali, abbracciato l’Islam, tornarono a minacciare le genti cristiane. I turchi abbatterono l’Impero Bizantino, sottomisero gran parte dell’Europa e assediarono Vienna, ma nessun comandante musulmano giunse mai più così vicino alla conquista di Roma come Ibrāhīm II.

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OSTROGORSKY, GEORG. 1993. Storia dell’impero bizantino. Torino: Einaudi. VENTURA, ALBERTO (a cura di). 2010. Il Corano. Milano: Mondadori.

35 Semita come gli Arabi. La conquista di Roma da parte degli Arabi avrebbe vendicato la sconfitta dell’Impero Cartaginese. Vedi infra, 4 nota 5.

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L’AUTORE Gustavo Mayerà è dottore di ricerca con una tesi dal titolo: «La scienza delle lettere (‘ilm al-ḥurūf) nell’Islam. Dalla tradizione classica all’Unmūḏaǧ al-farīd di Aḥmad al-‘Alawī (1869-1934)». Inoltre, è cultore della materia e membro di «Occhialì. Laboratorio sul Mediterraneo islamico» e del comitato scientifico della presente rivista presso l’Università della Calabria. I suoi interessi di ricerca riguardano il sufismo, l’ismailismo, la scienza delle lettere, il tempo e la storia dei rapporti tra Islam mediterraneo e Italia meridionale. E-mail: [email protected]

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SEZIONE STUDI E RICERCHE

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Tempo e ritualità nell’Islam Gianfranco Bria

Abstract: This article aims to analyse the relationship between time and rituality in Islam according to a multi-analytical perspective. In the Islamic tradition, the time has its own specificity that was shaped by the strict monotheism of the Muhammad’s revelation which involved a non-linear and personalistic conception. It inevitably framed the Islamic ritualistic dimension that maintains and renews the basic social structures managing the tradition. Key Words: Islam – Rituals – Time – Tradition Parole chiave: Islam – Rituali – Tempo – Tradizione

*** INTRODUZIONE Nella trattazione del tempo all’interno di un dato sistema religioso, spesso si tralascia di come i rituali orientino il flusso e i cicli della vita delle persone. D’altra parte, diversi studi antropologici o archeologi hanno frettolosamente generalizzato, l’universalità del rapporto tra tempo e ritualità, senza dunque, considerare la specificità di entrambe le variabili. Per ovviare a ciò, questo articolo si propone di analizzare il rapporto tra tempo e ritualità nell’Islam secondo una prospettiva multi-analitica, prendendo in considerazione la diversa letteratura che è stata prodotta su tali tematiche. Tale lavoro non è tra i più agevoli, in quanto manca attualmente una trattazione univoca sull’argomento; tuttavia, ciò lascia spazio a successivi e ulteriori approfondimenti scientifici, che potrebbero, in questo senso, ispirare a delle ricerche da effettuare sul campo.

Questo lavoro presuppone che il tempo sia, in ultima analisi, un prodotto umano che conserva una certa universalità. Difatti, sin dall’antichità, il tempo è stato oggetto di riflessioni e speculazioni umane. Basti pensare alla trattazione dello stesso da parte di Aristotele, Plotino o Platone che hanno così influenzato le successive concezioni temporali umane. D’altronde, nell’Islam il tempo assume una propria specificità data dal radicale monoteismo islamico che comporta una concezione non lineare e personalistica: “Dio è il tempo” (Ventura, 1999: 33). Questa concezione si riverbera inevitabilmente sulla dimensione rituale che secondo Bloch (1977), ha il compito di mantenere e rinnovare le strutture sociali basiche attraverso la rievocazione e parallelamente la normazione del tempo. Partendo da questi presupposti, la prima parte di questo lavoro analizzerà i

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rituali islamici e le loro specificità, mentre la seconda si dedicherà alla concezione islamica del tempo per poi dedicarsi ai rapporti intrinseci tra le due variabili.

I RITUALI NELL’ISLAM I musulmani, come gli ebrei, tendono a esprimere la loro appartenenza religiosa principalmente attraverso l’esecuzione dei rituali religiosi che sono regolarmente ripetuti secondo azioni e parole prescritte (Graham, 1983). Secondo Hawting (2006), i cristiani esplicitano la loro identità religiosa principalmente attraverso l’accettazione delle credenze religiose. Questa due affermazioni pongono inevitabilmente la questione sul rapporto tra ortoprassi e ortodossia nell’Islam e in altre tradizioni religiose, che, date le dovute generalizzazioni, mantengono una certa validità. Purtuttavia, diversi autori sostengono come l’Islam abbia un proprio “credo” ortodosso al pari del Cristianesimo, che spesso sfugge allo sguardo laico e clericizzato dell’osservatore occidentale. Secondo Douglas (1970), nelle società europee è diffuso un certo atteggiamento anti-ritualistico che porterebbe a screditare e svalutare simbolicamente la portata simbolica e sociale dei rituali all’interno di una data comunità.

La tradizione islamica non ha un termine che possa corrispondere così facilmente al termine italiano di “rituale” (Hawting, 2006). Comunemente si usa la parola ‘ibādāt, che letteralmente significa atto di servizio, cioè «quelle azioni rituali che i credenti, singolarmente o collettivamente, sono tenuti ad adempiere nel loro rapporto con Dio e che manifestano la servitù degli uomini nei confronti del loro Signore» (Ventura, 2000: 119). La radice del termine, ‘abd, che significa “servo”, esprime la doverosità servizievole a cui il fedele si sottopone a Dio. Un altro termine nusuk significa letteralmente “rito”, che tende a indicare principalmente il pellegrinaggio a Mecca (ḥajj), o sacrifici di animali (qūrbān), ma poco si adatta semanticamente alla definizione dei rituali di purificazione o preghiera. Nell’arabo moderno, si usa spesso ṭuqūs, che tuttavia esprime il concetto plurale di rituale in connessione alla differenza tra ortoprassi islamica e ortodossia cristiana (Hawting, 2006). Di conseguenza, manca nel mondo islamico un termine arabo che possa definire in senso stretto il termine di rituale, come inteso in Occidente, probabilmente per una diversa concezione dell’atto, oppure, perché i musulmani non hanno mai concettualizzato scientificamente e astrattamente tale concetto.

Queste difficoltà semantiche ci invitano, pertanto, a approfondire ulteriormente lo studio dei rituali all’interno dell’Islam, così come anche altri studiosi hanno effettuato in precedenza. Tuttavia, molti di questi studi hanno sovente presentato alcuni limiti di natura metodologica che rischiano di non coglierne l’essenza in «quanto espressione sensibile e centrale della fede musulmana» (Graham 1983: 124). I primi studi di “Orientalistica” si sono, infatti, maggiormente concentrati sulla comparazione dei rituali islamici con altri non-

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islamici usando spesso delle categorie analitiche positiviste o etnocentriche. D’altra parte, gli studi etnografici hanno dedicato maggiore attenzione sugli aspetti folkloristici o popolari, peccando, in questo senso, di una visione eccessivamente esotica dell’Islam. A lungo gli studiosi non hanno dunque considerato la centralità dei rituali islamici nella determinazione del credo e della pietà musulmana.

Per Graham (1983), è infatti, impossibile separare i rituali dalle credenze religiose e dall’identità islamica, in quanto essi difficilmente possono essere “indifferenti” a un musulmano. L’autore presuppone, infatti, che i rituali siano «una simbolica articolazione degli ideali e dei valori musulmani, un tipo di discorso nel quale è possibile vedere i modi in cui l’Islam si articola agli occhi dei musulmani e parla alle loro menti» (Graham 1983: 128). In sostanza, i rituali islamici non sarebbero il mero risultato dell’intreccio tra semantica locale e substrato culturale, ma avrebbero nell’Islam una propria caratterizzazione che deriva direttamente dalla rivelazione muhammeddiana. Questo tipo di approccio che suggerisce di guardare i rituali con gli occhi dei musulmani (“mettersi nei panni”)1 e di decostruire lo sguardo occidentalistico, può cadere nell’errore opposto, cioè di considerare i rituali da una mera prospettiva immanentista. In altre parole, si rischia di concepire gli schemi cognitivi e le credenze dei musulmani come totalmente ancorate ai rituali, tralasciando quindi una enorme quantità di studi che sottolinea un certo dualismo tra la capacità impositiva dell’azione rituale e l’agire strategico degli individui-partecipanti2.

Questo approccio, tuttavia, sottolinea la difficolta di raggruppare le variegate tipologie di rituali presenti nell’Islam sotto un unico ombrello. Graham (1983) individua tre diverse tipologie di rituali nell’ampio spettro della pietà musulmana. La prima categoria è composta dai rituali formali, all’interno dei quali rientrano alcuni dei pilastri dell’Islam e gli atti direttamente connessi (Ṭahāra3, Ṣalāt4, Ṣawm Ramaḍān 5, Ḥajj6) e i riti di passaggio (‘Aqīqa7, Khitān/Khafḍ8, [Nikāḥ, ‘Urs], Janāza9); 1 Secondo Clifford Geertz “La ricerca etnografica in termini di esperienza personale significa mettersi nei panni di altri. Cf. Geertz, Clifford, 1993, The interpretation of Cultures, Basic Book, New York. 2 Diversi studi hanno messo in luce l’agire strategico dei partecipanti all’interno dei rituali, vedi: Csordas, J. Thomas, 1997. Language, Charisma, and Creativity. The Ritual Life of a Religious Movement, University of California Press, Berkley; Lawson, E. Thomas, Mccauley, N. Robert, 1990. Rethinking Religion. Connecting Cognition and culture, Cambridge University Press, Cambridge; Whitehouse, Harvey, 2004. Modes of Religiosity. A cognitive theory of Religious Transmission, Altamira Press. 3 La ṭahāra, "purità rituale", è lo stato di purità del corpo che, accompagnato da quello del proprio pensiero, si consegue con particolari lavacri: wuḍūʾ o ghusl. 4 La ṣalāt è la preghiera islamica che può essere canonica e quella volontaria (duʿāʾ). L'Islam esige che la ṣalāt canonica sia obbligatoria per chi sia pubere, sano di corpo e di mente e non ne sia oggettivamente impedito per cinque volte al giorno: all'alba (ṣalāt al-ṣubḥ o al-fajr), a mezzogiorno (ṣalāt al-ẓuhr), al pomeriggio (ṣalāt al-ʿaṣr), al tramonto (ṣalāt al-maghrib) e di notte (ṣalāt al-ʿishà), in tempi precisi, annunziati dall'adhān, l'appello alla preghiera cioè lanciato dal muezzin (muʾadhdhin) dall'alto dei minareti. La preghiera deve essere effettuata rivolgendosi verso La Mecca, in particolare verso la Kaʿba. 5 Il ṣawm è indica il digiuno canonico che ogni musulmano pubere e in buone condizioni psicofisiche deve compiere lungo tutto l'arco dei 30 giorni del mese di Ramaḍān. 6 L’Ḥajj è il pellegrinaggio islamico canonico al Masjid al-Ḥarām della Mecca e nelle sue prossimità. Esso prevede diverse riti al proprio interno.

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la seconda categoria è formata dai rituali devozionali cioè la Qirā’at10 (Tilāwa), il Dhikr11, la Samā‘12, la Ziyāra13 e le invocazioni Tasmiya14, Taṣliya15, Taslīm16, Isti‘ādha17; infine, la terza categoria comprende le celebrazioni periodiche: mawālid an-Nabī18, Lailat al-mi‘rāj19, mawālid dei santi, Majālis20 [sing. majlis ] degli imam, Āshūrā21, Lailat al-Qadr22 e altri feste come Lailat al-Barā’a23. Molti scienziati sociali hanno concentrato i loro studi soprattutto sulle due ultime categorie che offrono un maggiore interesse dal punto di vista antropologico e sociologico. Tuttavia, questi lavori non sono riusciti quasi mai a mettere in luce le caratteristiche uniche e peculiari della tradizione ritualistica islamica.

I RITUALI “UFFICIALI” Hawting (2006) che il credo islamico sia intrinsecamente legato a quelli che definisce i rituali “ufficiali”, che derivano e sono regolati dalla legge islamica, la sharī‘a, della recitazione del Corano e di alcune formule invocative che vengono effettuate quotidianamente da alcuni fedeli. E’ importante precisare che non tutti i pilastri dell’Islam sono considerati dei rituali, in quanto la professione di fede (shahādah) e l’elemosina (zakāt) presumono dei precetti piuttosto che delle pratiche 7 La Aqīqa è il sacrificio di un animale nel settimo giorno dalla nascita di un neonato, di solito una pecora. 8 Si tratta della circoncisione maschile nell’Islam. 9 La Janāza indica il funerale islamico. 10 La Qirā’at è terminologicamente il metodo di recitazione di un testo sacro, solitamente il Corano. 11 Il dhikr è un atto devozionale, tipico del Sufismo, che prevede il ricordo di Allah attraverso la ripetizione di una determinata formula che riporta i suoi diversi nomi in maniera silente o udibile. 12 La samā’ era originariamente una pratica rituale di ascolto della lettura del Corano, a cui si affiancò la lettura di componimenti poetici di genere determinato, accompagnati da specifici repertori musicali, connessi con particolari strumenti e dalla danza. 13 La ziyāra in arabo "visita", è l'atto devozionale con cui i devoti musulmani si recano in una località legata alla storia sacra islamica. 14 Chiamata anche Basmala, essa suole indicare la formula araba Bi-smi 'llāhi al-Rahmāni al-Rahīmi («In nome di Dio, Clemente, Misericordioso») con cui si aprono tutte le sure del Corano salvo la sura IX. 15 L'invocazione della benedizione di Dio sul profeta Maometto. 16 Taslīm è la formula conclusiva della preghiera islamica. Essa recita: al-Salāmu ʿalaykum wa-raḥmatu Llāhi wa-barakātuhu ossia "La salvezza [di Allah], la Sua misericordia e le Sue benedizioni siano su di voi". 17 Formula d’invocazione della protezione di Dio contro Satana. 18 Ricorrenza che celebra la nascita del Profeta nel 12 del mese lunare di Rabi' al-awwal. 19 Occorrenza che celebra il miracoloso viaggio notturno del profeta Maometto in sella a Buraq (isrāʾ) e della sua successiva ascesa al Cielo (miʿrāj), con la visione delle pene infernali e delle delizie paradisiache riservate a dannati e beati, fino alla finale ascesa e accostamento ad Allah, con relativa Sua "visione beatifica", impossibile agli occhi di qualsiasi uomo per l'infinità che è uno degli attributi divini. 20 Per gli sciiti, tale termine indica il raduno dei componenti della famiglia del Profeta Ahl al-Bayt. 21 La ‘Āshūrā' sarebbe stata istituita dal profeta Mohammed, prima dell'introduzione del digiuno di Ramaḍān, e consisteva in un periodo di digiuno di due giorni, il 9 e il 10 di muharram sull’esempio ebraico dello Yom Kippur. Tale festività è un atto meritorio ma non obbligatorio per i sunniti. Mentre per gli sciiti la Āshūrā' celebra il martirio dell'Imām al-Husayn ibn Ali e di 72 suoi seguaci ad opera delle truppe del califfo omayyade Yazid I a Karbalā’ in Iraq del quarantesimo anno dall’Egira. 22 Si tratta della notte durante la quale i primi versi del Corano furono rivelati al Profeta. 23 È considera la notte in cui sono decise le sorti degli uomini per l’anno a venire. Solitamente è celebrata tra il 15 e il 16 Sha’ban. Per gli sciiti, tale ricorrenza celebra l’anniversario della nascita di al-Mahdi.

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specifiche. I rituali ufficiali differiscono da altri, come l’anniversario della nascita del Profeta Muhammed (mawālid), che incorporano molte variazioni culturali e non sono strettamente legiferati dalle fonti scritte della legge islamica e dalle raccolte dei detti del Profeta, gli ḥadīths. Quest’ultima tipologia di rituali possono anche essere anche più significativi di altri nella vita religiosa quotidiana di alcuni fedeli; purtuttavia, i rituali ufficiali rappresentano una costante di tutti i musulmani, in quanto prescindono dalle variazioni confessionali, culturali e teologiche (Powers, 2006), non ultima la discrasia, evidenziata soprattutto in epoca moderna, tra letteralismo religioso di stampo salafita, e l’Islam “popolare” e mistico delle confraternite sufi. Anche tra queste due anime dell’Islam spesso considerate inconciliabili, i pilastri (arkān) dell’Islam rappresentano una costante imprescindibile, in quanto la loro pratica quotidiana è prescritta a tutti i musulmani. In questo modo, questi rituali sono distintivi della vita rituale dei musulmani e degli orientamenti ritualistici dell’Islam (Graham, 1983): la vita quotidiana della comunità dei fedeli, la umma, ruota attorno al ciclo ripetuto di ṭahāra, ṣalāt, ṣawm, ḥajj, e qirā’a.

La letteratura giuridica e teologica musulmana sostiene i rituali formali siano parte dalla rivelazione, da cui ne deriva il carattere prescrittivo (Hawting, 2006). Per quanto riguarda il digiuno del ramaḍān, l’ḥajj e la zakāt, ci sono diversi passi del Corano che ne comandano il rispetto. Il passaggio sul digiuno è il più lungo e dettagliato (2: 183-7); l’ḥajj è solitamente associato con i versi 2:196 e il 3:97; infine, la zakāt con il 2:43. L’obbligo della preghiera non è formulato esplicitamente nel Corano, quanto piuttosto è esplicata (2:142-5) la direzione verso cui pregare, cioè la Ka’ba a Mecca. Tuttavia, nessuno di questi passi coranici spiega dettagliatamente come svolgere l’azione rituale. Molti dettagli che oggi sono prescritti dalla Sharī’a non sono menzionati nelle scritture, o addirittura sembrano lasciare qualche ambiguità rispetto ad alcuni passi coranici, come ad esempio nel caso del numero di preghiere giornaliere.

La teoria giuridica musulmana ha tuttavia inteso che la rivelazione non fosse confinata al Corano, ma anche alla sunna, che riporta i detti e le gesta del Profetta sotto forma di ḥadīth (notizia) che sono stati trasmessi oralmente dai suoi Compagni e sistematicamente raccolti in forma scritta da studiosi musulmani come al-Bukhārī24 (Haarmann, 2006). Considerata dunque l’indefinitezza del Corano, la sunna ha pari importanza nella definizione dei rituali islamici. Molti dettagli sull’esecuzione dei rituali derivano dagli ḥadīth basati sulle gesta di Muḥammad, come ad esempio per il pellegrinaggio a Mecca. Il riferimento alla rivelazione indica, in ogni caso, che i rituali fondamentali islamici siano stati prescritti e richiesti da Dio che ha guidato e ispirato il Profeta. Questi atti, dunque, rappresentano degli obblighi stabiliti dalla legge divina e in questo senso non richiedono ulteriori esplicazioni. Ciò non ha impedito ai musulmani di

24 Bukhari (Bukhara 810 - 870) fu il più famoso e autorevole tradizionista musulmano, autore della 'al-Jāmiʿ al-Ṣaḥīḥ ("La sana raccolta", "La raccolta corretta"), una delle principali raccolte di detti e opere del Profeta.

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esplorare e approfondire in senso esoterico ed estetico il significato di questi rituali. Tuttavia, il principale proposito degli ‘ibādāt rimane l’obbedienza al volere di Dio, sotto forma di legge (ivi). Questo aspetto sottolinea direttamente il carattere prescrittivo che assumono i rituali religiosi, la cui pratica è imposta da una tradizione avente potere impositivo all’interno di un dato sistema sociale e culturale, che tuttavia lascia un certo spazio interpretativo e “strategico” agli attori che vi partecipano.

D’altra parte, questo aspetto sottolinea il legame vincolante dei rituali islamici con la tradizione, data dalla rivelazione muhammediana e dei precedenti Profeti dell’Islam come Adamo, Abramo, Mosé e Gesù per citarne alcuni. L’autorevolezza della tradizione è solo una delle tre caratteristiche che emergono dall’analisi ultima dei rituali islamici. La seconda concerne la centralità dell’idea di peccato, espiazione e pentimento in particolare, ma non solo, nei casi del digiuno e del pellegrinaggio a Mecca. La terza caratteristica, legata alla prima, riguarda la carica evocativa e commemorativa dei rituali che ruota attorno a Muhammed e agli altri Profeti, in quanto modelli esplicativi degli atti rituali. In questo senso, l’ḥajj esprime l’intreccio della rivelazione di Muhammed con la commemorazione di Adamo, quando nel decimo giorno è sacrificato un ovino per rievocarne il ricordo. Anche il mese del digiuno sembra avere una forte carica evocativa, in quanto proprio come il Corano (2:185) riferisce: «É nel mese di Ramaḍān che abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli uomini e prova di retta direzione e distinzione».

IL TEMPO NELL’ISLAM Il carattere commemorativo, che sembrerebbe assumere una valenza variabile a seconda dell’atto praticato, mette in luce il fondamento del potere evocativo e prescrittivo dei rituali, cioè il tempo. Il legame tra rituali e tempo, tuttavia, si declina in maniere diverse e secondo prospettive differenti (Fogelin, 2007). Decine di studiosi hanno cercato di indagare la dimensione del tempo nei rituali, purtroppo non sempre in maniera esaustiva (Bradley, 1991). Uno dei primi è stato Mircea Eliade (1948) che ha sottolineato, dal punto di vista fenomenologico, la portata simbolica di alcune ierofanie che si ripeterono costantemente nel tempo e nello spazio. In questo senso, i rituali avrebbero lo scopo di ristabilire il legame con il Divino sancito e condensato dalle precedenti manifestazioni sacre. Tuttavia, prima di cercare di stabilire un legame tra rituali e tempo, è necessario comprendere la dimensione stessa del tempo e come essa sia concepita all’interno di un dato sistema religioso o culturale. In Occidente, ad esempio, Shanks e Tilley (1987) sostengono che l’attuale concezione del tempo sia dominata dai cronologisti che hanno imposto una percezione materiale e lineare dello stesso. Questa affermazione fa eco a Levi Strauss (1966: 258) secondo cui «non c’è storia

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senza date» che, ovviamente, pone l’attenzione sul dualismo tra concezione del tempo ideata e usata dagli studi cronologici e l’esperienza percettiva temporale delle persone che vivono in un dato sistema sociale. La differenza è, dunque, tra tempo umano o sostanziale e tempo astratto o cronologico. Il tempo umano consiste nell’accumulo di diversi momenti ricorrenti marcati dall’esperienza umana; mentre la sua variante astratta è misurata e spezzata in segmenti uguali. Questo dualismo interpretativo fa da sfondo al rapporto tra il tempo meccanico ed eterno della teologia evoluzionista darwiniana e l’idea bergorsiana del tempo creativo e cumulato (Ingold, 1986).

Nell’Islam vi è un simile dualismo tra l’idea islamica del tempo e quella preislamica dalle quali emergono due percezioni opposte. Secondo Ventura (1999), entrambe considerano il tempo come delle fonti universali, ma mentre la concezione pre-islamica presuppone il fluire ineluttabile e impersonale del destino, nell’Islam è sottolineato l’agire creativo e causale della Provvidenza divina. In quest’ultima accezione, il tempo è «il fondamento della seriazione successiva» (ivi: 35); d’altra parte, il tempo assume il senso indefinito e invariabile del fatum. Questa netta distinzione tra eternità e divenire ci aiuta a comprendere quegli aspetti della tradizione islamica, compresa la ritualità, riferiti al rapporto tra la dimensione trascendente e immutabile della Realtà divina e i “movimenti” dell’universo manifestato (ivi). In questo senso, l’adozione del calendario lunare ha portato a non percepire il tempo in maniera lineare e ineluttabile, ma come l’espressione di un principio primordiale immutabile che non partecipa allo scorrere dei giorni, ma vi si manifesta in modo ciclico e intermittente (ivi). Il riferimento temporale a una realtà divina primordiale sottolinea un saliente carattere dogmatico islamico, cioè che l’Islam si proclami la riattualizzazione della religione primordiale dell’umanità (al-Islām dīn al-fitra). D’altra parte, secondo Ibn ʿArabī 25, le vicende terrene non sono lontane da questa speculazione del tempo, in quanto rappresentano la materializzazione di principi eterni ed immutabili che si manifestano nel tempo, cambiandone il corso e la qualità (Bowering, 2012)26: da qui, la distinzione tra mondo non manifestato e il mondo sensibile, tra i due nome divini dell’Interiore (al-bātin) e dell’Esteriore (al-zāhir).

Questa concezione non lineare del tempo non è riflessa solo nell’ordine calendariale, ma anche nei cicli temporali più ristretti e nelle pratiche rituali. Proprio in quest’ultimo segmento, le norme giurisprudenziali sottolineano una visione non-lineare del tempo (Ventura, 1999). Ad esempio, le cinque preghiere debbono essere osservate in istanti (awqāt o mīqāt) che variano a seconda della posizione del sole, rendendo così l’atto come unico e irripetibile. Vi è solo un lasso di tempo (ādā) giornalmente variabile, durante il quale è possibile praticare la preghiera. Passato tale momento, la preghiera diviene passata e perde il suo 25 Muhammad ibn ʿAlī ibn Muhammad ibn al-ʿArabī, più noto come Ibn ʿArabī, (Murcia 1165 – Damasco 1240) è stato un filosofo, mistico e poeta arabo. La sua opere hanno influenzato molti intellettuali e mistici sia orientali sia occidentali. 26 Sulla concezione di Ibn ʿArabī sul tempo vedi Bowering, Gerhard, 2012, “Ibn al-’Arabi’s Concept of Time,” Ishraq: Islamic Philosophy Yearbook Russian Academy of Sciences 3.

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reale valore. Anche nell’arco di questo istante, vi è un momento durante il quale è più meritorio eseguire l’atto. Ciò sottolinea la diversificazione qualitativa del tempo e allo stesso tempo come i precetti rituali siano svincolati dal meccanico corso del sole che è esso stesso soggetto all’arbitrio divino (ivi). Come diverse sono le interdizioni preposte a qualsiasi forma di culto solare: proibizione di pregare tra l’aurora e il levarsi del sole, proibizione di compiere atti tra la preghiera del pomeriggio e quella della sera; divieto di effettuare, durante l’ḥajj, il deflusso prima del tramonto.

L’individuazione dell’inizio del mese lunare è inoltre centrale della distinzione di alcuni precetti islamici, come l’individuazione dell’inizio del mese lunare o del mese aperto al pellegrinaggio. Il mese inizia legalmente dopo l’osservazione diretta del primo crescente della nuova lunazione, da parte di uno o più testimoni dell’istante in quanto il tempo non è lineare e prevedibile come un calcolo aritmetico, ma è il «libero manifestarsi di Dio che deve essere di volta in volta certificato da Dio» (ivi: 38). A tal fine, Shāh Walī Allāh di Delhi27 sosteneva, in maniera alquanto rigorosa, che la conoscenza del significato profondo dei tempi rituali sia riservata solo a Dio. Tuttavia, il Profeta nei suoi insegnamenti ci rivela che la massima accettazione divina sia negli atti di “obbedienza” umana, che rivela l’esistenza dei “segreti degli istanti rituali”. Questi non possono essere compresi durante l’osservazione materiale degli ordini astrali, ma solo attraverso “un’intuizione intima del cuore” (ivi). Da questo assoluto divino i Profeti hanno attinto la conoscenza di questi segreti, stabilendo poi i tempi delle osservanze rituali.

Vediamo dunque come ritualità e tempo siano intimamente legati. Il tempo in quanto Dio, riflette la propria assolutezza sui tempi rituali, che gli uomini sono tenuti ad osservare in quanto espressione della volontà dell’eterna essenza divina (Bowering, 1997). Ne consegue un’influenza enorme nei confronti delle concezioni cognitive e semantiche del tempo dei fedeli; basti pensare alla variabilità delle preghiere giornaliere che cambiano di volta in volta, oppure alla discrasia tra stagioni e mese lunari, soprattutto quelli marcati da una particolare ritualità, come il digiuno o il pellegrinaggio. È, dunque, il tempo a dare sostanza a due dei principali attributi dei rituali islamici che abbiamo analizzato prima, cioè la prescrittività e la rievocazione. Questi due caratteri sono due facce della stessa medaglia: il rispetto, anzi l’abbandono all’obbedienza degli atti rituali assume, infatti, una forte connotazione rievocativa, in quanto aiuta a stabilire un legame con il Divino. Questa dimensione rituale è richiamata ancor più fortemente nei rituali sufi, basti pensare al dhīkr (in arabo ricordo, invocazione), la cui funzione è proprio quella di «svegliare l’amnesia che affligge gli uomini, rievocando a più riprese il nome di Dio» (Geoffroy, 2006: 248). Il Corano in più 27 Quṭb al-Dīn Aḥmad Walī Allāh ibn ʿAbd al-Raḥīm al-ʿUmarī al-Dihlawī (Delhi 1703 -1762) è stato un teologo e mistico musulmano indiano hanafita. Comunemente noto come Shāh Walī Allāh, è stato uno studioso musulmano di Delhi conoscitore di ḥadīth e un importante rinnovatore del sapere e dei costumi islamici.

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passi, mette in guardia gli uomini contro l’amnesia che li affligge, «ricordatevi di Me, e Io mi ricorderò di voi» (2:152). Il dhīkr assegna dunque la ripetizione intonata o silenziosa dei nomi di Dio come formula evocativo del Divino, un rituale che tramandato sin dai tempi del Profeta cerca di impregnarsi degli attributi di Dio, fino ad annichilirsi in Lui (Schimmel, 1970).

TEMPO RITUALE E TEMPO MONDANO In questa continua dialettica tra tempo e ritualità si innesta con forza il concetto o l’idea stessa di “tradizione”, che fornisce all’atto il prestigio necessario ad assicurarne il rispetto (Hobsbawm, Ranger, 1983). Diversi antropologi nello studio dei rituali hanno messo in luce quest’aspetto, sottolineando come, pur mutando, nei rituali rimane un costante riferimento al passato e a un agente trascendente, procreatore di Verità assolute (Lawson, Mccauley, 2004). Maurice Bloch (1974, 1977, 1984) si è occupato in diverse occasioni del tempo rituale, mettendo in luce la natura distinta e distintiva dell’azione rituale che presenta una diversa formula comunicativa rispetto alle pratiche quotidiane. Per Bloch (1974, 1977), infatti, i rituali comunicano attraverso dei media altamente specializzati che seguono una serie di elementi pratici e semantici altamente formalizzati che sono soggetti a variazioni minime. Ne consegue, secondo l’antropologo, una duplice concezione del tempo: una mondana che regola il fluire delle pratiche quotidiane; un’altra “rituale” che fonde il passato nel presente poiché i rituali esprimono e riproducono le strutture basiche sociali che esulano dal passare del tempo e mutano lentamente (ivi). I rituali fonderebbero dunque quelle che Sahlins (1985) definisce le strutture sociali prescrittive le quali regolano il campo normativo e semantico delle azioni e delle interazioni possibili delle persone.

Tuttavia, il tratto saliente della proposta di Bloch sta nella capacità dell’azione altamente formalizzata dei rituali di creare e mantenere la tradizione che contemporaneamente fonda l’autorità tradizionale sui cui è basato il prestigio del passato. Ciò ci aiuta a comprendere la capacità dei rituali di rievocare e allo stesso tempo di mantenere costante il riferimento al passato che diviene così “tradizione”. D’altra parte, Bell (2004) riconosce che pur mantenendo costante il riferimento al passato-tradizione, i rituali possono essere rinegoziati e contestati, dunque sono soggetti a mutazione nel corso del tempo. Basti pensare a come l’ ̒āshūrā’ nel sciismo sia stata reinventata e rielaborata semanticamente e praticamente nel corso della storia, fino a diventare uno dei rituali più caratterizzanti e fondativi della stessa identità sciita, in particolare dopo l’ascesa della dinastia safavide28 in Persia29. Purtuttavia, il riferimento storico costante del 28 I Safavidi sono stati una dinastia-confraternita mistica di lingua e cultura turca. Originari del Kurdistan persiano, governarono la Persia tra il 1501 e il 1736, imponendo con la forza lo sciismo quale religione di Stato. 29 Vedi: Yitzhak, Nakash, 1993. An Attempt to Trace the Origin of the Rituals of ʿĀshūrā’, Die Welt des Islams,

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rituale è rimasta comunque la tragedia di Kerbela quando fu ucciso Ḥusayn, il “martire” dalla pietà sciita.

INNOVAZIONE E TRADIZIONE RITUALE. Questo esempio mostra, dunque, come i rituali siano il ponte tra la tradizione e l’innovazione in quanto la tradizione, ovviamente, non viene creata una volta e poi lasciata immutabile e monolitica. La tradizione esiste perché è «costantemente prodotta e riprodotta, rielaborata per un profilo chiaro e ammorbidita per assorbire elementi rivitalizzanti» (Bell, 2004: 122). Difatti, l’introduzione, la modifica e la rimozione di elementi semantici e discorsivi nei rituali viene sempre intesa come parte della tradizione. D’altra parte, il rapporto tra innovazione e tradizione, ci porta a riflettere sul rapporto del tempo rituale con il tempo mondano e i suoi mutamenti. I rituali, infatti, segnano in maniera perentoria l’incedere della vita quotidiana, rappresentano delle tappe o dei punti attorno ai quali si forgiano le visioni del mondo e l’ethos delle persone. Il primo studioso a dedicare una certa attenzione su questa trattazione del tempo è stato sicuramente Arnold Van Gennep (2012), a cui dobbiamo la fortunata espressione di “riti di passaggio” che esprimono il passaggio da uno status socio-culturale a un altro di un individuo. I cambiamenti che comportano i riti di passaggio coinvolgono il ciclo di una vita di una persona e ne segnano la percezione della temporalità. Nell’Islam, vari rituali possono essere definiti “di passaggio”, tuttavia la loro origine sembra essere perlopiù culturale, anche se non bisogna svilire eccessivamente l’intreccio semantico con la religione che a volte, ha rielaborato o modificato alcuni rituali in maniera decisiva. La circoncisione islamica (kithān), ad esempio, segna il passaggio dalla impubertà alla pubertà che sancisce il passaggio di un ragazzo alla piena maturità fisica. L’obbligatorietà della pratica è sancita dalla Sunna e non dunque dal Corano, anche se la dottrina fa anche riferimento al capitolo della Genesi (17, 10-11), lo stesso che secondo gli ebrei attribuisce alla circoncisione un significato propriamente religioso, come segno di alleanza che sancisce l’entrata del maschio nel popolo eletto. Pur non condividendo l’interpretazione religiosa giudaica, i musulmani attribuiscono al rito una forte valenza sociale che è oltremodo vivificata dal riferimento religioso alla vita del Profeta.

D’altro canto, il tempo rituale sembra essere anch’esso soggetto all’incedere del tempo mondano, che in questo senso, comporta a dei profondi mutamenti dei rituali stessi e della loro rappresentazione culturale e sociale. In epoca moderna, in particolare, il tempo sembra essere dominato dall’etica capitalistica e dalla secolarizzazione (Taylor, 2007). Vediamo così che la desacralizzazione del mondo e il disincanto dell’uomo moderno portano a separare le attività mondane da quelle

New Series, Vol. 33, Issue 2 (Nov., 1993), pp. 161-181.

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sacre (Dumont, 1993); d’altra parte, il ritmo della vita, dominato dall’etica consumistica, restringe il tempo rituale che dunque è soggetto a delle mutazioni d’ordine simbolico e normativo. Di conseguenza, ai rituali è attribuito un senso “puramente religioso” e dedicato un tempo simbolico “specifico e ristretto” all’interno della vita di ciascun fedele. Le cinque preghiere quotidiane, ad esempio, sono dissimulate o praticate in maniera contingenziale, cioè in accordo con le priorità e le esigenze della vita mondana. Alcuni musulmani dedicano alla preghiera un solo momento giornaliero e settimanale concentrando così gli obblighi e i precetti in uno “spazio temporale definito”. Altre volte, la preghiera viene effettuata per sancire il legame con la comunità: la preghiera del venerdì diviene un atto comunitario che “esaurisce” totalmente il precetto religioso generale. Tuttavia, alcuni rituali islamici tendono ad avere una maggiore stabilità rispetto ad altri, come, ad esempio, il pellegrinaggio a Mecca e il digiuno che, tuttora, mantengono una certa validità per tutti i musulmani che cercano di rispettarne la temporalità laddove possibile (De Poli, 2007). Anche se influenzati da alcuni processi di finanziarizzazione e politicizzazione moderna, questi due rituali infatti riescono a “ritagliarsi” uno spazio temporale importante all’interno delle vite dei singoli musulmani, in quanto sanciscono pubblicamente l’appartenenza all’umma islamica.

Infine, nella trattazione di questo tema, non possiamo prescindere dall’affrontare il tempo della performance nell’azione rituale, che è costituito da istanti, da cui nascono le “intime intuizioni del cuore”. Diversi studi hanno mostrato come i rituali siano una modalità d’agire distinta e diversa dall’agire quotidiano, durante il quale vengono strategicamente integrati le visioni del mondo e l’ethos delle persone (Bell, 2004). Vediamo così, che se da una parte i rituali contribuiscano a mantenere e rielaborare il tempo-tradizione, dall’altra il tempo nei rituali assume una funzione integrativa e distintiva per i partecipanti. In questo senso, il rituale diviene un momento durante il quale fondare i legami sociali di un determinato gruppo sociale e contemporaneamente distinguersi da altri (Whitehouse, 2010). L’organizzazione simbolica e materiale del tempo nel rituale diviene dunque determinante: i ritmi, la durata, la cadenza coinvolgono le persone e contemporaneamente creano significati e norme condivise. Nell’Islam, sono soprattutto il digiuno e il pellegrinaggio ad assumere una forte carica integrativa per tutti i musulmani (Graham, 1983). Durante il Ramaḍān, il tempo assume per i musulmani una salienza completamente diversa, in quanto mese di purificazione e pentimento. Allo stesso modo, l’ḥajj stabilisce con forza l’unità dell’umma, delle comunità musulmana, che si accinge ad effettuare il pellegrinaggio alla Ka ̒ba per rievocare collettivamente il legame con la tradizione profetica. Altre volte, il tempo rituale assume delle sfumature propriamente politiche distintive quando diviene marcatore dell’appartenenza all’Islam. Un esempio palese è fornito dal caso dell’islamismo o più in generale del salafismo che ideologizza un ritorno all’Islam delle origini e prendono contemporaneamente le distanze dagli infedeli o miscredenti lontani da questa supposta purezza. Il tempo che, ad esempio, i salafiti dedicano alla pratica stretta

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e rigorosa della preghiera giornaliera diviene altamente integrativo e allo stesso momento distintivo in quanto sancisce l’alterità rispetto a chi impiega il tempo della preghiera in maniera diversa e perciò errata.

CONCLUSIONI Pur analizzando il tema da diverse prospettive, possiamo considerare che nell’Islam vi sia una concezione alquanto univoca del rapporto tra tempo e ritualità che è data dal potere pervasivo della rivelazione muhammediana, che ha dato dei forti attributi personalistici alla concezione temporale. Il tempo è, dunque, soggetto alla volontà creativa e imprevedibile di Dio; tale concezione si pone in rottura con il fatalismo pre-islamico o il determinismo platonico. In questa concezione non-lineare del tempo, i rituali assumono una funzione evocativa, in quanto richiamano alla Verità originaria; l’Essere che sempre è stato, che tuttavia, governa in modo intellegibile il moto ciclico e non lineare del tempo. La variabilità della preghiera e degli altri rituali mostrano questa assenza illinearità temporale, ma allo stesso tempo, sottolineano il carattere arbitrario del tempo rituale: bisogna abbandonarsi agli “istanti segreti” del rituale, per riuscire ad avere un’intuizione intima del cuore. Quest’accettazione totale dell’atto rituale mette in luce il carattere prescrittivo del tempo, inteso come tradizione. Sono i rituali, secondo Bloch, a mantenere e riprodurre i valori e le strutture sociali di base della società, attraverso la perpetuazione del tempo in quanto tradizione. Anche in questo caso, è sottolineano il carattere evocativo del tempo rituale, il quale si differenzia dal tempo mondano che regola la vita quotidiana.

D’altro canto, i rituali in quanto trait d’union tra tradizione e innovazione, mutano nel corso del tempo: assistiamo quindi alla rielaborazione semantica e normativa dei rituali, soprattutto in epoca contemporanea, laddove il tempo rituale è ridefinito in base alle esigenze contingenziali della disincantata vita moderna. Nonostante queste recenti trasformazioni, tutt’ora nell’Islam, i rituali mantengono una certa centralità in quanto esprimono il credo islamico basato più sull’ortoprassi che sull’ortodossia. Ciò spiega l’importanza che mantengono alcuni rituali, come il digiuno del Ramaḍān, rispettato dalla maggioranza dei musulmani. In questo senso, la gestione del tempo assume una grande forza integrativa in quanto i rituali forgiano il senso di appartenenza della comunità e di distinzione rispetto ad altre.

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L’AUTORE Gianfranco Bria è dottore di ricerca presso l’Università della Calabria e l’Ecoles des Hautes Etudes en Sciences Sociales sotto il tutoraggio del prof. Alberto Ventura e M.me Nathalie Clayer. Si occupa di Storia e Antropologia dell’Islam balcanico. E-mail: [email protected]

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"Per il Tempo!" Uno Zeitbegriff islamico

Francesca Bocca Abstract: We aim at introducing a new discourse in the Islamic view of time, employing the tools outlined in Martin Heidegger’s: "The Concept of Time". While in his treatise he starts with a brief remark concerning the role of theology in the study of time, proceeding to the philosophical essentials for a comprehension of time, the present article will start by delineating a philosophical Qur’anic framework, and then delve in some key theological aspects. Philosophically, the two occurrences of the word "time" (dahr) in the Quran will be analyzed, in light of the connection between time and knowledge, as well as the one between time and death. Theologically, the relationship between time and eternity as well as the value of time will be examined. Finally, the new framework will be put to test with a short analysis of the Quranic chapter 103 ("By Time!"), where theology and philosophy will be brought together.

Keywords: Zeitbegriff – Concept of Time – Islamic Theology – Heidegger – Commentary Parole chiave: Zeitbegriff – Concetto di tempo – Teologia islamica – Heidegger – Esegesi

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INTRODUZIONE

Il tempo, categoria essenziale dell’agire umano nella filosofia occidentale, procede nella discussione islamica su linee stabilite in età medievale.1 Questa concezione del tempo è già stata descritta (Böwering, 1997), è nostra intenzione invece analizzare da un punto di vista filosofico il concetto di tempo nell’Islam, servendoci da un lato della "scienza preliminare" delineata da Martin Heidegger in "Der Begriff der Zeit" (Heidegger, 1989)2 e dall’altro delle fonti primarie dell’Islam, cioè Corano3 e Sunna4.

1 Due eccezioni significative sono Muhammad Iqbal, che tenta di inglobare il pensiero di Bergson in una più ampia visione teleologica (cfr. S.A. Vahid, Introduction to Iqbal, The Poet and his Message, Allahabad, 1946) e Henri Corbin, che elabora sul concetto sciita di circolarità del tempo (cfr. Henry Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismailita, Mimesis, 2013) 2 I riferimenti al testo (da qui in avanti C.d.T.) verranno forniti secondo la versione italiana a cura di Franco Volpi, edita da Adelphi (Martin Heidegger, Il Concetto di Tempo, Adelphi Edizioni, 1998), occasionalmente ci riferiremo alla terminologia dall’originale tedesco presente in bibliografia.

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La trattazione seguirà l’ordine opposto rispetto a quello scelto da Heidegger: sarà prima filosofica e in seguito teologica. Per quanto riguarda l’aspetto filosofico, individueremo inizialmente la terminologia coranica e le sue occorrenze, per poi analizzare la relazione tra tempo e conoscenza, giungendo infine al tempo vissuto come consapevolezza della morte, cioè «possibilità d’essere estrema»5.

Nonostante Heidegger dichiari all’inizio della sua conferenza la sua intenzione di escludere la dimensione teologica6, molti degli aspetti filosofici analizzati sono in effetti necessari e preliminari per una discussione teologica del tempo. Discussione che, nel nostro caso, non seguirà un approccio storico, quanto invece le brevi indicazioni delineate da Heidegger nell’introduzione alla sua conferenza, cioè ci concentreremo sul valore del tempo, sul suo «rapporto con l’eternità»7.

I concetti identificati nella teologia e filosofia del tempo verranno utilizzati per elaborare un breve commento del capitolo 103 ("Il Tempo"), come esempio di applicazione della "scienza preliminare" Heideggeriana a un’esegesi filosofica del Corano8. LE DIMENSIONI DEL TEMPO All’inizio del suo discorso9, Heidegger delinea una distinzione tra tempo scientifico e tempo soggettivo, criticandoli entrambi (Bartels, 2011). Certo, il tempo è sempre aristotelicamente «ciò in cui si svolgono gli eventi»10, ma nel pensiero dell’uomo esistono due dimensioni: il tempo della scienza di Newton e Galileo, e quello dell’interiorità di Agostino.

In una prospettiva coranica non esiste una dicotomia terminologica analoga, anche se certamente nella teologia islamica successiva si possono identificare due tendenze opposte: quella di un’analisi dei legami di causa-effetto della storia di ibn-Khaldūn (Dhaouadi, 2006), cioè il «tempo della natura e del mondo»11, e quella di un ragionamento atemporale ed universale rappresentato da al-Ghazāli, che tuttavia si rifiuta di collocare il tempo nell’interiorità, preferendo invece discuterne il valore in relazione all’Eterno (al-Ghazāli, 2010). 3 Per la traduzione, ci riferiremo a: "il Corano", a cura di Hamza Piccardo, Newton, 2015. Le citazioni Coraniche saranno semplicemente riportate con capitolo e versetto secondo l’ordine standard. 4 La ricerca degli aḥadīth è stata compiuta con gli originali arabi; la traduzione è dell’autrice. In una nota a piè pagina è indicata la raccolta originale e il numero della narrazione della versione araba. Solo aḥadīth classificate come ṣaḥīḥ o ḥasan da al-Albānī sono state utilizzate. 5 C.d.T. p.35 6 C.d.T. p.24 7 C.d.T. p.24 8 La via di un’esegesi filosofica del Corano, sebbene poco percorsa nel pensiero contemporaneo, è naturale erede del concetto di tafsīr bi al-ra’ī, che include opere come commento Mafatih al-Ghayb di Fakhr al-Dīn al-Razī. 9 C.d.T. p.25 10 Secondo la definizione di Aristotele nella Fisica, IV, 11, 219 a sgg, citata da Heidegger, p.27 11 C.d.T. p. 25

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Suggerisco che questa dicotomia abbia più a che fare con le naturali inclinazioni del pensiero storiografico e teologico che con una distinzione a livello coranico; idea che si rispecchia nell’approccio scelto da Heidegger, che, dopo aver brevemente introdotto la dicotomia, la supera nel resto della trattazione. IL TEMPO NEL CORANO Nel Corano, il concetto di tempo è espresso con la parola dahr, della quale si trovano due occorrenze: la prima in sura al-Jāthia: «’Non c’è che questa vita terrena: viviamo e moriamo; quello che ci uccide è il tempo (dahr) che passa’. Invece non possiedono nessuna scienza, non fanno altro che illazioni.»12 e la seconda in sura al-Insān: «Non è forse trascorso un lasso di tempo (ḥīn min ad-dahri) in cui l’uomo non sia stato una creatura degna di menzione?»13.

È possibile già identificare quindi, a livello Coranico, due idee fondamentali: (1) la relazione tra tempo e morte e (2) l’impossibilità per l’uomo di ottenere una conoscenza completa del tempo.

(1) Il legame tra tempo e morte, come «possibilità d’essere estrema»14, è

presente in tutta la produzione Heideggeriana. Anche nelle fonti islamiche, la morte è spesso menzionata nel contesto di un incoraggiamento a vivere il proprio tempo in maniera consapevole (Heidegger direbbe "autentica"), poiché «essa demolisce ogni pretesa di fare eccezione»15, la consapevolezza della morte motiva l’uomo a trattare il tempo «in quanto ogni volta mio»16. Questa consapevolezza, in un’ottica islamica, ha un duplice significato: la morte è certamente la fine dell’esistenza terrena, ma anche l’inizio di quella Eterna, della quale la prima determina la qualità. Quest’ultima accezione sarà esaminata nella seconda parte dell’articolo, quando dalla filosofia passeremo alla teologia del tempo e quindi al suo valore.

(1a) Ritornando alla morte come fine della vita, Heidegger osserva che anche quando l’uomo non si sforza consciamente di ricordare la morte, è come se rimanesse una certezza implicita. «L’esserci, sempre nell’essere di volta in volta dell’ogni volta mio, sa della sua morte, e lo sa anche quando non ne vuole sapere niente»17 (Römer, 2010). Questo concetto è pienamente condiviso in un’ottica coranica, infatti si legge: «Quando poi si presenta la morte a uno di loro, egli dice: ‘Mio Signore! Fatemi ritornare! Che io possa fare il bene che ho omesso’.

12 Corano 45:24 13 Corano 76:1 14 C.d.T. p.35 15 C.d.T. p.49 16 C.d.T. p.50 17 C.d.T. p.37

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No! Non è altro che la [vana] parola che [egli] pronuncia e dietro di loro sarà eretta una barriera fino al Giorno della Resurrezione.»18

Infatti, se l’uomo potesse veramente essere dimentico della morte, sarebbe ingiusto il rifiuto divino di concedergli l’occasione di compiere le azioni con la consapevolezza della sua finitudine. La preghiera dell’ingiusto è infatti un "vana parola", alla quale non corrisponde un’effettiva volontà. Nessun uomo quindi può eludere l’unica certezza, cioè quella della morte che mette fine al tempo terrestre, al massimo può scegliere di distrarsi da questa certezza, dire «lo so, ma non ci penso»19.

(1b) Nell’analisi Heideggeriana vi è un ulteriore elemento a legare tempo e morte: il compimento. «Nel mio esistere, infatti, io sono sempre "ancora in cammino". Rimane sempre qualcosa che non è ancora arrivato alla fine»20. Questo concetto ricorda il famoso ḥadīth della raccolta dei Quaranta di an-Nawawī: «Sii nel mondo come se fossi uno straniero o un viandante [...] Prendi dalla tua salute prima della malattia, e dalla tua vita prima della morte»21. L’essere in cammino può essere interpretato in due modi: da un lato non è possibile recuperare il tempo perso per arrivare alla meta, dall’altro finché il viaggio continua c’è la possibilità di cambiare la direzione del cammino. Entrambi questi aspetti devono coesistere, in un’ottica islamica, per generare due degli stati d’animo fondamentali per la vita del credente: il timore e la speranza22.

(1c) Non è paradossale impiegare il proprio tempo per riflettere sulla morte, infatti: «il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci.»23 In parole islamiche, il ricordo della morte permette all’uomo un vivere più autentico in quanto gli evita la distrazione dei piaceri terreni. La Sunan Ibn Mājah riporta la narrazione: «Ricordatevi frequentemente di colei che interrompe i piaceri.»24

Lo scopo della consapevolezza della morte non è quello di raggiungere l’indifferenza dal mondo, quanto proprio di vivere il tempo come esso deve essere vissuto; per tornare alla terminologia Heideggeriana, la consapevolezza della morte (Sein zum Tode) è condizione necessaria perché la vita sia autentica (Authentisch leben) (Karfíková, 2012).

(2) La retorica Coranica (al-balāgha) spesso invita l’uomo a riflettere sulla

pochezza della propria conoscenza; il versetto in questione si inserisce in questo contesto. È interessante fare un parallelo tra l’ignoranza che l’uomo ha del tempo e quella che ha del proprio sé. Il versetto in questione si trova in Sūra al’Isrā’, dove 18 Corano 23:99-10, vedi anche Corano 63:9-11 19 C.d.T. p.38 20 C.d.T. p.36 21 Ḥadīth numero 40 della raccolta di an-Nawawī, riportata da Bukharī, ṣaḥīḥ per al-Albanī 22 Ci riferiamo ai "pilastri dell’῾ibāda", che sarebbero tre: oltre a timore e speranza sarebbe anche necessario l’amore (cfr. Abdul-Wahhab, M. "Some of the benefits of Surat al-Fatiha" commented by Shaykh Saalih al-Fawzan, Troid, 2009) 23 C.d.T. p.39 24 Sunan ibn-Mājah numero 4258, ṣaḥīḥ per al-Albanī

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è scritto: «Ti interrogheranno a proposito del nafs. Rispondi: ‘Il nafs procede dall’ordine del mio Signore e non avete ricevuto che ben poca scienza [a riguardo]’» (17:85). Il termine nafs è stato lasciato in arabo, perché la traduzione con "Spirito" proposta da Piccardo non è completa; infatti questa parola può significare anche il Sé, l’anima, la psiche, la ragione (Deuraseh, 2005). Esiste anche una lunga tradizione teosofica della comprensione del termine nafs, che propone una categorizzazione in livelli nel percorso ascetico del taṣawwuf (Schimmel, 2015), ma questa accezione è meno connessa al concetto di tempo.

(2a) Ritornando quindi all’idea di sé come qualcosa del quale sfugge la completa conoscenza, possiamo cogliere il parallelo con il versetto in sura al-Jāthia: anche qui l’uomo viene messo di fronte all’inconoscibilità del tempo. Sé e tempo, quindi, come elementi la cui conoscenza per l’uomo non è istintiva, ma necessita del lavoro di riflessione (tafakkur) delineato nel Corano (cfr. 3:191, 7:184, 10:24 e 16:44). Arriva a lumeggiare, in questa schematizzazione, il legame tra l’esserci e la temporalità. Connessione, questa, ben delineata da Heidegger: «È il mio "sentirmi" che misuro, ripeto, quando misuro il tempo.»25

(2b) Il secondo modo in cui si può interpretare il versetto è riflettendo sul fatto che prima della propria esistenza l’uomo non possieda un concetto di tempo. Nella teologia islamica, esiste un ambito della conoscenza che è prerogativa divina, chiamata al-῾ilm al-ghaīb (ovvero il sapere di ciò che è nascosto), che Dio può scegliere di tenere per sé o di dispensare tramite rivelazione o ispirazione.

Ognuno di noi, infatti, si trova a prendere coscienza del proprio essere "gettato" nel mondo, senza avere consapevolezza della propria origine remota e anzi ignorando il proprio stesso stato, portando allo spaesamento che Heidegger appunto definisce Geworfenheit. Appunto perché la completa ignoranza del tempo prima della presa di coscienza dell’individuo non sia causa di spaesamento, Dio può scegliere di rivelare qualche elemento dell’῾ilm al-ghaīb; questa è una chiave di lettura del contenuto mitologico 26 del Corano radicalmente nuova: non un’informazione storica, ma una misericordia per mettere l’uomo nello stato spirituale migliore per la riflessione. Il tempo anteriore alla nostra presa di coscienza quindi è assente dall’esperienza soggettiva, ma può essere conosciuto parzialmente tramite il contenuto rivelato nel Corano, e solo nella quantità e qualità che la saggezza Divina reputa appropriate. Heidegger scrive che «una volta che il tempo è definito come tempo cronometrico, non c’è più speranza di arrivare al suo senso originario»27, ed è fondamentale notare che nella rivelazione Coranica, quando il tempo prima dell’avvento dell’uomo viene descritto, non è mai come sequenza temporale, quanto invece tramite descrizione di avvenimenti, cambiamenti e tappe. 25 C.d.T. p.30 26 Laddove il termine "mitologico" venga inteso nella lingua corrente come un contenuto di carattere fantastico, uno dei significati attribuiti nell’antropologia è quello di «storia che definisce la visione del mondo di una cultura» (da Grassie, W. (1998) "Science as Epic? Can the modern evolutionary cosmology be a mythical story of our time?". Science & Spirit. 9 (1), p.) 27 C.d.T. p. 46

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DALLA FILOSOFIA ALLA TEOLOGIA Finora, abbiamo analizzato la concezione di tempo nell’Islam da un punto di vista puramente filosofico; riteniamo tuttavia che questa sia solamente una premessa a quella che è la vera analisi del tempo, quella teologica. La stessa lezione "Der Begriff der Zeit", avvenne di fronte ad un pubblico di teologi, ai quali Heidegger ricordò: «Il tempo non potrebbe non rimanere nell’aporia fino a quando non saprà di Dio, fino a quando non saprà domandare di Lui.»28 Questa constatazione viene fatta da Heidegger all’inizio del suo discorso, ed è da questa che si discosta nella successiva trattazione del tempo. Per noi, invece, il percorso sarà a ritroso. Dopo aver delineato un concetto di tempo e la sua relazione con l’esserci, ci dedicheremo ora al valore del tempo, a quella dimensione della temporalità dove l’esserci domanda di Lui.

Questo percorso si colloca proprio nell’intenzione di Heidegger di fondare una "Scienza Preliminare" (Vorwissenschaft) che partisse dal piano teorico-astratto a quello pratico-morale (Alawa, 2017). IL VALORE DEL TEMPO Il ruolo della teologia nello studio del tempo è in primo luogo trattare «del suo essere temporale nel suo rapporto con l’eternità»29; sarà nostra intenzione analizzare questa idea secondo diverse accezioni: (1) la differenza qualitativa tra tempo umano e tempo divino, (2) il valore del tempo (2a) sia per quanto concerne il rapporto con la cronologia che (2b) l’importanza delle azioni compiute con coscienza dell’eterno e (3) la differenza teologica tra il tempo per Agostino e quello derivato dai due punti precedenti.

(1) Dio annumera, tra i suoi Bellissimi Nomi, al-Ḥaīī (il Vivente), aṣ-Ṣamad

(l’Assoluto, l’Eterno), al-Awwal (il Primo), al-Ākhir (l’Ultimo) e al-Baqī (l’Eterno) (Burrel & Daher, 1992). Quindi ben cinque delle novantanove caratteristiche - quelle essenziali per il dhikr, il ricordo di Dio secondo la tradizione spirituale musulmana - hanno a che fare con il tempo, come a voler sottolineare che la differenza tra il tempo divino e quello umano non sia questione di un solo fattore, quanto invece sia completamente altro, e abbisogni perciò di essere spiegata.

(1a) In particolare vorrei soffermarmi su un aspetto del tempo divino, quello dell’eternità. Da un punto di vista islamico solo Dio è eterno, e affermare l’eternità di qualunque altra cosa al di fuori di Lui equivarrebbe ad individuarne un’ipostasi, portando in ultima analisi al politeismo. Per capire quanto il tempo di Dio sia "altro" da quello della sua creazione, possiamo prendere in esame un esempio storico, quello della controversia sull’eternità del Corano. Laddove la

28 C.d.T. p. 23 29 C.d.T. p. 24

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maggioranza della teologia sunnita (più propriamente ῾ilm al-kalām) ha affermato senza esitazioni che il Corano, essendo parola di Dio, sia eterno, un gruppo significativo di teologi di orientamento razionalista (noti come al-mu῾tazilā) ha fortemente rifiutato questo dogma, sostenendo appunto che descrivere il Corano come eterno fosse nientemeno che idolatria (shirk). (Campanini, 2012)

È interessante notare come anche la terminologia utilizzata per descrivere il Corano anche dagli stessi propositori della sua eternità sia differente da quella impiegata per descrivere Dio: il Corano eterno è infatti al-Qur’ān al-Qadīm e mai al-Qur’ān al-Baqī. Il termine qadīm infatti è anche utilizzato per descrivere qualcosa di vecchio o antico, mentre baqī nella sua stessa radice ha una connotazione di permanenza. L’eternità di Dio rimane quindi totalmente Sua, anche lessicalmente.

(1b) L’unicità del tempo divino è anche tale per un altro aspetto evidenziato da Heidegger: quello della sua relazione con il mutamento. “Il mutamento è nel tempo”30, ma se Dio è il Primo e l’Ultimo, Colui che permane prima dell’inizio del tempo e dopo la sua fine, può egli essere soggetto ad alcun cambiamento? La risposta della maggioranza della teologia è un secco: “no”. Dio non può cambiare idea, punto sul quale c’è la quasi totale unanimità. Una questione teologica legata al rapporto tra Dio e mutamento è quella delle sue caratteristiche: sappiamo infatti che Dio è il Creatore (al-Khāliq), ma poteva egli esserlo prima di aver compiuto la creazione? La soluzione del credo ortodosso (di forma ‘asharita) a questo spinoso problema è quella di mantenere che Dio fosse tanto Creatore prima quanto dopo la Creazione, e che il Creato non l’abbia influenzato in alcun modo.

(2a) La seconda questione legata al tempo è senza dubbio il valore che esso

acquista in una prospettiva teleologica. Il tempo della scienza, suddivisibile in periodi di identica durata, non si occupa della dimensione cairologica. Nell’Islam, invece, il tempo è sempre quello dell’azione e della possibilità. Come abbiamo già accennato31, gli avvenimenti della Storia, nel Corano, non vengono mai illustrati per la loro valenza cronologica, quanto invece per il loro valore. Quello che molti orientalisti videro come prova dell’inautenticità del Corano, ovvero il mancato rispetto della sequenza cronologica degli eventi, è in realtà conseguenza della visione Coranica del tempo analizzata finora.

(2b) La preoccupazione per il valore del tempo non riguarda però solo le Scritture, è un concetto che pervade l’intera vita del credente. Per capire questo concetto è possibile partire da uno degli aḥadīth più famosi, scelto appunto da an-Nawawī per aprire la sua famosa collezione dei Quaranta Ḥadīth: «Certamente, le azioni vengono giudicate secondo le intenzioni, e certamente ognuno avrà ciò che si era prefissato.»32 L’interpretazione tradizionale di questa narrazione si

30 C.d.T. p. 27 31 vedi punto 2b della sezione "Analisi del tempo nel Corano" 32 Ḥadīth numero 1 della raccolta di an-Nawawī, riportata da Bukharī, ṣaḥīḥ per al-Albanī

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concentra sull’importanza di sforzarsi coscientemente di mantenere un’intenzione retta prima e durante ogni azione, ma ritengo sia possibile anche un’interpretazione che assegna valore al tempo. Infatti lo stesso lasso di tempo, impiegato nello stesso modo come misurabile scientificamente o come osservabile dall’esterno, può avere conseguenze diametralmente opposte a seconda dell’intenzione. Il tempo quindi non è omogeneo, ma il valore di ogni istante è responsabilità individuale del credente, soggetto a alti e bassi come la fede che "aumenta e diminuisce"33. Prova conclusiva della non linearità e inomogeneità del valore del tempo nella prospettiva islamica è il ḥadīth: «Quando un uomo muore, le sue azioni giungono al termine, eccetto l’elemosina ricorrente, la conoscenza benefica, o un discendente virtuoso che preghi per lui.»34 Questa narrazione sembra provare che addirittura il valore del tempo speso in vita possa superare la morte, sgretolando la barriera ultima che conclude le azioni.

d) Certo, il tempo nell’Islam non è quello omogeneo e lineare della scienza,

ma vogliamo precisare anche che non è nemmeno quello della soggettività descritto in Agostino. Nella teologia islamica, il tempo ha valore solo se è coscienza di Dio (perché è questa coscienza che determina l’intenzione), non quindi un "sentirsi" Agostiniano, quanto un "sentirLo". Questa è la nostra interpretazione di quanto scrive Heidegger: «il tempo non potrebbe non rimanere nell’aporia fino a quando non saprà di Dio»35; come infatti egli cerca di oltrepassare la dicotomia tra tempo della scienza e della soggettività, abbiamo cercato di dimostrare che il concetto di valore del tempo nell’Islam faccia lo stesso, grazie ai concetti di intenzione, di valore e di tempo divino che abbiamo analizzato in questo capitolo.

IL CAPITOLO DEL TEMPO (SURA 103)

Come esempio di applicazione del tentativo di analisi filosofica del tempo e di identificazione di temi ricorrenti nella teologia, analizzeremo ora il breve capitolo del Corano: "il Tempo". Analizzeremo, e non commenteremo, perché il lavoro qui presentato intende essere un’integrazione alla scienza dell’esegesi classica (῾Ilm al-tafsīr) e non una sua sostituzione o riforma. Per questo motivo, risulterà più semplice comprendere la nostra analisi leggendola come una nota a margine ad un commento tradizionale, come quello di Ibn Kathīr36 o del Tafsīr al-Jalalaīn37, 33 Per maggiore contestualizzazione della controversia tra fede stabile e sottoposta a cambiamenti, vedi il volume Majmoo’ Fataawa wa Rasaa’il Fadeelat di Muhammad ibn Saalih al-’Uthaymeen, vol. 1, p. 49 34 dalla collezione Riyad aṣ-Ṣaliḥīn, libro 13, ḥadīth 8 35 C.d.T. p.23 36 L’edizione di riferimento (da qui in avanti T.K.) è quella bilingue edita da Darussalam (2003) con il titolo "Tafsir ibn Kathir (Abridged)", in 10 volumi. Il commento di Sura al-Asr si trova nel decimo volume 37 Ci riferiremo alla traduzione italiana dell’opera (usando la sigla T.J.), con il titolo di "Esegesi del Corano", di Jalal ad-Din al-Mahalli e Jalal ad-Din as-Suyuti, a cura di Paolo Gonzaga, IISI editore (2017)

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ai quale ci riferiremo per la comprensione. Il capitolo non è stato scelto per la sua attinenza lessicale al tema trattato, quanto per la sua importanza a livello dottrinale: «se la gente riflettesse su questo capitolo, sarebbe sufficiente per loro»38, scrisse l’imām as-Shaf῾ī, ed è proprio questo lavoro di riflessione che vogliamo proporre.

Il testo, in traduzione, è: «Per il Tempo (al- Aṣr)! (1) Invero l’uomo è in perdita (2) eccetto coloro che credono e compiono il bene, vicendevolmente si raccomandano la verità e vicendevolmente si raccomandano la pazienza. (3)»

(1) Il primo versetto è una breve formula di giuramento; la parola ῾Aṣr può

avere il significato di tempo, di periodo della giornata tra il mezzogiorno ed il tramonto, o di preghiera prescritta.39 La funzione dei giuramenti nel Corano non è solamente retorica, ma materia di riflessione per il credente: un voto per il tempo enfatizza il ruolo di Dio come padrone del tempo e l’ignoranza dell’uomo a tale riguardo.40 Il giuramento iniziale quindi mette l’uomo nella posizione di riflessione, di consapevolezza della propria impotenza e infine di ascolto attento.

(2) Segue, lapidario, il secondo versetto. Il tempo è denaro, scriveva Bacone,

ma la consapevolezza della preziosità del tempo non era sfuggita ai teologi medievali del mondo islamico. Al-Ghazālī esortava così gli studenti: «Il tuo tempo è la tua vita, e la tua vita è il tuo capitale».41 È proprio la certezza di poter disporre del proprio tempo per farne guadagno che questo versetto va a scalfire: l’uomo pensa di amministrare il proprio tempo, invece si ritrova in perdita. Ed essendo il tempo, come nota Heidegger, irreversibile42, l’effetto di questa affermazione è destabilizzante. La reazione del lettore è quella di proiettarsi nel futuro, appunto «fenomeno fondamentale del tempo»43 e aprirsi alla domanda: c’è qualcosa che non sia perdita?

(3) Risponde il terzo e ultimo versetto. Proprio come la testimonianza di fede

islamica parte da una negazione (lā ilāh), sgombrando il campo per costruire la visione teocentrica essenziale (illā Allāh), in questa sūra si parte dalla dichiarazione della vanità del tempo in toto, per procedere poi con la rivelazione dell’eccezione: ciò che perdita non è.

(3a) Il primo aspetto da notare, in luce dell’analisi compiuta nei capitoli precedenti, è che il tempo non perso non è solo conoscere, ma agire. Ricordiamo a tale proposito che in Heidegger il tempo (Zeit) non si riduce né a quello oggettivo della scienza (Naturzeit), né quello soggettivo della coscienza

38 Riportato, senza fonte, in T.K. p. 583 39 T.J. p.1069 40 Per un’analisi delle formule di giuramento contenute nel corano, si veda: Badr al-Dīn `Abd Allah Muhammad Ibn Bahadur al Zarkashī, Al-Burhān fī `Ulūm al-Qur’an 41 al-Ghazāli, The Beginnings of Guidance (Bidayat al-Hidaya), White Thread Press (2010) p.23 42 C.d.T. p. 45 43 C.d.T. p.40

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(Befindlichkeit), piuttosto è «modalità dell’esserci dell’essere»44, maniera nella quale l’esserci non solo conosce, ma «sceglie di esistere nel mondo».45 Risuona in questo pensiero così orientato all’agire il detto di ῾Umar ibn al-Khaṭṭāb: «Non rimandate il lavoro di oggi, evitate che il lavoro si accumuli o non realizzerete i vostri scopi»46. Il tempo utile, in un’ottica islamica, non va però percepito come un “primato dell’azione” ante litteram, il primato sia in termini di valore che di causa-effetto rimane la fede. La formula «coloro che credono e che compiono il bene» è tra le più ripetute nel Corano47, ed è questa combinazione che apre la possibilità del tempo utile. Credere e compiere, in quest’ottica, risuona nel pensare ed agire dalla concezione cairologica del tempo in Heidegger48.

(3b) Tornando alle quattro modalità del "tempo utile" menzionate nell’ultimo versetto, rivolgiamoci ora alle ultime due: raccomandazione al bene e alla pazienza. Opportunità realizzabili esclusivamente in una dimensione comunitaria. «Colui che consiglia il bene ottiene una ricompensa simile a colui che lo compie», è riportato negli Aḥadīth49, fornendo un’eccellente spiegazione del versetto. Tornando al concetto di tempo, l’importanza della dimensione sociale è espressa da Heidegger con il concetto di “essere-l’uno-con-l’altro” (Miteinandersein).50 Questo esistere insieme non è solo la casualità di una prossimità geografica o l’organizzazione di un ordine sociale, ma ricorda il concetto di comunità presente nella tradizione islamica con il termine Umma: «un avere qui con altri lo stesso mondo, un incontrarsi l’un l’altro, un essere l’uno con l’altro nel modo dell’essere-l’uno-per-l’altro»51.

(3c) L’ultimo aspetto riguarda la modalità di questo essere in comunità: «Il modo fondamentale […] dell’avere qui il mondo l’uno con l’altro, è il parlare».52 Questo modo d’intendere il valore della parola nel tempo spiega il ruolo assegnato agli insegnanti nell’Islam: «I sapienti sono gli eredi dei profeti». Il sapiente infatti, è incarnazione del tempo ben speso: il suo insegnamento è invito al bene, una delle tre azioni le cui ricompense trascendono la morte di chi le compie53. Nel lessico Heideggeriano il discorso (Rede) si oppone alla chiacchiera (Gerede) (Wrathall, 1999), cioè all’uso superficiale del linguaggio; allo stesso modo le esortazioni in questo versetto (tauāṣaū) si oppongono al vaniloquio (laghū), che rende le opere vane54 e che sarà assente in Paradiso55. 44 C.d.T. p. 31 45 C.d.T. p. 32 46 dal libro Manāqib Ameer al-Mu’mineen di Ibn al Jawzi, p.129 47 cfr. 84:25, 95:6, 5:9 e 31.8, come esempio indicativo dei diversi contesti nei quali questa formula è inserita 48 C.d.T. p. 35 49 traduzione dell’autrice della narrazione da Ṣaḥīḥ Muslim, Volume 8, Libro 75, Numero398 50 C.d.T. p.32 51 C.d.T. p.32 52 C.d.T. p.32 53 vedi il ḥadīth al quale ci siamo riferiti nella sezione "il valore del tempo" al punto b: «Quando un uomo muore, le sue azioni giungono al termine, eccetto l’elemosina ricorrente, la conoscenza benefica, o un discendente virtuoso che preghi per lui.» 54 Corano 9:69

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Concludendo, l’invito rivolto in Sura al-῾Aṣr è proprio quel riappropriarsi del

tempo, quel riempirlo espresso da Heidegger con il termine Jemeinigkeit, direzione che fornisce come conclusione al "Concetto di Tempo".

CONCLUSIONE L’analisi proposta è il primo tentativo di applicare le categorie dello studio del tempo compiuto da Heidegger alla teologia islamica. La trattazione è quindi coscientemente un canovaccio: saranno necessarie ulteriori analisi e lo sviluppo di strumenti sia linguistici che filosofici adeguati per procedere oltre. Certamente, già la possibilità di applicazione dello Zeitbegriff all’esegesi del Corano è tutt’altro che conclusa nell’ultimo capitolo, mi permetto tuttavia di suggerire altre due direzioni: una categorizzazione della teologia islamica successiva al di là della semplice dicotomia tra tempo soggettivo e oggettivo, e uno studio degli aḥadīth che analizzi le azioni e parole che riempiono il tempo di valore.

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L’AUTRICE Francesca Bocca è cultrice della materia in Islamologia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, docente di Teologia Islamica all’Istituto Italiano di Studi Islamici, e direttore dell’Istituto di Studi Islamici Averroè. Ha una laurea in Scienze Cognitive presso l’Università Vita-Salute San Raffaele (con lode), un Master e un dottorato in Neuroscienze sistemiche presso l’Università di Monaco di Baviera (entrambi con lode). Sta completando un Diploma in Teologia Islamica presso il Cambridge Islamic College. E-mail: [email protected]

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Il curioso caso del Mahdi redivivo. Ricorrenza del Mahdismo dal colonialismo all’Isis

Giacomo Maria Arrigo

Abstract: The Mahdi is the eschatological figure of Islam who will rule over the world at the end of time after having rid humanity of evil. During the whole Islamic history, many rulers have claimed to be the long-awaited Mahdi, thus creating the conditions for political revolutions based on prophetic statements. The present paper will study this subject as it occurs in contemporary history, first outlining such messianic character in the light of Muhammad’s revelation, then finding the different meanings of Mahdist claims (the man-oriented and the message-oriented inclinations, the Mahdi as a renewal and the Mahdi as an apocalyptic personality), finally studying different self-proclaimed Mahdis in recent history, in Africa as well as in the Middle East. The last paragraph will be dedicated to the messianic dispositions of the terroristic organization Islamic State which has deeply affected the political-revolutionary strategy adopted by the group.

Keyword: Mahdi – Apocalypse – Eschatology – Revolution Parole chiave: Mahdi – Apocalisse – Escatologia – Rivoluzione

*** INTRODUZIONE: IL MAHDI NELL’ESCATOLOGIA ISLAMICA La storia islamica è sempre stata attraversata da un forte afflato millenarista. La speranza in una liberazione definitiva dall’oppressione e dalla sofferenza ha vieppiù caratterizzato la vivacità araba. Nella trattazione dell’area culturale islamica, tuttavia, è opportuno operare una distinzione terminologica preliminare tra millenarismo e apocalisse: con “millenarismo”, o “chiliasmo”, s’intende tradizionalmente il periodo di pace e prosperità che durerà mille anni e che caratterizzerà la storia umana dopo la sconfitta di Satana e prima del Giudizio finale; l’espressione, nata in ambiente cristiano e avente come fondamento scritturale l’Apocalisse di Giovanni (20, 1-6), è nondimeno applicabile al caso islamico. Il termine “apocalisse”, invece, significa letteralmente “disvelamento”, “rivelazione”, ed è di conseguenza problematicamente adoperabile in relazione alla sensibilità religiosa islamica, ove il concetto di rivelazione è strettamente legato alla discesa del messaggio coranico; discutendo di questioni islamiche,

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quindi, risulterebbe più opportuno parlare di “escatologia”, ovverosia dottrina sulle cose ultime, e non di “apocalisse”. L’afflato millenarista citato poco sopra si riferisce alla credenza di un tempo futuro in cui nel mondo materiale regnerà la pace e la prosperità giusto prima della definitiva fine del mondo.

Il Corano e le raccolte degli ḥadīṯ (detti e opere del Profeta Muhammad) rappresentano le due fonti sacre principali dell’Islam. In riferimento al materiale escatologico, «si evidenzia il passaggio da uno schema essenzialmente ammonitorio [nel Corano] ad una rappresentazione escatologica più variegata e multiforme [negli ḥadīṯ]» (Furlan, 2015: 316). Più specificamente, e direttamente collegato all’argomento del presente paper, nel Corano, scrive Francesco Furlan, «appare l’assenza di una figura messianica» (ivi: 25). La trasformazione in senso messianico della figura di ‘Isā (Gesù), che pure è presente nel testo sacro, e la apparizione del ruolo del Mahdi, avverrà solo successivamente, nell’elaborazione dottrinale degli ḥadīṯ, iniziata probabilmente alla fine del VII secolo, ossia settant’anni dopo la morte del Profeta, e proseguita nei secoli successivi.

I travagliati avvenimenti che hanno avuto luogo dopo la morte del Profeta Muhammad testimoniano un acceso fervore escatologico presso le masse arabe, tanto che David Cook spiega le repentine conquiste al di fuori della penisola araba sulla base di «una ferma convinzione nell’imminente fine del mondo» (Cook, 2007: 29). In quel tempo la figura del Mahdi, “il Ben Guidato”, non aveva alcun significato messianico, essendo piuttosto un epiteto onorifico. È solamente «durante la Seconda guerra civile islamica, dopo la morte di Mu‘awiya, [che] la parola venne utilizzata per la prima volta in riferimento a un comandante che avrebbe riportato l’Islam alla sua perfezione originaria» (Madelung, 1986: 1231). Il Mahdi, per l’appunto, si riferisce a un personaggio che restaurerà la religione e la giustizia nel mondo e che regnerà prima della fine (l’Ora). Una simile figura, lo ripetiamo, non ha origine coraniche, apparendo solamente nella vasta letteratura degli ḥadīṯ.

Le tradizioni sul Mahdi sono varie e non di rado discordanti, come spesso capita fra le narrazioni degli ḥadīṯ, ma se ne possono tracciare tre filoni: secondo una prima tradizione, l’azione del Mahdi sarà cronologicamente precedente a quella di ‘Isā, la cui funzione messianica sarà quella definitiva1; secondo un’altra versione, il Mahdi sarà l’aiutante di ‘Isā in una congiunta e definitiva azione di purificazione2 ; una terza tradizione, invece, identifica il Mahdi con ‘Isā, sopprimendo la problematica dovuta alla copresenza di due figure messianiche in seno alla tradizione islamica3. In ogni caso, «la condizione del Mahdi nell’Islam sunnita è fondamentalmente problematica […] Le tradizioni che riguardano il Mahdi sono molto più tenui [rispetto a quelle che trattano di ‘Isā], perché esso è una figura politicamente molto mutevole. Di solito, le raccolte canoniche, 1 «Certo non perirà la comunità nella quale io sono al principio, ‘Isā bin Maryam alla fine e il Mahdi nel mezzo» (Ḥadiīṯ in Arba‘īn di Abu Nu‘aym, 40) 2 «[…] E scenderà ‘Isā bin Maryam e dirà al loro comandante [Imam]: “Avanza per condurci in preghiera» (Ḥadiīṯ in Sahīh di Muslim, XL, 156) 3 «[…] Non ci sarà Mahdi se non ‘Isā bin Maryam» (Ḥadīṯ in Sunan di Ibn Māğah, XXXVI, 112, 4039).

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anziché descrivere la figura del Mahdi, si limitano a esaltare la giustizia o rettitudine della sua epoca» (Cook, 2009: 326).

Uno degli elementi che contraddistinguono la sua identità sia nel sunnismo che nello sciismo è l’appartenenza all’Ahl al-Bayt, la “Gente della Casa”, e cioè la famiglia di Muhammad4. In altri termini, il Mahdi dovrà essere un discendente del Profeta il cui nome sarà lo stesso del Profeta e il cui padre porterà lo stesso nome del padre di Muhammad5. In questo senso è possibile affermare che la matrice della figura del Mahdi è chiaramente sciita. Infatti, la discendenza genealogica da ‘Ali ibn Abi Tālib, cugino e genero del Profeta, nonché quarto califfo rašidūn, è un tratto distintivo dello sciismo nel determinare la figura dell’Imām, il quale acquista nello sciismo un significato inedito, quello, cioè, di vero capo della comunità islamica ed erede degli insegnamenti esoterici del Profeta, che porterà a compimento la «manifestazione plenaria di tutti i sensi nascosti o sensi spirituali delle Rivelazioni divine» (Corbin, 2007: 40). Nello sciismo duodecimano, la variante più diffusa di sciismo, il dodicesimo Imām, scomparso nel 941 d.C. e destinato a comparire nuovamente sulla terra, si chiama per l’appunto Muhammad al-Mahdi.

Ora, un simile significato esoterico è mancante nella elaborazione sunnita; e purtuttavia, il tratto genealogico, e cioè la discendenza dalla famiglia del Profeta Muhammad, è stato assimilato nel tempo dalle comunità proto-sunnite ancora non ben distinte dai proto-sciiti dei primi secoli dell’era islamica. L’ascendenza alide del Mahdi è, pertanto, presente in modo netto anche nell’escatologia sunnita6.

La storia islamica ha visto l’emersione di diversi regnanti e califfi che hanno avuto l’ardire di dichiararsi Mahdi, proclamando la propria funzione salvifica per tutta la comunità islamica e per il mondo intero. In questo breve lavoro analizzeremo le pretese messianiche delle principali figure politiche a partire dal periodo del colonialismo e giungendo fino all’autoproclamato Stato Islamico e al suo entusiasmo apocalittico che ha inciso profondamente sulla strategia adottata nel territorio noto come “Syraq” (crasi di Siria e Iraq).

RINNOVAMENTO, REAZIONE, RIVOLUZIONE

È innegabile che il Mahdismo, «fenomeno politico-messianico ciclicamente ricorrente nella storia musulmana» (Polia, Marletta, 2008: 79), ricopra un ruolo di primo piano nel mondo islamico contemporaneo. Basti leggere un articolo del

4 «Non finirà il mondo finché non regnerà sugli arabi un uomo della Gente della mia Casa il cui nome è il mio nome» (Ḥadiīṯ in Ğāmi‘a di al-Tirmidhī, XXXVI, 73. 2230) 5 «Se non restasse al mondo che un giorno Dio allungherebbe quel giorno finché non avesse inviato in esso un uomo della mia stirpe o della Gente della mia Casa il cui nome è il mio nome e il cui nome del padre è il nome di mio padre» (Ḥadiīṯ in Sunan di Abu Dawūd, XXXVI, 4, 4282) 6 «Ho sentito l’Inviato di Dio dire che il Mahdi è della progenie di Fātima» (Ḥadiīṯ in Sunan di Ibn Mājah, XXXVI, 159. 4086). Ricordiamo che Fātima è stata moglie di ‘Ali.

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The Economist (23 aprile 2013) per scoprire che solo nel 2013 in Iran sono state arrestate circa 3000 persone che si erano dichiarate Mahdi. I falsi profeti abbondano e le autorità devono far fronte a questo importante fattore d’instabilità. Gli auto-dichiarati Mahdi spesso hanno anche avuto fortuna, come nel caso di Mirza Ghulam Ahmad (1835-1908), fondatore del movimento della Ahmadiyya, proclamatosi il Mahdi tanto atteso, il messia cristiano e una manifestazione di Krishna. L’Ahmadiyya oggi conta quasi 20 milioni di seguaci in tutto il mondo. Un altro fortunato moderno Mahdi è stato Wallace Fard Muhammad (1877-1933), fondatore della Nation of Islam, movimento militante afroamericano definito anche suprematista nero. Questi due casi citati, però, sono considerati eretici rispetto all’Islam e, di fatto, fuoriescono dalla comunità dei credenti musulmani, avendo acquisito caratteri del tutto peculiari che li pongono al di fuori delle regolari diversità dottrinali. Di tutt’altro genere invece il Mahdismo politico che ha animato le lotte anticoloniali (in Sudan), i desideri di riscatto (in Iran) e le battaglie di rinnovamento (in Arabia Saudita) nonché il cieco odio anti-occidentale (in “Syraq”).

Un’accorta riflessione di John O. Voll s’impone all’attenzione del presente studio. Voll, infatti, considera Wahhabismo7 e Mahdismo come due movimenti di rinnovamento (tağdīd) che pongono l’accento su due aspetti diversi dell’impianto islamico, vale a dire il messaggio divino, da una parte, e l’uomo, dall’altra. Evidenziando che il messaggio rivelato in sé e l’agente umano sono ambedue implicati nella trasmissione della rivelazione all’umanità, Voll ne fa la base per l’analisi dei movimenti di rinnovamento islamici, affermando che «il rinnovamento può essere più message-oriented o più man-oriented» (Voll, 1982: 115). Il Wahhabismo è incentrato sul messaggio in sé (message-oriented), il Mahdismo invece sull’uomo latore del messaggio, o perlomeno apportatore di un rinnovamento positivo (man-oriented): ambedue sono movimenti di rinnovamento in seno a una comunità non più ritenuta coerente con i principi islamici che pure professa. Una simile analisi «fornisce uno spettro analitico per lo studio dei processi di rinnovamento islamico, le cui estremità sono un orientamento scritturale che depotenzia il ruolo dell’agente umano e un orientamento leaderistico in cui l’agente umano gioca invece un ruolo centrale» (Ibidem). Entrambi le attitudini hanno però debolezze intrinseche, prosegue Voll: «l'inclinazione message-oriented può diventare legalistica e formale, e quindi affrontare sfide da movimenti di tipo carismatico; la tendenza man-oriented, invece, potrebbe essere accusata di perdere di vista l’immutabilità del messaggio» (ivi: 124). Per l’appunto, il Mahdi inteso come leader della comunità può operare dei

7 Il Wahhabismo è una branca sunnita dell’Islam sviluppatasi nel XVIII secolo nella Penisola Arabica. La dottrina wahhabita è piuttosto rigorosa e rigida, e deve la sua fortuna all’alleanza stipulata nel 1744 tra Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb, predicatore e teologo fondatore del movimento wahhabita, e l’emiro Muhammad Ibn Sa‘ūd, antenato dell’attuale re dell’Arabia Saudita. Da allora il destino dell’Arabia Saudita è inscindibile dal Wahhabismo. Per un ulteriore approfondimento, cfr. Redissi, 2015; Ventura, 2007: pp. 207-211.

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cambiamenti nel messaggio in relazione alle circostanze, e lo può fare perché investito dall’autorità derivatagli dalla veste di Mahdi.

Ora, considerare il Mahdismo come un movimento di rinnovamento depotenzia il suo carattere escatologico. Eppure spesso i movimenti sorti nel corso del tempo si sono divisi «tra movimenti mahdisti di tipo restauratore, revivalista o rigenerazionista (ovvero ispirati da un Mahdi di tipo muğaddid [rinnovatore]) e movimenti mahdisti apocalittici» e messianici (García-Arenal, 2009: 144). La credenza nella necessità della restaurazione o rinnovamento della religione (tağdīd al-dīn) si basa su una tradizione islamica molto popolare8 secondo cui nella storia emergerà ciclicamente un rinnovatore (muğaddid) che restaurerà la rettitudine della fede e raddrizzerà – per così dire – le storture che inevitabilmente il tempo produce9. In entrambi i casi, il Mahdi ha una funzione rivoluzionaria rispetto alla situazione sociale in cui sorgerà. «Il concetto del Mahdi porta con sé non solo l’idea di jihad [nel senso che condurrà una guerra contro i nemici della vera religione] ma, prima ancora, la dichiarazione di takfīr [empietà], cioè l’idea che la società musulmana si sia corrotta» (ivi: 146). Il Mahdi sarà quindi un rivoluzionario e un condottiero; non a caso viene spesso indicato negli ḥadīṯ con l’espressione amīr (comandante).

Nondimeno, bisogna distinguere cautamente almeno tra quattro diversi tipi di Mahdismo al fine di evitare di far cadere sotto un’unica etichetta una quantità di fenomeni dissimili fra di loro. Difatti,

il Mahdismo non è sempre stato rivoluzionario. Seguaci mahdisti hanno sostenuto una vasta gamma di posizioni politiche, dalla (1) tolleranza all’autorità stabilita, quantunque venisse mantenuta la credenza che il Mahdi sarebbe alfine apparso, alla (2) forte critica ai regimi islamici esistenti che spesso sfociava nell’emigrazione (hijra) nell’attesa di incontrare il Mahdi, al (3) rimpiazzo degli ufficiali in carica da parte di oppositori mahdisti, fino alla (4) azione rivoluzionaria avente l’intenzione di distruggere lo stato islamico e la struttura sociale su cui si basava (Lovejoy, Hogendorn, 1990: 219). Una suggestiva interpretazione del Mahdi nelle vesti di un rinnovatore

moderno è stata data dal grande politico islamista e pensatore pakistano Abu l-A‘la Maududi (1903-1979), il quale si è dissociato da coloro che attendono un Mahdi old-fashioned con la barba lunga, il rosario in mano, e che procederà da un monastero isolato e sarà circondato da un’aura di misticismo. Piuttosto, scrive Maududi, quest’uomo non si incenserà in autonomia, non pretenderà di essere il Ben Guidato, ma «sarà il più moderno dei moderni […] e le persone 8 Come riporta Alberto Ventura, questa tradizione profetica, sebbene già presente nel discorso islamico classico, ha iniziato a circolare in modo più significativo intorno all’anno mille dell’egira, e cioè dal 1591 d.C., quando «assistiamo al diffondersi sempre più ampio dell’idea di rinnovamento […] È qui che si possono vedere i segni di un ordine che tramonta e di un nuovo modo di vedere le cose che comincia a sorgere» nel mondo islamico (Ventura, 2007: 205). 9 «Allah farà sorgere per la sua comunità ogni secolo un uomo che rinnoverà la sua religione» (Ḥadiīṯ in Sunan di Abu Dawud, 4278).

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riconosceranno [il suo status di Mahdi] dalle sue opere soltanto dopo la sua morte […] e possederà uno straordinario impulso allo sviluppo scientifico e al progresso» (Maududi, 2009: 42, 43). Il dibattito intorno al Mahdi, dunque, è vivo e sfaccettato.

IL CASO AFRICANO

I primi importanti movimenti rivoluzionari mahdisti sono nati dall’impatto iniziale con l’Occidente. Il colonialismo ha permesso alle popolazioni autoctone di prendere coscienza di sé e di elaborare una propria contro-narrazione che spesso ha assunto tratti religiosi. La speranza messianica è stata quella più suscettibile alle attese di libertà e maggiormente consonante alle necessità dei popoli soggiogati. Lo riconosce magistralmente lo storico delle religioni Vittorio Lanternari quando scrive che «la nascita dei culti di liberazione in rapporto alla dominazione colonialista costituisce una delle più clamorose e sconcertanti manifestazioni dello stretto, dialettico legame fra vita religiosa e vita sociale, politica e culturale» (Lanternari, 1974: 8).

Molti sono stati i movimenti anti-coloniali che hanno avuto come guida un auto-proclamato Mahdi. L’Africa è stato il teatro principale di questa battaglia, ma il fenomeno non si è limitato al continente nero. «Se la più nota di queste figure è quella del Mahdi del Sudan […], altre figure sono attestate in Algeria contro i francesi, in Somalia, Nigeria, Africa occidentale francese (oggi nel Senegal e in Mauritania), in India, Indonesia e Turchia» (Cook, 2009: 326), senza citare il Camerun settentrionale dove, secondo i rilievi di Lanternari, circola la credenza che il Mahdi sia già venuto e scomparso (Lanternari, 1974: 61). A prima vista risulta evidente che le velleità mahdiste siano circolate principalmente, se non esclusivamente, nelle zone periferiche del mondo islamico. In realtà non è proprio così: è pur vero che nelle zone citate l’influenza occidentale e la presenza militare degli europei ha scatenato il fervore messianico in senso anti-coloniale o quantomeno anti-occidentale, ma non mancano episodi chiliastici anche nel cuore dell’Islam sunnita, nella penisola araba, e finanche nel centro dell’Islam sciita, l’Iran (vedi prossimo paragrafo).

Il più eclatante caso mahdista è stato quello sudanese. Lo shaykh Muhammad Ahmad Ibn Abdallah (1844-1885) della confraternita sufi della Sammāniyya si dichiarò Mahdi nel 1881 e iniziò una campagna militare di liberazione del territorio dal dominio anglo-egiziano e una campagna parallela di rivitalizzazione della religione islamica di contro alla religiosità di facciata degli ottomani e alle tradizioni paganeggianti degli stessi sudanesi. Nell’assedio di Khartum (1885) il Governatore britannico del Sudan, Charles George Gordon, perse la vita, provocando grande scalpore in Europa. Il vittorioso Mahdi poté così fondare uno stato mahdista che durerà fino al 1898; lui stesso, però, perderà la vita nello stesso anno della presa di Khartum, all’apice della sua gloriosa riscossa. Il movimento

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rivoluzionario era stato innescato da un insieme di fattori sociali e politici, come ad esempio la pesante tassazione e l’ineguale trattamento delle tribù da parte degli occupanti (vedi Lenninger McLellan, 2012: 87), ma a giocare un ruolo di primo piano sono state principalmente le aspettative messianiche che circolavano da tempo in Sudan, tanto che «sembra che sia stato l’incombente millennio ad aver realmente preparato le tribù sudanesi all’imminente arrivo del Mahdi» (ivi: 104).

Il Mahdi sudanese ha insistito fortemente sul suo ruolo divino. La Sirah (testo sulla vita del Mahdi scritto dal suo seguace Isma‘il ‘Abd al-Qadir) narra il puritanesimo religioso del Mahdi e la sua rigorosità nell’applicazione della šarī‘a, riporta resoconti di miracoli e la potenza della sua barakah (la benedizione), sottolinea le affinità con il Profeta Muhammad e la sua piena legittimità nell’adottare il titolo di Ben Guidato. Nel suo tentativo di aderenza assoluta alla šarī‘a, Muhammad Ahmad e i suoi seguaci, chiamati per l’appunto anṣār (i compagni) per ricalcare le orme dei compagni del Profeta, hanno «ignorato il lavoro degli ulema (i dottori della legge) e hanno insistito sulla derivazione della loro legittimità islamica direttamente dal Corano e dal Profeta» (Ohtsuka, 1997: 26), annullando la validità delle quattro scuole giuridiche canoniche. L’orientamento salafita del fenomeno è pertanto chiaro, e il carattere man-oriented analizzato poco sopra risulta marcato e preponderante.

Francesco Furlan rintraccia tre caratteristiche nella Mahdiyya sudanese: «la componente escatologica, quella “revivalistica” (dal punto di vista religioso), e quella di sovvertimento in positivo della condizione sociale [… Ma] nell’auto-rappresentazione del Mahdi sudanese la componente escatologica è lasciata implicita, come in disparte; i suoi messaggi si spingono in particolare nella valorizzazione delle altre due componenti» (Furlan, 2011: 17, 18). La preponderanza di tematiche legate al tağdīd definisce il fenomeno nei termini di movimento del rinnovamento – e il Mahdi come un muğaddid – a discapito dell’aspetto escatologico che, «pur avendo una certa importanza (soprattutto per quanto riguarda la legittimazione del suo status agli occhi del popolo), passa in secondo piano rispetto alla predicazione di stampo fondamentalista» (ivi: 21).

Altri casi mahdisti africani particolarmente degni di nota riguardano il jihad (1804-1810) guidato da Uthman Dan Fodio (1754-1817) e il califfato di Sokoto nel nord della Nigeria che emerse in seguito alla sua azione rivoluzionaria. Le velleità mahdiste di Dan Fodio trovavano conferma nella sua personalità carismatica, e il suo stile di vita semplice e austero conquistò fin da subito la popolazione dei Fulani, un’etnia nomade dell’Africa occidentale cui lo stesso Dan Fodio apparteneva. Il rovesciamento dell’impero degli Hausa, gruppo etnico dominante, risultò nella creazione del califfato di Sokoto (1804-1903). I motivi di una siffatta repentina ed efficace azione rivoluzionaria erano principalmente di tipo religioso (la volontà di imporre un Islam rigoroso in una società prevalentemente pagana), ma non mancavano cause sociali (i Fulani erano considerati cittadini di seconda categoria) ed economiche (la pesante tassazione) (vedi Aremu, 2011).

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Che tipo di Mahdi era Uthman Dan Fodio? Pur non avendo mai affermato di essere il Ben Guidato, Dan Fodio non ha mai respinto le dicerie secondo cui lui stesso fosse il Mahdi. Al contrario, lo shaykh ha cavalcato l’onda del fermento messianico che stava attraversando l’Africa, alimentato da una serie di catastrofi climatiche (ad esempio una forte siccità che ha causato una pesante carestia in Nigeria e nelle zone limitrofe) e dalla corruzione della religione islamica ormai contaminata da tradizioni locali animiste e pagane. Peter Heine, ricostruendo il profilo di Dan Fodio, ha riconosciuto la centralità della componente da rinnovatore (muğaddid) che, come nel caso del Mahdi sudanese, mette inevitabilmente in secondo piano l’aspetto millenaristico. «Continuava a pensare se stesso come un muğaddid […] Ha insistito sull’aspetto rinnovatore della speranza mahdista [… tanto da] aver prospettato addirittura l’abolizione delle differenze tra le quattro principali scuole giuridiche islamiche a favore di una sola maḏhab [scuola giuridica]» (Heine, 2000: 74).

Disordini legati a una credenza mahdista hanno scosso il nord della Nigeria anche negli anni 1905-1906, legati questa volta a una emigrazione (hiğrah) di massa verso est, nella direzione verso cui sarebbe dovuto apparire il Mahdi. In quell’occasione, scoppiarono diverse rivolte in alcuni territori controllati da inglesi e da francesi (vedi Lovejoy, Hogendorn, 1990).

Curioso anche il caso del gruppo Yan Tatsine, guidato dall’eccentrico predicatore Mai Tatsine (1920ca.-1980), che fra il 18 e il 29 dicembre 1980 si scontrò con le forze dell’ordine a Kano, in Nigeria, risultando con la morte dello stesso Mai Tatsine. È difficile identificare una dottrina ufficiale del gruppo; certo è il rigetto del materialismo e della tecnologia, e il rifiuto della Sunna (la tradizione del Profeta) a favore del solo Corano. Mai Tatsine si dichiarò profeta nel 1979 sebbene non Mahdi, nonostante «sia stato indubbiamente esposto a idee mahdiste […]. Questo non significa che Mai Tatsine era un mahdista […] ma che era sicuramente consapevole del filone mahdista, inclusa la profezia intorno all’apparizione del Mahdi a Mecca nell’anno 1400 H. [1979 d.C.]» (Christelow, 1985: 383).

Proclamazione o no della mahdiship rinnovatrice o chiliastica, da sempre in Africa circolano personaggi che puntualmente recuperano profezie intorno alla comparsa del Ben Guidato, sollecitando moti rivoluzionari o quantomeno destabilizzanti per l’autorità costituita.

1979: IL MAHDI IN IRAN E IN ARABIA SAUDITA

Il 1979 è un anno particolarmente importante per il mondo islamico. Tre eventi, infatti, hanno sconvolto la coscienza musulmana: la rivoluzione iraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, e la rivolta messianica alla Mecca. Il fenomeno mahdista ha giocato un ruolo di primo piano in almeno due dei tre avvenimenti citati.

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Partiamo dalla rivoluzione iraniana. L’Iran, paese sciita per eccellenza, fra il 1978 e il 1979 ha visto la mobilitazione di diverse componenti della società civile contro lo Shah Mohammed Reza Pahlavi, alfine prevalendo la narrazione islamica sciita propugnata dall’ayatollah Ruhollāh Khomeini. Infatti, come riporta competentemente Gilles Kepel, «la dinamica dell’alleanza tra borghesia religiosa e gioventù urbana povera, sotto l’egida di Khomeini, trascinò lungo il medesimo solco i ceti medi urbani laici, i quali, incapaci di affermare la propria identità culturale, dovettero accettare il discorso islamista dominante, pur di salire sul carro della rivoluzione» (Kepel, 2015: 119). Com’è noto, l’episodio rivoluzionario ha avuto un’importanza centrale non solo per l’Iran ma anche per tutto il Medio Oriente e, di riflesso, per l’intero assetto geopolitico mondiale. Inutile dirlo, non ha mancato di avere tendenze messianiche. Sovente Khomeini è stato associato al Mahdi atteso, al punto che «si è diffusa la voce della comparsa del volto dell’ayatollah sulla Luna, nella notte del 27 novembre 1978, e milioni di persone affermarono di aver visto effettivamente quella sera i lineamenti dell’imam nell’immagine dell’astro» (Filiu, 2011: 98). L’associazione di Khomeini con l’atteso Mahdi non è mai stata sostenuta da Khomeini stesso né dalla Repubblica Islamica nata dopo la rivoluzione (nonostante Khomeini abbia da subito adottato il titolo di “Imam”, che dai tempi dell’occultamento del dodicesimo Imam non era stato utilizzato da alcuno in ambiente sciita), ma manifesta chiaramente le speranze messianiche mai sopite del popolo iraniano e degli sciiti in generale.

Premysl Rosulek ha dimostrato in un suo recente lavoro che «il Mahdismo era già parte integrante dell’ideologia islamica sciita anche nell’Iran pre-rivoluzionario» (Rosulek, 2015: 57), essendoci perciò una vera e propria continuità nella storia recente dell’Iran. Sostiene infatti Rosulek che nella seconda metà del XX secolo la questione del ritorno del Mahdi «è stata in parte provocata dalla necessità di rispondere polemicamente ai marxisti, ai secolaristi e alle critiche della religione Bahà‘i» (ivi: 59).

Quantunque non sussista una vera e propria autoidentificazione di Khomeini con il Mahdi, il nuovo assetto politico propugnato dall’ayatollah, la Velāyat-e Faqīh (l’“autorità del giurisperito”), considera i giurisperiti religiosi come gli unici soggetti legittimati a mettere in pratica la legislazione islamica in assenza del dodicesimo imam, il Mahdi. Quindi i giurisperiti religiosi «amministrano in veste fiduciaria la comunità dei credenti in attesa del ritorno [del Mahdi]» (Redaelli, 2007: 74). Leggiamo a tal proposito l’articolo 5 della Costituzione iraniana approvata con un referendum nel dicembre del 1979: «Durante l’occultazione del Dodicesimo Imam (Dio l’Altissimo voglia ridurre l’attesa), la reggenza esecutiva e la direzione della comunità islamica dei credenti nella Repubblica Islamica d’Iran appartengono al giurista giusto, virtuoso, consapevole dei problemi dell’epoca, coraggioso, capace di dirigere, oculato, riconosciuto e accettato come Guida della maggioranza del popolo». In questi termini, «il potere supremo della Guida promana dal Mahdi atteso, di cui esercita la reggenza in maniera assoluta» (Filiu, 2011: 100).

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Nella ancor più recente storia iraniana, un altro personaggio ha adottato in modo esplicito una retorica impregnata di riferimenti mahdisti: Mahmūd Ahmadinejad, sesto Presidente della Repubblica islamica dell’Iran, dal 2005 al 2013. Tralasciando il suo rapporto alquanto travagliato con l’establishment religioso, Ahmadinejad ha spesso invocato l’autorità del Mahdi per sostenere con più enfasi le sue posizioni politiche. Celebre, ad esempio, il finanziamento della moschea di Jamkarān nella città di Qom: «durante il suo ruolo, l’ayatollah Khomeini non ha mai ritenuto opportuno visitare la moschea di Jamkarān, che è stata costruita nel XI secolo per commemorare l’apparizione del Mahdi in sogno [ad uno shaykh locale]» (Filiu, 2009: 31). Ahmadinejad, invece, ha supportato e incentivato il fervore messianico dei pellegrini, convinto che il Mahdi sarebbe apparso da lì a poco. I suoi stessi discorsi politici, inoltre, hanno ripetutamente richiamato la potenza del Mahdi; i più popolari di questi sono stati pronunciati all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005 e nel 2012, quando il presidente iraniano ha esplicitamente menzionato l'incombente arrivo del Mahdi. Appare evidente allora che Ahmadinejad non cerca una legittimità legata alla Velāyat-e Faqīh ma piuttosto direttamente fondata sul dodicesimo Imam, comportando di conseguenza una «leadership […] più propensa al rischio e disposta ad assumere un atteggiamento provocatorio verso i suoi nemici» (Bar, 2009: 6).

Le credenze messianiche di Ahmadinejad «erano evidenti anche prima della sua elezione alla presidenza» (Savyon, Mansharof, 2007: 5) ma – si potrebbe aggiungere – sono altrettanto vive ancora oggi. Difatti, in una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera (28 luglio 2017), l’ex presidente iraniano ha sostenuto che «il mondo va verso la sua [del Mahdi] apparizione», dimostrando la sua sincerità quando proclamava la sua forte fede messianica.

In ogni caso, l’emergere di così potenti credenze messianiche in seno alla società iraniana contemporanea è dovuto anche e soprattutto «al crescente gap tra gli slogan rivoluzionari e le aspettative tradite [… in questo modo] superando la sempre minor legittimità della Velāyat-e Faqīh nell’Iran post-Khomeini tramite l’utilizzo dell’idea del Mahdismo nell’Islam politico sciita» (Rosulek, 2015: 69).

Torniamo al 1979. Ai fini del nostro discorso, l’altro importante evento è quello legato all'episodio noto come il sequestro della Grande Moschea di Mecca, «la più grande resistenza violenta che il regima abbia mai affrontato sin dalla creazione dell’Arabia Saudita» (Mabon, Helm, 2016) e la più clamorosa manifestazione del rejectionist Islamism10. Nel primo giorno del 1400 H., che corrisponde al 20 novembre 1979, un gruppo di trecento ribelli guidati da Juhayman al-‘Utaybi occupò militarmente la moschea della Ka‘ba chiedendo la fine del regno della famiglia dei Sa‘ūd, non riconoscendone la legittimità 10 Con l’espressione rejectionist Islamism s’intende «una particolare tradizione intellettuale dell’islamismo saudita, che rifiuta categoricamente la legittimità dello stato e le sue istituzioni e che opera per il ritiro dalla sfera dello stato […]. Nella prima metà degli anni ’90, i jihadisti e i rejectionists hanno iniziato a mescolarsi […] Negli anni 2000, la crescente polarizzazione del campo islamista saudita tra riformisti e jihadisti ha lasciato sempre meno spazio per i rejectionists» (Hegghammer, Lacroix 2007: 117, 118).

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religiosa. Al contempo, al-‘Utaybi annunciò che Muhammad bin ‘Abd Allah al-Qahtani, suo cognato, era il tanto atteso Mahdi. Subito il regime saudita mobilitò le forze armate, dando vita ad un assedio destinato a durare due intere settimane, dal 20 novembre al 4 dicembre. Il combattimento si concluse con l’intervento dei commandos francesi del GIGN (Groupe d’Intervention de la Gerdarmerie Nationale) e con la conseguente morte di tutti gli insorti e finanche del presunto Mahdi il quale, per l’appunto, morì già il terzo giorno dell’assedio, lasciando l’amaro in bocca a chi credeva nelle ancora fresche speranze messianiche. E purtuttavia, «in certi circoli millenaristi dell’Arabia rimase a lungo la convinzione che il Mahdi non fosse stato ucciso alla Mecca, ma che si nascondesse per sfuggire alle forze del Male» (Filiu, 2011: 106).

Non è questa la sede per discutere dell’ambiguo esito dell'episodio per l’establishment saudita: la perdita di autorità e credibilità dovuta al fatto di aver ricorso a forze armate straniere e “infedeli” è stata una ferita difficilmente rimarginabile (a tal proposito, vedi Ménoret, 2008: 130-135).

La tipologia di Mahdismo che ha guidato al-‘Utaybi è esposta chiaramente in uno studio di Thomas Hegghammer e Stéphane Lacroix: «Il tempismo dell’attacco – scrivono gli autori – era stato con tutta probabilità determinato dalla fede di Juhauman [al-‘Utaybi] in una tradizione sunnita intorno al “rinnovatore del secolo” (muğaddid al-qarn), secondo cui un importante personaggio apparirà all’inizio di ciascun secolo dell’egira» (Hegghammer, Lacroix, 2007: 112). Insomma, secondo quest’analisi ci troveremmo di fronte a un Mahdi di tipo muğaddid, cioè rinnovatore – che, di fatto, è statisticamente il più rappresentato nella storia sunnita contemporanea, come abbiamo fin qui avuto modo di rilevare. Un’inversione di tendenza si avrà, poi, con l’apparizione dell’auto-proclamato Stato Islamico (Isis o Daesh).

La genealogia dei rivoluzionari di al-‘Utaybi è da rintracciarsi nel gruppo noto come al-Ğamā‘ah al-Salafiyya al-Muḥtasibah (JSM, “gruppo per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”) sorto a Medina negli anni ’60, destinato a spaccarsi in due nel 1977, quando la maggioranza si strinse intorno a al-‘Utaybi assumendo il semplice ed evocativo nome di Iḫwān (“fratelli”) e preparando l’evento rivoluzionario del 1979. JSM è stato fondato da alcuni discepoli di una nota personalità salafita del ‘900, Mohammad Nasir al-Din al-Albani (1914-1999), soprannominato il «tradizionista dell’epoca» (muhaddiṯ al-‘aṣr) dallo shaykh ‘Abd al-‘Aziz ibn Baz, allora vice-presidente dell’Università di Medina. Con il termine “tradizionista” s’intende un esperto di ḥadīṯ. Forte della sua immensa conoscenza degli ḥadīṯ, al-Albani ha fortemente condannato la validità del patto sociale saudita, respingendone le credenziali di ortodossia. Tuttavia gli interessi di al-Albani vertevano sulla religione e non sulla politica, tanto da non avere alcun interesse ad intervenire attivamente nelle dinamiche politiche del regno – la sua critica ai Fratelli Musulmani gravita proprio su questo punto, e cioè sull’accusa di essere troppo interessati alla politica rispetto alle pratiche religiose e al credo. Una sua famosa frase recita: «Nelle presenti circostanze, la buona politica è stare lontani dalla politica» (citato in Lacroix, 2013: 69). La chiara indicazione di al-

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Albani circa la possibilità o meno di fare politica è stata sormontata da parte di al-‘Utaybi grazie all’annuncio dell’arrivo del Mahdi, «che non ha niente a che fare con alcuna strategia politica» (ivi: 75), ma che, appellandosi all’intervento divino, permette di creare uno stato d’eccezione in cui i tradizionali punti fermi vengono meno e l’audacia, l’ardire e l’impudenza prendono il sopravvento sul normale calcolo strategico. Le conseguenze del messianismo politico sono imprevedibili.

CONCLUSIONI: L’ISIS E LE NUOVE METAMORFOSI DEL MAHDISMO

Erede intellettuale di al-‘Utaybi è, fra gli altri, Abu Muhammad al-Maqdisi (1959-), ideologo radicale islamista di origini palestinesi. I suoi lavori contengono numerosi rimandi a al-‘Utaybi, e lui stesso è stato, e tutt’ora è, amico di ex membri e simpatizzanti degli Iḫwān (vedi Hegghammer, Lacroix, 2007: 115-117). Allievo di al-Maqdisi è stato Abu Mu‘ab al-Zarqawi (1966-2006), padre della formazione Ğamā‘at al-tawḥīd wa al-ğihād (“gruppo Tawhid e Jihad”) che ha giocato un ruolo di primo piano nella guerra in Iraq del 2003 e che nel 2004 diventò Al-Qaeda in Iraq (AQI) e, infine, qualche mese dopo, Stato Islamico dell’Iraq (ISI), l’antesignano del più noto gruppo Stato Islamico proclamato nel giugno del 2014. Insomma, c’è un filo rosso che unisce la rivolta messianica a Mecca del 1979 all’Isis. Non a caso al-Zarqawi, padre del gruppo terroristico più letale del mondo, era un fervente millenarista: la certezza che il Mahdi sarebbe apparso presto lo ha portato ad adottare una tattica estremamente cruenta e poco propensa al compromesso – la struttura escatologica di al-Zarqawi è stata mantenuta anche nelle successive metamorfosi del gruppo terroristico. Il cosiddetto Stato Islamico è interamente edificato sull’idea dell’imminente arrivo della fine dei tempi, per la quale il Giorno del giudizio è vicino, il mondo è sul punto di essere distrutto e il Mahdi è pronto a manifestarsi.

Nella seguente trattazione ci limiteremo ai soli riferimenti mahdisti, tacendo, per mancanza di spazio, tutte le altre profezie escatologiche che l’Isis ha adottato nella sua propaganda politica per far leva sul mai sopito fervore apocalittico degli islamisti.

La bandiera nera, presentata per la prima volta nel gennaio 2007, ha un chiaro riferimento mahdista. Il gruppo spiegò il significato della bandiera con la seguente preghiera: «Chiediamo a Dio (sempre sia lodato) di rendere questa bandiera l’unica bandiera per tutti i musulmani. Siamo certi che sarà la bandiera della gente dell’Iraq nel momento in cui il popolo sosterrà il Mahdi» (citato in McCants, 2015: 22). Il riferimento è a diverse e consolidate tradizioni islamiche che considerano le bandiere nere come l’indice della prossima venuta del Mahdi. Diamo un’occhiata ad alcuni ḥadīṯ che corroborano questa visione:

Le persone della mia famiglia affronteranno calamità, espulsioni ed esili dopo che me ne sarò andato, fino a quando alcuni uomini giungeranno da oriente

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portando con sé bandiere nere. Chiederanno qualcosa di buono ma non gli verrà concesso. Allora combatteranno e vinceranno, dunque gli verrà consegnato ciò che volevano, ma non lo accetteranno, e allora verrà dato il comando a un uomo della mia famiglia. Quindi riempiranno [il mondo] di giustizia proprio come era stato riempito di ingiustizia. Chiunque fra di voi vivrà [tanto] da vedere questo [accadere], che vada con loro [con gli uomini dalle bandiere nere] anche se dovrà strisciare sulla neve11. Questo ḥadīṯ è una chiara e significativa indicazione per le future generazioni affinché seguano con tutti i mezzi a loro disposizione le bandiere nere che si leveranno a oriente. In un altro ḥadīṯ il riferimento al Mahdi, il “Ben Guidato”, è ancora più esplicito: Tre [persone] combatteranno tra loro per il vostro tesoro, e ciascuno dei tre sarà il figlio di un califfo, ma nessuno dei tre riuscirà a ottenere [il tesoro]. Quindi bandiere nere verranno da oriente, e loro vi uccideranno in una maniera senza precedenti. […] Quando le vedrete, giurate fedeltà a loro anche se dovrete camminare sopra la neve, dal momento che là sarà il califfo di Allah, il Mahdi12. Il 7 giugno 2006 al-Zarqawi fu ucciso da un comando statunitense. Alcuni

giorni dopo, il 12 giugno, Abu Ayyub al-Masri venne designato come nuovo leader di AQI, e pochi mesi dopo, il 15 ottobre, veniva fondato lo Stato Islamico dell’Iraq (ISI). Il portavoce ufficiale della nuova formazione, Muharib al-Juburi, indicò un certo Abu Umar al-Baghdadi come il “Comandante dei credenti”, e al-Masri diventò il suo vice nonché ministro della guerra di ISI. Tuttavia «l’influenza di [Abu Umar] al-Baghdadi era così ridotta che funzionari statunitensi nel 2007 avevano addirittura creduto che fosse un personaggio fittizio impersonato da un attore» (Bunzel, 2015: 21). In simili circostanze al-Masri concentrò tutto il potere sulla propria figura, divenendo la reale guida del gruppo radicale. Il suo unico problema era la sua smisurata ossessione per la fine del mondo e per l’arrivo del Mahdi. Come riporta puntualmente William McCants, al-Masri

fu precipitoso nella fondazione dello Stato perché riteneva che il Mahdi, il salvatore islamico, sarebbe arrivato entro l’anno. Di conseguenza il califfato doveva essere pronto al fine di aiutare il Mahdi nella battaglia finale dell’apocalisse. […] Quando i compagni vicini ad al-Masri lo criticavano per aver compiuto decisioni strategiche basate su un calendario apocalittico, al-Masri replicava: “Il Mahdi arriverà uno di questi giorni”. […] In occasione della sua nomina a Ministro della guerra di ISI proclamò: […] “Noi siamo l’esercito che consegnerà il testimone al servo di Dio, il Mahdi” (McCants, 2015: 32).

11 Ḥadiīṯ in Sunan di Ibn Majah 4082. 12 Ḥadiīṯ in Sunan di Ibn Majah 4084.

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L’entusiasmo messianico di al-Masri preoccupò le alte sfere di al-Qaeda, che allora era ancora patrone del gruppo. La parabola storica di ISI, comunque, si concluse il 18 aprile 2010 con la morte di Abu Umar al-Baghdadi e Abu Ayyub al-Masri in un raid congiunto delle forze americane e irachene. Nel maggio del 2010 Abu Bakr al-Baghdadi prese la guida del gruppo ormai agonizzante.

Lo Stato Islamico di al-Baghdadi non ha mai fatto espliciti riferimenti al Mahdi. Si tratta forse di una contraddizione? Non proprio. Infatti al-Baghdadi è semplicemente più cauto rispetto ai precedenti vertici di ISI sulla risolutezza ad innescare un troppo ardente slancio apocalittico, conscio che è stato proprio questo particolare entusiasmo a condurre ISI al fallimento. L'esaltazione per l’arrivo del Mahdi deve essere quindi tenuta sotto controllo. A tal proposito, William McCants ritiene che al-Baghdadi abbia invertito due elementi, rendendo «il califfato, e non più il Mahdi, il centro focale dell’immaginazione apocalittica del gruppo. Questo non significa che il Mahdi non debba arrivare nell’immediato […] Per il momento, pertanto, la priorità è il califfato e non il Giorno del Giudizio» (ivi: 142). Una simile riorganizzazione delle priorità permette al gruppo di prestare una maggiore attenzione alla gestione politica e strategica piuttosto che alla fine dei tempi, superando un’attitudine che potremmo definire suicida. Il comportamento irrazionale della precedente conformazione di Daesh è, di conseguenza, superato, e adesso il traguardo immediato diventa quello di creare un’avanguardia che spiani pazientemente e razionalmente la strada al Mahdi.

Più recentemente, lo Stato Islamico ha insistito in maggior misura sull’arrivo di Gesù (‘Isā) che nei tempi ultimi romperà la croce e restaurerà un puntuale Islam (vedi il magazine di propaganda Dabiq n. 15). Una possibile spiegazione può essere trovata nella volontà di rendere più semplice e allettante il messaggio jihadista per i foreign fighters, specialmente per i combattenti provenienti da paesi europei o, comunque, di tradizione cristiana: coloro che si convertono dal cristianesimo all’islamismo estremo propugnato dall’Isis potrebbero trovare più semplice accettare la venuta di Gesù alla fine dei tempi rispetto all’arrivo di un personaggio non appartenente al loro immaginario culturale nativo. In questa maniera, l’adattamento del credo precedente al nuovo credo sarebbe un processo che si configurerebbe nel modo più naturale possibile. David Cook, parlando della produzione apocalittica islamica contemporanea e notando che la figura di Gesù viene sempre più spesso chiamata in causa, scrive acutamente: «Per secoli i missionari cristiani hanno tratto vantaggio da questo [dalla presenza di Gesù in ambedue le religioni] per scopi polemici, iniziando già nei tempi dei bizantini, e adesso, invece, sono a loro volta i musulmani ad adoperare Gesù per parlare ai cristiani» (Cook, 2005: 216).

Nel caso dell’Isis, il Mahdismo è marcatamente apocalittico, e il Mahdi atteso è privo di quel carattere muğaddid (rinnovatore) che invece troviamo in pressoché tutti i precedenti casi sunniti. La fine del mondo è il focus principale di questo jihad destinato a continuare sino al giorno della Risurrezione e rivolto ad auspicare gli eventi catastrofici profetati dalle antiche tradizioni. Il Mahdismo

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rivoluzionario del sedicente Stato Islamico è, quindi, profondamente nichilista: «la violenza perde il suo significato sacrificale e redentivo [che aveva presso al-Qaeda], acquistando piuttosto un valore di purificazione, unito in ultima istanza alla partecipazione a un conflitto cosmico e alla fine dei tempi. [… Si tratta] di una perversa celebrazione del nichilismo» (Borowsky, 2015). La «politica della tabula rasa» (Pellicani, 2015: 211) è, in altri termini, l’esito estremo di un Mahdismo apocalittico dal carattere rivoluzionario.

L’Isis è stato abile nel rimanere nella costante attesa del Mahdi, preservando un carattere message-oriented, catalizzando potenzialmente il consenso di tutti i musulmani del mondo senza che il presunto Mahdi, e con lui l’intero gruppo, potesse perdere di legittimità una volta che il Ben Guidato si fosse manifestato pubblicamente. L’accortezza strategica del nuovo corso dell’Isis si è dimostrata vincente. E nondimeno le sconfitte dello Stato Islamico sul territorio hanno messo in dubbio il futuro del gruppo terroristico. Difficile dire se le sue (plausibili e temute) successive evoluzioni perpetueranno il Mahdismo adottato finora13. La storia islamica ha comunque dimostrato la persistenza e la ricorrenza del fenomeno mahdista nel corso dei secoli. Staremo a vedere se il salafismo-jihadismo conserverà quel tratto mahdista che sovente scalda i cuori ed eccita gli animi.

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13 (per approfondire le conseguenze del fallimento delle profezie, vedi Dawson, 2017; McCants, 2016)

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L’AUTORE Giacomo Maria Arrigo è dottorando in “Politica, Cultura e Sviluppo” presso l’Università della Calabria con un progetto di ricerca dal titolo Il salafismo-jihadismo come fenomeno gnostico-rivoluzionario. È membro del team di ricerca di Occhialì – Laboratorio sul Mediterraneo islamico e fa parte del Comitato editoriale dell’omonima rivista. Dopo la Laurea triennale e la Laurea magistrale in Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è diplomato al Master Universitario in “Middle Eastern Studies” presso ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali) con una tesi intitolata The Islamic State’s Apocalyptic Jihad dedicata allo studio delle profezie apocalittiche adoperate nella propaganda del gruppo Stato Islamico.

E-mail: [email protected]

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Successione temporale, implementazione coranica e prospettiva escatologica. L’esegesi gender-inclusive di Amina Wadud

Martina Biondi Abstract: Amina Wadud is one of the most prominent contemporary Islamic thinkers whose almost thirty-year work, supported by a progressive reading of the Qur’ān, is about equality between genders. Her insightful model of Qur’ānic exegesis involves the relevance of textual complexity, a thematic approach to bring together interrelated topics, the possibility to intend certain parts of the text – such as the paradisiac ḥūr imagery, which ultimately are symbolic figures standing for the eternal wellness - along with the general spirit or Qur’ānic world-view. This essay deals with the temporal significance of Wadud’s production, as the crucial historical passage between the Mekkan and Medinan periods produces a paradigmatic shift concerning gender dimension, something that allows the contemporary readers to implement the Qur’ānic message, interpreting female roles according to the specific context of life. Keywords: Amina Wadud – Exegesis – Mekkan and Medinian Periods – Eschatology Parole chiave: Amina Wadud – Esegesi – Periodi meccano e medinese – Escatologia

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Contrariamente a questa lettura immobilista, i sostenitori di un’esegesi metaforica non cessano

di combattere contro tutte queste fantasticherie mitologiche e operano per istituire una diversa comprensione razionale della realtà,

nell’intento di sviluppare una vita dignitosa. (Abū Zayd, 2002: 65)

TEMPO, SPAZIO E GENERE Amina Wadud (Bethesda, USA, 1952) accademica specializzata negli Islamic Studies, è studiosa che ha dedicato la sua opera teologica alla ricerca della giustizia di genere racchiusa nel Corano, All’anagrafe Mary Teasley, è afroamericana convertitasi all’Islam negli anni Settanta, spinta dalla carica di giustizia emanata dalla religione islamica, assumendo il nome di “Wadud” (“animato da benevolenza”, “favorevolmente disposto”). La sua carriera accademica ha preso avvio presso l’Università Internazionale Islamica della Malaysia, dove ha insegnato fino al 1992; tornata negli Stati Uniti, è a tutt’oggi professore associato

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di Studi Islamici alla Virginia Commonwealth University di Richmond. La sua prima monografia, Qur’ān and Women. Rereading the Sacred Text from a Woman’s Perspective, uscita nella sua prima edizione nel 1991, fa da apripista agli studi coranici con focus su di un’ermeneutica attenta alla sfera femminile. Qui prende corpo la pratica di lettura esegetica coranica di Wadud e si enucleano le questioni teologiche più rilevanti del suo pensiero (qiwāma maschile circostanziata, agentività di ḫalīfah, idea di engaged surrender e nuova significazione del concetto di unicità divina, o paradigma tawhidico). Il suo secondo contributo in volume, Inside the Gender Ğihād. Women’s Reform in Islam, del 2006, pone in rilievo l’emblematica esperienza personale della studiosa, con particolare risalto al suo essere madre sola di cinque figli, musulmana divorziata, accademica transnazionale, attivista impegnata nell’affermazione dei principi di uguaglianza in molteplici contesti islamici, mantenendo un continuo dialogo con il Testo Sacro, da cui ella fa provenire ogni legittimità di azione.

Attraverso una produzione quasi trentennale, Wadud mira a dimostrare come il Testo Sacro dell’Islam non esprima un’inferiorità intrinseca della donna, o connaturata al suo genere. Anzi, il messaggio coranico, secondo la sua lettura interpretativa, sarebbe fautore di una fondamentale uguaglianza di donne e uomini, di fronte a Dio e fra di essi, in quanto improntato a una armonia di fondo che richiede ai credenti reciprocità e collaborazione, elementi, questi, che dovrebbero prendere corpo sia in ambito familiare che a livello sociale, con l’effetto di uno scardinamento dei presupposti patriarcali condivisi in vari contesti islamici (Wadud, 2009: 100-107). La teologa americana pone in rilievo l’evidenza secondo cui il Corano non faccia differenza dal punto di vista spirituale fra uomo e donna, i quali vengono egualmente giudicati, dopo il trapasso, sulla base dei loro meriti, a loro volta stabiliti in accordo con il criterio della taqwā (pietas) (Wadud, 1992: 128, 1997:8). Da un punto di vista teologico, dunque, gli esseri umani, in quanto credenti, a parità di azioni e indipendentemente dal genere, sono ugualmente meritevoli, di fronte a Dio, della ricompensa eterna. In questo senso, la differenza sessuale, indispensabile ai fini riproduttivi, e quella funzional/comportamentale in seno alle diverse società islamiche, sarebbero delle “sovrastrutture” rispetto al valore intimo ed ultimo di ḫalīfah, che, nella visione di Wadud è colui o colei che si rimette a Dio operando una scelta persionale in virtù della propria «agency» (Wadud, 2004: 324, 2006: 23).

Questo contributo mira a gettar luce sul rilievo temporale della produzione wadudiana, illustrando come l’idea di successione coranica fra periodo meccano e medinese di Rivelazione sia un nodo concettuale determinante nella prospettiva di Wadud, in quanto funge da premessa e giustificazione a un’ulteriore implementazione coranica, in accordo con ogni tempo storico e particolare contesto sociale. Altro proposito è quello di evidenziare come l’idea di eternità dopo il trapasso possa essere ripensata alla luce di una lettura “figurale” e metaforica. In questa prospettiva, il dato linguistico e la sua interpretazione analitica emergono come essenziali allo sforzo di iğtihād, mostrando come le coordinate diacroniche vadano a combinarsi con la lettura filologica del Testo rivelato, tradizionalmente

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considerato increato ed eterno. Come scrive Wadud: «Il Messaggio è permanente, divino, immutabile, perfetto, infinito», mentre la sua comprensione è «operazione specifica, imperfetta, limitata, ma assolutamente necessaria se si vuole che il Messaggio raggiunga il suo obiettivo» (Wadud, 1998: 74). In questo senso, la teologa sembra aggirare la tesi di derivazione ašarita secondo la quale, essendo il Corano increato ed eterno, non potrebbe essere sottoposto ad analisi di stampo storicistico e relativizzante, per quanto l’esegesi classica ammetta un certo grado di storicizzazione insita al discorso dei asbāb al-nuzūl, le cause della rivelazione. Al contempo, pur non riconoscendo il Corano come creato, presupposto di dottrina mu’tazilita (Campanini, 2004: 125), Amina Wadud sostiene l’importanza di leggere il Testo anche alla luce del suo portato contestuale e storico, che si fa cruciale per cogliere la logica progressiva del manifestarsi coranico. DISCHIUDERE SIGNIFICATI: QUATTRO PUNTI PER UN’ESEGESI CORANICA L’approccio di analisi proposto dalla teologa è plurimo e combinatorio, e chiama in causa oltre alle compentenze filologiche, una sensibilità tematizzante, la capacità di guardare oltre al dato letterale per abbracciare il portato globale del Testo Sacro e, appunto, il valore storicistico dato da un contesto di rivelazione in cambiamento, la cui maggiore implicazione è, per Wadud, la possibilità di assumere uno sguardo progressivo rispetto ad alcuni temi nel mondo contemporaneo. Così, le coordinate spazio-temporali si combinano, nello spacifico, all’indagine della categoria di genere femminile racchiusa tessuto coranico.

Di seguito sono riportati in quattro punti i presupposti dell’esegesi coranica wadudiana:

1. Rintracciare le relazioni tematiche di un argomento all’interno dei contenuti coranici, tenendo presente anche dell’esistenza del piano metaforico e analogico di lettura. 2. Correlare le questioni contenutistiche al più generale apparato grammaticale (oltre alla semantica, integrarvi anche l’analisi dei livelli morfologico e sintattico). 3. Tener presente il significato del contesto in cui il Testo Sacro è stato rivelato. 4. Considerare la visione globale del Testo Sacro (Weltanschauung o world-view), anche detta lo «spirito del Corano» (Wadud, 1999: 4).

Nella sua interezza, tale modello ermeneutico, potenzialmente applicabile alle più vaste tematizzazioni coraniche, emerge come paradigma denso, che pone i contenuti coranici sotto una lente di risignificazione. Il primo punto, oltre alla necessità di mettere in relazione parti del Corano accumunate dallo stesso argomento, affrancandosi da ogni lettura “atomistica” e “atomizzante”, esprime

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l’urgenza di aprirsi a una visione analogica del Testo Sacro, dimensione preliminare e feconda per una lettura metaforica. Scrive in tal senso Wadud, ponendo peraltro in rilevo un certo valore meta-letterario del Corano: «Il linguaggio religioso è polivalente: possiede vari significati possibili, da quello letterale a quello metaforico. E il Corano spiega che la Rivelazione include espressioni allegoriche (mutašabihāt) e asserzioni letterali (muḫamāt)» (Wadud, 1998: 71).

Al secondo punto, si sostiene la necessità di leggere a fondo il dettato coranico, decostruendo la composizione grammaticale del Testo, per scoprirvi relazioni grammaticali inedite, alle quali si andranno a combinare anche gli aspetti sintattico e semantico. Come scrive Amina Wadud: «Each term should (…) be examined on the basis of its language act, syntactical structures and textual context in order to more fully determine the parameters of meaning. This requires a dual process: keeping words in context and referring to the larger textual development of terms» (Wadud, 1999a: XIII). Nel tentativo di risolvere le ambiguità semantiche, lo forzo di lettura di Wadud è, dunque, indirizzato alla comprensione di circostanze e coerenza testuali, tenendo anche presenti lo sviluppo terminologico e la compartecipazione dei termini all’atto lingustico, che nel Corano è parte della produzione di quel particolare discorso che è il discorso religioso, dai rimandi trascendenti e spirituali. DI SUCCESSIONE TEMPORALE E RISIGNIFICAZIONE CORANICA: LO SCARTO FRA PERIODO MECCANO E MEDINESE DI RIVELAZIONE La percezione islamica del tempo si innerva attorno al momento fondante della comunità musulmana. Il trasferimento da parte dei suoi sodali e di Muhammad nell’anno 622 da Mecca a Yaṯrib, di lì in poi Medina, non è solo l’inzio della nuova comunità politico-religiosa, con la fusione fra “emigrati” ed “ausiliari” (Donner, 2011: 45), ma diverrà, anche, lo spartiacque simbolico tra un prima, la cui scansione rimane fuori dalla temporalizzazione calendarica islamica, e un dopo. Il valore di questa tradizionale suddivisione storica è ripreso ed enfatizzato da Amina Wadud, per la quale lo scarto tra i due periodi assume una portata euristica paradigmatica.

Il contesto storico di Rivelazione, incluso nella sua metodologia analitica da applicare al Corano, è anche realtà con cui definitivamente il pensiero islamico debba misurarsi, in linea con un certo indirizzo storicistico contemporaneo. La studiosa americana riprende l’idea della significatività della suddivisione storica della Rivelazione, in particolare, dal pachistano Fazlur Rahman (1919 – 1988), che per primo ha posto sotto una moderna lente di analisi il valore storicistico di tale suddivisione (Rahman, 1966). Oltre a Rahman, fra coloro che hanno avanzato un approccio storicista in seno al pensiero contemporaneo islamico, non senza suscitare vivide reazioni da parte degli ambienti conservatori, vi sono

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Naṣr Ḥāmid Abū Zayd (1943 – 2010) e Muhammad Arkoun (1928 – 2010). Il primo elabora un discorso altamente collimante con quello wadudiano, in quanto combina l’analisi storicistica a quella testuale e linguistica; il secondo rileva come l’epoca moderna abbia posto il pensiero islamico di fronte a entità intellettuali prima “impensate” e “impensabili”, che oggi le scienze coraniche devono finalmente tenere in considerazione (Campanini, 2016: 93-112; Abū Zayd, 2012, 2002: 34-85; Arkoun, 1994, 2002: 67-113).

Dunque, in sintonia con tale recente filone di lettura storicista che, con vari esiti, sostiene la possibilità di leggere il Corano anche tenendo conto del contesto storico di Rivelazione, Amina Wadud introduce, nel suo modello ermeneutico, la necessità di guardare a come il contesto sociale dell’Arabia del VII secolo abbia influito nel dettato coranico (punto terzo), secondo il riferimento alle direttrici di continuità e discontinuità. Pur prendendo cautamente le distanze dalla dottrina tradizionale dell’abrogante (nāsiḫ) e dell’abrogato (mansūḫ), che, a suo avviso, opera un approccio troppo meccanicistico del criterio cronologico, Amina Wadud considera come molti aspetti della Rivelazione più recente, quella del periodo medinese, siano più «meaningful», cioè più ricchi di significati specifici, che non quelli del periodo meccano (Wadud, 2004: 327-331).

Le sure meccane, animate da toni apocalittici e rivelate prima dello sconvolgimento dell’hiğra, momento fondante della comunità musulmana, contengono i riferimenti di guida universale e fondano la nuova comunità dei credenti, presentando, tuttavia, ancora un certo rapporto di continuità con la ğāhiliyya, rapporto necessario al Messaggio coranico per far presa ed essere assimilato dalle genti della realtà preesistente. Le sure di rivelazione medinese, che si caratterizzano per i toni più misurati e la prevalente intenzione prescrittiva, sono poste in rilievo da Wadud per il loro valore di pieno rinnovamento della comunità. Esse sviscerano in maniera più approfondita le questioni riguardanti uomini e donne nella loro differenza di genere, e da esse si trae più chiaramente lo spirito di guida che anima il Corano, presentando la possibilità di una maggiore implementazione ai giorni nostri (Wadud, 1999b: 12). Sarà qui interessante notare come la visione del tempo di Rivelazione wadudiana ribalti i presupposti di un altro intellettuale islamico contemporaneo, Mahmūd Ṭāhā (1909-1985), che ha significativamente introdotto una radicale divisione dei periodi meccano e medinese, sostenendo come le sure meccane, prive delle prescrizioni specifiche, oggi anacronistiche, del periodo medinese, siano l’originale nucleo di guida per gli uomini al di là di ogni tempo (Tāhā, 2002: 143-144).

Ci si ricollega così al quarto ed ultimo punto programmatico di metodologia d’analisi. Wadud vi afferma l’importanza di far rientrare ogni lettura specifica entro la cornice di coerenza generale che domina il Testo Sacro, tenendo fede alla Weltanschauung o visione del mondo che globalmente emerge dal Corano, quale testo di rinnovamento nel segno di giustizia e armonia, familiare e sociale. Questo punto rimanda alla convinzione, espressa dalla tradizione esegetica con il termine naẓm, che vi sia un sottofondo fondamentale di coerenza interna al Corano,

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a cui si può render conto assumendo uno sguardo olistico sul Testo Sacro (Wadud, 1995-96: 44). ESCATOLOGIA E TEMPO DELL’ETERNITÀ: L’IMMAGINARIO PARADISIACO DA ḤŪR A ZAWĞ Nella lettura wadudiana, la dimensione temporale si combina con quella linguistica in un rapporto di stringente interrelazione. Lo slittamento temporale fra periodo meccano e medinese si affianca a uno shift linguistico che vede, ad esempio, l’introduzione del ricongiungimento della coppia matrimoniale, del periodo medinese, a sostituzione delle ḥūr di epoca meccana, ovvero presenze femminili paradisiache dai tratti stilizzati, da leggersi in senso metaforico e non letterale – cioè come eventuali prove di un Paradiso “sessuale” indirizzato al soddisfacimento maschile – e che, in ultima analisi, sono conferma di una rapporto residuale che il Corano intrattiene con l’epoca della ğāhiliyya.

Nel Corano si fa svariate volte riferimento al fatto che la vita nell’Aldilà sarà piacevole e migliore di quella terrena (Cor. 87:17, 93:4, 25:24, 16:30, 17:21 e 87:17), sia per la sua durata, infinita (infatti: «le cose che durano sono migliori» Cor. 18:46) sia per il grado di intensità della ricompensa. Il Paradiso è descritto come il luogo di eterno appagamento, di cui Wadud propone una lettura innovativa, in linea con la sua proposta di attualizzazione del dettato coranico. Anzitutto l’immagine del Paradiso come di un Eden esotico, ricco di verde e di acqua, sostiene Wadud, appartiene all’immaginario paradisiaco arabico e desertico e, pertanto, presenta i margini per essere “implementato” dal credente che abita coordinate spazio-temporali differenti. Per quanto esso si riferisca a una dimensione non dominabile dalla mente umana, l’Aldilà può essere immaginato dal mu’min contemporaneo, oltre ogni anacronismo, come ricco di ciò che più egli o ella possa desiderare. Come sostiene Wadud: «Readers from varying contexts must determinate how those particulars are significant and express them in terms rilevant to their own lives. Each new generation of Qur’ānic readers must revaluate Qur’ānic values and, more specifically, must determine what the expressions of Paradise mean to them» (Wadud, 1999a: 53). Pertanto, i riferimenti a un Paradiso come luogo di abbondanza di beni materiali altamente desiderabili per un uomo di cultura beduina, sono da leggersi in chiave metaforica e non letterale, in quanto soltanto indicativi del grado di piacere ed appagamento che lì si potrà raggiungere.

A ben guardare, le stesse descrizioni sensuali del Paradiso, risalenti al periodo meccano, dal punto di vista di Wadud, sono da intendersi in senso lato, ovvero come metaforiche indicazioni di piacere (Wadud, 1999a: 53). Come detto, Wadud vede il significato delle ḥūr alla luce della suddivisione relativizzante della Rivelazione fra periodo meccano, in cui Dio parlava a un’audience ancora da riformare, e periodo medinese, che imprimerebbe uno scarto di veduta rispetto al

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periodo precedente e durante il quale si rafforza l’incisività del Messaggio coranico nella sua carica innovativa rispetto a credenze della ğāhiliyya.

Nell’epoca della ğāhiliyya e, ancora, nell’immaginario arabo del VII secolo, ḥūr sono le donne sensuali, dalla bellezza idealizzata: chiare di carnagione, dagli splendidi occhi grandi, paragonabili a quelli di una gazzella e, al contempo, dallo sguardo casto (Cor. 37:48, 55:56, 52:20, 56:22-23, 37:48 e 42:20). Perlopiù, ci si riferisce loro attraverso la costruzione iḍāfah, ḥūr al-‘ayn’, definito da Wadud come «il termine pre-islamico per una donna bianca di viso, dalla carnagione chiara con grandi occhi scuri, impiegato nel periodo meccano per le accompagnatrici donne nel Paradiso» (Wadud, 1999a: XXV). In definitiva, come emerge non dalla sola lettura wadudiana (Rustomji: 2007), le ḥūr riflettono i particolari canoni estetici di bellezza della comunità ancora in formazione nel periodo meccano; si tratterebbe, dunque, di un termine etnocentricamente connotato, e non universalmente valido.

Wadud mira a contestualizzare la bellezza stilizzata tipica dei gusti dell’epoca, espressa a più riprese nel periodo meccano, ma che non verrebbe più menzionata, come presa di distanza rispetto alla prima Rivelazione coranica, nel periodo medinese. Come scrive la teologa Americana (Wadud, 1999a: 55):

«The Qur’ān itself demonstrates the limitation of this particular depiction when the community of belivers in Islam had increased in number and established itself at Medina. After the Mekkan period, the Qur’ān never uses this term again to depict the companions in Paradise. After Medina, it describes the companions of Paradise in generic terms: ‘For those who keep from devil, with their Lord are Gardens underneath which rivers flow, and pure azwağ, and contentment from Allāh’» (Cor. 3:159).

Se l’immaginario islamico si è persuaso che ḥūr siano la ricompensa sessuale

maschile nel Paradiso di Allāh, anzitutto Wadud vede come una contraddizione in termini il fatto che si possa credere che a un uomo pio, ovvero dotato di taqwā, siano date come ricompensa sessuale delle giovani donne in Paradiso. Lo scarto matura più deciso quando, in ambito medinese, fa capolino l’idea di zawğ, che verrebbe introdotta a sostanziale sostituzione di ḥūr. Wadud sostiene la realtà del ricongiungimento dei coniugi dopo il trapasso soltanto nel caso in cui i destini individuali degli anfūs coincidano. Oltre a ciò, lo shift si completa laddove, come Wadud rileva percorrendo l’evoluzione della lingua coranica, a partire dal periodo medinese si afferma l’uso del termine azwağ come di ‘sodali’, ovvero compagni per fede ed opere gradite a Dio (Cor. 2.25, 3:15 e 4.57). Il termine va a indicare, in senso ampio, l’intera compagine dei meritevoli della vita eterna in Paradiso. Come asserisce Amina Wadud (1999a: 57), rimarcando attraverso una ricognizione filologica lo scarto fra utilizzo di ḥuri e zawğ:

«It is important to clarify that most authors assume every use of the word zawğ is equal to, or the same as, the ḥūr, especially in the light of verse that uses ḥūr

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and the verb zawwağa: ‘thus, we will pair them with the - ḥūr al-‘ayn’’ (44:54). That the term zawwağa means ‘to join together, or, to pair up’ does not equate zawğ with ḥūr, but expresses, during the Mekkan period, that a man will be joined by delightful companion according to his ideal».

Ne deriva che l’uso di azwağ corrisponderebbe, per via analogica, a quello di

credenti, come a dire che il Paradiso, oltre al luogo di ricongiungimento di coppia, è l’Eden in cui si ritrovano tutti i mu’minūn che in vita si sono distinti come esseri ricchi di taqwā. Come sintetizza Wadud: «The emphasis then is on partnership, friendship, comfort, and harmony in Paradise, as oppoesed to the isolation, loneliness and despair of Hell. Perhaps one might be reunited with his or her earthly mate in Paradise, provided that the basis for the reunion is shared belief and good deeds» (Wadud, 1999a: 71).

Sgomebrando il campo da ogni idea di “Paradiso sessuale” volto al soddisfacimento degli istinti terreni per la sola parte maschile, Wadud pone l’accento sulla dimensione collettiva del Paradiso, come di luogo che accoglie in una retta compagnia gli anfūs ammessi a trascorrere la loro vita eterna, i quali, pur non sapendo esattamente cosa potranno esperire nell’Aldilà, possono tuttavia prefigurarne la bellezza attingendo dal proprio immaginario, e pensando il Paradiso come il luogo eterno in cui gioveranno dei piaceri virtuosi che più li aggradano. PROGRESSIONE CORANICA: IL TESTO SACRO COME GUIDA NEL TEMPO ODIERNO Oltre al tempo infinito dell’Aldilà, di cui Wadud decostruisce ogni possibile approccio androcentrico, restituendo l’idea di uguaglianza fra uomini e donne nel godimento dell’infinita gioia in caso di assegnazione del Paradiso, la lettura progressiva si presta, naturalmente, ad applicazioni nel tempo finito della fase terrena, i cui risvolti gettano nuova luce su prescrizioni e ruoli in riferimento al genere femminile.

Nella sezione della sua prima monografia intitolata «The Significance of Context and Chronology in Qur’ānic Social Reforms for Women» Amina Wadud nota come nelle sure del periodo meccano non vi è diretto riferimento a ruoli, responsabilità o trattamenti specifici da riservare alle donne; anzi: «If a woman was mentioned in the Mekkan period, she was a generic example for all humankind» (Wadud, 1999a: 78). Differentemente, il periodo medinese introduce importanti limitazioni rispetto a trattamenti lesivi verso donne e bambine. In questo senso, le novità prescrittive sono tese a sortire un netto miglioramento delle condizioni femminili. Conformemente a ciò, il Corano si pone nel segno di una netta discontinuità nei confronti della ğāhiliyya, laddove prende le distanze verso pratiche preesistenti e disumanizzanti, proibendo l’infanticidio delle bambine, assimilato all’assassinio tout court, gli abusi sessuali ai

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danni delle schiave, la negazione della dote alla sposa, il ripudio indiscriminato delle mogli, la violenza domestica e il concubinaggio (Wadud, 1999b: 6). In riferimento a queste innovazioni normative, lo scarto fra periodo meccano e medinese di Rilevazione si traduce in un turning point linguistico, nei termini e nei significati veicolati.

La logica progressiva che segna il passaggio fra i due periodi di Rivelazione può estendersi, per analogia, fino a segnare le interpretazioni odierne, connotando le letture che, in virtù di tale indirizzo implementativo, agiscono in accordo con il proprio contesto di esistenza. Per estensione e come conseguenza della divisione storicizzante, la logica progressiva opera come metro interpretativo e si aggiunge alla possibilità metaforica di interpretazione e alla fedeltà verso la world-view coranica, improntata alla collaborazione reciproca nella cornice di un’armonia familiare e sociale. Per Amina Wadud tale dialettica progressiva è ascritta al Corano, che dischiude il proprio Messaggio ai lettori di ogni epoca. La proposta wadudiana in seno alla moderna umma islamica è di leggere con i propri occhi di uomini e donne del XXI secolo il dettato coranico, “attualizzazandone” il contenuto. Per Wadud, interpretare il Testo Sacro praticando oggi lo sforzo di iğtihād vuol dire, infatti, saper cogliere implicazioni e potenzialità che la dialettica progressiva coranica offre ai credenti.

Inoltre, il fatto che il Corano intrattenga con il contesto socio-culturale della ğāhiliyya una relazione duplice, attraverso il doppio filo della continuità e della discontinuità, della ripresa e dello scarto, rappresenta, secondo Wadud, una displacement funzionale. Una religione, infatti, deve assumere una forma che sia intellegibile nel suo contesto, per essere compresa, radicarsi e, quindi, svilupparsi, ovvero essere implementata a seconda del particolare momento storico in cui verrà a essere praticata. Il contesto di Rivelazione, che, nello scarto fra periodo meccano e medinese già presenta i semi del cambiamento, secondo Wadud non deve restringere la visuale del credente odierno, persuadendolo che il solo modo di essere musulmano/a sia di riportare indietro la Storia sino agli albori del credo islamico. La ricerca wadudiana è rivolta anzi a rilevare lo spirito generale di guida del Messaggio coranico, che trascende ogni contesto storico. Come scrive Wadud (1999a: 95):

«No community will ever be exactly like another. Therefore, no community can be exactly a duplicate of the original community. The Qurʾān never states this like a goal. Rather the goal has been to emulate certain kay principles of human development: justice, equity, harmony, moral responsability, spiritual awareness».

Per Wadud l’implementazione coranica riguarda oggi più che mai l’ambito

femminile, investito di nuove significazioni ruotanti attorno al ripensamento delle dinamiche familiari e dei ruoli sociali di uomini e donne. Gli ambiti specifici in cui la logica implementativa va applicata in riferimento alla sfera femminile e in accordo con la dimensione filologica e testuale del Corano, sono: il divorzio, da

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intendersi in senso paritario (Wadud, 1999a: 79-80); la poligamia, introdotta come norma di urgenza per salvare dalla marginalità vedove e figli dei combattatenti della prima era islamica periti in guerra e che, di fatto, risulta essere impraticabile per la richiesta di uguaglianza di trattamento verso tutte le consorti (Wadud, 1999a: 82-85); la testimonianza, finalmente da intendersi in maniera egalitaria (non due testimoni donne a fronte di un solo testimone maschile affinché sia considerata valida), poiché la prescrizione si colloca in un ambito storico in cui la vulnerabilità femminile in sede di testimonianza era notevole, con possibili ripercussioni contro la testimone (Wadud, 1999a: 85-86); il patriarcato (Wadud, 1999a: 80-82), quale struttura socio-culturale preesistente all’Islam e che, paradossalmente, le società islamiche hanno storicamente rafforzato, nonostante si possa evincere dallo stesso Teso Sacro una presa di distanza rispetto al modello patriarcale, laddove il Messaggio venga interpretato in chiave implementativa. Non soltanto nessuna limitazione dovrebbe essere imposta verso un rinnovamento culturale che veda finalmente riconosciuta una pari dignità ed uguaglianza della donna nella famiglia e nelle comunità musulmane; ma la famiglia deve cessare di essere il luogo di oppressione della donna, laddove ancora lo sia, divenendo invece il nucleo di affezione in cui venga posto in essere il principio di armonia coranica, attraverso il risolvimento dei conflitti entro la “šūrā familiare”, dove uomo e donna hanno stessa responsabilità ed egual peso decisionale. Parallelamente, all’armonia familiare deve corrispondere anche un riconoscimento sociale, in virtù del quale alle donne sono da accordare competenze professionali adeguate al proprio grado di istruzione, anche negli ambiti di leadership politica e religiosa (Wadud, 2006: 158-186).

Se Nicole Loraux nel suo Éloge de l’anachronisme en histoire (Loraux, 1993) metteva in luce il valore conoscitivo dell’“inciampo” anacronistico, rilevando la fecondità di un approccio che introduca entità contemporanee di pensiero nell’analisi della storia passata, antica e moderna, Wadud, sul fronte teologico, sembra analogamente abbracciare le potenzialità di una lettura volutamente “anacronizzante”, ovvero progressiva ed attualizzante, che sappia guardare con gli occhi di oggi la Rivelazione e il suo contesto storico-sociale di riferimento. Amina Wadud si fa, altresì, portavoce di una tensione esplicativa innovativa per la combinazione dei presupposti di analisi coranica e potenzialmente rinnovativa rispetto ai contesti sociali islamici odierni, con particolare riferimento al suo personale contesto di appartenenza, ovvero la comunità statunitense afroamericana, di cui ha messo in luce lo scenario variegato anche attraverso l’analisi intersezionale (Wadud, 1999b). La sua pratica di iğtihād fa perno sullo slittamento paradigmatico fra periodo meccano e medinese di Rivelazione, che imprimerebbe al Corano uno scarto epistemologico, nella visione della donna, in particolare, tale da poter illuminare di nuova significazione il tempo odierno. Fonte di legittimazione verso letture progressive del Testo Sacro sulla base del proprio tempo storico di appartenenza, la successione temporale fra periodo meccano e medinese si affianca, quale aspetto esegetico, alla competenza

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filologica, alla capacità tematizzante, al piano mataforico di lettura e allo spirito di armonia a cui il Corano è globalmente improntato.

In conclusione, la studiosa americana sostiene che il Corano permetta letture plurime e, sotto una lente attenta, sappia dimostrarsi duttile e adattabile alle molteplici culture dei diversi momenti storici. Secondo Wadud, la pratica dell’interpretazione implementativa del Corano a opera dei credenti è una fonte inesauribile di significato e l’atto di interpretazione coranica non finirà certo con la sua opera, dal momento che le vie della progressione dialettica si daranno in relazione ai nuovi contesti che il moderno ḫalīfah si troverà ad affrontare. Se, come scrive Abū Zayd: «È nel contatto con la viva attività umana che il testo di rinnova» (Abū Zayd, 2002: 176), il Corano quale guida eterna, saprà parlare agli uomini e alle donne di tutti i tempi (Wadud, 1999: 6).

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L’AUTRICE Martina Biondi è graduate student di formazione antropologica (B.A., Bologna) e linguistico-letteraria (B.A. ed M.A., Macerata; Erasmus, the University of Manchester). Interessata alla dimensione di genere in ambito arabo-islamico dai punti vista letterario, storico-giuridico ed etnografico, ha di recente presentato un paper sulla diffusione degli studi di genere in Marocco, presso l’Università l’Orientale di Napoli nell’ambito del convegno Gender, Marginality and Empowerment in North Africa.

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La storia di un popolo e la scelta di un tempo: il calendario amazigh e la “questione” cabila

Valentina Fedele

Abstract:Since the end of colonialism in North-Africa, it has been witnessed to a revival of the Amazigh identity, through its politicization at national level and the construction of a transnational “imaginary community”, implementing the re-invention of traditions ascribed to an “authentic” Berber culture, with specific pre-Islamic roots, its own language, its own myths, its own history and its own organization of time, represented by the Amazigh calendar. The article will focus on the latter, as it is emblematic of the Imazighen inscription in the history from which they were excluded, focusing on the experience of Kabylia, significant both considering the role that Kabilian elites and diasporas have had in the pan-berbere movement, and the articulation of its ethnic and political claims toward the Algerian governament, recently, recognizing Imazighen cultural products as a tool for national and regional legitimization.

Keywords: Amazigh – Calendar – Kabylia – Yennayer Parole chiave: Amazigh – calendario – Cabilia – Yennayer

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GLI IMAZIGHEN

Il termine Amazigh1 (pl. Imazighen; f. Tamazight) si riferisce alle popolazioni berberofone, circa 20 milioni – oltre 2 milioni in diaspora – presenti in Marocco, Algeria, Libia, Tunisia, Egitto e Sahel. Si tratta di una comunità la cui eterogeneità dal punto di vista linguistico, storico, di tradizioni culturali2, riflette 1 Il testo utilizzerà prevalentemente il termine Amazigh, ma lo affiancherà anche a berberofono o berbero a seconda delle circostanze narrative. Esso è, infatti, preferito dai movimenti di rivendicazione identitaria: usato per la prima volta negli anni ’40 per l’autodefinizione delle popolazioni della Cabilia algerina, in epoca contemporanea è utilizzato nel significato di “uomini liberi”, anche se secondo alcuni autori ha una origine etimologica incerta (McDougall, 2003; Maddy-Weitzman, 2016; Hoffman e Crawford, 1999). Il termine berbero, invece, è considerato dispregiativo, in quanto utilizzato dalle diverse dominazioni come sinonimo di barbaro seguendone l’etimologia greca. 2 Facendo riferimento ai dati riportati da Maddy-Weitzman (2016), in Marocco i berberofoni sono 14 milioni, il 40% della popolazione, divisi tre gruppi etnolinguistici: Ichelhin, che parlano Tachelhit, circa 8 milioni sulle montagne dell’Atlante e dell’Antiatlante, nelle valli e nell’area a sud-est prima del deserto; Imazighen, quelli che parlano Tamazight (lo stesso termine oggi adottato per definire la lingua berbera moderna), 3 milioni di persone nella regione del Medio Atlante; Rifian, che parlano Tarifit, 3 milioni nelle montagne del nord. I berberi algerini sono 7 milioni e 500mila, il 20-25% della popolazione, divisi in due gruppi primari e quattro più piccoli: Kabili, che parlano taqbaylit, 5 milioni nelle montagne della Cabilia, tra Algeri e Costantina; Chaouis, 2 milioni nelle regioni dell’Aures a sud-est della Cabilia;

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non solo la distribuzione territoriale, ma anche le multiple origini e il diverso rapporto che esse hanno intrattenuto fin dal neolitico con varie dominazioni3, di resistenza, più o meno violenta, ma anche di adattamento e acculturazione. In questo senso, di particolare rilevanza è stata la dominazione dell’Impero arabo-islamico che, iniziata nell’VII secolo, ha determinato l’islamizzazione progressiva dei berberi, che parteciparono alla sua stessa espansione in Nord-Africa fino alla penisola iberica, esprimendo anche dinastie più o meno indipendenti tra il XI e il XIV secolo4. Dopo la caduta di tali dinastie e segnatamente sotto il controllo diretto e indiretto dell’Impero Ottomano, le tribù berberofone furono progressivamente marginalizzate dalla gestione politica e forzate nelle periferie, nelle aree montagnose e nelle oasi pre-desertiche.

Nella difformità delle singole esperienze, in generale, gli Imazighen, pur avendo partecipato attivamente al processo di indipendenza, sono stati esclusi dalla costruzione delle identità nazionali post-coloniali, nella definizione delle quali all’enfasi sull’arabicità e sull’islam riformista, corrispondeva la negazione della lingua e della cultura berbera, ammessa, tuttalpiù solo nella sua dimensione folklorica. La sussunzione delle specificità berbere all’interno dei progetti nazionalisti sembrava, così, destinarle alla progressiva estinzione, che, considerando anche la diminuzione dei berberofoni, Gellner (1973) riconduceva alla prevalenza dell’appartenenza tribale ed eventualmente religiosa su quella linguistica.

Proprio durante il colonialismo, però, erano stati gettati i semi dell’auto-coscienza e della reificazione dell’appartenenza berbera, che, soprattutto dalla fine degli anni ’70, si definì ulteriormente, attraverso una sempre più marcata politicizzazione delle istanze identitarie a livello nazionale e la costruzione di una “comunità immaginaria”5 transnazionale, declinata nel recupero e, talvolta, nella re-invenzione di tradizioni ascritte a una “autentica” cultura berbera, con radici pre-islamiche, con una propria lingua, propri miti, una propria storia e una specifica organizzazione del tempo, rappresentata dal calendario Amazigh.

L’articolo si concentrerà proprio sul calendario, emblema dell’iscrizione degli Imazighen nella storia dalla quale erano esclusi, mettendolo in relazione i movimenti di rivendicazione identitaria e politica a partire dall’esempio della Cabilia. L’esperienza della Cabilia è, in questo senso, particolarmente significativa sia rispetto al ruolo che le élite e le diaspore cabile hanno avuto nella

Mzabis, che parlano Tamzabit, musulmani ibaditi della valle di Mzab; 150.000 che parlano Znati nell’area a sud est di Touat-Gourara; 100.000 che parlano Tachenouit, nelle montagne dello Chenoua e Zaccar a ovest di Algeri; 100.000 nomadi Touareg che parlano il Tamasheq, nel sud. I berberi di Libia sono 6 milioni, circa il 6–9 % della popolazione, negli altipiani del Jabal Nafusa in Tripolitania fino al deserto della Cirenaica, in particolare nella città di Awjila. I berberofoni tunisini sono 100.000 (circa 1-2% della popolazione) e vivono nei villaggi al centro sud e sull’isola di Djerba. I 20,000 berberi egiziani sono invece concentrati nell’oasi desertica di Siwa. 3 Per riferimenti sulla storia pre-romana e romana dei berberofoni vedi McDougall (2003). 4 In particolare le dinastie degli Almoravidi (1040-1146), Amohadi (1121-1269), Marinidi (1240-1465), vedi Taha (1998) 5 Anderson (1996).

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nascita del movimento di rivendicazione berberofono sovranazionale, sia nell’articolazione delle istanze etniche e politiche nella madre patria berbera, che, di recente, hanno visto il riconoscimento dei prodotti culturali Imazighen diventare strumento di legittimazione nazionale e regionale.

L’IDENTITÀ BERBERA IN ALGERIA Come evidenziato, le politiche coloniali hanno avuto inconsapevolmente una ricaduta importante sulla definizione moderna dell’identità Tamazight. In particolare, nel caso del colonialismo francese, il tentativo di avere una legittimazione interna alle colonie e accreditarsi presso le minoranze non arabe o non musulmane, si tradusse in una serie di pratiche di differenziazione tra arabi e berberi, giustificate discorsivamente dalla presunta superiorità di questi ultimi, che, pur essendo guerrieri poco civilizzati e anarchici, non erano islamizzati nel profondo e erano socializzati ai valori della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità e della democrazia – come dimostrato dalle istituzioni tribali di consultazione e dal fatto che le donne berbere non fossero velate – e, quindi, acculturabili nella missione civilizzatrice francese (vedi Guernier, 1950; Tlemcani, 1986). In Algeria, tale discorso si accompagnò allo sviluppo di una serie di centri di ricerca, archivi e giornali per lo studio scientifico del linguaggio e della cultura berbera, al fine di fissare i confini tra arabi e berberi e giustificare politicamente le politiche di francesizzazione dei berberofoni, soprattutto nel campo dell’educazione primaria e secondaria (Maddy-Weitzman, 2012; Jay, 2015)6. La reificazione delle differenze arabo-berbere, però, mentre diffondeva un sentimento di sospetto rispetto alla presunta connivenza dei berberi con il potere coloniale – il cosiddetto «mito Berbero» - non riuscì a impedire la partecipazione attiva alle istanze indipendentiste delle élite, che non avvertivano la contraddizione tra l’essere berberi e francofoni e il nazionalismo (McDougall, 2003).

La Cabilia si era opposta violentemente al colonialismo francese fin dal 1871 e, durante la lotta per l’indipendenza, espresse progetti nazionalisti propri e leader del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) che avrebbe guidato il paese verso la fine del dominio francese nel 1962, come Ferhāt ‘Abbās e Hocine Aït Ahmed. Dopo l’indipendenza, però, la nascita dei moderni stati-nazione si accompagnò, in generale, all’esclusione dell’elemento berbero, attraverso la marginalizzazione della cultura e della lingua. Con declinazioni diverse a seconda dei contesti, il processo di costruzione delle comunità nazionali post-coloniali ruotava, infatti, intorno all’arabo e all’islam, elementi fondamentali per la strandardizzazione delle identità nazionali, al di là delle differenze

6 In Marocco, ad esempio, la differenziazione tra arabi e berberi culminò nel 1930 con la firma da parte del Sultano, sotto protettorato francese, del dahir berbero, che sottraeva, appunto, i berberi dalla giurisdizione dei tribunali shariatici, ponendoli sotto norme tribali berbere, vedi Campanini (2017).

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confessionali, tribali e geografiche. Dal punto di vista linguistico, dunque, questo si declinò nella arabizzazione forzata dell’educazione e della vita pubblica, finalizzata da un lato, a sostituire il francese nella vita pubblica, dall’altro a marginalizzare i dialetti, in particolare quelli berberi. Dal punto di vista religioso, si cercava, invece, di imporre una visione unitaria dell’islam, improtata al riformismo ed esplicitamente critica delle forme di religiosità popolari e del sufismo. La cultura berbera, dunque, doveva essere ridotta a folklore, valorizzata solo in ottica anti-coloniale, dimostrazione dell’esistenza di una cultura originale, ma non necessaria al moderno stato-nazione, anzi nociva, rea del mancato progresso e della passata subordinazione di quest’ultimo (Goodman, 1998).

Il FLN, così, dopo aver epurato tutti i cabili dal partito – uccisi, incarcerati (è il caso di Hocine Aït Ahmed) o politicamente marginalizzati (come Ferhāt ‘Abbās) – si concentrò sulla necessità di superare l’analfabetismo e la frammentazione sociale, etnica e geografica e di uniformare l’identità nazionale attraverso l’egemonia della lingua araba, l’identificazione nel partito unico rivoluzionario, anti-imperialista e anticoloniale e l’islam riformista, seguendo lo slogan di ʿAbd al-Ḥamīd Ibn Bādīs, leader salafita della Jamʿiyyat al-ʿUlamāʾ: l’islam è la mia religione, l’Algeria è la mia nazione e l’arabo è la mia lingua (Maddy-Weitzman, 2012; Campanini, 2017). La dimensione berbera, viene, dunque, solo allusivamente citata nei primi documenti nazionali, che, significativamente, datano la nascita stessa della nazione dalla penetrazione araba dell’VIII secolo, portatrice di liberazione sociale, arricchimento culturale, prosperità e tolleranza a popolazioni che si erano dovute battere per secoli contro la dominazione degli stranieri, romani, vandali e bizantini7, nè trova spazio nella Costituzione del 1963, sospesa poi nel 1965. L’esclusione della Cabilia dal progetto nazionale provocò, già all’indomani dell’indipendenza, una serie di rivolte, guidate tra il 1963 e il 1965 dal Fronte delle Forze Socailiste (FFS) di Ait-Ahmed, cui fece da contraltare una violenta politica di arabizzazione – che si avvalse anche della chiamata di insegnati dall’Egitto – e di islamizzazione. Al di là dell’effettivo raggiungimento dei loro obiettivi – nella pratica l’arabo ha sostituito il francese lentamente, e in modo ambivalente e l’islam tradizionale e marabuttico continua ad essere prevalente soprattutto nelle regioni berberofone (McDougall,2003; Maddy-Weitzman, 2011) – tali azioni portarono a rivolte durante tutti gli anni

7 La carta di Algeri del 1964, uno dei testi fondativi dello stato algerino, adottata dal primo congresso del FLN, sottolinea: «L’Algeria è un paese arabo-musulmano. Tuttavia questa definizione esclude tutti i riferimenti a dei criteri ernici e si oppone a tutte le sotto-stimazioni del contributo precendente alla penetrazione araba. La divisione del mondo arabo in unità geografiche o economiche individualizzare non è riuscita a relegare in secondo piano i fattori di unità forgiati dalla storia, la cultura islamica e una lingua comune. Profondamente credente, il popolo algerino ha lottato per liberare l’islam da tutte le credenze e le superstifioni che lo hanno alterato. Ha sempre lottato contro i ciarlatani che ne volevano fare una dottriva di rassegnazione e l’hanno associato alla loro volontà di mettere fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La rivoluzione algerina vuole ridare all’islam il suo vero volto, il volto del progresso. L’essenza arabo-musulmana della nazione algerina ha costituito una solida protezione contro la sua distruzione da parte del colonialismo» (http://www.el-mouradia.dz/francais/symbole/textes/symbolefr.htm).

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’70, soprattutto sotto il regime di Boumedienne8, che culminarono nel 1980, con la cosiddetta Primavera Amazigh (Tafsut Imazighen), quando la cancellazione improvvisadella lettura pubblica sul ruolo della poesia nella società tradizionale dell’intellettuale cabilo Mouloud Mammeri fece da detonatore allo scoppio di due mesi di sciopero nella regione, con scontri violenti, soprattutto tra studenti e polizia.

Tale evento, commemorato ogni 20 aprile, è stato fondativo sia per il nascente movimento transnazionale berbero, sia per la progressiva politicizzazione del movimento cabilio, contribuendo alla diffusione di un contro-discorso identitario sull’Algeria, che, in Cabilia, cominciò ad accompagnarsi a rivendicazioni più ampie di partecipazione non solo culturale, ma anche politica, sociale ed economica (Goodman, 2002). Dopo il 1988, il collasso del partito unico e l’inizio della guerra civile, l’identità cabila cominciò a porsi come alternativa alle dicotomie FLN/FIS- FNL/islamisti9, organizzandosi sia intorno a numerose associazioni culturali nate proprio in quegli anni, che a partiti politici, il rinato FFS – la cui piattaforma era in passato stata più socialista che identitaria – e il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia (RCD), nato nel 1989, più marcatemente laico e militante, entrambi con l’ambizione di rappresentare le istanze dell’intera Algeria. Il confronto con gli islamisti, sul piano militare e della sicurezza, ma anche su quello simbolico religioso, mobilitò, però, tutte le forze del governo centrale, che, ancora una volta, negò la questione cabila, in nome dell’unità nazionale, marginalizzandola ancora una volta nella Costituzione del 1989, promossa da Chadli ben Jedid (Maddy-Weitzman, 2012).

I movimenti identitari non si fermarono e, durante gli anni ’90, continuarono a rivendicare da un lato la partecipazione politica, dall’altro il riconoscimento del Tamazight, versione standard dei dialetti berberi, che nel frattempo era stata codificata, lingua ufficiale in Algeria. Il boicottaggio che coinvolse le scuole di ogni ordine e grado nell’anno accademico 1994-1995, convinsero il presidente Liamine Zeroual ad istituire nel 1995 l’Alto Commissariato all’ Amazighità, con l’obiettivo di promuovere l’introduzione del Tamazight nel sistema scolastico di alcuni distretti e nelle comunicazioni. L’anno dopo, la nuova Costituzione del 1996 riconosceva per la prima volta nel preambolo come componenti fondamentali dell’identità della nazione «l’Islam, l’arabicità e l’Amazighità», senza però riconoscere la lingua, esclusa, ancora, dalle istituzioni civili e governative e dai contratti commerciali.

Nel 2001, uno studente berbero di scuole superiori Massinissa Guermahh, viene fermato e ucciso dalla polizia algerina, facendo espolodere la Primavera

8 Boumedienne, dopo il 1973, diede una sferzata al programma di arabizzazione, demonizzando l’identità berbera, definendola parte della jāhiliyya e colonialista perché privilegiata dai francesi (Maddy-Weitzman, 2011). 9 Il rapporto tra questione tamazight e islamisti fu all’inizio abbastanza ambigua, tanto il FFS aveva anche proposto un dialogo col FIS, escluso dall’RCD. Gli artisti e gli intellettuali berberi furono, però, un obiettivo privilegiato dell’islamismo violento, considerati emblema di una cultura tradizionalista e decadente (McDougall, 2003; Maddy-Weitzman, 2012).

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Nera (Tafsut Taberkant), una serie di proteste che coinvolsero tutta la regione, provocando violenti scontri con le forze governative e circa 130 vittime, che culminò nella Marcia di Algeri, contro l’abbandono economico, politico e culturale della Cabilia e per l’introduzione di un sistema democratico, nonché nel boicottaggio delle elezioni politiche del 2002, per le quali i due partiti principali – RCD e il FFS – non espressero candidati locali. Il movimento, guidato dal Coordinamento degli Aarch (comitati di villaggio) implose nel nel 2007, sia per l’incapacità di esprimere una élite dirigenziale con un programma coerente, sia per la cooptazione effettuata dal governo centrale, che isolò nuovamente la questione Amazigh dal resto delle rivendicazioni della popolazione (Maddy- Weitzman, 2011).

IL MOVIMENTO TRANSNAZIONALE E LA RE-INVENZIONE DELLA CULTURA TAMAZIGHT

Negli stessi anni in cui si assiste al consolidarsi delle rivendicazioni identitarie e politiche nelle madre-patria berbera, si diffonde anche un movimento transnazionale, che vi partecipava attivamente, definendone confini, lingua, miti fondativi, prodotti culturali e storia, contribuendo, così, progressivamente alla stessa formattazione della Amazighité su un modello unico, nel quale sussumere le diverse appartenenze linguistiche e regionali.

La partecipazione della diaspora Cabila in Francia fu molto importante in questo progetto: già nel 1966 a Parigi viene fondata da giovani intellettuali cabili l’Accademia Berbera (Agrav Imazighen), poi sciolta nel 1978, con lo scopo di proteggere e diffondere la cultura tamazight, denunciandone l’oppressione negli stati post-coloniali, che cominciò a lavorare sulla standardizzazione dell’alfabeto berbero, in modo da trascrivere in una sola lingua i diversi dialetti. Il movimento ben presto si istituzionalizzò intorno a soggetti internazionali e nazionali diversi, soprattutto durante gli anni ’90, molti dei quali si trovarono riuniti nella prima sessione Congresso Mondiale Amazigh (1997), tenuto a Tafira, Las Palmas, nelle Canarie, un’organizzazione non governativa che vuole rappresentare le associazioni culturali berbere di tutto il mondo e a difendere gli interessi e i diritti di tutti gli Imazighen10.

La Tamazagha, la patria tamazight, neologismo creato dai berberi di Cabilia, viene così definita come un territorio transnazionale, che abbraccia tutti i paesi in cui sono presenti berberofoni, in particolare Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Mauritania, nord del Mali, nord del Niger, Egitto occidentale, le città spagnole di Ceuta e Melilla e le Isole Canarie11. Per unire questa patria, bisognava, per

10 Per approfondimenti sul ruolo politico e l’effettiva rappresentatività delle organizzazioni transnazionali imazighen vedi Jay (2015). 11 La popolazione delle Canarie si rivendica abbia parlato un dialetto berbero fino alla conquista spagnola nel XVesimo secolo (Maddy-Weitzman, 2012).

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prima cosa standardizzare la lingua Tamazight, che, al pari dell’arabo standard, doveva sussumere i diversi dialetti regionali. Era necessario, dunque, trovare il modo per rappresentare il discorso graficamente, identificare regolarità grammaticali, lessicali, sintattiche e semantiche, per costruire un linguaggio che potesse generare un senso di connessione e di appartenenza all’intera Tamazagha. Sebbene questo processo sia ancora adesso in corso ed ampiamente dibattuto, l’Accademia Berbera avrebbe elaborato ben presto un alfabeto, il neo-tifinagh, basato sul tifinagh tuareg, che diventerà la base per le successive proposte. Parallelamente, sono selezionati i prodotti culturali regionali12 da ascrivere alla “autentica” cultura tamazight e ne vengono elaborati di nuovi che utilizzino la lingua standard. Nel 1970, Mohand Aarav Bessaud, fondatore dell’Accademia Berbera, disegna quella che diventerà la bandiera “nazionale”, che unisce tre colori, uno per ogni elemento della patria – il blu per il mare, il verde per le montagne e i terreni coltivabili, il giallo per il deserto – e la lettera tifinagh yaz in rosso, simbolo di resistenza, a rappresentare i martiri della causa.

Parte della costruzione di una comune memoria è l’iscrizione, a lungo negata, degli Imazighen nelle storie dei territori che abitano (Hoffman e Crawford, 1999), una linea di continuità che precede l’esperienza arabo-islamica, e inizia con il Faraone Sheshonk I , membro della tribù libica dei Meshwesh, attraverso gli altri leader delle dinastie libiche in Egitto, tra il 900 e il 700 a.C., i sovrani numidi Siface e Massinissa che già si confrontarono con l’Impero Romano nel 200 a.C. contro la cui espansione, Giugurta guidò una guerra di indipendenza, Juba (noto come Gauda) I, and Juba II. Ma ne fanno anche parte intellettuali romani come Terenzio, nato a Cartagine intorno al 190 a.C., Lucio Apuleio nato a Madaura, in Algeria, intorno al 125, e l’Imperatore Settimio Severo, nato nel 146 D.C. a Leptis Magna, in Libia, ma anche Sant’Agostino d’Ippona, fino alla regina nomade Dihya (Kahina), che tentò di resistere all’invasione araba islamica, sconfiggendo gli arabi nel 689 presso il wādī Nini, in Algeria, prima di essere a sua volta sconfitta e trovare la morte nel 708 D.C, nonché i fondatori delle dinastie degli Almohadi e degli Almoravidi (Jay, 2015; Maddy- Weitzman, 2012).

IL CALENDARIO AMAZIGH TRA RECUPERO E RE-INVENZIONE DELLA TRADIZIONE Nel tracciare la storia degli Imazighen nel mondo, prescindendo narrazioni eterodirette, è stata fondamentale anche la definizione di un tempo specificamente amazigh, che si esprime attraverso il calendario, la cui ri-organizzazione risponde alla necessità di evidenziarne l’indipendenza dal computo gregoriano – emblema di un tempo coloniale – e da quello islamico – che, senza mettere in discussione l’appartenenza religiosa, viene qui considerato 12 Vedi, per esempio, Goodman (1998) sulla nuova canzone cabila.

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simbolo di un potere estraneo. La definizione del calendario è, da questo punto di vista, come sottolinea Oxby (1998), uno strumento di resistenza al potere centrale, civile o religioso che sia e simboleggia il rifiuto per entrambi i poli intorno ai quali si è definita l’identità delle nazioni che insistono sulla Tamazagha, nonchè il fallimento del processo di sussunzione nazionalista.

Il calendario moderno amazigh è anche un esempio particolarmente significativo del processo di re-invenzione della tradiziona che accompagna la rivendicazione identitaria transnazionale dei berberofoni: anche in questo caso, come segnalato a proposito della lingua emblematico all’interno della reinvenzione della tradizione che re-iscrivere i berberi nella storia, segnalandone la specificità identitaria e la pre-esistenza all’esperienza arabo islamica. La sua standardizzazione, come già rispetto alla lingua, ha ricevuto impulso dal lavoro dell’Accademia Berbera che, ancora in questo caso, concepisce uno strumento generale da sovrapporre e affiancare ai calendari utilizzati dalle singole regioni berbere, come quello Tuareg, con i quali mantiene nessi di continuità13.

Molti sono gli elementi innovativi del calendario, in primo luogo la data cui ricondurre l’inizio del tempo14, che coincide con l’ascesa al potere delle dinastie libiche, nel 950 a.C. molto prima, dunque, della dominazione arabo-islamica o dei romani, il cui calendario giuliano15, rappresenta la base su cui quello amazigh è costruito. L’anno è, così, composto da 365 giorni, con un anno bisestile ogni 4, il cui giorno aggiuntivo è posto alla fine dell’ultimo dei 12 mesi. I nomi dei mesi, diversi nei dialetti berberi, sono stati ricostruiti dall’Accademia a partire dal nome di quello più conosciuto e diffuso tra le diverse declinazioni dialettali, ovvero il primo, (ye)nnayer (in cabilo), che si è immaginato fosse composto dalle parole yan (uno) e yur (luna, mese), componendo il nome dei successivi secondo l’ordine numerico16.

Anche i giorni della settimana sono stati ricostruiti, in una delle loro versioni, seguendo il criterio numerale dei mesi e aggiungendo al posto del suffisso -yur quello -as (giorno). A ogni giorno corrisponde un nome proprio di persona, a imitazione dei santi nel calendario gregoriano, un riferimento che, però, qui corrisponde non a un intento religioso, bensì al recupero di nomi tradizionali, spesso sostituiti da quelli arabo-islamici: i nomi riprendono sia eroi della storia berbera, ma anche nomi di cose prese dal quotidiano, e di sentimenti o virtù – come tilleli, libertà – che, preferibilmente, riguardano presunte qualità berbere (Haddadou, 1997).

Pur essendo divisi i mesi in 4 stagioni – tafsut (primavera); anebdu/ iwilen (estate); Amewan/Iweğğiben (Autunno); tagrest (inverno) – la scansione del

13 Per approfondimenti vedi Chiauzzi (1988). Il testo ove non utilizza la parola Tamzight standard, utilizzerà preferibilmente il corrispettivo cabilo. 14 Nel calendario tradizionale Tuareg, ad esempio, gli anni non sono identificati con un computo numerico, ma con un evento – naturale o politico – che li ha contraddistinti. 15 Introdotto nel 45 a.C. da Giulio Cesare a sostituzione del calendario lunare precedente. 16 Per approfondimenti vedi Achab (1996). Di seguito i “nuovi” nomi dei mesi berberi: Yenyur, Sinyur, Krayur, Kuẓyur, Semyur, Seḍyur, Sayur, Tamyur, Tẓayur, Mrayur, Yamrayur, Meggyur.

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tempo si lega maggioramente ai cicli della coltivazione, rilevando l’origine contadina del calendario17, tanto che, più rilevante della scansione regionale, è la ricorrenza e la contrapposizione tra due periodi di 40 giorni ciascuno: uno di maggiore freddo, lyali (le notti), il secondo di maggiore caldo ssmaym, awussu (la canicola). Il periodo delle lyali è ulteriormente suddiviso in 20 notti bianche (lyali timellalin) e 20 notti nere (lyali tiberkanin). Il passaggio dall’inverno alla primavera è segnato dai 10 giorni detti di leussum/imbarken, a cavallo tra Sinyur (febbraio) e Krayur (marzo) durante i quali si dovrebbecessare la maggior parte attività agricole, artigianali, ma anche sociali, come i matrimoni che proprio in questo periodo vengono celebrati da spiriti e potenze misteriose, dette in berbero di Djerba appunto imbarken, benedetti (Gast e Delheur, 1992). Il periodo di awussu, invece, culmina con il primo giorno di Tamyur (agosto), durante il quale si svolgono diversi riti di preservazione della salute, ma anche di fertilità e abbondanza, come il bagno notturno per 3 notti consecutive.

Yennayer è un mese molto particolare, di passaggio nei cicli agricoli, segnato da leggende e miti tra cui i più noti ruotano intorno alla figura di una vecchia, rispetto al quale ci sono diverse versioni. In Cabilia si racconta che una donna anziana credendo passato l’inverno, in un giorno di sole, uscì nei campi e derise Yennayer, il quale, arrabbiato, prese in prestito due giorni dal mese successivo, scatenando una grande tempesta che travolse la donna. Il giorno in cui avvenne la tragedia è chiamato giorno di amerdil (prestito) ed è celebrato con una cena a base di frittelle, destinata a scongiurare le forze del male18.

Il giorno simbolicamente più importante è, invece, il primo di Yennayer, capodanno, un tempo celebrato il 14 gennaio, ma oggi, probabilmente per un errore di alcune associazioni culturali berbere, celebrato per convenzione il 12 di gennaio, come era in uso a Wahran (Orano) (Gast e Delheur, 1992).

I riti connessi al capodanno sono diversi a seconda delle regioni, ma, in generale, sono improntati alla necessità di cacciare la fame e consacrare il cambiamento e propiziare le forze e gli spiriti invisibili. La celebrazione, quindi, è tipicamente legata all’abbondanza e alla generosità. Sono dunque consumati pasti abbondanti, cui partecipano anche gli spiriti invisibili, servendosi dalle porzioni distibuite alla soglia delle porte, all’inizio delle scale di casa o ai piedi delle piante. La fecondità della terra viene assicurata dal sacrificio di un animale, tipicamente un volatile. In Cabilia, dove la prima notte di Yennayer, è chiamata tabburt usgwass (la porta dell’anno)19, il volatile è sacrificato da un membro della famiglia, un pollo, se offerto da un uomo, una gallina se è, invece, offerto da una donna o entrambi, se la donna è incinta, rito che dovrebbe favorire la nascita di un maschio.

Capodanno è importante anche perché quello che segue la nascita di un figlio 17 I calendari berberi sono, infatti, anche detti fellāḥī (contadini) o ‘ajamī (non arabi) (Maddy-Weitzman, 2011). 18 Come sottolinea Galand-Pernet (1958), tale tradizione è riscontrabile in generale nelle culture mediterranee, in particolare in Provenza e in Calabria. 19 Vedi Servier, 1962.

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maschio è il momento in cui il padre gli taglia i capelli per la prima volta, comprando, per festeggiare, una testa di bue, augurio per il bambino di diventare un giorno il responsabile del villaggio. Le celebrazioni legate a questo evento, spesso si fanno coincidere con quelle del mese di muharram, in particolare le celebrazioni dell’ashoura, evento luttuoso per gli sciiti, tipicamente festeggiato in Nord-africa. La sovrapposizione tra le feste e l’inclusione di eventi religiosi islamici all’interno della scansione del tempo delle tribù berbere rappresenta un esempio di resistenza della religiosità musulmana tra le popolazioni, laddove la loro tipica esclusione dal calendario amazigh standard eseplifica spesso la distanza che esiste tra queste e le élite intellettuali impegnate nei movimenti transnazionali (Jay, 2015). LA CABILIA TRA RICONOSCIMENTO CULTURALE E MARGINALIZZAZIONE POLITICA: IL RICONOSCIMENTO DI YENNAYER Al di là delle singole tradizioni e dei tentativi di armonizzazione del computo del tempo amazigh, il calendario, insieme alla lingua, è diventato un vessillo delle rivendicazioni identitarie e non delle regioni berberofone, e dell’internazionalizzazione della loro causa, un processo quest’ultimo che si è consolidato durante le cosiddette “Primavere Arabe”, 2010-2011, quando gli Imazighen, in modo diverso a seconda dei territori20, hanno tentato di de-localizzare le loro proteste, legandole ad istanze comuni di democrazia, uguaglianza, multiculturalismo e diritti sul piano nazionale, nonché ai movimenti transnazionali, attraverso i media (Jay, 2015).21

In Algeria, invece, dove le proteste non hanno portato a un rovesciamento del FLN, la questione tamazight non aveva trovato abbastanza spazio, specchio dell’isolamento della Cabilia dopo la guerra civile e della marginalizzazione delle sue istanze, nella dicotomia retorica tra islamismo e fedeltà al Fronte. Dopo il 2012, quando una forte nevicata lasciò molti villaggi inaccessibili per settimane, provando ancora una volta il disinteresse del potere centrale per la regione, il movimento di rivendicazione comincia a rinsaldarsi, organizzando a partire dall’anno successivo una serie di proteste, più o meno violente, che continuano tutt’ora, in particolare in occasione dell’anniversario della primavera berbera o per denunciare provvedimenti politici ed economici che colpiscono 20 Il movimento Amazigh del Rif marocchino, per esempio, è stato in prima linea nel Movimento 20 Febbraio, mentre i berberi libici sono stati fondamentali nella battaglia del Jebel Nafusa e nella presa di Tripoli. Anche, dove non c’è stata una vera e porpia dimensione amazigh della rivolta, come in Tunisia, gli eventi hanno dato vita a numerose associazioni berbere, prima inesistenti, come l’Associazione Tunisina della Cultura Amazigh, che, l’anno stesso della sua fondazione nel 2012, organizza a Djerba, il Congresso Mondiale Amazigh, con un rappresentante eletto nel Consiglio Federale dello stesso (Maddy-Weitzman, 2012; Jay, 2015) 21 In Marocco in seguito alle rivolte il movimento ha visto riconoscere ufficialmente il Tamazight nella costituzione La sorte dei berberi libici, riconosciuti come minoranza linguistica dal governo di transizione, dipenderà dagli esiti del conflitto libico (Jay, 2015).

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particolarmente le zone periferiche o rurali, come nel dicembre 2017, in occasione dell’approvazione delle misure di austerità finanziaria.

Le proteste dei manifestanti, infatti, sono sempre di più di carattere politico ed economico, sebbene il riconoscimento dei diritti culturali viene comunque agitato come vessillo identitario. Nella fragile situazione politica algerina attuale, questi ultimi sono diventati uno strumento della contrattazione autoritaria del governo centrale, attraverso la quale il governo algerino ha inteso calmierare la situazione interna, facendo concessioni simboliche. Nella nuova costituzione del 2016, viene dunque aggiunto l’art. 4 «Tamazight est également langue nationale et officielle. L'Etat œuvre à sa promotion et à son développement dans toutes ses variétés linguistiques en usage sur le territoire national. Il est créé une Académie algérienne de la Langue Amazighe, placée auprès du Président de la République. L'Académie qui s'appuie sur les travaux des experts, est chargée de réunir les conditions de la promotion de Tamazight en vue de concrétiser, à terme, son statut de langue officielle. Les modalités d'application de cet article sont fixées par une loi organique22».

Per quanto il rimando alla legge organica, come anche rispetto ad altri diritti riconosciuti nel testo, metta in dubbio l’effettiva applicazione della norma costituzionale, il governo ha preso di recente ulteriori decisioni di apertura alle istanze culturali degli Imazighen, dichiarando il 27 dicembre del 2017, l’istituzione di Yennayer come giornata di festa retribuita a partire dal 12 gennaio 2018. Tale apertura sembra rispondere in primo luogo a questioni di politica interna, considerando l’approssimarsi delle elezioni del 2019, alle quali la partecipazione di Bouteflika, garanzia fino ad ora del mantenimento dello status quo, è compromessa dalle sue condizioni di salute, nonchè la delicata situazione politica della Cabilia, dove i partiti tradizionali – FFS e RCD – hanno perso ormai terreno a favore del Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia, erede, del Movimento per l’autonomia della Cabilia, fondato nel 2001 all’indomani della Primavera Nera dal cantante Ferhat Mehenni, che rivendica l’indipendenza della regione.23 La volontà, inoltre, di porre le rivendicazioni culturali dei berberofoni sotto il controllo del potere centrale appare evidente se si considera anche l’iniziativa annunciata dal Ministro degli Affari religiosi e dei waqf Mohamed Aïssa, di promuovere l’uso del Tamazight nei luoghi di culto ufficiali, attraverso il suo insegnamento obbligatorio negli istituti regionali di formazione degli imam e la pubblicazione della prima esegesi coranica in lingua24, che sembra un modo per ricondurre il religioso popolare berbero sotto il controllo di quello “ufficiale”.

La questione tamazight diventa particolarmente rilevante se si considerano anche gli equilibri continentali: le politiche in tal senso di Bouteflika possono 22 https://www.joradp.dz/HFR/Index.htm 23 http://www.reporters.dz/index.php/item/91137-langues-tamazight-l-erreur-politique-de-1980-et-le-tournant-historique. Vedi anche il sito ufficiale del Movimento, https://www.makabylie.org. 24 http://www.reporters.dz/index.php/item/90785-mohamed-aissa-promet-d-oeuvrer-davantage-a-la-promotion-de-tamazignt-mosquees-et-instituts-religieux-mobilises.

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essere lette come uno strumento dell’affermazione dell’Algeria come leader nel contesto africano, cui corrisponde il suo indebolimento nel panorama degli stati arabi. In particolare, il paese si è proposto come mediatore nella crisi del Mali, dove l’opposizione Tuareg alle repressioni dei governi centrali negli anni ’90, è diventata nei primi due decenni del nuovo millennio, un confronto ancora più violento, soprattutto dopo che nel 2012 gli islamisti radicali hanno escluso i Tuareg, uniti nel Movimento Nazionale per la Liberazione di Azawad (MNLA), dal governo del neonato Stato di Azawad, nel nord del Mali. Considerando lo statuto iconico di cui le tribù Tuareg godono all’interno della Tamazagha – considerati i più “autentici” in virtù della conservazione dell’alfabero tifinagh e da sempre stati attivi nei movimenti pan-berberi (Maddy-Weitzman, 2012) – essere l’unico stato dell’area ad aver riconosciuto ufficialmente Yennayer significa per l’Algeria proporsi come campione della causa tamazight, legittimarsi, dunque, come mediatrice politica, disconoscendo, però, al contempo la specificità della Cabilia e la sua storia di marginalizzazione nel paese.

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L’AUTRICE Valentina Fedele, dottorato di ricerca in “Politica, società e cultura” presso l’Università della Calabria, è direttore editoriale di Occhialì – Rivista sul Mediterraneo Islamico. Si occupa di storia e istituzioni dei paesi del Mediterraneo,

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con una particolare attenzione alla cultura dell’Islam e alle sue trasformazioni nel contesto della diaspora. I suoi interessi di ricerca riguardano anche i movimenti sociali del Nord-Africa francofono; il rapporto tra islamofobia e genere. Tra le sue pubblicazioni: L’Islam mediterraneo. Una via protestante? (Bonanno, 2012); La Tunisia post-rivoluzionaria. Echi del passato e immagini del futuro (Futuri, 2015); Islam e mascolinità. La definizione della soggettività di genere nella diaspora musulmana (Mimesis, 2015). E-mail: [email protected]

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Tempo e preghiera: il programma giornaliero di Ghazālī

Simone Dario Nardella

Abstract: This paper presents the daily program proposed by Abū H ̩āmid al-Ghazālī in the tenth book of the first quarter of the Ih ̩yāʼ ʽUlūm al-Dīn. After introducing the author and his work, the paper’s focus will be on the principles used by Ghazālī in his arrangement of times, on the program he suggests to worshipers and on the difference between their program and those of workers, administrators, scholars, students and true monotheists (muwah ̩h ̩id). It is argued that, while some of Ghazālī’s suggestions are hardly applicable today, others are still relevant, at least to practicing Muslims who wish to arrange their day efficiently based on the teachings of their faith. Keywords: Ghazālī, time, Sufism, Ihya Ulum al-Din Parole chiave: Ghazali – Tempo – Sufismo – Ihya Ulum al-Din

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PREMESSA Ogni tradizione religiosa prescrive o suggerisce modi diversi di organizzare la propria giornata secondo le varie necessità cultuali o di altro genere. Questo articolo intende presentare il programma giornaliero raccomandato da Ghazālī a chi cerca di avvicinarsi a Dio e salvarsi nell’altra vita, nel libro X dell’Ih ̩yāʼ ʽUlūm al-Dīn, e quindi secondo una prospettiva islamica. Sebbene i mutamenti nello stile di vita portati dalle nuove tecnologie rendano il programma di Ghazālī di difficile applicazione oggigiorno, è utile notare come buona parte dei suoi suggerimenti siano ancora utili ai praticanti musulmani odierni, come d’altronde sembrerebbe indicare la popolarità di cui l’Ih ̩yāʼ ʽUlūm al-Dīn gode ancora oggi.

AL-GHAZA ̄LI ̄ Abū H ̩āmid Muh ̩ammad b. Muh ̩ammad b. Muh ̩ammad al-Ghazālī (1050-1111) fu uno dei più influenti teologi, giuristi e sufi sunniti dell’XI e XII secolo. Nato a T ̩ūs, in Persia (nel Khorasan, nei pressi di Meshhed), tra il 1050 e il 1060 e affidato a un tutore con il fratello Ah ̩mad dopo la morte del padre, Ghazālī si dedicò allo studio della teologia Ashʽarita e della giurisprudenza Shāfiʽita fino ad ottenere un alto incarico nell’università fondata dal Visir selgiuchide Niz ̩ām al-

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Mulk, la Niz ̩āmiyyah, a Baghdad, nel 1091. A seguire le lezioni di Ghazālī venivano non solo studenti, ma anche sapienti affermati, da tutte le parti del mondo islamico. In quel periodo della sua vita, Ghazālī si distinse per le sue confutazioni dell’Ismāʽilismo e di alcune idee dei filosofi islamici ellenizzanti, nonché per le sue opere seminali nella disciplina degli us ̩ūl al-fiqh, i fondamenti della giurisprudenza, la più celebre delle quali è al-Mustas ̩fā. Avendo raggiunto l’apice della fama, Ghazālī fu però preso da una crisi spirituale, dopo solo quattro anni di servizio alla Niz̩āmiyyah, nel 1095: tutto quello che aveva fatto fino a quel momento non era stato per servire Dio, ma per il semplice desiderio di accumulare ricchezze e gloria. Nella sua opera autobiografica, al-Munqiḏ min al-D ̩alāl, Ghazālī afferma di essere stato colpito da una malattia che gli impediva di parlare, e quindi di insegnare, e a cui i medici non riuscivano a trovare una cura. Ritenendo questa malattia un segno divino della necessità di cambiare vita, Ghazālī abbandonò Baghdād per diversi anni1 – una decina secondo alcuni, meno secondo altri (Montgomery, 2012) - e si dedicò alla vita dei dervisci sufi tra la Siria e Gerusalemme, concentrandosi sulle preghiere e la contemplazione e rifuggendo dalla fama. Al termine di questo periodo, Ghazālī tornò ad insegnare, ma con un approccio diverso, attento non ai meri aspetti legali e normativi della vita religiosa, ma al rapporto intimo con Dio e la purificazione del cuore, ritenuta essere ciò che può ridar vita alle discipline religiose, ormai morte a causa dell’abbondanza di studenti e insegnanti che, come lui un tempo, non cercavano davvero l’altra vita e la vicinanza a Dio, ma i beni terreni.2

L’IH ̩YA ̄ʼ Al ritorno dal suo peregrinare, Ghazālī iniziò a scrivere un’opera in quattro volumi intitolata Ih ̩yāʼ ʽUlūm al-Dīn, “La Rivivificazione delle Scienze Religiose”. In quest’opera, Ghazālī presenta ai lettori ciò di cui hanno bisogno per vivere le norme dell’Islam non come una serie sterile di regole e pratiche, ma come i mezzi fondamentali per salvare l’anima, purificarla e avvicinarla a Dio. In questo modo, Ghazālī dice di dar vita (in effetti, però, riprendendo opere Sufi precedenti) a quella che chiamerà la “scienza della via per l’altra vita”, cioè di come vivere in preparazione all’incontro con Dio nel Giorno del Giudizio. Ogni volume (chiamato “quarto”) dell’opera è a sua volta diviso in dieci “libri”. Il primo quarto riguarda gli atti di culto, il secondo l’interazione con gli altri, il terzo i difetti e vizi dell’anima, il quarto le virtù spirituali che salvano l’anima e l’avvicinano a Dio.

È utile sapere che Ghazālī in quest’opera si concentra dichiaratamente sugli aspetti pratici della scienza dell’altra vita (che coincide con ciò che altri chiamano 1 Alcuni studiosi speculano che vi siano state ragioni politiche dietro la scelta di Ghazālī di lasciare Baghdād, quali il timore di vendette Ismāʽīlīte per i suoi trattati polemici contro di loro, soprattutto dopo il loro assassinio di Nizā̩m al-Mulk. Si veda: Montgomery, 2012 2 Per ulteriori dettagli sulla vita di Ghazālī: Montgomery, 2012; Griffel, 2016, 2009.

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tas ̩awwuf, o sufismo) e che Ghazālī indica come ʽilm al-muʽāmalah, la “scienza dell’interazione”. Questa è distinta da ciò che egli chiama ʽilm al-mukāšafah, “scienza del disvelamento”, nel senso della conoscenza che si ottiene per rivelazione spirituale attraverso la pratica di ʽilm al-muʽāmalah, secondo il principio che colui che obbedisce alle ingiunzioni divine e mette in pratica ciò che sa, riceve da Dio la conoscenza di ciò che non sapeva.

Le fonti a cui Ghazālī fa riferimento esplicitamente in quest’opera sono, innanzitutto, il Corano e le tradizioni attribuite al Profeta Muhammad, sia quelle riconosciute più spesso come autentiche, sia quelle di dubbia autenticità, in genere senza riportare il grado di autenticità attribuito a ciascuna tradizione dalla scienza degli h ̩adīṯ. A queste si aggiungono le narrazioni attribuite alle prime generazioni di musulmani (i salaf) e ai maestri sufi. Per ragioni di spazio, non riporteremo in questo articolo le fonti citate da Ghazālī di volta in volta.

Ghazālī sembra mutuare qualche concetto anche dalla filosofia islamica di ispirazione ellenistica – di cui era altrimenti critico, come noto dal Tahāfut al-Falāsifah, sebbene stia attento ad evitare la terminologia specifica dei filosofi e ad utilizzare termini accessibili ai più.3 Tali influenze ellenistiche non si avvertono però nella parte dell’opera (il X libro del primo quarto) trattata qui.

L’importanza dell’Ih ̩yāʼ ʽUlūm al-Dīn nella tradizione islamica può essere notata dal numero di compendi che ha ispirato nei secoli: tre sono di Ghazālī stesso, Bad ̩āwī ne cita altri ventisei e in epoca contemporanea possiamo contarne almeno tre (Garden, 2016: 310–11).

IL TEMPO E GHAZA ̄LI ̄ Nel decimo libro del primo quarto dell’Ih ̩yāʼ,4 Ghazālī cerca di delineare un programma giornaliero per i lettori, a seconda della loro occupazione e delle loro responsabilità, secondo il merito attribuito ai vari momenti della giornata nel Corano, negli h ̩adīṯ e nelle tradizioni delle prime generazioni di musulmani e le azioni specifiche raccomandate in ogni momento. Ghazālī divide i cercatori dell’altra vita in sei categorie: adoratori, sapienti, studenti, lavoratori, governatori e veri monoteisti (muwah ̩h ̩id). Nel suo programma, Ghazālī non sembra lasciare tempo al semplice divertimento (anche se raccomanda il sonno e il riposo in certi momenti) né sembra parlare della vita familiare o degli incontri sociali, pur dando loro importanza in altre parti dell’Ih ̩yāʼ. È possibile che Ghazālī abbia tralasciato certe questioni nel decimo libro perché esse sono l’oggetto del secondo quarto (che segue immediatamente questo libro) dell’Ih ̩yāʼ.

Per Ghazālī la vita è come un viaggio commerciale la cui destinazione sono il Paradiso o l’Inferno, i cui banditi e pericoli sono le tentazioni e i desideri e il cui

3 Per maggiori dettagli, vedere Griffel, 2009; Treiger, 2012 4 Il libro è stato parzialmente tradotto in Karim, 1993, vol.1: 249–63. Per il nostro studio, abbiamo usato Ghazali e al-’Iraqi, 2005: 392–431.

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profitto sono le buone azioni. La gioia finale sta nell’incontro con Dio nell’altra vita e le due qualità principali che permettono di incontrare Dio sono l’amore e la conoscenza di Lui. L’amore si coltiva mediante il ricordo di Dio (ḏikr).5 La conoscenza si coltiva riflettendo sui Suoi attributi, sui Suoi nomi, su ciò che ha rivelato e sulle miriadi di segni ed eventi con cui si manifesta a noi, inclusa la stessa creazione.

Per garantire che il nostro tempo sia investito nel ricordo di Dio e nella riflessione, è necessario organizzare per bene le proprie giornate, per evitare che il tempo sia perso inutilmente. Nello scegliere il proprio programma quotidiano, Ghazālī invoca, nel corso del libro, quattro principi. Il primo è che l’anima possiede un’inclinazione naturale per questa vita e i suoi attaccamenti. Chi desidera la massima felicità in entrambe le “dimore” (al-dārayn) dovrebbe dedicare tutto il suo tempo a Dio e al tentativo di avvicinarsi a Lui. Chi non è capace di questo deve cercare di dedicare a Dio e all’altra vita comunque più di metà del proprio tempo, perché, essendo l’anima per natura incline al mondo, se si dedica a Dio solo metà del proprio tempo o meno, questo non basta a cambiare l’orientamento dell’anima, perché prevale l’inclinazione naturale al mondo.

Il secondo principio è che l’anima tende a stancarsi della stessa attività, se ripetuta a lungo. È necessario includere nel proprio programma diverse attività, tutte capaci di avvicinarci a Dio, ma variegate, cosicché l’anima non si annoi di nessuna.

Il terzo principio è che, perché le pratiche spirituali abbiano effetto sull’anima, è necessario che esse siano mantenute nel tempo, anche se piccole: lo stesso tipo di azione, per quanto piccola, ripetuto ogni giorno, riesce a lungo andare a trasformare le qualità dell’anima, purificandola, mentre grandi sforzi saltuari non producono nessun effetto.

Il quarto principio è che esiste una gerarchia tra le azioni che avvicinano a Dio, a seconda della loro capacità di riformare l’anima e far crescere il suo amore e la sua conoscenza di Dio. Le azioni più importanti sono quelle obbligatorie, innanzitutto i riti come le cinque preghiere quotidiane, e poi gli obblighi sociali e materiali stabiliti dalla Šarīʽah, come quello di soddisfare i bisogni propri, della propria moglie e dei propri figli, che trasformano anche il lavoro quotidiano per guadagnarsi da vivere per sé e per chi dipende da sé in una forma di adorazione. Segue la conoscenza (che include già per sua natura sia il ricordo di Dio che la riflessione), intesa come quella conoscenza che è di beneficio in questa vita o nell’altra, che riduce il nostro attaccamento al mondo e ci avvicina a Dio.6 Insegnare è meglio che apprendere, ammesso che uno sia qualificato. L’apprendimento meritorio non è solo quello mirato a qualificarsi come sapiente 5 Sia nel senso specifico della ripetizione di certe formule e nomi divini, sia in quello generale del ricordo, che include preghiera e studio delle scienze religiose. 6 Per maggiori dettagli sulla concezione di conoscenza benefica in Ghazālī, v. McCall, 1940.

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(così da insegnare in futuro), ma anche il semplice ascoltare ammonimenti religiosi, per cui chiunque può essere uno studente, in una certa misura. Segue l’aiutare il prossimo, in qualsiasi forma questo aiuto si presenti. Infine, si hanno i riti individuali, come le preghiere volontarie, le formule di ricordo di Dio (ḏikr) e le suppliche. Ghazālī si riferisce spesso ai riti in genere parlando di quattro attività principali (“le quattro attività”): la recitazione del Corano, il ricordo di Dio (ḏikr), la supplica (duʽāʼ) e la riflessione (fikr). A queste si può aggiungere la s ̩alāh (f., pl. s ̩alawāt), cioè la preghiera rituale tipica dell’Islām composta di cicli (chiamati rakʽah, f., pl. rakaʽāt), ognuno a sua volta fatto di vari movimenti e formule da recitare.

Ghazālī divide il dì in sette fasi o periodi di attività, e la notte in cinque. Le fasi del dì sono: dall’alba fino al levarsi del disco solare; dal levarsi del disco solare fino a metà mattinata; dalla metà mattinata a quando il Sole è allo zenit; dal momento in cui il Sole è allo zenit fino al completamento della s ̩alāh del z ̩uhr (la preghiera obbligatoria di mezzogiorno); dal completamento di questa preghiera fino allo ʽas ̩r, cioè circa metà pomeriggio; dall’inizio dello ʽas ̩r fino all’is ̩firār, cioè l’ingiallimento della luce solare quando il Sole è ormai sulla via del tramonto; e dall’is ̩firār alla sparizione totale del disco solare sotto l’orizzonte, quando ha inizio la notte.

Le fasi della notte sono: dal tramonto alla sparizione dell’ultimo residuo di luce rossa (chiamata šafaq) nel cielo; da qui al momento in cui la gente si corica per dormire; il sonno; la veglia notturna dopo il sonno, che può andare dall’inizio della seconda metà della notte (misurata dal tramonto all’alba) in poi; e l’ultimo sesto della notte.

IL PROGRAMMA DELL’ADORATORE L’adoratore è definito da Ghazālī come «colui che è interamente dedicato all’adorazione, non avendo altre occupazioni o impegni, e che, se lasciasse l’adorazione, si ritroverebbe a non fare nulla» (Ghazali e al-’Iraqi, 2005: 414). Sebbene il programma offerto da Ghazālī sia molto dettagliato (e non abbiamo incluso qui le formule specifiche che egli raccomanda per i vari momenti della giornata, né i tanti versetti coranici e h̩adīṯ citati per provare il merito delle diverse azioni), Ghazālī precisa che l’obiettivo finale dell’adorazione è di trasformare le qualità interne e il carattere dell’individuo e che per fare ciò bisogna essere perseveranti in quelle pratiche che si sente hanno effetto sul proprio cuore. Per questo, alcuni potrebbero seguire alla lettera il programma dato da Ghazālī, mentre altri potrebbero fare come alcuni compagni del Profeta e dedicarsi interamente o principalmente a una singola forma di adorazione, come la recitazione del Corano o la circumambulazione della Kaʽbah. Ecco il programma di Ghazālī per l’adoratore:

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L’alba Svegliarsi prima dell’alba, fare le necessarie abluzioni, arrivare in moschea prima del richiamo alla preghiera, offrire le due rakʽah raccomandate prima della s ̩alāh obbligatoria e poi le due rakʽah obbligatorie in ğamāʽah.7 Il resto del tempo (essendo la s ̩alāh proibita da dopo quella obbligatoria fino al levarsi del Sole) va passato in moschea impegnati nelle “quattro attività”: recitazione del Corano, ricordo di Dio (ḏikr), riflessione (fikr) e supplica (duʽāʼ). Nella riflessione è incluso il pianificare le proprie azioni e formulare i buoni propositi per la giornata, come il non nuocere ad altri.

Questo è considerato, insieme alle ore che precedono il tramonto, uno dei momenti più nobili e benedetti del dì, in cui è fortemente raccomandato ricordare Dio.

Dal levarsi del Sole a metà

mattinata

Pregare in moschea due rakʽah, note come išrāq, e poi visitare i malati, aiutare il prossimo, ascoltare lezioni e ammonimenti religiosi, assistere ai funerali o impegnarsi in forme di adorazione simili (incluse le “quattro attività”).

Da metà mattinata a

mezzogiorno

Offrire un numero variabile di rakʽah per la preghiera volontaria di metà mattinata, nota come d ̩uh ̩ā. Dopo di che, restano raccomandate le quattro attività di tilāwah, ḏikr, fikr e duʽāʼ, più guadagnarsi da vivere per la giornata, se necessario, e/o dormire (qaylūlah), se si è pregato di notte.

Da mezzogiorno al completamento della s ̩alāh del

z ̩uhr

Dopo un intervallo (lo zawāl) in cui la s ̩alāh è proibita, è raccomandato offrire quattro rakʽah volontarie prima delle quattro obbligatorie in moschea.

Dalla s ̩alāh del z ̩uhr a metà pomeriggio (lo

ʽas ̩r)

Rimanere in moschea impegnati nel ricordo di Dio o in altre buone azioni (anche fuori dalla moschea) fino alla preghiera obbligatoria successiva (lo ʽas ̩r). Chi non ha dormito prima di mezzogiorno, può dormire ora, ma è sconsigliato dormire sia prima che dopo, cioè due volte nello stesso dì.

Da metà pomeriggio

all’is ̩firār

Offrire in moschea le quattro rakʽah volontarie e poi le quattro obbligatorie dello ʽas ̩r, dopo le quali la s ̩alāh è sconsigliata fino al tramonto del Sole. Si usi il tempo, invece, per le “quattro attività”. Particolarmente raccomandata è la recitazione del Corano se fatta ponderando attentamente ciò

7 Cioè in gruppo dietro l’imām. È preferito per gli uomini offrire le cinque preghiere obbligatorie in gruppo in moschea dietro l’imām, mentre le preghiere volontarie possono essere fatte ovunque, ma preferibilmente in privato e quasi sempre individualmente, cioè non in gruppo dietro un imām.

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che si recita (tadabbur), perché include le altre tre (ricordo di Dio, riflessione e supplica8).

Dall’isf̩irār al tramonto

Questo momento è particolarmente importante per l’adorazione, come l’alba. Particolarmente raccomandati sono il chiedere perdono a (istiġfār) e glorificare (tasbīh ̩) Dio, vista la loro menzione in connessione con questo momento della giornata nel Corano.

Ghazālī nota che alcuni dei salaf davano più importanza a questo momento di adorazione che non all’alba, dedicando la prima parte del dì ai bisogni terreni e l’ultima a quelli ultraterreni.

Dal tramonto alla ʽatamah

Osservare la preghiera obbligatoria del tramonto e poi un numero variabile (in genere da due a venti) di rakʽah volontarie, preferibilmente in moschea, oppure a casa, se vicina alla moschea, fino alla ʽatamah. Questa preghiera volontaria è chiamata s ̩alāt al-awwābīn (preghiera dei penitenti) e vi si fa riferimento nel Corano e negli h̩adīṯ. Uno dei suoi meriti è l’espiazione delle distrazioni del dì appena trascorso.

Dormire tra le due preghiere notturne obbligatorie (il maġrib e lo ʽišāʼ, talvolta chiamate insieme “i due ʽišāʼ”) è sconsigliato.

Dalla ʽatamah al

coricarsi della gente per dormire

Tre azioni sono raccomandate in questo momento della giornata, senza contare la preghiera obbligatoria dello ʽišāʼ (di quattro rakʽah): 1) offrire quattro rakʽah volontarie prima della s ̩alāh obbligatoria e altre due e poi quattro (quindi sei) dopo; 2) offrire altre dodici rakʽah volontarie nel corso della notte; 3) pregare il witr (una singola rakʽah che conclude quelle della giornata). Chi è abituato a svegliarsi nel cuore della notte per pregare può posporre il witr fino a quel momento. Vi sono alcuni passaggi del Corano, suppliche e formule per ricordare Dio la cui recitazione prima di dormire è raccomandata in vari h ̩adīṯ e che Ghazālī riporta.

Il tempo del sonno

Il sonno (sia notturno che diurno) è considerato, sulla base di una serie di h ̩adīṯ citati da Ghazālī, come una forma di adorazione, se fatto con l’intenzione di recuperare le forze per il servizio divino, per stare lontani dalle tentazioni o soddisfare uno dei diritti del proprio corpo. Quando ci si addormenta in stato di purezza rituale9 e immersi nel ricordo di Dio, si viene considerati in preghiera fino al risveglio e lo spirito (rūh ̩) ascende nel sonno fino al Trono di Dio, dove può ricevere ispirazioni

8 Perché nel Corano vi sono anche formule di supplica. Inoltre, parte della recitazione attenta può essere il soffermarsi su ciò che si legge e fare una supplica spontanea appropriata al senso del passaggio appena letto. 9 Attraverso le abluzioni previste nella Šarīʽah, discusse da Ghazālī nel libro terzo del primo quarto dell’Ihy̩āʼ.

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che il credente vede in forma di sogni veridici (ruʽyah s̩ādiqah), distinti dai sogni normali e confusi (ad ̩ġāṯ ah ̩lām). La purezza, sia esteriore – con le abluzioni – sia interiore – col pentimento dai peccati e la libertà del cuore dal rancore verso gli altri o l’attaccamento al mondo materiale -, è considerata una condizione necessaria per ricevere ispirazioni autentiche, perché l’uomo può altrimenti ricevere ispirazioni false e fuorvianti dalla sua anima (nafs) o dal diavolo. È sconsigliato dormire due volte durante il dì, mentre si può dormire più volte nel corso della notte (da dopo la preghiera dello ʽišāʼ), alternando sonno e preghiera o altre attività.

Sebbene Ghazālī incoraggi a ridurre il sonno per poter passare più tempo in preghiera durante la notte, ribadisce che il sonno è un diritto del corpo, che è comunque simile alla preghiera se se ne osservano le condizioni citate sopra, e che qualsiasi riduzione deve avvenire in modo graduale, altrimenti si rivela dannosa. Ghazālī indica anche che il cibo è il nutrimento del corpo, il ricordo di Dio è il nutrimento del cuore e il sonno è il nutrimento dello spirito (probabilmente perché durante il sonno torna al cospetto di Dio, come già osservato).

Ghazālī raccomanda dieci cose per quanto riguarda il sonno: dormire in stato di purezza rituale e avendo pulito i denti (1), avere il siwāk10 pronto vicino alla testa insieme all’acqua per le abluzioni per quando ci si sveglierà, con l’intenzione di pregare al risveglio (2), avere il testamento vicino la propria testa mentre si dorme (3), pentirsi di tutti i peccati e rimuovere dal cuore ogni inimicizia e rancore verso qualsiasi musulmano prima di dormire (4), non preoccuparsi di rendere la superficie su cui si dorme soffice e confortevole (5), non dormire finché non si è sopraffatti dal sonno (usando il tempo per ricordare Dio), a meno che non lo si faccia per raccogliere le forze per pregare successivamente (6), dormire con il viso rivolto verso la Mecca (7), recitare prima di dormire le suppliche e passaggi coranici trasmessi dal Profeta per questo momento (8), ricordare prima di dormire che il sonno è simile alla morte e il risveglio è simile alla resurrezione e che se ci addormentiamo o moriamo col cuore più vicino al mondo che a Dio, ci sveglieremo o saremo resuscitati di conseguenza (9), recitare al risveglio le duʽāʼ trasmesse dal Profeta per questo momento (10), poiché un

10 Il siwāk è una radice, usata come spazzolino e il cui uso è fortemente raccomandato dal Profeta in vari momenti della giornata. Esso è tuttora in uso tra i musulmani, anche se l’utilizzo dello spazzolino e del dentifricio è spesso accettato come alternativa.

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segno dell’amore di Dio è il Suo essere il primo pensiero di chi si sveglia.

Riguardo il testamento, Ghazālī riporta che chi muore senza testamento non potrà parlare o visitare gli altri spiriti dei credenti nella vita intermedia (barzaḫ).

Dall’inizio della seconda

metà della notte fino

all’ultimo sesto

Questo è considerato il momento di vicinanza a Dio per eccellenza, per cui pregare e supplicare in queste ore è visto come una parte fondamentale della vita dei devoti, ed è nell’adorazione notturna che si assaggia la dolcezza dell’intimità con Dio. Ghazālī fa chiaro che le capacità di ognuno sono diverse e che non tutti possono stare svegli per tante ore, per cui ognuno deve limitarsi a ciò che gli è possibile, fosse anche solo ricordare Dio per alcuni istanti nel proprio letto.

L’ultimo sesto della

notte

In questa fase della notte è raccomandato chiedere perdono a Dio, continuare a pregare oppure riposare, a seconda delle proprie capacità e di cosa si è fatto il resto della notte. Ad esempio, chi dorme nel mezzo della notte può provare a svegliarsi per pregare alla fine, mentre chi prega può riposare in questo momento, come Ghazālī dice che facesse il Profeta stesso.

Chi intende digiunare il dì successivo11 dovrebbe mangiare in questo momento.

In una nota finale, Ghazālī riporta che è raccomandato riunire in una sola

giornata il digiunare, il dare qualcosa in beneficenza (anche poco), il visitare un malato e l’essere presenti a un funerale, poiché fare queste quattro cose in un giorno solo dovrebbe causare il perdono di Dio. Alla domanda di quale sia la forma di adorazione migliore tra quelle discusse per l’adoratore, Ghazālī risponde che essa è la recitazione del Corano in piedi in s ̩alāh, ribadendo però che ciò che è utile davvero è ciò che si riesce a fare con costanza, anche se piccolo, e che ha un effetto sul cuore dell’individuo.

IL PROGRAMMA DI LAVORATORI, GOVERNATORI, SAPIENTI, STUDENTI E VERI MONOTEISTI (MUWAH ̩H ̩ID) Sebbene Ghazālī parli a lungo dell’adorazione (non solo in questo libro dell’Ih ̩yāʼ, ma anche nei precedenti), questa non è vista da lui necessariamente come l’occupazione migliore, sulla base di numerosi versetti coranici e h̩adīṯ. Come già 11 Il digiuno osservato dai musulmani va dall’alba al tramonto ed è fortemente raccomandato mangiare poco prima dell’alba e immediatamente dopo il tramonto.

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osservato nella gerarchia delle azioni, le azioni obbligatorie, incluso il guadagnarsi da vivere per sé stessi e per i propri familiari di cui si è responsabili, hanno la precedenza su tutti gli atti volontari e, dopo gli atti obbligatori, quelli più meritori sono l’insegnamento delle discipline benefiche per l’altra vita o per le necessità di questa, l’apprendimento, la carità e il prendersi cura delle necessità altrui. Per questo Ghazālī offre programmi diversi per chi sia impegnato in una o più di queste occupazioni.

Il programma del lavoratore, definito come colui che «ha bisogno di guadagnare per coloro che dipendono da lui, per cui non può lasciar perire i dipendenti per dedicare il suo tempo all’adorazione» (Ghazali e al-ʽIraqi, 2005: 416), consiste nel praticare il proprio mestiere nelle ore in cui è consuetudine, fino ad aver guadagnato abbastanza per la giornata. Durante il lavoro non bisogna negligere le preghiere obbligatorie e, se compatibile col proprio mestiere, è importante continuare a ricordare Dio e recitare il Corano mentre si lavora. Quando si è guadagnato il necessario per la giornata, e si sono quindi adempiuti i propri obblighi, si hanno due opzioni: continuare a lavorare con l’intenzione di dare il guadagno superfluo in beneficenza, oppure dedicarsi ad altre attività che avvicinino a Dio, quali l’apprendimento, l’ascolto di prediche che invitano l’anima ad avvicinarsi a Dio o l’adorazione secondo il programma dell’adoratore. Ghazālī mette in guardia contro il lavorare più del dovuto per accumulare ricchezze, osservando che, secondo il versetto Coranico citazione, la paura della povertà è un’ispirazione di Satana nell’animo umano.

Il programma del governatore dato da Ghazālī è quello attribuito al secondo califfo dell’Islām, ʽUmar ibn al-Khat ̩t ̩āb, considerato uno dei migliori modelli di leadership. Questo programma consiste nel passare il dì a risolvere i problemi dei propri soggetti, prendendosi cura di loro, e la notte come gli adoratori, prendendosi così cura della propria anima. In questa categoria sono inclusi tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono chiamati ad amministrare e prendersi cura degli affari altrui, inclusi giudici, califfi, ministri, ecc.

I programmi del sapiente e dello studente sono simili, perché quando uno insegna, l’altro impara, e mentre uno scrive libri che siano di beneficio agli altri, l’altro legge oppure ordina o ripete i suoi appunti. All’alba e nel tempo tra l’is ̩firār e il tramonto, entrambi seguono il programma dell’adoratore, cioè si dedicano al ricordo di Dio, alla recitazione del Corano, alla supplica e alla riflessione. Dal levarsi del Sole a metà mattinata, il sapiente insegna, se ha studenti, oppure riflette sulle questioni complesse in cui si è imbattuto, poiché in quel momento, dopo l’essere stati immersi nel ricordo di Dio e prima di essere travolti dalle necessità quotidiane, è più facile ragionare e risolvere certi problemi intellettuali. Da metà mattinata a metà pomeriggio, salvo il tempo necessario per la preghiera obbligatoria di mezzogiorno, per mangiare, riposare e simili necessità, bisogna dedicarsi alla scrittura e alla lettura. Dopo la preghiera di metà pomeriggio (lo ʽas ̩r), conviene far riposare la vista e la mano (sforzate dalla lettura e dalla scrittura) ascoltando la lettura di testi utili nelle varie discipline, oppure l’esegesi del Corano e i detti del Profeta. Variando le proprie attività in questo modo, dice

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Ghazālī, si resta sempre impegnati nell’insegnamento o l’apprendimento e nel ricordo di Dio, mentre si usano la lingua (insegnando di prima mattina), gli occhi e la mano (leggendo e scrivendo) e l’udito (ascoltando le lezioni o la lettura di testi dopo lo ʽas ̩r) per servire Dio senza affaticare troppo nessuna parte del corpo. Per la notte, Ghazālī suggerisce di seguire il metodo di Shāfiʽī, ovvero di dividerla in tre parti uguali (calcolandola dal tramonto all’alba). La prima va riservata allo studio (fatta eccezione per il tempo necessario per le preghiere obbligatorie), alla lettura e al ripasso. La seconda è per la preghiera volontaria. La terza è per dormire. Questo può essere difficile d’estate, quando le notti si accorciano, ma si può recuperare il sonno durante il dì (che si allunga).

Il vero monoteista (muwahh̩ ̩id) è considerato da Ghazālī una categoria spirituale a parte. Ghazālī lo definisce come colui che è «completamente impegnato dall’Uno ed Eterno, la cui preoccupazione al risveglio è una, così che non ama nulla eccetto Dio – sempre elevato -, teme solo Lui, si aspetta di essere sostentato solo da Lui, Lo vede – sempre elevato – in tutto ciò a cui volge la sua attenzione» (Ghazali e al-’Iraqi, 2005: 417). Il muwah ̩h ̩id è distinto dalle altre cinque categorie perché non ha bisogno di alcun programma: poiché vede Dio in ogni momento, la sua conoscenza e amore per Dio sono in costante aumento, a prescindere dall’attività a cui si dedica, e perché vede Dio come il vero autore delle sue azioni, non potendole attribuire a se stesso per non affermare l’esistenza di un autore o di una cosa oltre a Dio. Questo stato è però il risultato della diligenza nell’osservare i programmi precedenti, il coronamento della disciplina del sé con la sua estinzione e permanenza in Dio.

CONCLUSIONE Il programma di Ghazālī può sembrare in grande contrasto con la vita moderna e, per molti versi, lo è. La popolarità di cui Ghazālī gode ancora oggi nel mondo islamico – incluse le comunità musulmane in Occidente -, però, è un segno di come vi sia ancora, soprattutto tra i seguaci del sufismo e dell’Islam Tradizionale, chi cerca di applicare i suoi insegnamenti. Studiando il programma con attenzione, e leggendolo nel contesto degli altri libri dell’Ih ̩yāʼ, si può vedere come, difatti, la parte più importante del consiglio di Ghazālī riguardi, non tanto la divisione della giornata, ma il far sì che tutte le attività a cui ci si dedica siano fatte consciamente per avvicinare il devoto a Dio, consapevole del loro posto nella gerarchia delle azioni. Da questo punto di vista, anche il lavoratore odierno a contratto per otto ore al giorno potrebbe trasformare quelle otto ore in adorazione con il programma ghazaliano, a patto di osservare le cinque preghiere obbligatorie nei loro tempi e di dare il guadagno superfluo in beneficenza (che è più meritorio, per Ghazālī, delle preghiere volontarie), così come il pensionato potrebbe impegnare il suo tempo nei riti e lo studente universitario potrebbe studiare con l’intenzione, da un lato, di essere di aiuto al

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prossimo in futuro con la professione a cui lo porterà la sua laurea, e dall’altro, di studiare per mantenere un giorno se stesso e la sua famiglia, ricadendo quindi nelle categorie dello studente e del lavoratore allo stesso tempo. L’etica proposta da Ghazālī, dunque, tutt’altro che superata, può ben accompagnare gli impegni di oggi, almeno per i musulmani praticanti che vi fossero interessati, e si rivela attuale nonostante il passaggio di secoli dalla morte dell’autore. BIBLIOGRAFIA

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L’AUTORE Simone Dario Nardella è dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria. Dottore di Arabo e Studi Islamici (BA, School of Oriental and African Studies, Londra, Regno Unito) e di Civilization Studies (MA, Fatih Sultan Mehmet Vakif University, Istanbul, Turchia), si specializza in studi sul Sufismo. La sua tesi di dottorato riguarda l’interpretazione di ʽAbd al-Ghānī al-Nābulusī della dottrina dell’unità dell’esistenza. E-mail: [email protected]

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Fantascienza e distopia in Tawfīq al-Ḥakīm. Fī sanat malyūn

Marina Giacconi

Abstract: This paper offers a short analysis and the Italian translation of Tawfīq al-Ḥakīm’s short story Fī sanat malyūn, a seminal text of Arabic science fiction. It is intended to explore the important role of social criticism in science fiction and to show its peculiarity to work as a mirror of the dissatisfaction and hardship of society, showing the impact of science or technology on people. This kind of narrative provides us a plurality of reading levels and reflects the complexity of life and society itself. The discussion leads to the conclusion that science fiction provides the reader the ability to reflect and to elaborate his own idea about the society where he lives, and to speculate about mankind’s problems and their possible solutions ahead of time. It’s not a passive experience, but a process of reflection.Keywords: Science Fiction – Dystopia – Society – Tawfīq al-Ḥakīm – Social CriticismParole chiave: Fantascienza – Distopia – Società – Tawfīq al-Ḥakīm – Critica sociale

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TAWFĪQ AL-ḤAKĪM E LA FANTASCIENZA ARABA

Tawfīq al-Ḥakīm è un drammaturgo, scrittore e saggista egiziano. È nato ad Alessandria nel 1898 ed è morto al Cairo nel 1987. Senza dubbio, è una figura importante della letteratura araba del Novecento (Camera D’Afflitto, 2007). La sua produzione spazia tra diversi generi, dal dramma teatrale ai racconti brevi, dai romanzi a memorie e autobiografie. Anche usando la rappresentazione di motivi assurdi che presentano la vita come caotica e senza senso, con personaggi e situazioni irrealistiche, al-Ḥakīm considera le opere letterarie come strumenti per indicare la giusta condotta dell’individuo e della società. Negli anni Sessanta, acquisisce lo status di scrittore importante e rispettato in Egitto (Pugliesi, 2011: 205-209). La sua fama gli permette di utilizzare le proprie opere come veicolo per influenzare il cambiamento politico e sociale. Egli si espone, velatamente o meno, su temi come l’oppressione politica, la fame e la povertà, e stimola nel lettore una riflessione sulla propria condizione e su quella della società a lui contemporanea. Attraverso espedienti letterari, trasmette il proprio messaggio di riforma politica e sociale, proteggendosi da azioni di censura. L’obiettivo di al-Ḥakīm è quello di risvegliare le coscienze dei contemporanei, incitandoli a vivere un senso autentico di egizianità e patriottismo, in un periodo in cui questi valori erano in crisi. Uno dei ruoli centrali della letteratura è, per al-Ḥakīm, quello di forgiare la coscienza

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civile. La produzione letteraria dell’autore fornisce, quindi, una testimonianza della storia culturale, politica ed economica del suo tempo, e in essa si possono ritrovare le principali questioni della società egiziana del XX secolo: nel 1922, le correnti nazionaliste, fautrici dell’indipendenza, portarono la Gran Bretagna ad annunciare la fine del protettorato, a riconoscerne l’indipendenza e a concedere la promulgazione della Costituzione, che garantiva la libertà di pensiero e di stampa, e il diritto di governarsi autonomamente attraverso un parlamento liberamente eletto (Camera D’Afflitto, 2007). Le azioni di repressione e persecuzione delle opposizioni continuarono tuttavia sotto i regimi successivi. Di conseguenza, come riflesso del contesto storico, il tema della repressione è ricorrente nella produzione letteraria di governati da regimi autoritari e militari. La gran parte degli intellettuali egiziani, che avevano sostenuto la rivoluzione, venivano spesso incarcerati per il loro attivismo politico e furono tra i primi bersagli delle ondate di repressione. L’obiettivo era di controllare e monopolizzare la libera circolazione delle opinioni. Negli anni Trenta, quando si capì che, nonostante l’indipendenza formale, la Gran Bretagna continuava a esercitare un controllo sul paese, si diffuse nuovamente il malcontento. Gli intellettuali, schieratisi a favore o contro la modernizzazione, saranno i protagonisti del dibattito sul grande cambiamento in atto. Questo clima in fermento si è riflesso anche sulla produzione letteraria e gli orientamenti culturali. Il dibattito gravitava principalmente intorno al binomio tradizione-modernità, occidentalizzazione o blocco dei modelli occidentali (Camera D’Afflitto, 2007). Intellettuali come Tawfīq al-Ḥakīm e Muḥammad Ḥusayn Haykal, rappresentavano l’orientamento modernista, contrapposto a quello occidentale-estremista e alle correnti tradizionali.

Al-Ḥakīm, nel romanzo ‘Awdat al-rūḥ, dà espressione ad una visione antidemocratica della società e al nazionalismo territoriale, che prevale in Egitto solo dopo la prima guerra mondiale, fondato sul determinismo assoluto di Hippolyte Taine, per cui la razza, l’ambiente e le circostanze storiche sono i fattori che determinano la natura di una nazione e la sua produzione letteraria (Casini, 2013: 109-111). Nell’ambito della letteratura egiziana moderna, massima importanza venne poi attribuita all’ambiente. Alla sua affermazione corrisponde la ridefinizione dell’identità collettiva egiziana in senso nazionalista. Se nelle cronache di viaggio dell’Ottocento la parola “watan”, patria, riflette una concezione ispirata dalla cultura illuminista francese, gli scritti dei primi anni Venti del Novecento riguardanti il nazionalismo egiziano si basano spesso su una tradizione intellettuale conservatrice, anti-illuminista, rappresentata appunto da Tawfīq al-Ḥakīm (Casini, 2013: 202). Quello dell’identità egiziana era diventato un dibattito centrale nella vita politica e culturale, nel periodo tra le due guerre mondiali. Il 1930 è un anno importante, che segna un drastico cambiamento nel modo di pensare: prima l’Occidente veniva visto come modello di modernità, in seguito si recuperano i riferimenti all’Islam e alla tradizione culturale araba. Negli anni Venti gli egiziani si sentivano partecipi di un movimento rivoluzionario, iniziato nel 1919. La modernità europea veniva vista come un

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modello da seguire e autori come Tawfīq al-Ḥakīm e Muḥammad Ḥusayn Haykal scrivevano contro la tradizione letteraria araba classica. Negli anni Trenta la situazione cambia: il clima politico e sociale risente della crisi economica mondiale del ’29 e ci si pone contro l’entusiasmo della rivoluzione e l’ottimismo del decennio precedente. Haykal e al-Ḥakīm rivedono ora l’identità egiziana come parte della civiltà orientale. Tawfīq al-Ḥakīm, con Awdat al-rūḥ, ci parla di uno scontro all’interno di una comunità, l’Egitto, alla ricerca della propria identità e rinascita.

Il pensiero al-Ḥakīm è rivolto non solo al problema dell’identità culturale del popolo egiziano e al ruolo degli intellettuali in seno al movimento nazionalista, ma anche a come coniugare modernità tecnologica e progresso con il rispetto per i valori culturali locali autentici. Il progresso scientifico, con i conseguenti effetti sulla società e sull’uomo, fa da sfondo alla produzione letteraria fantascientifica. Attraverso la letteratura fantascientifica, al-Ḥakīm fa riflettere su questioni sociali tipiche di questo genere letterario: il progresso scientifico e tecnologico che annichilisce l’uomo, l’inquietudine dell’uomo davanti ad una vita senza avvenire, e l’impotenza del genere umano di fronte al tempo. L’immortalità e l’eternità, che sembrerebbero delle conquiste, in realtà possono essere condanne. L’uomo cerca di superare le leggi del tempo per aspirare a qualcosa di eterno, ma poi scopre il disagio per la mancanza di un avvenire. La fantascienza arricchisce l’utopia con la consapevolezza degli effetti e dell’importanza della scienza e della tecnologia, entrambe chiari strumenti di cambiamento culturale e sociale. Scienza e tecnologia hanno portato ad enormi progressi, ma nel corso della storia sono state utilizzate anche contro l’uomo, come l’esplosione della bomba atomica in Giappone nel 1945. Ciò ha avuto riflessi anche in campo culturale e letterario: la fantascienza ha perso molto del suo ottimismo e tale contesto storico ha portato ad accrescere una visione distopica e la sensazione di un futuro minacciato. Tawfīq al-Ḥakīm, come altri autori di distopie, vuole stimolare nel lettore non una reazione pessimista, ma l’accettazione dei difetti dell’uomo e l’acquisizione della consapevolezza che il miglioramento della società è l’unico modo per garantire una felicità politica e sociale. L’ autore egiziano si inserisce in un secolo, il Novecento, in cui vari eventi storici hanno alimentato le visioni dispotiche (distopiche?): le due Guerre Mondiali, i totalitarismi e l’idea che il progresso tecnologico e scientifico, a volte, invece che incrementare speranze portasse a dittature. Gli scrittori riflettono nei loro romanzi le paure e i pericoli che si teme possano derivare dal progresso scientifico e tecnologico. Si parla di questo genere letterario come strumento sociale perché con la fantascienza il lettore può diventare spettatore esterno di quello che gli succede intorno, per riuscire a comporre un’immagine che altrimenti sarebbe impossibile creare. La fantascienza si occupa delle reazioni che l’essere umano ha di fronte ai cambiamenti della scienza e della tecnologia. La critica che viene fatta non è allo sviluppo tecnologico in sé, ma agli usi che ne sono stati fatti nel corso del tempo. La scienza ha portato a grandi scoperte, l’allungamento e il miglioramento della vita. Lo sviluppo e l’evoluzione tecnologiche sono necessari all’umanità, ma la

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brama per i suoi utilizzi negativi ha avuto la meglio nel corso della storia. Il progresso ha fornito strumenti che l’uomo non è sempre stato in grado di gestire. Mentre l’Ottocento si chiuse con un grande ottimismo per le meraviglie che avrebbe portato il progresso scientifico, il Novecento sembra essersi chiuso all’insegna della diffidenza nei confronti della tecnologia. I romanzi fantascientifici di Tawfīq al-Ḥakīm e altri autori permettono di riflettere sugli errori commessi dall’uomo e aiutano a comprendere quello che succede nella società reale (Claeys, 2010).

L’autore egiziano fa riflettere su questioni sociali tipiche di questo genere letterario: il progresso scientifico e tecnologico che annichilisce l’uomo, l’inquietudine dell’uomo davanti ad una vita senza avvenire, e l’impotenza del genere umano di fronte al tempo. L’immortalità e l’eternità, che sembrerebbero delle conquiste, in realtà possono essere condanne. L’uomo cerca di superare le leggi del tempo per aspirare a qualcosa di eterno, ma poi scopre il disagio per la mancanza di un avvenire. Tawfīq al-Ḥakīm dà un importante contributo alla produzione fantascientifica araba, tanto che due sue opere, il dramma Riḥla ila al-ġad (Viaggio nel futuro) del 1957 e il racconto Fī sanat malyūn (Nell’anno del milione) del 1947, vengono presi come punto di riferimento per segnare l’inizio della fantascienza araba (Barbaro, 2013: 99-100). In questi testi troviamo una commistione di immaginazione e realtà. In Fī sanat malyūn, al-Ḥakīm immagina una realtà senza tempo, in cui il progresso scientifico raggiunto ha sradicato la malattia e la morte, la distinzione di genere ha lasciato posto all’unicità della specie e la procreazione è diventata un processo che avviene in laboratorio. Questo futuro distopico è privo di amore, arte e poesia. La storia finisce con un rivoluzionario rovesciamento dello stato e con il ritorno dell’umanità alla condizione precedente (Barbaro, 2013: 103-108). I temi della condanna dell’uomo alla vita eterna e della disumanizzazione in favore del progresso scientifico e tecnologico si ritrovano anche nel dramma Riḥla ila al-ġad del 1957. I due protagonisti, un medico e un ingegnere, sono stereotipi rispettivamente della volontà di non essere sopraffatto dalle macchine, in difesa di quell’umanità minacciata dal progresso, e della bieca cecità che porta alla disumanizzazione. Ai due, che si trovano in prigione, viene proposto un viaggio interplanetario per scampare alla condanna a morte. I due accettano e nel viaggio iniziano a riconoscersi nella figura di cavie umane. Evidente è l’uso dell’istanza fantascientifica come espediente per esprimersi su questioni politiche, come la pena capitale, evitando problemi di censura. I protagonisti arrivano su un pianeta sconosciuto e perdono ogni legame con l’umanità: dialogano senza parlarsi, non hanno bisogno di mangiare, dormire e respirare. Qui si inserisce uno dei temi principali della fantascienza: la noia della vita eterna. Alla fine, dopo trecento anni, ritornano sulla Terra e trovano il mondo cambiato: il lavoro dell’uomo è sostituito da quello delle macchine, tutto si produce chimicamente, non ci sono più i sentimenti, la gente non ha più sogni o grandi aspirazioni. L’uomo è completamente annichilito dal progresso scientifico e tecnologico. I due, però, non sono d’accordo su cosa fare: il medico vuole tornare alla vita tradizionale,

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dove gli uomini hanno un proprio ruolo all’interno della società; mentre l’ingegnere sceglie di abbandonarsi alla nuova vita dominata dalla tecnologia. Il medico, a causa della sua scelta, finisce in prigione. Il tema dell’oppressione e della censura lega fortemente il dramma Riḥla ila al-ġad e il racconto breve Fī sanat malyūn. A fare da sfondo ad entrambe le opere vi è l’uomo che aspira ad uno stato di immortalità, di perfezione, ma al tempo stesso prova disagio davanti alla mancanza di un futuro. Il mondo che all’apparenza sembra perfetto e idilliaco, in realtà è dominato dal progresso tecnologico che ha portato al completo annichilimento dell’uomo. Attraverso la descrizione della vita senza tempo di persone condannate a vivere eternamente, l’autore parla di come la sete di potere dell’uomo porti alla distruzione dell’esperienza umana (Barbaro, 2013: 102). In Fī sanat malyūn al-Ḥakīm dipinge uno scenario apocalittico e disumanizzante, a seguito del susseguirsi di guerre nucleari. Viene descritta la vita senza tempo degli “abitanti della Terra”, che, condannati all’immortalità, vivono una sorta di stasi perenne. Nel racconto, però, la prospettiva cambia: si dà per scontato che il desiderio comune dell’uomo sia quello di vivere per sempre; il protagonista del racconto, invece, non cerca di salvarsi dalla morte, ma lotta per affermarne l’esistenza. Il racconto fantascientifico e filosofico auspica l’avvento di un profeta, il cui miracolo sia la morte e non la vita. Il lettore viene proiettato in una società futuristica senza nome, ambientata nell’anno del milione, in cui la morte e le malattie sono state debellate. Le sostanze nutritive vengono rilasciate tramite gas dentro le case, l’apparato digerente non è più necessario e così le persone non hanno né bocca né denti. La distinzione di genere, tra maschio e femmina, non c’è più, il desiderio sessuale si è estinto, e la procreazione avviene in laboratorio. Con l’estinzione dell’attrazione tra i sessi, sparisce anche l’amore e con esso l’arte e la poesia. La vita eterna priva l’essere umano di qualcosa verso cui tendere, di scopi per vivere diversi dalla mera esistenza.

Nelle opere dello scrittore egiziano si riscontrano influenze di fonti occidentali, come Brave New World (1932) di Aldous Huxley (Barbaro, 2013:113-114) e War of The Worlds (1897) di H.G. Wells. Brave New World rappresenta una delle prime affermazioni della letteratura dispotica moderna e riflette le tensioni del periodo storico in cui vive l’autore: la prima guerra mondiale e l’affermarsi del totalitarismo. Nella produzione di Huxley, come in quella di Tawfīq al-Ḥakīm, si ravvisa una critica nei confronti dei governi che manipolano e omologano i cittadini affinché nessuno si ribelli all’autorità, tratto tipico dei regimi dittatoriali (Barbaro, 2013: 202). Anche qui ritroviamo l’assenza della fame, dell’appetito e di altre caratteristiche tipiche degli esseri umani. I cittadini si alimentano con pillole e tavolette di soma e la sessualità è un mero appagamento dei sensi, le persone si creano in provetta e vengono condizionate chimicamente in base al ruolo che dovranno svolgere nella società (Barbaro, 2010: 212). Un altro contributo fondamentale al tema fantascientifico del rapporto tra Spazio e Tempo è stato dato dallo scrittore H. G. Wells con The Time Machine e War of The Worlds. In Wells è visibile la commistione di romanzo psicologico e realista, che sfocia in critica sociale. In War of The Worlds, Wells descrive l’arrivo di marziani

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sulla Terra attraverso uno strano oggetto, un cilindro metallico simile ad una meteora. Sono dotati di “raggi di calore”, simili a raggi laser, attraverso cui carbonizzano i terrestri e le piante, e durante la loro evoluzione perdono l’uso di diversi apparati. Wells non mette in risalto solo le paure della società post-industriale inglese, ma anche il timore della gente nei confronti di qualcosa di sconosciuto che proviene dallo spazio, di qualcosa più avanzato e potente che è in grado di minacciare il genere umano. Raccontare e criticare la società reale attraverso la narrazione di mondi fittizi che trascendono i limiti dell’umanità e che esplorano le nuove ipotesi e scoperte scientifiche derivanti da un progresso più incalzante, lega, senza dubbio, la produzione fantascientifica dei due autori.

In tutta la sua produzione al-Ḥakīm ha manifestato la volontà di stimolare il lettore a riflettere sul mondo che lo circonda, attingendo alla sfera culturale. Si è reso così portavoce del forte ruolo sociale che riveste il letterato (Barbaro, 2013: 118). Ha sottolineato l’importanza politica e sociale della letteratura e ha fatto delle sue opere una forma narrativa in grado di esprimere i grandi interrogativi della coscienza e dei sogni che hanno animato il panorama arabo.

Di seguito si propone la traduzione del racconto Fī sanat malyūn e per il testo in arabo si fa riferimento all’edizione Tawfīq al-Ḥakīm, Fī sanat malyūn, in Id., Arinī Allāh, Dār al-šurūq, Il Cairo, 2007.

FĪ SANAT MALYŪN, TRADUZIONE Questo racconto è ambientato nell’anno del milione. Il mondo, in quell’epoca, era inimmaginabile. Erano scomparse le guerre e le malattie, e la morte era stata cancellata. Sì, perché la scienza aveva ormai vinto la morte da centinaia di migliaia di anni. Non c’era più nessuno che morisse e neppure qualcuno che nascesse. Anche il matrimonio si era estinto, perché ormai era la scienza, nei suoi laboratori, ad occuparsi della procreazione. Il mondo andò avanti così, fino a che la gente non perse la voglia di riprodursi, perché ormai non moriva più nessuno. L’uomo era diventato eterno come gli elementi della natura, che non cambiano mai e si conservano per sempre, il sole, la luna, il mare e le montagne. Non c’era niente, dentro di loro, che si consumasse o che si rovinasse. Le loro cellule, infatti si rinnovavano e le loro ghiandole non si logoravano. Le parole “vecchiaia” e “gioventù” non avevano più alcun senso nella lingua dell’epoca. Tutto ciò che gli abitanti sapevano è di “essere presenti”. Se il mare avesse un suo linguaggio, potrebbe parlare di “gioventù” o di “vecchiaia”? Nell’estate di quell’anno, un geologo fece visita ad un chimico e gli disse: “Ho fatto un’importante scoperta che lascerà tutti senza parole. Ho trovato questo reperto in una vecchia caverna. Guarda!” Dalla sua borsa, con cura, tirò fuori un teschio umano. Lo diede all’amico chimico, che lo esaminò e disse:

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“Cos’è? Ha la forma di una testa simile alla nostra, tranne per le piccole dimensioni e per questa cosa…” e indicò i denti e la bocca. Il geologo rispose con tono di approvazione: “Esatto, la sua storia risale a 600.000 anni fa!” “Incredibile! Come ha fatto a privarsi della carne, del sangue e delle arterie?” “È proprio questo che è strano!” “E dov’è il resto del corpo?” “Ho trovato solo questa parte!” I due uomini, sbalorditi, rimasero immobili davanti al teschio umano. Era una novità, non c’era niente di simile neanche nei loro musei. Le guerre atomiche, che si erano susseguite sulla Terra per centinaia di migliaia di anni, avevano raso al suolo i musei e le biblioteche antiche. I patrimoni delle epoche passate, perciò, non erano arrivati fino a loro. Era rimasto solamente un sommario degli esperimenti scientifici, su cui si sarebbe basato il loro nuovo mondo. Il chimico era esterrefatto e confuso, come Caino quando vide per la prima volta la morte impossessarsi di Abele. Il geologo fece un cenno con il capo, accarezzò il teschio e disse:” Senza dubbio si tratta di un essere umano come noi, ma… come si è ridotto in questo stato? È qui che sta il mistero… Deve esserci una forza in grado di trasformare il progresso dell’essere umano in questa specie di inerzia!” Il chimico, mentre esaminava le ossa con le sue mani, disse: “Il progresso? L’inerzia? È come se questo progresso avesse una fine…” “Come?” “Non ti sei mai domandato - e infine… cosa c’è dopo? -” “Un giorno mi sono chiesto…forse la geologia mi spinge a scavare nel passato e questa ricerca, a sua volta, mi spinge a scavare anche nel futuro… quale sarà il nostro futuro?” “Il nostro futuro!?” “Si… il futuro della nostra razza umana!” “Cos’hai nella testa?? Hai qualche rotella fuori posto!” disse il chimico mentre guardava impaurito il suo amico. La parola “futuro” era strana per la gente dell’epoca, per loro non esisteva un domani, non c’era differenza tra la notte e il giorno, non esisteva neanche il sonno perché la luce artificiale aveva fatto in modo che la gente non avesse bisogno della luce del sole, e il cibo chimico aveva fatto sì che non avessero più bisogno di dormire. Erano sempre attivi come il battito del cuore, che non si ferma mai. Ignoravano il “domani”, la loro conoscenza del passato si fermava a decine di migliaia di anni prima e la situazione non era molto cambiata da come vivevano in quell’anno. Non erano capaci di immaginare un’altra epoca, solo il “presente”, che con le sue grandi ali copriva tutte le altre epoche, che per loro, esseri immortali, era come se durassero un giorno. Il geologo rivolse lo sguardo al cielo e sussurrò tra sé e sé: “Finché che c’è l’esistenza, deve esserci anche la non esistenza” “La non esistenza?”

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“Si…il nulla…” Il chimico si alzò in piedi e disse: “La non esistenza? Che cos’è? È la prima volta che sento queste parole strane. Che cosa ti è successo?” “Non hai anche tu queste sensazioni ogni tanto?” “Quali sensazioni?” “La voglia di non esistere…” “Mi resta difficile capire quello che dici o quello che hai… c’è qualcosa in te che non va, qualcosa che non funziona!” Il chimico, velocemente, se ne andò e si diresse da solo alla sede del Consiglio degli scienziati. Lì, raccontò la situazione dell’amico, tutto quello che aveva detto, comprese le strane espressioni senza senso. Gli scienziati rimasero stupiti davanti alla notizia e convocarono il geologo. Quando arrivò da loro, gli domandarono perché avesse detto quelle cose e lui rispose: “Sì… c’è sicuramente qualcosa dopo la nostra esistenza continua…” “Cosa intendi?” “La morte…” “La morte? Cosa vuol dire questa parola…” “Non lo so, forse ora sono stanco … è come se ci fosse un’ispirazione divina, sono convinto che esista qualcosa e noi chiamiamo questa cosa “morte”. Un giorno ci arriveremo… credetemi. Nessuno di voi ha provato, almeno una volta, la sensazione di una strana sonnolenza, fugace come un battito di ciglia, durante cui si sente un sollievo, una dolcezza tutta particolare? Quell’istante può durare più a lungo fino a diventare la “non esistenza”. Ecco allora che diventa quella cosa che io chiamo “morte”. Gli scienziati scossero la testa e abbassarono lo sguardo mortificati… perché si resero conto che il loro collega vaneggiava. Uno di loro gli chiese una prova e disse: “Non dimenticarti che sei uno scienziato e in quanto tale non puoi permetterti di seguire delle sensazioni. Devi darci una prova scientifica, che dimostri l’esistenza di ciò che chiami ‘morte’…” Il geologo tirò fuori dalla borsa il teschio e lo mostrò agli scienziati, mentre diceva: “Miei cari colleghi… su questa terra un tempo è esistita la “morte” e questo ne è la prova!” Gli scienziati si raggrupparono attorno al cranio per esaminarlo. Rimasero sconcertati al primo impatto, poi si scambiarono sguardi scettici, di scherno. Misero via il teschio e uno di loro disse: “Questa non prova quello che dici, dimostra solo che nell’antichità, su questa terra, c’è stato un popolo che non aveva raggiunto il nostro livello di scienza Noi creiamo gli esseri umani nei laboratori da centinaia di secoli, alleviamo gli “spermatozoi” come alleviamo i batteri. Invece, i popoli prima della nostra epoca creavano lo scheletro umano e poi vi insufflavano dentro. Questo scheletro che ci

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fai vedere era un “progetto” per creare l’essere umano, che, per qualche motivo, non è andato a buon fine!” Gli scienziati erano tutti d’accordo e ammonirono il geologo di non insistere con queste frottole, perché avevano paura che la gente potesse crederci. Gli scienziati se ne andarono, lasciando il geologo immerso nella vergogna e nel fallimento. Lui non si disperò… le sue sensazioni gli dicevano che aveva ragione. Andò da un suo amico, con cui si trovava bene e su cui poteva contare. Aveva una dolcezza e una sensibilità del tutto particolari. Sarebbe stato chiamato “femmina” 500.000 anni prima, quando questo genere era indispensabile per creare la razza umana. Da centinaia di migliaia di anni, però, non c’era più nessun rapporto tra i due generi, perché non si doveva più procreare…non c’era più alcuna differenza tra maschio e femmina, gli apparti genitali non servivano più e più passava il tempo più diventano uguali. Nessuno aveva conservato le qualità del passato, come la dolcezza e la sensibilità. La società non distingueva più i due generi, nessuno li ricordava. In quell’epoca, c’era solo un genere dell’essere umano, che veniva chiamato “abitanti del pianeta Terra”. Tutta la Terra formava un’unica Umma e un’unica società. “Un gruppo di menti addestrate” formava il governo del pianeta, che gestiva tutti gli affari pubblici e organizzava le comodità per far rilassare i cittadini. Il geologo andò dal suo amico sensibile e gli disse: “Ti fidi di me?” “Si…” “Mi credi?” “Si…” “Allora ascolta…” E gli raccontò tutta la storia, gli fece vedere il teschio e gli spiegò la sua teoria, approfondendo ogni volta che lo vedeva stupito. Si trattava di una cosa soprannaturale, inimmaginabile, che neanche le parole potevano spiegare. Come potevano spiegare il significato della “non-esistenza”, del “nulla” o della “morte”? Come potevano darne una spiegazione concreta? In quell’epoca, nessuno era in grado di farlo, perché niente moriva, e non ricordavano dell’esistenza degli animali sulla terra, dato che si erano estinti centinaia di migliaia di anni prima. Le guerre atomiche li aveva sterminati, avevano raso al suolo la superficie della terra, eliminando ogni tipo di pianta e animale, uccelli e pesci. All’essere umano era rimasto solo l’interno della Terra, dove viveva con i suoi laboratori e le sue fabbriche. Si nutriva attraverso gas chimici rilasciati nelle case. Erano “materiali provenienti dall’atmosfera e dalle radiazioni dei corpi celesti”. Questo tipo di alimentazione aveva distrutto il vecchio stomaco e l’apparato digestivo. La bocca e i denti erano scomparsi. C’era solo una testa che pensava, un naso che inalava i cibi, fatti di gas, le mani erano deboli e le gambe gracili perché venivano usate poco. Non c’era più alcuna differenza tra l’essere umano, il mare e il pianeta… Era come loro, eterno. E come loro non aveva bisogno di lavorare per vivere. Era diventato quasi un dio, che non procrea e non

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è procreato. Quell’essere eterno ignorava la morte, ma conosceva l’eternità e non distingueva più “ieri” da “domani” … Per il geologo era difficile spiegare la sua teoria, perché per comprenderla bisognava avere la concezione del tempo e dei suoi confini. Non c’era cosa più difficile per un “Dio” che parlare del suo passato e del suo futuro, perché questi due concetti non avevano significato per chi esiste in eterno. E ancona più difficile era far capire i concetti di “inizio” e di “fine” … L’amico guardò fiduciosamente il geologo e gli disse: “Ti credo, ma non sono in grado di capire…” “Lo so, è complicato. È difficile chiederti di capire una cosa che io stesso non riesco a spiegare e a farti vedere. Forse mi sbaglio, forse il mio lavoro e lo studio della Terra mi hanno portato ad immaginare cose che non esistono. La mia scienza non ha più una posizione riconosciuta, non è più rispettata dagli altri scienziati. Nessuno le dà importanza. Tutto ciò perché gli scienziati sostengono che non esista una cosa chiamata “storia”. Per loro, prima del nostro “presente” eterno non c’è niente, se non le fantasticherie dei pazzi. In realtà…non lo so…sono pazzo? O vedo cose che gli altri non vedono?” “Non sei pazzo…” “Tu mi credi e questo mi rende felice, ma non basta! Voglio che tu veda quello che vedo io…” “Ci proverò, aiutami!” “Si, ti aiuterò! Parlami della tua vita…” “La mia vita?” “La mia vita è questa, è così da sempre. Tu la conosci, non è cambiato niente.” “Si, niente è cambiato! Ma ti ricordi cosa c’era prima?” “Ricordare? Cosa significa?” “Giusto, non possiamo avere memoria se non conosciamo il passato o la storia…” “Perché ti logori con queste cose incomprensibili…Ho paura per te, ho paura che tu possa essere criticato e disprezzato dalla società. La gente parla di te e consiglia di starti lontano. Dicono che sei squilibrato e hai dei disturbi incomprensibili…” “Anche tu vuoi starmi lontano?” “No. Qualsiasi cosa capiti, io sono dalla tua parte” “Anche io, qualsiasi cosa accada, non voglio allontanarmi da te! Come posso si può definire questo sentimento?” Si fermò un attimo, come se volesse trovare una spiegazione a questo sentimento strano… La parola “amore” si era estinta da centinaia di migliaia di anni, come pure la naturale attrazione tra i sessi. Dopo che ebbero iniziato a procreare nei laboratori, con la scomparsa dell’amore, erano svanite anche la poesia e l’arte. Non era rimasto alcuno spazio per le emozioni, fatta eccezione per quel sentimento di fratellanza che legava gli abitanti del pianeta Terra. Non si provava quasi mai quello strano sentimento, tanto che quello che legava il geologo al suo amico era incomprensibile! Il legame tra i “cuori” era sparito ed

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era stato sostituito dal legame tra i “pensieri”. Per questo motivo il rapporto di cuore tra il geologo e l’amico era inspiegabile a quell’epoca. Era strano quel sentimento profondo, che scombussolava l’animo del geologo… L’amico, preoccupato per lui, gli disse: “Puoi spiegarmi meglio? È la prima volta che non riesco a leggerti nel pensiero!” Il geologo alzò la testa, guardò a lungo il suo amico, e gli disse: “Non riesci perché il mio pensiero è confuso e intrecciato. Io stesso non riesco a trarne qualcosa di chiaro. Ho solo una sensazione sfocata” “Una sensazione su cosa?” “Ho la sensazione che ci sia qualcosa dopo la mia “esistenza” … sento come se ci debba essere una fine...” “Una fine?” L’amico sembrava stanco, quella stanchezza che pesava sull’essere umano milioni di anni fa quando si sforzava a immaginare la “non-fine” “Sì amico mio…esiste un segreto a noi ignoto, una qualche felicità ci attende, dietro una porta sbarrata, in un posto dove aleggiano una dolcezza particolare e uno strano sollievo, che si trovano in una stanza in cui noi non possiamo entrare…” “Possiamo sperare di entrarci?” “Si, solo se possiamo “non essere”!” “Non riesco a capire…” “Per noi è vietato entrare in quella stanza, dove si prova un sollievo a noi sconosciuto… è quella stanza che io chiamo “morte”…” “La morte?” “Sì, la morte…” Lo scienziato lo disse pianissimo, come se stesse sognando… come se si servisse della sua ispirazione divina, sconosciuta... Cercava una luce interiore per illuminare ciò che immaginava. Era difficile, per chi vive in eterno, immaginare la “morte”. Se Dio fosse impotente di fronte a qualcosa, lo sarebbe proprio di fronte all’ essere in grado di morire. E se fosse privo di qualcosa, sarebbe senza dubbio privo di questo. “A queste strane sensazioni di sollievo, dolcezza e felicità, e a questa cosa che chiami “morte”, a cui tu dici di dover arrivare, ci arriveremo insieme. Finché tu ci credi, io mi fiderò di te.” L’amico parlò in maniera così affettuosa che riempì l’animo dello scienziato di fiducia e speranza. Così, in quella seduta, finì la conversazione tra i due. Naturalmente non era una conversazione come veniva intesa a quell’epoca, perché gli uomini dell’epoca non avevano né bocca né lingua, ma le idee si trasmettevano da una testa all’altra mentre sedevano l’uno accanto all’altro in silenzio… Si sparse la notizia del geologo e la sua idea si diffuse. La sua storia era ormai nota quasi a tutti e molte persone, che la pensavano come lui, iniziarono a seguirlo. Si formò un gruppo di credenti e così apparve il primo Profeta dopo centinaia di migliaia di anni. In quell’epoca, in cui il dolore e la speranza si erano estinti, non c’era più bisogno di un messaggio o di messaggeri … ma la speranza

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apparì di nuovo, sotto forma di desiderio di quel sollievo sconosciuto, che veniva predicato da quell’essere umano sognatore, speranzoso e credente. Era stato facile trovare accoliti che seguissero lui e ciò che professava. Tuttavia, c’era un ostacolo sul suo cammino. Coloro che erano scettici e rinnegavano le sue idee gli chiedevano un “miracolo”: la morte di un vivente. Fu un momento di grande difficoltà… come poteva farlo da solo? I chimici e i biologi lo ostacolavano, si opponevano a lui e gli davano del bugiardo. Se la sua visione non era sbagliata e se la rivelazione e la sua ispirazione erano giusti, doveva essere destinato ad avere un aiuto sconosciuto. E per la prima volta, dopo più di un milione di anni, tornò di nuovo la sensazione dell’esistenza di un Dio supremo nell’animo dell’essere umano! Il Profeta urlò dentro di sé: “Se non ho ingannato né me stesso né i miei seguaci, per compiere il “miracolo” devo essere destinato ad avere una forza più grande di tutte le forze dell’universo!”. Questa potenza si manifestò, come accadde anche ad altri profeti nel passato, rappresentando un punto di svolta per l’umanità di quell’epoca. Una meteora enorme, dal cielo, si schiantò sulla Terra, sul tetto della casa di un essere umano e gli schiacciò la testa. Il Profeta e i suoi accoliti si precipitarono per vedere cosa fosse capitato a quell’uomo. Il governo, però, essendo venuto a conoscenza del fatto, si affrettò a cercare di sottrarre il corpo ai seguaci. Questi si rifiutarono di consegnare il corpo, il governo insistette e così ci fu uno scontro. Per la prima volta, dopo decine di migliaia di anni, ci fu una rivolta. Alla fine vinse il governo, che portò l’uomo in un posto dove gli riparano la testa o dove venne fatto sparire. Nessuno sa cosa accadde… Il Profeta venne arrestato e processato dal governo, i colleghi scienziati deposero contro di lui, sostenendo che fosse diventato pazzo e che la sua fantasia fosse pericolosa. Venne condannato alla pena capitale, che consisteva nella sostituzione della testa. Era l’equivalente della decapitazione che avveniva nelle epoche passate. Venne portato in una centrale elettrica e lì gli bombardarono le cellule pensanti del cervello con raggi speciali, così da indebolire le cellule, che vennero sostituite con altre più semplici e obbedienti. Aveva perso la propria personalità, non c’erano più né forza né volontà in lui. E con la personalità del Profeta scomparve anche il suo corpo. Nonostante ciò, il suo messaggio era sopravvissuto, grazie all’amico e ai seguaci che continuarono, di nascono dal governo, a diffondere il suo pensiero, assicurando che loro avevano visto la “morte” in quell’uomo con la testa schiacciata. Se il governo non si fosse precipitato a portarlo via, il miracolo sarebbe stato visibile da tutti. Passarono mille anni, durante cui la fede religiosa non si spense mai, ma continuò a bruciare come i tizzoni ardenti sotto la cenere. Alcune menti eccellenti sostennero questo movimento, diffusero i principi del messaggio e chiarirono l’idea dell’esistenza di un Dio supremo, che è in grado di dare all’essere umano la felicità spirituale e il riposo divino. Arrivò il giorno in cui i seguaci si resero conto che ad ostacolare la realizzazione di quella visione divina era il sistema vigente. Si capì che preservare la sopravvivenza del corpo umano come in una gabbia di

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ferro aveva fatto sì che la vita eterna e quella cura del corpo privassero l’uomo dello spirito e della sua grazia… Quest’idea si consolidò nell’animo dei seguaci e così, un giorno, scatenarono una rivoluzione, irrompendo nelle fabbriche e rompendo i macchinari. Il sistema entrò in crisi, regnava il caos e i gas nutritivi non arrivarono più a gran parte della popolazione. Qualcuno iniziò a manifestare i sintomi delle malattie e alcuni si aggravarono. I seguaci continuarono a compiere attentati, aumentarono in numero e divennero più forti. Fino a quando, un giorno, si raggrupparono e si stabilirono su una regione della Terra. La resero indipendente e istituirono la loro nuova religione. Rinnegarono l’autorità del dio esistente, “la scienza”, che aveva dato loro la potenza della “ragione”, ma, allo stesso tempo li aveva privati della benedizione del “cuore” e del piacere dell’“istinto”. Ora, credevano in una divinità superiore, creatrice della natura. Passarono dunque centinaia di migliaia di anni, ritornò la “morte” e con essa la “paura” e l’istinto naturale di preservare il genere umano. Le nascite non furono più controllate nei laboratori, ma la natura fece rivivere nei corpi umani il desiderio sessuale, e la specie umana ricominciò a distinguersi nel genere maschile e in quello femminile. E così ricomparve l’“amore” e con esso anche l’“arte” e la “poesia”. Così la natura, il Dio supremo, tornò di nuovo a governare la Terra. Ricomparvero le religioni celesti e i poeti tornarono a recitare versi e a dire “O Creatore Eterno… a te solo l’immortalità e l’onnipotenza… Quanto a noi, vogliamo solo essere umani, con un corpo mortale, un cuore ardente e una mente prudente… O Natura misericordiosa, a te solo è la vita eterna… Quanto a noi, aspiriamo solo all’età della rugiada, che scende dal cielo all’alba e al cielo risale al tramonto…”

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L’AUTRICE Marina Giacconi, laurea triennale in “Lingue e Culture Straniere Occidentali e Orientali”, Università degli Studi di Macerata, lingue studiate: inglese, arabo. Studente in corso della laurea magistrale “Lingue, Culture e Traduzione Letteraria”, Università degli Studi di Macerata, lingue di studio: anglo-americano, arabo. Interesse nella letteratura fantascientifica araba dai punti di vista letterario, storico e sociale. E-mail: [email protected]

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SEZIONE RECENSIONI

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RECENSIONE H. Blasim et al., “Iraq+100, stories from a century after the invasion”, a cura di H. Blasim, Comma Press, 2016

Sara Mazzei

Ricorda chi passò accanto a una città deserta e in rovina. Disse: «Come potrà Dio farla rivivere dopo la morte?».

Allora Dio lo fece morire e restare così per 100 anni, poi lo resuscitò e gli chiese: «Per quanto tempo sei rimasto così?». Rispose: «Sarò rimasto così per un giorno o parte di un giorno».

Disse Dio: «Invece sei rimasto così per 100 anni»1.

Iraq+100 è una recente, originale e affascinante raccolta di racconti brevi di taglio fantascientifico, che concede molto alla narrazione storica degli eventi passati e all’introspezione psicologica dei personaggi, permettendo agli autori di esprimere i propri pensieri più profondi sulla situazione attuale in Iraq. Esso è disponibile on-line nella sua versione originale e unica in inglese, edita da Comma Press, casa editrice fondata da Ra Page, ideatore della raccolta e autore delle conclusioni. L’opera contiene dieci racconti, di cui sono riportati gli autori e gli eventuali traduttori: tre racconti non hanno necessitato di traduzione essendo stati scritti originariamente in lingua inglese; gli altri riportano il nome del traduttore ma non informazioni sulla lingua in cui sono stati scritti originariamente, che è la lingua araba. Nell’introduzione, il curatore Blasim narra la storia del libro, nella cornice del dibattito sull’esistenza e sul ruolo della letteratura fantascientifica in Iraq. L’idea nacque nel 2013 nella distruzione lasciata dall’occupazione straniera: Blasim sottolinea che «nessuna nazione nel nostro tempo ha sofferto quanto l’Iraq, che dall’invasione britannica del 1914 non ha più assaggiato pace, libertà e stabilità». Tale premessa fa comprendere come l’opera sia basata sul dolore e l’incredulità degli scrittori iracheni, sentimenti riversati in una scrittura surreale e passionale, e anche perché sia stato difficile persuadere a scrivere sul futuro autori già cosi impegnati a scrivere sull’orrore del presente. Blasim li ha contattati personalmente per incoraggiarli e convincerli che scrivere «sul futuro può fornire uno spazio per sviluppare nuove idee, per capire meglio se stessi, le proprie speranze e paure rompendo le barriere del tempo». Questo libro, in cui gli scrittori sono chiamati a 1 Sūra 2:259. Ventura, Alberto (a cura di). Il Corano. Traduzione di I. Zilio-Grandi, Milano: Mondadori, 2010.

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immaginare una città 100 anni dopo l’occupazione straniera del 2003, è il primo del genere nella scena letteraria irachena, visto che, come sottolinea Blasim, vi è una mancanza di fantascienza nel panorama arabo- musulmano rispetto alla quale egli stesso ipotizza alcune spiegazioni. La prima riguarda il contesto di sviluppo della fantascienza: in occidente il 19°secolo è stato un periodo di innovazione tecnologica mentre per l’Iraq è stato la continuazione di un lungo periodo di stagnazione, iniziato con la fine del Califfato Abbaside. Paragonando l’invasione mongola del 1258, quando l’Hulagu Khan incendiò la biblioteca di Baghdad, a quella del 2003 «quando l’Hulagu Americano George W. lasciò che i musei venissero saccheggiati in diretta televisiva mondiale», Blasim ci mostra come siano l’immagine della distruzione e la difficoltà di pensare la ricostruzione a permeare l’immaginario iracheno. Sostiene, inoltre, che la poca diversificazione nella letteratura araba derivi da problemi politici e sociali: «il discorso religioso ha soffocato l’immaginazione, l’orgoglio ha indebolito la libertà della narrazione e gli invasori hanno distrutto la pace, casa dell’immaginazione». Ma la fantascienza non è assente nella tradizione letteraria araba, anzi molti ne rintracciano le origini in Le mille e una notte, in Hayy ibn Yaqdhan ed in testi Sumeri, Assiri ed Egiziani. Gli scrittori che recentemente hanno provato a sperimentare la scrittura di fantascienza sono stati stigmatizzati come blasfemi, ma vengono riposte molte speranze nella «nuova generazione di nativi digitali, avventurosa nei generi ed impaziente nell’esercitare la libertà d’espressione».

Per capire la raccolta è utile guardare anche alle biografie degli autori, alcune fortemente segnate dalla fuga all’estero, altre dall’esser rimasti in patria. Blasim nacque a Baghdad nel 1973, ma a 25 anni dovette lasciarla per l’attenzione ottenuta con i suoi documentari sulla vita sotto Saddam; si spostò nel Kurdistan iracheno dove continuò a fare film sotto uno pseudonimo curdo; infine, si stabilì come rifugiato in Finlandia e iniziò a pubblicare racconti. Tra questi, The Gardens of Babylon è un piccolo capolavoro di fantascienza, capace di mescolare passato, presente e futuro in una cornice narrativa avvincente e originale. L’autore immagina un paese chiamato Mesopotamia, in cui Baghdad riprende l’antico nome di Babilonia e non vi è traccia di Islam, bensì uno scenario dominato dalla tecnologia avanzata in cui vediamo il sostegno governativo alla creatività e all’armonizzazione tra immaginazione e realtà tramite lo Story-Games Centre dove lavora il protagonista. Esiste ancora l’abbandonata città vecchia, con le sue antiche rovine, preda di tempeste di sabbia, in cui vigono speciali misure di sicurezza. Il protagonista è uno scrittore di game story, videogiochi che sostituiscono la narrativa, e ha il compito di trasformare in videogioco un classico della letteratura del secolo prima, ma vorrebbe inventare una propria storia e procede a stento nel lavoro. Il classico è di uno scrittore rifugiatosi in Finlandia dopo che l’ISIS aveva conquistato la città e che lì si tolse la vita: tramite la sua storia viene riassunta la storia dell’Iraq in poche battute, narrando delle contrapposizioni sulla gestione dei pozzi petroliferi e dei siti di rilevanza storica; Blasim, poi, immagina che nel 2103 la desertificazione e l’esaurimento del petrolio abbiano modificato la situazione mondiale, con il diffondersi dell’energia verde e la sollevazione delle popolazioni occidentali contro il capitalismo.

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Un’amica del protagonista, per aiutarlo a venir fuori dal blocco creativo, gli offre un insetto-robot psichedelico che porta in stato di trance. Il protagonista si reca nella città vecchia a riflettere sulla storia del suo scrittore e fa uso dell’insetto: ciò che vedrà lo aiuterà nel progettare il videogioco in modo originale. Metà racconto è, quindi, dedicato a raccontare l’esperienza psichedelica, con uno stile intenso e pittoresco diverso dal resto del testo, in cui hanno grande parte le sensazioni e le emozioni. Egli vede e incontra lo scrittore del passato, vive con lui alcuni momenti fondamentali della sua vita, prova gli orrori da lui narrati, vede gli estremisti islamici in rappresentazioni dissacranti, disgustose e ironiche, sente l’odore di carne bruciata nelle narici fino a star male, fino a non desiderare nient’altro che la fine dell’esperienza.

Questo racconto riporta nella finzione letteraria il vissuto della migrazione e dell’esilio esperiti dall’autore, come avviene anche nei racconti degli altri scrittori emigrati, i quali rielaborano la guerra e l’esilio in modi differenti, con diversi riferimenti alla storia e alla cultura dell’Iraq. Abdulrazak utilizza un tipico tema fantascientifico, narrando dell’invasione aliena di Baghdad, soffermandosi su come l’ideologia aliena giustifichi il predominio sulla razza umana attraverso teorie di inferiorità razziale che riecheggiano le giustificazioni al colonialismo e al razzismo. Poetica e colma di sentimento è la storia di Kaki che riprende la tradizione curda della propria città di nascita, Kirkuk, immaginando un governo cinese che vieta l’utilizzo degli antichi idiomi, reprimendo le espressioni artistiche più sentite dalla popolazione come la musica e la poesia. Sono due gli autori che danno voce alla tradizione sciita ambientando i loro racconti a Najaf, terzo luogo santo per gli sciiti dopo la Mecca e Medina, perché sede del mausoleo di ʿAlī. Nel racconto di Hasan, come in quello di Blasim, appare una città sdoppiata tra nuova e vecchia: la nuova Najaf, ipertecnologica, e la vecchia Najaf, sede della moschea di ʿAlī che i protagonisti non sanno neanche chi sia. Il racconto di al-Marashi narra di un pellegrinaggio verso Najaf compiuto sulle orme degli antenati in un continuo confronto tra passato e presente, in cui l’eroe della pace è ‘Ali Sistani, che nel 2020 mette fine alla guerra meritando così un tempio vicino a quello di ʿAlī.

Riferimenti molto pregnanti, dal punto di vista letterario, sono rintracciabili nei racconti di Bader e Alhaboby: la Sūra a cui fa riferimento il primo e le Mille e una notte a cui fa riferimento il secondo sono due importanti topos letterari nella cultura araba quando si parla di fantascienza e di rapporto dell’uomo con il tempo. Nel racconto di Bader il futuro viene narrato da un soldato morto alla fine della guerra con l’America e tornato sulla terra 100 anni dopo. La narrazione è incentrata sul servizio prestato nell’esercito iracheno, durante il quale il protagonista sviluppò tanto odio verso il dittatore da desiderare l’arrivo degli americani. La morte lo colse di sorpresa, quando si apprestava ad accogliere gli americani come liberatori, con un colpo in testa di un cecchino americano. Dopo la morte arriva nel limbo dove Dio è ancora impegnato a giudicare i greci, come nel quarto canto dell’inferno di Dante; decide allora di rimandare sulla terra il protagonista, affinché parli agli uomini del paradiso. Tornato sulla terra

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trova un Iraq che vive in pace e parla con un uomo chiedendogli informazioni, in questo dialogo viene esplicitato il richiamo alla Sūra 18 del Corano, nominata dal protagonista per spiegare all’uomo la sua storia; egli però non la conosce e, anzi, gli spiega che in Iraq hanno ormai abbandonato la religione. Tramite l’espediente narrativo l’autore racconta le speranze degli iracheni contrari a Saddam, speranze tradite come simbolicamente rappresentato dal colpo mortale che il soldato americano infligge al soldato iracheno. Anche nel futuro immaginato da Zhraa Alhaboby appartenenze, cognomi e linee di antenati devono essere dimenticati per vivere in pace. Protagonista è una donna architetto affetta dalla sindrome di Baghdad, che deve ridisegnare Piazza degli Amanti, le cui statue sono scomparse misteriosamente ormai da così tanto tempo che gli abitanti non ricordano più chi rappresentassero. L’architetto sogna ogni notte una donna, che si rivela essere Sheherazade, l’amante di piazza dell’amore portata via a pezzi che chiede di essere ricongiunta al suo amante. In questo racconto la voglia di andare avanti è dolorosamente in conflitto con l’amore per la città e la sua storia, in una ricerca spasmodica delle statue degli amanti, a voler ancora una volta omaggiare un capolavoro letterario avvolto nel mistero. Mistero che aleggia in tutto il racconto, rendendolo un giallo immerso nella tradizione letteraria ed architettonica della città, oltreché nei pensieri vorticosi di una donna moderna che ha il compito di rinnovare la propria amata città, ma sente l’impellente necessità di ricomporre i pezzi del passato, contraddizione che sembra portarla alla follia, ma che invece la porterà a svelare il mistero delle statue scomparse. La pratica antica di risalire le genealogie come metodo di ricerca si rivela l’unico utile in un mondo ipertecnologico, in cui finanche l’accesso agli archivi dei social network non è risolutivo. L’autrice fonde tradizione e fantascienza in un clima surreale ed avvincente in cui l’etichetta di sindrome mentale copre i sentimenti di chi non vuole dimenticare la storia del proprio paese, di chi non riesce a smettere di ascoltare la voce che durante la notte le sussurra nell’orecchio: “Non lasciate che Sheherazade pianga per sempre”.

Gli autori rimasti a vivere in Iraq sono solo tre, i loro racconti sono pervasi di pessimismo e le trovate fantascientifiche sembrano svolgere un ruolo marginale, un contorno quasi sarcastico di una realtà rimasta fondamentalmente immutata, un elemento stonato in uno scenario degradato. In Kahramana di Anoud la guerra ha portato alla divisione del paese in due, con un muro, tra la parte americana e quella dell’Impero islamico; il racconto trae spunto dal presente e contiene pochi elementi fantascientifici, ad esempio i prigionieri vengono descritti in ginocchio con indosso tute arancioni, come nella famosa immagine dell’ISIS. Notiamo il cristallizzarsi della divisione nel paese tra filo-occidentali e filo-islamisti e aspre critiche a entrambi, di cui viene sottolineata l’ipocrisia e l’importanza data a come si appare sui media, mentre l’autore sembra considerare opportunisti determinati organismi internazionali capaci di sfruttare un volto per la propaganda e di abbandonare la persona che lo porta al suo destino, come nel racconto. Jubaili narra di un Iraq governato da dittatori religiosi, sul lastrico, pieno di rovine, in cui le tecnologie avanzate sono scambiate per un pezzo di

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pane e imperversano crimine, cannibalismo e schiavitù. Finite le risorse il governo decide di vendere le inutili statue che riempiono la città, che finiscono, così, in musei stranieri. Il racconto termina con una scolaresca che visita un museo; arrivati alla statua di Saddam un ragazzo chiede: «alla fine, hanno trovato una bomba nucleare nella sua bocca??». Notiamo l’idea che la guerra sia stata inutile, le armi atomiche inesistenti e Saddam solo uno dei tanti dittatori. L’accanimento del governo sulle statue richiama la loro distruzione da parte dell’ISIS: «a che serve la presenza di questi idoli stupidi che fissano nel nulla? Stanno in piedi dappertutto, all'incrocio e alle piazze pubbliche. Abbiamo bisogno di loro, vivendo come facciamo in un posto che odia gli idoli? Sappiamo già che queste statue inutili erano opera di truffatori e ipocriti, artisti di qualità inferiore nel migliore dei casi. Ora servono poco più di punti di incontro per tossicodipendenti e drogati!». Il racconto di Gzar è il più breve, immagina un futuro né ottimista né pessimista, ma intriso di assurdità: il grande problema è il progetto governativo di riconversione tra nord e sud, per cui le persone dovranno cambiare abitudini ed anche la direzione degli organi interni.

Con questo libro si voleva spingere le persone a riflettere sulle conseguenze dell’invasione dell’Iraq nel 2003; le storie raccolte sono state scritte prima che lo Stato Islamico mettese in pratica la sua visione sul futuro dell’Iraq, una visione che nessuno aveva immaginato tanto surreale quanto essa si è rivelata, come dice Ra Page: «la realtà è diventata più terrificante di qualunque fantascienza futura». Lo sforzo immaginativo degli iracheni dovrà spingersi oltre e provare a pensare al futuro non solo dopo l’ennesima invasione straniera, ma anche dopo la distruzione lasciata dall’ISIS. In questo immenso sforzo, un libro come questo offre la possibilità, anche a un pubblico non specialista, di immergersi nella cultura e nei sentimenti del popolo iracheno, nella convinzione che la diffusione della produzione letteraria irachena attuale possa in qualche modo essere d’aiuto alla futura ricostruzione del paese.

L’AUTRICE Sara Mazzei è pedagogista. Laurea triennale in Scienze dell’educazione 110/110 (Unical 2012), titolo tesi: Pedagogia del dialogo ed educazione aperta: dalle favelas brasiliane ai campi nomadi. Laurea specialistica in Scienze Pedagogiche per l’interculturalità e i media, 110/110 e lode (Unical 2016), titolo tesi: Integrazione degli studenti musulmani. Analisi dell’universo culturale di riferimento. Il caso studio dell’Egitto. Nel 2016 è stata relatrice al Convegno Esplorare i Territori Mentali. L’eredità di Fatema Mernissi con un intervento dal titolo: Fatema Mernissi e l’educazione in Marocco. Dal 2016 è membro del comitato editoriale della rivista Occhialì – Rivista sul Mediterraneo islamico, con cui ha pubblicato l’articolo: L’ educazione contemporanea nel Mediterraneo islamico. Genesi dei sistemi scolastici nazionali tra colonialismo, resistenza religiosa, riformismo e nazionalismo (n. 1, 2017). E-mail: [email protected]