Nuto Revelli - Quaderno 5

90

description

 

Transcript of Nuto Revelli - Quaderno 5

Presidente: Marco Revelli

Direzione: Beatrice Verri

Segreteria: Marta Pellegrino

Consiglio di Amministrazione:Antonella Tarpino,Francesca Pasquero,Livio Berardo,Michele Calandri,Gastone Cottino,Federica Meinardi,Stefano Macocco,Luigi Schiffer,Alberto Valmaggia,Cristina Ricchiardi,Mario Cordero

MAI TARDI-ASSOCIAZIONE AMICI DI NUTOCorso C. Brunet, 1 – 12100 CUNEOTel. +39 0171 692789 • E-mail: [email protected]

Promossa dalla Fondazione Nuto Revelli onlus, è nata nel gennaio del 2007, per mantenere vivi l’opera e gli ideali di Nu-to Revelli, promuovendo iniziative culturali e politiche che rinnovino l’impegno a favore della Giustizia, della Libertà, del-la Democrazia e della Pace e permettano a tutti di partecipare in occasioni di incontri e di dibattiti. Regolata da uno Statuto, è un’associazione senza scopi di lucro ed apartitica. Vi possono aderire, mediante iscrizione da rinnovare annualmente, tutte le persone che ne condividano le finalità (cosìcome enti pubblici, istituzioni culturali e associazioni). I suoi organi sono l’Assemblea generale, che nomina il Consiglio Direttivo: esso è composto da nove membri, dura in ca-rica tre anni ed al suo interno nomina un Presidente.Le cariche sono gratuite.

L’attuale Consiglio Direttivo è composto da:

Presidente: Aldo Barberis

Consiglieri: Alberto Bosi, Nino Costantino, Chiara Rota, Federica Meinardi,Giovanna Piovano, Paolo Tonini Bossi, Anna Rizza (vicepresidente)

Invitati permanenti: M. Vittoria Mulazzano

Fondazione Nuto Revelli onlusCorso Carlo Brunet, 1 - 12100 CUNEOTel. +39 0171 692789E-mail: [email protected]

[email protected]

Partita Iva: 03162540045

La Fondazione Nuto Revelli onlus nasce il 9 gennaio 2006, a due anni dallascomparsa di Nuto Revelli – scrittore, partigiano e ricercatore della memoriacontadina – nella convinzione che il modo migliore di ricordarlo sia di farneconoscere l’opera e, se possibile, di continuarla.

La Fondazione non ha scopi di lucro, è apartitica, ed è ispirata ai valori del-la democrazia e dell'antifascismo; essa persegue esclusivamente finalità disolidarietà sociale, in particolare nell'ambito della tutela, promozione e va-lorizzazione del patrimonio storico e della ricerca storico-scientifica di parti-colare interesse sociale.

Laboratorio Didattico Territoriale:Susanne Class,Nino Costantino,Bruna Giraudo,Federica Meinardi,Maria Vittoria Mulazzano,Giovanna Piovano,Anna Rizza,Chiara Rota.

uest’anno il Laboratorio Didattico Territoriale della Fondazione NutoRevelli di Cuneo, con la collaborazione degli amici dell’Associazio-ne “Mai Tardi”, ha proposto agli allievi delle scuole del territorio cu-neese di trattare il tema “Il disperso, i dispersi”, traendo ispirazione, co-

me sempre, dall’argomento di uno dei libri di Nuto Revelli: in questo caso “Ildisperso di Marburg”, pubblicato da Einaudi nel 1994.La ricerca condotta da Revelli intorno alla figura del “tedesco buono”, il per-corso, anche fisico-geografico di indagine, l’incontro fra culture diverse, la ri-conciliazione con il nemico: tutti questi temi hanno variamente e riccamen-te stimolato i ragazzi, che hanno saputo adattare alla propria esperienza il con-tenuto del libro. Molti si sono “messi nei panni” del nemico e hanno provatoa ribaltare il diario-vicenda narrandolo con la voce di Rudolf Knaut. Credia-mo che ciò sia sempre un bene, soprattutto oggi, in un’epoca in cui la glo-balizzazione e il filtro dei media rischiano di anestetizzare la sensibilità dei gio-vani, facendo percepire la guerra come qualcosa di “lontano” o remoto neltempo.

Noi membri della giuria, invece, abbiamo trovato, nella lettura degli elaboratie nell’esamina delle opere artistiche, una comprensione lucida e profondadell’opera revelliana e di questo ringraziamo di cuore soprattutto gli insegnantidelle singole classi, che con la loro opera quotidiana e appassionata sannotrasmettere ancora oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, il prezioso inse-gnamento di Nuto.

Le opere grafico-pittoriche, poi, hanno saputo cogliere anche il tema, im-portante ma latente nel libro, del rapporto con il paesaggio: gli elaborati pro-dotti sono di alto valore artistico e hanno saputo comprendere e rendere gra-ficamente il concetto di paesaggio come interazione fra la natura e l’espe-rienza umana.

In conclusione, anche quest’anno giunga dalla Fondazione un profondograzie ai ragazzi per aver partecipato, agli amici del Laboratorio e di Mai tar-di per il lavoro svolto con passione, agli insegnanti delle classi e alla Fonda-zione CRC per il sostegno che in questi tempi duri permette la sopravvivenzadi esperienze preziose come queste.

Beatrice VerriDirettrice della Fondazione “Nuto Revelli” Onlus

Q

3

ai come quest’anno è stato difficile scegliere, tra i partecipanti al Con-corso “ Ricordando Nuto” i finalisti e i vincitori. Le due giurie - la pregiuriache ha individuato i finalisti e la giuria finale, che ha decretato i vinci-tori - hanno dovuto esaminare, infatti, un numero notevole di contribu-

ti che si sono distinti per sensibilità, intelligenza e ricchezza di riflessioni, unitespesso a originalità e fantasia. E di questo siamo felici, perchè significa due cose. Innanzitutto la capacità, da parte dei giovani, di suggerire spunti di riflessione pro-fondi, punti vista originali, domande stimolanti che aprono terreni di confronto,gettano ponti tra generazioni oggi più che mai necessari e che noi adulti dob-

biamo tenere in massima considerazione. A questoproposito è necessario ricordare come Nu-to Revelli, che i suddetti ponti li ha costrui-ti con le sue opere e con la sua infatica-bile attività intellettuale, non perdevaoccasione di accettare i numerosissi-mi inviti che scuole gli rivolgevano esottolineava spesso che, grazie a ta-

li incontri, “avrebbe imparato”. In secondo luogo la conferma- neanche fosse stato necessa-rio - che “Il disperso di Marburg”è un’opera straordinaria che of-fre una infinità di occasioni di ri-flessione e opportunità di lavoroda condurre nelle scuole, sia a li-vello di contenuti (il tema dellaguerra, del nemico, del pregiudi-zio, dell’indagine di sè stessi e del-lo scavo interiore) sia a livello dimetodo di lavoro (come lavora lostorico, l’uso delle fonti orali e quel-le d’archivio e il loro intreccio), so-lo per citarne alcuni. Ed è per que-

Ascolto, rispetto,Responsabilità

4

M

sto motivo che, in più, quest’anno, il Concorso si è ar-ricchito della partecipazione di un gruppo di stu-denti tedeschi che, lavorando con impegno, ci han-no dato la possibilità di verificare come gli stessi te-mi, le stesse riflessioni, lo stesso “viaggio” di Revelli pos-sono agire sull’immaginario degli adolescenti delPaese a cui apparteneva Rudolf Knaut, “Il disperso”.Ma c’è un’ulteriore considerazione da fare, forse lapiù importante.Spesso, nel corso dei nostri anni di insegnamento,ma anche leggendo i lavori inviati alle diverse edi-zioni del nostro concorso, ci siamo resi conto che igiovani tendono reti, ci lanciano segnali, i più di-sparati che, se colti, possono dare senso e spessorealla nostra opera di educatori e di adulti.In particolare ci fanno capire che a scuola, ma non solo a scuola, i ragazzi ci chie-dono tre cose fondamentali : ascolto, rispetto e responsabilità: ascolto delle lo-ro opinioni, dei loro bisogni, delle loro analisi e riflessioni, rispetto per le loro per-sone, per le loro individualità, per la loro età ; responsabilità, infine, da metterealla prova in assegnazione di compiti, di ruoli e impegni. Sono esattamente - specialmente i primi due - gli stessi valori che Nuto Revelli po-neva alla base della relazione con i suoi testimoni e che gli hanno permesso, con-quistando la loro fiducia, di raccogliere quelle straordinarie testimonianze di vi-ta, storia e cultura che, fortunatamente, ha raccolto nei suoi libri sulla guerra esulla civiltà contadina.Per quanto riguarda le altre attività del Laboratorio, condotte durante il presen-te anno scolastico, segnaliamo- Il Gemellaggio svoltosi tra gli istituti Vallari di Fossano e i Licei Vallisneri e Ma-chiavelli di Lucca, di cui parliamo più diffusamente su questa stessa rivista e sucui presentiamo alcune osservazioni degli degli studenti .

- La collaborazione con il Parco Fluviale di Cuneo, in occasione del Concorso Ri-cordando Nuto

- L’intervento in diverse classi delle scuole della Provincia sulla figura di Nuto Re-velli

- La visita a Paraloup di alcune classi che, in tale occasione, hanno potuto an-che incontrare il Sindaco di Rittana, Walter Cesana e l’assessore alla Cultura delComune di Borgo, Luisa Giorda presso la Sala don Viale ed il Memoriale dellaDeportazione.

Nino Costantino Coordinatore Laboratorio Didattico Territoriale

Fondazione “Nuto Revelli”onlus

5

6

■ Istituto Comprensivo “De Amicis” - Classe VLuserna San Giovanni

■ Scuola Primaria “Fratelli Castellino”Spinetta

1) Scuola Media Unificata - Cuneo, Sezione San RoccoClasse III H

2) Scuola Media “Grandis” - Borgo San DalmazzoClasse III A

LA GIURIA HA DECISO DI SEGNALARE E ATTRIBUIREUN RICONOSCIMENTO ALLE SEGUENTI SCUOLE:

■ Scuola Media Unificata - Cuneo, via BersezioClassi III M - III N

■ Istituto Comprensivo “Beppe Fenoglio” - BagnoloClassi II A - III A - III C

■ Scuola media “Don Milani” - PaesanaClasse III A

OPERE SCRITTE

1) Francesconi Sofia - I A - Liceo Classico “Arimondi” - Savigliano

2) Massimino Gioele - V A - Liceo Classico “Govone” - Alba

3) Ramunno Eleonora - V A - Liceo Classico “Govone” - Alba

SCUOLA PRIMARIAPRIMO POSTO EX AEQUO

SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO:

SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO:

i vincitori Ricordando Nuto

7

Giuria concorso “Ricordando Nuto - Ritratti”

Piera BRUSASCAPreside Scuola Media

Domenico CHIESAPres. Forum Regionaleper l’Educazionee la Scuola del Piemonte

Paola GAZZOLA MEINERIInsegnante di materie artistiche, pittrice

Cinzia GHIGLIANOIllustratrice, fumettista

Irene MILETTOReferente Innovazionedidattica Fondazione CRC

Anna RIZZAVice Presidente di “Mai tardi”Associazione Amici di Nuto

Beatrice VERRIDirettrice Fondazione “Nuto Revelli” onlus

Marta PELLEGRINOSegretaria Fondazione “Nuto Revelli” onlus

MENZIONI:

■ Gribaudo Lucia - III N - Liceo “De Amicis” - Cuneo■ Zontone Sara - III C - Liceo Linguistico "Mazzarello" - Torino

OPERE GRAFICHE

1) Ricciardetto Noemi - IV D - Liceo Artistico “Ego Bianchi” - Cuneo2) Bainotti Cecilia - IV D - Liceo Artistico “Ego Bianchi” - Cuneo3) Cavallera Marta - III D - Liceo Artistico “Ego Bianchi” - Cuneo

MENZIONI:

■ Otta Giulia - IV D - Liceo Artistico “Ego Bianchi” - Cuneo■ Galfrè Giorgia - II B - Liceo Artistico “Ego Bianchi” - Cuneo■ Vivaldo Nicole e Giraudo Francesca - V ALiceo Artistico “Pinot Gallizio” - Alba

LA GIURIA HA DECISO DI SEGNALARE E ATTRIBUIREUN RICONOSCIMENTO ALLE SEGUENTI SCUOLE:

■ Liceo “E. De Amicis” - Cuneo■ Liceo Artistico “Ego Bianchi” - Cuneo■ Liceo Classico “Arimondi” - Savigliano

i vincitori Ricordando Nuto

8

1º premio ex aequo

SCUOLAPRIMARIA

la motivazionea discussione guidata dall’insegnante è apprezzabile per la spontaneità e laprofondità degli interventi dei ragazzi. La tecnica dell’intervista risulta funzionaleal lavoro didattico svolto.L

Classe 5ªI.C. “DE AMICIS” - Scuola Elementare

LUSERNA SAN GIOVANNIMaestre: Sandra Pasquet - Sandra Cavaliere

9

ABBIAMO LETTO INSIEME IL LIBRO DI NUTO REVELLI“IL DISPERSO DI MARBURG”.A cosa ci ha fatto pensare?

TOMMASO: Anche se quando vedi un tedesco pensi ad una persona cattiva per via di quanto è successonella seconda guerra mondiale, possono esserci tedeschi buoni. Per esempio Johannes, il nostro compa-gno che ha un papà tedesco. È un ottimo amico.

FRANCESCO: In queste ricerche non sempre ti devi affidare alle prime impressioni che ti vengono in mente.

LUDOVICO: Bisogna sempre riflettere prima di fare qualcosa e non uccidere chi ti capita.

DAVÌ: La guerra non ha avuto senso. Non ha cambiato il mondo. Si è fatta soltanto perchè c’è qualcuno cheha caratteristiche che altri non hanno e non accetta la diversità.

LORENZO: Non credo che tutti i fascisti che sono andati in guerra e hanno ucciso gente avessero tanta vo-glia di farlo.

FRANCESCO: Direi più i soldati che i fascisti. I veri fascisti volevano la guerra.

SAMUEL: I soldati stavano solo eseguendo ordini.

CÈDRIC: Secondo me Nuto Revelli ha fatto bene a fare questa ricerca. È vero però che certe volte è megliosapere e certe volte no. Nuto Revelli ha scoperto che il “tedesco buono” era uno come tanti altri soldati te-deschi.

CLARK: Prima di leggere il libro pensavo che i tempi della guerra fossero più tranquilli. Invece ho capito chec’era pericolo anche per i civili.

GIOELE: Quasi tutti i fascisti e i tedeschi erano obbligati a fare la guerra anche se non volevano. I fascisti quan-do facevano il plotone di esecuzione erano obbligati ad uccidere se no venivano uccisi.

ANNARITA: Secondo me quelli che hanno ucciso il “tedesco buono” non avrebbero dovuto.

VIOLA: Perchè no?

GIOELE - FRANCESCO: Anche lui uccideva gli altri, forse anche senza essere obbligato.

EMILIANO: Secondo me non hannofatto bene. Era un tedesco, ma eraanche un essere umano.

FRANCESCO: Mettiti al posto di chiha sparato...

CLARK: Se non sparava veniva am-mazzato.

ANNARITA: Anche lui avrà uccisogente.

EJONA: Secondo me non è stato nèbene nè male ucciderlo.

BIANCA: Anche secondo me. Lui erauna persona che non faceva tantomale.

10

SCUOLAPRIMARIA

VIOLA: Ha partecipato a dei rastrellamenti.

FRANCESCO: Magari li ha anche comandati.

BIANCA: Magari è stato obbligato.

VIOLA: Ma se era un ufficiale, non era un soldato semplice...

ANNARITA: Secondo me lui voleva andare in guerra.

LUDOVICO: Secondo me hanno fatto bene, perchè così era uno in meno che uccideva gl altri. Però nessunodovrebbe mai uccidere un altro.

REBECCA: Secondo me hanno fatto bene perchè anche se lui era buono faceva del male alla gente.

DAVÌ: Nessuno è stato corretto a sparare a delle altre persone. Se nessuno avesse iniziato la guerra non sa-rebbe successo nulla.

MAESTRA: E se nessuno avesse sparato cosa sarebbe successo?

CÉDRIC: Sarebbero morti i parti-giani che lo avevano scoperto.

FRANCESCO: Potevano prenderloin ostaggio.

LORENZO: Se lo avessero tenutoavrebbero potuto fare uno scam-bio.

FRANCESCO: Spesso i tedeschi ac-cettano questi scambi.

NOEMI: Se lo avessero lasciato vi-vo era peggio, poteva ucciderealtre persone.

CÉDRIC: Nuto Revelli vuole scopri-re come è morto.

TOMMASO E FRANCESCO: Più chealtro voleva scoprire se era buono.

VIOLA: Voleva scoprire chi era.

MAESTRA: Ma perchè voleva sco-prire chi era?

FRANCESCO Forse perchè per chiaveva fatto il partigiano i soldatitedeschi rappresentavano il male.

ANNARITA: Solo i tedeschi chehanno obbligato il “tedesco buo-no” ad andare a fare il rastrella-mento.

FRANCESCO: Non è che hannoobbligato lui, hanno obbligato unsacco di gente.

11

MAESTRA: Bisogna sempreobbedire agli ordini?

TUTTI: No...

DAVÌ: Se sei in guerra e nonesegui un ordine rischi lavita...

JOHANNES: A me pare chealla fine il tedesco fosse ve-ramente buono.

MAESTRA: Perchè lo hannoucciso?

FRANCESCO: Si ribellava,non voleva essere portatovia.

VIOLA: Praticamente la sto-ria del tedesco è simile aquella di Nuto Revelli. Anche lui aveva partecipato alla guerra di Russia.

FRANCESCO: Anche i soldati italiani in Russia potevano aver fatto brutte cose, ucciso gente.

ANNARITA: La guerra è una vera sciocchezza.

FRANCESCO: sarebbe meglio che la guerra non fosse mai esistita, anche se è vero che c’è da sempre.

1º premio ex aequo

SCUOLAPRIMARIA

la motivazioneli alunni, guidati con esperienza dalle maestre, hanno lavorato in profondità, conricchezza di mezzi e varie modalità espressive. La coralità e la partecipazione di tutta la scuola che si avverte percorrendo

l’opera permette di valorizzare le diverse testimonianze mettendone in luce le emozionipiù intense.

G

Scuola Primaria “Fratelli Castellino”SPINETTA

Coordinatrice: maestra Daniela Marenco

12

Anna e Carlo Castellinosi sposano e vivono nelterritorio di Spinetta al-l’inizio del ‘900.Tra il1918 e 1928 nascono iloro quattro figli: Giu-seppe (1918), Pietro(1921), Agostino (1925),Raimondo (1928).Nel 1933 il papà Carlo muore

lasciando orfani i quattro figli che van-no dai 5 ai 15 anni.

Pochi anni dopo (7), il governo fasci-sta guidato da Benito Mussolini, al-leato dei Tedeschi, scende in guerra eGiuseppe Castellino, poco più che ven-tiduenne, viene inviato al fronte Russo.Non tornerà più, insieme ad altri 90.000soldati impegnati sul fronte orientale.

Intanto i restanti tre fratelli rimangonoa Spinetta e la sera del 25 novembre1944, un sabato, Pietro Castellino cheha 23 anni, verso le nove e mezza starincasando da San Bernardo di Cer-vasca.Quella notte, purtroppo, insieme al al-tri 15 giovani incontra uno dei gruppet-ti di “Repubblichini” che pattugliano la zonadella “Rosa Rossa” (un chilometro e mezzo sopra

la zona di San Defendente diCervasca). La domenica mattina, la gen-te che va a messa “inciampa”in sedici cadaveri.

Sedici fami-glie vengonoavvertite chei loro figli so-

no stati barbaramente picchiati e uccisi.Pietro è stato freddato da una scarica dimitra dopo essere stato orribilmentepercosso (La Guida 1º dicembre 1945)

Poco più di un anno dopo,proprio il giorno della Li-berazione, Agostino, par-tigiano delle Brigate Valle

Stura, conosciuto con il nome di “Croch”,viene ucciso a Tetto Bastero davanti alla

madre, come ricorda Guido Musso nelsuo racconto “Gosto”.

Sopravvive Raimon-do che non potràcancellare il ricordodella morte dei fra-telli e che non si li-bererà dell’orrore e

del dolore. Questo gli toglierà la forza diparlare dell’accaduto anche con la fami-glia successivamente costruita, cometestimonia la figlia Carla Castellino.

Annala mamma

Giuseppedisperso

sul fronte russo

Pietrotrucidato con altri 15

ragazzi nella strage delnovembre del ’44

Raimondoil fratello sopravvissuto

Agostino(il partigiano Croch)

seviziato e ucciso davantialla madre il 25 aprile del ‘45

Dispersi nella memoria

Storia dei Fratelli CASTELLINO

13

Foto donate alla scuola dalla sig.ra Carla Castellino,figlia di Raimondo

ALLA RICERCADELLE FONTI STORICHELa nostra Scuola è intitolata ai fratelliCastellino e per questo motivo i nostrimaestri hanno pensato di farci approfon-dire la loro storia attraverso una ricerca.

Vedendo le foto e leggendo le date di nascita e di morte siamo rima-sti sorpresi e impressionati per la loro giovane età.Prima di uscire ci siamo soffermati anche davanti alla tomba di NutoRevelli, autore di molti libri sulla Resistenza, in due di questi: “L’ulti-mo fronte” e “La strada del davai” viene ricordato proprio il sacrificiodei fratelli Castellino.Usciti dal cimitero ci siamo diretti verso lachiesa di Spinetta, a fianco della quale èesposta una grande lapide di marmo su cuisono incisi i nomi dei caduti in guerra del-la nostra frazione: sono una trentina intutto, tra

cui abbiamo letto anche quelli di Pietro,Giuseppe ed Agostino Castellino. Dopo aver attraversato la strada pro-vinciale siamo scesi in fondo alla Ri-pa, e abbiamo proseguito tra prati,campi, boschetti e cascine, alcuni dinoi hanno raccolto l’erba cipollina, al-tri hanno invece raccolto dei fiori damettere nel vasetto di fianco alla targain ricordo di Agostino. Abbiamo avvi-stato una vecchia casa di color rossomattone sorvegliata da un alto e im-ponente cipresso. Sul muro, sotto la finestra del granaio, ecco la lapide.

Nel leggere le parole incise abbiamo provato tanta tristezza pen-sando all’atroce destino di questo ragazzo, ucciso dolorosa-

mente davanti alla madre nel giorno della Liberazione.

Facendo questa ricerca abbiamo capito che la guer-ra è una brutta cosa perchè spezza la vita di ra-

gazzi giovani e porta dolore e sofferenza nel-le famiglie e che tanti ragazzi hanno com-battuto per liberare l’Italia dai nemici e re-

galarci la Liberà di cui godiamo oggi.

14

15

Testimonianze:sig.ra Castellino Carla (nipote dei fratelli)sig. Guido Musso

Documentazione scrittaIstitituto storico della Resistenza - Cuneo• Supplemento n. 34 - 2º semestre 1988• Banca dati “Partigiano piemontese”•“La Guida” 1º dicembre 1945

Lapidi e targhe• Lapidi funerarie presso il Cimitero di Spinetta• Targa presso la casa dei Castellino di “Tetto Bastero”• Targa ricordo dei caduti della II Guerra Mondiale presso la chiesa di Spinetta

1º premio

iamo la classe 3 H della Scuola Media Unificata di Cuneo, plesso di San Rocco Ca-stagnaretta. La storia del “Disperso di Marburg” ci ha colpito in modo particolareperché si è svolta qui, proprio ad un passo dal luogo in cui molti di noi vivono, do-

ve tutti noi svolgiamo il nostro lavoro quotidiano. Abbiamo scoperto una storia diversa,quella di un soldato tedesco che usciva dalla attuale caserma “Vian” e percorreva a ca-vallo la strada che conduce a Borgo attraverso via Mellana e la via Vecchia di Borgo, perscendere a galoppare verso il greto del fiume, dove oggi passa la pista ciclabile. Un uomogiovane e biondo, gentile coi residenti, riservato e mai minaccioso; ma pur sempre un uf-ficiale tedesco in tempo di guerra, quando le nostre terre erano occupate dai nazisti e su-bivano pesantemente la loro presenza violenta e minacciosa. Insomma, un “NEMICO”. Unnemico diverso, però, fastidioso nella memoria di Nuto, perché “innocente” e vittima di un'ag-gressione partigiana poco fruttuosa e pericolosa che si risolse con la sua uccisione.

S

Classe 3ª HScuola Media Unificata

CUNEO - Sezione SAN ROCCO CASTAGNARETTACoordinatrice: Prof.ssa Francesca Quasimodo

Il disperso... I dispersi

SCUOLA SECONDARIADI 1º GRADO

la motivazionel lavoro è ben articolato, profondo e ricco di suggestioni. La tecnica video sin-tetizza in modo puntuale le tematiche dell’opera di Nuto Revelli e al tempo stes-so evidenzia le riflessioni personali degli alunni.i

16

17

Siamo andati a vedere i posti in cui si concluse drammaticamente la vicen-da di Rudolf, "il disperso": la bellezza della natura, del fiume e del paesaggiocon la Bisalta che domina lo sfondo ci è apparsa evidentemente in contra-sto con la tragedia che Nuto Revelli ha ricostruito.Siamo partiti di qui e abbiamo provato a meditare, attraverso le pagine dellibro e attraverso il tormentato percorso della memoria di Nuto Revelli, sulconcetto di nemico, sulla sua ideanel tempo passato, sulla sua va-lenza al giorno d'oggi e per noi.In seguito, intrecciando le fila del-la Storia e mettendo insieme i di-versi percorsi proposti dalle rifles-sioni del libro, ci siamo soffermatisul concetto di “disperso” e ab-biamo potuto ripercorrere unaparte della dolorosa strada del bi-snonno della nostra compagnaMartina, che partecipò durante laseconda guerra mondiale allacampagna di Russia, senza ritor-nare, attraverso le numerose let-tere che scrisse a sua moglie tral'estate del 1942 e il gennaio del1943.

il luogo

18

Chi è il mio nemico?- Il mio nemico sono io?Con un po’ di auto-riflessione, alcuni di noi hanno in-dividuato in sé stessi il proprio peggior nemico: neidifetti, nei limiti, nelle paure...- Chi è il mio nemico, al di fuori di me?Un nemico è qualcuno che abusa negativamente divoi, vuole che soffriate e che vi sentiate delle nullità.La miglior vendetta per sconfiggere un nemico èignorarlo.

Avere paura del nemicoIl concetto di avere paura verso il nemico deriva dalpensiero che ci possa fare del male, anche se spessovuole solamente aiuto. Il nemico varia da persona a persona: si ha paura diuna malattia, del buio, di animali, di prendere brutti voti a scuola...

Il nemico stranieroUno straniero può essere inteso come nemico solamente perché ha culture,modo di vestirsi o di parlare diverso dal nostro.Il diverso ci può spaventare perché non sappiamo come affrontarlo.Lo straniero non dev’essere considerato nemico perché non lo si può conoscerefinché non ci si confronta; nella maggior parte dei casi il diverso è più similea noi di quanto lo immaginiamo. Non bisogna farsi condizionare dalla pro-venienza perché, come troviamo scritto in molti libri, tutti gli uomini discendo-no dall’homo sapiens sapiens: le uniche differenze sono quelle culturali equelle che riguardano l’aspetto fisico.

Il sangue - ndjock nganaChi può versareSangue neroSangue gialloSangue biancoMezzo sangue?Il sangue non è indio, polinesiano o inglese.Nessuno ha mai vistoSangue ebreoSangue cristianoSangue mussulmanoSangue buddistaIl sangue non è ricco, povero o benestante.Il sangue è rossoDisumano è chi lo versaNon chi lo porta

19

immagini di soldatiLe immagini di Mario Sironi che rappresentanoi soldat i sono particolarmente evocative delclima culturale e artistico degli anni Trenta inItalia, quando l'artista si occupò di realizzareopere monumentali e celebrative del regimefascista. Nel dipinto “Due soldati” del 1936 circa,appaiono due personaggi vestiti con l'unifor-me della prima guerra mondiale, che corri-sponde alla visione degli Italiani visti come ne-mici dagli avversari delperiodo. I colori freddi,scuri, smorti evocanosensazioni di disagio; gli

elmi calati sui visi rendono i soldati senza personalità,come incapaci di vedere la realtà e di ribellarsi allaguerra o agli ordini.Anche nello studio per l'affresco “Rex Imperator” (1936-39) che rappresenta un soldato con la baionetta, l'evo-cazione della guerra è quantomai forte: il militare ètemibile, minaccioso, pronto ad usare le sue armi:un'immagine chepuò evocare la nostra idea generale di “Nemico”, al dilà delle guerre o delle nazioni.

20

chi è per noi il disperso?Il disperso è un individuo di cui si sono perse le tracce sul campo di battagliao in un'impresa di guerra: nel dizionario si trova come definizione di disperso“Perso, introvabile; dare qualcuno o qualcosa per disperso: considerarlo ormaiperduto per sempre, non più rintracciabile”.Leggendo il libro di Nuto Revelli abbiamo capito meglio la tragedia dei dispersie delle loro famiglie, l'impossibilità di avere notizie certe sulla loro sorte e di chiu-dere in modo definitivo la loro storia. La vicenda di Rudolf Knaut, l'ufficiale te-desco ucciso dai partigiani a Cuneo nel giugno del 1944, è parallela a quel-la di migliaia di soldati italiani che sono partiti per la guerra e non sono più tor-nati. Nel cuore, nell'inconscio, i famigliari di un disperso continuano a pensarlovivo, al di là di ogni speranza, si illudono e non disperano.

Il disperso francesco

“[...] non saperlo né vivo né morto è una sofferenza senza fine”:è l'impossibilità di ricomporre il lutto, di rielaborare la man-canza e andare avanti con la consapevolezza di quel vuoto. Unanostra compagna di classe, Martina C., ha avuto un bisnonno di-sperso durante la Campagna di Russia: si chiamava FrancescoMartinengo, era nato a Margarita (Cn) il 31 gennaio 1912, ma fu re-gistrato solo il giorno successivo, risultando del 1913.Lavorò prima in una cartiera, poi divenne vigile del fuoco.Partecipò come soldato dell’Esercito italiano alla Campagna di Russianel 1942, come soldato dell'Armir; durante i mesi di permanenza al-l’estero, per dare notizie su di sé alla famiglia e per rimanere in contatto conla moglie e la figlia, scriveva quasi giornalmente lettere in cui informava sul-

la sua salute e sui suoi stati d’animo. Abbiamo lettoalcuni passi dei suoi scritti: ci hanno colpito i senti-menti e le sensazioni di malinconia per la fami-glia che il soldato trasmetteva con grande since-rità. Il giovane era fiducioso nel ritornare a casa,confidava con spirito patriottico nella vittoria del-l’Italia; non perse mai l’aspettativa di ritorno, at-tendeva con impazienza il giorno della pace edel rientro dalla Russia.La figlia Maria, la nonna di Martina, raccontache anche lei aspettava impaziente del ritornodi suo padre, infatti domandava sempre quan-do sarebbe potuta andare di nuovo a pas-seggio con lui, immersi nella pace e nell’af-fetto. Quel momento purtroppo non arrivòmai: di lui si persero le tracce nel gennaio del1943, nel periodo più duro dei combattimentilungo il Don, nel gelo dell'inverno russo. Lasua ultima lettera è datata 7 gennaio 1943.

21

Ora questo soldato po-trebbe avere 101 anni:ovviamente, nessuno or-mai crede che possaessere ancora vivo, mauna parte irrazionale edemotiva dei suoi carinon riesce a perdere lasperanza di rivederlo...

Martina, oltre alle lette-re, ci ha portato ancheil documento ufficialeche attesta la mortepresunta di FrancescoMartinengo quaran-t'anni dopo la suascomparsa: una speciedi certificato statale pertogliere qualsiasi illusio-ne di ritorno.Moltissimi giovani sol-dati sono partiti percombattere in Russia, e,a causa delle battaglie,dello scarso equipag-giamento, del freddo edelle pessime condizio-ni di vita, sono stati po-chi a sopravvivere. Lastoria di Francesco èuna delle tante storie di dispersi che noi abbiamo potuto conoscere un po' piùda vicino.

Ci è tornata in mente la canzone “O Gorizia tu sei maledetta”, che abbiamoascoltato con il professore di Musica, canzone antimilitarista contro la guerrae contro la partecipazione dell'Italia al primo conflitto mondiale. “Dolorosa cifu la partenza e il ritorno per tutti non fu”: questi versi della canzone evidenzianoche la partenza dei soldati in guerra era dolorosissima e che per molti il ritor-no non sarebbe stato possibile.

22

La nostra poesiaPerché l’Italia si disfa del passatoquando ci sono uomini da ricordare?Uomini innocentiche hanno combattutocontro uomini come loroma diversi per l’uniformema uguali nella vita.

Possono essere ricoperti di neve come le foglie in inverno,Possono sciogliersi come la neve in primavera,Possono evaporare come l’acqua in estate,Possono cadere come le foglie in autunno.Ma non possono essere dimenticati.

I dispersi sono come i pedoni nel gioco degli scacchiI Re danno loro poca importanza,Li usano,Li sacrificano,Li mandano a morire come nella seconda guerra mondiale.

l’acrosticoDisperatoIncedere nella neveSul camminoPenoso di tanti soldatiEterno e vanoRitornareSilenzio della penaOssessione dell'oblio.

in conclusioneLeggere le pagine di Nuto Revelli, confrontarci con la sua presa di coscienza,con il rivedere la Storia e la sua storia ci ha aiutati a capire tante cose: che laverità non è mai una sola; che la storia non viene scritta una volta per sempree resta immutabile, non passibile di nuove interpretazioni; che la guerra è unacosa assurda, stupida, che porta l'uomo ad essere al contrario di ciò che è pernatura: fratello del suo simile, non nemico.E ci ha consentito di conoscere una parte di Storia così lontana e così in-comprensibile a noi, oggi: eppure così vicina nei luoghi e per le persone chel'hanno vissuta. Il periodo dell'occupazione nazista, la Resistenza, la paura deitedeschi in questi luoghi.

23

“Osservo a lungo la fotografia di

Rudolf, e provo una forte emozione.

Morire in combattimento fa parte del

gioco, in guerra si va con due sacchi,

uno per darle e l'altro per prenderle.

Ma morire quando meno te l'aspetti,

in un ambiente che giudicavi più di

pace che di guerra, è una beffa atroce.

QUANTO È STUPIDAE ASSURDALA GUERRA!"

Nuto Revelli

2º premio

egli ultimi mesi, nelle ore di cittadinanza, ci siamo dedicati alla lettura del libro“Il disperso di Marburg” di Nuto Revelli (1919-2004)). Abbiamo anche svolto nu-merose attività legate al libro, che sono sfociate in un’uscita storico-naturalistica

sui luoghi citati nel testo.l 20 febbraio 2014 la nostra classe (III A) si è recata nei luoghi dove tutti i fatti narrati nellibro sono accaduti. Siamo andati fino ad un’entrata del “Parco fluviale Gessi-Stura” inpulmino, poi ci siamo incamminati e abbiamo iniziato il nostro percorso, durante il qua-le abbiamo fatto numerose tappe.Questo “ritorno al passato” è stata un’esperienza davvero interessante e anche parti-colare... è stato strano immaginare la guerra in luoghi dove oggi sono sorte nuoveabitazioni. ma credo comunque che sia importante conoscere questi avvenimenti e, so-prattutto, non dimenticare ciò che è accaduto.

N

Classe 3ª AScuola Media “Sebastiano Grandis”BORGO SAN DALMAZZO

Coordinatrice: insegnante Renata Bertolotti

SCUOLA SECONDARIADI 1º GRADO

la motivazionel lavoro nasce dal ripercorrere fisicamente i luoghi del “disperso”. Attraverso lapresa diretta del video vengono elaborate riflessioni significative sui concettichiave del libro.i

24

25

Questa storia del tedesco buonostravolge tutto ciò in cui credeva Nuto:

“Il tedesco buono introduce una notadi disordine nelle mie certezze”

26

Nuto grazie ad un suoamico riesce ad accedereagli archivi e dare un nomeal tedesco: Rudolf Knaut.

Penso che Nuto Revelliabbia cercato di capireuna cosa moltoimportante:non è facile vedereil lato umano dietroal nemico,dietro ad una personache ti vuole uccidere

Alcuni lo videro morto sulla riva del fiumeGesso indossava la divisa incompleta,

mancavano la giubba, il berretto e gli stivali,mancava anche la pistola.

La sua era una morte moltostrana, un vero e propriodelittosenzamovente

Riconoscimento

n ufficiale tedesco, tutte le mattine allastessa ora, usciva a cavallo dalla ca-serma di San Rocco, e seguendo sem-

pre lo stesso itineario raggiungeva la stradache unisce il santuario della Madonna degliAngeli alla cappella della Crocetta. Nei pressidi Tetto Graglia c’è una stradina che scendelungo la ripa e poi si perde nella striscia di ter-ra compresa tra l’altopiano e il greto del Ges-so.Il tedesco imboccava questa stradina, supe-rava il sotto-passaggio della ferrovia Cuneo-Borgo, poi si inoltrava nell’aperta campagna. Era un uomo tranquillo, sembrava una bra-va persona. A volte sostava sull’aia della nostra cascina, dove scambiava qualche pa-rola con i bambini. La gente non lo temeva, si era abituata a vederlo comparire sem-pre alla solita ora.Un mattino quel tedesco venne ucciso, non si è mai saputo da chi, poco lontano dal-la nostra casa. Il suo cavallo ripercorse il solito itinerario a arrivò, solo, al cancello del-la caserma. Iniziò allora un rastrellamento che durò l’intera giornata, e meno maleche non trovarono il morto, altrimenti sarebbe successo il finimondo. Avrebbero ucciso

almeno dieci persone innocenti e bruciato tutte le case deidintorni.

U

Classe 3ª MScuola Media Unificata

CUNEO - Via BersezioCoordinatrice: prof. Tiziana Pepino

SCUOLA SECONDARIADI 1º GRADO

27

28

I testimoni ricordano... raccontano...Era una persona seria, non più giovane, sui quarant’anni. Eh, avrà magari avuto i suoi fastidi in fami-glia. Era vestito da tedesco, ma senza tante decorazioni, Ah, sì, era armato di rivoltella, E cavalcavasempre lo stesso cavallo, uno di quei cavallini russi dal manto rossastro e dalla coda lunga, un mat-tino incontrai Angelo, un mio coetaneo, e gli dissi: “Tih, non ho più visto quello lì là a cavallo”, e la co-sa finì lì. La verità l’appresi solo dopo la fine della guerra, quando Carlo mi raccontò come si eranosvolti i fatti, e Carlo era uno che sapeva perché abitava a un centinaio di metri dal luogo dell’imbo-scata.

Aveva ventidue o venticinque anni al massimo.

(...) e quel poveretto che passava con il suo cavallo, bello, ma bello, era un amore quel cavallo, lacriniera un po’ biancolina, era una bomba quel cavallo. E quel tenente o maggiore tedesco che ar-rivava sempre puntuale? Ah! era una persona gentile, un bell’uomo, un distinto enorme. Era giovane,sui trentotto, quarant’anni. Era un po’ sul biondo, come statura sui 170-180 (...) arrivava verso le novee mezza o le dieci, mai più tardi, e conversava con me e mia sorella, una briciola d’italiano lo par-lava, e lasciava intendere che andava ad ispezionare i dintorni della crocetta. Poi si avviava verso iBisot, e là c’erano i campi di Aime che confinavano coi nostri, erano incolti, così poteva scorrazzareal trotto. L’avrò visto sette o otto volte, sempre al mattino, a giorni alterni.

...aveva un viso giovane, molto giovane, il viso di un ragazzo di vent’anni. Era biondo, i capelli tagliaticorti alla tedesca.

Era un tedesco, un ufficiale tedesco.

Abitavo tra la cappella della Crocetta e la via Vecchia di Borgo, eravamo i mezzadri dei B., qualco-sa ricordo di quel tedesco che tutte quelle mattine, esclusa la domenica, arrivava fin da noi con il suocavallo. C’era una fontana proprio accanto al portone della nostra cascina, e‘n siber, un abbevera-toio di legno.

(...) era troppo ben vestivo. E poi, senza offesa per nessuno, si capiva anche dal fisico che era un uf-ficiale. Ad un maresciallo o ad un soldato non avrebbero mai permesso che se ne andasse così a spas-so a cavallo.

Lo ricordo piegato su un fianco, rannicchiato in un grosso cespuglio, proprio nel mezzo del torrenteGesso.

(...) la divisa era incompleta. Mancavano la giubba,il berretto, gli stivali, mancava anche la pistola. I pan-taloni erano grigio-verdi, la camicia color cachi, co-me le calze.

Luigi ha visto un uomo vivo, e lo ricorda non più gio-vane, sui quarant’anni. Giovanni ha visto un uomomorto, e lo ricorda giovane come un ragazzo.

(,,,) più ci penso più sono convinto che quell’ufficia-le poco più che ventenne non fosse nè uno sprovve-duto nè uno spaccone, ma un uomo che in guerra neaveva già viste di tutti i colori, per cui tendeva a sdram-matizzare la situazione. Forse era davvero un “tedescobuono”, come affermano i testimoni.

(...) una ferita sola, alla testa.

L’odio è un sentimento che ti faperdere la testa, quel sentimentoche provi quando vedi davanti ate una persona che non riesci piùveramente a vedere, quel senti-mento che ti fa drizzare i capelli,quel sentimento che ti fa esplo-dere la rabbia, quel sentimento che ti farebbe arrivare ad uccidere una persona... L’odio è il sentimentopiù squallido che possa esistere.Pensandoci... è tanto facile odiare una persona... Ma se sei tu ad essere odiato?

La paura è come un guscio in cui sei intrappolato, da cui non riesci ad uscire. La paura ti impediscedi affrontare il nemico e quindi fa sì che lui sia sempre un passo avanti a te. La paura si trova in pro-

fondità e più è profonda più sarà difficile tirarla fuori.La paura di perdere una persona cara. È quel sentimentoche si prova quando si è in difficoltà, ad esempio quando siha l’impressione di non essere accettati dagli altri. È meglioevitare questo sentimento perchè crea nelle persone agi-tazione e a volte fa fare cose che di solito non facciamo. Nellibro, ad esempio, si racconta di come ha impedito alle per-

sone di avvicinarsi a quel cadavere che giace a terra per dargli degna sepoltura.La paura è come un uragano che colpisce un paese africano povero: arriva quando non dovrebbearrivare, proprio come viene raccontato nel libro “Il disperso di Marburg” in cui la paura assale i par-tigiani quando il cavallo scappa ed essi, reagento d’istinto, uccidono l’ufficiale tedesco.

Il coraggio dei partigiani di opporsi alle ingustizie della guerra. Il coraggio co-me spinta che ti aiuta ad andare avanti ogni giorno. Il coraggio che hanno di-mostrato le persone ai tempi della Seconda Guerra Mondiale nell’opporsi aifascisti e ai nazisti.

La gioia è il sentimento meno presente in una guerra, ma secondo me c’è anche in questa storia, quan-do Rudolf cavalcava nei prati, lontano dal freddo della caserma, da lui si sprigionava la gioia del bel-lo che vinceva su tutto il resto, che sembrava per un attimo prendere il posto della morte.

Per me il sentimento che fa da sfondo alla storia è la rabbia. La rabbia è quello sbattere della porta,quella voglia incontrollabile di urlare, di far uscire tutto fuori. La rabbia è un sentimento che ci assa-le incontrando qualcuno o qualcosa che ha fatto un gesto orribile nei nostri confronti, che ci fa per-dere il controllo quando ci troviamo di fronte al nemico. Anche nella nostra società c’è molta rabbiae non è solo rivolta ai ladri, lo Stato, gli stranieri, ... persino con i vicini di casa. Questo sentimento cipuò aiutare ad avere forza, a cambiare le cose, ma altre volte ci porta a commettere gesti orribili.La rabbia è un mostro che cresce dentro di noi e che esce allo scoperto quando si subisce un’ingu-stizia o un torto. È come una forza che cerca di “prendere il posto” di tutti i sentimenti positivi trasfor-mandoli in negativi, facendo diventare tutto più triste e cupo.

La tristezza è uno dei sentimenti che fa da sfondo al-la storia, la tristezza di quei dodici partigiani fucilati da-vanti alle mura del cimitero di Borgo San Dalmazzo,imprigionati tra le corde che li tenevano appesi allamorte. La tristezza rimasta visibile in quei pali buche-rellati.

sono tanti i sentimenti che fanno da sfondo alla storia

29

30

Riconoscimento

a nostra insegnante di francese ci ha raccontato la storiadi zuo zio, il tenete Giuseppe Spinardi, partito con l’ARMIR nel1942 per il fronte russo, dal quale non ha fatto ritorno.

Con grande emozione abbiamo letto le lettere che l’alpino ave-va scritto alla famiglia, praticamente ogni giorno nell’autunno-in-verno del 1942-43, prima della ritirata disastrosa.Abbiamo scoperto al contempo che l’esperienza personale diuna nostra professoressa ci avrebbe aiutato a seguire meglioquesta pagina buia della Seconda Guerra mondiale: suo zio

era un tenente degli alpini, GiuseppeSpinardi, partito per la Russia, uno trai tanti a non aver fatto ritorno. Ci sia-mo così immersi in una situazione simile ma dalla pro-spettiva opposta a quella descritta da Nuto Revelli, sco-prendo quali sentimenti e pensieri animassero chi com-batteva una guerra lontano da casa, col pensiero co-stante rivolto alla propria terra eagli affetti.

L

Classe 3ª NScuola Media Unificata

CUNEO - Via BersezioCoordinatrice: prof. Loredana Petti

Il “disperso” è il simbolo di tutti i dispersi.Simbolo dell’assurdità della guerra, una guerra voluta da “chista in alto” (per citare Brecht) e combattuta da chi sta in bassoe segue un pensiero divenuto unico grazie ad una fitta e ca-pillare propaganda per diffondere la “verità”, la “giustizia”, il“bene”. Simbolo dell’assurdità di tutte le guerre combattute daipopoi per gli interessi dei potenti.Con la Seconda Guerra mondiale il nemico, demonizzato dal-la propaganda deve essere ANNIENTATO non solo sul campo di battaglia, come nel-le guerre precedenti, ma nel cuore delle città bombardate (quelle europee ma anchequelle giapponesi) e, soprattutto, nei campi di sterminio.Fin dai tempi più antichi i popoli hanno “costruito” i propri nemici, rendendoli odiosi eminacciosi, veri e propri mostri cui attribuire cattiveria, disonestà, barbarie.Negli anni che precedono la Seconda Guerra mondiale, con la diffusione della ideo-logia fascista, nazista e comunista, il nemico è onnipresente nella società.I ministeri della propaganda non fanno altro che costruire e demonizzare coloro chei regimi totalitari considerano nemici.

31

Ne scaturisceun’idea di ne-mico più pro-fonda, più ter-ribile, perchè èun nemico chesi insinua, chenon attacca di-r e t tamen te ,che sopisce lacoscienza del-la gente, falsifican-do la realtà, pene-trando fino a scor-rere nel nostro stes-

so sangue. La con-clusione della canzone “Occhio non vede cuorenon duole” dice conservare il controllo di ciò che ve-diamo, conservare il controllo di ciò che sentiamo,verificare se sotto l’aspetto invitante di un’esca nonsia nascosto un amo.Sconfiggere il nemico è guardarsi dentro cercareil proprio centro e dargli vita come ad un fuocoquasi spento, renderlo vivo e dargli movimento...

Riconoscimento

SCUOLA SECONDARIADI 1º GRADO

32

Classe 2ª AIstituto Comprensivo “Beppe Fenoglio”BAGNOLO

Coordinatrice: prof. Alma Peone

33

Riconoscimento

Classe 3ª AIstituto Comprensivo “Beppe Fenoglio”BAGNOLO

Coordinatrice: prof. Alma Peone

34

Riconoscimento

35

Classe 3ª CIstituto Comprensivo “Beppe Fenoglio”BAGNOLO

Coordinatrice: prof. Alma Peone

36

Riconoscimento

ntorno agli anni 20 del secolo scorso, nascevano in val Po,presso Paesana, e precisamente nelle vicinanze di Pian La-varino, tre bambini di nome: Marco, Luigi ed Oreste. Essi

nacquero da famiglie diverse, ma abitarono e crebbero non lon-tano gli uni dagli altri.

CRESPO MARCO AGOSTINONacque il 12-05-1919 nella casa materna presso la borgata Gran-puà di Paesana. Era figlio di Crespo Chiaffredo e di Cristallo Mar-gherita (Ginota). Secondo uno dei testimoni intervistati (Giovanni Battista Picca) la ma-dre di Marco era una trovatella. Egli aveva tre sorelle: Domenica (deceduta), Maria e Mar-gherita (entrambe ancora in vita). Margherita si sposò il 23-02-1946 con Crespo Tomaso.

Successivamente Marco e la sua famiglia si trasferirono nella borgata-Comba di Pian Lavarino. Egli abitò in questa casa fino alla partenza per laSeconda guerra mondiale, nel 1942.Marco era arruolato nel II° Reggimento alpini, battaglione di Saluzzo ap-partenente alla Cuneense. Egli fu disperso in Russia a Morento e i suoi re-sti non furono mai ritrovati.La sua abitazione, negli anni successivi alla guerra fu venduta a dei torinesie restaurata.

PICCA LUIGI PAOLONacque il 10-11-1921 nella borgata Draie vicino a Pian Lavari-no. Era figlio di Picca Battista e di Picca Domenica. Egli avevatre fratelli di nome Chiaffredo, Giorgio e Battista e due sorelle,Domenica e Maria. Giorgio e Domenica si trasferirono in Fran-cia per lavoro. Successivamente Luigi con la sua famiglia si tra-sferì nella borgata di Pian Lavarino dove rimase fino alla par-tenza per la guerra, nel 1942. Egli era arruolato nella IV arti-glieria alpina, battaglione di Saluzzo. Morto in Russia il 31-01-1943 (morte presunta: atto n. 3 p. II serie c. anno 1967).

BERTORELLO ORESTE BATTISTANacque il 08-11-1920 a Pinerolo. Era figlio di Bertorello Battista e Picca Domenica. Egli ave-va un fratello di nome Giulio sposato con Delfina (deceduti) che non ebbero figli. Inol-tre aveva una sorella di nome Caterina, soprannominata Rina, ancora vivente che si spo-sò con Rubba Danilo (deceduto). Ella ebbe un figlio di nome Rubba Cristiano che, a suavolta, ebbe una figlia di nome Rubba Eleonora. Attualmente Caterina vive ad Alba con

I

Classe 3ª AI. C. “Don Milani” Scuola Media

PAESANAProf. Paolo Bertacco - Prof.ssa Marzia Picca

il destino di tre ragazzi della valle Po

Casa diMarco Crespoa Pian Lavarino

Casa di Luigia Borgata Draie

Casa di Luigi aPian Lavarino

37

la sua famiglia. Oreste era fidanzato con Re Dome-nica (ancora in vita).Negli anni 20 Oreste con la sua famiglia si trasferì inuna piccola borgata del comune di Paesana chia-mata Varradino. In un secondo tempo si ristabilì inun'altra borgata chiamata Pian Lavarino. Egli eraarruolato nel IV° Reggimento artiglieria alpina, IV

batteria del battaglione alpini Mondovì. Oreste morì in Russia a Bostia-novka il 23-03-1943 (atto n. 32 p. II)

CARATTERISTICHE COMUNI:Tutti e tre i ragazzi frequentavano la scuola di Pian Lavarino che era collocata nell’edifi-cio della chiesa. Il periodo scolastico andava da ottobre (ma a volte anche più tardi) agliinizi di giugno. Non c’erano veri maestri, perciò ad insegnare c’erano solo alunni che ave-vano terminato la quinta elementare e che avevano quindi una “cul-tura” maggiore. Le famiglie di Luigi e Marco facevano gli agricoltori,coltivando i prati della zona. Allevavano mucche, capre, galline, pe-core e conigli. Questo era un lavoro molto faticoso perché aveva-no a disposizione solo attrezzi manuali. I prati più belli venivano col-tivati a semina, per grano e segale. I raccolti venivano macinati almulino della frazione Ghisola. La farina ricavata dalla macina venivaportata nelle frazioni dove c’era un forno per fare il pane. Si facevala fila per poter cuocere il pane, perché il forno veniva acceso so-lo una volta ogni 15 giorni; il pane veniva poi conservato in stanzeper lunghi periodi. Al venerdì Luigi e Oreste, con le loro madri, si re-cavano al mercato del paese, dove vendevano i loro prodotti. Il ricavato veniva usato percomprare altri beni necessari per vivere. Invece la famiglia di Oreste, dopo la guerra, aprìun negozio di alimentari. Prima, però, svolgevano anche loro il mestiere di agricoltore.Luigi, Oreste e Marco non si sposarono mai e non ebbero mai figli.Tutti e tre partirono insieme per il fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1942.

Scuola di Pian Lavarino

APPROFONDIMENTO …Giovanni Ghigonetto, conosciuto da tutti con il nome di “Gian dla Piana” per via del posto incui vive (borgata chiamata “La Piana”), è un uomo di 93 anni che ha vissuto e combattuto du-rante la II Guerra Mondiale. Giovanni era un alpino e combatté anche lui nel battaglione Sa-luzzo. Il suo generale era Guaschino Gerardo.Giovanni partì per la guerra giovanissimo: aveva 19 anni e 20 giorni.Egli conobbe Nuto Revelli che all’epoca faceva parte dell’artiglieria. Dice Ghigonetto che Nu-to era un uomo non molto alto, ma molto robusto.La notte della battaglia contro i Russi, Giovanni ebbe molta fortuna, perché riuscì a salvarsi no-nostante che tre pallottole gli “sfiorarono” l’elmetto.Suo fratello, invece, fu ferito gravemente.Giovanni dice che, su 12.000 soldati del battaglione, solo 1.200 superstiti tornarono a casa dal-le loro famiglie.In questi ultimi anni Giovanni è stato intervistato da molte persone, tra cui il figlio di Nuto Revelli,Marco.Inoltre egli ha contribuito anche alla realizzazione di due libri:• “Il battaglione di Saluzzo” di Mario Bruno• “Voci dal fronte” di Mirella DebaliniGiovanni Ghigonetto, all’epoca, conosceva molto bene questi tre giovani citati da Nuto Revellinel suo libro. Egli era coscritto di Luigi.

Casa di Orestea Pian Lavarino

38

ricostruzione degli alberi genealogici

famiglia crespo

39

famigliapicca

famiglia bertorello

ra l’anno 1943 ed ero appenastato nominato Schutzhaftla-gerführer del campo di Birke-nau. Mia madre ne sarebbestata entusiasta. Era il primo compito ve-

ramente importante da quando ero entrato a farparte delle SS. Ero subordinato solo al coman-dante, un uomo sulla quarantina, rude e violento,ma molto poco presente al campo. Lui era il so-lo che poteva darmi ordini, ma in fin dei conti de-cidevo tutto io. Avevo pieno controllo sulle con-dizioni di vita dei prigionieri ed ero al vertice ditutte le altre SS. Oh come mi piaceva tutto questopotere! Potevo sentirlo fremere tra le dita, il pote-re, come una scarica elettrica. Ogni mattina misvegliavo e facevo un giro del mio campo, con-trollando insieme agli altri ufficiali che nella nottenon ci fosse stato alcun fuggitivo. Ogni notte nemorivano molti e più erano i decessi, più io erofelice. “Un ebreo in meno” mi dicevo.Ricordo che una volta, nel reparto femminile, iconti non tornavano: mancava una prigioniera eil suo corpo non era stato trovato. Scattò l’allarmee alla fine venne ritrovata accasciata sul filo spi-nato: era “andata al filo”, per usare il gergo delcampo. Il volto pallido era ancora contratto inuna smorfia di dolore e i piccoli seni sbucavanodalla divisa strappata e troppo larga. Nonostan-te non ci fosse stata alcuna fuga mi imbestialiitalmente tanto che spedii tutte le sue compagnedi baracca ai forni crematori. Non potevano uc-cidersi da soli, non ne avevano il diritto. Doveva-mo essere noi a farlo, per dimostrar loro la supe-riorità della nostra razza. Mi ero guadagnato unabuona reputazione e anche le SS abbassavano ilcapo al mio passaggio. Mi divertivo sempre a fa-re un gioco con Bernhard: durante gli appelli cam-

minavo davanti agli internati e loro era-no obbligati a sostenere il mio sguar-do; chi avesse abbassato gli occhi ve-niva immediatamente fucilato. Ogni

volta almeno due o tre non ce la facevano ed erauno spasso vedere come impallidissero quando ilmio volto si deformava in un ghigno soddisfatto.Alcuni si spaventavano talmente tanto che nonriuscivano più a reggersi sulle gambe e crollava-no a terra tra le lacrime; altri invece se la facevanoaddirittura addosso. Assistendo a queste scenemi convincevo sempre di più che la razza arianaera l’unica in grado di comandare sulle altre. Chiavrebbe voluto farsi guidare da una banda dipoveracci sporchi, piagnucolosi e incapaci disopportare un po’ di sana fatica? “Arbeit machtfrei”ma loro, ignoranti, non potevano capirlo. Nelperiodo in cui assunsi l’incarico, arrivavano sem-pre molti convogli ad Auschwitz perché gli ebreida smaltire aumentavano sempre più. I treni sifermavano alla Judenrampe e i deportati veni-vano scaricati dai vagoni merce, accolti da me edal personale nel migliore dei modi. Mi ricordoche a luglio giunse un carico particolarmente pie-no, di circa 2500 prigionieri, anche se arrivarono adestinazione poco più della metà. Si sentì il fischiodel treno, poi iniziarono a scendere sulle rampe dilegno appoggiate alle porte dei vagoni, simili aduna mandria di vacche. Mi piaceva il trattamen-to che veniva loro riservato sui trasporti, così siabituavano alla vita del lager e capivano chenoi facevamo sul serio. “Buongiorno signori, ac-comodatevi da questa parte. I vostri bagagli po-trete recuperarli tra poco. Ecco, signora, si ap-poggi al mio braccio. Sì, suo figlio è laggiù, non sipreoccupi”. La maggior parte non capiva il te-desco ma grazie ai nostri sorrisi e cenni gentili sem-

Il filo rosso che unisce "Il disperso di Marburg" al mio racconto è la domanda: sono esistiti dei tedeschi buo-ni? Con questa storia ho voluto dare la mia risposta, indeterminata proprio come quella di Nuto Revelli.

E273.552

40

SCUOLA SECONDARIADI 2º GRADO

1º premio

la motivazioneCon coraggiosa analisi psicologica, riesce a penetrare nell’oscurità del “nemico”, co-gliendone alla fine un barlume di luce.

Sofia FRANCESCONI I A Liceo Classico “Arimondi” - SAVIGLIANO

41

bravano un po’ rassicurati. Molti guardavano concuriosità e terrore gli altri internati che recupera-vano i bagagli per portarli alla Kanada, da doveovviamente sarebbero partiti per la Germania.Questi camminavano a capo chino e avevano ildivieto assoluto di parlare con i nuovi arrivati, pe-na la morte. Più di una volta si erano sentiti deglispari durante la notte. Dalla Judenrampe poi do-vettero camminare per circa 800 m. fino ad arri-vare al campo e durante il tragitto molti cade-vano a terra stremati dalla fatica. Lasciavamo icadaveri lì dove erano. Arrivati al campo divi-demmo gli uomini dalle donne e i bambini, poi iomi occupai della fila femminile, Bernhard di quel-la maschile. Con l’aiuto di un personale medicospecializzato scegliemmo chi era abile al lavoro echi invece doveva essere inviato direttamentealle camere a gas. La mia fila fu decimata, tutti ibambini, le madri e i vecchi condannati; rimase-ro solo le donne giovani, ma quelle manteneva-no in viso una grande fierezza d’animo. I debolivennero mandati nelle “docce” e le urla risuona-vano dappertutto. A questo punto non c’era piùbisogno di fingersi gentili. Gettammo la masche-ra e incominciammo a sbraitare ordini e a puntarei fucili contro i loro petti. Li spogliammo di tutti i ve-stiti, poi li consegnammo nelle mani dei barbieri.Mi piaceva assistere alla rasatura dei corpi, vederlispogliati anche di ciò che è naturale; e poi, era-no comunque corpi femminili. Mi incuriosì moltouna giovane, a cui un medico stempiato stava ra-sando l’ultima ciocca di capelli neri. Avrà avutotra i sedici e i vent’anni, così magra e nuda era dif-ficile stabilirlo con certezza. Aveva un qualcosanello sguardo che la distingueva dalle altre: pro-vava dolore, si vedeva, ma da quelle labbra sot-tili non usciva un suono. Il passo seguente fu ladoccia, quella vera, anche se con getti d’acquaora gelata ora bollente. Furono date loro le divi-se del campo, un lusso che secondo me non me-ritavano. Io li avrei lasciati tutti nudi, ma al co-mandante ciò non piaceva per una questione diestetica. Li tatuammo con i loro nuovi nomi sul-l’avambraccio sinistro. Ancora oggi ricordo il nu-mero di quell’ebrea: 273.552. Non so cosa avessedi così particolare quella ragazza al punto di de-stare la mia attenzione, ma sicuramente questonon mi piaceva. Il giorno seguente mi ero sve-gliato con il piede giusto, così decisi di fare il gio-chino durante l’appello. Mi misi di fronte alla filadelle donne e cominciai. Sapevo perché lo stavofacendo, volevo dimostrare a me stesso qualco-sa. Fu il suo turno e la fissai con prepotenza per al-cuni minuti, mentre tutte le altre trattenevano il re-spiro. Il suo sguardo era così sicuro, così fiero chenon potei non ammirarla per questo. Il suo viso,benché troppo magro, conservava ancora trattidell’adolescenza, ma di un’adolescenza sfiorita,durata troppo poco; aveva una piccola cicatricesotto al sopracciglio destro. Cercai di farla crolla-re, ma lei non cedette. Passai oltre e fui tanto cru-

dele con le altre che quella mattina ci furono seimorti. Non potevo sopportare quella situazione,così decisi che per un po’ mi sarei occupato so-lo del reparto maschile. La vita al campo scorre-va tranquillamente, ma c’era sempre quel pic-colo pensiero che di tanto in tanto mi tornava inmente. Pensai di dirlo a Bernhard, forse avrebbecapito. Mi ero quasi convinto a confessargli quel-la strana emozione che mi aggrovigliava le mem-bra e stavo andando nei suoi alloggi, ma poi pas-sai davanti ad uno specchio. Mi vidi e non mi ri-conobbi, con quel volto stanco e la barba rossaincolta. Che fine aveva fatto quell’uomo che fa-ceva tremare i cuori? Ero solo un debole, un vile,quasi come quegli ebrei che tanto odiavo. “Sve-gliati! Tu sei il re, loro le bestie”. Mi sistemai la divi-sa e raddrizzai i distintivi, poi a larghe falcate mi di-ressi verso la baracca che ben conoscevo. Lamia entrata spaventò tutte le prigioniere, chi simise ad urlare, chi si gettò per terra pregando,ma io non le consideravo. “Numero 273.552!”sbraitai rabbioso e lei uscì da un pagliericcio.“Kommen sie mit!”. Mi seguì fuori. Mi feci portareuna frusta e pochi attimi prima di usarla la fissaicon odio, ma i suoi occhi neri come la ceneredei corpi bruciati sembravano dirmi:”Io ti perdo-no”. Scaricai su quel fragile corpo tutta la miarabbia e dopo 13 frustrate mi fermai, osservandoil risultato della mia opera: sangue. Un altro ne-mico morto. Quella volta però non riuscii a pen-sare “Un ebreo in meno”, in realtà non riuscii apensare a nulla. Chiesi un colloquio con il co-mandante e il giorno dopo fui trasferito in altrocampo.

Chiudo il quaderno e me lo porto al petto, vicinoal cuore. Mi accorgo che lo sto stringendo troppoforte e per paura che si sbricioli tra le mie dita loappoggio sul tavolo, alzando un sottile strato dipolvere. Sulla copertina, nell’angolo in basso a si-nistra, c’è una piccola macchia d’olio. Lo riaprocon cautela, temo che i ricordi di mio nonno pos-sano volare via. Accarezzo dolcemente quellepoche pagine ingiallite e chiudo gli occhi. Ri-penso a quell’uomo che quando ero piccolo miprendeva in braccio e mi lanciava affettuosa-mente in aria, sorridendo e riempiendomi di baci.La mia mente fatica ad accettare la nuova im-magine di uomo crudele e incline all’ira e allaviolenza. Forse però non voglio accettarlo, pre-ferirei non aver mai trovato questo vecchio qua-derno. Mi sento confuso, ingannato, arrabbiato.Getto a terra quell’oggetto malvagio e tra le la-crime vedo un foglietto di carta scivolare via e po-sarsi sul parquet a poca distanza. Con le manitremanti lo raccolgo e lo avvicino alla luce dellalampada: “ 23 ottobre 1996. Lei mi ha perdonato,ma io non sono riuscito a farlo”.

OPERESCRITTE

Lisa HESHI - III DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

Gioele MASSIMINO V A Liceo Classico “Govone” - ALBA

sistono davvero i buoni e icattivi o esistono solo nellefiabe? Ma chi sono dav-vero i buoni e chi i cattivi?La strega malvagia è sem-

pre malvagia? Sì. Ma perché? Perché noi ci iden-tifichiamo sempre nel personaggio buono e diconseguenza i nostri oppositori diventano malva-gi. Se noi per una volta ci identificassimo nel mal-vagio che cosa potrebbe succedere? Potremmoaccorgerci che forse anche quel personaggionon è poi così cattivo. Ma che cosa vuol dire es-sere cattivi?Nuto Revelli, ufficiale degli alpini in Russia e prota-gonista della Resistenza del Cuneese, ha vissuto in

prima persona la tragedia dellaguerra. Egli stesso, nell'opera “Il di-sperso di Marburg”, afferma che “laguerra era la guerra, e in quei ven-ti mesi ogni tedesco ucciso voleva

dire una pallottola ben spesa, un nemico in me-no”. È per questo che la storia del “cavaliere soli-tario”, così dissonante dalle altre, lo affascina atal punto da fargli dimenticare che il “tedescobuono” è in realtà un suo nemico. Nuto Revelli losa. Non riesce a non pensare agli ebrei di Stolbtzj,“ridotti come passeri a cui avevano spezzato le ali”e non riesce a non pensare ai tedeschi come adelle bestie. Il “disperso di Marburg” è però unpersonaggio nuovo per Nuto Revelli. È forse l’uni-co tedesco buono in mezzo ad un branco di tigri.Ma esistono delle tigri buone?Nuto Revelli riflette a lungo su questo, ma non rie-sce ad allontanare il suo pensiero da quel tedescoperché in realtà non riesce a non immedesimarsiin quel personaggio. Come può il nemico esseresolo cattivo? Il “tedesco buono“ sarà anche sta-to un tedesco, ma era pur sempre un uomo. E gliuomini sono tutti uguali. Gli uomini sono tutti catti-vi e buoni allo stesso modo. Noi siamo i nemici deinostri nemici e anche noi, per loro, siamo cattivi.Tuttavia è impossibile stabilire chi sia più buono echi più cattivo perché è chiaro che esistono pre-cise responsabilità storiche e individuali.Tutti noi siamo un po' come padre Cristoforo diManzoni: costretti a convivere con due anime op-poste. Essere cattivi vuol dire sporcarsi: quandosporchiamo la nostra maglia preferita, si formauna macchia. Per quanto quella macchia possa

2º premio

la motivazioneAttraverso l’analisi e la comparazione di diverse conoscenze letterarie,coglie l’essenzae l’ambiguità del concetto di “ nemico.

Il dispersodi MarburgE

42

43

Annalisa IACUSSO - IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

essere grande, quella maglia rimane sempre unabella maglia. Essere cattivi non vuol dire esserepersone prive di bontà, ma vuol dire che una per-sona buona si è sporcata. Sotto quella grandemacchia, però, c’è pur sempre una persona.Questo aspetto del nemico-amico emerge an-che in Dolce, la seconda parte di Suite Francesedi Irène Némirovsky. Dolce parla del rapporto diodio e affetto che lega e allontana l’ufficiale te-desco, ospite della famiglia Angellier, e la giovanepadrona di casa Lucile, moglie di Gaston Angellier,prigioniero in Germania. Molto significativa la sce-na in cui Lucile si reca dalla sarta con un taglio distoffa da cui vuole ricavare una vestaglia. Quan-do la giovane moglie di Gaston vede sul letto il cin-turone slacciato di un soldato tedesco, la sarta ri-sponde: “E allora? Tedesco o francese, amico onemico, è prima di tutto un uomo, e io sono unadonna.” Lucile rimprovera la sarta precisando chequell’uomo ha ucciso dei francesi, tiene prigio-nieri i loro cari e fa patire loro la fame. Lucile criti-ca il comportamento “pericoloso e brutto” delladonna, ma, senza rendersene conto, quel com-portamento è uguale al suo: anche lei si è inna-morata dell’ufficiale Bruno von Frank. In fondo “dalungo tempo il paese mancava di uomini e cosìperfino quelli, gli invasori, parevano al posto giu-sto.” L'episodio ad una lettura più profonda ci rivelauna verità illuminante: la vita prevale su tutto. L'uo-mo, in fondo, è fatto per la pace e, quindi, anchenelle situazioni più drammatiche va alla ricerca

della normalità. Un rapporto d'amore, il vestitinocomprato dal tedesco nel negozio del franceseper il figlio che non è ancora nato (come rac-conta la Némirovsky) o la passeggiata a cavallonelle valli cuneesi del soldato misterioso di Revelliriportano alla realtà quotidiana, dando l'illusione ef-fimera che la guerra sia lontana.Quando Nuto Revelli riceve la risposta di Carlo al-la sua lettera del 14 aprile, il lettore viene riporta-to con i piedi per terra. Ogni speranza costruita dal-lo stesso Nuto Revelli sembra cadere come un ca-stello di sabbia. Rudolf Knaut è stato una vittima“fra milioni di vittime della guerra, e certo non frale vittime più innocenti.” Ad un certo punto sem-bra davvero che Rudolf Knaut sia solamente unpersonaggio creato dall’immaginazione dell’au-tore. Tutte le immagini riguardanti il “tedesco buo-no” vanno in fumo, ma appaiono nella mente dellettore nuove immagini: le stesse che vedeva an-che Nuto Revelli. La storia del “cavaliere solitario”è come un puzzle complesso: ci vuole tempo, pa-zienza e passione. Nuto Revelli ha avuto tutti e tregli ingredienti per riportare in vita Rudolf Knaut. Al-cuni pezzi del puzzle sono stati persi, ma nel com-plesso l’immagine è tornata a essere a fuoco. Lesuccessive ricerche di Nuto Revelli confermano lavera natura del nostro “tedesco buono”.Sempre in Suite Francese, Irène Némirovsky affer-ma che “gli eventi gravi, fasti o nefasti che siano,non cambiano la natura di un uomo, ma per-mettono di definirla meglio, così come un colpo divento, spazzando all’improvviso le foglie morte,rivela la forma di un albero; mettono in luce quel-lo che era rimasto in ombra; danno allo spirito l’in-clinazione che da lì in avanti lo caratterizzerà”.Nella prima parte di Suite francese, per ogni per-sonaggio, infatti, la guerra è quel colpo di ventoche mette in luce la propria fragilità, facendo tra-sparire, in alcuni casi, il coraggio, lo spirito di sa-crificio, la solidarietà e la propensione alla condi-visione, in altri casi, accentuando l’egoismo el’avarizia. Anche per quanto riguarda RudolfKnaut, la guerra, la storia e il tempo hanno per-messo di far emergere la sua vera natura. Proprioquesto percorso d’identificazione del “tedescobuono” porta il lettore a voler scoprire sempre dipiù. Anche quando il mosaico sembra essere com-pleto, però, ognuno di noi, ormai, si è creato ilproprio mosaico del “cavaliere solitario” e l’im-magine che si crea nella nostra mente non può es-sere cambiata. “Meglio guardare in faccia la re-altà, e non le immagini che nascono nelle nostreteste. Ma come faremo senza quelle immagini?”

44

Eleonora RAMUNNO V A Liceo Classico “Govone” - ALBA

Il sole nasce e tramonta anche oggi.Su questa aspra terra straniera,sulle verdi colline maestose ed imponenti,arancioni, illuminate nei tuoi occhiblu, così chiari e penetranti.E tra il vento fresco della primavera,un gelo costante nell’anima,ricordi il freddo della Russia.Odore acre di pioggiae il respiro del tuo cavalloa rompere questo grigio senza fine.Il sole nasce e tramonta anche oggi.Ascoltando il silenzio così rumorosoIl vuoto ti riempie fino all’agonia.Ma tu sai bene che la guerra porta a questo,Sai bene che anche il nemico sa sorridere,sai che a distanza di anni sarai come un amico,sarai come un vecchio nemico.Oltre il muro della paura,oltre la diffidenza,C’è una presenza vitaleche si nasconde tutto intorno,ti è così vicinaeppure così lontana da te.Sei solo.Il sole nasce e tramonta anche oggi.Ma quando tu tramonteraicosa resterà di te?Chi ricorderà il tuo nome?Ora sei solo un numero.Un numero,questo sei in guerra.Tedesco, armeno, russo,sei un numero in questa guerra.Un numero non può pensare,

un numero non può morire.Eppure mentre corri, tu pensie sai che potresti morire.Il sole nasce e tramonta soprattutto oggi.Oggi è oscura la luce del mattino,oscuro è l’uomo che combatti,non ha esercito permanente,sa aggredire, non conosce pace.E l’oscurità arriva all’improvviso.Morire in un ambiente di pace apparente,morire quando meno te l’aspetti,l’ennesima beffa di questa atroce guerra! *1Sei solo.Di nuovo.Anzi no.Quella presenza vitale ora ha un volto,è la tua ombra, il tuo nemico,che senza pietà ti trascina via.Non puoi allontanare l’oscurità,non puoi distaccarti dalla tua ombra.Il sole oggi tramonta.In un attimo sei disteso a terra,fissi il cielo appena prima di morire,con la gola secca e senza lacrime da versareurli il tuo lamento d’addio.È il tuo tramonto, Rudolf.Ma ciò che sei stato è rimasto.Imprudenza o dovere che fosseLe terre straniere che ti hanno condannatoHanno conservato il tuo nome, il tuo ricordo.

*1 – Tratto da una considerazionedi Nuto Revelli a pag. 121

3º premio

la motivazioneCon la scelta coraggiosa del linguaggio poetico, riesce a rendere con leggerezzamusicalità il drammatico percorso del “disperso” verso il suo tramonto.

Il sole nasce e tramonta anche oggi

Desirée BOZZOLO - II ALiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

Lucia GRIBAUDO III NLiceo “De Amicis” - CUNEO

inquant’anni dopo sonoqui tra i miei libri e le miescartoffie e con la guer-ra nel cervello. Sono matto, Chri-stoph. Sono qui ad autotorturarmi,

ad arrovellarmi su un piccolo episodio che ha comeprotagonista un “disperso“ tedesco. E quel che èpeggio (o meglio), ho coinvolto anche te in questaricerca impossibile…».Ci si prova, voglio dire... a cercare i dispersi, ci si im-punta su stupidi dettagli e qualche frase di un anzianoche non vuole ricordare. Ecco che il nostro passatoci piomba addosso come la grandine d’estate, manon sai dove rifugiarti, dove trovare un riparo; la gran-dine ti colpisce in testa, di nuovo, un altro colpo. E al-lora si cercano appigli, si cerca il salvatore, il messia,una frase scritta sui muri da un adolescente inna-morato che invidi. Cerchi di dividerti, ma la storia ti en-tra dentro, ti sembra quasi la tua e sei spaventata, ter-rorizzata da quella che è diventata un’ossessione,un punto fermo che vuoi raggiungere. Allora la sto-ria inizia ad intrecciarsi, agganciarsi saldamente, ri-voluzionando ciò che pensi, rivoluzionando tutto ciòal quale eri riuscita a dare una risposta certa.

Mi immedesimo, spaventosamente, nel“Disperso di Marburg”, quando camminoa fianco della caserma, immaginando

quel cavallo spaventato, senza cavaliere, che fa ri-torno. Mi spavento, mi sale l’ansia e l’immaginazioneprende il sopravvento; ed ecco piovere domande…e se mi perdessi? Se da un giorno all’altro sparissi?La paura vera, quella che mi assale veramente inquesti momenti, non è quella di non riuscire più atornare… la paura, quella grande, che ti fa passareun brivido dietro le ginocchia e poi su fino alla testa,quella che ti fa diventare le mani fredde, che ti faguardare il cellulare per non pensarci è… qualcunoverrebbe a cercarmi? Durante la mia vita sono ve-ramente riuscita a toccare qualcuno?A volte mi chiedo cosa renda me diversa da chiun-que altro: non eccello in niente, non sono partico-larmente simpatica o intelligente o bella.E allora perché qualcuno dovrebbe venire a cer-carmi?Perché mai qualcuno dovrebbe abbandonare lasua vita meravigliosa, ciò che di speciale, noioso oinutile sta facendo, per cercare chi?In fondo poi tocca a me, tocca a me far sì che nonmi perda e in qualsiasi caso nel quale mi dovessismarrire, diventando un disperso, toccherebbe ame, toccherebbe a me ritrovare la strada e salvarmi.Altrimenti diventerei una storia che qualcun altro rac-conterà per me, una storia triste, che potrà far scen-dere qualche lacrima, ma che non cambierà mainessuno, come i film dei quali non ci si ricorda il tito-lo e che annoiano la maggior parte delle persone.Se riuscissi a salvarmi, se riuscissi a tornare, allora sì chesarebbe una storia, di quelle che il finale ti fa grida-re e ti dà una carica bellissima, che la racconti ai tuoiamici, che ti cambia.

Dispersi

menzioni speciali

«C

45

la motivazioneOriginale sforzo di introspezione, con il ribaltamento tra il “disperso” di Nuto e se stessa

Sara ZONTONE III CLiceo Linguistico “Madre Mazzarello” - TORINO

l periodo della secondaguerra mondiale, con Hitlere i campi di concentra-mento, con le disparità so-ciali e le ingiustizie, fu il tem-

po buio della Germania. Di ciò nonsono responsabili solo i capi, i gene-rali di alto rango, ma anche i cittadini, che, per er-rore, per ignoranza, per timore o ancora perchécondizionati dalla travolgente propaganda hi-tleriana, non sono stati capaci di denunciare gliorrori di quegli anni.

Christoph Schminck-Gustavus è uno storico te-desco della generazione successiva a quellacoinvolta nel conflitto: fa parte quindi di coloroche sono nati subito dopo gli anni bui della Ger-mania. Inizia ad aiutare Nuto Revelli con le ricer-che riguardanti il “tedesco buono” nel 1987, re-candosi negli archivi tedeschi alla ricerca di unnome o un avvenimento che si potesse ricolle-gare alla vicenda di San Rocco.

Christoph riflette sul fatto che il disperso potrebbeessere, per età, suo padre e, essendo un tedescodi seconda generazione, si sente in dovere di ri-scattare, o quanto meno di comprendere il suopopolo. Ne Il disperso di Marburg vengono pub-blicate diverse lettere di Christoph indirizzate aNuto Revelli, che non contengono solo informa-zioni e novità sulle ricerche, ma anche riflessionisulla sua idea di nemico. Esprime i sentimenti cheprovano molti tedeschi della sua generazione,che si sentono come schiacciati dalle terribili azio-ni commesse dai loro predecessori, dai loro “pa-dri”. In una delle sue missive, del 26 luglio 1989,Christoph confessa a Nuto di non sentirsi neanchetedesco. Cerca di spiegare, poi, che, anche se aquel tempo tutti i tedeschi erano considerati ani-mali crudeli e violenti, non era davvero così. Nontutti i tedeschi erano uguali e spesso egli si chie-de che cosa avrebbe fatto se fosse vissuto in

quelle circostanze.

Christoph crede che i tedeschi sianostati, e siano ancora attualmente,un popolo abituato a seguire le re-gole, senza mai ribellarsi: indole cheprobabilmente ha avuto la sua par-

te nel favorire gli orrori degli anni Quaranta.

Nella lettera del 10 febbraio 1992, invece, Chri-stoph scrive: «[...] sono passati 50 anni da allora.Io ne ho 49. Ma sono un tedesco. E li vedo dap-pertutto questi miei connazionali:[...] la loro du-rezza, la loro precisione, la loro disciplina. E ca-pisco che in un modo e in un altro sono “preciso”e “disciplinato” anch'io. Sono cresciuto in quelPaese che - bene o male - è il mio Paese [...]»

Da questa missiva è possibile cogliere il muta-mento nel modo con cui Christoph pensa allasua patria. Negli anni, infatti, qualcosa in lui ècambiato. Si è reso conto dell'importanza dellesue origini, delle sue radici, in un Paese mac-chiato da un disonore profondo. Egli capisceche, pur non avendo vissuto in quel tempo e nonavendo alcuna colpa personale, non si può di-staccare dal passato, ormai parte della storiadella sua patria. Riconosce di essere legato aicittadini tedeschi dell'epoca, si rende conto diavere caratteristiche simili a loro, i quali, nono-stante ciò che tutti credono, non sono solamen-te dei mostri. Andare alla ricerca del misterioso“tedesco buono” l'ha fatto riflettere, gli ha fattocapire che non deve vergognarsi delle sue radi-ci, perché, nel bene e nel male, lui è un tedescoe la Germania è il suo Paese: egli non può cam-biare ciò che è accaduto nel passato, ma puòfare in modo di creare, insieme ai suoi concitta-dini, una Germania nuova, che possa vivere nel-la giustizia e nella serenità, migliorandosi ognigiorno.

Christoph,il “tedescobuono”

menzioni speciali

I

la motivazioneContro l’idea del “tedesco cattivo”: il superamento del pregiudizio di Nuto e il distaccodal senso di colpa di Christoph

46

47

Per questo è importante non fuggire dal passato,ma conoscerlo, ricordarsi ciò che è successo perevitare che accada una seconda volta, per im-parare dagli errori commessi. Questo è fonda-mentale per vivere bene, per evitare l'ignoranzae le sue conseguenze, per evitare conflitti di ognigenere.

Partecipando alle ricerche, Christoph non soloaiuta se stesso, ma anche Nuto Revelli, che, gra-zie a lui, riesce a ragionare sulle categorie etiche

di buono e cattivo. Mentre in passato aveva sem-pre avuto una concezione manichea di tutto ciòche lo circondava, pensando che tutti i tedeschifossero cattivi e crudeli, con l'aiuto di Christoph sirende conto che, per quanto le ingiustizie com-piute dai nazisti fossero state terribili, come an-che la connivenza di molti tedeschi, esse nonavrebbero dovuto determinare il giudizio sullabontà o la cattiveria di un popolo intero.

Durante il suo percorso, Nuto accetta Christoph,capendo di aver fatto un errore nel giudicare egeneralizzare il giudizio su un intero Paese.

Le ricerche, quindi, oltre ad aver fruttatointeressanti e importantissime scopertea livello storico, sono riuscite a far cre-scere due uomini, accompagnandoliin un viaggio interiore che è stato ca-pace di farli riflettere e che ha portatoil tedesco e il partigiano ad avvici-narsi, non come rivali, ma come ami-ci. Nel libro, quindi, mentre compiele sue ricerche, Nuto Revelli si rendeconto di aver trovato davvero il suo“tedesco buono”: Christoph.

M. BERTAN - D. CASILE - E. PORELLO - IV BLiceo Artistico “Pinot Gallizio” - ALBA

48

Noemi RICCIARDETTO IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

1º premio

la motivazionePer la forza espressiva della figura grottesca che appare con evidenza tra i rami neri diun paesaggio sintetico ed essenziale-tragico. Efficace rappresentazione del tema “ildisperso… i dispersi”

OPEREGRAFICHE

49

Cecilia BAINOTTI IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

2º premio

la motivazionePer la grazia e l’eleganzacon le quali ha affrontatoil tema, in un’atmosferadi soffusa malinconia.Interpretazione di un tematragico e reso con poesia.

50

Marta CAVALLERA III DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

3º premio

la motivazioneNitore, essenzialitàe capacitàdi sintetizzareil tema del libro.Ottimo esempiodi interpretazionein chiave illustrativa

OPEREGRAFICHE

51

Giulia OTTA IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

menzioni speciali

la motivazioneMenzione per la tecnica da abile paesaggista

52

Giorgia GALFRÉ II BLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

menzioni speciali

la motivazioneMenzioneper lo sforzointerpretativodel testoe per la tecnicarigorosa.Competenzenecessariee sufficientiper diventareillustratori

53

Nicole VIVALDOFrancesca GIRAUDO V A

Liceo Artistico “Pinot Gallizio” - ALBA

menzioni speciali

la motivazioneMenzione per l’idea singolare di entrarein contatto con l’atmosfera del luogo,tentando di rivivere il momento dellamorte del soldato attraverso la foto-grafia e la pittura. Particolarmentesuggestive le immagini fotografichefornite come documentario su CD

54

Gloria BERGOLO Classe V Ginnasio ALiceo Classico “Govone” - ALBA

aro padre, cara madre,mi dispiace non avervi po-tuto scrivere prima ma il tra-sferimento da Pinerolo allacaserma di San Rocco ha

occupato gran parte del mio tempo e solo ora hotrovato l’occasione per occuparmi di questa lettera.Spero che stiate bene e spero di potervi venire a tro-vare presto ma sembra che dovrà passare molto tem-po prima che ciò possa accadere. Dove mi trovo ora,dalle parti di Cuneo, la vita è olto tranquilla rispetto adaltri posti in cui sono vissuto precedentemente; qual-siasi luogo mi sembra il paradiso dopo essere stato sulfronte russo. Il clima è piacevole, diverso da quellodell’estate in Germania, e, avendo ricevuto l’ordine dipattugliare il territorio, mi è consentito spostarmi a ca-vallo nella zona. Mi pare quasi un sogno potermi muo-vere così liberamente; i partigiani non mi preoccu-pano neanche lontanamente rispetto a quanto fa-cesse l’Armata Rossa. Sono pur sempre in guerra, mami sembra di aver ritrovato in parte la pace di quan-do ero studente e le notizie degli scontri non mi colpi-vano così come adesso. Certo il mio desiderio è quel-lo di poter tornare presto a casa, ma anche se dovessifermarmi a lungo qui a San Rocco, penso che non midispiacerebbe troppo. Sto iniziando a conoscere me-glio il territorio e i luoghi circostanti, ho trovato alcuniposti in cui posso galoppare liberamente e cascine incui fermarmi per far riposare il mio cavallo. Proprio inqueste abitazioni vengo a contatto con gli abitanti delluogo e mi diverte vedere le facce dei dei bambiniquando mi scorgono arrivare alle loro case: alcunisembrano spaventati, altri stupiti, altri ancora incurio-siti di vedere un tedesco. Come se fossi chissà qualecreatura delle fiabe! Ma ciò non accade solo con ibambini, ma anche con gli adulti. Ci scambiamo po-che parole: solo un saluto nel momento in cui arrivo euno quando mi allontano, ma si può intuire dai loro ge-sti e dai loro sguardi che provano molte e diverseemozioni nel vedermi. Finora non avevo mai avuto iltempo di soffermarmi a riflettere su ciò che potesseropensare di me gli abitanti dei luoghi in cui la guerra miporta. In Danimarca, sul fronte Russo, a Pinerolo, intutti i posti in cui sono stato ero troppo preso dallapaura di perdere la vita in un’imboscata o sul campodurante un attacco, ma ora che sono qui, in un terri-torio che mi sembra meno ostile, penso a che cosa de-vo essere per le persone che incontro.Voi mi conoscete bene e con quale sofferenza ho ri-sposto alla chiamata di leva; all’azione preferisco la vi-ta tranquilla dedita alle mie occupazioni predilette, inparticolare i miei studi interrotti, ma le persone cheabitano a San Rocco non lo sanno. Per loro io sono uninvasore e basta, forse non uno dei più crudeli, ma pur

sempre un invasore. Io sono il cattivo,quello che le madri dicono ai figli dievitare. Inizialmente mi provocò rab-bia notare che quando ero appenaarrivato già ero un nuovo mostro stra-

niero di cui diffidare; poi ho pensato: come reagirei iose nel mio Paese arrivassero all’improvviso dei soldatiitaliani e prendessero il controllo del territorio? Anch’ioli vedrei come mostri ed etichetterei ognuno di loro co-me un nemico da cui si può ricevere solo del male.Questo ragionamento mi ha fatto vedere la guerra sot-to una luce ancora più negativa, poiché tra le tantecolpe e gli orrori che la guerra porta con sé c’è anchequesto: essa trasforma un intero popolo in essere mal-vagi agli occhi di un altro.Vorrei poter mostrare agli italiani che ho conosciuto quiche non sono una belva assetata di sangue, un fa-natico imbevuto di ideologie, ma al contrario che so-no un uomo come loro, che si è ritrovato a combat-tere non per la sua volontà ma perché costretto.Allo stesso modo ripenso ai soldati russi che ho com-battuto al fronte e li rivedo ora sotto un altro aspetto:non sono più solo dei nemici da uccidere prima cheloro uccidano me, sono uomini che come me hannolasciato le loro case, i loro affetti e che stanno difen-dendo il loro Paese e che forse avrebbero preferito es-sere altrove piuttosto che su un campo di battaglia adare e ricevere morte. Mi tormenta il fatto che nonpossa concedermi il lusso di dimenticare che qui so-no un soldato. Rischioso per me pensarmi uomo eprovare dei sentimenti di umanità verso i “nemici”.Non me lo posso permettere, se ora mi fermo a scam-biare poche parole gentili con gli abitanti del luogo,ma un giorno potrei ricevere l’ordine di dar fuoco al-la casa di un uomo con cui avevo discorso solo ilgiorno prima o con cui avevo stretto un legame. Misentirei terribilmente colpevole pur essendo consa-pevole che sto eseguendo gli ordini del mio Paese, insua difesa. Ogni pallottola usata per uccidere un ne-mico, per quanto ciò sia triste da dire, è una pallottolaben spesa per proteggere la mia patria. Forse è unmale che abbia così tanto tempo per riflettere, per-ché sto iniziando a mettere in dubbio ciò che faccioe il mio desiderio di tornare a casa, lontano dagliscontri, dagli agguati e dalle rappresaglie, è semprepiù forte. Concludo questa lettera sperando di nonaver con queste mie riflessioni aumentato eccessi-vamente le preoccupazioni che sen’altro provateper me e di avere presto notizie da voi, anche seprobabilmente ci vorrà molto tempo prima che lamia missiva giunga a Marburg.Un abbraccio forte ad entrambi, salutate anche i cu-gini e gli amici da parte mia.

Con affetto, vostro figlio Rudolf

C“Ricordando

Nuto…”

PROSA altri finalisti

55

Giovanni Battista BOGGIONE Classe I AI.I.S. “Arimondi-Eula” - SAVIGLIANO

a giorni non scrivo, maoggi ne sento più chemai il bisogno. Gli ultimiaccadimenti mi hannoturbato non poco.

Dopo aver fortunosamente trovato rifugio nellastalla, dormicchiammo sull'umida paglia, un po'nascosti sotto una coperta da cavallo, un bracciodietro la testa come cuscino e una mano sulla ri-voltella. Svegliati poco prima dell'alba, uscimmo si-lenziosamente dal fienile e riuscimmo ad allonta-narci dalla zona. Forse gli abitanti della casa sierano accorti della nostra presenza e avevanogià avvertito qualcuno, forse ci avevano copertoo forse erano semplicemente indifferenti; meglioper loro, nessuno vuole provocare i tedeschi, etanto meno gli ucraini. Il Rosso ci aveva detto chein quei posti non si può sapere se siano amici o ne-mici, ma non abbiamo avuto altra scelta.L'importante era aver tagliato i fili del telegrafo; daquel momento in poi sarebbe toccato a noi ar-rangiarci come potevamo. Proseguimmo lungo ilsentiero per un po' e il cielo cominciava a schiarirsicosì che, raggiunto un campo, ci immergemmo fi-no alla cintola nel grano alto. Ma avevamo intui-to di aver perso il senso dell'orientamento. Ai mar-gini si intravedevano dei contadini.Ci avvicinammo; era gente dura, ricordo alcunedonne, qualche bambino e un uomo piuttostoanziano che a capo chino cominciavano la gior-nata al lavoro. L'uomo, alzato lo sguardo, ci squa-drò rapidamente e riprese a raccogliere a fiancodegli altri . Lupo gli mormorò qualche parola, l'uo-mo indicò con il braccio una direzione, senza guar-darci, continuando il suo lavoro. Non degnò diuno sguardo neanche la sigaretta lanciatagli daLupo. Seguendo l'indicazione, eravamo giunti aun bivio, e fu allora che, alla luce del sole del pri-mo mattino, capimmo di essere al bivio della Cro-cetta, a due passi da Tetto Graglia e quindi dallacaserma di San Rocco. Chi e che cosa non insul-tò Lupo, quando lo comprese! Che avremmo do-vuto fare allora? Il nostro rifugio era lontano e allaluce del sole non era facile muoversi, soprattuttoin quella zona. Chiunque avrebbe potuto veder-ci. C'era la possibilità di dirigerci verso il Gesso o tro-vare riparo al chiuso, magari in una chiesa. Aven-do deciso per la seconda ipotesi, poco distantescorgemmo, ahinoi, un casolare bianco circon-dato da un muretto di mattoni, nei pressi di unachiesetta. Non si sentiva alcun rumore provenire dalì, così ci avvicinammo, rasentando il muro. I com-pagni stavano per scavalcarlo ed entrare, quan-do intuii che dovesse esserci un cancello d'ingresso

e così svoltai l'angolo del muretto efu allora che ebbi una strana ap-parizione.La forte luce del sole mi aveva im-pedito subito di distinguere la figu-

ra, ma dopo qualche attimo misi a fuoco sul sen-tiero davanti alla cascina un cavallo bianco conin groppa un uomo, che ho notato in seguito es-sere in divisa. Ricordo di aver avuto un fremito e diavergli puntato il più in fretta possibile il moschet-to con un verso soffocato. Anche Nelson, che miseguiva, minacciandolo con lo Sten gridava discendere da cavallo. A una prima occhiata sem-brava l'unica figura sul sentiero e non impugnavaarmi.Alla nostra comparsa il cavallo, che procedeva alpasso, si era fermato di scatto. Io mi avvicinai al-l'erta e gli afferrai il morso con una mano, mentregli altri intimavano ancora di scendere al cavaliere,che non sembrava particolarmente turbato.E' accaduto tutto molto in fretta; il soldato, scara-ventato giù da Lupo mentre l’animale, imbizzarri-to, mi sfuggì di mano partendo al galoppo, spin-gendomi per terra. Nel tempo di rialzarmi, era giàlontano. Voltatomi, Cairo e Lupo stavano stratto-nando il soldato che poi, con apparente tran-quillità, ci consegnò la pistola che non aveva avu-to nemmeno il tempo di estrarre dalla fondina.Controllammo sul momento la zona circostante:nessun altro in vista. A quel punto non potevamoentrare nella cascina; mi sembrò di vedere un vol-to a una finestra del casolare. Decidemmo di tor-nare indietro, verso il ruscello, col prigioniero. Pun-tatogli il moschetto nella schiena, lo spingemmoavanti mentre Lupo faceva strada, lanciandosigiù dalla ripa.Terminata l'affannosa discesa, osservai il ''nemico''.Fu il primo visto così da vicino. Non era un soldatosemplice, era sicuramente un ufficiale; aveva deigradi sul colletto. Era giovane, slanciato.Era proprio un tedesco? Sembrava di sì, non ave-va l'aspetto degli orientali, anche se non aveva an-cora pronunciato una parola. La sua divisa erapiù elaborata di altre. Sotto il cappello si vedeva-no dei capelli chiari, aveva dei lineamenti fieri emarcati. Teneva lo sguardo basso, camminandosenza farsi spingere.Tagliando per un campo, alcune persone intentea lavorare osservarono il nostro gruppo e soprat-tutto il prigioniero. Avevano già visto troppo. Loscrosciare vicino dell'acqua ci fece comprende-re di essere arrivati al fiume. Attraversammo il tor-rente a fatica, ma nemmeno in quell'occasione iltedesco provò a fuggire. Raggiunto l'isolotto nel

D19 giugno

1944

56

mezzo del fiume, ci acquattammo stanchi tra lesterpaglie alte che ci coprivano. Il cielo si era scu-rito un poco, e il sole aveva smesso di battere. Ri-manemmo seduti in quel luogo per un lungo mo-mento. Il prigioniero non era a disagio. Si era toltoil cappello e si poteva vedere bene il viso. Oh quelviso, mi è rimasto così impresso. A Mariangela sa-rebbe piaciuto. Aveva occhi chiari e sfuggenti,dalle sopracciglia marcate. Un naso sottile, un po'aquilino e una bocca carnosa. Non aveva l'aspet-to malvagio, né appariva l'assassino che spesso im-maginiamo nei nostri pensieri. Poteva sembrarepiù un musicista, o forse un professore. Aveva unportamento aristocratico e distinto, ma non altez-zoso; non era uno di ''noi''. Ma allora perché era so-lo a cavallo sul sentiero? Quale tedesco si sareb-be mai aggirato da solo per queste campagne,tanto più un ufficiale? Era un'azione suicida. Strin-geva con le braccia le ginocchia, fissando il vuo-to. Nelson e Cairo gli gettavano occhiate inquisi-torie, mentre Lupo, accesa una sigaretta, fumavanervoso, spostando continuamente lo sguardo sul-l'ambiente circostante.Dopo forse un quarto d'ora Lupo si alzò di scatto,dicendo che era ora di andarsene senza di ''lui'';era già grave aver lasciato andare il cavallo,gente innocente sarebbe morta per la sua scom-parsa e ora non si poteva fare altrimenti. Fececomprendere a gesti al tedesco di togliersi gli sti-vali e la giacca. Gli perquisì le tasche, estraendoun pacchetto di sigarette, un luccicante orologioe un portafogli che intascò. Lasciatolo in camiciae pantaloni, Lupo lo spinse verso le sterpaglie piùfitte.Perché sparargli? Poteva tornarci utile, era un uf-ficiale, aveva delle informazioni che magari il no-stro traduttore poteva estorcergli. Cercai di far ra-gionare Lupo, ma Nelson mi trattenne. Lottai in-vano contro il suo largo torace. Mi ritrovai sedutosulle sterpaglie bagnate. Avevo un forte malesse-re interiore, un peso sullo stomaco. Che stava peraccadere? E' guerra questa? Non ho mai spara-to di proposito ad una persona, ma mi sono unitoalla banda perché riconosco sia necessario lot-tare in questo momento e so che sarei disposto auccidere, se avessi davanti un tedesco col fucilepuntato su di me. Ma quello era forse un ''lurido'' te-desco? Ho ancora un amaro sapore in bocca.Nelson mi tratteneva; gli lessi negli occhi una sor-ta di rammarico. Cairo fissava con sguardo as-sente lo Sten che teneva in grembo. Quel mo-mento fu eterno. Lupo era scomparso da qual-che secondo, verso il bordo del fiume. Un seccosparo riecheggiò e un leggero tonfo lo seguì. Unacoppia di uccelli spiccò il volo. Lupo tornò verso dinoi, riponendo la pistola fumante nella fondina.Con aria un po' tesa, chiese ai compagni qualcosache non ascoltai.Gli altri presero a discutere su che cosa fare; io in-vece dovevo sapere chi era quell'uomo. Nessunoallora mi fermò. Trovai il cadavere riverso sul bordo

del fiume. La testa era caduta nell'acqua e unsottile rigagnolo rosso seguiva il flusso della cor-rente. Chinatomi su di lui e aperto il colletto dellacamicia, trovai la sottile catenella al collo. Glielastrappai il più delicatamente possibile e lessi la tar-ghetta metallica: RUDOLF KNAUT e un codice nu-merico. Ricordo ancora il freddo metallo sulla ma-no che la stringeva. Ero profondamente colpito.Era dunque una persona quel nemico, aveva unvolto e ora anche un nome. Spesso avevo imma-ginato il primo vero contatto con il nemico, ma maiavrei creduto che sarebbe avvenuto in questomodo. Ho un lancinante dolore interiore. Che co-sa ci aveva spinto a fare una cosa del genere?Provai a farlo presente a Lupo, ma si infuriò, di-cendo che chissà quanti di noi erano stati uccisicosì per il capriccio di un viscido nazista.Era necessario, bisognava equilibrare le perdite,uno di loro in meno, dieci dei nostri conterraneisalvi e concluse con un patriottico ''un giorno i no-stri figli ci ringrazieranno''. Sono combattuto; era ne-cessario? Ma allora, dobbiamo noi forse abbas-sarci alle loro barbarie? Non ho mai dubitato di es-sere dalla parte giusta, ma è necessaria questaviolenza gratuita? Che presunzione improvvisarsigiustizieri! Ho sempre odiato nel profondo del miocuore i tedeschi, ma ora mi domando: quel te-desco era un criminale? Gli si leggeva negli occhiun'indole diversa. E i suoi famigliari? Avrà avutoanche lui una famiglia, che lo cercherà, che chie-derà sue notizie, esattamente come dalle nostreparti la gente si chiede con una certa inquietudi-ne dove siano andate quelle folle caricate sui tre-ni. Suppongo che anche mia madre e Mariange-la sappiano che cosa significhi non avere più no-tizie di un famigliare.Tornato dagli altri, continuai a fissare la targhetta,ma Lupo me la strappò di mano e la lanciò nelmezzo della corrente. Da quel momento in poinon ricordo che cosa accadde, sono rimasto iner-te per il resto della giornata. Ho seguito i miei com-pagni restando in una sorta di dormiveglia. Credoche qualcuno dei nostri ci abbia recuperato conun autocarro nel pomeriggio. Così ora mi trovo dinuovo al rifugio, con delle gallette di un riforni-mento militare come primo pasto da due giorni eil mio diario. Non ho più detto niente a nessuno daquesta mattina. Forse dovrei raccontare qualco-sa, questa storia mi ha fatto riflettere. È seduta qui,davanti a me, una staffetta di un'altra cellula par-tigiana venuta per consegnare un messaggio alRosso. Dormicchia alla luce delle candele nellastanza: resterà con noi per la notte. È un giovanereduce della campagna di Russia, è stato ufficia-le degli alpini e dicono che si sia già distinto daqueste parti per la sua attività nelle fila partigiane.Si è presentato col nome di Nuto. Potrebbe inte-ressargli ciò che è accaduto. Ma adesso sta ripo-sando e il Rosso ci ha detto chiaramente di non fa-re parole con altri partigiani.

57

Isabella CRISTOFORI Classe I AI.I.S. “Arimondi-Eula” - SAVIGLIANO

ulla in questo mondo èsolo bianco o solo nero.L’occhio destro osservauna parte, focalizza unoscorcio di realtà ma sen-

za l’apporto del sinistro a dare estensione allosguardo la nostra prospettiva resterebbe ingan-nevole. Come quando si varca una piccola portae ci si ritrova in una stanza interminabile, la nostraopinione può dare risposta solo ad una parte delproblema, quella in cui siamo immersi, mentre la-scia inesplorato l’oceano che ci sovrasta.Forse proprio questo tentò di fare Nuto Revelli conil Disperso di Marburg: immergersi un po’ più a fon-do nella realtà, percorrendo le strade di tutti ecercando di trovare la propria.Le verità che ci circondano sono molteplici equanto più le esploriamo tanto più è difficile di-stricare le nostre da quelle degli altri e la difficoltàsi inasprisce se il tempo ha sbiadito i contorni diquelle già precarie certezze.Nel cuneese circolava una leggenda, quella diun “tedesco buono”; un uomo che, contraria-mente a quanto prometteva la sua uniforme, pre-diligeva il sigaro al fucile e, tutti i giorni, prima di farritorno in caserma, amava scambiare qualcheparola con bambini e villici, forse per scostare, al-meno per poco, la grigia e opprimente esistenzadel soldato. Ma era imprudente, perché la zonapullulava di partigiani e accadde così che un gior-no alla caserma ritornò solo il cavallo e di lui nonsi seppe più nulla, tranne che per poche parolemormorate a voce bassa dalla popolazionelocale.I mormorii però non soddisfecero Revelli, per il qua-le la storia del Disperso divenne un vero e propriotarlo che innegabilmente scavalcò il sapore dellaleggenda e si rinsaldò diventando un interrogativouniversale e ,come tale, insolubile.Egli stesso è pienamente padrone dell’iniziativaabbracciata tanto da imprimerne l’essenza : “De-vo trovare delle risposte a una serie di domandesolo apparentemente semplici, ma che sono allabase di ogni mia ulteriore indagine”.

Lo zoccolio del cavallo mi culla in una mattina co-me tante, quasi a rassicurare i pensieri che miturbinano in testa: le carte, i rapporti, le direttive. Undovere: ecco cos’era la guerra. Un protocollo ri-gido e intransigente di cui tutti erano artefici manessuno responsabile.Sono intrappolato in una matassa di circostanze eincombenze: un ordine da eseguire, un altro dacomandare. Mi sento un fante in una partita a

scacchi già terminata, le mie mos-se sono già state scritte e non miposso sottrarre agli errori di chi mimuove.Sto percorrendo l’unico attimo di li-

bertà della giornata. Chissà fino a quando mi sa-rà concesso: nei primi tempi nessuno sapeva dovemi dirigevo, instancabile, ad ogni sorgere del sole,ma ora le voci in caserma si sono diffuse e non soquanto a lungo la divisa mi proteggerà dal disac-cordo dei miei compagni.Amo cavalcare. Mi ricorda l’infanzia in Germania:l’ammirazione per mio padre, i pomeriggi passati inscuderia con i miei fratelli, le liti, le corse nei bo-schi. Rimpiango ogni giorno quei momenti di in-contaminabile gioia: l’odore della terra in estate, ilronzio della notte che sembrava eterna.Rimpiango un mondo in cui non esisteva la guerra,se non per gioco. La bianca criniera del mio com-pagno mi precede lungo i campi dorati della pia-nura piemontese.Sorrido. Alcuni contadini si affaccendano fra le spi-ghe: trascinano strumenti, aggiogano le vacche.Il sole è ancora basso ma il lavoro non aspetta:oggi è giorno di mercato e presto le strade si af-folleranno di giovani cariche di ceste pesanti deifrutti della terra. Forse, se sarò fortunato, vedrò an-che la ragazza castana che assomiglia tanto amia moglie Adele. La cerco ogni giorno riflessa neisorrisi degli altri; spero di riconoscerla lungo le vie so-leggiate del paese, nascosta sotto i foulard dellecontadine.A nessun uomo può piacere la guerra: questo hoimparato a ricordarmelo.Non può esserci odio o vendetta tanto grande daaccettare l’allontanamento da chi si ama. Nullapuò valere la distruzione del proprio mondo, ne-anche l’ assoluto dominio su quello di tutti gli altri.Una camionetta tedesca avanza traballante e fu-mosa sulla strada sterrata. Il cavallo scatta sulladestra irritato. Dopotutto la guerra non piace ne-anche agli animali.Il sole è ormai alto. Questo è il momento che amoin assoluto di più. I campi formicolano di uomini egiovani garzoni, le donne e i figli ruzzolano fuori dicasa nei loro grembiuli sbiaditi dal sole e dalla pol-vere. Incontro lo sguardo del signore barbuto del-la cascina sulla destra, intento a vangare.Rovisto nelle tasche della mantella alla ricerca di unsigaro, glielo porgo, ci scambiamo un buongior-no, un mezzo sorriso e proseguiamo ognuno per lasua strada, come se niente fosse.Incrocio la vedova giovane, con il suo stuolo dibambini, che mi inseguono di corsa per accarez-

NIL SOLDATOTEDESCO

PROSA altri finalisti

zare il lucido manto del mio destriero e poi i vecchiamici della locanda con cui scambio due parolesul tempo, loro in piemontese, io nel mio spigolosoitaliano. Forse non siamo così diversi dopotutto,forse per alcuni di loro ho smesso di essere un ne-mico, la minaccia sempre in agguato, una bombaad orologeria pronta a scattare e frantumare tut-ti queitimidi gesti per guadagnarmi la loro fiducia.È una cosa che faccio per me stesso: fingere dinon essere odiato e di non odiare. Alla lunga finisciper crederlo vero.Prendo una poderosa boccata d’aria. È ora di tor-nare a lavoro. Ripercorro le questioni in sospeso, di-sordinate sulla mia scrivania. I rapporti delle rap-presaglie contro i partigiani della valle sono anco-ra caldi del loro sangue. Firmerò quei fogli e man-derò qualcuno a spedirli in Germania, come se lavita di qualche contadino fosse cara al Funhrer.Ma del resto neanche a me fa più molto effetto. Neho visti troppi di quegli atti perché mi sia ancorapossibile leggere, dietro a quelle cifre, dei volti.I miei pensieri galleggiano sospesi e quasi non miaccorgo della banda scombinata che avanzaciondolando, sbilanciata dal peso degli zaini e deifucili che rimbalzano a ritmo.Partigiani.Lo stomaco mi si fa di pietra e la paura si diffondecome ghiaccio dalle mie mani, alle redini, al ca-vallo, ghiacciandoci in una scultura di terrore esfiorite speranze.Le parole dei giovani ribelli mi riecheggiano negliorecchi senza che io possa reagire.«Mani in alto!»«ju da sta bestia».Traduco in gesti sconnessi e disarticolati le loro ur-la. Incrocio i loro sguardi brillanti di coraggio, i trat-ti puliti dei loro visi che hanno nascosto da poco lamorbidezza della fanciullezza, la spalla ricurva alpeso dell’arma, quasi ne fossero infastiditi.Non temono nulla, non hanno scrupoli e io sono lo-ro prigioniero.Li seguo. Non oppongo resistenza ancora immersocome sono nello sgomento. Dimentico tutto, noncapisco. Le briglie mi scivolano fra le dita, il legamecon il mio più caro compagno vacilla e prima di

potermene rendere conto di lui resta solo una can-dida macchia selvaggia che sventola sinuosa con-tro il blu del cielo. Il poco coraggio che ancora miresta si incrina e mi abbandono una volta di più aglistrattoni dei miei rapitori.Attraversiamo i boschi a passo serrato. Ora sento ilpanico nei loro sussurri: di certo temono che il ca-vallo torni alla caserma a fare la spia.Non si mette bene per me. Mi sforzo di mettere inmoto il cervello, ma risvegliare la ragione mi costamolta fatica. Inciampo e mi trascino su per i pen-dii scivolosi di radici.Mi resta poco da fare. Potrei pregare ma Dio nonmi è mai stato molto d’aiuto. Rallento l’andatura.Mi guardo intorno spaesato. Penso a qualcosa dadire, formulo e riformulo implorazioni, minacce divendetta e ritorsione che mi si mozzano in gola.Tento di leggere le loro impressioni, coglierne le in-tenzioni. Se hanno abbastanza senno da non vo-lermi subito morto sicuramente tenteranno di resti-tuirmi in cambio della libertà di altri partigiani.Davvero credono che la mia vita valga più di quel-la dei loro compagni? Chissà fino a che punto sisbagliano.Ho perso la mia partita. Sono stato così ingenuo daconfondere questa gente con gli amici. Ho volutocambiare ciò che era per natura non modificabi-le. Mi sarei dovuto arrendere.Non resisto. Le strette ai polsi e alle spalle si fannoprese intollerabili, tenaglie senza via di scampo.Farfuglio, mi scuoto. Vogliono farmi attraversareun ruscello. Mi oppongo, capriccioso come unpoppante. Non mi piegherei a nessuna delle lororichieste ora. Mi ostino a volermi sfilare gli scarpo-ni, arrotolarmi le brache.Li sto irritando. Tutti quei ragazzi mi paiono fragili.Provo quasi compassione per loro e, ancora unavolta, li sento così vicini tanto da pensare seria-mente, per un attimo, a tendergli la mano e rive-dere una volta per tutte le regole di questo sadicogioco. In questo momento non mi posso permet-tere scherzi della coscienza.Uno di loro mi spintona in avanti con un po' troppafoga, i compagni si guardano le spalle, in allerta peruna raffica di spari.Arrivano i tedeschi. Sussulto: forse riuscirò a salvarmi.Leggo il panico su quei giovani volti. Parole troppoveloci. Un colpo caldo, bollente al ventre.Mi accascio sull’erba alta. I ciuffi d’erba bagnati edimbrattati mi solleticano le mani.Cado sempre più in basso, pesante.I polmoni respirano un’ultima volta il dolce profumodella terra in estate.

Marco SALOMONE - IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

58

59

Chiara DANNA Classe I AI.I.S. “Arimondi-Eula” - SAVIGLIANO

I miei occhi fissano im-perterriti quel foglio bian-co; continuo a gioche-rellare con la penna cheho in mano nella speran-

za, forse, di trovare una qualche ispirazione. Ascuola ci è stato dato il compito di scrivere un te-ma inerente un libro letto qualche tempo prima,”Ildisperso di Marburg” di Nuto Revelli.Subito penso di parlare della Resistenza, delle for-mazioni partigiane, degli scontri che hanno afflit-to l’Italia intera… tuttavia mi accorgo quantoqueste tematiche siano complesse, delicate, for-se troppo, per poter essere trattate da una ra-gazza che della guerra conosce soltanto nozioniapprese sui libri. Passano i giorni, rifletto a lungosenza mai concludere nulla… poi, all’improvviso,come un’illuminazione.

«Nonno, se dovessi fare un quadro generale del-la Resistenza in Italia che cosa diresti?»«Beh, piccola mia, credo che sia naturale perognuno di noi ritornare col pensiero al passato erivivere con emozione gli eventi che ci hannocoinvolti in gioventù. Va detto che la Resistenza ela lotta di liberazione non furono soltanto doloro-se battaglie o gesti di eroismo individuale ma uncomplesso di partecipazione e di solidarietà. Era-no i piccoli gesti di disinteressato appoggio dellevallate che contribuivano a creare un clima di se-renità e di fiducia per le formazioni partigiane.Era importante e rassicurante per noi vederci of-frire una scodella di latte, appena munto, ed es-sere invitati in casa loro per scaldarci vicino allastufa nelle gelide giornate invernali, oppure le ra-gazze che si offrivano di rammendarci una ca-micia o un paio di pantaloni, o ancora i giovanottiche ci aiutavano ad occultare le armi e le muni-zioni eccedenti le necessità di quel momento,specialmente all’avvicinarsi di un rastrellamento.Questi erano i piccoli granelli di forza della Resi-stenza italiana».«E per un partigiano come te, cos’è stata la guer-ra?»«Cosa pensavo io?» - inizia a fissare con lo sguar-do un punto nel vuoto - «Io pensavo che la guer-ra partigiana fosse perduta, che vincessero i Te-deschi, che Hitler avesse veramente l’arma se-greta.Per poco non l’ha avuta perché, perseguitandouna ricercatrice di fisica ebrea, che fu fatta scap-pare dalla Germania, si privò della possibilità diavere la bomba atomica prima degli Americani.Il nostro destino era un destino che vedevamo

segnato. Avevamo detto:”Beh,vinceranno, ci uccideranno. CER-CHIAMO DI NON FARCI TORTURA-RE”. Ci dicevamo l’un l’altro: “Sevedete che io casco nelle mani

dei Tedeschi SPARATEMI ADDOSSO, perché IONON VOGLIO ESSERE TORTURATO!”. Procedeva-no con sistemi talmente barbari e disumani neiconfronti dei prigionieri, che tutti noi avevamoquesto senso della disperazione, in qualche mi-sura. Nello stesso tempo, non potevamo dirlo per-ché dovevamo rassicurare i nostri e la popola-zione civile; dovevamo rassicurarli che ci sarebbestata questa vittoria, dare questa speranza e quin-di tenerci per noi l’ansia e la paura che tutto ciònon avvenisse”.»«Quanti anni avevi quando sei partito?»«Avevo 23 anni»«Durante la guerra si aveva il tempo di averepaura?»«Beh… la paura è connessa alla guerra. Il pro-blema è che se tu hai delle responsabilità, cioè sesei un comandante di reparto, anche di quello piùpiccolo, non puoi mostrare di averne. Anzi: cimontavamo, io facevo anche un po’ lo spacco-ne per non dimostrare di avere paura. Guai se tumostri ai tuoi sottoposti di aver paura. Devi esse-re sicuro di quello che fai, e sicuro di quello che faifare a loro. E delle volte, quando poi i soldatimuoiono, quando dei partigiani morivano, e so-no morti in tanti, ti viene un’angoscia spaventosa,perché pensi che avresti potuto agire diversa-mente. Pensi che forse doveva toccare a te piut-tosto che a loro, a dei ragazzi che nella guerrapartigiana avevano 15 o 16 anni addirittura. Liho visti morire e sono ancora davanti a me. Uno,tra l’altro medaglia d’oro, mi fece ripiegare. Vol-le stare alla mitragliatrice e farci sganciare, cioèrientrare nel nostro territorio di fronte ad un at-tacco nazista. C’era poi un soldato tedesco, nongiovane, avrà avuto una quarantina d’anni, an-zi noi lo qualificavamo molto anziano. Non sape-vamo neanche il suo nome, lo chiamavamo il te-desco.Era venuto con noi, era un disertore. Mi ricordoche fummo attaccati ad un bivio da un repartodi SS tedesche. Lui aveva il suo fucile, e NON VO-LEVA SPARARE CONTRO I TEDESCHI. Diceva: “Que-sti sono i miei fratelli”. Io ero indignato, gli dissiche era un vigliacco, che era una carogna, glie-lo dissi anche in tedesco. Lui mi disse: “No, io nonsono un vile. Ti mostrerò come sa morire un te-desco”.Si alzò in piedi e gli andò incontro urlando: “Uc-

iCON LA GUERRANELLA MENTE

60

cidete un tedesco per la libertà”. E morì in quelmodo. Non saprò mai come si chiamava perchénon avevamo i suoi documenti e il suo nome ve-ro.Questi sono piccoli episodi che possono però di-mostrare quale era il nostro sentimento. Qual eraquesta guerra molto personale. La guerra parti-giana è una guerra fatta di piccole storie di cia-scuno, che si uniscono per questa idea di digni-tà della persona e della libertà. Senza tanto pen-sare a un futuro, anzi: ci difendevamo costante-mente da questa idea di immaginare un doma-ni».Sono profondamente colpita, commossa, forsesbigottita per quello che ho potuto ascoltare. Il fu-turo non c’è ancora. Tutto quello che abbiamo èil passato. La storia ci ha fatti come siamo. La sto-ria ha creato i nostri pensieri, ha deciso perfino ilnostro nome. Eppure, la storia non interessa a nes-suno.Forse per questo stiamo perdendo il senso dellecose. Se non sappiamo più chi eravamo, comepossiamo capire chi siamo?Mi rendo conto di come quella storia raccontatada Nuto Revelli, che vedevo così lontana dallamia realtà e che concepivo come caso isolato,alieno da ogni altra situazione paragonabile, siainvece di incredibile attualità per la maggior par-te delle persone che vivono intorno a me e che lasofferenza e le difficoltà della guerra le hannosperimentate in prima persona.Come Revelli, non pensavo potesse esistere un“tedesco buono”, eppure mi sono dovuta ricre-dere

ancora una volta.La ricerca, la fame del sapere e della conoscen-za sono prerogative essenziali, sempre, e nel “di-sperso di Marburg” questo aspetto emerge for-temente. Quando Revelli viene a conoscenzadella leggenda di quello che si potrebbe definire“il cavaliere biondo sul cavallo bianco”, sono giàtrascorsi molti anni dal fatto. Tuttavia la figura deltedesco buono e del disperso prendono il so-pravvento sul razionale quotidiano, tanto da in-durlo a effettuare una lunga ricerca storica, sullabase di prove orali e documenti, per sapere sequesta leggenda abbia un fondamento, per da-re un nome alla vittima e, soprattutto, per verifi-care se davvero fosse stato buono, perché lui,Revelli, di Tedeschi buoni non ne aveva cono-sciuti, anzi aveva cominciato ad odiarli durante lacampagna di Russia, sentimento che si era ulte-riormente acutizzato nel periodo della Resisten-za. La ricerca è lunga, snervante; l’autore riporta,diaristicamente, il progredire delle indagini, le sen-sazioni, gli stati d’animo, il continuo riaffiorare di ri-cordi degli altri dispersi suoi compagni d’arme inRussia e di episodi indelebili della sua attività dipartigiano. “L’io” narrante lascia chiaramente tra-sparire l’ansia di arrivare alla fine, di sapere, nellaparticolare condizione che un nemico è un’ombrasenza volto da uccidere, mentre il nemico, quelnemico, perde le caratteristiche di bersaglio ano-nimo, diventa a poco a poco parte di noi, sì cheodiandolo odiamo noi stessi. È un lavoro non fa-cile, il percorso è doloroso e più ci si avvicina allameta più risalta l’umanizzazione della vittima, pro-babilmente non buona, ma nemmeno cattiva. E

il nemico così, a mano a mano che siconosce, diviene la nostra ombra, in uncrescendo di commozione che l’autoreconclude così malinconicamente:“Ogni qual volta rivivo l’episodio di SanRocco mi rivedo davanti agli occhi quelbrandello della maglia bianca di Rudolf,risparmiato dall’onda lunga del fiume.Come il segnale di un destino crude-le,di una vita sprecata, di una resa”. Ru-dolf Knaut perde il suo alone di leggen-da, ma induce il nemico Nuto Revelli aprovare un sentimento di autenticaumana pietà. “Il disperso di Marburg” èlotta interiore contro la follia di ogniguerra.

Loredana PROSHKA - V DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

PROSA altri finalisti

61

Greta FERRUAe Vittorio GROSSO Classe V A

Liceo Scientifico “G. Peano” - CUNEOgni guerra ha bisognodell’esistenza di un ne-mico che giustifichi unevento inumano qualeè un conflitto. Il nemi-

co, dunque, non è altro che unpresupposto culturale, in quan-to egli viene presentato dallapropaganda come un esserespersonalizzato della sua di-mensione umana, tanto da di-ventare un demone crudele espietato. Il motivo principale diquesto procedimento è crearenell’opinione pubblica il con-senso necessario affinché sia le-gittimato l’uso della violenzacontro il nemico. Inoltre, percomprendere le dinamiche diun conflitto è necessario tenerpresente che la storia viene scrit-ta dai vincitori. Di conseguenza,essi si ritraggono come moral-mente giusti, mentre tutti i difet-ti vengono fatti ricadere suglisconfitti, che, quindi, presentanosolo più tratti negativi.Dopo un conflitto si cerca di comprendere quan-to accaduto, tentando di trovare una nuova con-sapevolezza della guerra e del ruolo del nemico.Dunque, la linea di pensiero principale che gene-ralmente prevale è quella della rabbia verso il ne-mico, con il desiderio di vendetta, ma ci sono an-che esempi di tentativi di ribaltare questa conce-zione. Infatti, diversi scrittori, nel dopoguerra, han-no provato a ridare una dimensione umana al-l’avversario, come ad esempio Italo Calvino e Bep-pe Fenoglio. Il primo dei due scrittori, tramite una se-rie di racconti dal gusto fiabesco, frutto della suaesperienza partigiana, riesce a trasmettere l’im-magine di un tedesco un po’ ingenuo e quasi to-talmente estraneo alle motivazioni politiche dellaguerra. Egli viene descritto come un uomo comu-ne e non come un nazista assetato di sangue, in-fatti, non si dedica al rastrellamento, come do-vrebbe fare seguendo gli ordini, ma pensa sola-mente al suo tornaconto personale. Così facendo,si rende addirittura ridicolo, in quanto rincorre pertutto il paese e il bosco circostante gli animali che

erano stati lasciati liberi dai pae-sani, per evitare che venisserorazziati dai tedeschi. Calvino scri-ve questo racconto1 per sottoli-neare come la maggior partedei soldati si ritrovi nella guerraquasi per caso, senza motiva-zioni ideologiche, e quindi si li-miti a pensare alla propria sop-pravvivenza e ai propri interessipersonali.Anche Fenoglio vanta un’espe-rienza personale nella Resistenza,che l’ha formato, ma non con-dizionato. Infatti, egli è semprestato molto oggettivo nell’anali-si del ruolo del partigiano e delnemico. Emblematico è il rac-conto “Golia”, che narra l’espe-rienza di un prigioniero tedesco,Fritz, che nel giro di poco temporiesce ad integrarsi nella comu-nità e ad essere visto come par-te di essa, invece che come unnemico. Fritz svolge i compiti del-la vita quotidiana, lava i piatti e

taglia legna, non solo perchè è costretto in quan-to prigioniero, ma perchè vuole aiutare. Infatti, par-tecipa anche ai divertimenti ed ai momenti di fe-sta, come i giochi con la neve e il pranzo di matri-monio. Ed è proprio in quest’ultima occasione cheviene sdoganato il concetto di una differenza dimoralità tra la propria fazione e quella opposta: ilpadre della sposa, ricordando il suo periodo di pri-gionia in Austria, racconta: “...la gente non eracattiva, era buona come in tutte le parti del mon-do”2. Dunque, questi due racconti presentano dauna prospettiva diversa l’immagine del tedesco,mettendone in luce gli aspetti che caratterizzanouna persona qualunque.Pur riguardando la prima guerra mondiale, questacitazione esemplifica come i concetti di uomo enemico appaiono in netta contrapposizione.È in questo contesto che si inserisce “Il disperso diMarburg”, libro scritto da Revelli nel 1994. “La guer-ra è sempre stata raccontata dai generali. Nuto havoluto farla raccontare dai soldati”4. Revelli, infat-ti, ha vissuto la Resistenza in prima persona ed hasempre voluto dare una rappresentazione fedele

OL’INVENZIONEDEL NEMICO

1 Italo Calvino, Il bosco degli animali, in Ultimo viene il corvo, Mondadori, Milano 20112 Beppe Fenoglio, Golia, in Un giorno di fuoco, Garzanti, Milano 1963

62

e il più possibile oggettiva degli eventi, racco-gliendo testimonianze dirette di civili e partigiani. Inlui si possono riscontrare, almeno inizialmente, duedifferenti visioni nei confronti del nemico. Da un la-to, egli ha presente il tedesco come responsabiledell’eccidio di Boves e dunque violento, crudele espietato. D’altra parte, però, questa visone vienemessa in discussione da Revelli stesso nel suo libro.Egli, per l’appunto, fu colpito in modo particolareda una leggenda che sentì raccontare qualcheanno dopo la fine della guerra, in cui si narravadell’esistenza di un tedesco buono. Da qui parte lasua assidua ricerca del disperso di Marburg, che re-galava le caramelle ai bambini. L’atteggiamentoambivalente di Nuto Revelli si riflette nell’inizialescetticismo “l’immagine di quel cavaliere solitarioche s’intratteneva scherzare con ibambini mi infastidiva, e mi sem-brava troppo leziosa per essere au-tentica”5. Nonostante ciò, egli hala capacità di andare oltre allo ste-reotipo del nazista crudele, anchea costo di perdere parte delle suecertezze. La sua curiosità e la vo-glia di giungere alla verità lo hannospinto ad una ricerca complicata eirta di ostacoli, durata parecchi an-ni, in quanto basata sulla memoriadi eventi accaduti qualche de-cennio prima. Senza mai lasciarsiprendere dallo sconforto, ha con-tinuato imperterrito la ricerca di va-lori che riportano il nemico a una di-

mensione umana. La consapevolezza che il nemi-co è un uomo non è così scontata come appare,come evidenzia il pensiero di un soldato: "Com-pagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassiun'altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, pur-che' anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eriper me solo un'idea, una formula di concetti nelmio cervello, che determinava quella risoluzione. Ioho pugnalato codesta formula. Soltanto ora ve-do che sei un uomo come me”6. Ma Revelli va ad-dirittura oltre. Con il procedere della sua ricerca,egli crede sempre più fermamente nell’esistenza diun tedesco buono, sente quasi la necessità di tro-varlo, tant’è che Rudolf Knaut, viene idealizzato: “…voglio che ogni tanto i freni della razionalità si al-lentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti.Quante volte, in quei tempi della malora, mi dice-vo che in guerra erano i buoni a pagare, non ipeggiori”7. Viene poi riportato alla realtà: “Cava-liere solitario va bene. Ma non è la figura romanti-ca che immaginavamo noi all’inizio”8, sono le pa-role con cui Cristoph Schminck-Gustavus si rivolgeper lettera a Revelli. Inoltre, da questo libro emer-ge l’esigenza di voler a tutti i costi arrivare a definirei tratti e gli elementi che fanno del nemico unapersona come tutti gli altri. Tant’è che l’autore nonsi limita a trovare il nome del disperso, ma cerca discoprire il suo contesto famigliare e culturale.Coloro che hanno partecipato alla guerra, su-bendone i danni e gli effetti peggiori, dovrebberoessere, a rigor di logica, i più propensi ad odiarepregiudizialmente il nemico. Gli esempi sopra citati,però, mostrano come non sia così, e se proprio levittime del conflitto riescono, e desiderano anchepresentare il nemico in modo umano, allora sicomprende la natura della guerra. Essa è assurda,non sono i soldati a volerla, ma essi combattonomossi come burattini da forze politiche esterne e

dalla propaganda. Insomma, nonè il nemico a causare la guerra,ma è la guerra a dar vita al mitodel nemico.

BIBLIOGRAFIAItalo Calvino, Il bosco degli animali, in Ul-timo viene il corvo, Mondadori, Milano2011Beppe Fenoglio, Golia, in Un giorno di fuo-co, Garzanti, Milano 1963Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Einau-di, Torino 1945Nuto Revelli, Il disperso di Marburg, Einau-di, Torino 1994E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fron-te occidentale, Oscar Mondadori, Mila-no 2004

“Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati comenoi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muo-vevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio comestavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa i nostricompagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era mai ve-nuta in mente”3.

4 Testimonianza orale di Felice Garelli, compagno di brigata e amico di Nuto Revelli5 Nuto Revelli, Il disperso di Marburg, Einaudi, Torino 1994, pag. 76 E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, Milano 20047 Nuto Revelli, op. cit. pag 1528 Ibidem pag 173

63

Michelangelo GIACCONE - IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

PROSA altri finalisti

Marta RAVIOLO Classe V Ginnasio ALiceo Classico “Arimondi” - SAVIGLIANO

uto Revelli nel suo librointrapende una ricercalunga e travagliata del“tedesco buono”, sfor-zandosi di umanizzare il

nemico. Si pone come obiettivo il ritrovamentodell’identità dell’uomo.Il protagonista si chiede se fra lo schieramentoavversario, quello tedesco appunto, vi siano uo-mini capaci di operare il bene; cerca in qual-che modo di smentire lo stereotipo del nemicomalvagio che prova piacere nel veder soffrirela sua vittima, che rimane indifferente quando sitratta di uccidere un suo simile.Penso che di tedeschi buoni ce ne fossero tanti,uno di questi fu proprio quello che salvò la vita almio bisnonno, sottraendolo al massacro cui eradestinato.“Marta, Beatrice venite qui, oggi vi racconto unastoria, la mia storia.Come sapete quando si parla di guerra il di-scorso ruota attorno a due poli principali, quellodei vincitori, carichi di gloria e quello dei vinti,

caratterizzato dal silenzio osse-quioso del lutto. Io ero fra i vinti epresto il mio cadavere sarebbestato aggiunto all’alto cumulo deicaduti di guerra, quando incon-

trai un uomo che mi salvò la vita.Appena scoppiata la seconda guerra mondia-le ero stato reclutato nell’esercito, ero partito infretta e furia lasciando a casa moglie e i due fi-gli piccoli, vostro nonno e vostro zio.Erano tempi duri ragazze, regnava il caos ormaiin tutti i Paesi, continuamente morivano uomini,donne e bambini, scoppi di bombe, sirene e al-tri rumori assordanti a ogni ora del giorno. Laguerra non aveva pietà per nessuno e niente.Mi trovavo nel campo contumaciale in Iugosla-via, vicino a Gorizia, nei giorni immediatamentesuccessivi all’8 settembre 1943, data in cui il ma-resciallo Badoglio aveva proclamato l’armistiziodell’Italia.Ero in questo campo assieme ad altre personecome me appena tornate da un lungo conflittoe venivamo sottoposti a controlli per verificare se

fossimo affetti daeventuali malattie.Avrei dovuto tra-scorrere in questoluogo un mese diisolamento, ma lecose non andaronocome previsto.Mi ricordo che cistavamo sfamandocon una maleodo-rante brodagliaquando soprag-giunsero alcuni sol-dati tedeschi. Im-mediatamente no-tai riflesso negli oc-chi di tutti il panico;questi senza indul-genza ci raggrup-parono per condur-ci alla stazione fer-roviaria più vicina alcampo.

NUn saltonel buio

64

Dovete sapere che dopo l’armistizio i tedeschierano diventati nostri nemici e noi, poveri uomi-ni, eravamo visibilmente provati in quanto ap-pena tornati da una lunga battaglia e risultava-mo ottime prede per uno sterminio di massa.I soldati dell’altro schieramento ci fecero salire suun treno merci, destinazione: Auschwitz.In un attimo vidi scivolarmi la vita dalle mani, il co-raggio e la tenacia che lasciarono il posto ad unsenso d’impotenza e sconfitta. Non mi restavache pregare per una morte meno dolorosa pos-sibile.Alle ore 14 il treno partì, eravamo stipati in unvagone, trattati come bestie; ogni tanto i nostrisguardi si incrociavano e negli occhi di qualcu-no riuscivo a scorgere un ultimo barlume di spe-ranza.Dopo due ore interminabili il convoglio si arre-stò, non ricordo quale fosse la ragione, ma sola-mente che all’improvviso la mia mente fu attra-versata da un folle pensiero. Passava proprio inquel momento un altro treno diretto verso l’Italiae pensai che sarei potuto salvarmi saltando su unaltro vagone. La morte mi attendeva al varco, neero convinto.Raccolsi tutte le mie forze, attesi che i soldati te-deschi fossero concentrati altrove e saltai dal-l’altra parte. Atterrai, ferendomi una gamba, evelocemente mi nascosi sotto un sedile; non po-tevo ancora abbassare la guardia in quanto lamia uniforme mi avrebbe facilmente tradito.Ad un tratto decisi di chiamare sottovoce la per-sona che si trovava comodamente adagiatasopra di me.Era un uomo sulla cinquantina d’anni, si mostròmolto benevolo nei miei confronti, infatti gli chie-si se avesse nella valigia che teneva di fianco alsedile degli abiti puliti ed egli mi imprestò un

completo da tennista. Dopo essermi cambiato misedetti accanto a lui. Ero salvo, avevo scampa-to ogni pericolo!Presto avrei riabbracciato mia moglie e i miei fi-gli Pino e Dino.Mark, l’uomo che avevo da poco conosciuto, mispiegò che il treno era diretto a Milano e lui sta-va tornando in città dopo un viaggio di lavoro.Notai nella sua parlata un accento straniero, nonmi sembrava italiano, gli chiesi da quale Paeseprovenisse e lui, dopo un attimo di esitazione, midisse che era tedesco e che si era trasferito in Ita-lia venti anni prima.Fui preso da improvviso sgomento, Mark sorrise,mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “ Nonti farò del male, finché sarai con me non corre-rai alcun pericolo. La vita è il bene più preziosoche l’uomo possa desiderare”.Nell’immaginario collettivo italiano i tedeschi era-no persone crudeli, capaci di compiere atti atro-ci, ma Mark era diverso. Al diritto di guerra ave-va preferito l’umanità, al dovere militare avevapreferito il diritto umano: mi raccontò che erascappato dalla Germania per evitare l’arruola-mento nell’esercito.La sua narrazione venne interrotta dal fischio deltreno; eravamo a Milano.Arrivati l’uomo mi accompagnò al binario 6, ilmio viaggio non si era ancora concluso; poi ci sa-lutammo.Conservo tutt’oggi nel cuore l’abbraccio che ciscambiammo prima di separarci.Quell’uomo di nazionalità tedesca, cara Marta ecara Beatrice, mi aveva portato in salvo”.

Alice PORASSO - V ALiceo Artistico “Pinot Gallizio” - ALBA

65

Sara SANVIDO Classe III NLiceo “E. De Amicis” - CUNEO

Rudolf,per parecchi anni non hofatto altro che pensare a te.Mi permetto di darti del "Tu",in questa mia lettera indirizzata a te

ma destinata a non essere letta da nessuno, per-ché, inequivocabilmente, hai iniziato a far partedella mia vita, entrando nei miei pensieri comefossi stata una persona ormai cara, della qualeavessi perso ogni notizia: un amico.Forse perché l'immagine del "tedesco buono",una contraddizione in termini per noi che ab-biamo vissuto la Guerra e la Resistenza, mi ave-va da sempre colpito, lasciando aperta una fi-nestra immaginaria sulla ipotetica bontà dell' es-sere umano. La fiducia nell'umanità non mi hamai abbandonato anche in tempi di rappresa-glie, crudeltà e inimmaginabili sofferenze.Il tuo corpo abbandonato nel letto del fiumeGesso, con addosso quello che restava della tua,da noi odiata, divisa, ha sempre rievocato in mesoltanto l'immagine del "Cavaliere Solitario" il sol-dato che ogni mattina usciva dalla caserma diSan Rocco, alla stessa ora e percorrendo la me-desima strada, portando un saluto a tutti, bambinie adulti, e riuscendo, forse, solo per pochi istanti,a far dimenticare alla gente dei miei luoghi tan-to amati l'odio e la crudeltà della guerra.Quando ho cominciato la mia ricerca per dare

un nome a quella figura così misterio-sa, ho incontrato non poche difficoltà:le testimonianze erano discordanti e leindagini nei vecchi archivi non porta-

vano a nulla.Il pensiero che potessi rimanere senza identità,però, mi ha fatto testardamente proseguire perla mia strada: eri diventato il mio "chiodo fisso".Giovanna, sorella di un soldato disperso in Russia,un giorno mi disse: "Se uno è morto è morto, e timetti il cuore in pace, ti rassegni. Ma non saper-lo né vivo né morto è una sofferenza senza fine".Da qualche parte, in Germania, forse, o in Ucrai-na, o in Polonia, viveva una famiglia, sopravvis-suta, una madre, una moglie, dei figli magari,che non sapevano dove tu fossi: per loro eri di-sperso, condizione peggiore della morte.Tu poi, purtroppo, eri una vittima di quel "vado eammazzo" che mi è sempre risultato inaccetta-bile: uccidere solo per colpire una divisa, nonper ferire un torturatore o una spia.Le mie ricerche mi hanno portato a interpellareun numero inverosimile di persone, ex partigiani,fornitori delle caserme, donne delle pulizie, testi-moni di ogni provenienza; è stato uno sforzo spes-so senza risultati decisivi: cercavo il più piccolo in-dizio, la minima informazione. A volte si aprivauno spiraglio, qualcuno che si ricordava qual-cosa, un particolare: un piccolo passo avantiper far luce sula tua storia.La tua storia: qualunque, in tempi così tristi. Era il1994, il grano era maturo, tu eri uscito come al so-lito dalla caserma, probabilmente con il sigaro intasca da regalare al solito contadino con cuiscambiavi un saluto ogni mattina. Poi l’incontrocon i tuoi assassini, cinque o sei ragazzi che, no-tandoti per caso nel cortile di una cascina, nonsapendo come agire, ti uccisero e subito si pre-occuparono di spogliarti della tua giubba, delcappello e degli stivali: trofei da mettere in mo-stra. Il tuo splendido cavallo proseguì la sua stra-da fino alla caserma, dove, così, si accorserodella tua scomparsa. Cominciò la ricerca: l'in-tenzione era di trovarti e di punire chiunque po-tesse avere a che fare con la tua uccisione ; tut-tavia, forse, non ti cercarono molto, pensandoche fossi scappato o che avessi tradito. Nessuno

Adisperso

LucreziaBARAVALLE - II ALiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

66

ti trovò, se non parecchio tempo dopo. Non mo-rirono, così, per colpa tua civili: ti farà piacere,credo.A un certo punto, grazie all' aiuto decisivo del mioamico tedesco Cristoph, di Carlo e di altri colla-boratori, la svolta decisiva: il tuo nome, riemersodagli archivi della Croce Rossa tedesca. Da quiin poi tutto si fece più chiaro, riuscii ad accede-re ad altri archivi, nei quali trovai addirittura unatua foto: quella di un uomo alto e magro con icapelli ondulati... ma è lo sguardo che mi colpì:sensibile, come quello di un bravo ragazzo.La priorità ora, però, diventò un' altra: quello cheper tutti era il "tedesco buono" era comunque unufficiale, impegnato anch'esso nella Guerra epronto, presumibilmente, ad ubbidire agli ordini,anche i più crudeli.Era necessario parlare con chi ti conosceva ve-ramente, per capire chi in realtà tu fossi.Cominciai così una serie di incontri con i tuoi ami-ci e parenti. Il ritratto che ne emerse è quello di un ragazzobuono, spensierato e non un guerrafondaio, co-me speravo e, in fondo, sapevo. Ho scoperto,inoltre, che anche tuo fratello ha subito il tuo tri-ste destino e che la tua famiglia, a causa di que-sta grave perdita, non era favorevole al nazio-nalsocialismo.Eri un ragazzo come tanti, Rudolf Knaut, spen-sierato e pieno di voglia di vivere, nato in un pe-riodo tragico: sfogavi la tua giovinezza con letue passeggiate a cavallo, tante volte rimpro-

verate dai tuoi superiori, forse per tornare a con-tatto con una realtà che ti sembrava lontanadalle storture di un periodo triste e inconcepibi-le.Troppo spesso si dimentica di sottolineare il fattoche anche tra i "cattivi" erano, e sono, innume-revoli le vittime del loro stesso destino: storie di na-zioni e di popoli segnati da una linea di sanguee cattiverie.Non so se eri veramente un "buono", non sono riu-scito a scoprirlo, ma di sicuro non eri un "cattivo";stavi seguendo il tuo destino, come tanti altri,senza accanirti contro i più deboli. Senza questainutile guerra, magari, saresti diventato un av-vocato, come aspiravi a fare... chissà!Questo libro che ho scritto, raccogliendo la tuastoria, che può essere quella di tanti altri come te,in fondo è un canto di speranza: anche nei mo-menti più bui, affiora nell' essere umano uno spi-raglio di bontà e di umanità, che, di sicuro, sem-pre vincerà. Tu, che sei morto in un ambienteche giudicavi "più di pace che di guerra", sei ilsimbolo di tutto questo.Vorrei averti conosciuto di persona e aver avutol'occasione di fare una chiacchierata con te da-vanti a un bicchiere del nostro buon vino, checertamente apprezzavi. Sarebbe stato, sicura-mente, un utile scambio di idee. Purtroppo, pe-rò, durante le guerre non ci si ascolta mai, ci siodia soltanto.

Nuto

PROSA altri finalisti

ElisaMASSIMINO - II BLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

67

Alessia TROMBIN,Serena COSTANTINO Classe I A

Liceo Classico “Arimondi” - SAVIGLIANO

a prima volta che sentiila parola “omosessuale”risale a una ventina dianni fa. Ricordo per filoe per segno il tono di-

spregiativo delle parole di mia madre.All'epoca, insofferente come qualunque bambi-no a tutto ciò che non mi riguardasse diretta-mente, subito dopo il pasto, ancora libero daicompiti, correvo fuori a giocare a pallone mentrei miei genitori si attardavano a tavola. Riservaticom'erano mantenevano sempre un tono bassoe affrontavano argomenti che in mia presenzasarebbero stati assolutamente impensabili. Maquel giorno, sorpreso dalla pioggia durante il miogioco, mi ritrovai in casa prima del solito e colsiuna conversazione che alle mie orecchie di bam-bino suonò particolarmente strana.“... mai immaginata.” disse la voce di mia mam-ma con un tono che mi era sconosciuto.“Eppure sembrava un così bravo ragazzo” gli fe-ce eco col medesimo tono la voce più profondadi mio papà.“Ma non se ne accorgono i suoi genitori che stan-no assecondando un capriccio? Non so cosa fa-rei se fossi al posto loro... ma di sicuro non andreiin giro con quell'aria tutta orgogliosa da 'Sonouna mamma tollerante, guardate mio figlio èomosessuale!”In quel momento vidi, riflesso nel vetro della por-ta dietro cui mi ero nascosto, l'ombra in avvici-namento di mio padre e scappai. Ma quella pa-rola, lungi dall'essere dimenticata, assunse nellamia testa la forma di un enorme punto interroga-tivo, un chiodo fisso che mi tornava a trovare neimomenti più impensati. In realtà ciò che mi tor-mentava, più della parola in sé, era il tono utilizzatoda mia madre nel pronunciarla: sputata fuori dal-le labbra come un qualcosa di aspro e sbagliato.Crebbi pensando che omosessuale significassemalato.Con gli anni affrontammo alcune volte l'argo-mento, ma mai di petto. Religiosi com'erano, mi in-culcarono in testa l'idea che l'amore fosse esclu-sivamente quella fra uomo e donna, tutto il restoera irragionevole e sbagliato. Non gliene facciouna colpa, la loro mentalità chiusa vedeva ogni

cambiamento come un potenzia-le rischio e nella loro ottusità cer-cavano solo di proteggermi.“Sig. Revelli, abbiamo preso in con-siderazione la sua domanda. Sa-

remmo lieti di averla con noi, ma, per tradizione,deve prima darci prova della sua bravura. Lechiediamo di scrivere per noi un articolo”. L'uomodi fronte a me inarca brevemente le sopracci-glia, senza distogliere lo sguardo dai miei occhi.“Sempre se se la sente.”Devo trattenere la risata che incredula mi sale al-le labbra. Quest'uomo mi sta davvero chiedendose sono disposto a scrivere un articolo, che è esat-tamente ciò in cui consiste il lavoro di giornalista,ovvero quello che voglio fare per il resto dellamia vita? “Certo che me la sento” rispondo con si-curezza e un filo di spavalderia. Non mi sembra ve-ro di poter realizzare così facilmente il sogno diuna vita. Mi vedo già come un affermato gior-nalista, invitato ai talk show e pienamente soddi-sfatto di me stesso.“Bene”. Si toglie gli occhiali, e guarda per un at-timo il riflesso delle luci sulle lenti- poi se li rimette,come se avesse appena preso una decisione fon-damentale. “Il tema sarà l'omosessualità”.In un secondo torno ad essere il bambino di cin-que anni nascosto come un ladro dietro una por-ta, a sentir pulsare quell'enorme punto interroga-tivo in testa.Quando esco da quell'ufficio, a malapena mi ac-corgo di essere finalmente all'aria aperta e comein trance penso e ripenso a quali sono state le in-dicazioni del mio forse futuro capo.Tornare a casa è completamente escluso, vista lafrenesia degli ultimi giorni scatenata dall'annunciodel mio imminente matrimonio con Giulia, e allostesso modo lo è andare a casa sua. Mi rimane so-lo Cristopher. Fidato amico e promettente foto-grafo, ci siamo conosciuti cinque anni fa all'uni-versità. Io, chiuso e riservato, non sembravo (enon sembro tutt'ora) aver nulla da spartire conlui, socievole e tremendamente estroverso. Ma almomento penso che sia il mio amico più caro.Anche se sorpreso, mi accoglie in casa sua e do-po avermi ascoltato, come immaginavo, ha su-bito una soluzione. “Quindi ti serve qualcuno da in-

LUN DISPERSOCOME TANTI

Dopo aver letto “Il disperso di Marburg”, abbiamo reinterpretato in chiave moderna la storia di un di-sperso in una guerra attuale, che molti si trovano a combattere.

68

tervistare?” Al mio cenno affermativo, Cristopherfa spalluccia. “ Allora non capisco qual sia il pro-blema. L'omosessualità non è più così nascosta,non è difficile trovare chi fa al caso tuo”. Quasicon vergogna ammetto di non conoscerne nes-suno. E Cristopher è un osservatore troppo atten-to per non capire che provo disagio a parlarne.Come spiegare questa mia autocensura a lui cheinvece per il suo lavoro è notoriamente più tolle-rante di me.Ma evidentemente Cristopher percepisce la miadifficoltà e senza bisogno di aggiungere altroprende l'iniziativa: “Se vuoi conosco delle perso-ne che potrebbero esserti d'aiuto per l'articolo”.Così il giorno dopo ci siamo trovati in un club del-la periferia di Milano, che difficilmente frequento,notoriamente gay. La prima persona a venirci in-contro è un ragazzo, jeans, maglietta e scarpeda ginnastica, ha una sigaretta che gli pendedalle labbra e ci squadra con diffidenza. Anzi,squadra me con diffidenza. Stringe la mano a Cri-stopher e ci fa accomodare in un tavolino in unazona un po' appartata, dove la musica è menoassordante. Dire che mi sento a disagio sarebbeun eufemismo, ma cerco di contenermi. Sembrache tutta la spavalderia che dimostro nel fare ilmio lavoro sia svanita.“Al telefono ieri ti ho già spiegato perché sarem-mo venuti” comincia Cristopher misurando le pa-role.Senza aver ancora distolto lo sguardo da me ilragazzo prende la parola: “Ci serviva proprio l'en-nesimo giornalista che utilizzasse il tema del-l'omosessualità solo per fare il moralista. Non ti da-rebbe fastidio se fingendo di parlare di ugua-glianza anche verso le persone come te, ti dipin-gessero sempre e comunque come il diverso?Perché non fanno articoli su chi è contro l'etero-sessualità?”A malapena noto il fatto che mi abbia subito da-to del tu, investito dalle sue parole e dal suo tonodi accusa per nulla celato. Impiego qualche mi-nuto a riprendermi, ma finalmente ritrovo le parole:“Credimi, se potessi mi sottrarrei anch'io a que-sta tortura, ma è il prezzo che devo pagare per in-seguire il mio sogno.” Forse le mie parole sono for-ti, ma ho immediatamente capito che con que-sto ragazzo o si parla chiaro o è meglio non par-larci affatto. Il fatto che io gli abbia risposto con lostesso tono con cui lui ha usato con me sembra alcontrario renderlo più socievole. “In tutta fran-chezza, a me sembra che stiano cercando di far-ti fuori, più che di darti una possibiltà. Al giornod'oggi non c'è tema più insidioso”. Questo so-spetto mi coglie di sorpresa: nello stesso istantein cui la mia mente comincia a negare che ciò siapossibile, che davvero il loro obiettivo sia quello diostacolarmi, capisco che in qualche modo l'ave-vo già pensato anch'io. Cristopher vede il dubbiofarsi strada nei miei occhi e cerca di rassicurarmi:“Resti comunque un bravissimo giornalista, devi so-

lo cercare di essere originale”. Io e il ragazzo (pri-ma o poi saprò come si chiama) sbuffiamo qua-si simultaneamente. "Come ho già detto prima, es-sere originali su questa tematica è ormai un'im-presa difficile." Christopher sorride, sicuro di sé."Anche se non sembra, Matteo è davvero un bra-vo giornalista. Devi solo dargli materiale." Per la pri-ma volta in tutta la mia vita mi sento timido, sot-to lo sguardo scrutatore del ragazzo. "In effettinessuno parla mai di ..." Fa un sospiro, come sestesse decidendo se continuare. Qualcosa nelmio sguardo però lo convince."Di quanto sia difficile, non solo il processo di ac-cettazione personale e altrui, ma anche il dopo.Ci si sente... Dispersi." Il mio spirito da giornalistaspazza via ogni mia riserva e mi sporgo in avantiverso di lui. So che sente il bisogno di dirmi altro."Hai qualche esempio? Qualcuno di cui vuoi par-lare?" Mi fissa sorpreso e penso di aver detto trop-po. Sono riuscito a rovinare tutto?“C'è un ragazzo.. .Nessuno di noi qui sa esatta-mente come si chiami. Veniva spesso al club. Hasui diciotto, vent'anni. Lui è il classico esempio diqualcuno che è disperso. Cioè prima lo era solopsicologicamente. Mi ha raccontato che la suafamiglia ha impiegato molto tempo anche solo acapire cosa potesse spingerlo a diventare gay.Come se fosse una scelta." È chiaro dalla suaespressione che sa esattamente di cosa sta par-lando. Aspetto che continui a raccontare, e il mioarticolo comincia a prendere forma quasi di suaspontanea volontà nella mia testa.

UN DISPERSO COME TANTIStoria di un ragazzo alla ricerca di se stesso.Giacomo nasce negli anni 90 nella periferia mi-lanese da una famiglia di operai, che riesce co-munque a garantirgli un'infanzia felice che ognibambino dovrebbe avere. È timido, ma a scuo-la si fa comunque parecchi amici, grazie al suosorriso sincero e ai suoi modi gentili. A scuola vabene e le sue fossette fanno sì che si faccia an-che qualche fidanzatina con l'innocenza deibambini quando vogliono imitare i "grandi" Lasua confusione comincia nelle medie quando sitrova all'improvviso di fronte alla consapevolezzache nelle ragazze trova delle grandi amiche manon ciò che gli altri gli spiegano di provare allaloro presenza. Si sente diverso, sbagliato. I suoi ge-nitori sono gente semplice, non gli hanno maiparlato di nulla del genere e spesso di fronte a di-scorsi simili chiudevano le orecchie e passavanosemplicemente ad altro. Non sa con chi parlare,ma soprattutto, cosa può dire? Le cose si com-plicano ulteriormente quando in prima superio-re conosce Marco. È un ragazzino dagli occhiblu, sempre gentile e disponibile con tutti, e concui lega parecchio. Solo che improvvisamentecapisce che quello che prova non è solo amici-

69

zia. Vorrebbe abbracciarlo più spesso, parlarglisempre, dirgli tutti ciò che ancora non gli ha det-to. Sente di voler passare il suo tempo con luicome non ha mai voluto fare con nessuno. Si ri-fiuta di credere a quello che è così evidente, cer-ca di nascondere a fondo le sue sensazioni, diignorarle. La svolta avviene quasi per caso. Fini-ta una partita di calcetto, una delle tante cheorganizzano tutti i sabati da quando si conosco-no, si ritrovano sulla stessa panchina, in attesadei genitori. Marco ha i capelli spettinati, il suo so-lito sorriso e cerca di far sparire l'espressione tri-ste che vede ormai da tanto sul volto dell'amico.Ed è in quel momento che Giacomo alza il visoe se lo ritrova vicino. Troppo. Non riesce a capirepiù esattamente cosa stia facendo, e protendequasi involontariamente la testa verso quella del-l'amico. È un attimo: le loro labbra si sfiorano.Giacomo non pensa più a niente, Marco si alzae gli dà uno spintone. Lo fa ruzzolare a terra, e di-stoglie lo sguardo, come disgustato. "Che fai?"Chiede, strofinandosi la manica della giacca sul-le labbra. "Che cazzo fai???!" Giacomo è a capochino, fissa le sue mani a terra, si sente il cuoreesplodere, la testa pulsare. Non può rispondere.Non sa cosa rispondere. Sente solo il battito for-tissimo del suo cuore nelle orecchie. Marco sivolta un attimo, sente il rumore di una macchinama non svolta dove sono loro. Quando si rigiraGiacomo non è più li. Nemmeno Giacomo sapiù dov'è. Anni dopo Giacomo racconta la stes-sa storia in un locale. È cambiato, Giacomo, si èaccettato, almeno un po', per quello che è. Hatrovato degli altri amici, che lo accettano. È cre-sciuto, ne ha parlato con i suoi genitori. La partedifficile sembra essere passata. Giacomo sorri-de, ma Giacomo non è lì. Giacomo è ancoraai piedi di quella panchina, con le mani e lamaglia sporca di terra, a fissare il disgusto negliocchi blu di Marco. Giacomo, ma potremmochiamarlo Stefano, Roberto, Giulio, potrebbe es-sere più giovane, più vecchio, biondo, più basso,più alto, è un disperso. Un disperso come tanti.

Un anno dopo l'uscita dell'articolo, mi ritrovo so-vrappensiero a sfogliare l'ultimo numero del gior-nale per cui lavoro. Salto senza problemi la parterelativa alla politica e do una lettura veloce aquella economica prima di notare Giulia, il pan-cione ormai ben visibile, attraversare la stradaper raggiungermi nel bar in cui la sto aspettando.Mi alzo sorridendole e il mio sguardo cade quasiper caso sul giornale, che ho lasciato aperto sultavolo. Ad attirare la mia attenzione è un trafilet-to piccolo e quasi invisibile tra le pubblicità colo-rate e i fatti di cronaca su cui qualche mio colle-ga ha abilmente ricamato sopra. Non riesco asmettere di leggere:

Suicida un altro giovane gay: "Sto male in questasocietà". 21 anni, si lancia dall'undicesimo pianodi un ex pastificio.Non ho bisogno di leggere altro. Chiudo con unoscatto il giornale, non capisco nemmeno benecosa provo. So, come qualcosa di certo e indefi-nibile, che quel ragazzo, il suicida come vienechiamato per tutto l’articolo, è Giacomo. Il “mio”disperso.L’ho ritrovato, eppure ho l’impressione che sia sta-to lui, semmai, a trovare me.Realizzo improvvisamente che non sono stupito.Solo un po’ amareggiato, ma è come se dentrodi me avessi sempre saputo che sarebbe finitacosì: che quel ragazzo mite dal cuore fragile sisarebbe fatto schiacciare da ciò che gli altri nonaccettavano che fosse.In un attimo di lucidità mi rendo effettivamenteconto che potrebbe non essere lui, potrebbe es-sere chiunque altro. Chi mi dice che sia Giacomo,sempre che questo sia il suo vero nome? E’ dav-vero così importante?Ho raccontato la storia di Giacomo, che è la sto-ria di tanti. Sono cambiato per questa stessa sto-ria. Mi sono messo in gioco come non avevo maifatto e di questo devo ringraziare qualcuno chenon ha mai saputo probabilmente della mia esi-stenza, che non avrebbe saputo dire chi ero ve-dendomi in una folla. Lo stesso per me: magariGiacomo mi è passato accanto, un giorno qua-lunque della nostra vita, magari l’ho guardatonegli occhi, magari ho pensato qualcosa di co-m’era vestito, di come fosse il suo sorriso. Non pos-so più saperlo, non voglio più saperlo.L’unica certezza è che proprio lui, disperso co-m’era, ha fatto sì che io mi ritrovassi. Io che pen-savo davvero di essere nel posto giusto, al mo-mento giusto, con l’atteggiamento giusto.La gratitudine mi invade: mentre mi alzo e sorridoa Giulia, cerco di ricompormi.Spesso d’ora in poi tornerò a pensare a Giacomo,al poco che sapevo di lui, al poco che mi servivaeffettivamente per smettere di essere, a mia vol-ta, un disperso. Ogni volta mi tornerà in mentecon una chiarezza allucinante quella maledettapanchina, quella polvere in cui il Giacomo ra-gazzino aveva stretto i pugni, trattenendo il dolo-re e cominciando ad andare alla deriva. Mi ba-lenerà in mente il sorriso amaro che probabil-mente aveva, prima di compiere quell’ultimo ge-sto, come il segnale di un destino crudele, di unavita sprecata, di una resa.

70

Rachele VADA Classe IV Liceo Scientifico “G. B. Bodoni” - SALUZZOe era un tedesco, unodi quelli di allora, per-ché tutto questo tuointeresse?” (1)

La guerra. Che cosane sappiamo noi? Noi, che vediamo al telegiorna-le una striscia di deserto, un carro armato e dei ka-lashnikov a tracolla in mezzo al nulla, che siamobombardati da nomi, troppo lontani per non esse-re dimenticati. Noi, che guardiamo film al cinema,dove la morte è un’avventura romantica, che se-guiamo le serie televisive criminali, dov’è fanta-scienza, che avviamo uno sparatutto, dov’è un gio-co. Non possiamo pretendere di capire. Forse pos-siamo studiarne le cause, gli eventi, gli esiti. Maga-ri scoprirne le verità più segrete. Ma non sapremomai cosa vuol dire viverla sulla propria pelle.Perché la guerra è anzitutto e soprattutto omicidio.Altrimenti? Cosa, se non un deliberato attentato al-l’Essere uomo, un annichilimento fisico e psichico?Questo furono le due Guerre Mondiali. Poi qualcu-no aprì gli occhi e stilò uno dei documenti di piùprofonda umanità della storia, la Dichiarazione Uni-versale dei Diritti dell’Uomo. Curioso come, dallapiù totale brutalità, possa sorgere uno dei capisaldimondiali di giustizia. Ma è ancora un universo pa-rallelo, di decisioni prese alla scrivania, di tante bel-le parole di chi comanda le masse. Riconosciamo idiritti e finiamola lì. Abbiamo fatto il nostro lavoro, unbuon lavoro, anche, quindi possiamo metterci lacoscienza a posto. Poi Nuto Revelli, scrittore ed expartigiano, ne Il Disperso di Malburg, scrive: “Mi ado-rava, mio padre, ma aveva capito ben poco diquanto mi era successo. (…) più insistevano più michiudevo in me stesso. A volte mi rifugiavo nellamia stanza e come pensavo ai Grandi, ai Perego, aiTorelli, mi sentivo più solo che mai, e piangevo, pian-gevo. Una parte di me era rimasta là con loro, persempre” (2) e ancora “Sì, ero tornato diverso dalfronte russo: solo la ribellione mi dava la forza di vi-vere. (…) Nelle retrovie del fronte russo, dopo il di-sastro della ritirata, non pochi di noi avevano cer-cato un dialogo con la popolazione, con la gentedelle isbe di cui eravamo ospiti. Era l’unico modo perriaggrapparci alla vita” (3). Allora si inizia ad intuire larealtà com’è stata davvero, grazie all’abilità tuttaparticolare della letteratura e di alcuni autori di sa-per descrivere la psiche umana non con lessico ap-propriato o aggettivi calzanti, ma particolari o frasidi testimoni che creano un’immagine che colpisceil bersaglio e tocca l’anima.Ma è quando un testimone dice, parlando di quelmilitare tedesco, quello che già Marco, l’amico diNuto, aveva citato, “era una persona gentile, un

bell’uomo, un distinto enorme” (4), chesi capisce da dove nasca questo desi-derio, a rigor di logica completamenteinnaturale, di tornare indietro, rivivere,cercare, scoprire. Perché rievocare tut-

ta quella sofferenza? Perché ciò che ha reso leciti lemorti, i lutti e le torture, cui si è prima accennato, era-no le idee. Quello che forse stupì chi si mise a ri-guardare con occhio lucidamente oggettivo la pro-pria esperienza era questo: ognuno aveva il pro-prio ideale, ma lo si poneva su un piedistallo. Chi eranemico era giocoforza nel torto. Poi tutta l’erba di-ventava un fascio: (con un ex partigiano belga)“Esistevano dei tedeschi buoni?” “No, nessun te-desco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insiemenon buoni.” (5)

È in questo viaggio, quasi paradossale, alla ricercadi un nemico buono fra i propri alleati, di un op-pressore inoffensivo tra gli oppressi, che spuntanoquesti contrasti.Poiché da un qualche punto si deve pur comincia-re, prima gli “ospiti”. Il che è tutto dire, perché i te-deschi non erano certo venuti in Italia con ciocco-latini e una bottiglia di Champagne. Erano lo stra-niero giunto a portare la guerra, l’alleato che si eratrasformato in un nemico spietato.D’altronde, erano venuti lì a fare proprio quello: laguerra. Ai partigiani, alla popolazione, agli italiani, so-prattutto dopo l’8 settembre. Verso la fine del libro diNuto Revelli, si legge proprio questo, una fredda va-lutazione di chi doveva essere, sempre e comun-que, quel Rudolf Knaut, quel “tedesco buono”: “An-che lui vestiva l’uniforme con l’aquila nazista. Se luinon fosse morto allora chissà, forse un giorno o unasettimana dopo avresti potuto trovartelo di frontecome comandante di un reparto di rastrellatori nel-le tue valli; oppure se tu fossi caduto prigioniero, for-se sarebbe toccato a lui comandare il plotone diesecuzione” (6). È sconvolgente, dopo tutte quellepagine di intima ricomposizione di quella persona, alquale pian piano autore e lettore si affezionano,questa fredda e razionale osservazione, con unavena di brutalità, ancora di più se si accetta che èindubbiamente la pura, oggettiva verità.Poi c’è la forte invettiva contro i partigiani, dettatada chi non aveva potuto imbracciare un fucile perla nobiltà del difendere i propri cari o opporsi adun regime, ma era dovuto restare a casa e fatica-va già a imbastire la tavola per il giorno successivo,senza bisogno della minaccia che una pallottolaben mirata o le spavalderie di ragazzotti potesserotogliere tolto ai famigliari chi dava loro una fonte disostentamento. Così commenta un contadino: “Sti’partigiani se ne stessero un po’ in montagna. Sì, sì, è

“SIL GIUOCODELLE PARTI

PROSA altri finalisti

71

guerra. Ma vengono giù, ammazzano un capita-no, e poi magari va a finire che i tedeschi si vendi-cano, e ammazzano tuo padre, tua madre e tua so-rella” (7). E poi chiedo a mio nonno com’era davvero,a lui che sognava i mandarini per il Natale, un po’di zucchero alla domenica, e mi sento dire che untedesco, se non impegnato in rappresaglie, passa-va salutando allegramente chi lavorava nei campi,mentre i partigiani facevano incetta di bestiame edi grano, proprio quel sacco, quel singolo, che pe-rò, mancando dalla denuncia, poteva valere unbiglietto in treno per la Germania. Questi erano ipartigiani, al di fuori degli ideali e della ribellionead un regime dittatoriale e oppressivo? O questa erala guerra?D’altra parte, ci sono le attenuanti per entrambe lefazioni. I partigiani esprimono il loro punto di vista,un’opinione su ciò che alcuni gesti significaronodavvero, direttamente dalle bocche di chi li avevacompiuti. “Era legittimo ammazzare i tedeschi (…)evitando però, per quanto possibile, le rappresa-glie. Noi rispettavamo le popolazioni, le difendeva-mo dai banditi. Li fucilavamo i banditi, anche semettere al muro un ragazzo di vent’anni perchéaveva rubato un vitello o una fisarmonica era più dif-ficile di quanto non si creda” (8). Renzo, della bandache uccise Rudolf Knaut, lamenta: “Troppa gentenon sa o non ricorda, per cui diventa sempre più fa-cile dare sempre e comunque tutte le colpe ai par-tigiani. E i tedeschi? E le brigate nere? Loro sì cheerano feroci” (9). Troppo spesso si riversano le colpesu bersagli facili, su capri espiatori che, se non sonoimmacolati, non sono neanche gli unici imputabili.Lo scrittore fa la stessa operazione, appena torna-to dal fronte russo: “Li odiavo a tal punto, i tede-schi, che al solo vederli mi saliva il sangue alla testa.Li consideravo, sbagliando, gli unici responsabili delnostro disastro.” (10)

Poi Christoph, il giovane tedesco con la guerra nelcervello, che mette anima e corpo in questa ricer-ca, apologizza i propri connazionali: “La tragedia èche con la tremenda disciplina sono riusciti a pie-gare anche quelli che non avevano la forza di resi-stere. Abbiamo pochi ribelli in Germania, per tradi-zione, per cultura dell’obbedienza, per conformi-smo” (11). Allora, da imputare non sarebbe chi pun-tava la canna del fucile, ma chi gli aveva fatto unlavaggio del cervello. Guardando immagini dei cor-tei rigidamente millimetrici della Germania nazista,non è difficile capire come. È però vero che nessu-no ha, fisicamente, premuto quel dito che poggia-va già sul grilletto. Ogni pallottola è partita per la vo-lontà di chi imbracciava l’arma.Vengono tirati in ballo anche i russi, dei quali prima,in una nota a piè pagina, si parla così: “Sono arrivatianche i russi, tutti ubriachi. Ammazzavano e incen-diavano, sembravano bestie. Sono peggiori dei te-deschi” (12). Poi diventano degli sbandati torturati elasciati a se stessi: “I prigionieri russi. I tedeschi nehanno lasciati morire di fame, di freddo e di stenticentinaia di migliaia.” (13)

In ultima istanza, la popolazione contadina. Se ne ègià parlato, ma proprio mio nonno ha raccontato unepisodio emblematico di ciò che voleva dire esse-re in guerra ma non combatterla. Mentre la sua fa-miglia serviva un po’ di minestra ai partigiani (che sierano invitati senza fare troppe cerimonie), con unmucchio di armi buttate su un pagliaio, avevano tra-scorso attimi di terrore vedendo apparire nell’aiaun paio di camion tedeschi. Non potendo dire nul-la ai propri commensali per il timore che ingag-giassero una sparatoria, non avevano potuto faraltro che pregare che il convoglio si allontanasse(cosa che poi, in definitiva e per chi fosse diventa-to curioso, avvenne, senza spargimenti di sangue).Stretti tra due fuochi, senza la forza di opporsi, atentare di rimanere in vita fra un raccolto andato amale e un gruppo di militari.Si potrebbe andare avanti all’infinito, in questo gio-co alternato di accusa e difesa, nessuna schiac-ciante, nessuna assolvente. A peggiorare il tutto, i su-perstiti non restano soli con se stessi, a scontare unavita carica dei ricordi, dei volti, delle urla di un in-cubo durato anche troppo, che rimbomba e si am-plifica nella testa di chi sa che non potrà condivi-dere la sua esperienza per davvero, perché verràcriticato o non sarà compreso. No, ci sono tribuna-li, folle di persone che hanno scagliato la pietra e,nascondendo la mano, accusano, ancora e an-cora. Insinuano il dubbio e il rimorso che portano,detto con parole di Nuto Revelli, ad “autotorturar-si”, a cercare, per giudicare anche se stessi e attri-buirsi colpe che fino a prima, fino a quando il te-desco non era buono, ma semplicemente il nemico,non c’erano.Si potrebbe tirare in ballo Socrate, il suo intellettua-lismo etico, l’idea che nessuno fa il male convintoche sia veramente il male, si potrebbe dire che erail momento, che l’alternativa era colpire o esserecolpiti, si potrebbe incolpare il singolo individuo. Larealtà è che bisogna condannare la guerra, in ge-nerale. Bisogna biasimare l’innata tendenza umanaa combattere per il potere o per i soldi, a pagarequalsiasi cosa con qualsiasi numero di vittime, a na-scondere enormi fini meschini sotto la forza delleideologie degli umili, che diventano solo un modoper nobilitare, per giustificare la morte di migliaiadi persone. Un'insegna che serve solo a sapere dache parte schierarsi, basta che si combatta.La guerra è un’atrocità, un massacro dei diritti del-l’identità umana. Se qualcosa si può imparare daquesto arazzo di diverse opinioni è che ognuno hala propria e siamo tutti uguali, tutti fratelli, proprioperché ognuno è individuo, perché l’essere diversi ciaccomuna gli uni agli altri ed è questa diversità, atratti orribile, a tratti bellissima, che dobbiamo ancoraimparare a comprendere. È forse questo che piùsconvolse chi scoprì poi, nel nemico che aveva im-parato ad odiare per mille ragioni, un ragazzo, ma-gari, con alle spalle un’esperienza del tutto similealla propria. Lo shock della guerra sul fronte russo, adesempio.

72

Ma perché, poi, bisogna proprio dare una colpa,formulare un’accusa definitiva indirizzata ad un pre-ciso qualcuno? Far scontare una pena, anche unapena capitale, mai e poi mai restituirà la vita a quel-le ossa sui monti partigiani, o nella terra di nessunotra due trincee nel gelo della Russia. Sarà, invece,più importante cercare di apprendere, di com-prendere ed infine di ricordare, per costruire ed evi-tare che le stesse cose si ripetano. “Negli anni ’80 sifacevano delle grandissime manifestazioni in Ger-mania per la ricorrenza “Mai più!” (…) Cortei bellis-simi, pieni di entusiasmo e fantasia. Erano manife-stazioni quasi spontanee, per questo così belle. Og-gi, invece, niente. Qualcuno dei nostri politici diràquattro parole insulse. I tempi sono drammatica-mente cambiati” (14). Questo scrive Christopher par-lando della sua Germania, ma è vero ovunque, or-mai. Non è proprio una politica oscurantista, una si-mile affermazione suonerebbe molto complottista.

E' un sentimento molto diverso, che si diffonde nonfra alte sfere, ma fra la gente. Anzitutto, queste co-se sono lontane: nello spazio, quelle da cui do-vremmo imparare, nel tempo, quelle che dovrem-mo evitare, quindi nessuno ci pensa più. In secondoluogo, sebbene sia ormai da secoli chiaro che l'uto-pia della "pace nel mondo" sia un'insieme di vaneparole, chi ancora ci crede, si trova davanti unarealtà contraddittoria: sperare in questo modo dievitare guerre che, evidentemente, non avrannomai una fine e continuano a susseguirsi senza fine.Eppure, ricordare è l’unica cosa che si può fare,l’unica strada per sganciarsi davvero da un passa-to di orrori che ciclicamente si ripete. “Volevo che igiovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi.Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nel-l'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "ge-nerazione del Littorio".” (15)

Questo disse Nuto Revelli.

FONTI:

1. Nuto Revelli, Il Disperso di Marburg, Torino, Einaudi 1994 pagina di diario del 3 luglio 1986

2. Ibidem _ 5 ottobre 19883. Ibidem _ 28 dicembre 19924. Ibidem _ 3 luglio 19865. Ibidem _ 25 luglio 19896. Ibidem _ 5 maggio 19927. Ibidem _ 7 gennaio 1990

8. Ibidem _ 2 agosto 19869. Ibidem _ 20 settembre 199010. Ibidem _ 5 ottobre 198811. Ibidem _ 26 luglio 198912. Ibidem _ 31 luglio 199113. Ibidem _ 22 febbraio 199214. Ibidem _ 10 settembre 199315. http://it.wikipedia.org/wiki/Nuto_Revelli

Irene CRAVERO - IV DLiceo Artistico “Ego Bianchi” - CUNEO

73

Jessica PIOLiceo Artistico “Pinot Gallizio” - ALBA

Tommaso CARONI - Andrea CERATO - Abu RIASH Jr. - IV CLiceo Scientifico “G. Peano” - CUNEO

74

1º premio

Kim RASCHKEThalia Alexandre CHANDRAGymnasiale Oberstufe am Leibnizplatz - BREMA

LAVORI DELLESCUOLE TEDESCHE

la motivazionentenso video che, utilizzando il metodo dell’intervista e della ricerca appresodalla lettura del testo di Nuto Revelli, raccoglie testimonianze significative e toc-canti, integrate con brani di documenti storici e citazioni di testi.”

ilm von hoher Intensität, der mit der Methode des Interviews und der histori-schen Forschung auf der Grundlage von Nuto Revellis Buch realisiert wurde.Er enthält bedeutungsvolle und bewegende Zeugnisse, die durch histori-sche Texte, Zitate und Dokumente ergänzt werden.”

“I

“F

Beurteilung des Beitrags:

Ci ripetevano in continuazione che gli in-glesi, i francesi e i russi erano i nostri nemici.Naturalmente in particolare noi bambini li

immaginavamo come esseri terribili. Ovun-que c’erano manifesti che ci mettevano inguardia: il nemico ti ascolta, e vedevamo

avorando a questo progetto ci siamo occupati prevalentemente del problema deipregiudizi. Non avremmo mai pensato che questo progetto ci potesse commuove-re e coinvolgere in una maniera così forte. Cogliamo l’occasione per ringraziare tut-te quelle persone che ci hanno concesso uno sguardo sulle loro vite, perché all’epoca

soprattutto i bambini hanno dovuto sopportare molto dolore. Kim e Thalia

L

La seconda guerra mondiale- Percezioni e prospettive -

Riportiamo, qui, di seguito, un brevissimo assaggio del lavoro condotto da Kim Raschke e Thalia Ale-xandre Chandra che, purtroppo, non permette di cogliere né la mole di lavoro né lo spessore cultu-rale dell’indagine condotta. Il lavoro originale consiste, infatti, in un Video di un’ora e un quarto di in-terviste inedite a testimoni della seconda guerra mondiale in Germania, alternate a filmati d'epocache illustrano il periodo storico a cui si riferiscono tali interviste. Completa il lavoro una ricca bibliografia.

Es folgt ein kurzer Ausschnitt aus der Arbeit von Kim Raschke und Thalia Alexandre Chandra. Leider kön-nen diese wenigen Zeilen dem Fleiß und dem hohen kulturellen Wert der durchgeführten Untersuchungin keiner Weise Rechnung tragen, denn die Arbeit besteht aus einem Film von 75 minütiger Dauer undenthält unveröffentliche Interviews mit Zeitzeugen des zweiten Weltkriegs, ergänzt durch eingeblendeteshistorisches Filmmaterial über die Ereignisse, auf welche die Interviews Bezug nehmen. Abgerundet wirddie Arbeit durch eine reiche Quellenangabe mit vierseitiger Bibliographie.

75

immagini di quelle persone con lo zaino, fi-gure malvage con gli artigli che ci faceva-no un po’ paura, ma alla fine non ti restavaaltro che accettare tutto ciò cheti propinavano. Non potevi farenulla a quell’epoca, le cose era-no così com’erano. (…)L’immagine della superiorità del-la razza tedesca e dei suoi solda-ti fu rafforzata dall’invio di ufficia-li super decorati della Wehrmachtnelle scuole e nei gruppi della gio-ventù hitleriana. Si vantavano constorie di eroi e facevano colpo suiragazzi. Nessuna parola sugli ster-mini di massa e sulle sconfitte. (…) I nazisti creavano immagini ne-gative del nemico con l’aiuto del-la propaganda e le inculcavanoalla popolazione. (…)I miei genitori, soprattutto mia ma-dre erano fortemente contrari alregime. A volte mia madre si ve-deva già con un piede nella pri-gione perché faceva diverse co-se che non avrebbe dovuto fa-re. Mio padre era più prudente,anche se nemmeno lui era favo-revole al regime. Ma i miei vede-vano già allora cosa succedevasulla strada quando arrivarono gliuomini della nettezza urbana cheerano lavoratori stranieri, affamatie assetati. Così mia mamma la-sciava loro dei succhi, perchéavessero da bere, soprattutto inestate. E i vicini, fedeli al regime, lavedevano e naturalmente si op-ponevano dicendo che se loavesse rifatto sarebbe successoqualcosa. Fu così, non si potevaparlare perché se si diceva trop-po poteva succedere qualcosa.Ma lei se l’è cavata, e io, grazie alfatto che lei parlava sempre inmodo molto franco e aperto connoi, venni a sapere molte cose. E mi accor-si che tutto questo non era buono. Ma capiigià da bambina che non era permesso par-

larne. Non ne parlai mai con nessuno. Lo te-nevo dentro di me, ma non lo condividevo,dall’inizio fino alla fine. Seppi molto presto

che persone venivano deporta-te ad Auschwitz e a Terezin, per-ché un amico di uno zio avevaaccompagnato dei trasporti.Non avrebbe dovuto parlarne,ma a casa non riusciva a nonparlarne, se no probabilmentenon sarebbe mai riuscito a supe-rare il trauma dell’esperienza. Ecosì tramite mio zio venimmo asapere che cosa succedeva congli ebrei o con altre persone. Co-me ho già detto, i miei hannosempre parlato con franchezzae in libertà, io recepivo cosa di-cevano ma non ne parlai maicon nessuno. E così seppi giàmolto presto cosa stava succe-dendo a molte persone. Un gior-no stavo per andare a BadScharnau in treno. Ma il mio trenonon arrivò, al suo posto passò untreno merci carico di uomini edonne che transitava lentamen-te nel luogo da cui dovetti parti-re io. Sentii i loro lamenti e le gri-da e per una bambina di 10 - 11anni è naturalmente un’espe-rienza terribile sentire queste co-se. Ma dato che conoscevo giàle circostanze mi dissi che quelladoveva essere gente che stava-no deportando da qualche par-te. E non partii più per Bad Schar-nau ma corsi a casa e raccontaia mia mamma e a mia zia cosaavevo visto. E loro mi dissero distare zitta, di non dire una parolaa nessuno. Oggi ci sono ancoramolti che dicono: “Non sapeva-mo”. E io gli credo pienamente,Io sapevo ma non ne ho mai par-lato. (…)

Tra i clienti che avevamo tramite mio padrevi era una coppia di fede ebraica. Una si-gnora si presentò da noi nel novembre del

76

1941 per pagare una fattura perdei lavori di tinteggiatura. E dissea mia madre: “Domani dobbia-mo partire. Ci hanno detto di por-tare solo il necessario e di trovar-ci nel Volkshaus. Verremo eva-cuati non si sa dove”. E mi ricordoancora che ero con mia madrenel corridoio e che lei le disse:”Deve portare con sé vestiti pe-santi perché siamo in inverno”. Eper salutarci la signora regalò unlibro a mia mamma: La resurre-zione di Lev Tolstoj, con una de-dica. E poi il giorno dopo furonoportati via, forse ad Auschwitz,non so esattamente. Non sonomai più tornati. (…)Avevamo due vicini, uno a de-stra e l’altro a sinistra. Il vicino adestra aveva tre figli già adulti,due erano soldati, la figlia erasposata con un ufficiale. Gli altrivicini vivevano in condizioni simi-li alla nostra ma erano fedeli alpartito, mentre l’altro non lo era.Questi signori già avanti negli an-ni si trovavano a dover smentirel’informazione che un loro figlioera morto per una malattia cheaveva contratto in Russia. Natu-ralmente io origliavo sempre equalche volta non riuscii a capirele cose. Da un lato le fanfare del-la vittoria che si ascoltavano allaradio, dall’altra papà che parla-va in modo molto franco con i vi-cini a destra – non riuscivo a ca-pire il contrasto. Con l’altro vicinopapà non ha mai parlato in mo-do così aperto. (…)Vi erano persone provenienti dal-l’Olanda che lavoravano qui inGermania come civili, altre dallaFrancia, altre dalla Russia. Han-no lavorato qui a stretto contattocon la popolazione. Non sape-vamo esattamente dove e co-me vivevano. Mi ricordo bene: ci

era stata assegnata una piccolacasetta e ad un certo punto giun-se l’ordine di impregnare il legnodell’impalcatura affinché non po-tesse prendere fuoco. C’eranopersone che arrivavano dall’est,dalla Russia e che facevano il la-voro di impregnamento a casanostra. So che mia mamma hadato da bere a queste persone -una situazione simile a quella cheprima ha raccontato mia moglie– ma era una cosa che non si do-veva dire in giro. (…)Mio padre aveva portato con sèdelle foto dal campo. Vi eranofoto terribili, di soldati caduti, dirussi fucilati, ma lui non parlavamai male dei russi perché nei pic-coli villaggi aveva conosciuto lacosiddetta “anima russa”. Miopadre era nell’artiglieria. Capita-va spesso che furono colpiti deicavalli che dovettero essere poimacellati e ci si spartiva la carnedei cavalli, la si cucinava e i sol-dati potevano dormire per unavolta al coperto su pavimenti diargilla pestata. Certo, si preserodiversi tipi di parassiti, ma almenodentro era più caldo che dormi-re fuori sul campo. Mio padre haparlato solo bene dei russi e midiceva sempre: “ho conosciutol’anima russa”. (…)Quando si è militare le regole avolte sono strane. Dove ero distanza io, l’ordine era di non ave-re relazioni con la popolazione lo-cale. Già prima a Londra avevosentito continuamente la propa-ganda antitedesca, secondo cuii tedeschi erano persone terribili.Noi bambini pensavamo che fos-sero una sorta di gorilla verdi, mapoi, quando mi capitò di vi pas-sarvi le vacanze sperimentail’esatto opposto: erano gentilissi-mi con noi, e posso dire solo cose

77

Wir danken... der Senioren Wohnpark Gmbh dem Kriegskindertreffen“Kriegskinder - Eine vergessene Generation?”

unserer Schule “Gymnasiale Oberstufe am Leibnizplatz”allen Zeitzeugen Alfred Ermschel, Ernst August Feeken,

Marlene & Erich Kassuba, Johanna Richerdt, Renate & John Rothwell,Manfred Stiering, Magda Ventzke, Ingerburg Wachmann fur das EquipmentMarianke D. Santjaka, Hela Zaouali Dridi, unserem Lehrer Herr Ambrosius

positive. Ho avuto degli amici con cui ci sen-tiamo ancora oggi. Forse è per questo chesono ancora qui. Non sono rimasto qui subi-to – terminato il mio servizio militare tornai acasa, ma mi ricordavo sempre di quantoera stata piacevole l’esperienza in Germa-nia. Non ho cambiato la mia opinione.Nonavremmo dovuto parlare con la gente, manoi soldati semplici dicevamo che non erapossibile, dovevamo parlare con le perso-ne, non volevamo essere isolati, e così usci-

vamo e abbiamo trovato persone molto sim-patiche, giovani come noi - io all’epocaavevo 18 o 19 anni, era gente come noi.Non ero sorpreso perché avevo sempre pen-sato che non potessero esistere differenzecosì grandi tra le persone. Ho solo constatatofino a che punto poteva arrivare una po-tenza come quella militare tentando di in-culcarmi un’immagine del tutto sbagliatadelle persone per assicurarsi la mia fedeltà.(…)

78

Altri finalistiTEDESCHI

■ Jannis QUAST, Kolja KAISER, Sebastian MARXENGymnasiale Oberstufe am Leibnitzplatz - Bremen

«Nuto Revelli: “Der Verscollene Deutsche”bezogen auf den Vietnamkrieg»

«Nuto Revelli: “Il disperso di Marburgriferito alla guerra del Vietnam»

■ Lotta RIMS e Janne HEIDORNGymnasiale Oberstufe am Leibnitzplatz - Bremen

“Nuto Revelli: Krieg und Vorurteile”

“Nuto Revelli: Guerra e pregiudizio”

■ Paula THIELBAR e Hela Zanali DRIDIGymnasiale Oberstufe am Leibnitzplatz - Bremen

“Die Grenzen verwischen”

“Sfumare i confini”

79

romosso dal Fondo Documentazione Arturo Paoli di Lucca e la Fondazione Nuto Re-velli onlus di Cuneo, con il sostegno degli Istituti Storici della Resistenza di Lucca e diCuneo e il contributo finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Fossano e del-la Fondazione Banca del Monte di Lucca, si svolto durante l’anno scolastico in corsoil Gemellaggio tra gli Istituti, “ Vallauri” di Fossano e i Licei “ Vallisneri” e “Machiavel-li” di Lucca.

L’idea è nata dalla convinzione che sia importante avvicinare i giovani a dei “testimoni” che,con l’esempio della loro vita e dei loro valori, possano diventare un punto di riferimento e di ri-flessione nel loro percorso formativo, specialmente negli anni cruciali dell’adolescenza.Le due figure attorno alle quali è stato proposto il gemellaggio sono il lucchese Arturo Paoli e ilcuneese Nuto Revelli, entrambi partigiani, scrittori, esponenti di spicco della Resistenza e nelladifesa dei perseguitati dal nazifascismo.

Arturo Paoli, tuttora vivente, centenario, è “giusto tra le nazioni” (Brasilia 1999), medaglia d’oroal valore civile per meriti durante la resistenza (Presidenza della Repubblica italiana, 2006). Havissuto a Lucca, giovane sacerdote, gli anni della guerra e della resistenza, primo referente del-la rete di protezione Delasem che ha salvato la vita a centinaia di ebrei; ha poi vissuto quasi cin-quant’anni in America Latina tra i Piccoli fratelli di Charles de Foucauld, accanto alle personepiù povere e meno tutelate, incontrando e subendo ancora la persecuzione dei regimi milita-ri del continente latinoamericano. Nuto Revelli, protagonista della Campagna di Russia e della guerra partigiana, fondamentalericercatore della vita contadina della campagna povera e della montagna cuneese, ha spe-so la vita per combattere contro le amnesie storiche e la retorica intellettuale, attraverso i suoilibri e la sua testimonianza, gettando ponti fondamentali tra le generazioni.Entrambi, pur con biografie diverse, hanno portato un contributo notevole per la crescita e ladifesa della dignità dell’uomo e si sono spesi in prima persona, lungo tutto l’arco della vita, perla formazione dei giovani. Per entrambi i giovani sono stati un impegno e una speranza: “vole-vo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi” (Revelli), “giovani, siete voi che doveteinnamorarvi dell’Italia e farla rinascere” (Paoli). Le loro figure si collocano all’interno della storia dei territori in cui hanno vissuto e operato,consentendo di allargare il tema del gemellaggio ad altri aspetti e discipline: dal confronto let-terario di alcune delle loro opere, alla visita di luoghi simbolo della lotta e del martirio partigia-no (come Boves e Sant’Anna di Stazzema), alla conoscenza di altre figure che nelle provincedi Lucca e di Cuneo hanno fatto la Resistenza e dato avvio alla storia repubblicana e alla na-scita della Costituzione. Storia, geografia, letteratura, educazione civica e diritto pubblico so-no le materie di studio che possono essere accostate con una metodologia attiva e interdisci-plinare attraverso questo gemellaggio. Il gemellaggio permette inoltre agli studenti di vivereun’esperienza di incontro e confronto con altri giovani.

Concretamente la proposta ha coinvolto due classi dell’Istituto di Istruzione superiore “G. Vallauri”di Fossano (sezione “Igea” e sezione “Informatica”), una classe del Liceo Scientifico Statale “A.Vallisneri” (sezione “Linguistico”) e una dell’Istituto di Istruzione superiore “N. Machiavelli” (sezione“Scienze sociali”) di Lucca. Le docenti che hanno seguito il progetto sono state, rispettivamente, le prof.sse Graziella Bron-dino e Lorella Gallo di Fossano, la prof.ssa Alda Fratello (liceo “Vallisneri”) e la prof.ssa Maura Bru-schini (liceo “Machiavelli”) di Lucca.

P

GEmellaggio tra l’iis vallauri di fossano,il Liceo Scientifico Statale “A. Vallisneri”e l’iis “N. Machiavelli” di Lucca

80

PROGRAMMA SOGGIORNO A LUCCA DELLE CLASSI DI FOSSANO 24 – 28 FEBBRAIO 2014

PRIMO GIORNO

Mattino: Viaggio Fossano – Lucca Arrivo - Incontro con la classe lucchese gemellata nell’Auditorium FBML:Accoglienza e saluto di Arturo Paoli, del Presidente della Fondazione,dei Dirigenti scolastici, dell’Amministrazione di LuccaPranzo

Pomeriggio: Presentazione del programma delle giornate (Auditorium)Visita della città di Lucca (con guida)

Sera: Sistemazione nelle famiglie gemellate ospitanti e cena

SECONDO GIORNO

Mattino: ARTURO PAOLI E GLI OBLATIDURANTE LA GUERRA E LA RESISTENZAArturo Paoli durante la guerra: fatti, persone, luoghiConfronto tra alcuni testi di Arturo Paoli e di NutoRevelli (a cura di Silvia Pettiti)Visita all’Archivio Storico Diocesano (incontro con il direttore don Marcello Brunini e visi-ta con Lorenzo Maffei) Pranzo

Pomeriggio : LA GUERRA E LA RESISTENZA A LUCCALa seconda guerra mondiale a Lucca e provincia (a cura di Gianluca Fulvetti,direttore Istituto Storico per la Resistenza della Provincia di Lucca)Visita ai luoghi della città di Lucca in cui ha vissuto e operato A. P.: cippo memoriale didon Aldo Mei, ex-seminario, Pia casa, Arcivescovato Visita all’Istituto Storico per la Resistenza e al Museo del Risorgimento(Palazzo Ducale)

Sera: Cena in famiglia - libera

TERZO GIORNO

Mattino: LA STRAGE DI SANT’ANNA DI STAZZEMASaluto del Sindaco di Sant’Anna di StazzemaPercorso a piedi versoil Museo e il Parco della memoria Rappresentazione teatrale con Elisabetta Salvatori “Scalpiccii sotto i platani”Pranzo al sacco

Pomeriggio : Incontro con Enrico Pieri (sopravvissuto alla strage,Presidente dell’associazione martiri) e con Stefano Bucciarelli(storico, Presidente dell’Istituto storico per la Resistenza della Provincia di Lucca)Momento di dialogo e confronto insieme

Sera: Cena nelle famiglie

QUARTO GIORNOLA LINEA GOTICA – GUERRA E RESISTENZA IN GARFAGNANA

Borgo a Mozzano: visita guidata ai reperti della Linea goticaCastelnuovo Garfagnana(bacino di reclutamento degli alpini della divisione Julia inviati in Russia):visita e incontro con testimoniTempo libero

Sera: Cena conclusiva(alla Pecora nera, ristorante pizzeria gestito da cooperativa con ragazzi disabili)

QUINTO GIORNO

Mattino: Ritrovo a Lucca: incontro di saluto con Arturo PaoliPisa: visita guidata alla piazza dei Miracoli(Duomo, battistero, cimitero monumentale)Visita libera nella città

Pomeriggio: Saluti e Rientro dei ragazzi ospiti per Fossano

81

PROGRAMMA SOGGIORNO A FOSSANO DELLA COMITIVA LUCCHESE31 MARZO - 4 APRILE 2014

PRIMO GIORNO

Mattino: Ore 11 : arrivo della comitiva lucchese a Fossano in Piazza Bava (inizio via Roma),accoglienza presso la Sala del Consiglio Comunale.Saluto del Preside e del Sindaco.Ore 13: pranzo a buffet offerto dalla scuola presso sede Settore Economico,Via S.G.Bosco.

Pomeriggio: Ore 14.30: Visita guidata della città di Fossano(curata dagli studenti dell’Indirizzo Turismo).Ore 18: rientro presso le famiglie ospitanti, cena e serata libera.

SECONDO GIORNO

Mattino: Ore 8: ritrovo davanti al Vallauri e partenza per Cuneo.Ore 9: Visita alla Fondazione Nuto Revelli e incontro con Marco Revelli . La comitiva sa-rà divisa in 4 gruppi che a distanza di 20 minuti l’uno dall’altro visiteranno la casa di Nu-to RevelliOre 11: Incontro con Marco Revelli presso Istituto StoricoOre 12 pranzo al sacco fornito dalle famiglie

Pomeriggio: Ore 13.30 partenza per BovesOre 14 Incontro con l’ Assessore alla Cultura di Boves e la Prof.ssa Cristina Bersani pres-so la Scuola di Pace.Ore 16: partenza per Borgo San Dalmazzo , visita al Memoriale e incontro con l’Assessorealla Cultura .Ricordo della figura di don Viale “Giusto d’Israele”, raccontato nel libro di Nuto Revelli“ Il prete giusto”.Ore 18: rientro a Fossano, cena e serata con la famiglia ospitante.

TERZO GIORNO:

Mattino: Ore 8.30: ritrovo davanti al Vallauri e partenza per Paraloup.Ore 9.30: arrivo in valle, incontro con V.Cesana, sindaco di Rittana.Ore 10.30: passeggiata per raggiungere il borgo montano di Paraloup, in cui si stabilì laprima sede della banda “Italia Libera” di Duccio Galimberti , Livio Bianco e Nuto Revel-li.Ore 12.30: pranzo a sacco, offerto dalle famiglie ospitanti presso le strutture di accoglienzadel paese di Paraloup.

Pomeriggio: Ore 14: Incontro con Lucio Monaco, figlio di Nino, partigiano della banda di Nuto.Ore 15.30: discesa a RittanaOre 17: rientro in pullman a Fossano e nelle famiglie. Serata libera

QUARTO GIORNO

Mattino: Ore 8.30: ritrovo presso l’Istituto Vallauri in Aula MagnaOre 9.00:Incontro con Michele Calandri, Direttore dell’Istituto della Resistenza di Cuneo:”L’esperienza di guerra e della Resistenza di Nuto Revelli”. Ore 10.30: spettacolo teatrale “Viaggio ad Auschwitz”.Ore 12.30: pranzo a sacco presso i locali della mensa della scuola.

Pomeriggio: Ore 14-30 – 18: tempo libero da trascorrere in amicizia.Ore 18: cena e serata presso famiglia.

QUINTO GIORNO

Mattino: Ore 8: ritrovo davanti al Vallauri e partenza per Torino.Ore 9.30 : Visita al centro storico: Piazza Castello, Piazza Carignano,Piazza Vittorio Veneto e relativi monumenti di valore storico ed artistico.Ore 10.30: Visita al Museo del CinemaOre 12.30 pranzo al sacco fornito dalle famiglie ospitanti.Ore 15.30: Commiato e partenza per Lucca.

82

I giorni passati a Fossano tra storie diresistenza e visite sono stati un'occa-sione unica per noi ragazzi. Sicura-mente vorrei ringraziare la fondazioneNuto Revelli per l'opportunità di parla-

re in modo diretto con chi ha resistito, perchéstudiare sui libri questa storia non basta. La sto-ria di cui abbiamo parlato è quella che hacreato il nostro presente, e vedere sulla facciadi chi ha sofferto molto per farci questo dono leemozioni nel ricordare quei giorni, è un espe-rienza molto più forte e impressiva di ogni spie-gazione a scuola. Purtroppo il ricordo di questofrangente della storia italiana si è ristretto adun banale e semplice giorno, dove la maggiorparte delle persone non sa nemmeno cosa echi sta ricordando.Ed è solo grazie a questi eventi che questa sto-ria vive ancora e ci insegna ad affrontare lanostra vita come una resistenza, come dice Ar-turo Paoli. Vorrei salutarvi ringraziando ancora di questaopportunità con la speran-za che anche ad altri ragazzicome a me sia nato il biso-gno di ricordare gli uominiche hanno dato la vita, senon molto di più, per ren-derci liberi, liberi di parlare edi sognare come loro.

Samuele - Lucca

Il Gemellaggio tra le classiquarte ECO ed ELT del Val-lauri di Fossano e dei Licei

Villasneri e Machiavelli diLucca si sono svolti in duemomenti distinti.La prima fase ha visto i ra-gazzi del Vallauir trascorre-re un soggiorno dal 24 feb-braio al 28 febbraio a Luccaospitati dalle famiglie deglistudenti lucchesi.L’arrivo a Lucca è avvenutonella tarda mattinata . Igruppi di studenti si sono in-contrati presso la sede dellaFondazione Banco di Luccadove hanno avuto il saluto

delle autorità lo-cali e dell’organiz-zatrice dell’iniziati-va Silvia Pettiti, re-sponsabile dellaFondazione ArturoPaoli con sede nel-la stessa città to-scana.Ricco buffet ebuona compa-gnia hanno ristora-to il primo mo-mento in cui sonoiniziati i rapporti diamicizia con i lucchesi. Nel pomeriggio proprioquesti hanno portato i fossanesi in giro per Luc-ca descrivendo i luoghi e monumenti più signi-ficativi che dal Medioevo in poi hanno segna-to la storia della città.Il 25 febbraio è stato giorno di studio: si sonosvolti incontri con esperti di storia locale e na-

zionale.Nel pomeriggio si èsvolto il commovente in-contro con l’anziano, ma vi-spo, Arturo Paoli che ha nar-rato momenti significatividella sua vita e ha indotto iragazzi a riflettere sull’im-portanza della solidarietà edella condivisione della vi-ta con gli altri.Egli religioso dedicò la suavita all’aiuto durante laguerra ad ebrei e partigiani,perseguitati dal regime fa-scista e nazista, venendopoi riconosciuto Giustod’Israele nel 1999 e riceven-do la medaglio all’onore ci-vile nel 2006 dal PresidenteCiampi.Altrettanto toccante la te-stimonianza della SignoraAnna Rosa Nannetti, chebambina scampò per mira-colo ad uno degli eccidi diMarzabotto: impressionatesono state le sue parole ed ilmodo in cui soffrisse, maraccontasse ugualmente.

Riflessioni dei ragazzi

i

83

Nella giornata del 26 febbraio si visitò Sant’An-na di Stazzema, luogo di un grande massacro,che causò la morte di decine di persone. Un Os-sario ricorda ancora le vittime ed i giovani loraggiunsero nella nebbia e sotto la pioggia de-dicando un po’ dell energia per capire in par-te quando duri fossero quei luoghi e quanto in-credibilmente nascosto quel paese, da esserescoperto dai tedeschi, i quali furono accom-pagnati sul posto da locali traditori.La Linea Gotica fu visitata il 27 febbraio, guidatida esperti di storia locale: era la prima voltache alcuni studenti vedevano da vicino cam-minamenti e postazioni di tiro di una fortifica-zione e risultò interessante.Ultimo giorno a Pisa, tempo peggiorato, nuvo-le grigie, ma monumenti affascinanti come lafamosa torre e il battistero in cui l’acustica per-fetta è ancora oggi impressionante.Salutati i nuovi amici si è dato appuntamentoad aprile.La seconda fase si è svolta tra il 31 marzo e il 4aprile. Arrivo della comitiva lucchese e saluto inSala Rossa del Comune con preside della scuo-la e sindaco, mentre la presentazione dei con-tenuti del gemellaggio è fatta dal professor Co-stantino che ha sottolineato la valenza di taleattività didattica. A conferma delle sue paroleha citato un fatto a lui accaduto: poco tempofa ha incontrato un suo exallievo, ormai adulto,che tra tutti gli eventi della sua gioventù, ricor-dava il gemellaggio con una scuola siciliana.Quando durante un viaggio fu in Sicilia, andò acercare il suo compagno e ospite rivivendo beimomenti.Il martedì 1 aprile invece si è a Cuneo presso laCasa di Nuto Revelli: in salotto tra vecchi ami-ci, come pensano i responsabili della Fonda-zione, Nuto avrebbe voluto. Sulle pareti dipintidel disperso di Marburg, di partigiani, di scorcidi luoghi in cui si mossero i personaggi di Revelli.In Archivio una ricercatrice espone il metodo diricerca di Nuto: attenzione all’interlocutore, laprecisione con cui riportava le informazioni e leinterviste, le sue pagine scritte a mano ed ormaipreziose perché uniche.Boves, Borgo San Dalmazzo: luogi di storia e disofferenze, di eccidi e di partenze per i campidi concentramento. Nomi scritti sul cementoche ricordano coloro che pensando di essereal sicuro furono rastrellati, raccolti e inviati amorire ad Auchwitz. Si poteva immaginare sul-lo sfondo Don Viale, il prete giusto che con lasua bicicletta attraversava le vallate in aiutodi ebrei e partigiani. Proprio quest’opera lo fe-

ce riconoscere Giusto tra le Nazioni come Ar-turo Paoli.Dura la salita a Paraloup del 2 aprile: una tap-pa a Rittana con il sindaco per iniziare il di-scorso sulla costituzione della brigata Libera diGalimberti, Bianco e Revelli che avevano la lo-ro area di azione sui monti di Paraloup dove siarriva calpestando ancora la neve, dalla qua-le ormai sbucano i bucaneve e le violette. Il fi-glio di un partigiano accompagna la comitivaper raccontare la vita pericolosa e difficile deipartigiani che controllavano la strada della val-lata per conoscere gli spostamenti delle truppetedesche.A Teatro si assiste poi, il giorno dopo al “ Viag-gio ad Auschwitz” di Jmmy Basilotta, che congrande volontà e motivazione umana ha per-corso il cammino a piedi seguendo la ferroviache da Cuneo portò gli ebrei e i perseguitati deinazisti a morire.Torino poi conclude il soggiorno: è un momen-to di amicizia, di modernità con la visita al Mu-seo del Cinema, straordinario e giovane comelo sono gli studenti che hanno colto l’occasio-ne di mettersi in gioco e incontrare e vivere perqualche giorno con studenti di un’altra regione,stringendo buone relazioni, si spera durature.

Giorgia Racca - Fossano

Ricordi di un ottuagenarioNella vecchia casa di famiglia, in un angolodimenticato, ho trovato la valigia dei ricordi:l’ho aperta e tra i libri impolverati ed ingiallitidella scuola, frequentata tanti, tanti anni fa,ho intravisto la carta ancora lucida di fotogra-fie sbiadite, che mi hanno riportato indietro intempi spensierati, ma anche impegnativi in cuipassavo le mie giornate sui banchi o a casasui libri di scuola. Un gruppo di amici giovani esorridenti mi viene incontro da una di queste fo-to: la comitiva di ragazzi fossanesi e lucchesiche si trovarono, grazie all’iniziativa di alcune in-segnanti, a trascorrere insieme settimane discoperta, di studio e di divertimento.Era stato il Gemellaggio tra le classi quarte ECOe ELT del Vallauri e le classi dei Licei Villasneri eMachiavelli di Lucca, svoltosi nell’ultima setti-mana di febbraio in Toscana e la prima di apri-le a Fossano.Ricordo ancora la proposta della nostra inse-gnante di Italiano che ci presentò l’attività co-me di grande valore didattico fondandosi perl’appunto sullo studio dei due personaggi stori-

84

ci: Nuto Revelli per il Cunnese, partigiano, ri-cercatore e scrittore di bei libri quali “Il prete giu-sto” e anche complessi come “Il disperso diMarburg”; Arturo Paoli, religioso lucchese deditoper tutta la sua vita all’aiuto spirituale e con-creto agli altri e Giusto D’Israele per aver aiutatomolti ebrei nel periodo dell’occupazione te-desca in Italia, dopo l’8 settembre 1943.Si lessero i libri, si studiarono la geografia deiluoghi ed i fatti storici ac-caduti nelle regioni interes-sate e poi, importante, par-timmo.Viaggio in pullman per Luc-ca, tempo piovoso che ciaccompagnò durante ilsoggiorno, ma che non ciimpedì di visitare i luoghidei massacri di Stazzema ele fortificazioni della LineaGotica lungo la quale siscontrarono esercito tede-sco e alleati che salivano per liberare l’Italiadalla dittatura e dall’occupazione tedesca.Intensi furono gli incontri con personaggi dellastoria veri ed ancora vivi testimoni della storia:persone che avevano visto con i loro occhi i na-zisti sparare ai loro cari, le sorelle gemelle sal-vatesi per caso; la grande narratrice Anna Ro-sa Nannetti, bambina, ormai anziana, salvata-si perché fuggita durante gli eccidi di Marza-botto. Anche il teatro fece la sua parte con la recitadi “Scalpiccii sotto i platani”, alberi che prima vi-dero giocare i bambini, poi trucidati da manitraditrici e violente.Gemellaggio era anche incontro con altri ra-

gazzi con abitudini, tradizioni diverse: fummoaccolti in famiglie del luogo: chissà se qualcu-no si ricorda ancora di me, del mio passaggio.Io ricordo colui che mi ospitò. Era un ragazzo ri-belle, poco obbediente alla famiglia, a dir la ve-rità anche poco studioso. Simpatico sì, tantoda passare le serate con i suoi amici e lui incentro a tenere banco.Giunse poi il turno dei fossanesi. Accolsero nel-

le loro case i compagni to-scani, li portarono per le viedella nostra piccola citta-dina di provincia, comun-que bella, ordinata e riccadi storia come i mie com-pagni del Turistico, raccon-tarono accompagnadocia visitare Duomo, Castelloe sedi delle antiche Con-fraternite religiose.Nei giorni ormai primaverili sipassò per Boves e guide

esperte e motivate ci raccontarono con videoe visite ai luoghi gli eccidi del 1943 in cui mori-rono decine di persone innocenti. Fu, se nonricordo male, uno dei primi eccidi nazisti: pocodopo l’8 settembre.Poi Borgo San Dalmazzo e le strade di Don Via-le, anche lui Giusto d’Israele, che io amai leg-gendo il libro di Nuto Revelli e che venne ripor-tato alla memoria da una studiosa delle de-portazioni ebree: impressionante l’infinita se-quenza di nomi incisi sul pavimento del Me-moriale alla stazione ferroviaria da dove parti-rono gli ebrei provenienti da Saint Martin Vesu-vie, che avevano sperato di trovare libertà inItalia, ma trovarono i nazisti.

85

Anche Cuneo fu una meta interessante: la ca-sa di Nuto Revelli ancora viva grazie all’operadella Fondazione Nuto Revelli che seduti nelsalotto di Nuto ci parlarono dei suoi ideali, delsuo lavoro, del metodo con il quale intervistavae dialogava con testimoni di storia o di vita co-mune come le donne dell’Anello forte. Nuto cercava il contatto con tutti: vecchi, gio-vani e bambini e di tutti loro serbava parole,scritti dipinti e semplici disegni. Tutto materialeritenuto importante in ugual modo.Ho trovata in questa casa una grande forza:quella di Nuto per continuare a portare avan-ti il discorso della memoria. Ricordate ciò che è stato, diceva Primo Levi,perché non accadesse più. Purtroppo la mia vi-ta mi insegnò che spesso l’uomo, continuò neitempi a seminare male e crudeltà.Anche a Fossano il teatro ha avuto il suo postoe l’opera di un solitario attore, “Andata e ritor-no ad Auschwitz” ci ha raccontato l’incredibi-le viaggio a piedi da Cuneo al campo di con-centramento, simbolo della follia nazista. I ra-gazzi lo ascoltarono fermi ed anche un po’ in-creduli nel capire che le centinaia di chilome-tri, lui le aveva fatte a piedi. Una forza per quel-l’età in cui lo sforzo non era contemplato. Fati-coso infatti ricordo essere stato il cammino perraggiungere Paraloup, dove il figlio di un parti-giano ci raccontò con i gesti delle braccia perindicare luoghi, passi, rifugi in cui vissero ed agi-rono i partigiani della brigata Libera fondatadai cuneesi Galimberti, Bianco e Revelli.Bei ricordi, ricchi di significato: forse per que-sto li tengo nella mia memoria e tra i tanti de-stano in me nostalgia di quegli anni.

Simone Bonardi - Fossano

Imomenti più emozionanti dei giorni trascorsi aLucca, durante la prima parte dello scambio,sono stati quelli in cui abbiamo incontrato i

testimoni Arturo Paoli, Anna Rosa Nannetti edEnrico Pieri, che ci hanno raccontato le lorostorie di vita, in particolare il periodo della guer-ra, e hanno risposto alle nostre domande.La testimonianza che più mi ha commossa èstata quella del signor Pieri, sopravvissuto allastrage di Sant'Anna di Stazzema, che ci ha in-vitato a non gettar via il "lavoro" e l'impegno

86

della sua generazione per contribuire alla "co-struzione" dell'Europa, affinché tutti potessimo vi-vere in un mondo più libero, e ci ha donato unmessaggio fondamentale e cioè che la vitacontinua nonostante le disgrazie e che nellavita stessa si può trovare forza e speranza perandare avanti. Ciò che Arturo Paoli ci ha raccontato avevoavuto modo di leggerlo nella biografia scrittada Silvia Pettiti, ma sentirlo direttamente da luiè stato più coinvolgente e affascinante, so-prattutto perchè ha affrontato con il sorriso euna delicata simpatia ricordi lontani, che ap-partengono a un periodo difficile come quellodella guerra. Mi è piaciuto tanto come ha ricordato l'operatodei padri oblati del Volto Santo, che hanno aiu-tato ebrei, partigiani e civili, e il periodo tra-scorso in America Latina, dove si è impegnatoal fianco dei più poveri con i Piccoli Fratelli.Mi ha colpito particolarmente il fatto che unapersona così anziana si sia resa disponibile ad in-contrare dei ragazzi, a rispondere alle nostredomande, e questo ha dato un valore ag-giunto al messaggio di coraggio e speranzache le sue parole ci hanno donato. Il momento più intenso della testimonianza diAnna Rosa Nannetti è stato quando, raccon-tando la fuga della sua famiglia da Marzabot-to, dove le SS avevano compiuto la strage, haricordato il coraggio della sua mamma che,sola con sua figlia che piangeva, si è allonta-nata dal gruppo per evitare che le SS li trovas-sero e ha incontrato i soldati americani chestavano scendendo dagli Appennini per libe-rare il paese. È stato molto toccante il momentoin cui si è commossa dicendo: "La guerra era fi-nita". In quel momento ho percepito il dramma chehanno vissuto le famiglie, i contadini, le giova-ni generazioni di allora, un dramma che i libri distoria non possono insegnare e che è impor-tante conservare e tramandare alle prossimegenerazioni, affinché si rendano conto dell'im-portanza della libertà che è stata conquistatacon fatica, affinché il sacrificio delle vittime del-la guerra non sia stato vano, ma ci abbia la-sciato il messaggio, non retorico, che solo inpace si può vivere serenamente.I momenti più interessanti trascorsi a Cuneo,durante la seconda parte dello scambio, so-no stati quelli in cui Marco Revelli e MicheleCalandri ci hanno raccontato la vita di Nuto Re-velli, le sue esperienze di giovane ufficiale du-rante la campagna di Russia, il suo prendereconsapevolezza del fatto che il Fascismo fosse

fatto di bugie, di motti e di sacrifici, sì, ma soloda parte di giovani controllati dal regime, acui erano stati tappati gli occhi e sradicati dailoro progetti di vita, colpiti in pieno dalla guer-ra, e la sua decisione di entrare a far parte diuna banda partigiana.È stato molto interessante anche quando LucioMonaco ci ha raccontato le vicende che han-no coinvolto la banda Italia Libera, a cui ap-partenevano suo padre, Nuto Revelli e DuccioGalimberti, durante il periodo in cui erano rifu-giati a Paraloup.Il giorno trascorso a Paraloup è stato il più si-gnificativo. L'ho capito qualche giorno dopoessere tornata a casa, perchè sul momento,presa dalla stanchezza e impegnata ad ascol-tare il racconto del signor Monaco, non ho avu-to l'opportunità per riflettere accuratamentesul significato di quello che stavo vedendo eascoltando. Solo mentre cercavo di ricostrui-re, attraverso gli appunti, le vicende di Para-loup, mi sono resa conto di quanto l'operato eil sacrificio di giovani coraggiosi, spesso ine-sperti in fatto di armi, sia stato importante per re-stituire la libertà al nostro Paese. Penso che sia molto importante che personecome Nuto Revelli e Arturo Paoli, che hannovissuto sulla loro pelle le vicende della guerra,abbiano lasciato le loro testimonianze scritte, unricordo indelebile di ciò che è stato, di cui hofatto tesoro e che spero di poter trasmettere an-che ad altri.

Greta Orsi - Lucca

Ormai da più di un mese è terminato ilgemellaggio fra le due città sopraci-tate, che ha visto come partecipanti

l’Istituto Tecnico Superiore “G. Vallauri (per Fos-sano) e gli istituti Machiavelli e Vallisneri (perLucca). In questo mese trascorso è stato pos-sibile recuperare alcuni giudizi da parte deiragazzi in merito all’iniziativa svolta, che ave-va al centro programma due figure molto im-portanti, protagonisti su fronti diversi durante laII Guerra Mondiale: Arturo Paolo e Nuto Re-velliI pareri dei diretti protagonisti del gemellag-gio, gli studenti, erano abbastanza simili e tut-ti hanno più o meno avuto gli stessi riscontri, ehanno affermato che l’iniziativa è stata ottimaper due motivi: per arricchire le loro cono-scenze con la storia di questi due “eroi”, cheprima non erano noti ai ragazzi, e per l’aspet-to sociale, infatti quest’attività ha permessodi fare nuove conoscenze e di stringere nuoveamicie fra i ragazzi delle due città, che si sonoscambiati l’ospitalità.Il giudizio del primo è molto positivo, in quan-to le attività svolte di visita dei luoghi dove èstata scritta la nostra storia, e l’ascolto delle te-stimonianze di sopravvisuti e presenti all’epo-ca, ha creato le condizioni per un apprendi-mento più coinvolgente per gli studenti, nonessendo costretti a stare chiusi in un aula pie-gati su di un banco e sui libri. Nota negativa ri-scontrata invece dai docenti è stata l’atten-zione, che veniva a mancare in alcuni mo-menti, parzialmente giustificabile per la stan-chezza, frutto di un programma molto ricco eintenso. Nonostante questo, i ragazzi si sonoanche commossi all’ascolto di alcuni testimo-ni ed hanno anche interagito con quest’ultimicondomande o con pareri, fra tutte le testimo-nianze spicca forse quella di un sopravvissutoalla strage di Sant’Anna di Stazzema.Del secondo punto, invece, il giudizio è statoa dir poco eccelente, infatti si sono instauratiottimi rapporti fra Fossanesi e Lucchesi, chehanno stretto fori legami di amicizia, favoritisoprattutto durante le serate organizzate dairagazzi ospitanti.Questa per i Fossanesi era la prima esperienzadi questo genere, e visti i risultati, l’augurio èche se ne possano organizzare altre di questeattività, difficile e impegnative da organizzare,ma che hanno portato ottimi frutti.

Lorenzo Groppo - Fossano

Il gemellaggio tra il Vallauri di Fossano e gli isti-tuti Vallineri e Macchiavelli di Lucca si è ormaiconcluso da quasi un paio di mesi, quindi è

giunto il momento di fare un’analisi su come si èsvolto in modo da poter darne una valutazione.Si possono individuare due campi in cui divide-re le varie esperienze svolte, in modo da esserepiù precisi nel giudicare, e questi sono: le attivi-tà che avevano la finalità di far conoscere ai ra-gazzi le storie di due grandi persone come NutoRevelli e Arturo Paoli, e il tempo passato insiemedai ragazzi dei due paesi e i rapporti che si sonoinstaurati tra di loro.Per quanto riguarda il primo punto il giudizio sipuò ritenere positivo, siccome i vari incontri te-nutisi e i posti visitati hanno fatto conoscereaspetti della Seconda Guerra Mondiale chemolti non conoscevano. In particolare gli incontricon i testimoni di quei fatti sono stati molto forti,siccome studiare la storia sui libri spesso può di-ventare noioso, mentre se viene raccontata dapersone che hanno vissuto quella parte di storia,tutti cambia, questo perché provano e tra-smettono delle emozioni, cosa che un libro nonè in grado di fare. Bisogna però anche dire chela attenzione dei ragazzi in alcuni momenti ve-niva meno, in particolare a fine giornata, maquesto è dovuto ad una questione fisiologica,siccome le giornate erano molto piene e quin-di un po’ di stanchezza era prevedibile.Se il giudizio per il primo punto era già piena-mente positivo, per quanto riguarda il secondola valutazione è ancora più alta, perché nono-stante il gemellaggio sia durato in tutto appenauna decina di giorni, tra gli studenti piemontesie toscani è nata una grande amicizia, tantoche molti sono ancora in contatto e addiritturaun gruppo di tre ragazzi di Fossano è già anda-to un weekend a Lucca. Questo è stato possibileanche grazie alle serate organizzate dai ragaz-zi, che passando questo tempo insieme diver-tendosi hanno favorito la formazione di questegrandi amicizie. In conclusione si può dire che lavalutazione generale di questo gemellaggio siamolto più che positiva, siccome ha permesso diapprendere molto sui fatti della Seconda Guer-ra Mondiale avvenuti nelle zone visitate, e sullavita di uomini da cui non si può che imparare;ma allo stesso tempo è stata un ottima occa-sione per conoscere persone nuove con cuiconfrontarsi e con cui è stato possibile creareottimi rapporti. Per questo motivo, sarebbe bel-lo ed importante dare questa possibilità anchead altre classi nel futuro di avere un’esperienzaallo stesso tempo tanto bella quanto formativa.

Rolando Francesco - Fossano

87

88

Anche la seconda fase del gemellaggiotra gli studenti dei licei di Lucca e quellidell’ istituto Vallauri di Fossano si è con-

clusa come sperato. Nel corso delle due setti-mane sono stati ripercorsi i luoghi salienti dellaresistenza piemontese e toscana; gli studentihanno avuto la fortuna di sentire le testimo-nianze di molti sopravvissuti, tra cui quella diArturo Paoli, ultracentenario. Questi raccontivissuti in prima persona hanno contribuito amantenere viva in ognuno la consapevolezzadi ciò che è accaduto, e capire il vero valoredell’ amicizia e dell’ affetto che in molti casinon sono scomparsi neanche di fronte a certeatrocità. Di grande importanza sono state letestimonianze di chi raccontava in terza per-sona le vicende di qualche suo conoscente oparente, ma ancora di più lo sono state quelledirette, dove persone ormai quasi tutte ultranovantenni, nonostante tutti gli ‘acciacchi’dell’ età avanzata, si sono impegnate a venirea parlare a dei giovani abituati, fortunata-mente, a sentir parlare di guerre solo sui libri emanuali scolastici; per spiegare loro la diffe-renza tra ciò che si legge e ciò che si provaquando si è coinvolti direttamente in una guer-ra. Nuto Revelli per esempio ha voluto che que-ste sue esperienze di soldato prima, e di parti-giano poi, venissero ricordate all’ interno dei li-bri scritti da lui stesso, libri dove si parla non de-

gli episodi diciamo ‘grandiosi’ del conflitto, benconosciuti da tutti, ma delle piccole realtà lo-cali, di cosa provava il povero contadino ve-dendosi distruggere la propria casa, i propricampi, quelle poche cose che magari gli per-mettevano di sopravvivere, oppure i sentimen-ti di una madre vedendo partire dei figli pocopiù che bambini per un qualche luogo scono-sciuto dal quale non era assicurato il ritorno. Questi momenti sono stati vissuti con profondacommozione e partecipazione dai ragazzi, chehanno potuto apprendere in un modo diversoda quello abituale, lontani dalla scuola e lontanida quella noia che molto spesso accompa-gna le lezioni di storia, forse dovuta proprio alfatto che ci si sente troppo distaccati e lonta-ni dai fatti. Naturalmente ci sono stati anchedei momenti ludici dove i ragazzi hanno potu-to conoscersi, e trascorrere bellissimi momenti in-sieme, alla fine delle due settimane si è forma-to un legame profondo tra gli studenti, chehanno già programmato di rincontrarsi e dimantenere buoni rapporti.si dovesse riassume-re questo gemellaggio in tre parole sicuramentesarebbero : apprendimento, amicizia e ricono-scenza nei confronti di queste persone che cihanno reso partecipi di una parte della lorovita della quale, nonostante fosse doloroso par-larne hanno voluto raccontare.

Simone Beccaria - Fossano

89

L’Ensemble di chitarre, guidato dal prof. Signorile e il complesso di flauti, guidato dal prof. Davico, dell’Istitutomusicale Ego Bianchi, hanno allietato con la loro musica, la cerimonia di premiazione del concorso “Ri-cordando Nuto”.