Nuove frontiere della “Pruova” · 1.1 Dagli albori della disciplina Pag. 5 1.2 All‟attualità...
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Fondazione Guglielmo Gulotta
di Psicologia Forense e della Comunicazione
Nuove frontiere della “Pruova”
Ripensare la prova penale in una prospettiva psicologica e neuroscientifica
Selenia Di Bari
Docente di riferimento
Prof. Guglielmo Gulotta
Anno 2010
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“La prova garantisce
che il risultato del processo
sia conforme a giustizia”
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Abstract
Questo lavoro ha il fine di ripercorrere criticamente la nascita, lo sviluppo ed il continuo evolversi
della scienza delle prove penali; una rassegna ed una analisi dettagliata di come si sia passati dalla
cosiddetta “pruova” del 1850 alle innovative e scientifiche tipologie di prova che si affacciano sul
panorama dell‟attuale processo penale, dal rigore del Teorema di Bayes, alla puntualità della prova
statistica, fino al tecnicismo delle neuroscienze.
Indice
1. La “pruova” Pag. 5
1.1 Dagli albori della disciplina Pag. 5
1.2 All‟attualità della tematica Pag. 11
2. Le prove scientifiche in senso bayesiano Pag. 16
2.1 Il Teorema di Bayes Pag. 16
2.2 La qualità e la quantità delle informazioni Pag. 19
2.2.1 Il guadagno di informazione Pag. 19
2.2.2 Il peso dell‟evidenza Pag. 20
2.3 Le applicazioni del Teorema di Bayes Pag. 21
3. Le prove scientifiche di tipo statistico Pag. 24
3.1 La prova statistica Pag. 25
3.1.1 Il caso Gilbert Pag. 25
3.1.2 Il caso Clark Pag. 26
3.2 L‟utilizzo della prova statistica Pag. 27
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4. Le prove neuropsicologiche Pag. 31
4.1 Le neuroscienze Pag. 31
4.2 Le neuroscienze forensi Pag. 31
4.2.1 Le tecniche di neuro immagine Pag. 34
4.3 La neuropsicologia forense Pag. 35
4.4 Conclusioni Pag. 37
Bibliografia Pag. 39
Sitografia Pag. 40
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1. La “Pruova”
Un excursus storico sulla tematica della prova nel contesto giuridico, non può non prendere avvio
da una digressione narrativa che descriva come e quando sia nato l‟interesse per questo tema ed in
che modo veniva affrontato, considerato e poi operazionalizzato all‟inizio della sua trattazione.
1.1. Dagli albori della disciplina
Al fine di illustrare i progressi susseguitisi negli anni in materia di evidenze probatorie, è
interessante scoprire come, già nel 1850, si dibattesse sulla questione. Dalle parole di Mittermayer,
nel suo “Trattato della pruova, in materia penale”, si possono cogliere le principali posizioni del
tempo; nell‟introduzione al suo lavoro, troviamo, ad esempio, la seguente precisazione:
“Puossi giudicar del sistema solo allora che è in atto e procede nella sua via; allora solo può dirsi se
principale sua tendenza sia la salvaguardia dell‟innocenza ed unico suo scopo la manifestazione
della verità materiale, e se ei serve fedelmente a quelle regole sovrane poste per rintracciarla,
armonizzate con le altre non meno savie della libertà di coscienza del magistrato.”
Per analizzare in dettaglio e poter capire a fondo il pensiero giuridico del secolo scorso, trascriverei
semplicemente, con la terminologia di qualche decennio fa, quanto esposto dall‟autore in uno dei
più chiari e completi testi del suo tempo. Quanto di seguito esposto sono delle parti, le più
significative e rilevanti ai fini della trattazione in esame, prese dal Trattato di Mittermayer, che
possono far luce su come il tema delle prove veniva studiato agli albori di tale disciplina.
“Presso tutti i popoli ed anche quelli che sono collocati in fondo alla scala dell‟incivilimento, son
corse alcune nozioni intorno all‟economia della pruova e per conseguenza intorno ai mezzi dati
all‟accusatore o all‟accusa di convincere i giudici della verità delle loro asserzioni, non che intorno
ai motivi di pruova onde questi dovranno ragionare le loro sentenze. In ogni pruova qualunque essa
sia vedesi una tendenza al conseguimento d‟una verità formale o d‟una verità materiale, vale a dire
nel primo sistema la legge senza por mente all‟intimo convincimento del magistrato o ai motivi
somministrati dalla ragione e dall‟esperienza costringe a riconoscer per vere certe dimostrazioni che
del resto non fondansi che su d‟alcuni motivi di pura forma; e nel secondo per contrario vuolsi che
sia fondata la convinzione sui mezzi che più sicuramente menano al discoprimento della verità,
ond‟è che le disposizioni date dal legislatore non attingono la loro origine che dal principio
prestabilitosi di sanzionare i soli mezzi di certezza più conformi al suo scopo, la verità assoluta.”
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“Ogni qual volta un individuo presentasi come l‟autore d‟un atto, a cui la legge annette delle
conseguenze afflittive, e trattasi di farne a lui l‟applicazione, la condanna che dee intervenire
fondasi sulla certezza dei fatti, e sul convincimento ingenerato nell‟animo del giudice. La somma
dei motivi ingeneratori della certezza addimandasi pruova.
L‟impulso prodotto in noi dalla forza della pruova e che comunica movimento a quel che
chiameremo ago della bilancia della coscienza, può essere più o meno potente. Talora è meno
vigoroso, e non induce che il sospetto, e mena ad una presunzione pura e semplice; tal altra fiata è
rapido e irresistibile, e fa discender giù violentemente una delle due lance; ed allora è che la
certezza opera con tutto il suo peso. L‟origine della pruova giace in un fatto che sta al di fuori della
coscienza del giudice; l‟effetto poi risiede nei rapporti che stabilisconsi fra questo fatto e quello da
dimostrare. Qualunque pruova, o meglio qualunque fatto donde si deduce la pruova produce
dunque, come abbiamo detto, un movimento nella umana coscienza; movimento che varia
d‟intensità secondo gl‟individui.
La pruova, questa base delle argomentazioni che ciascuna delle parti pone in opera per attirare dalla
parte sua il convincimento del giudice, la pruova secondo i casi può esser considerata sotto vari
aspetti. Convien considerare: 1.° da una parte colui che la produce, o, che è lo stesso, colui che
somministra i motivi determinanti il convincimento; 2.° dall‟altra colui dinanzi a cui è prodotta. Nel
primo caso la voce pruova è presa subbietivamente, dinotando gli sforzi fatti dalla parte per
ingenerare il convincimento nell‟animo del giudice e metterlo in grado di decidere con tutta
certezza sui fatti del giudizio. In questo senso pruova ed amministrazione della pruova sono
sinonimi. E‟ così che nel processo civile cercano le parti di dimostrare le loro pretensioni; ed è così
che nel processo criminale fin dal suo principio vediamo studiarsi per dimostrare i fatti un
accusatore, sostituito nella procedura d‟istruzione da un istruttore, che nell‟interesse della verità,
vien rintracciando tutti i vestigi materiali e non materiali dei fatti, prova se abbiano essi relazione
col corpo del delitto, col suo autore e colla sua reità, e se possano contribuire a rischiarare la mente
del magistrato chiamato a proferir sentenza.
Per contrario considerando la pruova riguardo a colui innanzi a cui è prodotta, diventa sinonimo di
certezza; è presa allora obbiettivamente e comprende quell‟insieme di motivi possenti che son causa
al conchiudere con tutta fidanza della verità dei fatti dell‟imputazione.
Quando un tempo parlavasi di pruova riuscita a metà o di mezza pruova, non consideravasi la
pruova che sotto il rapporto subbietivo; per contrario miravasi alla pruova nel significato obbiettivo
allorchè dicevasi: mancando la pruova, l‟accusato deve esser sempre assolto.”
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“Quando noi stessi ci dimandiamo quali sono, nelle occasioni quotidiane della vita, i motivi
determinanti delle nostre convinzioni riguardanti l‟esistenza d‟un fatto, quali quelli che, approvati
dall‟esperienza dei tempi, servon di guida ai giudizi degli uomini realmente prudenti, giugniamo
tosto a considerare il testimonio dei sensi esser quello che è più sicuro, e l‟evidenza materiale esser
la vera ed unica fonte della certezza. Ogni dì abbiam la pruova della realtà degli obbietti che cadono
sotto i nostri sensi, quando l‟impressione provata è in perfetta armonia cogli obbietti esteriori; e
poiché, il giureconsulto, non oppone alcuna difficoltà nel credere che l‟osservazione dei sensi
ingeneri la certezza, è però che prestiam fede a coloro che, similmente che noi, tengonsi alle loro
osservazioni personali; ond‟è che la confessione e la pruova testimoniale sono di tal natura da
ingenerare in noi il convincimento. Dopo ciò sarà chiaro perché mai la procedura criminale molto
spesso non ammetta come pruove complete che quelle che procedono dall‟evidenza materiale
diretta o indiretta; esse sole in effetti sembrano di tal natura da formare la certezza, laddove gli altri
mezzi dei quali taluna fiata i giudici pur si son contentati (per esempio gl‟indizi) non sembrano
dover sempre costituire piena dimostrazione. Nonpertanto giungere fino a così rigide conseguenze,
è forse andar troppo lungi; non è già solo al testimonio dei nostri sensi che appuntasi la nostra
fiducia, ma anche aggiustiamo fede alle affermazioni della nostra ragione, quando dopo un giusto
esame essa conchiude dai dati raccolti dai sensi, laonde possiam conchiudere che la certezza
formasi nel nostro animo mercè mezzi puramente logici. Fra questi mezzi fondamentali convien
porre in primo luogo la conclusione del possibili al reale. Un altro metodo spesso seguito dalla
ragione nella estimazione dei fatti si è il conchiudere per via d’analogia, vale a dire da un caso
simile ad un altro. Vi à finalmente la conclusione dalla circostanze al fatto principale, allorchè
queste circostanze d‟ordinario incontransi in pieno rapporto con esso. L‟animo adunque è
pienamente soddisfatto, e in lui s‟ingenera la certezza, allorchè applicando la legge logica ai
risultamenti somministrati dall‟esperienza rinviene quell‟accordo e quell‟armonia che il seducono.
Anzi negli stessi casi in cui siam usi a creder pienamente al testimonio dei nostri sensi, farem opera
prudente rapportarcene al criterio della ragione, e non decidere se non dopo aver maturamente
esaminate le ragioni pro e contra. E‟ sopra ogni altro nelle materie criminali che questo metodo
deve essere applicato; anche quando il giudice siesi convinto del corpo del delitto mercè l‟ispezione
oculare, ei non può mai contestare l‟atto delittuoso ma i suoi effetti; ed è solo mercè una serie di
conchiusioni ch‟ei può giugnere a conoscere in qual materia sia stato commesso il delitto, quali ne
furono gl‟istrumenti etc. Quanto al giudice diffinitivo, tenuto com‟è a rapportarsene agli atti del
processo, non à egli neppur la guida di ciò che à veduto per giugnere alla certezza, perocchè è il
solo magistrato istruttore quegli che à proceduto all‟ispezione oculare. S‟ei presta fede fermamente
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al processo verbale dello stato dei luoghi compilato dall‟istruttore, si è perché crede pienamente
nella integrità e nella fedeltà dei particolari da costui raccolti. Che se invece la pruova fondasi
sull‟evidenza materiale mediata, sulla confessione, sulle deposizioni, è ancor chiaro che non è già
l‟evidenza materiale quella che produce la certezza, ma le ragioni che sorgono nell‟animo del
giudice perché presti piena fede alle affermazioni dei terzi, che vengono ad attestare che i fatti
incriminati son caduti sotto l‟osservazione dei loro sensi.
Le vere basi della certezza sono ad un tempo la fiducia nella fedeltà dei nostri sensi, e la fiducia
nella potenza del ragionamento, il quale, prendendo le anteriori esperienze come punto di confronto,
vi rapporta, come a misura certa, i fatti la cui realtà dev‟esser dalla mente valutata. La certezza
formasi in noi direttamente allorchè le nostre sensazioni personali, ci trasmettono l‟immagine d‟un
obbietto; indirettamente quando l‟esistenza di esso ci è certificata da terzi, che ne attestano aver essi
stessi sperimentato la realtà di ciò che narrano, o se affermano il fatto si è rapportandosi ad alcuni
fatti parziali, la cui esistenza ed indole menano d‟un tratto a conchiudere all‟esistenza del fatto
principale in disamina. Ogni qual volta i rapporti d‟un fatto con un altro permettono questa specie
d‟induzioni, di cui abbiamo noi esposta l‟origine, il facciamo tenendoci a quei fatti la cui certezza è
posta e determinata dalla ragione fortificata dall‟esperienza; tolgono allora il nome d‟indizi, ed
invero pare che quasi mostrino col dito il fatto principale correlativo. Del resto anche quivi
incontrasi il duplice ascendente dell‟evidenza dei sensi e dell‟evidenza di ragione, salvo la seguente
differenza: quando trattasi di pruove ordinarie le quali si adagiano semplicemente sull‟evidenza
materiale mediata, la ragione sentesi convinta purchè i testimoni, che vengono a deporre quel che
ànno osservato, meritino di esser creduti sulla loro parola, e l‟esperienza ne attesti che i fatti deposti
sono in perfetta armonia colle nostre idee del possibile e del verosimile; quando per contrario sono i
soli indizi quelli offerti all‟animo come fonte di certezza, dee la ragione abbandonarsi a più
complicate indagini prima di potersi dichiarare soddisfatta. Convien vedere in primo luogo se i
rapporti che sorgono da quest‟indizi, fattone un esame più severo, possano spiegarsi in altra guisa
che quella trovata; e per agevolare questo esame convien dare all‟imputato che indicano i più ampi
mezzi di giustificazione. Qualunque via da lui indicata deve esser tutta quanta percorsa, potendo
accadere ch‟essa ne faccia giungere a tutt‟altra conseguenza da quella offerta dai dati della
imputazione primitiva. Gli dovranno sempre essere comunicati i risultamenti di questa
comunicazione affinchè rimuova, se può, il dubbio di denegata giustizia, e possa produrre delle
nuove giustificazioni; ma se, nonostante tutte queste indagini, le sollecitudini dell‟accusato a
scagionarsi non danno per risultamento che menzogne od impossibilità, se giugne il momento in cui
non può egli nulla più opporre di verisimile al sistema ragionato dall‟accusa, tosto nascerà
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nell‟animo il convincimento, poiché fra esso ed il fatto vi à evidente rapporto di reità. Ma ciò non è
tutto, e spingendo più oltre le sue investigazioni vuol veder la ragione questi rapporti corroborati
ancora nella specie, sia dalle circostanze accessorie dei fatti, sia dalla conchiusione del possibile al
reale, vale a dire vuol ella esser messa in grado da ammettere pienamente che l‟accusato abbia
potuto commettere l‟atto incriminato. Finalmente la ragione vuol trovare negl‟indizi una tal
concordanza da menarne assolutamente a questo risultamento: o tener per certa la perpetrazione del
fatto commesso dall‟accusato, discendendone essa qual diretta e necessaria conseguenza; o gittarsi
nel campo del miracoloso e del inverisimile, volendo tenersi al corso ordinario delle cose.
Applichiamo in questo caso la definizione della certezza: il nostro animo per sentire in sé la
certezza dee trovarsi in tale situazione che il perfetto accordo dei motivi della realtà faccia al tutto
sparire le ragioni per credere nel contrario. Adunque se dopo le più coscienziose investigazioni si
veggan sorgere tante ragioni affermative, tante valide ragioni che ripetono la loro origine
dall‟esperienza quotidiana degli avvenimenti e delle azioni umane; se inoltre non si è lasciato
intentato alcun mezzo per poter credere anche alla possibilità del contrario, non potremmo negare
che l‟impressione prodotta in noi da tutte queste ragioni è pur la certezza. Or questa impressione è
in noi ingenerata dagl‟indizi non altrimenti che dalle altre pruove; e salvo che non si vogliano essi
spiegare come delle ipotesi straordinarie, e rinnegare l‟esperienza quotidiana della vita, è
impossibile soffocare in noi il convincimento della reità dell‟imputato, quando risulta dal perfetto
concorso degl‟indizi nel giudizio.”
“Si è diviso la pruova in naturale ed artificiale o circostanziata. La prima, che si è anche
addimandata immediata, ingenera direttamente il convincimento, e trasmette immediatamente ai
sensi i motivi di certezza riguardanti l‟obbietto, la cui realtà era a dimostrare. Per contrario la
seconda fondasi sopra motivi che non sono concludenti se non mercè le induzioni cui danno luogo.
La pruova naturale comprende, secondo le idee comunemente ammesse, tutti i mezzi fondati
sull‟evidenza materiale, in opposto degl‟indizi che costituiscono la pruova artificiale o
circostanziata. D‟altra parte quegli stessi che non voglion mai riconoscere pruova completa
negl‟indizi - ma solo pruove imperfette -, non potrebbero negare l‟esistenza della pruova artificiale
non appena le voci pruova e certezza si volessero ritenere come espressioni sinonime. Parrebbe
dapprincipio che la pruova naturale desse ai giudici più ampie sicurtà, e per conseguenza ben
comporterebbesi il legislatore nel concedere ad essa soltanto la facoltà di permettere l‟applicazione
delle pene, fossero anche le più severe; in effetti non appena scompare ogni dubbio intorno alla
veracità dei sensi di colui che depone, la dimostrazione dei fatti ne emana immediatamente; laddove
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la pruova artificiale non ingenera il convincimento se non mercè conclusioni spesso fragili, o mercè
il rapporto intimo che esiste fra varie circostanze riunite dal caso e che sta al nostro criterio di
accettare o rifiutare. Pure, nonostante queste speciose obbiezioni, dobbiam sempre ricordare quello
che abbiamo detto: la maggior parte dei mezzi di pruova non fondasi già, come credesi,
sull‟evidenza materiale, ed è un errore il supporre nascer da ciò la fiducia ch‟essi possono ispirare;
convien anzi ogni altro che la mete gli esamini, gli analizzi, e non è se non dopo aver percorso una
serie di ragionate conclusioni che l‟animo aggiusta fede alla loro veracità e convincesi della realtà
dei fatti dimostrati. Dopo ciò se noi, come ne abbiam ferma speranza, dimostreremo che anche
gl‟indizi forman pruova completa, essendo il loro meccanismo lo stesso degli altri mezzi, potremo
essere in dritto di conchiudere che la divisione di pruova naturale ed artificiale non à più alcun
obbietto pratico.”
“ Se egli è vero che amministrar la pruova o costruir la certezza è un tendere allo stesso scopo, deve
anche esser vero che qualunque mezzo di produrre la certezza sarà anche necessariamente un mezzo
di pruova. Possonsi ordinare questi mezzi sotto varie categorie:
1. E dapprima, vi à l‟evidenza materiale risultante dall‟osservazione personale del giudice; a
questa categoria appartiene l‟ispezione o contestazione giudiziaria.
2. D‟ordinario si suol collocare anche in essa la pruova per periti nel caso in cui, procedendo
personalmente alla ispezione oculare, aggiungansi i periti come ausiliari, e direi quasi per
rafforzare i sensi, allorchè abbandonati a se stessi sarebbe dubbia l‟efficacia delle loro
osservazioni.
3. La confessione dell‟imputato è stata anche considerata come un mezzo tratto dall‟evidenza
materiale sì, ma mediata.
4. Convien dir lo stesso della pruova testimoniale. Sembra a primo tratto che le deposizioni
formino pruova per ciò che poggiansi sulle osservazioni personali dei testimoni; pure se
vogliamo considerarle più da presso, tosto vederemo per esse formarsi in noi una catena
d‟induzioni, per la quale dee quasi passare il nostro spirito pria di giungere ad esser
convinto.
5. Ma quando giugnesi al mezzo di pruova risultante dal concorso degl‟indizi, il dubbio non è
possibile nemmeno per un istante.
6. Gli atti e i titoli per convincere posson finalmente essere noverati far i mezzi o fonti di
pruova; pure per vari riguardi è mestieri esser circospetto nell‟effetto che loro si attribuisce.
Saremmo ingiusti a non considerarli come fonti di pruova; perocchè: grande è la loro
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importanza quando dessi contestare il punto del fatto (titoli per convincimento); da tutti è
riconosciuto l‟effetto dei titoli pubblici, e gli stessi titoli privati posson recare delle notevoli
modificazioni nel modo di amministrare la pruova.
7. Nel diritto criminale comune dell‟Alemagna, il giuramento, o solo una delle sue forme (il
giuramento purgatorio) può essere noverato fra le pruove; perocchè il giudice alemanno à
dritto di prendere per motivi della sua decisione le spiegazioni dell‟accusato così
corroborate.
Nel significato legale i mezzi di pruova, o in una parola le pruove sono le fonti onde il giudice
attinge i motivi di convinzione che la legge dichiara sufficienti, perché applicandosi ai fatti rilevati
nel giudizio ne discenda naturalmente la sentenza. Ma quali pruove dovranno essere ammesse dalle
ben ordinate legislazioni? Questa quistione è campo ad inesauribili discussioni. Ma siam di credere
che siffatte quistioni sieno al tutto inutili al conseguimento della giustizia, ed al trionfo della verità,
perocchè in tutti i casi basterà il tenersi pago a studiare a fondo la natura delle varie pruove.”
1.2 All’attualità della tematica
Ai giorni nostri, il concetto di “prova”, in senso giuridico, può essere visto sotto due profili
differenti: prova come elemento di prova, definito in giurisprudenza come il dato informativo che si
trae dalla fonte di prova, e prova come dimostrazione di una data ipotesi sulla base degli elementi di
prova. “Prova scientifica”, quindi, come dato di fatto e come processo; nella prima accezione una
prova è ritenuta scientifica se raccolta e validata tramite metodologie scientificamente valide, nella
seconda accezione ciò che deve avere carattere di scientificità, più che la prova in sé, diventa la
dimostrazione, che per essere considerata scientifica deve garantire coerenza, completezza e
robustezza del processo di interpretazione e validazione dei vari elementi di prova. La scientificità
della dimostrazione dipende dalla bontà e dall‟accuratezza del ragionamento sotteso a tale
meccanismo, ragionamento messo in atto da chi legge, interpreta e concatena i diversi elementi di
prova in un quadro conciso e coerente.
Nello specifico del nostro ordinamento giuridico, il corpus principale delle normative in materia di
evidenze probatorie1, è sintetizzato e racchiuso nell‟articolo 192 del codice di procedura penale,
riportato di seguito:
1Le prove, in base al peso probatorio da esse rivestito, possono venire classificate in dirette, indirette ed indizi.
(Gulotta 2000).
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Art 192 c.p.p. Valutazione della Prova
1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri
adottati
2. L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi,
precisi e concordanti (2729 c.c.)
3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato (110 ss.c.p.) o da persona
imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli
altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità
4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata
di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall’art. 371 (comma 2
lett.b).
Nel panorama dell‟attuale processo penale, tuttavia, accanto alle prove “classiche” iniziano ad
affacciarsi tipologie di prova “atipiche”, diverse da quelle canoniche, che andrebbero di volta in
volta analizzate e valutate per poter indagare la loro ammissibilità nel processo e la loro utilità ai
fini di quello che resta sempre e comunque lo scopo ultimo di ciascun processo, ossia la ricerca
della verità.
Le cosiddette “prove atipiche” in realtà altro non sono che tipologie di prova diverse dai modelli
legali previsti dal Codice. Una distinzione importante da sottolineare sin da subito è quella tra prova
atipica e prova illecita: la prima è sostanzialmente una prova non prevista dall‟ordinamento, mentre
la seconda è una prova tipica, ma assunta in violazione di una norma di legge, dei requisiti di
ammissibilità o di regole che ne disciplinano l‟assunzione.
Le varie definizioni di prova atipica differiscono tra loro nel porre l‟accento su differenti atipicità
della prova. Nello specifico: Taruffo sostiene che l‟atipicità si riferisca sia al mezzo istruttorio non
incluso nel catalogo codicistico, sia al modo di acquisizione del mezzo di prova diverso dal modello
legale; Montesano, invece, riconduce l‟atipicità unicamente alla fonte di prova e non alla modalità e
al procedimento della sua assunzione.
Il concetto di atipicità, anche solo con riferimento alla fonte di prova, comprende tipologie molto
eterogenee, che difficilmente possono ricondursi ad unità, sia per la diversa natura che per la
diversa efficacia. Il termine atipicità, infatti, è utilizzabile per ciascuna fonte di prova non
espressamente prevista come tale dall‟ordinamento; ad esempio, Tarzia distingue le prove atipiche
in nuove prove imposte dal progresso scientifico, prove tendenzialmente sostitutive di quelle vigenti
nel codice e prove raccolte in altro processo.
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Nel concreto, il concetto di prova atipica si articola in diverse situazioni:
- impiego a fini probatori di strumenti non previsti dal codice, siano esse prove nuove o prove
sostitutive di normali prove tipiche;
- impiego a fini probatori di strumenti previsti dal codice ma destinati ad altro scopo (ad
esempio, sentenza, perizia, comportamento processuale come mezzo di convincimento);
- impiego a fini probatori di strumenti previsti dalla legge a tale scopo, ma raccolti in una sede
diversa da quella in cui sono valutati (prove assunte in un altro processo).
I due diversi percorsi che la dottrina giurisprudenziale intraprende in tema di prove atipiche vedono,
da una parte, tali prove come rilevanti nel giudizio, mentre, dall‟altra, come prive di una propria
autonomia categoriale.
Il primo contributo sulla tematica è stato, negli anni ‟70, quello di Taruffo che, contrariamente alla
posizione di Carnelutti (secondo cui il criterio da applicare a tale tipologia di prove era quello
dell‟analogia, per cui si poteva rinvenire per ciascuna prova atipica la rispettiva prova tipica - per
caratteristica e funzione - la cui disciplina legale potesse essere applicata; e laddove non vi fosse
corrispondenza analogica tra le prove, la valutazione della prova atipica doveva essere assegnata al
prudente apprezzamento del giudice) che affidava la valutazione delle prove atipiche al libero
convincimento del giudice, sostiene che “la regolamentazione analitica e spesso assai rigorosa di
alcune prove, presente nel diritto positivo, non rileva nel senso di dimostrare l‟inammissibilità delle
prove atipiche, ma può costituire una ragione per ritenere che il legislatore, nell‟ammetterle o nel
non escluderle espressamente, non abbia inteso equipararle alle prove vere e proprie, bensì
sottoporle al regime che l‟art. 2729 c.c. prevede per la valutazione degli indizi”. Montesano,
riconoscendo anch‟egli rilevanza a tali tipologie di prove nel giudizio, ma con una posizione
leggermente diversa da quella di Taruffo, attribuisce alle prove atipiche un valore analogo agli
argomenti di prova, che non sono propriamente prove, ma “strumenti logico-critici per valutare le
prove tipiche”.
Di contro, c‟è chi contesta l‟equiparazione dell‟efficacia delle prove atipiche sia agli indizi che agli
argomenti di prova. In quest‟ottica Cavallone, parlando degli indizi, sottolinea come la prova atipica
possa avere indifferentemente ad oggetto la verifica tanto di un fatto principale quanto di un fatto
secondario, mentre il ragionamento presuntivo parte da un fatto secondario per arrivare ad uno
principale. Inoltre, continuando con il pensiero di Cavallone, per quanto concerne l‟equiparazione
della prova non in catalogo all‟argomento di prova, essa non è contemplata in quanto il giudice,
avendo a disposizione due prove contrastanti, potrebbe affidarsi, ad esempio, alla prova atipica per
prendere la sua decisione, prova che quindi diventerebbe determinante per il suo convincimento,
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perdendo così il semplice valore di argomento di prova, dal quale di certo non si può far dipendere
una decisione.
Per quanto attiene al processo penale, l‟art. 179 c.p.p. introduce nelle disposizioni generali il
principio di tassatività dei mezzi di prova, che vieta l‟utilizzo di strumenti che, in quanto privi di
regolamentazione, potrebbero aprire facilmente la strada ad abusi. Tale principio, se da un lato
potrebbe pregiudicare la ricerca della verità, dall‟altro consentirebbe sicuramente di tutelare principi
fondamentali quali il diritto alla difesa e la soggezione del giudice alla legge. Il principio di libertà e
quello di tassatività della prova, riferiti entrambi al momento di scelta, acquisizione ed ammissione
degli strumenti istruttori, diversi quindi dai concetti di legalità e libero convincimento del giudice,
che invece si riferiscono al momento valutativo, vengono attentamente indagati e criticati in linea di
principio da Zappalà. Secondo l‟autore, l‟errore risiederebbe nell‟estendere il principio del libero
convincimento del giudice a quello della libertà dei mezzi di prova, comprendendo in essi anche
quelli irregolarmente acquisiti. Il libero convincimento attiene, infatti, alla valutazione delle prove,
facendo riferimento quindi al giudice, mentre la libertà dei mezzi di prova si riferisce alle modalità
e agli strumenti del procedimento probatorio che, in quanto regole processuali devono essere
imposte dal legislatore; si potrebbe dunque aggiungere che proprio il libero convincimento del
giudice implicherebbe necessariamente il principio di tassatività dei mezzi e dei modi di ricerca
della verità. I limiti imposti dal legislatore relativamente ai mezzi e ai modi di indagine, infatti, non
impedirebbero il raggiungimento della verità, anzi, tale regolamentazione rappresenterebbe proprio
il metodo di ricerca della verità stessa.
Uno strumento probatorio opportuno e necessario, ad oggi, per acquisire nel processo i nuovi mezzi
di indagine processuale è la perizia, che consente al giudice di assumere conoscenze tecniche
specifiche che altrimenti non avrebbe e che richiedono l‟intervento di un perito. Per quanto
riguarda, però, le risultanze peritali, il giudice è privo degli strumenti intellettivi atti a valutarne
l‟attendibilità, ragion per cui egli può limitarsi ad esercitare un controllo sulla perizia in particolare
e sulle risultanze processuali in generale, valutando la razionalità e la coerenza del procedimento
logico seguito dal perito, la sua autoritarietà scientifica e la notoria a acquisizione al patrimonio
scientifico dei metodi di indagine utilizzati dall‟esperto.
Allargando lo sguardo dalla perizia al più ampio discorso dell‟ammissibilità delle prove atipiche nel
processo penale, il codice di procedura penale del 1988 ha eliminato ogni dubbio sull‟ammissibilità
di tale tipologia di prova, legittimando espressamente la categoria delle prove fuori catalogo, come
stabilito dall‟articolo 189 c.p.p.:
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Articolo 189 c.p.p. Prove non disciplinate dalla legge
1. Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa
risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti (187 c.p.p.) e non pregiudica la libertà
morale della persona (64, co. 2).
2. Il giudice provvede all'ammissione, sentite le parti, sulle modalità di assunzione della
prova.
Relativamente alle prove atipiche, tale articolo non detta alcuna aprioristica preclusione nei
confronti delle prove non disciplinate dalla legge, rimandando al giudice, di volta in volta, il
compito di valutare se una data prova atipica, di cui la parte chiede l‟ammissione, possa o meno
essere acquisita. Tale valutazione deve basarsi su due importanti prescrizioni dell‟art. 189 c.p.p.,
ossia che la prova deve essere idonea ad assicurare l‟accertamento del fatto e essa non deve
pregiudicare in nessun modo la libertà morale della persona; tutto ciò si traduce nella non
ammissibilità della prova atipica quando essa implichi il ricorso a metodiche tali da vanificare o
compromettere la normale attitudine della persona ad autodeterminarsi e ad esercitare le proprie
facoltà mnemoniche e valutative al pieno della loro funzionalità. Qualora tali prerogative vengano
garantite, e la prova venga ammessa al processo, sarà ancora compito del giudice, pur dovendo
sentire le parti, definire in concreto le modalità di assunzione della suddetta prova.
Ora, a prescindere dalle caratteristiche e dalle differenze riscontrabili nelle varie tipologie di
elementi probatori rintracciabili nel panorama giuridico, la valutazione delle prove risulterà
comunque composta da una molteplicità di fattori, che vengono a coincidere e ad amalgamarsi
durante il dibattimento: le prove innanzitutto, l‟insieme del fatto ricostruito, i sentimenti che
vengono stimolati, l‟idea di giustizia, i criteri di legge, le convinzioni soggettive. L‟iter che conduce
alla decisione, sia sui singoli elementi, sia sul caso globalmente considerato, si concretizza di
conseguenza in un misto tra ragione, regole ed emotività, tra libero convincimento e tassatività, tra
criteri di scelta scritti e generali e criteri soggettivi e incoscienti, in una misura che è variabile, ma
che consente una differenziazione tra giusto e sbagliato, tra verità e falsità.
Per garantire, quantomeno, che al singolo elemento di prova, prescindendo dunque dall‟integrazione
ed elaborazione di una serie di evidenze, venga attribuito il giusto peso e la giusta rilevanza, dove
per prova rilevante si intende “un elemento di prova in grado di rendere l‟esistenza di un fatto, che
abbia conseguenze ai fini della determinazione dell‟azione legale, più probabile o meno probabile
rispetto a quanto sarebbe in assenza di quell‟elemento”, si rende indispensabile il ricorso al
Teorema di Bayes.
16
2. Le prove scientifiche in senso bayesiano
Per dare maggior rigore e scientificità al processo di valutazione delle prove, la funzione formale di
revisione di fiducia verso le ipotesi maggiormente conosciuta e utilizzata, è costituita dal Teorema
di Bayes.
Al fine di comprendere meglio tale teorema, si rende necessario un, seppur sommario, richiamo alle
nozioni di base della teoria probabilistica. I principali assiomi della teoria della probabilità da cui
discendono le regole della teoria di Bayes sono i seguenti:
- la somma delle probabilità di un insieme esaustivo di eventi mutuamente escludentisi è
uguale a uno;
- se due eventi sono mutuamente escludentisi, la probabilità che si verifichi l‟uno o l‟altro dei
due eventi è uguale alla somma delle probabilità dei singoli eventi;
- la probabilità che due eventi indipendenti si verifichino entrambi è uguale alla probabilità
che si verifichi il primo moltiplicato per la probabilità che si verifichi il secondo. Ma non
sempre gli eventi sono indipendenti: in alcune circostanze la probabilità di un esito dipende
dall‟accadimento che lo ha preceduto.
In quest‟ultima eventualità, dovremmo essere in grado di valutare la probabilità di un dato evento
sulla base di eventi precedenti, rivalutando e revisionando così le nostre stime probabilistiche alla
luce delle informazioni in nostro possesso derivanti dal contesto. Ed a tal fine è utilizzabile la
formula di Bayes che ci consente, appunto, di ricalcolare i gradi di fiducia nelle nostre ipotesi attuali
riguardanti una data prova, dopo aver valutato l‟esito degli esperimenti volti a validarla.
2.1. Il Teorema di Bayes
Le nozioni fondamentali che costituiscono la struttura del teorema sono quattro: la probabilità a
priori, la probabilità a posteriori, la probabilità condizionale ed il rapporto di verosimiglianza.
Considerando una situazione binaria, in cui ci si trovi di fronte a due ipotesi alternative che
indicheremo con H e ¬ H, si danno le seguenti definizioni:
1. La probabilità a priori di un‟ipotesi H corrisponde alla stima iniziale che tale ipotesi sia
vera, e si esprime con il simbolo p(H); di contro, la probabilità che essa sia falsa, o che sia
vera l‟ipotesi alternativa, si indicherà col simbolo p(¬H).
2. La probabilità a posteriori di un ipotesi H rispetto ad un elemento E, rappresenta la
probabilità che l‟ipotesi sia vera alla luce dei dati osservati e di una nuova evidenza E, e si
indica con il simbolo p(HE).
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3. La probabilità condizionale p(EH) è la probabilità di ottenere evidenze E a supporto
dell‟ipotesi H nel caso in cui questa fosse vera, o di ottenere dati a sfavore di tale ipotesi nel
caso in cui questa fosse falsa; questo tipo di probabilità è simbolizzato come p(EH) nel
primo caso o come p(E¬H) nel secondo. In realtà qualsiasi rappresentazione probabilistica
che contenga il simbolo , che sta a significare “a condizione di”, “alla luce di”, o “dato
che”, viene definita probabilità condizionale, in quanto la probabilità di un dato è
condizionata dalla probabilità dell‟altro, queste espressioni probabilistiche verranno, infatti,
lette come “la probabilità di x dato y”.
4. Il rapporto di verosimiglianza, infine, è ottenuto dalla divisione della probabilità di
rintracciare un‟evidenza E supponendo che l‟ipotesi H sia vera, per la probabilità di
rintracciare tale evidenza a prescindere dall‟ipotesi; in simboli p(EH)/p(E).
Queste nozioni basilari costituiscono gli elementi fondanti della formula di Bayes, da esse
ricavabile. Nella sua formulazione semplice il teorema si presenta come di seguito:
A. p(HE) = p(H) x p(EH)/p(E)
Verbalizzando: la probabilità a posteriori di un‟ipotesi, revisionata quindi alla luce delle nuove
evidenze, è data dalla sua probabilità a priori, ossia espressa prima dell‟acquisizione di ulteriori
informazioni, moltiplicata per il rapporto di verosimiglianza della nuova evidenza in relazione
all‟ipotesi di partenza.
Dato che però, all‟inizio della trattazione, abbiamo deciso di considerare la situazione in cui ci siano
due ipotesi alternative da testare, H e ¬H, è più conveniente, al fine di esemplificare e meglio
chiarire le varie circostanze in cui trova applicazione il teorema di Bayes, esprimerlo in una
formulazione equivalente alla precedente, ma che tenga conto della verità e della falsità delle ipotesi
basandosi sui rapporti di verosimiglianza.
La forma a rapporti è la seguente:
p(HE) p(H) p(EH)
B. ________ = ______ x ________
p(¬HE) p(¬H) p(E¬H)
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Tale teorema è un modello normativo della revisione delle opinioni, un modello in base al quale si
può determinare se un individuo ha aggiornato in maniera ottimale la propria opinione o probabilità
iniziale, in funzione della quantità di informazione che gradualmente ha ricevuto. Il teorema
proposto, volendone dare una formulazione molto schematica, stabilisce che se moltiplichiamo il
nostro parere a priori per l‟informazione di verosimiglianza, otteniamo il nostro parere a posteriori.
Nella formula B, accanto, nell‟ordine, al rapporto a posteriori, che coincide con l‟obiettivo
dell‟indagine, ed al rapporto a priori, che rappresenta il punto di partenza dell‟indagine, troviamo il
rapporto di verosimiglianza (likelihood ratio), ovvero l‟informazione di reale valore diagnostico,
che in questo tipo di formulazione è degno di nota, in quanto, espresso in termini di rapporti,
l‟ultimo fattore è conosciuto come “rapporto di Bayes” oppure “fattore di Bayes”, ed è solitamente
indicato con la lettera K.
p(EH)
C. K (EH) = __________
p(E¬H)
Questo fattore corrisponde al rapporto tra la probabilità di riscontrare una determinata evidenza nel
caso in cui l‟ipotesi sia vera e nel caso in cui non lo sia, in pratica K sta a rappresentare il “peso
della prova”, la sua “forza probatoria” in gergo giuridico o la sua “diagnosticità” in termini medici.
La formula di Bayes è moltiplicativa, quindi se un fattore è superiore a 1 il risultato aumenta, se un
fattore è inferiore a 1 il risultato diminuisce. Riepilogando, possono darsi tre casi:
1. K = 1 quando nella formula numeratore e denominatore sono uguali. In questa circostanza E
ha la stessa probabilità di presentarsi sia nel caso in cui l‟ipotesi sia vera, sia nel caso in cui
sia falsa; l‟evidenza a nostra disposizione non supporta né la verità, né la falsità della nostra
ipotesi, essa sarà, dunque, ritenuta neutrale o irrilevante ai fini del giudizio.
2. K 1 quando nella formula il numeratore è superiore al denominatore. In questa situazione
l‟evidenza E ha un impatto positivo sull‟ipotesi, va ad incrementare la probabilità che
quest‟ultima sia vera; l‟informazione acquisita sarà, quindi, considerata una conferma della
nostra ipotesi.
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3. K 1 quando nella formula il numeratore è inferiore al denominatore. In questa condizione
l‟evidenza E ha un impatto negativo sull‟ipotesi, va a ridurre la probabilità che quest‟ultima
sia vera; l‟informazione acquisita sarà, quindi, una disconferma della nostra ipotesi, in
quanto andrà a confutarla.
Una importante distinzione, inoltre, da tenere sempre in considerazione è quella tra probabilità e
conferma. Il punto di arrivo dell‟analisi delle evidenze è la revisione e l‟aggiornamento delle
conoscenze alla luce di queste. Ciò è un dato di fatto, però ci si potrebbe porre un altro tipo di
interrogativo: quanto cambia la nostra opinione in merito ad una determinata ipotesi H data una
certa evidenza E? Quanto è forte l‟argomento induttivo che da E conduce ad H?
In risposta a tale quesito, esistono tante e diverse misure di conferma Bayesiane, elaborate da tanti e
diversi autori. Da un punto di vista qualitativo, queste misure sono in perfetto accordo, nel senso
che, per ciascuna di esse, assumere valori superiori allo zero, in condizioni in cui p(HE) è
maggiore di p(H), equivale a confermare un‟ipotesi, assumere valori inferiori allo zero, con p(HE)
minore di p(H), significa confutarla, mentre risultare pari a zero, quindi avere coincidenza tra
p(HE) e p(H), rappresenta la neutralità dell‟indice che non ha alcun impatto sull‟ipotesi da
verificare. Ciò in cui le suddette misurazioni differiscono è la loro dimensione quantitativa; una
misura quantitativa di conferma possiede la peculiare proprietà di consentire giudizi ordinali relativi
alla forza induttiva delle evidenze empiriche, consente, in altri termini, di ordinare le informazioni
raccolte sulla base del loro grado di supporto alle ipotesi, permettendo, ad esempio, di asserire che
“l‟ipotesi H riceve più supporto empirico da E1 piuttosto che da E2”, o anche che “l‟evidenza E
conferma in maggior misura H1 piuttosto che H2”.
2.2. La qualità e la quantità delle informazioni
Nel processo di revisione delle ipotesi e della successiva conferma o disconferma delle stesse, i
giudizi che le persone esprimono in merito all‟eventuale cambiamento delle loro opinioni, può
essere influenzato dalla quantità e dal peso delle informazioni di cui entrano in possesso. I criteri
normativi, e psicologicamente plausibili, che prendono in considerazione le caratteristiche dei dati a
disposizione e che consentono una misurazione delle loro proprietà intrinseche sono l‟information
gain ed il weight of evidence.
2.2.1 Il guadagno di informazione
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Il concetto di guadagno di informazione è strettamente legato a quello di entropia, o incertezza,
introdotto nel 1948 da Shannon, all‟interno della sua teoria statistica dell‟informazione. Secondo
tale approccio, in poche parole, il maggior guadagno di informazione lo otterremmo se ci
trovassimo in situazioni di massima incertezza.
L‟entropia (H) teorizzata da Shannon, dunque, in una distribuzione discreta di una serie di
probabilità p1, p2, p3…pn, sarà:
H = - pi log pi
Come si nota, nel calcolare il livello di entropia ci si serve di logaritmi in base 2, la cui unità di
misura è il bit, definito come il quanto di informazione che permette di decidere tra due ipotesi
equiprobabili. L‟apice dell‟entropia, che corrisponderà ad 1 bit, si raggiungerà quando una variabile
casuale avrà le stesse distribuzioni di probabilità, quindi in presenza di due ipotesi equiprobabili (in
presenza di quattro ipotesi equiprobabili l‟entropia sarà 2 bit, e così via).
Il guadagno d‟informazione (IG) altro non è che la differenza tra l‟entropia prima di ricevere un
insieme di dati, e l‟entropia dopo aver ricevuto quei dati. In un contesto naturale o sociale, possiamo
derivare il guadagno di informazione sottraendo dall‟entropia a priori, ovvero dall‟incertezza
connessa alle opinioni iniziali, l‟entropia a posteriori, ossia il livello d‟incertezza alla luce di nuove
evidenze. Questo metodo viene solitamente adottato per individuare delle modifiche o dei
cambiamenti nelle informazioni, ma è nel non scindere il grado di conferma di un‟evidenza nei
confronti di un‟ipotesi dalle probabilità a priori e a posteriori di tale ipotesi, che viene rilevato il suo
limite. Sarebbe, dunque, più opportuno utilizzare una formalizzazione che possa misurare
quantitativamente e specificamente il grado di conferma o di disconferma che un dato elemento
apporta ad un‟ipotesi.
2.2.2 Il peso dell’evidenza
Alla luce degli aspetti critici riconosciuti per l‟information gain, è stato testato anche un altro
criterio normativo: il weight of evidence (concetto sistematicamente definito da Good nel 1988).
Il peso dell‟evidenza può essere definito come il contenuto informativo che una determinata
evidenza apporta ad un determinato evento, in un determinato momento. La nozione abbraccia sia il
riferimento alla quantità di informazione, sia la probabilità che l‟evento effettivamente abbia luogo.
In altre parole, il weight of evidence è una valutazione quantitativa del grado di supporto che una
nuova evidenza dà ad una o più ipotesi, e la sua rilevanza consiste nel fatto che esso è una
formalizzazione che permette di comparare la plausibilità di una o più ipotesi alla luce di una serie
di nuovi avvenimenti.
21
Pertanto, il weight of evidence (W) rappresenta la differenza tra la parte di informazioni contenute
in E, ovvero nella nuova evidenza che fornisce appunto nuove informazioni, acquisite dalla prima
ipotesi H1, e la parte di informazioni di E di cui usufruisce la seconda ipotesi H2. Si avrà che:
W (H1/H2:E) = log [p(H1E)/p(H1)] – log [p(H2E)/p(H2)]
Il weight of evidence può quindi assumere sia valori positivi che valori negativi, a seconda che
l‟attuarsi di un determinato evento conduca alla conferma o alla confutazione dell‟ipotesi che si sta
verificando.
Dalla formula sopra esposta, si può derivare matematicamente una formulazione equivalente del
“peso dell‟evidenza”, che è quella contenuta nel Teorema di Bayes, ed alla quale faremo, d‟ora in
poi, riferimento:
p(EH)
K (EH) = _____________
p(E¬H)
Comparando i due tipi di misure analizzate, si desume che tramite il “peso dell‟evidenza” è
possibile quantificare, con un'unica formula, il contributo informativo di un evento in favore di
un‟ipotesi, prendendo in considerazione le probabilità condizionali di ciascuna ipotesi alternativa; di
conseguenza la misurazione risulterà calibrata sulle ipotesi che sono state confermate o confutate.
Al contrario, il “guadagno di informazione” è una misura che considera l‟entropia di un sistema
indipendentemente dall‟evidenza, più precisamente si focalizza unicamente sulle probabilità di base
e sulle probabilità a posteriori.
In conclusione, quindi, il weight of evidence non prende in considerazione le probabilità iniziali e
finali, mentre l‟information gain fallisce nel dare un peso al ruolo dell‟evidenza nella valutazione di
ipotesi.
2.3. Le applicazioni del Teorema di Bayes
Nel ragionamento probatorio, il modello logico-scientifico che si propone di regolarizzare e
formalizzare con maggior rigore il processo di pensiero che sta dietro alla presa di decisione, si
22
concretizza nel Teorema di Bayes. I concetti di probabilità a priori, probabilità a posteriori e,
soprattutto, peso della prova, assumono in questo contesto particolare rilevanza.
Ciascuno degli elementi bayesiani, all‟interno della sfera legale, divengono passibili a varie
interpretazioni, legate al particolare ambito d‟applicazione. La formalizzazione bayesiana della
probabilità a priori nel ragionamento induttivo giudiziario, ad esempio, è stata oggetto di molte
critiche, mosse da chi ritiene “immorale, illegale ed inopportuno” attribuire una probabilità di
colpevolezza a priori ad un individuo, prima di aver preso visione delle prove a suo carico o a sua
discolpa. Alcuni ritengono che, in virtù della “presunzione di innocenza” fino a prova contraria di
ogni cittadino, la probabilità di colpevolezza a priori dovrebbe essere nulla, ma ciò solleva due
problematiche significative. Innanzitutto una probabilità nulla non può accrescersi alla luce di dati
successivi, qualunque sia il loro peso ed in qualsiasi direzione essi puntino (sia verso la condanna
che verso la discolpa), e ciò equivarrebbe a sostenere l‟innocenza in ogni caso, in presenza di
qualsiasi tipo di evidenza raccolta; secondariamente, va sottolineato che una probabilità nulla
corrisponde all‟impossibilità di un evento, quindi, assegnare una probabilità di colpevolezza a priori
pari a zero ad un soggetto, corrisponderebbe a ritenere impossibile che l‟imputato in questione
possa essere il colpevole, ma questa posizione esula dalla presunzione di innocenza. La corretta
applicazione di questo dettame giuridico, invece, dovrebbe tradursi nella stima, da parte del giudice,
di una probabilità a priori di colpevolezza molto più bassa, e comunque bassa in assoluto, rispetto
alla probabilità a priori di innocenza, ma in ogni caso non nulla.
La regola di Bayes, nella sua formalizzazione a rapporti, è la seguente:
p(HE) p(H) p(EH)
________ = ______ x ________
p(¬HE) p(¬H) p(E¬H)
e l‟ultimo fattore, il rapporto di verosimiglianza (likelihood ratio), ovvero l‟informazione di reale
valore diagnostico, conosciuto come “rapporto di Bayes” oppure “fattore di Bayes”, solitamente
indicato con la lettera K
p(EH)
K (EH) = __________
p(E¬H)
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esprime esattamente il “peso della prova”, la “forza probatoria” dell‟evidenza.
Questo fattore rappresenta il rapporto tra la probabilità di riscontrare una determinata evidenza nel
caso in cui l‟ipotesi sia vera e la probabilità di osservare la stessa evidenza nel caso in cui l‟ipotesi
sia falsa.
All‟interno del ragionamento probatorio questa particolare formalizzazione bayasiana, che mette in
risalto il peso dell‟evidenza, assume notevole importanza e rilevante utilità, in quanto essa è in
grado di misurare quanto uno o più elementi di prova accrescano o diminuiscano la credibilità di un
dato tema di prova rispetto alla credibilità del suo contrario. Dato che il peso della prova E sarà
favorevole all‟ipotesi H se il rapporto di Bayes sarà maggiore di uno, sfavorevole ad H se il
rapporto sarà minore di uno, e neutrale o irrilevante ai fini dell‟ipotesi se tale rapporto sarà uguale
ad uno, il rapporto tra le probabilità a posteriori (primo membro nella formula del teorema)
misurerà immediatamente quanto l‟elemento di prova E accresca o diminuisca la credibilità del
tema di prova H: la credibilità del tema di prova H rispetto al suo contrario aumenterà o diminuirà a
seconda che il rapporto tra le probabilità a posteriori sia rispettivamente maggiore o minore di uno.
Ciò che preme sottolineare è che, in riferimento alle critiche mosse riguardo l‟impossibilità in un
sistema giudiziario di stimare delle precise probabilità a priori, utilizzando questo approccio, tale
limite viene superato, dato che in questo modello una precisa quantificazione della “colpevolezza a
priori” non è necessaria alla valutazione delle prove: nel calcolare il rapporto delle probabilità a
posteriori tra la tesi dell‟accusa (H) e quella della difesa (¬H), il “peso della prova” e le “probabilità
a priori” devono essere valutate indipendentemente l‟una dall‟altra. Ed è proprio questa
indipendenza a rendere il “peso della prova” teorizzato da Bayes particolarmente adatto alla
valutazione di prove giudiziarie.
L‟importanza che questo concetto assume è riconducibile principalmente al fatto che, in realtà, “il
peso della prova” indica un ordine di grandezza, e non un valore assoluto; questa constatazione,
nella pratica giudiziaria, si traduce in una separazione dei ruoli tra lo scienziato forense ed il
giudice. All‟interno di un processo giuridico, infatti, lo scienziato forense dovrebbe pronunciarsi sul
“peso della prova”, e non sulle probabilità a priori e a posteriori, sulle quali è compito unicamente
del giudice effettuare delle valutazioni, in quanto è lui e solo lui ad avere piena conoscenza di tutti
gli altri elementi di prova del caso. Da questa prospettiva, il teorema di Bayes risulta inoltre di
elevata utilità in quanto consente di fissare, almeno approssimativamente, quale ordine di grandezza
dovrebbe avere una data probabilità a priori di colpevolezza per superare, alla luce di un dato
elemento di prova, la soglia del ragionevole dubbio.
24
3. Le prove scientifiche di tipo statistico
L‟importanza della relazione tra statistica, diritto e psicologia è evidenziata dal fatto che due tra i
principali errori cognitivi di interpretazione ed utilizzo delle prove statistiche in sede processuale,
sono stati denominati Prosecutor’s Fallacy e Defense Attorney’s Fallacy, ovvero errore
dell‟accusatore ed errore del‟avvocato difensore. In breve, il primo tipo di errore, molto
frequentemente commesso sia da chi introduce la statistica nelle aule di Tribunale, sia da chi deve
valutare queste nuove conoscenze, consiste nel correre il rischio di accusare una persona innocente,
o comunque di sovrastimare le evidenze di colpevolezza, anche quando queste non sono
sufficientemente diagnostiche. Il secondo tipo di errore, invece, si presenta nel momento in cui la
probabilità di corrispondenza o la diffusione nella popolazione di riferimento di determinate
caratteristiche incriminanti (ad esempio un profilo del DNA) vengono considerate informazioni non
rilevanti (Thompson, Schumann, 1987).
Queste due tipologie di errore così diffuse, sono state portate alla luce grazie ad una serie di ricerche
condotte in merito agli aspetti psicologici e metodologici della prova scientifica di tipo statistico:
quando dati ed informazioni statistiche vengono utilizzate in qualità di prove ed evidenze all‟interno
di un processo, infatti, è possibile che le stesse affermazioni vengano presentate ed interpretate in
modo differente se a farlo è l‟accusa o la difesa.
Per poter comprendere queste fallacie all‟interno della giusta cornice di riferimento, sarebbe
necessario introdurre e spiegare in dettaglio in cosa consiste e come viene utilizzata nel contesto
forense la prova scientifica di tipo statistico. Innanzitutto, la prova scientifica e, quindi, il metodo
scientifico, entrano in relazione con il processo, sia esso civile o penale, ogni volta che periti,
consulenti tecnici e autorità giudiziarie se ne servono per risolvere questioni che hanno una valenza
scientifica. Ora, l‟utilizzazione nel procedimento penale della prova scientifica, di fatto,
consentirebbe di calcolare il quantum di probabilità di verificazione del factum probandum a partire
dal coefficiente probabilistico assegnato all‟evidenza disponibile; in altre parole, mediante un
semplice calcolo matematico si potrebbe determinare il quantum di persuasività dell‟ipotesi
ricostruttiva del fatto in relazione al principio dell‟oltre ogni ragionevole dubbio (ad es. Teorema di
Bayes). Il metodo proposto permetterebbe quindi, tramite un calcolo a posteriori della probabilità di
verificazione del fatto che consente di considerare tutte le evidenze disponibili ed acquisite al
processo in itinere, di dar conto in termini numerici della progressione cognitiva che si sviluppa
nell‟arco del procedimento.
25
3.1 La prova statistica
Tra le varie tipologie di prove scientifiche, particolare rilievo vanno assumendo le prove statistiche,
ossia tutte quelle evidenze, testimonianze e resoconti che hanno a che fare con i dati statistici e con
la teoria della probabilità. Le conseguenze, però, dell‟utilizzo della suddetta tipologia di prova in
sede processuale, in termini di ricadute che una condanna può avere sulla vita di una persona, fanno
sorgere una serie di dubbi dato che, anche se stiamo parlando di una scienza che ha a che fare con i
numeri, come la statistica, una determinazione quantitativa della colpevolezza deve restare estranea
agli orizzonti del processo (Frosini, 2002).
Al fine di comprendere meglio cosa significhi utilizzare la statistica all‟interno di un processo,
vengono riportati due casi emblematici e molto discussi, in cui si è fatto ricorso alla statistica in
modo non sempre rispettoso delle regole che fondano questa scienza. I casi giudiziari
dell‟infermiera Kristen Gilbert e dell‟avvocatessa Sally Clark mettono in risalto, appunto, come
un‟errata interpretazione delle prove statistiche possa causare errori giudiziari significativi.
3.1.1 Il caso Gilbert
Verso la metà degli anni ‟90 la Gilbert, considerata da superiori e colleghi come un esempio di
capacità e competenza, lavorava come infermiera in un ospedale nel Massachusetts. Poco tempo
dopo il suo arrivo all‟ospedale, però, le colleghe iniziarono a notare qualcosa di strano: quando la
Gilbert era in turno si presentavano molti più casi di allarme e situazioni di crisi, cui spesso seguiva
la morte del paziente. Venne quindi condotta un‟indagine statistica che da cui risultò un‟accusa di
omicidio plurimo per la Gilbert, la quale avrebbe somministrato ad un numero elevato di pazienti
dosi letali di stimolante cardiaco. Nonostante le coerenza della motivazione all‟agire criminoso
trovata dall‟accusa in una passione della donna per le situazioni ad alto rischio che solo lei sapeva
gestire, le testimonianza delle infermiere sulla facilità di accesso della Gilbert ai farmaci e le
dichiarazioni del medico sulle condizioni di salute dei pazienti deceduti, le prove più convincenti
sulla colpevolezza della Gilbert erano quelle di natura statistica. La questione di fondo era: quanto è
vero che si sono verificati più decessi durante i turni in cui l‟imputata prestava servizio? Tramite un
test di significatività gli esperti giunsero a sostenere che in effetti il numero di decessi aumentava
durante i turni della Gilbert, e che questo aumento era risultato talmente estremo da non poter essere
considerato una variazione casuale. Alla luce di queste risultanze il Gran Giurì del caso United
States vs Kristen Gilbert ritenne convincenti le prove basate sulla testimonianza statistica ed
incriminò Kristen Gilbert.
Ciò che non si è tenuto in considerazione in questo caso è la fondamentale constatazione che
26
la scoperta di un‟associazione tra due eventi non indica la presenza tra questi di un nesso di
causalità. Il livello di significatività ottenuto nelle indagini statistiche effettuate, infatti, nulla può
dire relativamente ad una relazione di causa-effetto. Nella spiegazione del caso, si è dato poco peso
a quello che alcuni statistici considerano il contributo più importante della statistica, ossia la
comprensione della differenza tra uno studio osservazionale e un esperimento randomizzato. Con
uno studio osservazionale, come quello impiegato nel caso Gilbert, non si può mai sapere con
certezza se i numeri che stiamo guardando rappresentano la spiegazione delle variabili analizzate,
oppure se ci sono delle cause nascoste che rendono conto dei risultati del lavoro (Cobb, Gehlbach,
2005). Con un esperimento randomizzato, invece, i gruppi comparati sono creati in modo casuale.
Se le dimensioni del gruppo sono abbastanza grandi, il processo di randomizzazione distribuisce
(annullandone l‟influenza) tutte le possibili variabili che potrebbero rendere un gruppo diverso
dall‟altro; in altre parole, la randomizzazione uniforma tutte le influenze indesiderate, incluse quelle
che non si conoscono.
3.1.2 Il caso Clark
Un ulteriore esempio di fraintendimento grave nel ragionamento probabilistico e di applicazione
errata della prova statistica è il caso Clark. L‟avvocatessa Sally Clark, giovane donna, felicemente
sposata e madre di due bambini, viene condannata per l‟omicidio di questi ultimi dopo che il
pediatra, facendo l‟autopsia sui due bambini morti a poche settimane dalla nascita, trova danni alla
retina e all‟encefalo, compatibili con la sindrome del bambino scosso, che fanno sospettare di
maltrattamento. Dopo aver preso atto delle statistiche sull‟argomento (studi dei dottori Green e
Meadow sugli abusi sui minori), che dimostrano che il 40% delle morti naturali di neonati sono in
realtà casi di maltrattamento, nel 1998 Sally Clark viene arrestata con l‟accusa di duplice
infanticidio (http://www.sallyclark.org.uk/). Questo errore giudiziario è dipeso da un grave errore
statistico, o meglio, dall‟errata affermazione del dott. Meadow secondo cui la probabilità che nella
stessa famiglia si verifichino due morti in culla (o SIDS, Sudden Infant Death Syndrome) è pari a 1
su 73 milioni (Hill, 2004). Dato che i numeri influiscono più delle parole sul verdetto della giuria,
questa stima statistica, che risulterà completamente sbagliata, ha determinato il verdetto finale di
colpevolezza nei confronti di Sally Clark; non si è tenuto in considerazione, quindi, il fatto che
nonostante due casi di SIDS nella stessa famiglia siano un caso raro, anche due infanticidi ad opera
della madre possono risultare un evento altrettanto raro. Le probabilità dei due eventi andrebbero,
pertanto, considerate in parallelo.
27
Sulla vicenda di Sally Clark, che a seguito della riapertura del caso nel 2003 è stata scagionata da
tutte le accuse ed è stata rilasciata, si è espressa anche la Royal Statistical Society, attraverso una
lettera del presidente Prof. Peter Green. In questa lettera il Professore ha ritenuto necessario
spiegare quali siano stati gli errori e le disattenzioni che, attraverso l‟utilizzo della statistica, hanno
permesso questa ingiustizia. Green ha ritenuto doveroso sottolineare l‟importanze che il ricorso a
resoconti statistici nei Tribunali sia fatto secondo dei criteri scientifici corretti, che rispettino le
regole stesse della disciplina, al fine di evitare l‟impatto drammatico ed immediato sulla giuria e
sull‟opinione pubblica, che risulterebbe da una scorretta applicazione dei dettami statistici. Nella
lettera del presidente è stato inoltre ribadito che le evidenze e le prove statistiche devono essere
presentate nelle aule di Tribunale solamente da persone competenti -a differenza del dott. Meadow
che era un medico e non uno statistico-, così come avviene per qualsiasi altra tipologia di prova che
richieda conoscenze settoriali (The Royal Statistical Society, 2002).
3.2 L’utilizzo della prova statistica
Al fine di utilizzare al meglio la prova statistica in sede processuale, inoltre, la House of Commons
Select Committee on Science and Technology ha pubblicato, nel 2005, un report con diversi punti
sull‟uso della statistica in ambito legale, dal titolo “La scienza forense nel processo”. Per citare un
esempio, nel paragrafo 162 si legge “ la formazione di giudici e avvocati nel campo della statistica
può portare un importante contributo in Tribunale”. Il training per giudici e giuristi, quindi,
potrebbe essere fatto attraverso uno sviluppo professionale continuo, grazie all‟inserimento nei corsi
di laura di approfondimenti sulla statistica e sulla probabilità; soprattutto in considerazione del fatto
che le forze scientifiche e quelle giuridiche, almeno negli Stati Uniti, stanno iniziando a convergere.
Questa formazione consentirebbe, ad esempio, agli statisti di essere equipaggiati al meglio per
analizzare le testimonianze e le valutazioni degli esperti nei settori di loro competenza.
Sicuramente, però, ci sono una serie di requisiti che un esperto dovrebbe avere prima di fornire
prove statistiche durante un processo. In linea generale, essi includono (Aitken, 2009):
a) una certa familiarità con le leggi della probabilità, comprese quelle della probabilità
condizionata;
b) una conoscenza della variazione;
c) qualche conoscenza delle applicazioni di (a) e (b) nel contesto legale;
d) la capacità di interpretare i risultati linearmente ai principi scientifici;
e) la capacità di spiegare le proprie idee e concetti in modo non troppo tecnico, ma
comprensibile per tutti.
28
Una esemplificazione di quanto esposto, può essere fornita in riferimento al caso, più sopra
analizzato, dell‟avvocatessa Sally Clark. Per quanto riguarda in particolare il punto d), ci sono
alcuni dibattiti circa il significato esatto di “principi scientifici stabiliti”. Nel caso di Clark ci sono,
infatti, due difetti evidenti nei dati statistici che indicano che i risultati non sono stati interpretati in
conformità a questi principi. In primo luogo è stata considerata solo una proposta di spiegazione
per le due morti, quella di SIDS (Sudden Infant Death Syndrome), mentre la proposta alternativa
sarebbe che i bambini siano stati uccisi. Ora, l‟evento di 2 morti in una stessa famiglia per cause di
SIDS è veramente molto raro, ma questo non significa che le morti non siano dovute a SIDS;
l‟evento di un infanticidio è ancora più raro di una morte per cause naturali e improvvise (SIDS). Il
verificarsi di due omicidi nella stessa famiglia, quindi, è ancor più raro di quello di due morti per
SIDS. In secondo luogo, il perito non ha fornito i motivi specifici della sua decisione di assumere
come certa l‟ipotesi che i due bambini siano morti per SIDS.
Per ovviare a questi ed altri problemi che l‟introduzione della prova statistica potrebbe causare
all‟interno della cornice processuale, sarebbe opportuno fare ricorso al concetto di “prassi
migliore”, concetto importante che fa riferimento alla probabilità della prova. Il punto controverso
nel caso Clark, infatti, è relativo alla probabilità di una proposizione - la morte dei bambini è stata
classificata in SIDS -. La differenza tra la probabilità di una prova e la probabilità di una
proposizione risulta, invece, di fondamentale importanza. Un esperto non dovrebbe, infatti,
considerare la probabilità delle proposizioni, anche se in alcuni casi si rischia di commettere questo
errore e di cadere in confusione; il caso Clark è una di queste occasioni. La probabilità di un doppio
caso di SIDS è stata introdotta dalla procura, non dalla difesa, né dal perito. Questo però è solo un
suggerimento, non è una prova: è una spiegazione dell‟evento della morte dei due bambini; la
spiegazione alternativa è quella che i due bambini siano stati uccisi (Aitken, 2009).
Molti esperti di statistica e molti ricercatori che da anni si occupano dell‟utilizzo della statistica
all‟interno del processo, affermano, infatti, che sia errato e contraddittorio voler ottenere maggiori
certezze attraverso il ricorso alla statistica, salvo poi rifiutarsi di conoscere ciò che la statistica non
può dire o ciò che dice erroneamente (Thompson, Taroni, Aitken, 2003).
Per la presentazione corretta delle prove statistiche in un‟aula di Tribunale, si raccomanda, dunque,
che l‟esperto fornisca:
a) una spiegazione esaustiva dell‟attendibilità delle prove;
b) una accurata valutazione dell‟incertezza della prova, tenendo in considerazione almeno due
alternative separate;
29
c) una spiegazione completa del quadro delle circostanze in cui la prova è inserita, tra cui il
possibile ruolo dei fattori fuorvianti.
Un ulteriore supporto agli esperti per una corretta applicazione della prova statistica al contesto
legale, è offerto dal “Nuffield Council Report” del 2007, che raccomanda ai giudici e ai
professionisti che lavorano nel sistema della giustizia criminale:
1. di avere delle conoscenze statistiche, in particolare per quanto riguarda la prova del DNA;
2. di presentare chiaramente l‟evidenza statistica delle prove durante il processo e durante la
decisione;
3. di fornire alla giuria, in presenza di prove biologiche, informazioni introduttive per
assicurare le conoscenze di base sulle capacità e sui limiti di tali prove (Aitken, 2009).
A tal proposito, il caso Dreyfus (capitano dello Stato maggiore francese protagonista della
controversa vicenda giudiziaria in cui fu processato e condannato sulla base di quella che, all‟epoca,
venne ritenuta una evidenza scientifica -calligrafica- con fondamenti statistici) è esemplificativo
del fatto che l‟aurea di scientificità e impenetrabilità -per il profano- che circonda la prova di tipo
scientifico-statistico permette ad essa di vedersi attribuire un valore probatorio che, dal punto di
vista logico, non possiede: questo rischio è accentuato dal fatto che giudici, giurati e “profani” del
settore hanno numerose difficoltà a comprendere le informazioni presentate dagli esperti di
statistica; “la mente umana”, infatti, “è quasi-bayesiana” (Rumiati, 2008). Una possibile soluzione a
questa problematica potrebbe essere, appunto, quella di permettere a periti e consulenti tecnici
esperti in statistica di spiegare, prima di introdurre evidenze scientifiche di tipo statistico, almeno
alcuni concetti elementari della materia. E‟ possibile, infatti, migliorare la comprensione dei dati
statistici attraverso modalità più chiare di presentazione delle informazioni e attraverso la
spiegazione del Teorema di Bayes che risulta essere la concezione quantitativa della probabilità
meglio applicabile alla situazione processuale di valutazione della probabilità del verificarsi -o
meglio, dell‟essersi verificato- di un evento (Fenton, Neil, 2008).
Dunque, sia la relazione della House of Common Select Committee on Science and Technology, sia
quella del Nuffield Council on Bioethics, hanno sottolineato l‟importanza della statistica
nell‟amministrazione della giustizia, prendendo atto soprattutto della effettiva presenza di crescenti
movimenti dalla professione legale a quella statistica e viceversa.
Il DNA Profiling è, probabilmente, il maggior catalizzatore di questa tendenza. Attraverso la
presentazione di prove probabilistiche, infatti, si tratta di spiegare la valutazione della somiglianza
30
tra un profilo estratto dalla scena del crimine ed il profilo del sospettato. La Corte è giunta così a
riconoscere che la statistica ha davvero qualcosa da offrire al mondo della giustizia.
Ciò che si auspica, in conclusione, è che i concetti proposti portino ad una maggiore comprensione
dell‟idea di probabilità nel contesto legale ed al miglioramento della presentazione e
dell‟interpretazione delle prove statistiche in sede processuale (Aitken, 2009).
31
4. Le prove neuropsicologiche
L‟ultima frontiera del progresso scientifico in tema di evidenze probatorie è costituita dalle prove
neuropsicologiche. Prima di descrivere accuratamente questa nuova tipologia di prova, e di arrivare
ad occuparci quindi della neuropsicologia forense, trovo necessario introdurre la più ampia tematica
delle neuroscienze.
4.1 Le neuroscienze
Con il termine neuroscienze si indicano un gruppo di discipline tra loro assai eterogenee in cui
rientrano studi di anatomia, biologia molecolare, fisiologia, farmacologia, genetica, immunologia e
patologia del sistema nervoso centrale, periferico e autonomo. Nonostante l‟eterogeneità, tutti questi
campi del sapere hanno in comune la volontà di comprendere come il cervello renda possibili i
fenomeni mentali ed i comportamenti umani, anche quelli più complessi e tradizionalmente
considerati inaccessibili all‟indagine scientifica.
L‟obiettivo delle neuroscienze è lo studio di come la mente emerga dal suo substrato biologico,
ossia di come la mente emerga dal cervello. Infatti, la maggior parte dei neuroscienziati ritiene che
la mente sia ciò che il cervello fa, cioè, un processo derivante dall‟attività cerebrale: quando il
cervello viene ferito anche la mente deraglia, a volte in modo sconcertante.
Il riferimento comune di tutte le neuroscienze, all‟origine delle quali si situa la neuropsicologia
classica come scienza descrittiva, è il cervello, la cui struttura e funzionamento vengono indagati
con i metodi propri delle scienze naturali. Mentre fino a pochi anni fa lo studio del cervello era
limitato all‟analisi dei suoi aspetti patologici, oggi, grazie alle neuroscienze, diviene possibile
comprendere “come gli esseri umani pensano, prendono decisioni ed agiscono non solo in
condizioni patologiche, ma nel normale svolgimento delle loro attività”.
Il percorso logico seguito dalle neuroscienze è quello di risalire all‟indietro, dal comportamento e
dall‟esperienza fenomenica verso i comportamenti elementari misurabili, gli endofenotipi, fino ai
rispettivi correlati neurobiologici e infine ai determinanti genetici; il tutto, tenendo conto del
processo evolutivo che presiede all‟emergere ed alla sopravvivenza delle specie viventi, e senza
negare l‟importanza dei fattori culturali, educativi e ambientali che, regolando l‟espressione di
specifici geni, consentono di rendere unica la storia individuale di ciascun essere umano.
4.2 Le neuroscienze forensi
L‟attenzione del diritto, fino ad ora, era rivolta esclusivamente alla mente: il codice penale è
mentalistico, si parla di coscienza, volontà, intendere, motivi a delinquere. Oggi il dualismo mente e
32
corpo sembra essere superato. Obiettivo centrale delle moderne neuroscienze è, infatti, la cosiddetta
naturalizzazione del soggetto umano. Tale processo parte dal presupposto che uomo e natura non
siano entità separate, e che in realtà non ci sia nulla di eccezionale nella condizione umana; come
spiega Parisi «la naturalizzazione implica un rifiuto di ogni forma di dualismo: tra cervello e mente,
tra natura e cultura, tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, tra fenomeni che possono
essere “spiegati” e fenomeni che possono essere solo “compresi”. Naturalizzare l‟uomo significa
prima di tutto non considerarlo come “speciale”. Gli esseri umani hanno la tendenza e l‟esigenza di
considerare se stessi come „speciali‟, invece la scienza non considera nulla come “speciale”. Ogni
cosa ha almeno alcune delle sue caratteristiche che sono diverse da quelle di ogni altra cosa, ma
nulla è “speciale”». Nel mondo del diritto sembra essere praticamente accettato il fatto che un
trauma cranico (danno che attiene al cervello), causato, per esempio, da un incidente stradale, possa
mutare componenti psichiche e comportamentali. La genetica comportamentale, la sociobiologia, la
psicologia evoluzionistica, la neurochimica e infine le neuroscienze cognitive hanno segnalato
sperimentalmente delle correlazioni tra organismo e comportamento. Siamo alle soglie di un nuovo
paradigma scientifico; alcune importanti ricerche empiriche hanno, infatti, dimostrato come
l‟impianto teorico e la metodologia delle neuroscienze siano effettivamente in grado di apportare
significativi contributi alla comprensione dei comportamenti rilevanti in ambito giuridico.
“Le moderne neuroscienze rappresentano l‟espressione di una visione complessiva della natura
umana che, in quanto tale, è destinata ad investire fin dalle fondamenta l‟architettura concettuale del
sapere giuridico, costringendolo comunque ad un profondo ripensamento. Non sappiamo dire con
quali esiti, ma il ripensamento sarà inevitabile.”
Dalle parole di Bianchi si evince la centralità assunta dalle neuroscienze nel panorama forense,
l‟importante contributo che esse possono apportare alla conoscenza giuridica ed il fondamentale
supporto che sono in grado di fornire alla realtà processuale. Il rapporto tra diritto e neuroscienze, la
natura della loro relazione, l‟efficacia della loro interazione, sono argomenti che hanno ricevuto la
nostra attenzione solo di recente, sono tematiche senza dubbio innovative e che meritano un
dettagliato approfondimento, soprattutto alla luce del notevole contributo che offrono al sapere
giuridico.
Al fine di individuare stabili punti di incontro tra scienza e diritto, si rende necessario tenere in
considerazione alcuni aspetti:
- La pretesa delle moderne neuroscienze di identificare il soggetto che indaga con l‟oggetto
indagato è epistemologicamente ingenua; il diritto ha bisogno, infatti, di un soggetto al quale
ascrivere, ed eventualmente imputare, l‟azione. Il concetto giuridico di persona assume,
33
appunto, che il soggetto umano sia un agente razionale, capace di scegliere la propria
condotta sulla base delle proprie credenze, dei propri desideri e delle proprie intenzioni. Il
soggetto umano non si trova solo ad agire, ma possiede ragioni per agire, e sa comunicarle
agli altri.
- Il suddetto soggetto non deve essere sottratto alle leggi della natura, anzi, il diritto affida alle
neuroscienze il compito di far luce, con evidenze solide ed affidabili, sui reali meccanismi in
grado di spiegare come l‟azione umana concretamente si dispiega nel tempo e nello spazio,
ed a quali condizionamenti e vincoli è sottoposta. Kenny sostiene infatti che, secondo la
dottrina giuridica, “l‟uomo è un animale razionale, che agisce sulla base di ragioni e che dà
ragioni del proprio agire”.
- Tuttavia, la scienza può solamente fornire dei dati al diritto, non può assolutamente
interpretarli, poiché tale compito spetta unicamente alla giurisprudenza, e non può essere in
nessun modo delegato. Dunque, per dirla con le parole di Bianchi: “è forse giunto il
momento di chiedere non più scienza nei processi, ma di migliore qualità, più rigorosa nei
metodi, più razionale nel ragionamento, più sobria nelle conclusioni, perfino capace – come
da parte mia auspico e pratico – di confessare la propria dotta ignoranza a fronte di quesiti e
richieste letteralmente esorbitanti. E‟ forse anche il momento, lo dico sommessamente, di un
più severo discernimento di ciò che distingue la scienza dalla pseudoscienza”.
Possiamo, quindi, affermare che le neuroscienze forensi si occupano degli elementi neuroscientifici
rilevanti ai fini della valutazione giudiziaria, ovvero dell‟idoneità delle teorie e delle metodologie
della neuroscienza a costituire una valida prova scientifica all‟interno del processo, sia esso penale
o civile. Nei confronti delle discipline neuroscientifiche devono considerarsi validi ed utilizzabili i
principi generali che regolano il ruolo degli apporti scientifici nei processi; per cui, se i criteri e le
metodologie sono considerati consolidati, il giudice si limita a verificarne la corretta applicazione,
in caso contrario spetta al giudice accertarne il tasso di scientificità. Il giudice deve, pertanto,
valutare la validità di una data indagine scientifica come premessa del ragionamento probatorio: ed
è questo il paradosso della prova scientifica, ossia la necessità di vaglio critico da parte di un
soggetto, il giudice, su di una materia che egli, proprio per definizione normativa non conosce (art.
220 c.p.p.: la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati che richiedono
specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche).
Tra le neuroscienze, in particolare le neuroscienze cognitive, che nascono dall‟incontro appunto tra
la psicologia e le neuroscienze, tendono a ridurre la rigida separazione epistemologica tra discipline
34
psicologiche e discipline biologiche, senza tuttavia eliminare o ridurre i fenomeni psicologici al loro
correlato biologico. Nello specifico, le neuroscienze cognitive enfatizzano la relazione tra sintomi
psicopatologici ed alterata attività cerebrale, per arrivare ad una descrizione delle dinamiche
cerebrali patologiche sottostanti alla manifestazione clinica.
Grazie alle tecniche di neuroimmagine, al giorno d‟oggi, è possibile descrivere l‟architettura
anatomica e funzionale delle diverse funzioni cognitive, definendo con maggiore precisione le basi
neurologiche dell‟attività mentale, il che determina una più alta possibilità di delineare e d
evidenziare l‟esistenza della eventuale patologia psichica. La visualizzazione del sostrato neurale
disfunzionale rende più manifesta la disfunzione psichica rilevante da un punto di vista giuridico,
costituendo così il “valore aggiunto” della prova neuroscientifica.
4.2.1 Le tecniche di neuroimmagine
A questo punto della trattazione, si rende necessaria una descrizione delle principali componenti
strutturali e funzionali del sistema nervoso, utile ai fini dell‟argomento in esame.
Il sistema nervoso è formato dal sistema nervoso periferico e dal sistema nervoso centrale,
composto dal midollo spinale e dall‟encefalo. Dopo la nascita, l‟encefalo continua a crescere
passando da circa 350 grammi a circa 1400 grammi nella pubertà. La materia bianca aumenta
considerevolmente dall‟infanzia alla prima età adulta, mentre i lobi frontali completano il processo
di mielinizzazione per ultimi. La sostanza grigia aumenta durante i primi due anni di vita e poi
nuovamente nella prima adolescenza, per poi iniziare a decrescere tra la fine dell‟adolescenza e la
prima età adulta. Evidenze empiriche hanno rivelato che i cambiamenti strutturali della materia
grigia e della materia bianca migliorano l‟efficienza delle funzioni dei lobi frontali grazie
all‟eliminazione selettiva delle sinapsi non in uso ed al miglioramento della conduttanza dei segnali
elettrici tra i neuroni attivi. La corteccia frontale è connessa al sistema limbico e alle regioni
corticali associative. Il sistema limbico, composto da ipotalamo, ippocampo e amigdala, svolge un
ruolo fondamentale nella regolazione delle emozioni, nel processo mnemonico, nell‟apprendimento
e nella motivazione: esso media risposte quali il comportamento di attacco o fuga, di attrazione o
evitamento, il livello di arousal, la fame, la sete, il senso di sazietà, la paura, la tristezza, gli affetti,
il senso di felicità ed il controllo dell‟aggressività. L‟ipotalamo regola le funzioni omeostatiche
come la fame, la sete, il sonno, la temperatura corporea e la sessualità; svolge inoltre importanti
compiti nel sistema nervoso autonomo, nel sistema endocrino e nel sistema limbico relativo alle
emozioni. L‟ippocampo è associato sia all‟apprendimento che alla memoria, e svolge un ruolo
complementare a quello dell‟amigdala nell‟attenzione e nelle emozioni. Infine, dal funzionamento
35
dell‟amigdala dipendono l‟apprendimento e la memoria emozionale; essa ha inoltre la funzione di
monitorare le informazioni provenienti dall‟ambiente esterno, grazie alle sue connessioni neo e sub
corticali.
Sin dall‟antichità si rintracciano i primi tentativi di localizzare i processi mentali e di ricondurli
all‟attività cerebrale: Ippocrate, nel V secolo a.C. identifica nel cervello la sede dell‟intelligenza e
nel cuore il centro dei sensi e delle emozioni. Successivamente Gall nel XIX secolo ha ipotizzato
che le varie facoltà umane fossero localizzate in centri del cervello e che le varie qualità intellettuali
fossero situate in varie parti dei due emisferi cerebrali. Sempre nel XIX secolo, neuropsicologi
come Broca, Wernicke, Lichteim, Harlow, ecc., avevano cominciato a correlare il comportamento
osservato con le lesioni cerebrali riscontrabili autopticamente post-mortem. Nel 1861, Broca
descriveva, ad esempio, il caso di un paziente che, in seguito ad una lesione al piede della terza
circonvoluzione frontale dell‟emisfero sinistro, non riusciva più a utilizzare il linguaggio (afasia)
mantenendo però intatti gli altri aspetti cognitivi. Emblematico, in questo senso, è il caso di Phineas
Gage, descritto da Harlow nel 1948: Phineas Gage è probabilmente il primo resoconto di sociopatia
acquisita in seguito a lesione della corteccia prefrontale ventromediale.
E‟ solo con l‟avvento delle moderne tecniche di neuroimmagine in vivo, però, che le neuroscienze
hanno potuto compiere un balzo in avanti, riuscendo, finalmente, ad esplorare con accuratezza non
solo i correlati neurali dei comportamenti patologici o devianti, ma anche il normale funzionamento
cerebrale durante l‟esecuzione di un compito controllato.
4.3 La neuropsicologia forense
La psicologia giuridica e forense, negli ultimi dieci anni, ha potuto contare su un supporto
importante, quello della neuropsicologia. La neuropsicologia è una branca delle neuroscienze che
studia ed analizza come le funzioni cognitive superiori (intelligenza, memoria, linguaggio,
attenzione, percezione) interagiscono con il sistema limbico e quindi con tutto il circuito emotivo-
motivazionale e comportamentale. I neuropsicologi si occupano delle funzioni riferibili a differenti
aree del cervello e all‟impatto che danni a queste aree (dovuti a cause preesistenti oppure a lesioni
postraumatiche o ictus, tumori, ecc.) possono produrre sul funzionamento intellettivo e
comportamentale. Come le neuroscienze, anche la neuropsicologia è una scienza interdisciplinare in
cui confluiscono conoscenze provenienti da discipline diverse quali la psicologia cognitiva, la
neurologia, la neurofisiologia, la neuroanatomia e le scienze dell‟informazione. La neuropsicologia
oggi si avvale di tecniche quasi oggettive che, studiando il cervello, quantificano il danno subito,
36
osservano le risorse rimaste intatte e l‟eventuale recupero spontaneo e, infine, valutano la situazione
quando si è stabilizzata.
Ultimamente il neuropsicologo ha ricoperto un ruolo sempre maggiore nel valutare e quantificare,
in ambito forense, lo stato mentale di un soggetto. Un giudice, ad esempio, può voler sapere se un
individuo ha agito – allora – con piena coscienza e volontà, oppure se è in grado – oggi – di
partecipare al procedimento giudiziario a suo carico, o ancora se il suo comportamento – domani –
sarà pericoloso. Un altro giudice può voler sapere se una vittima o un testimone possono essere
considerati credibili. Un altro giudice ancora potrebbe voler sapere se l‟evento in causa – trauma
cerebrale, intossicazione cerebrale o trauma di natura emozionale – ha prodotto un qualche tipo di
danno sulla vittima, o se quel soggetto è in grado di provvedere ai suoi interessi o se debba essere
assistito da un tutore o da un amministratore di sostegno. Infine un altro giudice, può voler sapere a
quale genitore è più opportuno affidare un figlio conteso. D‟altra parte un medico legale, potrebbe
essere interessato a sapere se la persona in esame è idonea alla guida o al possesso di un‟arma da
fuoco, oppure se soddisfa i requisiti per beneficiare dell‟assistenza sociale.
Per alcuni di questi problemi, come il danno biologico che un soggetto può aver riportato in seguito
ad una lesione del substrato neurale dei processi cognitivi, il contributo della neuropsicologia
forense è consolidato; mentre per altri settori, come per la valutazione dell‟imputabilità o della
pericolosità sociale, la possibilità di beneficiare di un apporto neuropsicologico ha iniziato ad essere
contemplata solo di recente.
Il compito del perito neuropsicologo, all‟interno della cornice processuale, è dunque quello di
affiancare ad una diagnosi descrittiva, relativa all‟identificazione dei sintomi psichici, rilevabili con
l‟utilizzo di test neuropsicologici specifici, e ad una diagnosi di sede, relativa all‟identificazione
dell‟alterazione anatomica e funzionale, che origina i sintomi, rilevabile attraverso la registrazione
dei potenziali evento-relati e con l‟utilizzo delle tecniche di neuroimmagine, una diagnosi di natura,
indicante il meccanismo causativo dell‟alterazione anatomica e funzionale, che a sua volta è
all‟origine dei sintomi specificati nella diagnosi descrittiva: se il comportamento è causato dalla
patologia si esclude la responsabilità.
Come tutte le indagini scientifiche, però, anche l‟indagine neuropsicologica forense deve fornire
una misura sufficientemente accurata di ciò che intende rilevare (deve essere cioè attendibile ed
affidabile), evitando di risultare eccessivamente contaminata da fenomeni estranei all‟oggetto
d‟indagine. Infatti, oggi siamo consapevoli che la prestazione di un individuo ad un test
neuropsicologico può essere influenzata da una molteplicità di variabili, legate al test stesso,
all‟esaminatore, al contesto d‟esame e, soprattutto, alle caratteristiche del soggetto esaminato, sul
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quale incidono condizioni di ansia, noia, fatica, aspettative, sistemi di credenze, stili cognitivi,
attribuzioni, ecc. In aggiunta a tutto questo, si presenta anche il problema della simulazione ai test
neuropsicologici, con una relativa esagerazione dei sintomi da parte del soggetto per ottenere un
risarcimento, oppure una sottostima dei propri disturbi per mantenere la stessa condizione
lavorativa. Data la molteplicità delle variabili che possono entrare in gioco ed influenzare la
prestazione di un individuo ad un test neuropsicologico, diviene necessario l‟utilizzo di un
approccio metodologico sia di tipo nomotetico, consistente nel confrontare il soggetto esaminato
con un ideale modello prototipico derivante dallo studio di larghi campioni di soggetti simili a lui,
che di tipo idiografico, riguardante cioè il comprendere approfonditamente le modalità di
funzionamento individuale.
4.4 Conclusioni
L‟importanza della neuropsicologia in ambito forense risulta, alla luce di quanto finora affermato,
indubbia, anche se lascia ancora aperte alcune perplessità in chi sostiene che tale disciplina venga
utilizzata per fornire alibi e dare giustificazioni a chi tenta di aggirare le pene detentive: spesso,
infatti, “spiegare” viene inteso come “giustificare”.
In realtà, le neuroscienze vengono costantemente accusate di annientare la nozione di responsabilità
personale, spostando l‟attribuzione di colpa dal soggetto al suo cervello, per il solo fatto di svelare
la natura biologicamente condizionata dell‟azione (mentre i condizionamenti ambientali vengono
accettati, quelli biologici e soprattutto quelli genetici vengono ritenuti eccezioni o patologie).
Per le suddette ragioni, questo nuovo paradigma ha fomentato il dibattito concernente il libero
arbitrio ed il determinismo quali precondizioni che giustificano, negano o limitano la responsabilità
morale e penale. Perlopiù, si ritiene che la responsabilità sia compatibile col determinismo nella
misura in cui si riferisca non tanto alla libertà di scelta quanto alla libertà di azione. Il quesito che
dobbiamo porci è il seguente: poteva A, nelle condizioni mentali neuropsichiche in cui si è venuto a
trovare nel momento del fatto, non voler compiere l‟azione B? Quindi, nel momento dell‟azione
censurata dalla legge, l‟agente era in grado di rappresentarsi alternative per dar corso ad azioni
diverse? Alcune ricerche hanno mostrato che le decisioni sono inconsapevolmente preparate molto
prima rispetto al pensiero; inoltre, studi effettuati con la PET, hanno mostrato sia l‟importanza dei
lobi frontali in attività cognitive quali il problem-solving o le strategie complesse di pianificazione,
sia il coinvolgimento di questa regione nella capacità di intendere e di volere che sottende
all‟imputabilità. Se è vero che lo spazio della libertà psichica nella prospettiva delle neuroscienze
appare restringersi, è anche vero che studi recenti hanno fatto emergere la cosiddetta
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“neuroplasticità”. Se da un lato, infatti, si è visto che alcuni criminali aggressivi presentano disturbi
nella zona frontale del cervello che, insieme a quella prefrontale, risulta essere la sede
dell‟autocontrollo, dall‟altro, Kandel sottolinea come le diverse esperienze di vita quotidiana e
qualsiasi forma di apprendimento, inclusa la psicoterapia, influenzino il pensiero, le emozioni ed il
comportamento, portando persino a delle modificazioni delle connessioni sinaptiche in particolari
circuiti cerebrali.
Da queste riflessioni si potrebbe trarre un suggerimento per la giustizia penale, ossia quello di
evolversi dalla sua attuale funzione eminentemente retributiva, verso una funzione più
concretamente trattamentale.
39
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