Recupito - Alfiere Lo Sceneggiato a Soggetto Storico Agli Albori Della Televisione Italiana

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1  Claudio Recupito  L’Alfiere Lo sceneggiato a soggetto storico agli albori della televisione italiana Prefazione

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Claudio Recupito

 L’Alfiere

Lo sceneggiato a soggetto storico agli albori della televisione italiana

Prefazione

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Perché L’Alfiere 

Quando nell’estate del 1994, esattamente all’inizio di luglio, i programmisti del palinsesto di Raiuno presero

l’iniziativa di riproporre nella fascia notturna della programmazione, i vecchi sceneggiati della Rai,  L’Alfiere

ebbe il compito di inaugurare la lunga serie che, con alcune interruzioni, si è protratta fino al 1998,

coinvolgendo di seguito anche i palinsesti notturni di Raidue e Raitre. Titolo di questo revival della

televisione del passato era “Percorsi nella memoria” e comprendeva al suo interno non solo i teleromanzi a

 puntate, ma anche commedie e varietà che avevano fatto epoca tra gli anni cinquanta e i primi anni ottanta.

L’iniziativa, che ebbe subito un largo riscontro di pubblico nonostante l’orario poco felice delle messe in

onda, prese il via dal fatto che l’archivio storico della Rai cominciava allora a riversare su supporti digitali

 parecchio materiale conservato fino a quel momento su pellicola in 16 millimetri con lo scopo di rivalutare

un patrimonio di indubbio valore, lasciato per troppo tempo negli scantinati di via Teulada e rimasto per più

di un decennio ai margini della programmazione. La vecchia cineteca Rai sembrò in quel momento risorgere

e riprendere vita e decine di titoli tra sceneggiati, prosa e varietà riapparvero in quelle ore notturne sui

teleschermi, risvegliando ricordi in coloro che avevano seguito quelle produzioni all’epoca della loro prima

messa in onda e suscitando una certa curiosità in diverse persone che per la prima volta si accostavano ad

esse. A dire il vero, l’iniziativa non venne pubblicizzata né dal Radiocorriere TV, né dai quotidiani che si

limitarono a indicare solo i titoli riproposti nelle pagine dedicate alla programmazione ufficiale di ogni

giorno. Solo dopo alcuni mesi qualche giornale dedicò brevi articoli a questo contenitore notturno che si

riteneva fosse seguito da una schiera di nostalgici o di appassionati della vecchia Rai in bianco e nero.

 L’Alfiere, sceneggiato in sei puntate realizzato nel 1956 dal regista Anton Giulio Majano, venne riproposto

consecutivamente dal 3 all’8 luglio 1994 e inaugurò, si può dire, l’omaggio a questo grande regista, padre

dello sceneggiato televisivo, del quale vennero via via riproposti tutti i teleromanzi realizzati nell’arco di

quasi trent’anni. Il penultimo lavoro di Majano che venne riproposto fu   I due prigionieri del 1985,

ritrasmesso nella settimana dal 16 al 23 gennaio 1995; dopo quella data prese il via l’altrettanto lunga

riproposta degli sceneggiati di Sandro Bolchi, altra grande firma di teleromanzi indimenticabili. Per motivi a

noi sconosciuti non venne ritrasmesso l’ultimo sceneggiato realizzato da Majano nel 1986: Strada senza

uscita, tratto da un racconto di Martin Russell, più simile a un film TV; forse fu considerato meno

interessante dei lavori precedenti, oppure si trattò di questioni puramente tecniche.

Ad ogni buon conto, oggi lo sceneggiato  L’Alfiere è conservato nell’archivio storico della Rai, le attuali

Teche, nell’edificio magazzino situato sulla via Salaria a Roma dove è disponibile su tre supporti:

videocassetta digitale (formato D2 ), videocassetta formato 3 / 4 e pellicola formato 16 millimetri (vecchio

supporto originale ricavato dalla registrazione effettuata con il vidigrafo ottico durante la messa in onda in

diretta del 1956.) Ebbi modo di seguire tutte le sei puntate dello sceneggiato proprio in occasione di quella

replica notturna e, come studioso oltre che appassionato degli sceneggiati televisivi tratti da opere letterarie,

lo ritenni subito ancora valido come lavoro, sia per la bellissima trasposizione che Majano aveva saputo fare

dal romanzo omonimo di Carlo Alianello, sia per la vicenda narrata: la conquista del sud ad opera delle forzegaribaldine nel 1860, vista dalla parte dell’esercito napoletano, vale a dire l’esercito sconfitto. Una visione di

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una porzione di storia del nostro Risorgimento ancora oggi poco studiata e poco approfondita, trasgressiva,

se vogliamo, a maggior ragione poi nel 1956 quando lo sceneggiato andò in onda la prima volta, ma anche

nel 94 in occasione di quell’ultima replica, il che la dice lunga sulla lentezza o meglio, la trascuratezza con

cui è sempre stato portato avanti uno studio obiettivo e il più competo possibile della storia risorgimentale.

 Nel contesto della produzione televisiva del teleromanzo a puntate,  L’Alfiere non ha certamente mai goduto

di grande notorietà e oggi ben poche persone lo ricordano e la più parte non lo ha mai visto o addirittura non

ne ha mai sentito parlare. Anche il romanzo di Alianello, dopo il primo grande successo che ebbe tra gli anni

quaranta e cinquanta, non è più oggi un libro richiesto e difficilmente è trovabile nelle librerie. Bisogna,

chiaramente, considerare che nel 1956 in Italia circolavano ancora pochi televisori ( il meridione ne era

 praticamente escluso); le repliche integrali dello sceneggiato sono state rarissime (prima di quella del 94, se

ne ricorda una sola nel 57, un anno dopo la prima messa in onda) e il susseguirsi negli anni di tantissimi

teleromanzi che ebbero sicuramente più successo e coinvolsero un pubblico più vasto, sono tutte motivazioni

  plausibili sullo scarsa popolarità di cui ha goduto nel tempo L’Alfiere. Ma tutto ciò nulla toglie alla sua

validità che rimane indiscussa anche per l’eccezionale cast di interpreti che annoverava, l’accurata

ricostruzione dei costumi e degli ambienti, grazie anche al supporto di un valido scenografo quale era Emilio

Voglino e la bravura di Anton Giulio Majano che seppe realizzare un lavoro imponente e ambizioso in

un’epoca in cui i mezzi e le tecniche a disposizione erano alquanto scarsi. Senza parlare degli studi televisivi

in cui questi primi sceneggiati venivano realizzati; si parla di scantinati o addirittura di garage situati in Viale

Mazzini; quattro pareti e tre telecamere era tutto quello di cui si poteva disporre. Locali, si può dire, di

fortuna in cui le scene si costruivano seguendo rigidi criteri di massima utilizzazione dello spazio

disponibile, vale a dire distribuendo le scene lungo le pareti dello studio e lasciando libero lo spazio centraleo raggruppandole a stella al centro dello studio stesso e mantenere così libero lo spazio periferico. Se

 pensiamo poi che il grosso problema nella realizzazione di uno spettacolo televisivo era quello della rapidità

dei cambiamenti di scena che dovevano avvenire in diretta, possiamo comprendere come la fantasia dei

tecnici abbia escogitato un’infinità di ingegnosi meccanismi o metodi di ripresa per illustrare i quali

occorrerebbe un intero volume. Un romanzo quale  L’Alfiere che narra una vicenda di guerra e che non può

  prescindere da un’ambientazione di carattere militare, resta a tutt’oggi un esperimento di trasposizione

televisiva di grande coraggio e di valore artistico nella storia della Rai. Uno sceneggiato un po’ vecchio stile

 pieno di personaggi affascinanti, di avvenimenti, intrecci e passioni; di quelli, per intenderci, che per quasi

trent’anni hanno costituito una consolidata tradizione nel campo dell’intrettenimento televisivo, alcuni dei

quali, forse, sono ancora rimpianti da molti telespettatori. E abbiamo parlato di esperimento non solo per 

l’epoca in cui  L’Alfiere è stato realizzato, ma anche perché fu il primo tentativo di uscire dagli stessi studi

televisivi e realizzare qualche ripresa in esterni della quale avremo modo di parlare nel corso di questa

trattazione. Un tentativo di unire televisione e cinema, connubio che piaceva molto a Majano il quale

aspirava fin da quegli anni ad un’estensione sempre allargata della ripresa televisiva proiettata anche

all’esterno. La sua formazione anche di regista cinematografico non poteva esimersi da questa aspirazione.

Oggi si parla di cinema e televisione come settori che conservano la memoria storica del loro passato; film e

  produzioni televisive diventano documenti, testimonianze di un’epoca, di un costume, di un certo tipo di

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mentalità e di un modo di fare sia uno, che l’altra.. Se questo è valido anche nel senso di sapere valorizzare e

riproporre all’attenzione degli studiosi e del pubblico in generale opere che hanno segnato la storia dello

spettacolo, crediamo che anche lo sceneggiato televisivo dei primi anni di vita della Rai, possa entrarci a

 pieno titolo e L’Alfiere di Anton Giulio Majano rimane una pietra miliare ancora in parte da scoprire.

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Capitolo I

Inquadramento storico

Da Ancona a Gaeta

Le operazioni dell’esercito regolare

Felicemente compiuta, con la resa di Ancona la campagna nelle Marche e nell’Umbria, il Re Vittorio

Emanuele II assumeva il 3 ottobre 1860 il comando supremo dell’esercito per iniziare l’avanzata verso le

 province meridionali. Il generale Manfredo Fanti, nominato generale d’armata rimaneva a fianco del Re con

la carica di Capo di Stato Maggiore generale, e i due generali Enrico Cialdini ed Enrico Morozzo della

Rocca, rispettivamente comandanti del IV e V corpo venivano nominati generali d’Armata e incaricati di

 proseguire, sotto la direzione di Fanti, le operazioni nel regno di Napoli.

Il concetto strategico in base al quale furono date le disposizioni per l’itinerario del corpo principale e delle

colonne fiancheggianti era di uscire al più presto alle spalle dell’esercito borbonico sulla destra del Volturno,

costringere il nemico a battaglia fra il Garigliano e il Volturno e distaccarlo a Gaeta e dal confine

 pontificio. Scelta, perciò, come direttrice generale di marcia la via degli Abruzzi che i borbonici avevano

lasciata sgombra, fu deciso di raggiungere questa linea seguendo la litorale adriatica fino a Pescara, poi

risalire questa valle e scendere, quindi, sul Volturno, battervi l’esercito borbonico e congiungere così

l’armata regia ai volontari di Garibaldi.

Dal 7 al 12 ottobre ebbero luogo i primi spostamenti che portarono il IV corpo d’armata a raggiungere il

giorno 13 Pescara. Qui la fortezza, abbandonata in fretta dalle truppe borboniche dopo essere stata da poco

approvvigionata e munita per divenire una base del loro corpo d’operazioni negli Abruzzi, forniva un

eccellente appoggio alla marcia delle truppe italiane, era armata da una cinquantina di pezzi, aveva

magazzini e caserme e costituiva anche una buona testa di ponte sul fiume Pescara allora attraversato da un

 ponte di barche lungo circa 80 metri.

I primi scontri tra i due eserciti nemici, piemontese e borbonico, furono quelli del Macerone e di San

Giuliano, entrambi del 26 ottobre, che aprirono ai primi la via verso il Garigliano, dove il comando

  borbonico aveva preventivato una difesa ad oltranza. Un fitto cordone del reparto cacciatori fu schierato

lungo la riva destra del fiume, mentre il Re Francesco II, da poco sovrano del Regno delle Due Sicilie,

emanava un proclama nel quale stigmatizzava l’opera delle truppe piemontesi le quali avevano calpestato

ogni diritto delle genti e ogni sentimento di giustizia, invadendo il regno senza nessuna dichiarazione di

guerra e costringendo il supremo comando ad abbandonare la linea del Volturno per far argine all’irrompente

nemico sulla linea del Garigliano.

La battaglia sul fiume si risolse in un grande disastro per le forze borboniche che furono costrette ad una

tremenda ritirata. Dopo il passaggio del Garigliano da parte delle truppe piemontesi, a Francesco II era stato

 proposto di attuare il piano di un insurrezione negli Abruzzi per colpire il nemico alle spalle, ma il Re non

volle saperne persuaso invece che fosse più pratico concentrare buon nerbo delle migliori forze a Gaeta e ilresto farlo passare in territorio pontificio.

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Mola di Gaeta e Castellone costituivano allora due lunghe borgate, delle quali, una giaceva sul

 prolungamento dell’altra per una lunghezza totale di circa due chilometri fra le colline e il mare.

Sarà qui che la mattina del 4 novembre 1860 le navi piemontesi Carlo Alberto e Governalo apriranno il

fuoco contro la torre di Mola. Ancora una volta l’esercito borbonico dovrà retrocedere e battere in ritirata e

questa volta tutte le sue forze costituite per la maggior parte da soldati napoletani, furono costrette a

concentrarsi intorno e dentro la fortezza di Gaeta, dove il congestionamento delle truppe rese subito difficili

gli approvvigionamenti e l’organizzazione dei numerosi reparti dell’esercito. A Gaeta si stabilì anche la

Corte con il corpo diplomatico, ma vi era anche la popolazione civile.

Il lungo assedio di Gaeta, che vide le truppe napoletane completamente prigioniere di quelle piemontesi in

una lotta all’ultimo sangue che si protrasse dall’11 novembre 1860 al 14 febbraio 1861, non costituisce un

fatto isolato, ma è invece l’episodio più saliente e decisivo della campagna di guerra che si svolse nell’Italia

meridionale. L’episodio di Gaeta ebbe infatti tutte le caratteristiche di una grande azione bellica , ma più

ancora un’importanza politica così rilevante, che l’Italia e le cancellerie europee lo considerarono come

l’ultima scena del dramma che causò la caduta della dinastia dei Borboni di Napoli e l’entrata del

mezzogiorno della penisola nel Regno d’Italia.

Le truppe napoletane resistettero a lungo ai terribili bombardamenti da parte dei piemontesi anche per la

  presenza della flotta francese che impediva a quella piemontese di intervenire con facilità, ma quando i

francesi decisero di ritirarsi, timorosi di essere coinvolti in un disastro irreparabile, i soldati assediati nella

fortezza rimasero abbandonati a se stessi e il bombardamento, soprattutto nell’ultimo mese, si trasformò in

una tragica guerra civile dove i napoletani non ebbero più via di scampo. Ma non furono solo le forze militariad essere coinvolte nel drammatico assedio. La popolazione civile di Gaeta non venne risparmiata e la sua

sorte non fu meno drammatica di quella dei soldati. L’artiglieria nemica, colpendo la piazzaforte, colpiva

anche le abitazioni e mieteva vittime tra i civili; molti corpi rimanevano prigionieri o sepolti tra le macerie e

soltanto a sera, cessato il fuoco, si poteva estrarli e soccorrere i feriti. Tra le vittime, con o senza nome, che

le testimonianze dell’epoca riportano, si ricordano le molte famiglie perite nella tremenda esplosione della

 polveriera Sant’Antonio (5 febbraio) con oltre cento morti, tra cui una famiglia composta da 11 persone.

Anche il clero subì alcune perdite; ai primi di febbraio, in seguito alle ferite riportate per lo scoppio di una

granata, morirono rispettivamente il cappellano dell’Ospedale succursale dell’Annunziata e un canonico.

Con la resa della piazzaforte, firmata il 14 febbraio 1861 aveva compimento il più devastante e sofferto

assedio subito dalla città. Dopo più di un secolo cessava qui e nel Mezzogiorno d’Italia il tanto discusso

governo della dinastia borbonica e il tre Francesco II si allontanava per sempre verso gli Stati Pontifici a

accompagnato dalla regina Maria Sofia e dai pochi cortigiani rimastigli fedeli.

Al trionfo dei liberali rispondeva alcuni giorni dopo, quasi a calmarne gli entusiasmi, il generale Cialdini

con un suo proclama (17 febbraio) nel quale invitava gli animi a sentimenti di pietà e di realistica

considerazione: “noi combattemmo contro italiani” affermava in esso rivolgendosi ai soldati, «e questo fu

necessario, ma doloroso ufficio; perciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioia, non potrei invitarvi agli

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insultanti tripudi dei vincitori.»1 E in realtà la soddisfazione per il successo militare e politico non poteva non

confrontarsi con l’alto prezzo per esso pagato: la visione di una città devastata e ridotta a un cumulo di

macerie, conseguenza del continuo cannoneggiamento nemico e delle terribili esplosioni delle polveriere, la

sgradevole presenza in essa di centinaia di cadaveri e carogne insepolti o superficialmente inumati e il

diffondersi incontrastato delle epidemie da tifo non incoraggiavano certo a facili ed esaltanti

dimostrazioni.

IL 18 febbraio Vittorio Emanuele II nel discorso di apertura al Primo Parlamento italiano, riunito a Torino a

 palazzo Carignano, già sede del Parlamento sardo, fa esplicito riferimento alla caduta di Gaeta, consolandosi

che «là si chiudeva per sempre la serie dei nostri conflitti civili» ed elogia le sue truppe, ora divenute

“pienamente italiane”, per il «nuovo titolo di gloria meritato espugnando una fortezza delle più formidabili.»2 

Gaeta, una delle città più danneggiate dalla guerra, è l’espressione emblematica del momento

attraversato dal Mezzogiorno, che ha creduto di trovare nell’unità la facile valorizzazione delle sue

supposte ricchezze e scopre invece la sua arretratezza, remora al rapido sviluppo sognato dai liberali

dopo la caduta dell’assolutismo. Per l’antico reame delle Due Sicilie sono anni duri di adeguamento

ad una posizione subalterna dovuta alla carenza delle strutture ed alla impreparazione della classe

dirigente (impoverita dalle persecuzioni dopo il 1848): sono gli anni in cui si fa lentamente strada la

consapevolezza di una “questione meridionale” .

1 Ordine del giorno Cialdini del 17 febbraio 18612 I cittadini di Gaeta alla Camera dei Deputati, Napoli 1885, p. 11

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Capitolo II

Il romanzo L’Alfiere di Carlo Alianello

Romanzo di grande forza attrattiva e capacità di coinvolgimento,  L’Alfiere costituisce, insieme al più

conosciuto   L’eredità della priora, la migliore prova narrativa di Alianello: romanzo ricco di personaggi,

situazioni, storie intrecciate, oltre che di un linguaggio vario e corposo, giocato su una gamma di effetti

stilistici diversi, a volte solenni, a volte rapidi e incisivi e dove ogni tanto guizzano anche lampi di sottile

umorismo. Opera di largo respiro, si propone anche come documento originalissimo su un momento

essenziale, drammatico e controverso della storia del Risorgimento italiano e del Sud in particolare: la caduta

del Regno borbonico delle Due Sicilie in seguito alla spedizione garibaldina dei Mille e la sua annessione al

regno sabaudo, già costituitosi in Regno dell’Alta Italia. E’ una sorta di animatissima “commedia umana”

nella quale si mescolano vicende belliche e d’amore, recitano la loro parte piccoli eroi e traditori,

aristocratici e cafoni, cortigiani e camorristi, frati e soldati. E all’interno la Storia si umanizza: Garibaldi

diventa sulla bocca dei suoi eroi familiarmente “don Peppino”, mentre appare, agli occhi dei soldati

 borbonici, protetto da un’aura quasi magica perché sembra invulnerabile alle fucilate che gli tirano addosso;

e a sua volta il re Francesco II e la regina Maria Sofia affrontano con dignità malinconica e toccante il

disfacimento del proprio regno, segnato più da tradimenti e vigliaccherie che da autentici aneliti di libertà e

sentimenti di vera italianità da parte della popolazione.

La rivoluzione liberale, le gesta dei piemontesi e di Garibaldi e le loro conseguenze nel meridione sono i

temi che appassionano Carlo Alianello in questo suo primo lavoro e che torneranno approfonditi nelle sue

opere successive.

Il corso degli eventi dalla battaglia di Calatafimi all’assedio di Gaeta (13 novembre 1860 – 13 febbraio

1861), si compie tra dubbi, crisi di coscienza, scelte di comodo, compromessi. Probabilmente il carattere

migliore del romanzo sta proprio nelle profonde contraddizioni in cui si trovano ad agire molti personaggi,

sai tra i principali, che tra quelli secondari.

Protagonista del romanzo è il giovane alfiere dei Cacciatori regi, il barone Don Giuseppe Lancia, chiamato

da tutti Pino, tormentato eroe della coerenza e dell’onore, in un mondo che sta facendo scempio sotto i suoi

occhi di valori e tradizioni umani e politici nei quali egli crede. Pino, liberale nell’animo, una volta diventato

soldato del re, (prima alfiere, quindi tenente), seguirà il suo sovrano fino alla fine, dopo averlo lealmente

servito, a dispetto di ogni convenienza e di qualsiasi logica utilitaristica in nome, soltanto, dell’onore. Onore

che egli terrà alto anche durante l’assedio di Gaeta dove si conclude drammaticamente la vicenda con la

capitolazione dell’esercito napoletano. All’obbligo morale di Pino di rimanere fedele al suo servizio, si

affianca l’obbligo altrettanto morale oltre che religioso di padre Carmelo, un frate di un convento di

Calatafimi, la cui vicenda si svolge parallela a quella del protagonista impegnato sui campi di battaglia.

Costretto a fuggire dal convento a seguito dei disordini seguiti alla battaglia di Calatafimi, padre Carmelo

inizia una sorta di pellegrinaggio in salita, giungendo prima in Calabria e quindi in Campania dove si

incontrerà prima con i soldati garibaldini ai quali si avvicinerà in un primo momento e poi con l’esercito

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napoletano e, quindi, anche con Pino Lancia e seguirà le sorti dei soldati sugli spalti di Gaeta, dove morirà

colpito da una granata mentre sta predicando contro la violenza e le barbarie della guerra. Altri personaggi

affiancano il protagonista in questa epopea storico-militare: il tenente Franco Enrico, figura umanissima,

amico fraterno di Pino, Totò, suo affezionato cugino, tenente delle guardie reali, il colonnello Polizzy,

 personaggio realmente esistito, dell’8° reggimento cacciatori, Francesco II e Maria Sofia di Borbone, sovrani

del Regno Delle due Sicilie e le tre donne amate da Pino: la scontrosa e presuntuosa Renata Rodriguez, figlia

di un ex capitano della marina palermitana, la dolce e sensibile Titina, lontana cugina del protagonista e la

sensuale Ginevra, nipote della governante di casa Lancia. Amore contrastato, amore spirituale e amore

carnale sono rispettivamente rappresentati da queste tre figure femminili, la cui presenza si intercala alle

vicende militari, completando la personalità del protagonista nel suo essere uomo oltre che soldato.

Da ultimo possiamo ricordare Mimì Lecaldani, fratello di Titina, personaggio ambiguo e calcolatore, che si

arruolerà a un certo momento nel corpo dei volontari garibaldini di Nino Bixio e Filippo Monaco, giovane

spiantato, invidioso e geloso di Pino e della sua carriera di ufficiale, provocatore e istigatore di risse e di

complotti nei suoi confronti.

 L’Alfiere è, quindi, la storia della fase conclusiva della seconda guerra d’Indipendenza vista dall’altra parte,

dalla parte borbonica; non però come si sarebbe portati a credere con intenti rivalutativi, ma prima di tutto

con occhio e animo umano, penetrando nel corso degli eventi come chi, credendoci, sofferse e visse lo

svolgersi dei fatti. “Perché”, disse molto bene Carlo Alianello in un intervista dell’epoca al settimanale

«Radiocorriere», «in una catastrofe politica, in una sconfitta, oltre le vere ragioni e i veri torti che non sono

mai assoluti sia da una parte che dall’altra, esiste come una specie di concorrenza, di fatalità che maturano e

sospingono verso una data conclusione perché così deve essere, così vogliono i tempi, ma non inquinano innessuna delle due parti la bellezza e il valore di una fede data.»

3Qui è tutto l’impegno letterario di Alianello,

il significato e il tessuto del suo romanzo e il suo credo storico e politico.

S.A. R. il principe D. Francesco di Borbone conte di Trapani 

3 C. Falchi, In sei puntate il romanzo di Carlo Alianello L’Alfiere, in «Radiocorriere», 18 / 21 marzo 1956, p. 18

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Capitolo III

Lo sceneggiato televisivo della neonata televisione italiana

Tutto è cominciato il 3 gennaio 1954, data di inizio ufficiale delle trasmissioni televisive. Da allora il

televisore è diventato parte integrante dell’arredo domestico degli italiani: come il letto in camera o i fornelli

in cucina. L’avvento della TV segna una vera e propria cesura storica e temporale, un prima e un dopo nel

nostro paese. Grazie ad essa l’Italia si trasforma rapidamente e si modernizza nel bene e nel male. Per merito

della televisione il difficile processo di unificazione linguistica riceve un’accelerazione decisiva, che per 

certi aspetti supera gli effetti dell’introduzione dell’obbligo scolastico. La veloce diffusione della televisione

sull’intero territorio nazionale, anche se nelle regioni del sud arriva tre anni dopo l’avvio dei programmi,

causa una rivoluzione culturale senza precedenti.4 

  Nell’ambito di questa “rivoluzione culturale” si inserisce anche un genere di spettacolo che proprio la

neonata televisione tiene a battesimo: lo sceneggiato a puntate. Molte sono le definizioni che sono state datea questa forma di intrattenimento e parecchio è stato scritto negli anni a proposito dello sceneggiato come

veicolo e trait-d’union tra testo scritto e finzione scenica, la cui popolarità acquisita fin dall’inizio coinvolse

 per almeno trent’anni di produzione televisiva intere generazioni di spettatori che seguivano con interesse le

vicende di tanti personaggi catapultati da un’opera letteraria sul piccolo schermo. Oggi va per la maggiore la

 parola fiction per indicare una vicenda trasmessa a puntate; alle origini della TV italiana esisteva il termine

sceneggiato, un nome tuttora ricorrente nel linguaggio comune e giornalistico. Lo sceneggiato era

essenzialmente un adattamento letterario: un racconto a puntate tratto da un’opera di narrativa già edita,

un’opera, quindi, d’autore.

Agli albori delle trasmissioni Rai esso veniva girato interamente negli studi televisivi dove erano realizzate

anche le scenografie e dove recitavano gli attori ed era trasmesso in diretta come uno spettacolo teatrale

rappresentato in quel momento su un palcoscenico. In tal senso si è parlato anche di teatro televisivo,

riferendosi non solo alla vasta produzione di commedie che la Rai realizzò nei primi anni di vita, ma anche ai

  primi sceneggiati a puntate, trai quali va annoverato anche L’Alfiere diretto da Anton Giulio Majano nel

1956, il lavoro di cui vogliamo occuparci in modo specifico in questo contesto.

A partire da quegli anni pionieristici, il grande repertorio del romanzo nazionale ed europeo è stato riversato

in decine di sceneggiati o teleromanzi (altro termine entrato in uso con l’andar del tempo) destinati tutti a un

grande successo di pubblico e a ottenere una grande popolarità. Il termine teleromanzo stava appunto ad

indicare che questo genere di spettacolo era costituito in prevalenza da lavori tratti da romanzi, più che da

racconti o novelle, benchè anche qualcuna di queste ultime sia stata a volte sceneggiata in più puntate. Si

trattava, in ultima analisi, di una narrazione distesa, dai tempi lenti che dovevano coprire l’arco di alcune

  puntate e, ovviamente, di origine letteraria. In tal senso lo sceneggiato si contrapponeva al telefilm di

importazione americana caratterizzato da tempi più veloci e da storie ripetitive, simile più alla fiction di oggi.

4 S. Nespolesi, Fotografie per cinquant’anni di televisione, dal sito di Rai teche: www.teche.rai.it, p. 1 

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Il teleromanzo italiano degli anni cinquanta (ma sarà così anche negli anni sessanta e in parte anche settanta)

era interpretato da attori di prevalente origine teatrale e aveva una sua collocazione precisa nel palinsesto

televisivo la domenica sera sul programma nazionale della Rai, l’unico canale televisivo esistente in Italia

fino al 1961. La scansione della messa in onda delle puntate di ogni sceneggiato era, quindi, di una volta alla

settimana nel rispetto rigoroso della scadenza domenicale.

  Non è superfluo ricordare che gli sceneggiati degli anni cinquanta e sessanta erano ispirati ad un intento

anche divulgativo, oltre che culturale; l’opera letteraria da cui erano tratti veniva conosciuta dai telespettatori

anche attraverso la sua trasposizione televisiva che invogliava sovente ad acquistare e a leggere il romanzo

indipendentemente dal fatto che si trattasse di un autore italiano o straniero. Non è un caso che molti libri

abbiano acquisito notorietà, grazie all’operazione televisiva che li aveva portati sul piccolo schermo; un

esempio lampante è stato quello de  La cittadella di Cronin che proprio a seguito del grande successo avuto

dallo sceneggiato firmato da Anton Giulio Majano nel 1964, divenne un bestseller di primo ordine e il

lavoro televisivo continuò ad entusiasmare il pubblico anche nelle numerose repliche che si succedettero nel

corso degli anni.

La scelta sistematica in prevalenza di testi classici, la cura anche formale del linguaggio e delle scenografie,

la qualità della recitazione hanno indotto moti critici e molti studiosi a vedere in questo genere uno dei canali

 principali, sicuramente il più popolare di un progetto pedagogico, elemento portante della prima televisione

italiana. Come ebbe a dire molto bene anche Franco Monteleone in un intervista televisiva: «il romanzo

sceneggiato è contestuale alla nascita della televisione italiana. E’ la forma narrativa con cui si esprime la  

televisione italiana. Una formula che deriva dal romanzo d’appendice.»5 Le storie a puntate riscuotevano in

quei primi anni sempre numerosi consensi presso il pubblico, come hanno sempre rilevato i risultati delleindagini compiute dalla Rai dagli anni cinquanta a tutto il decennio del sessanta.

Da ultimo va ricordato che la duratura fortuna di questo genere di intrattenimento e il suo radicarsi nella

cultura di massa italiana non può spiegarsi senza guardare alle sue radici, più articolate e complesse di

quanto spesso si pensi6

Due fondamentalmente i generi da considerare: lo sceneggiato radiofonico approdato

in Italia nell’immediato dopoguerra a opera di Umberto Benedetto e della compagnia di prosa di Firenze, di

impostazione prettamente teatrale e, in un certo senso, la sceneggiata napoletana basata sulla dilatazione

dello spunto narrativo della canzonetta in una storia articolata con più personaggi, ma sempre ruotante su

amori contrastanti e vendette7 L’impianto rigorosamente teatrale, la scelta privilegiata di classici letterari o di

romanzi popolari dell’Ottocento, sono tutte caratteristiche del genere radiofonico che sarebbero stati ereditati

direttamente dalla televisione, arricchendosi man mano delle diverse innovazioni tecnologiche per prendere

le distanze dall’originario modello radiofonico-teatrale. Fu Sergio Pugliese, direttore dei programmi

televisivi fino al 1965, a sperimentare il trasferimento, se così si può dire, della radio in televisione, a dare

alla radio un video, mantenendo come preminente e trainante la stessa connotazione che era della radiofonia:

5 Dal programma: Il mestiere della televisione. Anton Giulio Majano, programma realizzato dal canale Rai Educational nel 1990.

6 P. Ortoleva, M. Teresa Di Marco , Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia, Electa, 2004, p. 237.7 Idem, p. 238

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il teatro. Su quel modello, peraltro, a lui congeniale, Pugliese informò la sostanza strutturale della TV .8 Ma

anche tradizioni cinematografiche, folkloriche, nazionali e regionali diventeranno gli ingredienti dello

sceneggiato televisivo che, pur mantenendo un certo rispetto del testo letterario, riprenderà una caratteristica

 propria del romanzo: la capacità di assorbire in sé tutti gli aspetti della vita e della cultura9.

8 A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, 1992, p. 609 Il recente studio di Ortoleva e Di Marco riporta una significativa affermazione fatta negli anni cinquanta da Roger Caillois: Il 

romanzo non ha regole. Tutto gli è permesso…Il romanzo si vede incitato dalla sua stessa indole a impegnarsi in vie sempre nuove, atrasformarsi senza posa…  purchè narri può  variare all’infinito  il modo di narrare, p. 238. cfr. R. Caillois,   La forza del romanzo,

Sellerio, Palermo 1980.

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Capitolo IV

Da Il dottor Antonio a L’Alfiere

Probabilmente poche persone oggi ricordano che il primo sceneggiato trasmesso dalla Rai nel lontano 1954

fu un Il 

  Dottor Antonio

, un lavoro tratto da un romanzo dello scrittore italiano Giovanni Ruffini, una vicenda

a carattere sentimentale sullo sfondo di un Risorgimento più fantasioso che reale, mandato in onda in quattro

 puntate nel mese di novembre di quell’anno con la regia di Alberto Casella che ne curò anche l’adattamento

televisivo. E’ doveroso ricordare che il ruolo del personaggio protagonista fu interpretato da Luciano

Alberici, attore di teatro della compagnia di Ruggero Ruggeri, scomparso all’età di cinquantun anni nel 1973

 proprio mentre recitava sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano10

. Questo sceneggiato, andato in onda

in diretta, è considerato il padre di tutti gli sceneggiati televisivi; purtroppo non venne filmato durante la

diretta e oggi rimangono solo alcune fotografie a testimonianza della sua realizzazione. La neonata

televisione non possedeva ancora la mentalità della conservazione delle proprie produzioni realizzateinteramente negli studi della Rai di Roma; il prodotto televisivo era concepito ancora come una sorta di

sperimentazione al fine di saggiare gli interessi e i gusti del pubblico per capire meglio su quali generi e

forme di spettacolo puntare. La stessa sorte toccherà al secondo sceneggiato realizzato esattamente un anno

dopo:  Piccole donne tratto dal ben noto romanzo della scrittrice Louisa May Alcott, un autentico successo

che per la prima volta portava la firma di Anton Giulio Majano che con questo lavoro diede il “la” ad un

genere destinato per almeno vent’anni alla più grande popolarità. Anche qui rimangono solo delle fotografie

a testimonianza degli attori, delle scenografie e dei costumi, fedelissimi allo spirito del romanzo. Si possono

ricordare tra gli interpreti almeno Renato De Carmine, Wanda Capodoglio, Emma Danieli, un esordiente

Matteo Spinola e la rivelazione di un attore come Alberto Lupo, destinato a diventare uno dei più acclamati

divi della TV italiana negli anni successivi. Le quattro “piccole donne” erano intepretate, oltre che da Emma

Danieli, da Vira Silenti, Lea Padovani e Maresa Gallo, una giovane attrice che sarà, poi, per diversi anni la

moglie di Anton Giulio Majano, oltre che interprete di altri suoi sceneggiati11

. Siamo alla fine del 1955, la

Rai ha al suo attivo due sceneggiati il cui successo fu grande ed oggi non ancora valutato in modo definitivo

dal servizio opinioni sorto solo nel 57.

Il 1956 si apre all’insegna di un importante evento sportivo, ma anche televisivo: le olimpiadi invernali

trasmesse in diretta da Cortina d’Ampezzo dal 26 gennaio al 5 febbraio. Tre riprese dirette al giorno dedicate

alle gare più importanti in programma, tramite un vero e proprio centro di produzione completo di tutte le

attrezzature; una redazione di 5 telecronisti provvede ai commenti delle riprese, mentre lo studio per le

interviste e le rubriche sarà creato nei sotterranei dello stadio del ghiaccio di Cortina. In aprile la Rai

10 L’ultima apparizione televisiva di Luciano Alberici fu proprio nel 1973 nello sceneggiato Puccini con la regia di Sandro Bolchi,

dove l’attore, interpretava il ruolo di Tito Ricordi, ultimo discendente della ben nota famiglia fondatrice della famosa casa editricemusicale.11 L’interpretazione forse più significativa dell’attrice Maresa Gallo rimane quella del personaggio della dottoressa Hilda Barras nellosceneggiato E le stelle stanno a guardare tratto dal romanzo di Archibald Joseph Cronin, che Majano diresse nel 1971, uno degli

ultimi grandi teleromanzi della televisione in bianco e nero.

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 parteciperà alla XXIV fiera di Milano per documentare l’incremento e il perfezionamento dei suoi impianti

volti a soddisfare sempre meglio le esigenze del pubblico.12

 

Ma l’avvenimento più sensazionale rimane sicuramente il collegamento in eurovisione da Montecarlo il 19

aprile per le nozze di Grace Kelly con il principe Ranieri di Monaco. Definito dalla stampa internazionale “il

  più fiabesco matrimonio del secolo”, la cerimonia sarà seguita con un interesse mai rilevato fino a quel

momento per un fatto di cronaca; sarà questo l’ultimo grande rito mondano non ancora costruito in funzione

delle telecamere .13

 

In mezzo a questa apertura progressiva verso l’attualità, la Rai decide di proseguire nella sua produzione di

teatro realizzato in studio, incoraggiata dai riscontri positivi dei due anni precedenti. Numerose commedie

andranno in onda in diretta nei primi mesi del 1956 e dal mese di gennaio a giugno saranno realizzati due

nuovi sceneggiati tratti da opere letterarie; dal 12 febbraio al 4 marzo è di scena, la domenica sera alle ore

21, Cime tempestose dal romanzo di Emily Bronte con la regia di Mario Landi in quattro puntate e un cast di

attori che annovera: Massimo Girotti alla sua prima apparizione televisiva, Anna Maria Ferrero, Armando

Francioli, uno dei belli della Rai e del teatro anni cinquanta e Laura Carli, tutti già collaudati in importanti

compagnie di prosa, ma anche non digiuni di cinema. La trasposizione televisiva di questo inquietante e

affascinante libro della letteratura anglosassone avrà un buon successo di pubblico e di critica e sarà il primo

teleromanzo ad essere filmato durante la messa in onda in diretta per mezzo di un dispositivo particolare

chiamato vidigrafo. E’ quindi il primo lavoro a puntate che viene consegnato alla memoria storica e

archivistica della Rai; prova ne è il fatto che verrà replicato in registrazione prima della fine dello stesso

anno e successivamente in qualche altra occasione. L’ultima replica risale all’agosto del 1995, nell’ambito di

un ciclo trasmesso nella fascia oraria notturna su Raidue dal titolo   Dal testo all’immagine. Il romanzovittoriano,dedicato ad alcuni romanzi sceneggiati di autori inglesi.

14 

Un lavoro che piacque molto alla critica dell’epoca, Angelo D’Alessandro asserì che  « la televisione italiana

aveva saputo affrontare con grande impegno e con grande coraggio l’ambizioso disegno di offrire ai milioni

di spettatori che essa ormai conta in Italia una riduzione televisiva del celebre romanzo della Bronte. Sono

così nati quattro spettacoli, ciascuno della durata di un’ora.»”15

 

E siamo finalmente arrivati al 18 marzo 1956, domenica; alle ore 21 va in onda la prima puntata del quarto

sceneggiato realizzato dalla Rai in due anni di vita: L’Alfiere dal romanzo omonimo di Carlo Alianello e con

la regia di Anton Giulio Majano che firma il suo secondo teleromanzo a distanza di quattro mesi da  Piccole

donne. Suddiviso in sei puntate, proseguirà fino al 22 aprile e, fortunatamente viene anch’esso filmato con il

vidigrafo mentre va in onda in diretta dagli studi televisivi di Viale Mazzini di Roma,16

altrimenti oggi non

sarebbe conservato nei magazzini romani della Rai dove attualmente si trova. Al suo apparire,  L’Alfiere 

suscitò consensi e critiche di diverso genere; non a tutti piacque la visione diversa del Risorgimento italiano

12 Radiocorriere, anno 1956, in particolare il n. 1, 1 / 7 gennaio e il n. 15, 8 / 14 aprile.13 A. Grasso, Storia della televisione, Garzanti, 1997, p. 6714 Il programma aveva per titolo generale il già ricordato Percorsi nella memoria dedicato alle produzioni Rai del passato, sia per quanto riguarda sceneggiati, commedie e varietà televisivi. Cime tempestose venne riproposto dal 1 al 13 agosto 1995. cfr.

«Radiocorriere TV», annata 1995, agosto.15 A. D’Alessandro, La televisione, in «Bianco e nero», n.4, aprile 1956, p. 8716 La scheda completa de L’Alfiere è situata in appendice al presente saggio.

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che l’opera di Alianello metteva in evidenza e alla quale Majano restò fedele: un Risorgimento visto dalla

  parte dei vinti e non dei vincitori. Ma proprio questa era la forza innovativa del romanzo e della sua

trasposizione televisiva; molto bene si pronunciò Ludovico Alessandrini che, valutando la produzione Rai di

quel periodo si espresse in questi termini: «In questo variegato panorama di titoli e di autori si distingue e fa

spicco in modo del tutto particolare  L’Alfiere di Antono Giulio Majano che, rievocando il dramma di un

ufficiale borbonico fedele, anche nella sventura, al giuramento prestato al suo re, si carica a poco a poco di

significazioni e risvolti ideologicamente “trasgressivi. E’ il volto meno conosciuto del Risorgimento che, per 

la prima volta, affiora alla superficie lattiginosa del teleschermo alla vigilia del primo centenario dell’unità

d’Italia. La televisione volta momentaneamente le spalle all’agiografia garibaldina per riaccostarsi senza

autocensure alle più antiche e sotterranee propaggini della “questione meridionale.»17

Altrettanto positivo fu

il giudizio di Renato Fillizzola che in quegli anni scriveva per «La rivista del cinematografo» il quale definì

 L’Alfiere un romanzo veramente originale «perché ci racconta una guerra vittoriosa con le parole dei vinti.

 Nel nostro caso si tratta della spedizione dei Mille vista con gli occhi borbonici da un alfiere che vive un

dramma interiore e si dibatte nell’alternativa di passare dall’altra parte e guadagnarsi così definitivamente

anche l’amore della ragazza dei suoi sogni oppure restare fedele alla bandiera ed al suo re che ha giurato di

servire fino in fondo. E’ un dramma di individui, un conflitto di idealità diverse che, per quanto abbiamo

finora visto, la riduzione televisiva ha reso con buona efficacia e con una tecnica narrativa che si fa sempre

 più svelta e agile.»18

 Il critico sottolineava che la messa in onda de L’Alfiere aveva contribuito ad un bilancio

  positivo del romanzo sceneggiato per la TV, anche se si poneva la domanda sul perché si scegliessero

sempre lavori ambientati nell’Ottocento e non si tentasse di mettere in scena vicende attuali. D’altra parte

l’esito positivo dei primi due anni di programmazione aveva favorito e incoraggiato, una serie di analoghitentativi che davano alla televisione la possibilità di ricercare una propria identità stilistica e narrativa che

l’affrancasse dai condizionamenti del cinema. In tal senso il teleromanzo a soggetto ottocentesco permetteva

di ricreare negli studi televisivi il clima e la cornice ambientale della letteratura europea di quel periodo,

ampliando sensibilmente la funzione e il ruolo della scenografia televisiva che andava a ricalcare gli schemi

di quella teatrale, nel contesto di uno spettacolo che aveva, però, una sua originalità.

Anche  L’Alfiere apparve sui teleschermi come una lunga vicenda di impostazione teatrale, ma con una sua

 peculiare diversità: l’argomento di carattere militare in cui si innestavano scene di battaglie e di caserme, di

soldati feriti e morenti, un pullulare di uniformi, bandiere, regolamenti; il tutto andava a formare il tessuto di

uno spettacolo televisivo realizzato secondo i canoni del teatro, ma anche con un tentativo di sbocco nel

cinema. E Majano fu, anche in questo, un innovatore e un precursore del genere: non si limitò ad una regia e

ad una scenografia realizzate totalmente in studio; volle uscire all’esterno e con i pochi mezzi a disposizione,

seppe girare alcune scene in esterni che ancora oggi restano, pur nella loro brevità, dei piccoli capolavori di

regia cinematografica finalizzata alla televisione. Centinaia di comparse vennero utilizzate per le scene di

massa, in particolare quelle che descrivono le battaglie delle quali parleremo tra breve e vennero ricostruiti

17 L. Alessandrini,  Lo sceneggiato televisivo e i suoi itinerari, in R. Zaccaria (a cura di), Rai. La televisione che cambia, SEI, Torino

1984, p. 204

18 R. Fillizzola, Quattro romanzi, in «La rivista del cinematografo», aprile 1956, p. 29

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sul modello originale le uniformi dell’esercito napoletano del 1860 e le armi da fuoco ad avancarica in uso

durante le guerre risorgimentali. Un’operazione quasi impensabile per quell’epoca se consideriamo l’esiguità

di mezzi a disposizione e i costi elevati della macchine da presa, oltre naturalmente a quelli della

realizzazione di scenografie e costumi.

Oreste De Fornari, studioso e appassionato di teleromanzi, sintetizzando l’insieme dei tanti personaggi che

appaiono ne L’Alfiere, parlò di «anime belle e soldati tutti d’un pezzo accanto ai quali si muovono generali

cinici e fanciulle evanescenti», riferimento quest’ultimo alle tre protagoniste femminili impersonate da

Emma Danieli, Ilaria Occhini e Maria Fiore.19

  Definizione perfetta per un mondo così variegato di figure

coinvolte in questo affresco storico sul processo di unificazione nazionale. Uno sceneggiato che, come il

romanzo da cui è tratto, ci descrive le aspirazioni, le perplessità, le contraddizioni e le crisi esistenziali di

un’umanità che deve misurarsi con l’evoluzione di un’epoca alla quale non è possibile sottrarsi, ma solo, alla

fine, rassegnarsi.

Un fotogramma dello sceneggiato Ottocento con la regia di Anton Giulio Majano trattodall’omonimo romanzo storico di Salvatore Gotta

19 O. De Fornari , Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato TV , Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1990

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Capitolo V

 Sceneggiatura e argomento storico

«Ho sentito che voi cercate la libertà e anche io la cerco. E che la andate seguendo per terra e per mare. E

questo è bene. Ma a voi par di essere, fra tutti, i soli, i buoni, i giusti, e di far cosa nuova, cosa pregiata.

Invece no: tutti al mondo cercano la libertà. Solo non tutti a un modo……»20 

Queste parole di frate Carmelo a un gruppo di garibaldini nella parte iniziale del romanzo di Alianello,

valgono meglio forse di tante altre a spiegare il significato e il tessuto di questa grande epopea storica e il

messaggio che l’autore e il regista vollero rendere visibile, adattandola insieme per lo schermo televisivo. In

un’epoca, quella degli anni cinquanta, in cui era ancora vivo e vicino in molti italiani il ricordo cruento

dell’ultimo conflitto mondiale, il mettere in scena una vicenda in cui la guerra la fa da protagonista poteva

essere anche rischioso, se fosse venuta a mancare l’intenzione di creare un’opera televisiva che voleva fare

memoria di eventi cruenti della nostra storia italiana per invitare lo spettatore ad una riflessione su valori e

ideali validi in ogni tempo e quindi anche in quegli anni post bellici in cui la neonata TV si proponeva la

missione educativa della massa al consolidamento di quei valori. In tal senso la scelta di un romanzo come

 L’Alfiere fu pienamente azzeccata e Anton Giulio Majano nella sua riduzione per il piccolo schermo vi mise

tutto il suo impegno, insistendo sullo spirito della vicenda: l’onore militare, la fedeltà alla parola data, il

desiderio di fratellanza di un popolo, la costruzione di una nazione, tutti valori che anche attraverso la dura

esperienza di una guerra si possono recuperare o realizzare.

Sergio Pugliese, direttore centrale dei programmi televisivi negli anni cinquanta, sosteneva che il mezzo

televisivo potesse contribuire all’educazione del paese inserendo piccole dosi di cultura nella

 programmazione.21

Pugliese era certamente interprete di quei modelli culturali rispondenti al moderatismo

cattolico e al conservatorismo liberale che caratterizzavano il panorama politico di quegli anni, e il suo agire

 portò con sicurezza la programmazione televisiva verso una finalità educativa che era trasmissione di valori e

di insegnamenti, convogliando sempre più masse di pubblico verso forme spettacolari e di documentazione

sempre migliori e di qualità. In tal senso anche le riflessioni storiche presenti in un romanzo come L’Alfiere e

 ben evidenziate anche nella sua trasposizione televisiva diventarono in quel momento strumento idoneo ad

un discorso educativo e insieme culturale.

L’aderenza al dato storico, inteso nei suoi molteplici aspetti, venne rispettato dal regista e dai suoi

collaboratori, come del resto era già presente nel romanzo di Alianello. Così le uniformi dei soldati

napoletani, le armi da fuoco che appaiono in alcune sequenze, le grandiose ricostruzioni di determinati

ambienti realizzate negli studi televisivi, casermatte dell’esercito, sale del palazzo reale di Napoli e di quello

in cui vive la famiglia dell’alfiere, tutto è riportato alla più vicina fedeltà alla realtà storica attraverso uno

studio attento dei vari elementi. Le uniformi dell’8° reggimento cacciatori al quale appartiene Pino Lancia,

inquadrato nella fanteria di linea dell’esercito napoletano, sono ricostruite secondo il modello originale in

20 C. Alianello, L’Alfiere, Osanna Edizioni, Napoli, 200021 La affermazione è riportata anche in C. Ferretti, B. Scaramucci, Mamma Rai, Le Monnier 1977, p. 122

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uso nel 1860. Così gli attori Fabrizio Mioni, Achille Millo e Corrado Annicelli, dovendo impersonare degli

ufficiali dell’esercito, indossano l’abito a falde di panno chiamato giamberga22

 ad un solo petto di colore blu

scuro e chiuso da nove bottoni e i pantaloni di un colore più chiaro, tendente al grigio, mentre tutti gli

accessori comprese le spalline da ufficiale sono di colore giallo dorato o d’argento. Il copricapo è invece il

cosiddetto shakot a forma tronco-conica di feltro nero, con visiera e guarnizioni di cuoio nero. In alcune

scene viene sostituito da un berretto piccolo con visiera chiamato berretto di fatica che veniva indossato

quando gli ufficiali non erano sul campo di battaglia. L’attore Carlo Giuffrè indossa la bellissima uniforme di

ussero della guardia reale che prevedeva una giubba corta di colore blu, pantaloni grigio chiaro e shakot

rosso piumato. Caratteristica di tutti gli ufficiali era quella di portare una cravatta di cuoio nero chiusa

intorno al collo e una goletta di metallo applicata al collo dell’abito sulla quale erano impressi i simboli del

reparto militare di appartenenza: nel caso dei cacciatori regi il simbolo erano due cornette incrociate. Il

costumista Fausto Saroli sicuramente con la supervisione di Majano seppe ricostruire tutto questo anche

analizzando testi di storia militare e qualche sequenza di film precedenti, in particolare 1860 di Blasetti che

 per diversi aspetti si avvicina a L’Alfiere.

Le uniformi dell’esercito del Regno delle Due Sicilie sono state definite eleganti e lussuose, potremmo dire,

sfarzose. D’altronde non poteva essere diversamente se si pensa che a Napoli in tutte le manifestazioni e gli

avvenimenti più importanti dell’epoca, la presenza dei militari era insostituibile. Valga per tutte l’esempio

della celebre festa di Piedigrotta (citata tra l’altro anche ne  L’Alfiere): un’autentica kermesse militare sotto

 parvenze religiose. Se si considera poi che in nessun altra organizzazione dello Stato come in quella militare,

la forma è anche sostanza, l’esercito napoletano può essere storicamente ritenuto un valido e affidabile

strumento di guerra. Questo a prescindere dalle sconfitte subite durante la guerra del 1860 e dalle disastrose battaglie narrate e menzionate nel romanzo di Alianello. Uno strumento militare, ancorché valido, spesso può

essere suscettibile di sfortune per una serie di fattori che non sono da imputare necessariamente a carenze

strutturali, a mediocre preparazione e a scarsa organizzazione. Tuttavia, le infauste vicende dell’esercito

napoletano sono da riportare alla mancanza o carenza di vertici militari autorevoli, motivati o capaci di

convogliare le potenzialità ed il valore delle diverse unità verso obiettivi chiari, perseguibili ed importanti.

Così nell’  Alfiere televisivo sono presenti alcune scene, già inserite anche nel libro, in cui vengono citati

ufficiali dell’esercito che non hanno saputo portare a termine il loro compito e hanno battuto in ritirata troppo

 presto. Nella prima puntata, nella sequenza dello scontro sul campanile del Duomo di Palermo, il tenente

Franco riferisce a Pino che il generale Lanza ha preparato i piani di ritirata su Messina, obbligando il plotone

ad abbandonare la città. Un’azione che fa sospettare anche una sorta di tradimento. «Qualcuno di quelli che

comandano non vuol dare un dispiacere ai suoi amici liberali. Misteri dello Stato Maggiore!»23

Così si

esprime Franco, confidandosi con l’amico, mentre infuria il combattimento sulla balconata del campanile.

Sempre nella prima puntata nella scena in casa del colonnello Rodriguez, padre della bella Renata, il

colonnello e Pino discutono sullo stato d’assedio di Palermo e della battaglia di Calatafimi di cui alcuni

22 Il termine giamberga deriva dallo spagnolo ed era già in uso alla fine del XVII secolo.23 Lanza Ferdinando: generale borbonico. Nel 1860, ottenuto il comando in capo dell’esercito in Sicilia, non potè resistere alla marciatravolgente dei garibaldini su Palermo e dovette proporre un armistizio il 28 maggio che fu prorogato fino all’8 giugno, data della

capitolazione di Palermo.

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giornali hanno dato la falsa notizia circa la vittoria dell’esercito borbonico. Pino definisce la battaglia un

fatto d’armi di esito incerto, Rodirguez incolpa il generale Landi24

 della sconfitta definendolo un mascalzone,

 pauroso e disgraziato.«Non ci sono veri generali, ma impiegati e gente di corte che mira solo alla carriera.»

Pino sostiene che i soldati comunque si sono battuti bene. E ancora al termine della seconda puntata, il padre

di Pino si accomiata dal figlio per recarsi a Roma, dove spera di fare affidamento sul Santo Padre, il papa Pio

IX, sicuramente fedele alla causa borbonica. «Il Santo Padre può darci una mano. Lui un generale l’avrebbe:

il generale Lemorciere!»25

E nella stessa puntata, nella scena in cui Pino incontra il cugino Totò all’interno di

un caffè di Toledo, Totò accenna al generale Nunziante26

 che si sta allontanando dall’esercito borbonico e

manifesta simpatie verso i liberali e i rivoltosi; accenna al conte d’Aquila, al conte di Siracusa che gridano

“viva Garibaldi” ma non sanno cos’è la costituzione. Sempre all’interno della seconda puntata si accenna

ancora al generale Nunziante nella scena in cui Pino riceve dal padre la lettera di nomina a secondo tenente

concessa proprio dallo stesso generale. Pino comunicherà poi al padre di essersi recato al comando militare

di Napoli a ringraziare per la nomina, ma il generale Nunziante non lo ha voluto ricevere, segno questo della

sua decisione ormai maturata di staccarsi dall’esercito napoletano. Nella quinta puntata, nella scena in cui gli

ufficiali napoletani fanno prigionieri alcuni garibaldini dopo lo scontro di Caiazzo, compare un altro

 personaggio storico: il generale Giovanni Battista Cattabeni, comandante del corpo volontari dei Cacciatori

di Bologna, uno dei tanti corpi di cui era formato l’esercito garibaldino. Anche lui viene fatto prigioniero e

Majano ce lo presenta attraverso poche battute come un ufficiale dotato di grande umiltà che sa accettare la

 propria sorte di sconfitto e di prigioniero di guerra con un forte senso di dignità, nel pronunciare le parole:

“mi arrendo al più forte”27

Un ultimo esempio, questa volta positivo, lo troviamo al termine della quinta p 

iuntata, quando Pino, giunto con il suo plotone alla cosiddetta Torre d’Argento, zona diroccata in prossimitàdi Capua, ricorda il sacrificio del capitano Bozzelli che si è fatto ammazzare con tutta la compagnia del 6°

reggimento cacciatori per bloccare l’avanzata dell’esercito piemontese. «Tutti si ricorderanno un giorno del

capitano Bozzelli che fermò un esercito!» Tutti gli esempi che abbiamo fin qui citato si riferiscono a

  personaggi reali, il che contribuisce alla veridicità storica del romanzo che anche nella performance

televisiva non vuole perdere questa connotazione. Interessanti sono, poi, le inquadrature in sovraimpressione

di alcune testate di giornali dell’epoca; così nella quinta puntata vediamo la testata del giornale delle Due

Sicilie, mentre una voce esterna annuncia che l’esercito prende posizione sul Garigliano e subito dopo appare

la testata della Gazzetta di Genova e un’altra voce annuncia la rotta borbonica sul Volturno e la marcia

24 Landi Francesco, generale borbonico agli ordini del duca di Castelcicala, ebbe parte importante nello scontro tra napoletani egaribaldini a Calatafimi. Accusato dai suoi superiori di essersi venduto a Garibaldi, ne fu scagionato dallo stesso generale in unalettera indirizzata diversi mesi dopo al figlio Michele Landi desideroso di riabilitare la memoria del padre.25 Lamorciere Cristoforo Luigi Leone. Il suo nome è legato principalmente alla battaglia di Castelfidardo e all’assedio di Ancona,momenti cruciali che portarono all’unione delle province pontificie delle Marche al regno d’Italia. Nel 1860 fu chiamato dal governo

romano ad assumere il comando di un esercito scarso di numero e vario di provenienza, compito in cui mostrò le sue doti diorganizzatore di cui rimangono tracce nei documenti dell’antico ministero delle armi conservati all’Archivio di Stato di Roma.26 Nunziante Alessandro. Fino al 1860 militò nell’esercito delle Due Sicilie dove fu tenente colonnello d fanteria, comandante la brigata cacciatori, aiutante generale del re e maresciallo di campo. Nel luglio dello stesso anno chiese le dimissioni e nel mese di

novembre fu nominato luogotenente generale nell’esercito italiano e membro del comitato di fanteria e cavalleria.27 Cattabeni Giovan Battista si difese con coraggio durante l’occupazione di Caiazzo a opera del generale borbonico Turr, fu ferito e

ricoverato al vescovado da dove fu poi tradotto con gli altri prigionieri a Capua. Garibaldi lo promosse successivamente colonnello.

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dell’esercito italiano sul Garigliano. Sotto le due testate giornalistiche si vedono sfilare reparti di cavalleria

delle truppe borboniche lungo strade tortuose: è una sequenza presa dal film 1860 di Blasetti.

 Non può mancare un cenno alla figura di Garibaldi che non compare mai nello sceneggiato, ma tutti parlano

di lui nel bene e nel male; egli è, si può dire, sulla bocca di tutti. Pino Lancia si irrigidisce in un

atteggiamento di rifiuto ogni volta che ne sente parlare; egli vede in Garibaldi l’uomo che vuole spodestare il

suo re e l’attore Fabrizio Mioni è molto abile nel dimostrare questo senso di refrattarietà e di allontanamento

da un personaggio che non può né stimare, né venerare, come fanno molti altri. C’è chi ne parla con ironia,

un esempio è il colonnello Rodriguez che guarda il corso irreversibile dei fatti con un certo acume e quando

 parla di Garibaldi ammicca agli aneliti di libertà e di indipendenza che egli rappresenta, ma lo fa anche per 

 provocare bonariamente Pino. Ma se ne parla anche come di un uomo che sa il fatto suo: nella già citata

scena al caffè di Toledo, Totò dirà a Pino con molto realismo: «Garibaldi? Quello sì che è un uomo, quello ci

ha fatto fessi tutti quanti!» Alcuni personaggi smaniano dalla voglia di vederlo: la bella Ginevra nella quarta

 puntata vuole andare in corteo dietro a lui appena giunge la notizia del suo arrivo a Napoli; la zia Rosa,

governante in casa di Pino, ne parla come di un assistito dagli spiriti, una persona di cui bisogna sempre

 parlare bene, altrimenti accadono guai seri; Renata vede il lui la voce dei tempi nuovi; i giovani rivoluzionari

della Basilicata che Pino incontra nella terza puntata credono nelle sue gesta di presunto eroe, più che negli

ideali che rappresenta. Un Garibaldi, quindi, che fa da sfondo a tutta la vicenda, che incombe con la sua

  presenza benefica o malefica, secondo i casi, ma alla quale nessuno può sfuggire perché la storia deve

seguire il suo corso. Qui sta la modernità del romanzo e dell’esperimento tentato dalla Rai con l’allestimento

televisivo; non la celebrazione del Risorgimento nazionale, ma le contraddizioni e le sofferenze di un mondo

che sta per crollare e che non ha più la forza di risollevarsi, di un esercito che, come ricorderà ancora Totò inuna sequenza della quarta puntata, “è diventato il servitore di un trono fradicio.” Dovranno passare

ventiquattro anni, prima che i problemi della conquista del meridione ritornino alla ribalta televisiva con

l’altro sceneggiato diretto da Majano L’eredità della priora sempre di Alienello nel 1980 e successivamente

con una grande serata storica proposta dalla prima rete della Rai nel 1982 dal titolo Serata Garibaldi, una

trasmissione che si proponeva di mettere in discussione il personaggio tanto decantato dai libri di scuola e da

una tradizione storiografica troppo scontata, per domandarsi se Garibaldi fosse stato realmente un

condottiero o soltanto un avventuriero esperto di guerriglia, ma incapace di strategie. Un programma che si

 proponeva di staccare per una sera da una simbolica parete il bel ritratto del generale nizzardo e provare a

guardarlo con uno spirito più critico e meno compiaciuto, rispetto a quanto si era sempre fatto nell’arco di

molti anni.

In quell’occasione Garibaldi venne definito da Indro Montanelli un avventuroso dotato di straordinario

coraggio e forte intuito, ma un pessimo politico, un personaggio a cui avevano nuociuto i suoi stessi

divinizzatori che ne avevano fatto un dio. E parlando della ben nota battaglia del Volturno, che ne L’Alfiere 

rimane sullo sfondo, il generale Ambrogio Viviani, noto studioso di storia militare, definì Garibaldi un abile

stratega che aveva saputo esplorare e studiare il terreno della battaglia, disponendo sul campo le forze in

  posizione decisamente vantaggiosa rispetto a quelle borboniche. La televisione ha parlato di Garibaldi in

molte altre occasioni; non si può non ricordare anche il film tv a puntate Il giovane Garibaldi del 1974 con la

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regia di che si proponeva uno studio attento e non romanzato del periodo sudamericano di questo ribelle

condottiero, ricostruendo nel modo più fedele le dinamiche di quelle prime battaglie e l’evolversi della sua

mentalità di uomo libero, indifferente a qualsiasi forma di governo e a qualunque legge, ma solo desideroso

di indipendenza, prima di tutto personale.

Si può, quindi, affermare che L’Alfiere fu la prima occasione televisiva in cui si parlò di un personaggio che

fino ad allora solo il cinema aveva trattato secondo gli schemi più enfatizzanti e apologetici e il cui ritratto di

eroe infallibile nessuno aveva mai tentato di staccare dalle pareti un po’polverose di un Risorgimento

enfattizzato..

E se le vittorie garibaldine sono il segno più evidente di un percorso storico irreversibile e di una tattica

militare che i soldati napoletani non erano più in grado di recuperare, pure nel romanzo di Alianello questi

ultimi hanno un loro riscatto che si identifica nella loro fedeltà al trono che servono e nel radicato senso del

dovere. Sugli spalti di Gaeta, dove si conclude la vicenda, l’esercito napoletano, benchè privo di buoni

comandanti, aveva salvato l’onore delle armi. Come ebbe a scrivere anche Benedetto Croce, «è doveroso

inchinarsi alla memoria di quegli estremi difensori, tra i quali erano nobili spiriti che nel 48 erano andati alla

difesa di Venezia, ma nel 60 non seppero staccarsi dalla bandiera del loro reggimento e come italiani

cadevano uccisi in combattimento contro italiani.»28

Sarà poi il generale piemontese Enrico Cialdini,

  protagonista alquanto discusso dei bombardamenti sulla fortezza di Gaeta per più di novanta giorni, a

scrivere una sorta di epitaffio in commemorazione dei caduti di quel tremendo assedio da lui stesso voluto,

dove ricordava che di fronte alla morte si placano le discordie umane e “gli isitinti”  (i defunti) sono tutti

uguali agli occhi dei generosi. «Le ire nostre non sanno sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio

Emanuele  combatte e perdona.»29

  Al di là della evidente retorica di questa affermazione che stride serapportata al suo autore, rimane valido il senso di pietà umana che essa può suscitare verso chi è caduto e ha

 perduto nel compiere il proprio dovere.

 Ne  L’Alfiere compaiono anche gli ultimi sovrani di Napoli: Francesco II e Maria Sofia di Baviera. Anton

Giulio Majano concede ad essi uno spazio maggiore di quello che hanno nel libro di Alianello, li

contestualizza meglio nella vicenda del protagonista e in quella storica della caduta del Regno Delle Due

Sicilie, rendendoli commentatori riflessivi di quanto accade sotto i loro occhi e artefici di sagge decisioni.

Sappiamo che Majano amava inventarsi anche scene e situazioni che non si ritrovavano nelle opere letterarie

da cui traeva i suoi sceneggiati, ma sapeva farlo con una logica che rispettava sempre la trama della vicenda

originale. Trattandosi in questo caso anche di personaggi storici, egli è attento a lasciarli in quella loro

dimensione che il copione dello sceneggiato tiene sempre d’occhio.

Rimane, però, di fatto che il vero protagonista di tutto l’intreccio della vicenda è il soldato napoletano

incarnato non solo nel personaggio di Pino Lancia, ma anche in tutti i suoi commilitoni, siano essi ufficiali o

semplici fanti. Nessuno sfugge all’occhio vigile del regista che sa trasfondere in ognuno la propria piccola

28 Il passo è riportato nel volume: C. Annicelli, L’unità d’Italia. Albo di immagini. 1859-1860, ERI, Rai Radiotelevisione italiana,1961, p. 14. La pubblicazione di questo pregevole volume avvenne in occasione del centenario dell’unificazione nazionale.29 Idem, p. 316

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connotazione storica di soldato fedele. Ne  L’Alfiere di Majano, quindi, il soldato napoletano ritrova il suo

giusto riscatto.

Come ebbe a scrivere nel 1856 il generale napoletano Carlo Mezzacapo, «il soldato napoletano è vivace,

intelligente, ardito ed in uno assai immaginoso; e però facile ad esaltarsi e correre alle imprese più

arrischiate, ma pur facile a scorarsi. Si sottomette agevolmente alla disciplina, allorché questa muova da un

  potere giusto, forte e costante.»30

  Se il personaggio di Pino Lancia ne  L’Alfiere possiede queste

caratteristiche, bisogna riconoscere che Carlo Alianello e Anton Giulio Majano seppero creare la figura di un

soldato che ha tutte le carte in regola per essere simbolo di tanti giovani napoletani di quell’esercito

 borbonico che lottarono fra tante contraddizioni nella difesa di una causa, forse perduta in partenza, ma alla

quale avevano giurato assoluta fedeltà e creduto fino in fondo.

Ufficiale superiore dei Battaglioni Cacciatori 6° Battaglione Cacciatori. Ufficiale in gran tenuta

(a sin.), ufficiale in tenuta giornaliera.

30 «Rivista militare», anno I, vol. I, Torino 1856, relazione del generale Carlo Mezzacapo

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Capitolo VI

 Immagini e sequenze

Le brevi cronache dell’epoca riportate sull’annata del Radiocorriere del 1956, ricordano che per poter 

avvicinare qualcuno allo studio 2 di Viale Mazzini nei giorni di prova delle diverse scene de  L’Alfiere era

necessario aspettare le nove di sera. Fino a quell’ora una folla di personaggi circolava per corridoi e sale

frettolosa e nervosa. Facce note, o meno note, conosciute attraverso il palcoscenico o qualche rivista dedicata

alle promesse e alle speranze del cinema e della televisione; tutti a quell’ora uscivano alla spicciolata stanchi

e provati dalle lunghe ore trascorse sotto i riflettori delle telecamere, in mezzo a copioni, costumi e

scenografie. Anton Giulio Majano usciva sempre per ultimo; l’assistente di studio Fulvio Sarti spegneva le

luci in sala regia e insieme facevano il punto dei lunghi pomeriggi in cui si era provato ininterrottamente

dalle ore quattordici.

Se si fosse trattato di girare un film, sarebbe stato ancora abbastanza semplice. Ma la televisione, si sa, non è

cinema. Agli inserti filmati si può ricorrere solo con molta prudenza e parsimonia per evitare una

contaminazione che non soddisferebbe lo spettatore del cinema e non piacerebbe a quello della TV. Si era

 partiti, è vero, con tutta la troupe alla volta di Gaeta, dal momento che ricostruire la fortezza in studio era

impresa impossibile per non dire cervellotica e lì si erano realizzate le scene di massa che costituiscono la

 parte finale dello sceneggiato: le brevi sequenze della fase conclusiva dell’assedio di Gaeta in cui i soldati

 borbonici tentano l’ultima disperata resistenza contro le truppe piemontesi. Ma il nodo centrale del racconto,

lo svolgersi della vicenda di Pino Lancia, di Frate Carmelo e della bella Renata è stato portato tutto in studio,

ripreso per intero in trecento metri quadrati che era quanto consentivano gli ambienti della TV romana a

quell’epoca. Da qui lo sforzo della sceneggiatura fatta da Majano e da Alianello insieme, per ridurre la

complessità della vicenda entro gli argini della versione televisiva. E da qui lo sforzo non minore degli

scenografi, in particolare dello scenografo Emilio Voglino, che dovettero attrezzare di settimana in settimana

lo studio con sette o otto ambienti completamente diversi, a seconda che il procedere del racconto ogni volta

richiedeva. A questo si doveva aggiungere la falange degli attori che furono la bellezza di settantacinque tra

  principali e secondari, elemento che contribuì a fare de L’Alfiere un lavoro inedito, un vero kolossal

televisivo mai tentato prima. Gli autori della riduzione non cedettero davanti ala folla di personaggi del

romanzo e non vollero escludere nemmeno quelli di minore importanza pur di non tradire lo spirito

dell’opera. E quando alla fine, contando i nomi presenti nella sceneggiatura, ci si accorse che erano

settantacinque, si volle quel preciso numero di attori per interpretarne i vari ruoli. Per tutta la durata delle

 prove, che proseguirono almeno per cinque settimane, Majano fece muovere un tal numero di persone per 

questo teleromanzo fiume, senza contare le comparse.

Il risultato di tutto questo sforzo? Nel 1956 non fu facile definirlo subito; L’Alfiere seguiva di pochi mesi il

grande successo di   Piccole donne, ma era un romanzo di tutt’altro assunto e di diverso respiro che non

apparteneva al genere di letture per ragazzine di buona famiglia, né stimolava ricordi di adolescenza o di banchi di scuola. A tredici anni dalla pubblicazione del romanzo di Alianello, la riduzione televisiva del 56

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 poteva essere un atto di riconoscimento verso quello che una parte della critica letteraria di allora giudicava

uno dei più significativi romanzi italiani contemporanei e che gran parte del pubblico non conosceva solo

  perché ebbe la sfortuna di apparire in un periodo, il 1943, in cui poca gente poteva prendersi il lusso di

interessarsi ai fatti letterari a causa del conflitto bellico in corso.

Realizzato con tutti i mezzi e le risorse possibili per quell’epoca,  L’Alfiere rimane da un lato anche un

 progetto ambizioso, emblema illuminante dei modi e degli intenti con cui la televisione italiana concepiva lo

sceneggiato da opere letterarie e, dall’altro, il riuscito tentativo di rinnovarne i canoni.

Se si volesse fare un’analisi delle sei puntate che lo compongono, si dovrebbe analizzare la vicenda sequenza

 per sequenza, cosa non fattibile in quanto richiederebbe pagine e pagine di descrizione.

Ci limiteremo ad alcuni momenti tra quelli più significativi che meglio mettono in evidenza le capacità

registiche di Majano, l’accurattezza delle scenografie e i gli aspetti più salienti del romanzo.

Un’analisi attenta de L’Alfiere non può prescindere dal discorso del montaggio in diretta di cui Majano fu un

felice precursore; le singole puntate, come ricordato, erano trasmesse in diretta e filmate con il vidigrafo e

nella diretta venivano mandate in onda alcune scene precedentemente girate all’aperto e montate su pellicola

 per essere poi inserite all’interno di ogni puntata nel momento preciso in cui lo svolgimento della vicenda lo

richiedeva. Fu questo un esperimento all’avanguardia per la televisione di quel tempo, in cui per la prima

volta veniva tentata una fusione tra teatro televisivo e azione filmata.

Così all’inizio della prima puntata, mentre scorrono i titoli di testa, Majano inserì la scena della battaglia di

Calatafimi presa pari pari dal film 1860 di Alessandro Blasetti, regista conosciuto e stimato dal nostro, il

quale, evidentemente con il pieno consenso dell’illustre collega, potè compiere un’operazione di questo tipo.

Lo spettatore si trova, quindi di fronte ad una sequenza cinematografica vera e propria che lo proietta già inuna nuova dimensione di concepire lo sceneggiato televisivo. E’ una sequenza di cinque minuti commentata

da un accompagnamento musicale composto dal maestro Riz Ortolani31

; una sorta di musica tormentata,

quasi spasmodica che vuole sottolineare l’impeto cruento della battaglia. Ritroveremo lo stesso tema

musicale, su scala ridotta, nella scena dello scontro di Caiazzo nella quinta puntata. Blasetti credeva

nell’importanza della musica al punto da identificare le leggi del racconto cinematografico con quelle del

discorso musicale; «tutto ricade sotto le leggi del ritmo, dei volumi, dei toni che sono le leggi dell’armonia e

dunque della musica.»32

La scena della battaglia di Calatafimi è di un realismo impressionante, se si pensa

che il film di Blasetti risale al 1934; il regista aveva saputo mettere in risalto lo scontro a fuoco tra soldati

 borbonici e garibaldini attraverso lunghe carellate e riprese a tutto campo che preludevano la tecnica e lo stile

del futuro cinema neorealista e forse proprio questo aspetto era piaciuto a Majano. All’accompagnamento

musicale di Riz Ortolani si sovrappongono gli spari dei cannoni e dei fucili che creano in tal modo una sorta

di mixage felicissimo.

Tutta la prima parte di questa prima puntata de  L’Alfiere presenta un’impostazione più cinematografica, che

teatrale; le prime scene girate in studio che vogliono rappresentare il paese siculo di Partinico dove i soldati

31 Tutta la colonna sonora dello sceneggiato è stata composta dal maestro Ortolani che curò diverse produzioni televisive di Majano

anche negli anni successivi.32  Il Risorgimento in pellicola, Cinemazero, atti a cura di Davide Del Duca, I.R.R.S.A.E, 1998, p. 60 

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napoletani, dopo la sconfitta di Calatafimi vengono attaccati dalla popolazione è su una lunghezza d’onda

decisamente cinematografica. E’ una sequenza praticamente inventata da Majano e da Alianello che vuole

evidenziare l’ostilità e la diffidenza della popolazione contadina verso il soldato napoletano e i due

  personaggi che vi appaiono ricordano certe figure di contadini delle novelle rusticane di Verga. La

scenografia realizzata in studio rende benissimo l’idea di un borgo contadino della Sicilia e l’atmosfera che

si respira all’interno ricorda alcuni film come il già citato 1860 di Blasetti e Il brigante di Tacca del lupo di

Pietro Germi. La finestra della casa dei contadini ripresa in primo piano da l’impressione che dietro vi sia un

interno; in realtà c’è solo la finestra, l’interno della casa è ricostruita in un altro punto dello studio televisivo.

Ricorda l’attore Achille Millo: «sembrava che i contadini guardassero in lontananza da quella finestra, in

realtà davanti a loro c’erano solo le telecamere posizionate a pochi metri.» Mentre una telecamera riprende

nei particolari l’ambiente ricostruito, si ode una voce maschile che intona una cantilena di sapore locale

accompagnata dalla chitarra. Quindi una seconda telecamera posta in un altro spazio dello studio televisivo

riprende l’interno della casa dei due contadini dall’arredamento spoglio, ma essenziale. L’arrivo dei soldati

napoletani ripresi dapprima di spalle è movimentato e di sicuro impatto drammatico. Le due telecamere

continuano ad alternarsi tra le riprese all’interno e all’esterno della casa, il linguaggio dei personaggi è

serrato e concitato, l’attore Fabrizio Mioni nel ruolo dell’alfiere Pino Lancia si muove con disinvoltura e si

 pone subito al centro di una scena in cui appaiono già molti personaggi e diverse comparse che compongono

il reggimento di fanteria da lui guidato. La tensione creata dall’azione movimentata e dall’interrogatorio a

cui i due contadini sono sottoposti soprattutto dopo l’arrivo del tenente Franco Enrico interpretato da Achille

Millo è di un verismo magistrale che unisce ancor più felicemente la teatralità televisiva all’azione

cinematografica. Al momento dell’arrivo di Franco, i soldati appostati nel giardino della casa attendono ilsegnale della regia per fare il saluto militare al loro tenente; i loro sguardi sono chiaramente indirizzati alle

telecamere per coglierne il segnale al momento esatto. Anche questo faceva parte del bello della messa in

onda in diretta. Majano alterna le inquadrature di insieme del plotone militare con dei bellissimi primi piani

sui due attori Mioni e Millo che già in questa prima mezz’ora della prima puntata emergono come gli

interpreti dei personaggi-eroi della vicenda. Si odono, quindi, degli spari provenienti dall’esterno; la

guerriglia fratricida continua e la scena si rianima con i movimenti frenetici della truppa che si appresta a

organizzare la difesa. Un’abile dissolvenza incrociata che apre la scena successiva chiude questa prima

grande sequenza a carattere militaresco. Il regista adotta sovente la tecnica della dissolvenza incrociata lungo

tutto l’arco delle sei puntate di questo sceneggiato; è sicuramente una tecnica di grande utilità nella ripresa in

diretta e nel passaggio da un ambiente ricostruito nello studio televisivo ad un altro attiguo. Inoltre

  permetteva allo spettatore di seguire lo svolgimento del racconto in modo più continuativo e serrato,

soprattutto quando nella scena successiva dovevano subentrare personaggi nuovi e un tipo di ambiente

nuovo.

La prima puntata di questo kolossal storico-risorgimentale si conclude con la scena del combattimento tra

soldati napoletani e garibaldini all’interno del campanile del Duomo di Palermo.

L’episodio avvenne storicamente il 29 maggio del 1860 e fu un breve successo per l’esercito napoletano che

si prese una piccola rivincita dopo lo scacco di Calatafimi, scacciando i garibaldini che avevano occupato il

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campanile della cattedrale, benchè tra morti e feriti si trattò di una specie di massacro. E’ la prima grande

scena di scontro militare che troviamo nello sceneggiato ed è interamento girata e ricostruita in studio. E’

una lunga sequenza di impianto teatrale dove Anton Giulio Majano con il supporto di Alianello mette in atto

la sua maestria di regista televisivo, senza mai perdere di vista il cinema di Blasetti e di Piero Nelli.33

Tutta

l’azione è concentrata sul parapetto del campanile al quale si accede per una scala esterna che si intravede

solo per un attimo.

I soldati inscenano lo scontro a fuoco con armi ad avancarica ricostruite che sparano solo con la capsula

senza la polvere da sparo in quanto quest’ultima avrebbe creato davanti alle telecamere molto vicine nuvole

di polvere in quantità tale che sullo schermo televisivo sarebbe apparso solo un gran polverone e null’altro.

Ciò non toglie nulla, però, all’efficacia della scena alimentata anche da voci e rumori che provengono

dall’esterno mandati in onda sulla diretta. E’ soprattutto la telecamera centrale a fare da padrona in questa

scena dove l’azione è concentrata sul parapetto della cattedrale ben visibile in primo piano. I soldati

garibaldini non appaiono in quanto li si immagina appostati alle finestre delle case di fronte al campanile da

dove sparano sull’avversario. Nello scontro a fuoco si inserisce il dialogo tra Pino e Franco sulla situazione

militare del momento seduti sui gradini della balconata; dialogo interrotto per un attimo da un colpo di fucile

che sfiora Pino balzato in piedi all’improvviso. Una sequenza quest’ultima di una frazione di secondi giocata

in modo sapiente dalle veloci inquadrature delle telecamere. Il finale della scena vede tutto il gruppo di

soldati napoletani disposti a semicerchio intorno al parapetto, mentre cessano gli spari e si odono voci in

lontananza. Ma Majano vuole dare un tocco da melodramma a questo finale: Pino Lancia viene ferito a

tradimento da un colpo di fucile sparato da un garibaldino da una finestra di fronte; l’alfiere cade tra le

  braccia dei suoi soldati e di Franco e la puntata si chiude sull’immagine di questo gruppo quasi coraleintorno al commilitone svenuto. Al nostro regista piaceva dare ogni tanto un sapore melodrammatico alle

 proprie vicende trasportate sul piccolo schermo e sapeva, comunque, farlo sempre al momento giusto. Tutti i

figuranti e gli attori in uniforme si muovono con destrezza e rendono l’idea della dinamicità del

combattimento e la regia da un piccolo spazio anche alle figure anonime, alle comparse appunto.

 Nella televisione delle origini la telecamera era montata su un trespolo e manovrata da un cameraman. Dopo

 poco tempo furono introdotti i carrelli con ruote guidati dal carellista responsabile degli spostamenti della

telecamera. Accanto a questi operatori vi era il giraffista che sovrastava tutti a cavallo della giraffa, grosso

microfono attaccato ad un braccio lungo fino a dodici metri, il tutto montato su un macchinario a ruote. Certo

è interessante pensare come alcune sequenze de  L’Alfiere in cui compaiono tanti personaggi dovessero

essere riprese da operatori che manovravano queste grosse attrezzature in uno spazio chiuso e molto angusto.

Così se volgiamo analizzare qualche scena della quinta puntata che è quella di ambientazione più

 prettamente militare, possiamo prendere ad esempio la nota sequenza (che fece anche scalpore all’epoca), in

cui i soldati borbonici capitanati da Pino e Franco catturano, dopo lo scontro di Caiazzo, un gruppo di

ufficiali garibaldini, tutti volontari di Nino Bixio. E’ una scena in cui la vicenda militare si unisce ai principi

religiosi rappresentati dal personaggio del vescovo di Caiazzo che tiene agli ufficiali borbonici una sorta di

33 Piero Nelli, regista cinematografico e di programmi televisivi negli anni sessanta e settanta, aveva realizzato il suo unico film a

soggetto storico-risorgimentale nel 1954: La pattuglia sperduta, ambientato all’epoca della prima guerra d’Indipendenza italiana.

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sermone sui doveri della carità cristiana anche nei riguardi dei prigionieri di guerra. I prigionieri garibaldini,

che il vescovo ha ospitato in una sala del proprio palazzo, sono ripresi di spalle mentre fanno il saluto

militare agli ufficiali borbonici. Quindi vengono inquadrati a mezzo busto ad uno ad uno mentre si

  presentano e consegnano le loro sciabole al capitano Morbido e a Pino. Majano sa rendere la tensione

drammatica di questa scena che ritorna a essere teatro televisivo attraverso i gesti, gli sguardi dei personaggi,

i primi piani dei visi e il silenzio assoluto dominato dal rigoroso rispetto delle regole militari da parte di

entrambe le parti nemiche, silenzio rotto solo dal rumore delle sciabole che si appoggiano una sull’altra

sorrette da Pino che con gesto molto studiato le consegna al capitano. Si ritorna ai primissimi piani nel

dialogo successivo tra Pino e il cugino Mimì Lecaldani, (ottimamente interpretato da Nino Manfredi), anche

lui prigioniero garibaldino in cui questo comunica al giovane ufficiale la morte della sorella Titina.

All’espressione cupa e quasi solenne del viso di Manfredi, si unisce in una sintonia perfetta di immagine, il

volto piangente di Fabrizio Mioni che deve però dare al suo personaggio la forza di trattenere le proprie

emozioni interiori di fronte ai prigionieri e ai suoi compagni d’arme. Dietro ai due attori fa da sfondo una

grande finestra con una grata, la cui perfetta inquadratura crea una cornice di intimità al dialogo tra i due

  personaggi che alla fine si abbracciano in un gesto di riconciliazione e di addio. L’entrata nella sala del

capitano Polyzzi che ordina l’uscita dei prigionieri dal palazzo per essere scortati a destinazione, riporta la

sequenza ai canoni delle dure leggi di guerra e costringe i singoli personaggi a soffocare i propri sentimenti

umani. Le telecamere si muovono lentamente nello stretto spazio dello studio, ma nessun particolare che

abbia un minimo significato viene trascurato dalla regia, neanche il ritratto del Papa Pio IX appeso sulla

 parete centrale della sala. Analoghe tecniche di inquadratura troviamo nella precedente scena dell’incontro

degli ufficiali borbonici con il re Francesco II interpretato dall’attore Antonio Pierfederici nella sede delcomando militare di Capua. Tra l’altro questa scena che apre la quinta puntata è una delle meglio riuscite

anche dal punto di vista della recitazione disinvolta e spontanea degli attori che sanno ricreare un autentico

clima di cameratismo militare e nel contempo di pieno rispetto dell’autorità sovrana e della disciplina che

regnava all’interno dell’esercito non diversa da quella dell’esercito piemontese in cui il re era anche

comandante assoluto delle forze militari. Gli ufficiali che si presentano al sovrano appartengono ai diversi

reparti: fanteria, cavalleria, guardia reale. Sono presenti ovviamente Pino Lancia, passato al grado di secondo

tenente, Franco Enrico e Antonio Lo Bosco, soprannominato Totò, cugino di Pino, l’attore Carlo Giuffrè, che

veste l’uniforme di ussero della guardia del re. Bellissima è l’inquadratura di tutti gli ufficiali schierati che

fanno il saluto militare prima al capitano Polizzy e quindi al re; importante è anche l’accurata ricostruzione

delle uniformi dei vari reparti messe in evidenza dalle riprese a figura intera e a mezzo busto degli attori,

significative le battute di Francesco II su Garibaldi riprese dal testo di Alianello, in risposta alla battuta di un

colonnello che definisce Garibaldi un filibustiere. «Garibaldi non è un filibustiere, è il capo di un principio

  politico opposto al nostro, ma vasto, sentito da molti e come tale va combattuto a viso aperto e non

assassinato a tradimento. Che bene ci verrebbe da un assassinio ?»34

E’ una delle poche scene a carattere

militare in cui viene citato Garibaldi e ogni volta sia l’autore che Majano ne parlano con rispetto proprio a

34 C. Alianello, L’Alfiere, Osanna Edizioni, 2000, pp. 305 -306

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sottolineare la lealtà dei soldati napoletani che, pur considerandolo nemico, ne rispettano gli ideali. Questo è

anche il primo grande momento in cui viene inserita la marcia reale scritta da Giovanni Paisiello e arrangiata

dal maestro Riz Ortolani che accompagna nelle ultime due puntate le sequenze più salienti della vicenda fino

alla conclusione sugli spalti di Gaeta.Quando Pino Lancia riuscirà a ricongiungersi con il proprio reggimento nella fortezza di Gaeta all’inizio

della sesta puntata, dopo la disastrosa disfatta del Volturno, lo spettatore si trova davanti il recinto di una

caserma in cui i soldati stanno consumando il rancio durante una sosta dei combattimenti. Tutti lo credevano

morto a causa delle falsa notizia diramata da un sergente opportunista e sono stupiti nel rivederlo, ma il loro

entusiasmo è subito riportato all’ordine dallo stesso Pino nel suo ruolo di tenente. La scenografia è realizzata

su due sezioni: l’esterno del quartier militare dove sono appostati i soldati e la stanza interna ad esso

collegata da una staccionata in cui il tenente Franco (divenuto capitano) sta terminando di vestirsi per 

riprendere le operazioni belliche al comando del proprio plotone. Si ritorna al clima militaresco di caserma e

di preparazione ad una grande battaglia con poche speranze di vittoria. La scena è piuttosto movimentata:

sfiora l’ironia nel dialogo tra Franco e il sergente diffamatore costretto a riconoscere che Pino è ancora vivo;

quindi il racconto riprende la propria drammaticità e diventa quasi solenne nel successivo incontro tra Franco

e il generale Polizzy e nel loro dialogo sull’idea di Italia, di libertà e sulle defezioni all’interno dell’esercito

napoletano. Bellissima la battuta pronunciata dal colonnello: «L’Italia si farà ugualmente o con noi o senza

di noi e anche noi con questa uniforme potremo dire un giorno di aver contribuito a unire la patria. Un giorno

tutti lo capiranno, e allora diciamo anche noi Viva l’Italia!.» Dietro ai due personaggi che dialogano, sono

visibili gli altri soldati che si preparano per l’adunata, sollevando zaini e caricando fucili in maniera

frettolosa, quasi a significare l’urgenza del momento. Il suono della tromba che richiama all’adunata ad

opera di un soldato in primo piano conclude la sequenza nella più logica disciplina militare.

  Nella carrellata delle scene di ambientazione militare presenti ne L’Alfiere non possono essere trascurate

quelle girate in esterno che sono tre : lo scontro di Caiazzo e la traversata sul fiume Volturno nella quinta

 puntata e la scena dell’ultima resistenza borbonica sugli spalti di Gaeta nella sesta puntata. Le prime due

vennero girate nelle vicinanze di Roma in zone di campagna; per la terza sequenza la truppa al completo si

trasferì proprio a Gaeta nei pressi della famosa Torre d’Orlando, la struttura più alta di questa imponente

fortezza militare che si erge a strapiombo sul mare nell’insenatura che ne costituisce l’omonimo golfo. A

titolo di curiosità, possiamo ricordare che a Gaeta Anton Giulio Majano girerà sedici anni dopo, nel 1972,

anche gli esterni di un altro suo sceneggiato poco ricordato: La pietra di luna dal romanzo di Wilkins Collins,

una sorta di vicenda giallo-romantica che ha origine nella lontana India, la cui atmosfera orientale venne

ricreata proprio sul territorio di Gaeta.

Ma già nel 1956 Majano era consapevole della necessità di distinguere il linguaggio dello sceneggiato dal

linguaggio del teatro televisivo. L’uso di inserti filmati, il bisogno di ambientare la storia in spazi veri,

 prefigurano fin da quel 1956 la progressiva evoluzione e il tentativo di uscire all’esterno. Come egli stesso

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ebbe a dire, «la televisione ha bisogno di presa immediata, di rappresentare la realtà mentre si snoda davanti

agli occhi dei telespettatori, trasformandola in spettacolo.»35

 

Il combattimento di Caiazzo avvenne storicamente il 21 settembre 1860 e fu l’ultima vittoria dell’esercito

 borbonico contro le forze garibaldine. La sequenza televisiva è molto breve, di due minuti esatti in confronto

della lunga descrizione che ne fa Alianello nel suo libro dove l’episodio occupa sei pagine, ma la regia di

Majano rende perfettamente l’immagine dello scontro. Non era mai stata realizzata per la televisione una

scena di battaglia con armi da fuoco girata in esterni e per la prima volta i telespettatori si trovarono davanti

una vera e propria sequenza cinematografica da film a soggetto storico. Le inquadrature sono dei flash, la

narrazione è molto veloce, ma efficace all’occhio dello spettatore. La macchina da presa dapprima fa una

carrellata lenta sui soldati napoletani distesi a terra mentre sparano; quindi vengono inquadrati Pino, Franco e

il capitano Morbido nel mezzo della sparatoria intenti a prendere le decisioni sul da farsi. Fabrizio Mioni

ripreso a mezzo busto con la sciabola sguainata da ordine al suo plotone di attaccare i garibaldini; gli uomini

in gruppo si lanciano all’inseguimento, correndo in mezzo agli spari dei fucili nemici; Pino è in testa e con

tutto il gruppo raggiunge la barricata nemica sfondandola e passando oltre fino a raggiungere l’arcata

dell’edificio dove si ferma circondato dai suoi uomini al grido di “Viva il re”. L’edificio è un’alta

costruzione sulla sommità della quale sono appostati molti soldati napoletani che sparano verso il basso; è

 possibile vedere anche un soldato che precipita dall’alto colpito dal nemico. I garibaldini sono inquadrati per 

 pochi secondi di profilo mentre sparano appostati ad una muraglia dell’edificio; quindi mentre scendono di

corsa dalla scala dell’edificio per attaccare il plotone nemico e impedirgli di conquistare la barricata. Pur 

nella brevità di questa scena il regista riesce a dare l’idea di un combattimento cruento in cui il fumo degli

spari a salve dei fucili per la prima volta appare sullo schermo e avvolge a tratti il luogo dello scontro.Certo a quell’epoca le riprese in esterni erano molto costose; girare per due minuti una sequenza di questo

calibro con l’impiego di tanti figuranti e di molte armi da fuoco deve essere stata una spesa non da poco.

Montata sulla diretta delle riprese in studio di quella puntata, la scena acquistava un realismo sorprendente.

6° battaglione cacciatori a sinistra individuo in tenuta di rotta, a destra sottoufficiale in gran tenuta

35 La citazione è riportata in G. Tabanelli, Il teatro in televisione. Regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione, Eri Rai, 2001, Vol. I, p. 315

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Garibaldi sul Volturno, dipinto di Francesco Mancini conservato

al Museo Nazionale di San Martino di Napoli

Sergio Pugliese nel lontano 1954 asseriva che la televisione, «arte ancora nel suo primo stadio di sviluppo,

deve cercarsi un proprio linguaggio e i propri modi di espressione.(…)In questo primo periodo di

trasmissioni già si sono accumulate varie esperienze e si sono tracciati i limiti, se non altro, entro i quali la

Televisione dovrà agire per trovare e fissare la propria sintassi espressiva.»36

 

Potremmo dire che Majano due anni più tardi con L’Alfiere avesse già raggiunto un bagaglio di esperienze

messe in atto con maestria e successo nella piena consapevolezza anche dei limiti che il mezzo televisivo

 presentava ? Crediamo di si e gli esperimenti tentati proprio in questo sceneggiato ne sono la prova oltre che

la testimonianza della volontà del regista di progredire sulla strada dell’elemento spettacolare curato da

 procedimenti e soluzioni registiche nuove, giocando soprattutto sul linguaggio scenografico della ripresa in

esterni.

La sequenza girata sul fiume che narra il momento in cui Pino Lancia è di guardia sul Volturno con i suoi

uomini, è una delle più belle di tutto lo sceneggiato. Il paesaggio circostante è ripreso all’alba, ma

l’atmosfera che si crea sullo schermo è ancora notturna, lunare. Il dialogo tra Pino e una delle sue sentinelle

richiama certi dialoghi del film   La pattuglia sperduta di Piero Nelli di impianto neorealista dove il lato

umano dei soldati emerge più volte dai loro discorsi. Il tragitto sulla barca rimane uno dei momenti più alti

della narrazione televisiva di quegli anni. Dapprima abbiamo una ripresa a campo lungo mentre la barca si

allontana dalla riva del fiume; quindi la macchina da presa inquadra Pino e la sua sentinella seduti

sull’imbarcazione; il dialogo tra i due personaggi si fa nostalgico nel ricordare i luoghi della loro infanzia e

le parole di Pino fanno riemergere la sua angoscia per la morte di Titina mentre egli descrive con accenti

 poetici il paese di Tito in Basilicata e il sorgere della luna dietro i monti di quella zona. «Hai mai visto salire

36 S. Pugliese, Teatro e linguaggio televisivo, in «Il dramma», 1 maggio 1954, pp. 9-10

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la luna tra le montagne? chiede Pino al suo compagno, La luna sta appesa tra due montagne e un vento

leggero la porta su e sotto è come una chiesa: pace e silenzio, vivi e morti. E uno può solo cantare, parlare

no. Per chi ci sta vicino e non dorme e per chi ci sta in cuore e non dorme. Vivi e morti!» Parole altamente

  poetiche nel contesto di una sequenza altrettanto poetica. Il bellissimo accompagnamento musicale

sommesso e lunare che accompagna questo momento del racconto trasmette un senso e un desiderio di pace

interiore che resta unico grazie anche al paesaggio brumoso che circonda i due personaggi, nonché ai

cromatismi del bianco e nero che ci ricordano così da vicino la cinematografia neorealista di Piero Nelli. In

questa scena emerge l’esperienza di un Majano regista cinematografico che si sposa con quella del Majano

regista televisivo. E la conclusione dello sceneggiato non è da meno nel dimostrare la maestria di questo

“padre del teleromanzo” a cui si unisce la valida collaborazione di tutta la truppa televisiva che partecipò alla

realizzazione de  L’Alfiere. L’avventura bellica e patriottica di Pino Lancia e dei suoi uomini sta per 

concludersi tragicamente: l’esercito piemontese ha occupato la fortezza di Gaeta dove i soldati napoletani

sono stati costretti a ripiegare; la capitolazione della piazza sta per essere firmata dopo tre mesi di duro

assedio e di continui bombardamenti nella fortezza; il generale piemontese Enrico Cialdini ha rifiutato

qualsiasi proposta di armistizio e ha preteso la capitolazione definitiva.37

 All’interno della stanza dove Pino è

alloggiato (questi edifici si chiamavano casematte secondo la terminologia militare), ricostruita in studio, è

stato portato l’amico Franco morente in quanto colpito dal tifo esantematico che in quel frangente moltissimi

ufficiali e soldati soprattutto da parte napoletana avevano contratto. Franco è disteso nel letto assistito da

  padre Carmelo, Pino sopraggiunge preoccupato per la sorte dell’amico verso il quale ha sempre nutrito

affetto fraterno. Il dialogo a tre è ripreso pressocchè integro dalle pagine del libro e la regia opera dei

 bellissimi primi piani sui tre personaggi accomunati dagli stessi sentimenti e dalla sofferenza maggiore diquella fisica: la morte e la distruzione seminate dalla guerra fratricida che sta per terminare. Al dramma

interiore dei tre uomini si unisce quello esterno della capitolazione ormai prossima reso evidente dal rumore

delle cannonate che si odono in continuazione. La recitazione concitata degli attori e il muoversi agitato di

Pino sulla scena, sono interrotti solo dall’arrivo del cugino Totò che si congeda da lui per seguire il re in

territorio pontificio. L’addio di Pino al cugino si congiunge al dramma di Franco morente concentrando così

nel protagonista due momenti dolorosi che vanno a colpirlo negli affetti più cari. L’improvvisa entrata in

scena di un ufficiale che annuncia lo scoppio di una polveriera della fortezza mentre si ode all’esterno la

tromba che annuncia la generale, riporta i personaggi alla dura realtà del momento. Tutti si precipitano fuori,

lasciando Franco momentaneamente solo nel suo letto di dolore.

Lo stacco tra la conclusione di questa scena e la partenza del filmato girato in esterni di quella successiva è

velocissimo e lo spettatore ha l’illusione perfetta di trovarsi improvvisamente sugli spalti della rocca di Gaeta

grazie alla rapidità del montaggio sulla diretta televisiva. La sequenza in esterni è caratterizzata dal

susseguirsi veloce di diversi momenti drammatici: i soldati che combattono sugli spalti della fortezza

correndo tra le muraglie; le granate che scoppiano e avvolgono anche Pino, padre Carmelo e il fedele

37 Enrico Cialdini, noto generale piemontese, volle a tutti i costi assediare l’esercito borbonico e costringerlo alla resa dopo un

estenuante bombardamento di tre mesi nella fortezza di Gaeta. Il suo modo di agire alquanto discutibile gli permise comunque diraggiungere il suo obiettivo e gli valse anche il titolo di duca di Gaeta conferitogli da Vittorio Emanuele II, appena divenuto re

d’Italia.

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 bellissima la collaborazione tra i vari operatori, soprattutto i tecnici.»38

  Nel contesto di questo teatro filmato,

quale era lo sceneggiato televisivo degli anni cinquanta, L’Alfiere si pone come esempio emblematico anche

dal punto di vista della tecnica di ricostruzione; infatti, come ricorda Folco Portinari, «la preoccupazione

degli sceneggiatori è stata quella della fedeltà umile e ossequiosa fondata sulle tre garanzie della trama, dei

dialoghi e del paesaggio, integralmente mantenuti e riprodotti.» Se questo è vero anche per L’Alfiere, si

  potrebbe asserire che Majano e i suoi collaboratori fecero miracoli a quell’epoca e il rispetto delle tre

garanzie citate diede ottime risultati. Lo stesso Majano ebbe a dire che «la vicenda militare venne realizzata

con molta creatività, supplendo così alla mancanza di mezzi.»39

 

Didascalia: L’arrivo a Mola di Gaeta di un ufficiale incaricato di chiedere l’armistizio e

l’autorizzazione a seppellire i morti

38 Ivo Garrani partecipò a una delle puntate della trasmissione televisiva realizzata per il canale satellitare di Raisat Album, Romanzo popolare condotta da Oreste De Fornari e Gloria De Antoni nel 2002.39 Da Il mestiere della televisione, cit., Rai educational, 1992

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Capitolo VII

Pino Lancia: un singolare personaggio dell’epopea risorgimentale

In una intervista televisiva di alcuni anni fa, Franco Monteleone aveva affermato che uno degli scopi del

romanzo sceneggiato fosse stato quello di proporre una divulgazione storica alle masse in maniera corretta e

appetibile.40

  L’Alfiere, teleromanzo a soggetto storico a tutti gli effetti, è stato il primo tentativo di questa

divulgazione che si proponeva, però, di diffondere una faccia anomala dell’epopea risorgimentale, quella dei

vinti, degli sconfitti, di coloro che in un certo senso combattevano contro l’annessione del meridione al resto

dell’Italia, visione comunque corretta e storicamente accettabile per chi voglia studiare la storia in modo

oggettivo. Oggi, come nel 1956, quest’opera divulgativa rimane ancora valida, rivedendo lo sceneggiato,

grazie alla figura coinvolgente del protagonista, il giovane alfiere Pino Lancia che già nel romanzo di

Alianello spicca per la prorompente fede negli ideali in cui crede e che nella trasposizione televisiva diventa

un personaggio unico e irripetibile. Don Giuseppe Lancia (questo il vero nome di Pino), discende da una

famiglia che vanta il titolo baronale, si arruola appena ventenne nell’esercito borbonico e raggiunge il grado

di alfiere in occasione della battaglia di Calatafimi contro le forze garibaldine, per arrivare velocemente a

quello di secondo tenente e poi di primo tenente al termine della vicenda. Il suo reggimento di appartenenza

è l’8° cacciatori, reparto inquadrato nella fanteria di linea dell’esercito napoletano.41

 

Alianello ha creato un personaggio energico, entusiasta dei propri ideali, coraggioso e sempre pronto a

misurarsi con chi la pensa diversamente o con chi lo provoca, un personaggio, però, anche sensibile,

riflessivo, qualche volta ingenuo, proprio perché molto giovane. Anton Giulio Majano, affidandone il ruolo

al giovane attore Fabrizio Mioni, riesce a mantenere al personaggio le caratteristiche volute dallo scrittore,

  pur comunicandogli una vena sentimentale e una sensibilità maggiore rispetto a quella del romanzo. In

questo senso Pino Lancia –Fabrizio Mioni diventa il prototipo di tante figure giovanili maschili che Majano

saprà creare nei suoi teleromanzi successivi: David Copperfield, interpretato da un giovanissimo Giancarlo

Giannini; Arthur Barras, ne E le stelle stanno a guardare, ancora con il volto di Giannini; Dick Shelton ne

 La freccia nera nell’interpretazione di un esordiente Aldo Reggiani, Stuart Stark in Una tragedia americana 

interpretato da un giovane Gabriele Antonini e, per un certo verso, anche il protagonista del medesimo

sceneggiato, Clyde Griffitz con il volto di Warner Bentivegna; Ottorino Visconti nel Marco Visconti 

interpretato da Gabriele Lavia; Costantino Nigra in Ottocento magistralmente “incarnato” da un giovane

Sergio Fantoni e potremmo aggiungere anche un paio di personaggi più maturi interpretati da attori già sulla

soglia dei quarant’anni: il dottor Manson de  La cittadella con il ben noto volto di Alberto Lupo e William

Dobbin ne La fiera delle vanità nella sapiente interpretazione di Nando Gazzolo. Questa carellata di volti e

figure che Majano seppe creare allo scopo di dare sempre un’impronta popolare e divulgativa ai suoi lavori,

 prende l’avvio appunto con il protagonista de L’Alfiere sul quale si può dire che il regista sperimentò la sua

40  Da Il mestiere della televisione, cit.41 Il grado di alfiere, nella gerarchia militare degli eserciti settecenteschi e ottocenteschi, corrispondeva al livello più basso della

categoria dei tenenti e apparteneva al cosiddetto piccolo Stato Maggiore del reggimento.

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vena creativa in cui il sentimento, lungi dal diventare stucchevole e sdolcinato, diventava un elemento

 proprio dei suoi personaggi prediletti che li faceva reali e credibili, convincenti fino in fondo. Majano ama

certi personaggi dei suoi sceneggiati; potremmo affermare che li ama tutti, ma per alcuni ha una predilezione

 particolare; quelli che abbiamo citato sono appunto i più amati nei quali lui crede e sa di poter realizzare le

sue convinzioni registiche sul teleromanzo: opera grandiosa e decisamente popolare.42

 Fabrizio Mioni si calò

nel ruolo di Pino Lancia con le qualità di un attore giovane che aveva già alle spalle la scuola di un regista

come Visconti e con una prestanza fisica che costituì un suo indubbio vantaggio sullo schermo televisivo.

Alto, biondo, definito da tutti bellissimo, il giovane attore obbedì al volere del regista, dando vita a un

 personaggio vivace, coraggioso, esuberante, ma mai forzato nella recitazione, ingenuo e sensibile quando

deve esserlo, in lacrime per la morte di chi gli è caro, innamorato, ma senza mai anteporre questo sentimento

a quello più alto dell’onore e della fedeltà, pronto a sfidare chiunque lo provochi nelle sue convinzioni e a

sacrificare qualunque cosa pur di non rinnegare la sua fede. Mioni è quasi sempre presente sulla scena in

tutte le sei puntate de  L’Alfiere, la sua parte non è certo facile né di poca cosa, ma egli superò la prova con

risultati più che soddisfacenti, diventando, se ci è consentito dire questo, un nuovo divo maschile della

televisione italiana che annoverava già grandi nomi. Il fatto poi che questo sia stato il suo unico lavoro di

rilievo in televisione non ne sminuisce l’importanza, anche se lo porta inevitabilmente ad essere ricordato

solo nel ruolo di questo giovane ufficiale borbonico. Majano lo predilige nella propria regia, facendo su di lui

numerosi primi e primissimi piani bellissimi anche dal punto di vista della tecnica registica, studiandone

sempre le espressioni del viso e degli occhi e facendolo sovente sorridere o piangere in modo da farne

trasparire sempre la sua sensibilità interiore e la sua partecipazione alle vicende più o meno drammatiche che

non coinvolgono solo lui, ma anche gli altri personaggi. Così, ad esempio, al termine della seconda puntata,dopo la partenza del padre per Roma, vediamo il giovane alfiere prima appoggiato con aria affranta al

 bracciolo di una poltrona e poi in piedi vicino ad una tenda della finestra inquadrato di profilo con un debole

sorriso che gli illumina il viso in un barlume di speranza, mentre in sovraimpressione gli appare la figura

sorridente di Renata, la sua fidanzata. Anche nel precedente colloquio con il padre (interpretato dall’attore

Giuseppe Porelli) sono significativi i primi piani sul giovane attore quando il padre gli rammenta il suo

dovere di tenere alto il nome dei Lancia. Qui Mioni assume un’espressione seria e nobile che ricorda alcuni

ritratti di ufficiali o comunque di militari di un certo grado e l’ alta uniforme che indossa contribuisce a

rendere più evidente questa somiglianza. La divisa dell’esercito napoletano incalza molto bene al fisico

slanciato dell’attore, lo rende elegante e di sicuro impatto scenico. Majano tende sempre a presentarci un

giovane soldato obbediente, sia verso i suoi superiori, che verso il padre nei confronti del quale dimostra una

sottomissione filiale che nel libro di Alianello è meno accentuata. In tal senso possiamo verificare il suo

atteggiamento ossequioso alla presenza dei sovrani Francesco II e Maria Sofia nella quarta e nella sesta

 puntata, unito all’atteggiamento quasi rigido del militare che si pone sull’attenti di fronte ad una autorità, il

suo profondo rispetto verso padre Carmelo che diventa, se pure per breve tempo, un confidente spirituale,

42 Abbiamo citato solo personaggi maschili per operare il confronto con il protagonista de L’Alfiere. Ovviamente Majano seppecreare anche figure femminili di grande rilievo e dotate di spiccata sensibilità umana; valgano per tutte tre nomi Jane Eyre, Cristina

Manson e Hilda Barras, rispettivamente con i volti di Ilaria Occhini, Anna Maria Guarnirei e Maresa Gallo.

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l’obbedienza mista a gratitudine verso il suo più diretto superiore, il colonnello Polizzy che nella quinta

  puntata gli offre la decorazione dell’ordine militare di San Giorgio a seguito dell’ottimo comportamento

dimostrato sui campi di battaglia.

Ma il nostro personaggio sa dimostrare anche fermezza che lo porta a rasentare l’aggressività allo scopo di

difendere i principi in cui crede; vale in tal senso la drammatica scena della terza puntata quando, ospite del

cugino Mimì Lecaldani, viene a tradimento da questi e dagli altri giovani del gruppo imprigionato in una

masseria di campagna, perché la sua presenza è diventata scomoda su un territorio votato ormai alla

rivoluzione garibaldina e dove tutti si sono ribellati all’autorità borbonica. Pino deve subire una sorta di

  processo familiare in cui il cugino, lo zio arciprete e gli altri presunti amici gli fanno capire di aver 

congiurato contro di lui per metterlo a tacere. Si crea una forte tensione drammatica; il volto di Mioni si fa

duro, ma anche stupito per la sorpresa del tradimento non previsto e anche gli altri si irrigidiscono in questa

durezza.. Quindi le battute incalzano sulle motivazioni di entrambe le parti; Pino dapprima cerca di dominare

la sua rabbia, poi esplode gridando la sua fedeltà al re e al giuramento prestato. Anche gli altri gli rispondono

alzando la voce e in questo processo fuori aula, la recitazione di Mioni, ma anche dello stesso Manfredi nel

ruolo di Mimì appare forse un po’forzata e meno credibile, soprattutto quando il giovane ufficiale grida la

sua rabbia in faccia all’odioso Filippo Monaco,uno dei giovani del gruppo, e tenta di scagliarsi contro di lui

  per fare a pugni. Ritornerà al controllo dei propri nervi subito dopo, quando è obbligato a entrare nella

stanza-prigione che gli è stata riservata e la sua voce prorompe in un singhiozzo. Al di là, comunque, di una

recitazione un po’ di maniera, è interessante lo studio psicologico che Majano porta avanti sul personaggio,

studiando il continuo mutare delle espressioni del viso dell’attore nel passare dallo stupore, al dolore, al

risentimento e alla rabbia. E’ questa l’unica scena in cui Pino alza la voce e dimostra rabbia esteriore, ma èessenziale per mettere in risalto la figura di un giovane incrollabile nelle proprie convinzioni, a discapito di

una certa ingenuità che pure fa parte della sua personalità.

Infine non è da trascurare il suo atteggiamento di rassegnata sottomissione alla scontrosità dimostrata dalla

 bella Renata che rifiuta la sua uniforme di ufficiale del re e lo vorrebbe arruolato nell’esercito garibaldino,

simbolo di patria e di libertà. Nel primo colloquio tra Pino e Renata nella prima puntata, quando lei si

imbarca con il padre da Palermo diretta a Napoli, abbiamo davanti un ufficiale distinto e quasi romantico che

vuole solo manifestare il proprio amore alla donna che ama e che è venuto a farle onore mettendosi in alta

uniforme. Il tema musicale, lo stesso che ritroviamo all’inizio di ogni puntata sui titoli di testa, sottolinea il

sentimento interiore del giovane che, rimasto solo al centro della scena dopo la partenza della donna, prima

di risalire la scalinata del porto, richiama alla mente certe inquadrature da film anni cinquanta, dove regia e

accompagnamento musicale si sposano magnificamente nell’evidenziare i sentimenti dei personaggi

 protagonisti. Fabrizio Mioni, durante una nostra chiacchierata telefonica, ha detto: «Lo stile di recitazione di

quell’epoca è un po’ superato e può in alcune sequenze far sorridere; anche il mio personaggio, pur 

  presentando in alcune scene una recitazione spigliata e spontanea, rimane un tantino melodrammatico.

Questo però non toglie nulla all’importanza di rivalutare ancora oggi questi lavori televisivi che possedevano

il pregio dell’ingegnosità e dell’impegno con tutti i mezzi che avevamo a disposizione, oltre che a rimanere

la testimonianza di un costume e di una mentalità che hanno contribuito a fare la storia della televisione

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italiana. La domenica sera era come se l’Italia si fermasse per assistere davanti al televisore alla puntata del

teleromanzo in programma.»

Gli esempi potrebbero continuare a lungo; non possiamo non citare il finale dello sceneggiato: il saluto di

Pino alla bandiera borbonica dopo la capitolazione di Gaeta. Un inquadratura di pochi secondi in cui l’attore

 preso di profilo si mette in posa militare con un’ espressione da cui traspare la sua dignità di soldato, ma

anche le tante sofferenze patite a causa del precipitare degli avvenimenti.

E’ l’ultima sapiente inquadratura di Majano che chiude così la vicenda di un personaggio amato

 profondamente.

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Capitolo VIII

Un frate mistico e un cugino esuberante

  Nella sua lunga e travagliata vicenda Pino Lancia è affiancato da parecchi personaggi, alcuni più

significativi, altri meno, ma tutti coinvolti nella serie di fatti che li portano a continui ragionamenti e

commenti su quanto accade intorno a loro, vedendo sovente deluse le loro speranze o portando in sé desideri

nascosti che i fatti devono poi poter realizzare o distruggere. Abbiamo scelto qui due figure che hanno un

certo peso nella vicenda di Pino e un ruolo abbastanza ampio nell’intreccio complesso del romanzo: Padre

Carmelo interpretato da Aroldo Tieri e Antonio Del Bosco soprannominato Totò che ha il volto di Carlo

Giuffrè.

Padre Carmelo è un frate che abbandona il proprio convento di Calatafimi dopo la sanguinosa battaglia che

coinvolge anche parte della popolazione civile e che dapprima decide di seguire la rivoluzione popolare

  portata in Sicilia dalle forze garibaldine, poi si trova coinvolto nelle vicende dell’esercito napoletano e

resterà vicino ad esso sino alla fine. Non è un uomo di parte, come egli stesso affermerà più volte, ma le

vicende della guerra lo hanno obbligato ad operare una scelta per poter rendersi ancora utile nella sua

missione ed egli ha scelto di stare vicino alla parte in quel momento più debole anche psicologicamente: i

soldati napoletani.

Majano vuole, però, farne soprattutto una figura di contrasto con le vicende belliche che accadono intorno a

lui e che egli tende ad osservare sempre con animo distaccato. Le sue considerazioni sono sempre molto

  profonde e invitano lo spettatore ad una riflessione impegnativa. Nel romanzo di Alianello abbiamo una

figura meno determinante, un frate un po’ sprovveduto, forse anche vagamente ingenuo, sovente indeciso.

 Nella trasposizione televisiva egli diventa un personaggio più concreto, distaccato sì dagli affetti del mondo,

ma inserito nelle vicende degli uomini che lo affiancano e capace di studiare i loro sentimenti, le loro

sofferenze, le loro contraddizioni. Majano gli conferisce una certa umanità che unita ad un forte spirito

religioso, lo rendono difficilmente dimenticabile. Tutti lo stimano e lo rispettano, alcuni lo cercano e hanno

 bisogno di lui: Pino, Franco, per non parlare dello sbandato ed eccentrico Nunzio che non può stare senza la

sua continua protezione. Aroldo Tieri seppe entrare in questo ruolo che potremmo definire singolare e

insolito attraverso una recitazione sempre pacata, lenta e meditativa, un’ espressione del volto scultorea,

statica, propria di che osserva, ascolta e interiorizza tutto ciò che ha davanti. Molti sono in tal senso i primi e

 primissimi piani che la regia fa su l’attore, diverse le scene in cui l’attore assume atteggiamenti che ricordano

certi quadri a soggetto religioso dell’Ottocento; basti pensare alla prima scena in cui appare nella prima

 puntata: il suo essere inginocchiato davanti al catafalco di un altro frate uccisio durante un’imboscata e il suo

stare genuflesso davanti al crocifisso appeso alla parete, mentre all’esterno si ode il suono delle campane.

  Nella sua perorazione finale sugli spalti di Gaeta ripresa tale quale dal testo di Alianello, la recitazione

diventa fin troppo teatrale, calca troppo l’accento sull’invettiva gridata e su una gestualità che oggi può fare

un po’sorridere. Tieri, però, è sempre bravissimo e conosce la tecnica giusta di una recitazione che deve

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essere convincente e coinvolgente e che per quell’epoca era perfettamente nella norma. Oggi una teatralità

così accentuata sarebbe fuori moda e saprebbe troppo da melodramma recitato, ma nel 1956 era teatro a tutti

gli effetti.

Su un piano completamente diverso è il personaggio di Antonio Del Bosco, soprannominato Totò, cugino di

Pino Lancia e ussero della guardia reale al seguito del re Francesco II.

Carlo Giuffrè, allora molto giovane, era l’attore ideale per questo ruolo di ufficiale brillante, estroverso, bello

d’aspetto, nonchè elegantissimo nella sua alta uniforme. Nel contesto della vicenda drammatica egli emerge

come il personaggio che sa più degli altri accettare con una certa filosofia l’evolversi dei fatti. Non si mostra

mai pessimista, né vede le cose nella prospettiva più nera; accetta la realtà che ha di fronte con senso del

dovere, ma anche con molto buon senso. Fin dalla sua prima apparizione nella seconda puntata all’interno di

un caffè della cittadina di Toledo dove si incontra con Pino, appare subito con quella sua esuberanza

giovanile che accompagnerà sempre ogni suo successivo ingresso in scena. E’ un momento storicamente

importante: a Toledo è in corso una rivolta popolare che rischia di mettere in difficoltà anche gli ufficiali borbonici, ma Totò non si scompone. Anzi è lui a tenere a freno Pino che vorrebbe mettere subito mano alla

sciabola e intervenire contro i rivoltosi che stanno per irrompere nel locale. Anche nella sua ultima

apparizione nella sesta puntata nel momento drammatico della capitolazione della fortezza di Gaeta, egli si

accomiata dal cugino e dagli altri personaggi con molta serietà, conscio del momento solenne, ma con una

 piena e realistica accettazione dei fatti. Il suo compito è anche quello di farsi portavoce storico, di essere

quasi la voce narrante dei fatti storici; così nella quarta puntata dopo l’omaggio reso ai sovrani che lasciano il

 palazzo reale di Napoli, egli si intrattiene con Pino a riflettere sugli eventi storici del momento e su quelli

  precedenti. Il suo bellissimo e significativo monologo sulla situazione attuale del regno e dell’esercito

napoletano, oltre a fornire un’interpretazione corretta di fatti storicamente accertati, mettono in luce anche la

  bravura di Carlo Giuffrè che, da provetto attore di teatro, recita con piena professionalità e con pieno

dominio del personaggio al quale sa dare una robusta intelligenza e un sano realismo, movendosi anche con

disinvoltura di fronte alle telecamere. Giuffrè fa di questo ussero della guardia reale un buon ragionatore

secondo la logica dei fatti. Personaggio signorile, trasparente, sincero con se stesso e con gli altri, Totò è una

 bellissima presenza in questo sceneggiato ed è il tipo del napoletano puro sangue che scherza con gli altri al

momento giusto, ma ha anche una sensibilità umana che gli altri sanno cogliere dal suo atteggiarsi naturale e

spontaneo.

Ussari della guardia reale. Individuo di truppa dei reggimenti Ussari in gran tenuta

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Capitolo IX

 Renata, Titina e Ginevra: tre donne per un giovane ufficiale

 Nel corso del romanzo, così come lo concepì Carlo Alianello, Pino Lancia vive anche una propria vicenda

sentimentale che lo porta ad innamorarsi di tre donne che si pongono sul suo cammino nella parabola storica

da Calatafimi a Gaeta. La prima è la sua fidanzata ufficiale: Renata Rodriguez, figlia di un ammiraglio della

marina borbonica, interpretata da Emma Danieli. Majano ricordava di essersi fissato con questa giovane

annunciatrice della televisione e di averla voluta a tutti i costi per questo ruolo.43

 Renata ama Pino, ma rifiuta

la sua uniforme di ufficiale borbonico, lo vorrebbe arruolato nell’esercito garibaldino pronto a combattere

 per l’indipendenza e l’unificazione nazionale. L’attrice sa dare al personaggio la scontrosità e la civetteria

che fanno da ostacolo al suo amore per il giovane ufficiale; studia molto bene il proprio ruolo di donna che si

crede superiore all’uomo che ama, ma rimane fondamentalmente una figura tipica degli sceneggiati di quegli

anni, romantica e squisitamente teatrale. Infatti nelle ultime due puntate diventa una donna remissiva,

consapevole dei propri sentimenti e nostalgica, pronta a rinnegare le proprie convinzioni e qui il regista

interviene con le sue manipolazioni e invenzioni; nel romanzo di Alianello, infatti, Renata a un certo

momento esce di scena e Pino non la rivedrà più. Nella trasposizione televisiva, invece, ella lo raggiungerà

nella fortezza di Gaeta per dichiararle finalmente il suo amore. Un espediente, questo che rende poco

credibile il personaggio e, se vogliamo, sfasa una certa logica della vicenda, ma a Majano serve come

ingrediente per dare allo sceneggiato il tocco romantico che non può mancare.

Emma Danieli sa operare questa trasformazione del personaggio e nell’ultima puntata, è una donna oramisolo innamorata del suo tenente all’interno di una sequenza di quelle considerate, all’epoca, strappa lacrime.

A questo proposito Majano ha ricordato più volte che i suoi copioni erano incondizionatamente fedeli alla

struttura e alla sostanza dei romanzi, tuttavia la diversità del mezzo televisivo imponeva accorgimenti

  particolari, proprio per fare presa sul pubblico. Su un altro piano si muove il personaggio di Ginevra

interpretato da una giovane Maria Fiore, una figura che nell’economia del romanzo incarna la sensualità

femminile e che nel testo letterario da vita anche a qualche scena che potremo definire scabrosa. Ovviamente

la televisione degli anni cinquanta non poteva permettersi sequenze “piccanti”, ragion per cui Ginevra

diventa una ragazza in apparenza un poco frivola, pronta a prendersi gioco dell’ingenuità di Pino, ma decisaa tendere l’esca per ammaliarlo, anche con la complicità della zia, governante in casa del bell’alfiere. In tal

modo vediamo subito che Ginevra, una volta conquistato il giovane ufficiale, diventa una donna

sinceramente innamorata, per nulla sensuale, ma caso mai timorosa di perdere da un momento all’altro

l’uomo che ora crede suo. Anche lei parteggia per Garibaldi e deve mettere in conto il fatto che Pino la pensa

diversamente e che non è disposto a tradire il proprio onore di soldato neanche per amore e presto deve

rassegnarsi a perderlo e a non rivederlo più. Nello sceneggiato il rapporto tra i due personaggi rimane velato,

sottinteso, discreto; Maria Fiore ha poche battute nel copione e la sua apparizione che è limitata praticamente

43 Da Il programma televisivo.  Il mestiere della televisione, cit.

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alla quarta puntata è caratterizzata da molte inquadrature del volto, dal suo muoversi e volteggiare negli

ambienti ricostruiti quasi a dimostrare una passione vissuta con gioia interiore. Il corso irrefrenabile degli

eventi la obbligherà a separarsi da Pino, come pure dovrà separarsene la terza donna che egli incontra: Titina,

sua lontana cugina. Interpretata con grande sapienza scenica da una giovanissima Ilaria Occhini, a

quell’epoca allieva della scuola dell’Accademia di Arte drammatica, Titina appare di fatto solo nella terza

 puntata dello sceneggiato, quella dedicata al drammatico soggiorno di Pino nel paese di Tito in Basilicata,

ospite dei lontani cugini Lecaldani e dello zio arciprete Don Celestino. Ella è l’unica figura nel gruppo dei

giovani che circondano il protagonista a dimostrare comprensione e simpatia verso il giovane ufficiale e la

sua presenza di ragazza dolce e sensibile fa da contrasto alla diffidenza e alla freddezza con cui tutti gli altri

accolgono e sopportano la sua presenza. Ilaria Occhini ci mostra una ragazza generosa e altruista, piena di

attenzioni e premure verso Pino e alla fine innamorata di lui al punto di sacrificare la propria vita per salvarlo

dalla trappola in cui è caduto. Infatti Titina muore alla fine della puntata colpita, se pure per sbaglio, da un

colpo di fucile dopo aver liberato Pino dalla prigione in cui gli altri l’avevano rinchiuso per paura che egli

rilevasse il loro complotto di rivoluzionari contro il governo borbonico; il colpo mortale destinato a lui, lo

riceverà lei come sacrificio totale del suo amore. Majano vuole fare di Titina il personaggio interiormente

nobile pronto pagare per gli altri in un contesto di odio e di umana crudeltà che la guerra, ogni guerra porta

con sé e sa mettere in risalto questo suo ruolo molto meglio di quanto avvenga nel romanzo di Alianello dove

Titina è descritta con i tratti di una ragazzina sottomessa alla volontà degli altri. La Occhini ne fa invece una

donna, sottomessa sì, ma decisa ad agire con determinatezza per l’uomo di cui si è innamorata, una figura

drammatica che proprio nel duetto con Pino alla fine della terza puntata da sfogo al suo amore orami

evidente, ma che nello stesso tempo sa che egli non può rimanere con lei, ma deve salvarsi e soprattuttosalvare il proprio onore. E’ un duetto in cui hanno importanza le parole, i gesti melodrammatici (Pino che si

inginocchia davanti a Titina per chiederle di sposarlo), i primissimi piani, gli sguardi dei due personaggi che

si cercano con gli occhi, ma che sanno di non poter rimanere a lungo in quell’intimità fatta di timori e di

gioie nello stesso tempo. Ricorda Ilaria Occhini. «Majano mi diceva sempre che l’elemento importante nella

recitazione era lo sguardo perché da lì traspariva tutto il carattere del personaggio. Era importante avere

sempre presente i movimenti della telecamera in quello spazio angusto di quattro pareti, proprio per non

  perdere mai la propria concentrazione sul personaggio, mantenere l’impostazione della voce, essere quel

 personaggio per tutta la durata della messa in onda e dare il massimo di se stessi.»

Titina avrà ancora una breve apparizione nell’ultima puntata in una scena completamente inventata dal

regista, in cui ella appare in sogno a Pino addormentato con la testa appoggiata su un tavolo nella sua stanza

nella caserma di Gaeta. Ella gli dirà che non potrà mai essere il suo amore, non lo è mai stato e resterà solo

un suo rimorso perché è morta per salvarlo. Questa apparizione fugace avviene con la tecnica della

sovraimpressione già adottata in altre sequenze. In tal modo viene un po’ vanificato il ruolo del personaggio,

ma è un espediente che il regista mette in atto per far rientrare in scena Renata che dovrà ricongiungersi con

Pino e rivelarsi come l’unica donna destinata a essere veramente sua. Così si conclude la parabola degli

amori del protagonista a cui si immagina resti la certezza di questo amore ritrovato, dopo l’amarezza della

sconfitta militare.

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Capitolo X

Una folla di personaggi e un cast di attori eccezionale

 L’Alfiere non è soltanto una vicenda militare, ma è anche una storia di passioni, di lotte interiori, di

ravvedimenti e tradimenti e ogni personaggio vive il momento storico calandolo nella propria intimità e nelle

 proprie scelte personali. Majano nella sua trasposizione televisiva volle anche dare spazio a figure che nel

romanzo erano più secondarie o addirittura riabilitare qualche figura che nel testo di Alianello risultava più

negativa e abbruttita dalle contingenze storiche del momento.

Esempio lampante in tal senso è il personaggio di Nunzio Barabba interpretato magistralmente da un giovane

Domenico Modugno ancora poco conosciuto, ma dotato già di spiccanti qualità canore, musicali e di attore.

 Nel libro Nunzio è una sorta di sbirro dai modi quasi animaleschi, vendicativo e omicida che finirà fucilato

come altri personaggi pari a lui di alcuni romanzi veristi; Majano lo trasforma in un soldato sbandato

dell’esercito borbonico che, mentre sta per essere ammazzato a sangue freddo dai soldati garibaldini, viene

salvato casualmente da padre Carmelo e da quel momento resterà unito a lui fedele e riconoscente,

seguendolo da Palermo a Gaeta, fino a morire insieme a lui sugli spalti della fortezza nel tentativo di salvarlo

dalle granate dei cannoni. E’ un personaggio istrionico, apparentemente opportunista, sempre sulla difensiva,

ma umanissimo nella sua gratitudine verso il frate e appassionato della sua terra siciliana a cui dedica le sue

 bellissime canzoni. Valga come esempio la grande scena all’osteria nella quarta puntata dove Nunzio e padre

Carmelo sostano durante il loro viaggio prima di proseguire verso Capua. Alla agitazione e all’euforia di

Modugno che canta accompagnato dalla sua chitarra e riempiendo la scena continuando a muoversi davantialle telecamere, fa da contrasto la figura scultorea e pacata di padre Carmelo sempre meditativo e riflessivo

di fronte a tutto ciò che avviene intorno a sé. Gli avventori dell’osteria fanno da sapiente coreografia corale a

Modugno e alla sua brillante canzone che fa di questa sequenza una della più animate di tutto lo sceneggiato.

Il cantante-attore sa mettere bene in evidenza anche la sua forte parlata siciliana. Non si può dimenticare la

sua canzone più nota scritta appositamente per  L’Alfiere:   Lu salinaro che Modugno canta nella quinta

  puntata all’inizio della scena che vuole ricostruire la cosiddetta Torre d’argento, luogo diroccato nelle

vicinanze di Capua quasi a ridosso della Via Appia, in cui Nunzio e il frate si sono rifugiati mentre la

  battaglia tra borbonici e garibaldini infuria sul Garigliano. E’ una canzone che assomiglia ad una mestacantilena dove affiora la nostalgia per la propria terra, interrotta improvvisamente dagli spari che giungono

dall’esterno e dall’irrompere sulla scena di Pino e dei suoi uomini che riportano l’atmosfera del teatro

televisivo. In una intervista di molti anni dopo, Modugno aveva ricordato che al termine di questa scena

alcuni addetti al trucco dovevano velocemente cambiargli pantaloni, mutande e calze per passare subito in un

altro studio in cui doveva recitare la scena successiva.44

 

Anton Giulio Majano pretendeva molta dai propri attori; Fabrizio Mioni lo ricorda come «una persona

umanissima e nello stesso tempo esigente”; Achille Millo lo definisce “rigoroso nel tenere la disciplina tra

44 Da: Il mestiere della televisione, cit

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gli attori, ma anche dotato di qualità umane eccezionali,» qualità che sapeva anche trasfondere negli attori

stessi e in quei personaggi positivi che erano quasi sempre i protagonisti dei suoi teleromanzi. Così proprio il

 personaggio del tenente Franco Enrico interpretato da Achille Millo appare fin dalle prime scene una delle

figure più riuscite e più belle di tutta la storia dello sceneggiato televisivo. Al di là dell’amicizia fraterna che

lega il personaggio a quello del protagonista, facendo di entrambi due ufficiali che condividono fino in fondo

la fedeltà al proprio re, Franco è un uomo sensibile e generoso con più esperienza di Pino e che deve, a volte.

mascherare la sua grandezza d’animo dietro la rigida etichetta della vita militare. Achille Millo seppe dare a

questo personaggio anche la qualità del ragionatore intelligente e di buon senso che cerca di trovare sempre

una valida motivazione alle proprie azioni anche quando non può fare altro che compiere il proprio dovere.

L’attore napoletano recita con una spontaneità e una disinvoltura che rendono pienamente credibile agli

occhi dello spettatore questo giovane tenente tormentato dentro di sé anche da dubbi religiosi e, di fronte a

un modo che crolla, alla ricerca di un significato preciso da dare alla sua esistenza. Nel bellissimo dialogo tra

lui e padre Carmelo nella scena dell’osteria della quarta puntata (inventato completamente da Majano), come

nel suo delirio prima di morire, dubbi, senso del dovere e della fedeltà, bisogno di essere libero dalle

malvagità volute dagli uomini si intrecciano continuamente in uno stile recitativo che lo rende un

 personaggio a tutto tondo. La sua battuta finale “io non ho capitolato” prima di ricadere riverso sul letto,

inquadrato in primissimo piano, riassume la fedeltà di tutta una vita in un’espressione del viso quasi

trasfigurata, ma non rassegnata. E nel già citato colloquio con il generale Polizzy sull’imminente

capitolazione della fortezza di Gaeta, alla domanda del generale: «ragazzo mio che cosa pensi di fare ?» Egli

risponderà: «semplicemente il mio dovere, come sempre.» Sovente nello sceneggiato troviamo sequenze

narrative in cui Pino e Franco sono inquadrati insieme, quasi a simboleggiare la loro sintonia di intenti e laloro perfetta unione nella sorte delle vicende militari; sono ufficiali del re e come tali si comporteranno sino

alla fine. Non è, quindi, un caso, che Franco morirà tra le braccia dell’amico e sarà solo con lui in quel

momento; nella logica del contesto narrativo non poteva essere diversamente.

Leandro Castellani ha ricordato che «Majano si applica sin dall’ora zero della nostra TV alla formula dello

sceneggiato, mediandola dalle trascrizioni cinematografiche dei romanzi di vasto successo popolare

realizzate soprattutto dal cinema hollyvoodiano, ma intuendo con chiarezza che le caratteristiche del nuovo

mezzo gli offrono il destro di distendere la materia di un romanzo ben oltre gli stretti limiti imposti dalla

convenzione cinematografica, operando un recupero dell’episodica apparentemente secondaria e soprattutto

dei cosiddetti personaggi minori, delle “seconde” e “terze” storie, che in ogni romanzo popolare

s’intrecciano e interferiscono strettamente con quella principale.»45

Indubbiamente la narrazione a puntate

del teleromanzo giocò un ruolo favorevole agli intenti di Majano e al suo indagare più a fondo nella vicenda

che si era proposto di portare sul piccolo schermo. Egli stesso ebbe a dire: «I miei lavori li ho realizzati due

volte; quando li scrivevo e quando li giravo. Ho sempre letto io le parti agli attori.»46

 Era quindi lui a stabilire

quanta parte e quale ruolo definitivo un determinato personaggio dovesse avere nella vicenda. Così ne

 L’Alfiere si possono prendere ad esempio i personaggi di Francesco II, della regina Maria Sofia e del tenente

45 L. Castellani, La TV dall’anno zero. Linguaggio e generi televisivi in Italia, Studium, Roma 1995, p. 133.46 Da: Il mestiere della televisione, cit.

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Rodriguez, interpretati rispettivamente da Antonio Pierfederici, Monica Vitti e Ivo Garrani. Nel romanzo di

Alianello i due personaggi maschili non hanno una parte maggiore di quella che trovano nello sceneggiato,

ma il regista sa dare loro uno spessore che li rende più veri e credibili e grazie anche all’interpretazione di

due validi attori quali erano Garrani e Pierfederici, essi acquistano un carattere umano che ne mette in luce

  pregi e difetti con una presenza scenica e battute essenziali, ma pienamente efficaci. L’opportunistico

comportamento del tenente Rodriguez e la fermezza militaresca del re Francesco II unita a un pizzico di

ironia che i personaggi lasciano trasparire, sono rese benissimo dai due attori che, nella fedeltà al testo di

Alianello per quanto concerne le loro battute, entrano con disinvoltura nei rispettivi ruoli e creano due figure

da vero teatro, ma pienamente reali nella loro complessa umanità. Un discorso a parte merita la figura della

regina Maria Sofia di Napoli; nel romanzo il personaggio non ha battute, ma è solo descritta con brevi tratti

nelle pagine in cui l’autore parla della partenza dei sovrani da Napoli poco prima dell’occupazione della città

da parte di Garibaldi. Majano la inserisce, invece, in due scene: una nella quarta puntata (quella appunto

dell’abbandono della città partenopea) e una nell’ultima puntata, del tutto inventata, nella fortezza di Gaeta,

quando Pino e la bella Renata si ritrovano per giurarsi la definitiva promessa d’amore. Majano ci presenta

una regina rassegnata, ma pronta ad affrontare il suo destino di sovrana prossima all’esilio con fermezza e

dignità, senza sentimentalismi, né troppi rimpianti. Monica Vitti, allora giovanissima, è una Maria Sofia

dolce e nello stesso tempo regale, sicura delle proprie decisioni, prima fra tutte quella di seguire il marito

nella buona e cattiva sorte. In entrambe le scene in cui appare le sue battute sono poche e concise; l’attrice

realizza il personaggio attraverso gli sguardi significativi e i mesti sorrisi che la regia mette in primo piano;

la sua sensibilità d’animo arriva ad offrire a Pino Lancia il bouqet di fiori che Renata aveva portato per lei e

che il giovane tenente accetta con ossequiosa riverenza. Nella scena di commiato dei sovrani dal palazzoreale di Napoli, Maria Sofia segue il cerimoniale di corte con inchini alle proprie dame e lasciandosi baciare

la mano dagli ufficiali presenti. I movimenti sono molto studiati, da teatro televisivo come tutta l’atmosfera

di questa scena in cui alle battute dei personaggi si alternano anche momenti di silenzio che sottolineano il

clima solenne e drammatico delle decisioni che si stanno prendendo e la gestualità degli attori è molto

rigorosa. Majano vuole una Maria Sofia pienamente regale, ma anche donna dalla quale traspaia la sua

sensibilità femminile, cosa che la Vitti seppe rendere con grande bravura scenica e capacità di recitazione,

calandosi nelle vesti di un personaggio che non ritroveremo quasi più nelle sue successive e numerose

interpretazioni cinematografiche, ma che a quell’epoca le andava a pennello. Così, ripresa a mezzo busto, o

in primo e primissimo piano, Maria Sofia è un personaggio giocato sull’elemento psicologico dove il viso, il

movimento delle palpebre e gli occhi hanno un’importanza fondamentale. Nel 1860 Francesco II di Borbone

aveva 25 anni, Maria Sofia 19; storicamente parlando, nella loro sventura di sovrani spodestati, seppero dar 

 prova di forza d’animo e dignità non facilmente riscontrabili in altri regnanti degli stati preunitari; Majano

seppe tratteggiare questo loro atteggiamento senza troppe parole, né monologhi da teatro drammatico, ma

lasciando trasparire l’interiorità dei personaggi che in tal modo restano più scolpiti nella memoria del

telespettatore.

 Nel 1970 Alessandro Blasetti realizzò per la Rai lo sceneggiato Napoli 1860. La fine dei Borboni inserito nel

ciclo televisivo I giorni della storia. Al di là del fatto che qui la vicenda è vista dalla parte dei vincitori e del

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 popolo che si ribella alla dominazione borbonica, i due sovrani interpretati da un bravissimo Bruno Cirino e

dall’attrice tedesca Rosita Torosh sono molto diversi da quelli di Majano. Francesco II è più pungente e

ironico, Maria Sofia è più austriaca e brillante, mentre Monica Vitti ne aveva fatto una donna pienamente

italiana. A distanza di quattordici anni da  L’Alfiere la drammatica vicenda degli ultimi borboni di Napolitornava sui teleschermi in uno sceneggiato che, realizzato con tecnica cinematografica, era una sorta di film-

inchiesta, rigorosamente basato, però, su una accertata documentazione storica.

Un altro personaggio singolare di questo Alfiere è quello di Mimì Lecaldani, cugino di Pino, qui interpretato

da un giovane e bravissimo Nino Manfredi, anch’egli come la Vitti in un ruolo che non ritroveremo più nei

  personaggi sicuramente più noti e memorabili dei suoi numerosi film. Majano affida a Manfredi un

 personaggio drammatico, dal carattere opportunista e ambiguo; egli finge di essere dalla parte di Pino e poi

lo tradisce e congiura contro di lui insieme agli altri giovani passati dalla parte dell’esercito garibaldino, per 

riconciliarsi infine con il cugino al momento in cui viene arrestato a Caiazzo e condotto prigioniero con gli

altri volontari nella fortezza di Capua.

Manfredi sa rendere credibile la falsa cortesia del personaggio e il suo iniziale ruolo di mediatore tra Pino e

gli altri giovani che dimostrano subito scarsa simpatia o diffidenza verso di lui. L’attore mette subito in

evidenza il carattere calcolatore dell’uomo che ha già fatto le sue scelte di parte ma non le vuole rivelare

apertamente, le sue false premure verso il cugino che si tramutano in aperta ostilità nella drammatica scena

della terza puntata in cui, dopo la sagra paesana per festeggiare l’inizio della trebbiatura, Pino viene

imprigionato all’interno della masseria da lui, dallo zio arciprete, l’attore Antonio Battistella, e dagli altri per 

i quali il giovane ufficiale borbonico è diventato un ostacolo. Durante questo processo sommario, una sorta

di processo fuori aula si potrebbe dire, Manfredi da il meglio di sé per rendere la drammaticità del

 personaggio e la sua ipocrisia che finalmente si rivela agli occhi sbigottiti e un po’ ingenui del cugino. I due

 personaggi si affrontano alzando la voce, in un alterco di sapore teatrale, ma non per questo meno efficace e

credibile. Majano vuole però un Manfredi dall’aspetto nobile e distinto e gioca molto sul viso dell’attore dal

cui sguardo deve sempre trasparire questo senso di nobiltà. Il personaggio del libro è più rozzo e contadino,

 più grossolano nei gesti e nel modo di fare; Manfredi guidato da Majano ne fa un uomo borghese studiato nei

movimenti, che sa parlare con convinzione, anche se freddo, appunto perché calcolatore. Solamente nella

scena dell’arresto dei soldati garibaldini tra i quali Mimì si è arruolato, nella quinta puntata, il personaggio

acquista un carattere rassegnato e quasi patetico, pronto a riconciliarsi con Pino, recandogli anche la dolorosa

notizia della morte della sorella Titina. Ancora una volta i primi piani su l’attore voluti da Majano rivelano il

cambiamento psicologico dell’uomo che ha perduto nella lotta in cui credeva e che ora si consegna inerme al

nemico.

 Nella terza puntata de L’Alfiere, che si svolge nella località di Tito in Basilicata nei giorni in cui sul fronte

 bellico si combatte a Milazzo, compaiono personaggi che non ritroviamo nelle altre puntate: l’arciprete Don

Celestino, la dolce Titina e i giovani simpatizzanti di Garibaldi interpretati da attori successivamente

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destinati ad una futura notorietà: Luciano Melani, Vittorio Congia e Raffaele Meloni, futuro regista anche di

lavori televisivi47

.

Fra tutti, però, spicca, Fernando Cicero, allora venticinquenne, che qui interpreta il ruolo di Filippo Monaco,

un giovane spiantato e vanesio che odia e invidia Pino, ma la cui cattiveria è anche imbevuta di tanta

stupidità. Majano gli riserva una parte pressocchè identica a quella che ha nel libro di Alianello, ma obbliga

il giovane attore a mettere in luce maggiormente la poca intelligenza del personaggio, che non il suo animo

risentito e incattivito. Così nella scena in cui Filippo provoca Pino comunicandogli la sconfitta subita

dall’esercito borbonico a Milazzo e sobillando negli altri giovani l’esaltazione verso Garibaldi, il

 personaggio viene prima deriso e preso in giro da tutti i presenti che hanno poca stima di lui, poi dimostra

chiaramente di non avere argomenti convincenti per sostenere le sue presunte tendenze garibaldine e alla fine

non può reagire allo schiaffo che Pino gli affibia con mano decisa, perché gli altri lo trattengono con la forza.

Anche in questo caso il personaggio è giocato sull’atteggiamento e sulle espressioni del volto alle quali il

regista non rinuncia mai. Gli sguardi che l’attore comunica ogni volta che viene ripreso in primo piano

  preannunciano sempre il suo desiderio di creare discordia e di provocare Pino, quasi divertendosi alle

reazioni di quest’ultimo. Le battute tra i due giovani mettono in luce come Filippo conosca la debolezza di

Pino che è quella di reagire subito alle provocazioni, e, a volte ingenuamente, di conoscere poco il carattere

infido del suo provocatore verso il quale non sa mostrare indifferenza o ironia come fanno gli altri. Nella

citata sequenza in cui Pino da uno schiaffo a Filippo nel bel mezzo di una partita a carte con gli altri, il

giovane ufficiale è pronto alla rissa violenta e, diremo, a suonarle di santa ragione all’impertinente che si è

 permesso di deridere il suo battaglione sconfitto. Nel romanzo la rissa scoppia di fatto e i due giovani fanno

effettivamente a pugni; qui la sequenza diventa teatro drammatico nella tensione che si crea tra i personaggie nel breve monologo di Pino a difesa dell’esercito napoletano che conclude la scena. Nella televisione degli

anni cinquanta le mani addosso non erano ammesse oltre un certo limite! E tuttavia lo sceneggiato è già

moderno nella recitazione proprio in questa terza puntata che vede schierato questo gruppo di giovani

estroversi, forse anche caparbi e pronti a cercare una solidarietà tra loro nello scherzo e nel prendersi gioco

uno dell’altro. Ne restano, ovviamente esclusi, Pino e Filippo, le cui personalità più definite e opposte una

all’altra devono invece far emergere due personaggi che non smentiscono mai la propria drammaticità; il

conflitto interiore che li divide e li rende nemici è sempre presente in ogni scena di questa puntata.

Altri personaggi che potremmo definire minori affiancano le figure principali in questa lunga narrazione

televisiva di storia risorgimentale; ci limitiamo a citarne qualcuno, sottolineando che a tutti Majano da,

comunque, una parte significativa. Il personaggio di Zia Rosa, governante di casa Lancia, che Pino chiama

confidenzialmente zi’ Rosina, ha il volto dell’attrice Tecla Scarano, perfetta nel ruolo di donna del popolo,

napoletana al cento per cento, pronta a dirigere le faccende domestiche, ma anche a fare il proprio interesse,

spacciandosi di fronte all’ingenuo Pino, per chiromante e medium con l’unico scopo di far cadere nelle

 braccia del giovane la propria nipote Ginevra. Sul fronte maschile abbiamo il colonnello Polizzy che guida il

reggimento dei cacciatori napoletani a cui appartiene Pino, figura umanissima e di spiccata statura morale,

47 Di Raffaele Meloni possiamo ricordare la regia dello sceneggiato Malombra del 1974, tratto dal romanzo di Antonio Fogazzaro,

con Marina Malfatti e Giulio Borsetti nei ruoli principali.

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interpretato dall’attore Corrado Annicelli che sa dare al personaggio quel sentimento di amorevolezza

  paterna verso i propri soldati, che non sappiamo se abbia veramente posseduto nella realtà. A lui fa da

contrasto l’arcigna figura del capitano Morbido, uomo duro e invidioso degli ufficiali più giovani che ha il

volto dell’attore Enrico Glori. Sul versante femminile ricordiamo ancora madamigella Gelsomina Gigliò,

amica e confidente della bella Renata, il cui ruolo è quello di aiutare i due giovani a ritrovare il proprio

amore alla fine della vicenda, con fine psicologia femminile. L’attrice Zoe Incroci, una veterana del

teleromanzo a puntate, ne fa un personaggio sicuro di sé, discreto, ma sempre pronto a intervenire al

momento giusto.

Tutta una schiera di figure, quindi, che avevano il compito di coinvolgere il pubblico e farlo partecipe di una

vicenda ricca di intreccio, ma resa familiare e digeribile per tutti anche attraverso il contributo di tanti

 personaggi minori. Come ebbe a dire molto bene Oreste De Fornari, «Majano è stato uno dei pochi grandi 

registi di carattere popolare non comico. Era lento, ma sapeva coinvolgere il pubblico.” E Alberto

Bevilacqua definì Majano “un narratore di polso. Teneva il video e ci dava dentro con una impronta e un

impeto un po’ garibaldino, ma che affascinava.»48 

La televisione delle origini privilegiava una coscienza popolare che avvertiva il bisogno di nutrirsi ancora di

radici genuine, storiche e culturali di cui il teleromanzo a puntate è stato il contenitore più appetibile.

Il castello di Gaeta. Incapace di fronteggiare la situazione e arrestare l’avanzata dei Mille che dalla

Sicilia puntavano sulla capitale del Regno, Francesco II si rifugiò a Gaeta il 6 settembre 1860

48 Entrambe le citazioni sono tratte dal programma televisivo Il mestiere della televisione, cit.

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Capitolo XI

I temi musicali presenti ne L’Alfiere

Il maestro Riz Ortolani, autore delle musiche di accompagnamento in diverse sequenze de L’Alfiere

ha

sempre sostenuto che la musica è il complemento artistico di ogni sceneggiato. Anton Giulio Majano era

convinto di questo e aveva idee molti chiare in merito. «Allo stesso tema musicale egli chiedeva diverse

versioni.»49

Riz Ortolani ha conservato un ottimo ricordo di Majano e ne parla ancora oggi come di una

 persona con cui era possibile vivere un vero rapporto umano basato sul rispetto e la collaborazione reciproca;

era molto esigente e richiedeva a tutti coloro che erano coinvolti nei suoi sceneggiati una mole di lavoro

immenso, ma sapeva dare fiducia e coraggio a tutti. In quegli anni di sperimentazione televisiva in cui si

lavorava febbrilmente alle messe in onda in diretta di qualsiasi spettacolo adattato al piccolo schermo,

Ortolani ebbe il compito di scrivere i temi musicali che dovevano accompagnare la sofferta vicenda militaree amorosa di Pino Lancia.

E’ noto a studiosi, storici e appassionati quanto abbia contato la musica durante il Risorgimento nel suo

evolversi come fenomeno storico e soprattutto patriottico. Bene o male tutti sono a conoscenza del ruolo che

essa ha giocato nelle atmosfere romantiche della cospirazione, della lotta e della guerra, alimentando in ogni

occasione i sentimenti più accesi e gli ideali più coinvolgenti. Tutto lo svolgersi degli eventi risorgimentali,

dalla Restaurazione all’Unità di Italia, è retto più che accompagnato da una colonna sonora che fiancheggia,

esalta e giustifica gesti singoli e collettivi.

Le due grandi fonti cui la musica del Risorgimento ha attinto sono i canti popolari e il melodramma.

Il cinema si è appropriato di queste fonti nella più parte della sua produzione a soggetto storico-

risorgimentale; la televisione, in una dimensione diversa, non ha mancato di seguire questo metodo in quegli

sceneggiati in cui il Risorgimento, visto da varie angolazioni, è presente come momento storico di primo

 piano. Basti pensare allo sceneggiato Ottocento realizzato dallo stesso Majano nel 1959, uno dei più grandi

successi della televisione degli anni cinquanta che contribuì alla maggiore notorietà del libro di Salvator 

Gotta da cui era tratto. In quel teleromanzo i canti popolari non mancavano e ad essi si univano i temi

originali scritti appositamente che creavano l’atmosfera di un autentico melodramma ottocentesco dove gli

ideali patriottici e i sentimenti dei personaggi si sposavano felicemente gli uni con gli altri.

 L’Alfiere   presenta un Risorgimento diverso, più militaresco, più riflessivo dove prevale la difesa di un

territorio politico che è solo una porzione di quello nazionale e che vuole, nelle ragioni dei protagonisti,

mantenere la propria indipendenza. Per tali motivi non potevano prevalere temi musicali e canti patriottici

inneggianti l’indipendenza nazionale, ma musiche di commento alla vicenda militare, ai sentimenti a volte

controbattuti dei personaggi e ovviamente alla vicenda amorosa del protagonista. Il tema dominante è quello

che accompagna il sentimento che Pino nutre per la bella Renata, il suo amore non corrisposto e contrastato

continuamente dagli ideali di fedeltà alla causa borbonica a cui il giovane alfiere non vuole rinunciare e che

49 Dallo stesso programma citato.

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la donna non vuole accettare. Il tema musicale è prettamente melodico, ma è una melodia che acquista

gradatamente un certo ritmo e diventa, soprattutto nel finale di ogni puntata dove viene sempre richiamato,

quasi solenne, a voler indicare che la vicenda narrata non si basa solo sull’amore di un ufficiale per la sua

donna, ma anche sull’amore per quei forti valori dell’onore e della fedeltà che sono alla base della vita

militare. All’inizio di ogni puntata, eccetto la prima, mentre scorrono i titoli di testa, questo tema compare

  preceduto da alcune battute di impronta militaresca in cui viene richiamato per pochi secondi anche il

famoso inno di Garibaldi; è un’introduzione quasi da ouverture al dramma che si compie gradatamente e che

rimane principalmente un dramma di soldati, di un esercito che combatte per una causa a cui non può

sottrarsi, pena la perdita del proprio senso dell’onore. E d’altra parte non siamo nel contesto di un romanzo

d’amore, ma di una vicenda di guerra che è anche una guerra risorgimentale, il che non è poco. All’inizio

della prima puntata, invece, mentre scorrono le immagini tratte dal film 1860 di Blasetti, abbiamo il già

accennato sottofondo musicale che fa da commento alle sequenze della battaglia di Calatafimi. Qui Riz

Ortolani da sfogo a una musica particolarmente sofferta, decisamente da film di guerra, un tema che si ripete

  più volte quasi a sottolineare il continuo svolgersi di una serie di azioni drammatiche che sembrano non

avere mai fine, come accadeva realmente nelle grandi battaglie. E’ un pezzo quasi sinfonico che ritroviamo

anche nella breve sequenza dello scontro di Caiazzo della quinta puntata dove è utilizzato come

accompagnamento alla carica dei soldati napoletani intenti a conquistare le barricate costruite dai garibaldini.

In entrambi i casi citati lo sceneggiato esce dagli ambienti angusti dello studio televisivo e diventa azione

cinematografica grazie anche al supporto della musica che si compenetra con l’azione scenica. E come non

ricordare la bellissima marcia reale che dalla quarta puntata in avanti accompagna le sequenze più belle di

ambientazione militare, comprese quelle in cui è presente il personaggio di Francesco II ? Si tratta di unarrangiamento dell’  Inno al Re delle Due Sicilie composto dal grande compositore napoletano Giovanni

Paisiello negli anni della dominazione borbonica di Ferdinando IV, una sorta di marcia militare, ricordata

nella biografie dell’autore come una delle più belle marce scritte in epoca settecentesca. L’originale di

Paisiello è maestoso e solenne; è un inno vero e proprio che si potrebbe immaginare anche cantato da un coro

accompagnato da un’orchestra, benchè sia sovente eseguito soprattutto da bande musicali. L’arrangiamento

che ne fece il maestro Ortolani ha un’impostazione regale e militaresca insieme, frutto dell’utilizzo di alcuni

strumenti a fiato, di qualche tamburo e dei piatti. Possiede, tuttavia, una sua solennità quasi drammatica, con

cadenze evidenti, il che la rende un pezzo non celebrativo, ma di commento rispettoso a un mondo che sta

crollando, a un regno destinato a soccombere di lì a breve, a un sovrano che deve lasciare il trono. La

ritroviamo anche nel bellissimo finale della sesta puntata: il saluto alla bandiera con le insegne borboniche

 prima che venga ammainata sugli spalti della Torre d’Orlando nella piazzaforte di Gaeta. E’ il commento

all’addio di un’epoca storica tramontata per sempre.

Ma ne L’Alfiere sono presenti anche alcune canzoni scritte appositamente dal grande Domenico Modugno, a

quell’epoca già ottimo chitarrista e cantautore di carattere squisitamente popolare. Anton Giulio Majano ha

sempre amato la canzone come completamento dell’apparato musicale dei suoi teleromanzi; il caso di

Modugno non resterà l’unico: nel 1975 troveremo un altro grande cantautore, Herbert Pagani,

  prematuramente scomparso, che avrà il ruolo di cantastorie nello sceneggiato Marco Visconti tratto dal

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romanzo di Tommaso Grossi. Le sue bellissime canzoni di sapore medievalesco e dalla melodia molto

orecchiabile fanno da commento alla drammatica storia d’amore tra Ottorino Visconti e la bella e romantica

Bice. Ne  L’Alfiere abbiamo già ricordato che Modugno ha un ruolo abbastanza rilevante e le sue canzoni

servono più che altro a completare il personaggio di Nunzio, un uomo un poco estroso e originale che però

nasconde una forte sensibilità e un animo generoso. Le sue canzoni diventano una sorta di meditazione, un

ricordare con nostalgia la sua terra siciliana, un tentativo di addolcire le sofferenze interiori sue e degli altri.

Significativa è la scena nel lazzaretto di Gaeta, nella sesta puntata, dove Modugno canta la sua  Amara terra

mia accompagnandosi con la chitarra mentre i soldati feriti vengono condotti a braccia o in barella all’interno

di questo triste “ospedale” per essere curati o per morire con il conforto religioso di padre Carmelo e delle

note di quella canzone che ricorda la loro terra lasciata per sempre. In una precedente scena della stessa

 puntata, alla domanda dell’ufficiale Totò che gli chiede perché non si decide anche lui a impugnare un fucile

e a combattere, Modugno risponderà che la chitarra è la sua arma perché con quella lui conforta i suoi

compaesani, ricordando loro l’amata Sicilia, “e ce ne sono tanti qui a Gaeta di quelli che come me hanno

lasciato il loro paese e chissà se mai lo rivedranno un giorno!” La chitarra diventa la compagna fedele di

 Nunzio, la sua vera arma. Persino nel momento in cui egli muore abbracciato all’amato fraticello con cui

aveva condiviso un lungo cammino di pericoli e di stenti, l’ultima inquadratura che resta di lui è la sua

chitarra adagiata a terra in mezzo al fumo delle cannonate e alle pietraie dove si sta consumando l’ultimo atto

del lungo assedio.

  Nella quarta puntata appare anche un altro cantante che godeva una certa notorietà in quegli anni: Rino

Salviati, autore di numerose canzoni napoletane che egli pure accompagnava sempre con la chitarra. Qui lo

vediamo in una sola scena in cui l’azione è collocata all’interno di un ristorante di Napoli dove Pino Lancia ela frivola Ginevra che in quel momento è diventata la sua ragazza, stanno trascorrendo una serata in

compagnia dell’ex sergente Lo Russo che ha lasciato l’uniforme e ha disertato per entrare in un giro di

camorristi che hanno preso un certo potere politico in città. La scena è divisa in due sezioni: la prima è

dedicata al cantante Salviati che si aggira tra i tavoli della sala cantando la sua canzone Cicerenella dal tipico

sapore napoletano, ma anche mesta e nostalgica. Qui la funzione del canto è puramente di intrattenimento e

l’atmosfera che crea è più simile a quella di certi film anni cinquanta in cui ricorrono sovente scene

all’interno di un luogo pubblico dove qualcuno canta per intrattenere gli ospiti; il prototipo del piano bar di

oggi.

Durante il dialogo tra i tre personaggi seduti al tavolo il suono della chitarra fa da sottofondo e da

accompagnamento e ci fa sentire il lontano fascino di una Napoli popolare.

Un ultimo accenno merita l’altro tema melodico e nostalgico che Riz Ortolani ha inserito in alcune scene

chiave dello sceneggiato: la morte del tenente Franco, la bellissima scena girata sul fiume che abbiamo già

ricordato e il momento in cui Pino viene fatto prigioniero a Tito di Basilicata dai suoi presunti amici nella

terza puntata. E’ un tema in cui la melodia è costruita su un certo ritmo cadenzato che assomiglia a una dolce

cantilena che vuole sottolineare non la drammaticità di quei momenti, ma il rimpianto dei personaggi e le

loro illusioni perdute. Nella scena dove Pino viene rinchiuso nella stanza della masseria,

quell’accompagnamento musicale sottolinea la sua tristezza nel vedersi tradito dai giovani che credeva

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Capitolo XII

 Scenografia e linguaggio

Come in tutti i teleromanzi a puntate che si rispettino, anche ne  L’Alfiere ha un importanza fondamentale la

cura delle scene e della ricostruzione degli ambienti in cui si svolge la vicenda che qui hanno oltretutto la

caratteristica di avvalersi solamente delle famose quattro pareti in cui gli sceneggiati venivano allestiti.

Emilio Voglino, uno dei primi scenografi della Rai che firmò in questo settore diverse produzione,

conosceva il proprio mestiere e sapeva destreggiarsi con sicurezza e disinvoltura negli spazi angusti degli

studi televisivi. Per  L’Alfiere seppe ricostruire con la collaborazone di Paolo Fabriani che si occupava

dell’arredamento, ambienti salottieri dal sapore ottocentesco per le sequenze che si svolgono nella casa di

Pino Lancia e della bella Renata Rodriguez nelle prime due puntate. Divani, poltrone, specchiere che

riflettono a volte i movimenti dei personaggi, mobili in stile d’epoca, il tutto quadra sempre con perfetta

armonia e rende a pieno l’ambiente salottiero in cui gli attori si muovono e agiscono in mezzo ai fili e ai

cordoni delle telecamere che sanno inquadrare spesso particolari che completano la scenografia: un vaso di

fiori sopra un mobile, un quadro appeso alla parete di fronte o il pavimento di una stanza su cui si riflette la

luce proveniente da una finestra aperta sull’orizzonte marino che in realtà è un fondale dipinto. Ma già il

 precedente Piccole donne e il successivo Jane Eyre propongono interni di questo tipo; la novità de L’Alfiere 

rimane lo sforzo di ricostruire ambienti in cui si svolge la vita militare del reparto del reggimento cacciatori a

cui il protagonista appartiene. I diversi presidi militari di Capua, di Montesecco, di Gaeta nella quinta e sesta

 puntata, le cosi dette casermatte della fortezza di Gaeta in cui erano accampati i soldati napoletani, l’ospedale

militare, le prigioni di Palermo, il tutto è stato ricostruito con molta verosimiglianza e con l’ingegno e la

fantasia che Emilio Voglino e Majano sapevano mettere in atto nelle ristrettezze dei mezzi e degli spazi

televisivi. Ci troviamo di fronte ad ambienti chiusi dove non manca mai l’essenziale; nella casamatta in cui

vive Pino nell’ultima puntata, ad esempio, c’è il suo letto, il tavolo, il mobile su cui egli appoggia la sua

sciabola e il cinturone che porta in vita, la feritoia che funge da finestra, un interno da autentica fortezza

militare quale possiamo riscontrare osservando stampe o vecchie fotografie ottocentesche.

Le azioni narrate all’interno dei presidi militari hanno in comune tutte un elemento scenografico: lo stemma

del presidio della singola località che viene inquadrato sempre all’inizio della sequenza. Si tratta di unagrossa placca di metallo a forma di scudo sulla quale è inciso il nome del comune e i simboli regali e che è

appesa alla parete della stanza. Lo stemma del presidio militare di Capua raffigura la corona reale e le

insegne del Regno delle Due Sicilie; quello di Montesecco ha una spada posta di traverso e sullo sfondo la

città di Napoli. Un elemento analogo lo ritroviamo all’inizio dell’ultima puntata all’interno del distretto

militare di Gaeta: qui lo stemma della fortezza presenta ancora la corona reale e lo scudo regale con i tre

gigli borbonici. E’ un modo di attuare una attenta ricostruzione storica che vuole essere il più fedele possibile

alla realtà; Majano lo adotterà ancora nel 1980 ne  L’eredità della priora dove pure gli stemmi dei comuni di

varie località appaiono all’inizio di alcune sequenze. Tutto il resto vuole essere solo essenziale: una scrivania

quando occorre, la bandiera con le insegne del regno affissa a un’asta metallica, grosse armature medioevali

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e enormi scudi appesi alle pareti nelle sequenze che vogliono ricostruire l’interno della fortezza militare di

Gaeta. Ogni elemento viene inquadrato lentamente dalle telecamere che hanno anche la funzione di portare

lo spettatore a soffermarsi su ogni particolare quasi a immedesimarlo meglio nella lenta narrazione della

vicenda, tipica degli sceneggiati a puntate. Se oggi non c’è più la disponibilità a seguire l’andamento lento di

questi lavori televisivi, non si può dimenticare, però, la cura e la bravura di questi pionieri della televisione

che sapevano creare dal nulla un ambiente e ci mettevano l’anima nel farlo; amavano i particolari e curavano

le riprese con una precisione che oggi, forse, viene data sovente per scontata.

Abbiamo già parlato della scena del combattimento sul campanile del Duomo di Palermo nella prima

 puntata; l’elemento scenografico significativo è costituito dal davanzale dal quale i soldati sparano e che da

l’impressione che sotto vi sia un vuoto che in realtà non esiste, poiché il tutto è costruito a pochi metri dal

 pavimento dello studio televisivo. Il presidio militare di Capua, all’inizio della quinta puntata, è una stanza

abbastanza ampia ed elegante; Pino e successivamente il re vi entrano da due porte dietro alle quali non c’è

nulla, anche se si ha l’impressione che altre stanze siano situate al di là di esse. La stessa sensazione si ha

nell’ultima scena della quarta puntata ambientata al presidio militare di Montesecco dove Pino si reca per 

chiedere all’ex sergente Lo Russo un salvacondotto per lasciare Napoli e rientrare al suo battaglione. Una

 porta e una finestra senza luce costituiscono l’illusione di un ambiente che comunica con l’esterno. Non si

 può non ricordare, infine, la sapiente ricostruzione del porto di Palermo nella prima puntata, nel momento in

cui Renata con il padre e la cugina lasciano la città per trasferirsi a Napoli e Pino si reca colà per salutarla. La

 pavimentazione che sembra fatta di pietra, l’acqua inquadrata in primo piano che trasmette l’idea di un porto

marittimo, la scalinata che scende verso il basso dove è situato il punto di attacco delle navi, i marinai a piedi

scalzi che armeggiano intorno alla nave con funi e corde, il tutto è ricostruito con una maestria e unaverosimiglianza sorprendenti.

I personaggi agiscono al centro della scena, in mezzo a questo marasma di elementi scenografici e di

movimenti di comparse e di telecamere. La nave non viene inquadrata nella sua interezza; in realtà è una

 piattaforma rialzata con una balaustra in legno posta sul davanti che da l’illusione del ponte superiore di una

nave vera e propria. Durante il dialogo tra Pino e Renata, il primo che incontriamo nello sceneggiato, la regia

si sofferma ovviamente sul volto dei due attori, trascurando tutto quello che avviene intorno che passa in

secondo piano, ma nel momento in cui Renata deve accomiatarsi dal fidanzato, richiamata dalla cugina, si

ritorna all’illusione della nave in partenza.

La telecamera inquadra l’attrice di spalle mentre, già salita a bordo, saluta l’ufficiale e lo spettatore vede la

 balaustra in legno che gradatamente viene avvicinata dalla telecamera mentre la donna sparisce altrettanto

gradatamente dallo schermo e in questo modo si ha l’impressione che una nave si stia realmente

allontanando da un punto di terraferma. I marinai, dal canto loro, tolgono la passerella di collegamento con il

 porto e sciolgono le funi che tenevano l’imbarcazione legata a grossi pilastri. Pino, rimasto al centro della

scena, è inquadrato a figura intera, prima in lontananza, poi più ravvicinato;quindi egli risale lentamente la

scalinata del porto mentre il tema musicale del suo amore per Renata appare per la prima volta in tutta la sua

interezza. L’ultima inquadratura che chiude la sequenza è ancora l’acqua che rasenta la pavimentazione in

 pietra. Fabrizio Mioni ricorda che, fra telecamere e carrelli, secchi d’acqua che riempivano lo studio, pareti

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anguste e strette e l’imponente piattaforma simboleggiante la nave che occupava da sola mezzo studio,

questa è stata una delle scene più complicate da realizzare scenograficamente e dove era anche più difficile

muoversi in mezzo a tutto quell’armamentario.

Sicuramente non mancava la genialità degli scenografi e dei registi a quell’epoca !

Può essere interessante spendere qualche parola anche per le stampe a soggetto storico che appaiono

all’inizio di alcune puntate sui titoli di testa e precisamente ci riferiamo alla seconda, quarta, quinta e sesta

  puntata. Durante tutto il periodo ottocentesco la stampa e la litografia raffiguranti fatti militari o politici

dell’epoca, napoleonica prima e risorgimentale dopo, hanno avuto una notevole divulgazione e le collezioni

in merito si sono moltiplicate fino ai nostri giorni. All’epoca de  L’Alfiere televisivo diversi studi erano già

stati compiuti sul valore di certe collezioni iconografiche, ma erano sicuramente meno noti di quanto lo siano

oggi. Ciò, però, non tolse che alcune pubblicazioni riportassero già alcune litografie che rappresentavano

soprattutto fatti d’arme e scene di battaglie famose del Risorgimento. L’unica tra quelle che appaiono ne

 L’Alfiere che abbiamo potuto identificare con esattezza è quella che appare all’inizio della quinta puntata:

una litografia raffigurante un episodio della battaglia di Solferino del 1859 su disegno dell’artista Gabriele

Castagnola e pubblicata su un volume del 1864 dal titolo “Storia d’Italia dal 1815 fino alla proclamazione

del Regno d’Italia raccontata al popolo.”. Raffigura lo schieramento militare austriaco e quello francese sul

campo di battaglia; sullo sfondo appare la torre di Solferino, riferimento cruciale del combattimento, e in

 primo piano un gruppo di soldati austriaci prigionieri e uno di francesi che difendono il loro cannone.51

 

Si può obiettare che l’episodio di Solferino nulla aveva a che vedere con le vicende militari narrate ne

 L’Alfiere che risalgono all’anno successivo e si svolgono nell’Italia meridionale; ma probabilmente agli

scenografi e allo stesso Majano era piaciuta questa scena di guerra ottocentesca che non stonava comunquecon l’atmosfera bellica del romanzo e che il bianco e nero della trasmissione televisiva riusciva a rendere

molto bene. Nulla sappiamo invece delle fonti della altre tre stampe: quella che apre la sesta puntata

rappresenta sicuramente una scena dell’assedio di Gaeta dove è riconoscibile la torre di Orlando della

fortezza e al centro le navi sul mare prospiciente il promontorio; interessante quella della seconda puntata:

una nave isolata in mezzo a un mare in tempesta. Espediente anche questo nuovo nella regia televisiva di

quei primi anni che voleva aderire alla fedeltà storica anche attraverso l’impiego di immagini con la funzione

di rappresentare allusivamente luoghi e situazioni della vicenda..

La scenografia di questi primi teleromanzi era una sorta di linguaggio televisivo attraverso il quale si

esprimeva concretamente la trasposizione della vicenda insieme al copione con le battute dei personaggi e il

tutto andava a costituire un vero linguaggio teatrale. Nel caso specifico de  L’Alfiere si può parlare anche di

linguaggio misto, intendendo un felice assemblaggio di recitazione teatrale, scenografia di ambientazione

storica e riproduzioni di immagini e suoni che vogliono richiamare la realtà storica; basti pensare anche al

già citato inno reale o alle sequenze del film 1860 di Blasetti inserite nello sceneggiato. Linguaggio

televisivo e linguaggio storico, dunque, per la prima volta appaiono insieme sul piccolo schermo della

neonata TV. Se questa sorta di mixage sia stata positiva oppure no lo possono testimoniare le statistiche

51 Storia d’Italia dal 1815 alla proclamazione del Regno d’Italia raccontata al popolo, Editore Angelo Usigli, Firenze 1864.

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compiute annualmente dalla Rai fin da quei primi anni, raccolte nei cosiddetti quaderni del servizio opinioni

  pubblicati anno dopo anno, dalle quali risulta che lo sceneggiato televisivo otteneva sempre un indice di

gradimento tra i più alti. Il tipo di linguaggio proposto per la prima volta dal romanzo di Carlo Alianello avrà

un seguito in altri sceneggiati a soggetto storico di quegli anni: Ottocento del 1959 sempre di Majano,  La

 Pisana del 1960 con la regia del compianto Giacomo Vaccari, per arrivare a quel capolavoro, purtroppo

andato perduto, che è stato   I Giacobini del 1961 dal romanzo di Federico Zardi con la regia di Edmo

Fenoglio. Tutti questi lavori avevano avuto il compito di catapultare alla ribalta del piccolo schermo vicende

della nostra storia patria del Settecento e dell’Ottocento riplasmate dalla penna di scrittori di estrazione

diversa, ma tutti accomunati da una caratteristica precisa: l’aver creato opere letterarie che narrassero la

storia nazionale di quei due secoli. Scenografie ridotte, ambienti ricostruiti, copioni da opera teatrale

costituivano il linguaggio essenziale ed indispensabile ad una produzione televisiva di tutto rispetto.

Come ebbe a dire molto bene in quegli anni il grande attore Giorgio De Lullo, pur riferendosi principalmente

alle trascrizioni televisive di opere teatrali: «i risultati saranno apprezzabili solo se si procederà ad una

spoliazione dei copioni, a scenografie ridotte. Tutto ciò per arrivare immediatamente al nocciolo,

all’essenziale, così da sfruttare intelligentemente il mezzo televisivo in tutte le sue possibilità.»52

 

Che i risultati ci siano stati e di indubbia qualità, lo ha dimostrato la storia dei primi dieci anni di vita della

Rai.

Lasciamo ancora la parola ad Anton Giulio Majano, riportando una sua quanto mai significativa

affermazione sul genere dello sceneggiato televisivo pronunciata in occasione di un convegno tenutosi nel

1985 e che può essere una felice conclusione di questa lunga illustrazione de L’Alfiere.

«Se il romanzo sceneggiato rispettato nella sua vera struttura, nei suoi dialoghi, nei suoi scontri psicologicidura in eterno, non può morire sotto il peso della concorrenza. Almeno questa è la mia opinione.»

53 

L’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli nel 1860 in un dipinto di A. Lacaita

Il tentativo di Francesco II di riprendere il controllo della situazione a Napoli fu sventato dalla vittoria

garibaldina sul Volturno

52 A. A. V. V., Dieci anni di televisione, ERI, Torino 1964.53 La citazione è tratta dall’intervento fatto da Majano duante un convegno tenutosi a Torino nel 1985, cfr. Televisione: la provvisoria

identità italiana, atti del convegno tenutosi il 13 e 14 ottobre 1985 presso la fondazione G. Agnelli a Torino, Fondazione G. Agnelli,

Torino 1985, p.

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Capitolo XIII

 Lo stato di conservazione del materiale

Come già accennato nella premessa al presente lavoro, oggi le sei puntate de  L’Alfiere sono conservate nei

magazzini delle Teche Rai sulla Via Salaria a Roma, dove è archiviata la più parte della produzione di

cinquant’anni di vita dell’ente televisivo.

E’ interessante compiere un excursus sui materiali e i supporti che oggi permettono all’immensa produzione

Rai di essere conservata e custodita come prezioso patrimonio di una storia che ha contribuito a formare nei

decenni la nostra società. Il catalogo multimediale delle teche, navigabile in tutta la sua completezza in tutte

le sedi regionali della Rai e nelle tre postazioni di Milano, Torino e Roma all’interno di tre grandi

mediateche realizzate da pochi anni, permette non solo di verificare tutto ciò che è attualmente conservato

negli archivi storici della Rai, ma anche di trovare i codici identificativi delle teche dei singoli programmi e i

relativi supporti di conservazione, oltre ad accertare quali programmi sono attualmente digitalizzati e quali

no. Quelli digitalizzati sono visibili integralmente dalle singole postazioni computerizzate collegate al

catalogo centrale delle Teche e collocate nelle sedi suddette.

Cominceremo con il dire che  L’Alfiere è stato recentemente digitalizzato e che tutte le sei puntate sono

attualmente visibili all’interno del catalogo multimediale. Si tratta sicuramente di un interessante passo

avanti nella valorizzazione del materiale di quei primi anni di vita della Rai del quale tra l’altro sono rimaste

  parecchie produzioni, anche se poco replicate, o in alcuni casi addirittura mai più ritrasmesse

successivamente. Se oggi  L’Alfiere è entrato a far parte del patrimonio digitalizzato della Rai, questo

dimostra che vi è stata una sensibilizzazione di un certo peso che ha determinato nei responsabili

dell’archivio storico l’iniziativa di ridare voce a uno sceneggiato tra quelli più trascurati e, forse, più

dimenticati dai palinsesti televisivi, se si eccettua la replica notturna del 1994 di cui abbiamo parlato nella

 premessa.

Ma è significativo anche analizzare i supporti di questo sceneggiato situati nei magazzini della Via Salaria

dei quali si allegano nelle pagine seguenti anche due tabelle di esempio che interessano la prima e l’ultima

 puntata. Come si può constatare dalle tabelle, tutte le sei puntate sono conservate su più supporti: film in 16

millimetri, nastro magnetico sempre in formato 16, una copia in cassetta formato digitale D2 supporto RVM

e una o due copie in cassetta formato 3 / 4 supporto RVM per ogni singola puntata. Le tabelle descrittive

riportano anche il numero di ogni supporto, il codice del magazzino, la lunghezza delle pellicole e dei nastri

e il numero dei rulli. E’ riportato anche il codice identificatore di teca e la denominazione del centro di

archiviazione che, nel nostro caso, è Roma.

La possibilità di visionare queste tabelle con l’elenco dei vari supporti del materiale conservato è frutto di un

grosso sforzo che le Teche Rai stanno compiendo al fine di far conoscere secondo i sistemi più aggiornati

della tecnologia moderna l’immenso patrimonio di una storia lunga cinquant’anni in cui migliaia di

 programmi si sono succeduti sulle tre reti dell’ente televisivo.

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Ma tornando a  L’Alfiere, è interessante anche esaminare per ogni singola puntata la tabella analitica

cartacea visibile sempre sul catalogo multimediale. Anche di queste tabelle si riportano qui di seguito gli

esempi relativi alla quarta e alla quinta puntata.

Ognuna delle sei tabelle riporta in un riquadro in alto a sinistra il titolo, l’autore del romanzo, il nome del

regista, il numero della puntata e l’autore delle musiche. Al centro sempre in alto è indicato il codice

identificativo della teca, la durata della puntata, la data di registrazione riferita alla messa in onda del 1956,

la produzione : Rai TV, il luogo di trasmissione : Roma e la data della prima replica avvenuta nel 1957 nel

 palinsesto pomeridiano dei programmi per i ragazzi nei mesi di agosto e di settembre. Interessante in questo

riquadro la voce “genere” di fianco alla quale leggiamo: giovani vidigrafo, vale a dire la tecnica con cui ogni

 puntata venne registrata durante la diretta del 1956, utilizzando, appunto il vidigrafo ottico.

 Nella parte centrale di ogni tabella troviamo un prospetto che riporta il numero dei rulli, dei metri e la durata

della puntata suddivisa nei due o tre rulli che la compongono; sotto sono indicati i nomi dei personaggi e dei

corrispondenti interpreti, riferiti ovviamente a quelli che appaiono in quella puntata riportati nell’ordine di

apparizione, come risulta anche dai titoli di testa.

A destra in alto sono riportate in forma descrittiva le condizioni del materiale originale, vale a dire la

registrazione da vidigrafo. Ad esempio, per la sesta puntata possiamo leggere: «Vidigrafo originale

spuntinato in più parti in tutti i rulli. In due punti fotogrammi di coda bianca nel magnetico. Rigature a

tratti.” Per la terza puntata leggiamo: “Vidigrafo originale con rare rigature; fine rulli rigati.» Sempre in alto

a destra sono indicati i diritti di repertorio con la voce “illimitati” a dimostrazione che la Rai possiede

l’esclusiva dei programmi da lei prodotti. Anche l’analisi di questo materiale cartaceo messo a disposizione

di studiosi e ricercatori è significativa dell’attento esame compiuto sullo stato di conservazione di unmateriale che data quasi cinquant’anni di vita e che fortunatamente è giunto fino a noi.

Il trasferimento delle sei puntate de  L’Alfiere su cassetta formato digitale D2 è stato effettuato nel mese di

giugno del 1994, poche settimane prima della replica notturna su Raiuno. Si tratta di cassette di formato

molto grande che vengono riprodotte per mezzo di videoregistratori altamente sofisticati e che possono

essere utilizzate per la messa in onda su qualsiasi canale della Rai, secondo le tecnologie di trasmissione oggi

in uso. Ogni singola puntata ha guadagnato moltissimo in qualità di immagine grazie a questa operazione e,

nonostante che il filmato sia molto datato e non sia stato possibile togliere determinate imperfezioni

formatesi sulla pellicola originale, all’intero sceneggiato è stata restituita una più che dignitosa luminosità

dell’immagine che la tecnica digitale mette in evidenza. Se in qualche sequenza è percepibile una breve

interruzione nel senso che è stato eliminato qualche fotogramma rotto presente sulla pellicola in 16

millimetri, la sostanziale integrità delle sei puntate è rimasta fortunatamente inalterata.

Per completezza ricordiamo che quasi tutti gli sceneggiati di Majano sono attualmente digitalizzati e visibili

sul catalogo multimediale delle teche - Rai: per chi ne fosse interessato alla consultazione, si segnalano in

 particolare,  La cittadella,  E le stelle stanno a guardare,  L’eredità della priora, Strada senza uscita e i più

datati Jane Eyre e Capitan Fracassa.

Se si vuole dare credibilità a quanto più volte ripetuto in occasione delle celebrazioni dei cinquant’anni di

vita della televisione, cioè, che la Rai ha generato e alimenta continuità di conoscenze fra diverse generazioni

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di diversa estrazione geografica e sociale, allora possiamo affermare che una delle finalità della

conservazione del suo patrimonio storico attraverso la digitalizzazione del materiale e i nuovi supporti è

quella di mantenere questa continuità tra passato e presente in una sintonia e interazione tra vecchio e nuovo

dove la conoscenza di questo patrimonio è messo alla portata di tutti, perché ognuno ne possa usufruire

secondo i propri interessi specifici di studio, di ricerca, culturali, scientifici o di semplice intrattenimento.

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Scheda anagrafica dello sceneggiato L’Alfiere

Sceneggiato TV

Riduzione da opera letteraria – Tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello

Riduzione e sceneggiatura televisiva di Carlo Alianello e Anton Giulio Majano

Scenografie di Emilio Voglino

Musiche originali e adattamenti musicali di Riz Ortolani

Segretaria di produzione: Marcella Curti Gialdino

Luci: Giorgio Ojetti

Costumi: Fausto Saroli

Arredamento: Paolo Fabriani

Assistente di studio: Fulvio Sarti

Canzoni scritte da Domenico Modugno

Regia di Anton Giulio Majano

Personaggi e interpeti

Pino Lancia Fabrizio Mioni

Frà Carmelo Aroldo Tieri

Franco Enrico Achille Millo

Renata Rodriguez Emma Danieli

Rodriguez Ivo Garrani

  Nunzio Domenico Modugno

Mimì Lecaldani Nino Manfredi

Titina Ilaria Occhini

Totò Carlo GiuffrèGinevra Maria Fiore

Barone Lancia Giuseppe Porrelli

Col. Polizzy Corrado Annicelli

Generale Marra Nino Marchesini

Sergente Lo Russo Enzo Turco

Zia Rosa Tecla Scarano

Francesco II Antonio Pierfederici

Maria Sofia Monica Vitti

Gelsomina Zoe Incrocci

Maggiore Sforza Ubaldo Lay

Filippo Monaco Fernando Cicero

Don Celestino Antonio Battistella

Teresa Maria Cristina Mascitelli

Capitano Morbido Enrico Glori

Sergente La Cava Carlo Croccolo

Saverio Vittorio Congia

Mario Gianni Bonagura

Federico Luciano Melani

Ugo Raffaele Meloni

Donna Rosa Edda Soligo

Donna Concettina Rina Franetti

Tenente Vitolo Gianni Minervini

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 N. puntate: 6 durata complessiva: 6 ore e 10 minuti

Anno di produzione: 1956

Luogo di produzione: Rai Roma

Data di messa in onda: dal 18 marzo al 22 aprile 1956 – programma nazionale (in prima serata)

Prima replica: dal 7 agosto al 12 settembre 1957 – programma nazionale (palinsensto pomeridiano TV dei

ragazzi

Seconda replica: dal 3 all’8 luglio 1994 – Raiuno (palinsesto notturno)

Gli sceneggiati televisivi di Anton Giulio Majano

Si riporta qui di seguito l’elenco completo e cronologico di tutti gli sceneggiati che il regista Anton Giulio

Majano ha realizzato per la Rai dal 1955 al 1986. Vi sono compresi anche gli originali televisivi, vale a dire

quei lavori a puntate realizzate appositamente per il piccolo schermo, ma non tratti da opere letterarie o

teatrali. Per ognuno è indicato anche la tecnica originale di messa in onda.

!955

 Piccole Donne

dal romanzo di L.M. Alcott; interpreti principali: Emma Danieli, Lea Padovani, Vira Silenti, Maresa Gallo,

Arnoldo Foà, Matteo Spinola, Alberto Lupo, Renato De Carmine

Cinque puntate. Messa in onda in diretta senza nessuna tecnica di registrazione.

1956

 L’Alfiere ( si veda la scheda nella pagina precedente)

1957

 Jane Eyre

Dal romanzo di C. Bronte; interpreti principali: Ilaria Occhini, Raf Vallone, Ubaldo Lay, Lydia Alfonsi,

Laura Carli, Matteo Spinola, Wanda Capodaglio, Luisa Rivelli.

Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.

1958

Capitan Fracassa

Dal romanzo di Theophile Gautier; interpreti principali: Arnoldo Foà, Lea Massari, Nando Gazzolo, Ivo

Garrani, Scilla Gabel, Giulia Lzzarini, Warner Bentivegna, Alberto Lupo,Leonardo Cortese.

Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.

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1959

 L’isola del tesoro

Dal romanzo di Robert L. Stevenson; interpreti principali: Alvaro Piccardi, Ivo Garrani, Arnoldo Foà,

Roldano Lupi, Leonardo Cortese, Riccardo Cucciola, Corrado Pani

Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.

Ottocento

Dal romanzo di Salvator Gotta; interpreti principali: Sergio Fantoni, Lea Padovani, Virna Lisi, Antonio

Battistella, Mario Feliciani, Warner Bentivegna, Giuseppe Paglierini, Lucilla Morlacchi.

Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.

 I figli di Medea

Originale televisivo di Valdimiro Cajoli; interpreti principali: Alida Valli, Enrico Maria Salerno.

Puntata unica. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo

1961

 Il Caso Mauritius

Dal romanzo di Jakob Wassermann; interpreti principali: Corrado Pani, Virna Lisi, Raoul Grasselli, Alida

Valli, Lauro Gazzolo, Mario Feliciani, Lida Ferro, Franco Graziosi, Aldo Silvani, Albero Lupo.

Quattro puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico. (cancellato nel corso degli anni

sessanta)

1962

Una tragedia americana

Dal romanzo di Theodore Dreiser; interpreti principali: Warner Bentivegna, Giuliana Lojodice, Virna Lisi,

Lilla Brignone, Franco Volpi, Regina Bianchi, Gabriele Antonini, Gianni Santuccio, Luigi Vannucchi,

Roldano Lupi, Andrea Checchi, Sandro Moretti.

Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1963

 Delitto e castigo

Dal romanzo di Fedor Dostoevskij; interpreti principali: Luigi Vannucchi, Ilaria Occhini, Ivo Garrani,

Gianrico Tedeschi, Mario Feliciani, Ubaldo Lay.

Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico. (cancellato nel corso degli anni sessanta).

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1964

 La cittadella

Dal romanzo di Archibald J. Cronin; interpreti principali: Alberto Lupo, Anna Maria Guarnieri, Luigi

Pavese, Eleonora Rossi Drago, Nando Gazzolo, Laura Efrikian, Carlo Hintermann .

Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1965

 David Copperfield 

Dal romanzo di Charles Dickens; interpreti principali: Giancarlo Giannini, Anna Maria Guarnirei, Alberto

Terrani, Wanda Capodoglio, Mario Feliciani, Enzo Cerusico, Maria Grazia Spina, Laura Efrikian, Ubaldo

Lay, Ileana Ghione, Elsa Vazzoler.

Otto puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

 La donna di fiori

Originale televisivo di Mario Casacci e Alberto Cambrico; interpreti principali: Ubaldo Lay, Andrea

Checchi, Alberto Terrani. Diana Torrieri, Francesco Mulè, Maria Grazia Spina, Carlo Hintermann, Sandro

Moretti, Antonella Della Porta, Laura Tavanti, Luigi Vannucchi.

Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

1967

 La fiera delle vanitàDal Romanzo di William Thackerey; interpreti principali: Adriana Asti, Ilaria Occhini, Nando Gazzolo,

Sergio Graziani, Gabriele Antonimi, Roldano Lupi, Maresa Gallo, Didi Perego, Romolo Valli, Andrea

Checchi, Wanda Capodoglio.

Sette puntate: Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

 Breve gloria di Mister Miffin

Dal romanzo di Allan Prior; interpreti principali: Cesco Baseggio, Alberto Lupo, Nicoletta Rizzi, Maresa

Gallo, Luisa Rivelli.

Quattro puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1968

 La freccia nera

Dal romanzo di Robert Louis Stevenson; interpeti principali: Aldo Reggiani, Loretta Goggi, Arnoldo Foà,

Glauco Onorato, Adalberto Maria Merli, Mila Sonner, Tino Bianchi.

Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

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1971

 E le stelle stanno a guardare

Dal romanzo di Archibald Joseph Cronin; interpreti principali: Orso Maria Guerrini, Giancarlo Giannini,

Andrea Checchi, Adalberto Maria Merli, Enzo Tarascio, Anna Maria Guarnirei, Maresa Gallo, Scilla Gabel,

Mario Valdemarin, Loretta Goggi, Anna Miserocchi, Gioacchino Maniscalco.

 Nove puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1972

 La pietra di luna

Dal romanzo di William Wilkie Collins; interpreti principali: Valeria Ciangottini, Aldo Reggiani, Andrea

Checchi, Maresa Gallo, Giancarlo Zanetti, Mario Feliciani, Enrica Bonaccorti, Lida Ferro.

Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

1973

Qui squadra mobile

Originale televisivo a episodi di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru. (prima serie)

Interpreti principali: Giancarlo Sbragia, Gianfranco Mauri, Bruno Scipioni, Roberta Paladini, Carlo

Alighiero, Valeria Fabrizi, Enzo Turco, Giorgio Favretto, Leo Gullotta.

Sei episodi. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1975Marco Visconti

Dal romanzo di Tommaso Grossi; interpreti principali: Raf Vallone, Gabriele Lavia, Warner Bentivegna,

Pamela Villoresi, Maresa Gallo, Franca Nuti, Herbert Pagani, Gianni Garko, Sandro Tuminelli.

Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico. E’ il primo sceneggiato di Majano

registrato a colori, anche se la prima messa in onda fu ancora in bianco e nero.

1976

Qui squadra mobile

Originale televisivo a episodi di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru (seconda serie)

Interpreti principali: Orazio Orlando, Luigi Vannucchi, Gino Lavagnetto, Paolo Lombardi, Marcello Mandò,

Stefanella Giovannini, Virgilio Gazzolo, Silvia Monelli.

Sei episodi Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

1977

Castigo

Dal romanzo di Matilde Serao; interpreti principali: Alberto Lionello, Eleonora Giorni, Aldo Reggiani, Laura

Belli.

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Quattro puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

1979

 Il signore di Ballantrae

Dal romanzo di Robert Louis Stevenson; interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Luigi La Monica,

Giancarlo Zanetti, Mita Medici, Andrea Bosic.

Cinque puntate Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1980

 L’eredità della priora

Dal romanzo di Carlo Alianello; interpreti principali: Alida Valli, Giancarlo Prete, Luigi La Monica, Evelina

 Nazzari, Ida Di Benedetto, Carlo Giuffrè, Antonella Munari, Erminio Marchesini, Luigi Casellato.

Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico

1981

Quell’antico amore

Dal romanzo La tragica vicenda di Carlo III di Giansiro Ferrata e ElioVittorini e dalla memoria Quell’antico

amore di Carlo Laurenzi.

Interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Giancarlo Prete, Isabella Goldmann, Lia Tanzi, Alida Valli,

Mariella Lo Giudice, Erminio Marchesini, Paola Mannoni, Giorgio Favretto.

Cinque puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1983

 L’amante dell’Orsa Maggiore

Dal romanzo di Sergiusz Piasecki; interpreti principali: Ray Lovelock, Orso Maria Guerrini, Ida Di

Benedetto, Alberto Lupo, Mariella Lo Giudice, Gabriele Antonini, Mico Cundari, Lea Padovani, Sandra

Collodel, Paolo Sonetti.

Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.

1985

 I due prigionieri

Dal romanzo di Lajos Zilhay; interpreti principali: Ray Lovelock, Barbara Nascimbene, Giancarlo Zanetti,

William Berger, Isabella Goldmann, Glauco Onorato, Alain Cluni.

Sei puntate.

1986

Strada senza uscita

Dal racconto   No throug Road di Martin Russell; interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Erminio

Marchesini, Lorenza Guerrieri, Giancarlo Zanetti, Renato De Carmine.

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Quattro puntate.

Da ultimo è importante ricordare che Anton Giulio Majano è stato anche regista televisivo di numerose

commedie allestite dalla Rai; se ne contano ben 47 dal 1954 al 1981, tutte di autori più o meno noti italiani e

stranieri e interpretate dai più bravi attori di teatro dei diversi periodi, molti dei quali furono interpreti anche

dei suoi sceneggiati.

Si può ricordare la prima commedia realizzata nel 1954:  La signora Rosa di Sabotino Lopez, trasmessa in

diretta senza registrazione, ragion per cui oggi non esiste più. Si possono citare anche la bellissima edizione

de   I masnadieri di Friederich Schiller del 1959; Tutto per bene di Luigi Pirandello del 1967 con una

 bravissima Raffaella Carrà nel ruolo della protagonista e due commedie gialle:  Il processo a Mary Dugan di

Baillard Veiller  del 1969 con Ilaria Occhini e Corrado Pani e Doppio gioco di Robert Thomas del 1971 in cui

due grandissimi attori: Marina Malfatti e Ugo Pagliai gareggiavano nei loro duetti in una magistrale

recitazione teatrale.L’ultima commedia realizzata da Majano per il piccolo schermo risale al 1981:  Esami di maturità di Laszlo

Fodor; è l’unica registrata a colori, in quanto dal 1974 a quella data il regista non aveva più diretto

commedie, ma solo sceneggiati a puntate e non ne realizzerà più nemmeno in seguito.

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Filmografia di Anton Giulio Majano

A completamento della figura del regista de L’Alfiere, si segnala qui di seguito la filmografia che lo interessa

come regista cinematografico dal 1949 al 1961. Dopo quest’ultima data Majano non si dedicò più al cinema.

1951 L’eterna catena

1953 Una donna prega

1954 La domenica della buoma gente

1954 Cento serenate

1955 La rivale

1957 Terrore sulla città

1949 Vento d’Africa

1959 Il padrone delle ferriere

1960 Seddok (l’erede di Satana)

1961  Lui, lei e il nonno

1961  I fratelli corsi

Precedentemente, dal 1937 al 1949, Majano aveva lavorato come sceneggiatore di alcuni film che portavano

la firma di altri registi, ragion per cui sono meno legati alla sua figura, ma non per questo meno importanti da

ricordare. Anche di essi ricordiamo titoli, anno di produzione e relativi registi.

Condottieri (1937), Regia di Louis Trenker 

Uragano ai tropici (1939), Regia di Gino Talamo e Pier Luigi Faraldo

 Noi vivi ( 1942 ), Regia di Goffredo Alessandrini

 Addio Kira (1942), Regia di Goffredo Alessandrini

 Rondini in volo, (1943), Regia di Marc Allegret

Un giorno nella vita, ( 1946), Regia di Alessandro Blasetti

 La primula bianca, (1947), Regia di Carlo Ludovico Bragaglia

 L’altra, ( 1947), Regia di Carlo Ludovico Bragaglia

Cavalcata d’eroi, (1949), Regia di Mario Costa.

 N.B. Majano fu anche autore del soggetto del film L’altra insieme a Gugliemo Morandi. Inoltre fu autore

anche della novella da cui fu tratto il film Uragano ai tropici, adattata per lo schermo insieme ad Antonio

Lattuada.

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Bibliografia

Per quanto riguarda in modo specifico lo sceneggiato L’Alfiere:

L. Alessandrini,  Lo sceneggiato televisivo e i suoi itinerari, in R. Zaccaria, (a cura di),  La televisione che cambia, SEI, Torino 1984

A. D’Alessandro, L’Alfiere, in «Bianco e Nero», Luglio 1956, pp. 159 – 160

O. De Fornari, Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato TV , Arnoldo Mondadori Editore, Milano

1990, pp. 33 – 35

C. Falchi, In sei puntate il romanzo di Carlo Alianello  L’Alfiere, in «Radiocorriere», 18 / 24 marzo 1956, pp.

18 – 25

R. Fillizzola, Quattro romanzi, in «La rivista del cinematografo», aprile 1956, p. 29

A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, 1992, p. 66

A. Grasso, idem, Garzanti, 2000, p. 40

A Grasso, (a cura di), Televisione, Garzanti, 2002, pp. 13-14, ad vocem

Bibliografia di carattere generale sulla storia della televisione, sullo sceneggiato e sul teatro televisivo:

A.A. V. V., Dieci anni di televisione in Italia, Eri, Torino 1964

Abruzzese A., Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Costa e Nolen, 1995

Beaufort J., Il teatro e la Tv possono trovare una via d’intesa?, in «Il Dramma», n. 242, novembre 1956

Bettetini G., La regia televisiva, La Scuola, Brescia 1965

Bettetini G., Sipario! Storia e modelli del teatro televisivo in Italia, VQPT, Eri, Roma 1993

Castellani L., La TV dall’anno zero. Linguaggio e generi televisivi in Italia, Studium, Roma 1995

Colli C.,   Il cinema in televisione. Problematiche e prospettive tra cineteca e produzione. Atti della  tavola 

rotonda, Reggio Emilia, 14 marzo 1987

Chiaramente L., La televisione, in «Tempo presente», aprile 1956

Compatangelo M. L., La maschera e il video, Rai, Eri, 1999

D’Alessandro A., La televisione, in «Bianco e Nero», aprile 1956, pag. 87

D’Alessandro A., Lo spettacolo televisivo, Roma, Ateneo, 1957

De Fornari O., Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato televisivo, Mondadori, Milano 1990

Del Buono O., Tornabuoni L.,   Album di famiglia della TV. 30 anni di televisione in Italia, Mondadori,Milano 1981

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Delli Colli E.,   Dadaumpa. Storie, immagini, curiosità e personaggi di trent’anni  di televisione in Italia,

Gremese, Roma 1984

Grasso A., Cristalli di massa. I programmi che hanno fatto la televisione in Italia (1954-1966 ), in

Televisione: la provvisoria identità italiana, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1985

Grasso A, Storia della televisione italiana, Garzanti, 2000

A Farassino, Televisione e storia, Bulzoni, Roma 1980

C.Ferretti, B. Scaramucci, U. Broccoli, Mamma Rai, Le Monnier, Firenze 1997

May R., La TV e il cinema, Edizioni Cinque Lune, Roma 1958

Monteleone F, Storia della radio e della televisione italiana, Marsilio, Venezia 2003

 Nespolesi S., Fotografie per cinquant’anni di televisione, sito di Rai teche: www. Teche. it

Orteva P, M. Di Marco M. T., Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia, Electa, 2004

Pugliese S., Teatro e linguaggio televisivo, in «Il dramma», 1 maggio 1954, pp. 9-10

Servizio Opinioni Rai, Indagini sulla comprensione di trasmissioni televisive, Eri, Torino 1969

Simonelli G., Fantasmi del palcoscenico. Presenze teatrali nella televisione italiana di ieri e di oggi , Vita e

Pensiero, Milano 1991

Tabanelli G., Il teatro in televisione, regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione ,

Rai, Eri, 2002 – 2003, 2 Voll.

Televisione: la provvisoria identità italiana, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1985. Atti del convegnotenutosi il 13 e 14 ottobre 1985 presso la Fondazione G. Agnelli a Torino

Veltroni W., I programmi che hanno cambiato l’Italia: quarant’anni di televisione, Feltrinelli, Milano 1992

Vertone S.,  Azione drammatica e narrazione sullo schermo televisivo, in «Il dramma», Torino. 1 maggio

1954

Zaccaria R., Rai. La televisione che cambia, SEI, Torino, 1984

Più specificatamente sul rapporto cinema e storia:

A.A. V. V., Il Risorgimento in pellicola, (a cura di Davide Del Duca), Cinemazero, 1990

Argentieri M., Cinema. Storia e miti, Pironti, Naopoli 1984

Gori G. M., Insegna col cinema. Guida al film storico, Studium, Roma 1996

Sorlin P., La storia nei film, La Nuova Italia, Firenze 1984

Sulla storia del Risorgimento, in particolare per quel che riguarda la conquista del Sud e le biografie dei

 personaggi citati:

Antonicelli F., L’unità d’Italia. Albo di immagini. 1859-1860, Torino Edizioni, Rai, 1961

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A.a. V. v., Dizionario del Risorgimento nazionale, Vallardi, Milano 1933

A. a. V. v., Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, Serie XLII, Il Risorgimento italiano, Vol. V, I

combattenti, E.B.B.I., Istituto italiano Tosi, Roma 1945

Custodero G., Pedone A., L’armata del Sud, Capone Editore, 2003

De Sangro M., I Borboni nel Regno delle Due Sicilie, Capone Editore, 2004

L’esercito delle Due Sicilie (1856 – 1859), «Rivista militare», Quaderno n. 5, 1987

Storia d’Italia dal 1815 alla proclamazione del Regno d’Italia raccontata al popolo, Angelo Usigli Editore,

Firenze 1864

Gaeta e l’assedio del 1860-61. Tempere di Carlo Bossoli: caricature e documenti, catalogo a cura di autori

vari, Centro storico culturale”Gaeta”, 1978

Ministero della Guerra, Stato Maggiore del R. esercito, ufficio storico, L’assedio di Gaeta e gli avvenimenti 

militari del 1860-61 nell’Italia meridionale, libreria dello Stato, Roma 1926 

Per le biografie degli attori e del regista riportate in appendice, si fa riferimento soprattutto alll’opera:

A.a. V.v., Dizionario del cinema italiano, Gremese Editore, 1998-1999, Voll. Gli attori, Le attrici.

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Appendice

Biografie dei protagonisti

Anton Giulio Majano

(Chieti 1912 – Roma 1994)

E’ considerato il padre del teleromanzo della nostra televisione italiana. Infatti nel 1955, agli albori della

  programmazione televisiva, realizzò con  Piccole donne dal romanzo di L.M. Alcott, un nuovo genere di

spettacolo destinato ad un immediato e straordinario successo. Da allora fino al 1986 i suoi teleromanzi si

susseguirono numerosi, segnando momenti decisivi nella storia del Rai.

Tra i registi televisivi italiani fu quello che seppe valorizzare lo scrittore napoletano Carlo Alianello del

quale realizzò la trasposizione televisiva di due suoi romanzi: L’Alfiere nel 1956 e L’eredità della priora nel

1980. Per la Rai Majano realizzò 24 sceneggiati a puntate tratti da diverse opere letterarie di autori anche

stranieri, in particolari inglesi e americani: alcuni titoli possono evocare ancora oggi in molti lettori la loro

vita di telespettatori:   Jane Eyre (1957), Capitan Fracassa (1958),   L’isola del tesoro (1959), Ottocento

(1959), Una tragedia americana (1962),   La cittadella (1964),  David Copperfield (1965),  La freccia nera

(1968),  E le stelle stanno a guardare ( 1971), Marco Visconti (1975), fino a  L’amante dell’Orsa Maggiore 

(1983). Non si possono dimenticare nemmeno i due sceneggiati, purtroppo andati perduti in un’epoca pre-

teche, poiché venne cancellato il relativo nastro magnetico: Il caso Mauritiuz del 1961 e Delitto e castigo del

1963. Al continuo successo decretato dal pubblico ai suoi teleromanzi, Majano dovette sovente subire lacritica e il dissenso di un certo tipo di “pubblico più esigente” che gli rimproverava di eccedere troppo nel

sentimentalismo e nel melodrammatico, se non addirittura nelle sequenze strappa lacrime. In realtà il regista

fu sempre convinto che il teleromanzo, proprio perché era destinato a un pubblico quanto mai eterogeneo,

dovesse sempre sottolineare l’importanza del sentimento umano che guida nel bene e nel male le vicende e le

azioni dei personaggi che secoli di letteratura avevano prodotto. In questo modo era possibile fare maggior 

 presa sullo spettatore e invogliarlo anche alla lettura e alla conoscenza degli scrittori dei diversi romanzi. In

tal senso il sentimento nelle sue trasposizioni televisive, non diventa mai retorica, non è mai fine a se stesso;

tutt’al più richiama il melodramma, una forma di melodramma recitato che era e rimane arte, in quanto è

teatro televisivo.

Calza molto bene la definizione che diede di lui l’attrice Anna Maria Guarnirei in un’intervista televisiva di

qualche anno fa; «un perfetto illustratore di sentimenti umani»54

 

Quanto allo stile e al linguaggio, Majano più volte dichiarò che il teleromanzo doveva avere il ritmo,

l’ampiezza e l’apertura analitica del libro. Ragion per cui, confrontare questo genere televisivo con il cinema

non aveva senso logico; piuttosto era possibile creare qualche accostamento al cinema, costruendo sequenze

54 La citazione di Anna Maria Guarnirei è tratta dal programma televisivo Romanzo popolare a cura di Oreste De Fornari e Gloria De

Antoni andato in onda in diverse puntate dedicate allo sceneggiato televisivo nel 2002 sul canale satelittare di Raisat Album, uncanale interamente dedicato agli archivi storici della Rai. Ogni puntata prevedeva la presenza di un attore, interprete di alcuni famosi

sceneggiati televisivi realizzati nel corso degli anni dalla Rai.

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che avessero uno spessore cinematografico. Sicuramente Majano è stato l’interprete più fedele della

televisione delle origini che tentava di trasformare il nuovo mezzo di comunicazione in una sorta di

  biblioteca illustrata tramite la quale far conoscere i grandi autori della letteratura mondiale. Attraverso il

romanzo ottocentesco (le cui atmosfere vengono evocate con sapienti dettagli, struggenti giochi narrativi e

intuizioni geniali nei finali) e attraverso feconde intuizioni linguistiche (con cui realizzava spesso con mezzi

artigianali, prodigiosi quadri televisivi), Majano ha rappresentato felicemente le regole fondamentali della

regia televisiva nel teleromanzo, codificando quello che sarà per molto tempo un sicuro modello di

riferimento. Attento perlustratore di alcune delle più belle pagine della letteratura, egli auspicava anche ad un

altro tipo di TV, una TV che sapesse cogliere due elementi: l’attualità in un romanzo in cui i problemi

fossero di estrema contemporaneità e il poliziesco inteso come fatto di cronaca. A tal fine Majano predilesse

autori come Cronin, Dreiser, Wassermann, che nei loro romanzi trattavano gli scottanti problemi della

giustizia sociale, della legalità, della tutela dei diritti dei lavoratori, nonché della ricerca di valori da parte del

mondo giovanile dagli anni tra le due guerre in avanti.

Per il genere poliziesco è d’obbligo ricordare le due fortunate serie a episodi dal titolo Qui squadra mobile 

che il regista diresse nel 1973 e nel 1976, primo tentativo riuscito di fare cronaca in chiave giornalistica,

 partendo da un indagine per omicidio.55

 

Da ultimo è significativo ricordare che Majano era stato, in gioventù, ufficiale di cavalleria e la carriera

militare lo aveva portato ad appassionarsi successivamente anche di romanzi storici in cui il tema delle

 battaglie risorgimentali aveva un ruolo predominante. La trasposizione televisiva de L’Alfiere ne resta un

magnifico esempio. Molti attori che hanno lavorato con lui in televisione nell’arco di trent’anni lo hanno

soprannominato “il colonnello” proprio perché la sua passata esperienza di soldato lo portava quasi a“comandare” in modo militaresco la troupe con cui lavorava sul set televisivo.

56Ma tutti hanno riconosciuto

in lui la capacità di creare un clima di lavoro dove ognuno si trovasse a proprio agio. Come egli stesso ebbe a

ripetere più volte, «il regista è il primo che deve credere in quello che fa.»

Carlo Alianello

(Roma 1901 – 1981)

Carlo Alianello nacque a Roma il 20 marzo del 1901. Di famiglia di origini lucane, figlio di un colonnello

del Regio esercito italiano, a sua volta figlio di un colonnello dei cacciatori della guardia del Regio esercito

  borbonico, ha dedicato la maggior parte della sua opera letteraria alla rilettura del Risorgimento italiano,

trovando nella Basilicata di fine ottocento lo scenario ideale della guerra civile consumatasi nel Sud

all’indomani dell’unità nazionale.

Lo scrittore aveva intuito assai bene come l’unificazione italiana rappresentasse un nodo essenziale per la

storia del mezzogiorno. Aveva, infatti, avvertito come tante voci storiografiche e “interessate” avessero

trascurato un’analisi non ideologizzata della storia del Regno delle Due Sicilie; e, pur rimanendo la sua una

55 La biografia di Antono Giulio Majano è riportata in: A. Grasso, (a cura di), Televisione, Garzanti editore, Milano 2002, p. 406, ad

vocem; G. Tabanelli, Il teatro in televisione, regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione, Rai, Eri 2002,Vol. I, pp. 23 – 24, scheda biografica.56 Anton Giulio Majano è stato anche assistente e regista cinematografico.

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ricostruzione di romanziere, la conoscenza storica che egli possedeva, gli permise, nei suoi romanzi, di

ripercorrere sempre correttamente i fatti.

Dopo un saggio sul teatro di Maeterlink del 1928, Alianello esordisce con il romanzo  L’Alfiere nel 1943,

dove vengono raccontate, dal punto di vista di un ufficiale borbonico rimasto fedele all’esercito di Francesco

II, la guerra e le sollevazioni popolari fomentate dallo sbarco dei Mille in Sicilia.

Il romanzo nasce in un momento di travaglio per l’Italia impegnata nel secondo conflitto mondiale; un libro

tutto scritto di getto in un anno e le cui alterne fortune, di pubblico e di critica, «appaiono come la più valida

dimostrazione di quel suo superiore distaccato umano giudizio.»57  

 Nel 1952 lo scrittore pubblica Soldati del Re, un romanzo che, sulla scia de  L’Alfiere, narra la vicenda di

alcuni personaggi di varia estrazione sociale fedeli anch’essi al loro re Ferdinando II di Borbone nel turbinio

dei moti rivoluzionari del 1848. Seguiranno: Maria e i fratelli del 1955, romanzo di ispirazione cattolica

come il successivo Nascita di Eva del 1966. Nel 1963 esce il suo romanzo di maggior successo e considerato

il suo capolavoro:   L’eredità della Priora, vasto affresco e sofferta rievocazione degli eventi che si

svilupparono nel meridione tra il 1861 e il 1862; una sorta di saga del brigantaggio che trova la sua forza e la

sua originalità nella capacità dell’autore di accomunare vincitori e vinti e riscattare tutti in una pietosa

comprensione nel contesto di una Potenza postunitaria sconvolta da una sanguinosa guerra civile. Seguiranno

ancora una specie di diario  Lo scrittore o della solitudine del 1970, per tornare poi ai temi meridionali con

  La conquista del Sud del 1972 e  L’inghippo dello stesso anno. La rivoluzione liberale, le gesta dei

 piemontesi e quelle garibaldine e le loro conseguenze nel mezzogiorno d’Italia sono i temi che continueranno

ad appassionare Alianello in tutta la sua produzione letteraria a partire da  L’Alfiere e in tutte le opere

successive. Egli è stato anche professore di liceo e collaboratore del “Corriere della Sera”, de “Il Giornale d’Italia” e del “Messaggero”. Fu autore anche di alcune opere teatrali.

 Nel 1956 collaborò con Anton Giulio Majano alla sceneggiatura televisiva de L’Alfiere di cui curò anche la

 parte dei dialoghi. Da segnalare, inoltre, che nel 1953 aveva collaborato alla sceneggiatura e al soggetto del

film neorealista Maddalena per la regia di Augusto Genina, interpretato da Gino Cervi e Marta Toren, che si

avvaleva della fotografia di Claude Renoir. Morì nel 1981

Alianello è stato a volte accusato di mancanza di una serena visione della storiografia e di una corretta

attenzione alle origini di certi problemi e alle conseguenze delle scelte politiche operate nel meridione, ma

ciò nulla toglie all’esattezza delle sue conoscenze storiche e alla sua sapiente vena di scrittore.

Fabrizio Mioni, giovane protagonista de L’Alfiere

  Nato a Roma il 23 settembre 1930, appartenente all’aristocrazia romana, studente di architettura

all’università della capitale, senza conseguirne la laurea, dalla tipologia fisica da classico attore giovane,

Fabrizio Mioni decide di dedicarsi all’attività artistica, quando casualmente conosce il regista Duilio Coletti

che gli affida nel 1954 il ruolo di un ufficiale in un film d’ambientazione bellica:  Divisione folgore che narra

la drammatica vicenda di un gruppo di ufficiali paracadutati nel deserto durante la battaglia di El Amein e

57 Clara Falchi, In sei puntate il romanzo di Carlo Alianello L’Alfiere, in «Radiocorriere», 18 / 24 marzo 1956, p. 18. 

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dove Fabrizio Mioni interpretava il ruolo del sottotenente Gianluigi Corsini. Segue, subito dopo, l’esordio in

teatro, grazie a Luchino Visconti, accanto ad attori quali Salvo Randone, Lilla Brignone, Lina Volonghi,

Gianni Santuccio e Carlo Cataneo, nella commedia di Giuseppe Giocosa Come le foglie, rappresentata con

enorme successo anche al Teatro Olimpia di Milano il 26 ottobre 1954; qui Mioni interpreta il ruolo del

viziato e smidollato Tommy, giovane scapestrato e personaggio chiave della vicenda. La rappresentazione

nel teatro milanese era una ripresa di una edizione teatrale precedentemente rappresentata a Roma con un

successo ancora più eclatante di quello riscosso nel capoluogo lombardo. Con la stessa compagnia, l’anno

successivo recita anche nella commedia La parigina di Becque diretta da Gianni Santuccio.

E’ pressoché in questo periodo che il giovane attore entra in contatto con la ancor molto giovane televisione

italiana. Anton Giulio Majano, in un intervista di molti anni dopo, ricorda di aver conosciuto Fabrizio Mioni

due giorni prima di iniziare le prove de  L’Alfiere durante una festa a casa di Elena Mingucci, un’assistente

alla regia divenuta poi anche regista.«Vidi entrare uno stupendo ragazzo, ricorda Majano, e subito dissi

dentro di me: questo è l’Alfiere. Gli proposi di venire il giorno dopo negli studi della Rai e lo scritturai

immediatamente.»58 E Fabrizio Mioni fu un bravissimo Pino Lancia, protagonista indiscusso dello

sceneggiato, guidato sapientemente dal regista che seppe costruire con l’apporto del giovane attore un

 personaggio ingenuo, sensibile, come lo è nel romanzo di Alianello, e con una dose di fascino giovanile che

lo rendeva credibile e persino moderno per quell’epoca. Apparirà ancora in televisione accanto all’attrice

Laura Solari nella commedia in un atto unico  L’età delle attrici di J. M. Barrie, andata in onda il 29 gennaio

del 1957 per la regia di Enrico Colosimo. Fabrizio Mioni interpretava il personaggio del giovane Carlo

Roche, unica figura maschile di questa breve piece teatrale, giocata sul rapporto dialettico tra un’attrice

affermata, ma sul viale del tramonto e un giovane che rivede in lei la ragazza una volta amata. Fu quella lasua ultima apparizione sui nostri teleschermi. Questo lavoro televisivo non è mai stato replicato, benchè sia

tutt’ora conservato negli archivi storici della Rai.

Il cinema italiano degli anni cinquanta lo vide ancora tra gli interpreti di due film di un certo rilievo: nel

1956 in Orlando e i paladini di Francia diretto da Pietro Francisci dove Mioni interpretava il personaggio di

Rinaldo; nel 1958 in Le fatiche di Ercole sempre con la regia di Francisci nel ruolo di Giasone. Nello stesso

anno lavorò ancora in teatro come voce narrante nella piece La guerra di Renzo Rossellini, messa in scena al

teatro dell’Opera di Roma.

Poco tempo dopo, con una scrittura della 20th Century Fox, il giovane attore partiva per Hollywood per 

 prendere parte ad un remake del film L’angelo azzurro di Joseph Von Stenberg del 1930; da quel momento

si può dire conclusa la sua avventura artistica in Italia. Si stabilì così definitivamente negli Stati Uniti dove

continuerà una carriera televisiva e cinematografica.59

 

58 Dal programma Il mestiere della televisione. Anton Giulio Majano, Rai, 1989. Il programma inserito nel palinsesto di Rai

Educational, ripercorreva la carriera televisiva del regista attraverso una serie a critici e attori, alternate a brevi flash dei principalisceneggiati realizzati da Majano in televisione.59 R. Chieti, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano, Gremese Editore 1991, vol. Gli attori, pp. 328-329. 

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Due interpreti dell’Alfiere: Fabrizio Mioni e Maria Fiore

Achille Millo 

 Nato a Roma il 25 novembre 1921 da una famiglia di origine napoletana, Achille Scognamillo esordisce in

teatro ventenne a fianco di Wanda Capodaglio, mettendosi subito in luce per un tipo di recitazione sobria e

spontanea. Dotato di una bella presenza, di voce calda ed impostata, di temperamento vivace e versatile,

Millo diventa subito uno degli attori giovani più richiesti dal teatro italiano. Viene scritturato da Visconti per 

 Il matrimonio di Figaro e Delitto e castigo, entrambi rappresentati nel 1946, poi recita accanto a Sara Ferrati

ed è applauditissimo in una bella edizione de  L’ereditiera accanto a Enzo Ricci ed Eva Magni dove

impersona il ruolo dell’avido cacciatore di dote, fino a giungere al grande successo nel 1957 nei panni di

Pulcinella nella farsa di Altavilla Pulcinella in cerca della sua fortuna per Napoli per la regia di Eduardo De

Filippo. Ma è scritturato anche dal Piccolo Teatro di Milano per rappresentazioni importanti come

 Arlecchino servitore di due padroni per la regia di Strehler nel 1953 e nel 1955 e La mascherata, commedia

di Moravia rappresentata nel 1954 sempre con la regia di Strehler.

Di notevole rilievo è anche la sua attività televisiva, sin dagli albori del piccolo schermo, dove prende parte,

apprezzato interprete, a numerose commedie quali   La casa delle sette torri nel 1959 con la regia di

Guglielmo Morandi, Il borghese gentiluomo nel 1957 e Odette nel 1960, entrambe con la regia di Giacomo

Vaccari.

Lo ritroviamo poi in numerosi sceneggiati tra i quali ovviamente L’Alfiere in cui interpreta il ruolo del nobile

e generoso tenente Franco Enrico, amico inseparabile di Pino Lancia, personaggio dal puro sangue

napoletano, eroico e fedele anche lui sino all’ultimo alla bandiera borbonica.

Ritroveremo Achille Millo in altri sceneggiati che hanno fatto la storia della Rai: Tessa la ninfa fedele del

1957 con la regia di Mario Ferrero,   I Miserabili del 1964 per la regia di Sandro Bolchi,   Il conte di

Monecristo del 1966, regia di Edmo Fenoglio, uno degli sceneggiati di maggior successo in cui Millo

interpretava il ruolo dello scaltro e subdolo barone Danglar. Si possono ricordare ancora :   Il Marchese di

 Roccaverdina del 1972 diretto sempre da Fenoglio con un eccezionale Domenico Modugno nel ruolo del

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 protagonista, Il cappello del prete nel 1970 con la regia di Bolchi e il film tv Sacco e Vanzetti del 1977, per 

la regia di Giacomo Colli. Non si piò dimenticare l’edizione televisiva del dramma  Il caso Pinedus di Paolo

Levi con la regia di Maurizio Scaparro trasmessa nel 1972 dove Achille Millo recita accanto ad altri due

grandi nomi del teatro: Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice.

Millo è stato anche, si può dire, mattatore di alcuni programmi televisivi a carattere musicale e letterario, in

cui l’attore recitava poesie d’autore e presentava canzoni di cantautori di un certo impegno. Si può ricordare

il programma Note di Natale, andato in onda nel dicembre del 1959, contenitore di poesie e canzoni natalizie

in cui l’attore era affiacato dal noto cantante Fausto Cigliano;  L’amore e la guerra del 1969, spettacolo di

recitazione e musica sui più scottanti temi dell’ultimo conflitto mondiale in cui Achille Millo duettava

magnificamente con la celebre cantante Milly. Accanto all’attrice Giulia Lazzarini, fu il conduttore di un

 programma di successo dal titolo Parole e musica andato in onda a puntate a partire dal settembre del 1963 e

che ebbe poi una seconda edizione nell’autunno del 1964, programma che abbinava letture di testi teatrali di

scrittori quali Weill, Brecht e Prevert a canzoni d’autore interpretate da nomi noti in quegli anni: Emilio

Pericoli, Carol Danell, Umberto Bindi e Fausto Cigliano.

Meno rilevante è stata la sua carriera cinematografica, iniziata nell’immediato dopoguerra e conclusasi

nell’arco di un decennio. Si possono ricordare i film: Melodie immortali del 1952, regia di G. Gentiluomo e

Carosello napoletano del 1954 di Ettore Giannini.60

 

Carlo Giuffrè

  Nato a Napoli il 3 dicembre 1928, si trasferì a Roma nel 1947 dove si iscrisse all’Accademia d’Arte

drammatica. Una volta diplomato entra nella compagnia teatrale di Eduardo De Filippo in cui già lavorava ilfratello Aldo. Vi rimane fino al 1951 e, sotto la guida di De Filippo, matura rapidamente come attore,

affrontando ruoli sempre più impegnati e affiancando all’attività teatrale quella cinematografica e

radiofonica. Nel 1963 entrerà nella Compagnia De Lullo, Falk, Valli, Albani dove affina le sue doti di attore

mettendo a punto una maniera autoironica che sembra conciliare la sua doppia valenza di comico e di

amoroso. Fra le sue più riuscite interpretazioni di questo periodo si può ricordare il ruolo del Primo attore in

Sei personaggi in cerca di autore di Luigi Pirandello.

E’ molto attivo anche nella televisione delle origini dove lo troviamo sia in spettacoli di varietà: Musica

 Hotel , che in sceneggiati:  L’Alfiere dove interpreta il ruolo di Totò, il simpatico e brillante cugino di Pino

Lancia, anch’egli soldato del re, personaggio tra i più riusciti del romanzo;  I Giacobini con la regia di Edmo

Fenoglio nel 1962 e, nell’era della TV a colori,  L’eredità della priora nel 1980, sempre con la regia di

Anton Giulio Majano in cui veste i panni dell’ambiguo e opportunista Don Matteo Guarna, personaggio

drammatico combattuto tra idee liberali e tradizioni borboniche, diametralmente opposto al giovane ufficiale

de L’Alfiere.

60 R. Chieti, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano, cit., pp. 326-327. Sui programmi televisivi a carattere letterario –musicale si possono trovare alcuni articoli sull’annata del Radiocorriere TV del 1963 ai mesi di settembre / ottobre, del 1964 e del 1969,

relativamente ai periodi in cui i programmi citati sono stati mandati in onda.

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Partecipa anche alla registrazione di diverse commedie allestite dalla Rai nel corso degli anni; si possono

ricordare la farsa napoletana Caviale e lenticchie e L’amico delle donne di Alexander Dumas del 1975 dove

recita insieme a Giuliana Lojodice.

La sua carriera cinematografica è pure intensissima: dal film   Napoli milionaria del 1950 con la regia di

Edoardo De Filippo, a   Il ferroviere di Pietro Germi del 1956, da   La ragazza con la pistola di Mario

Monicelli del 1968 fino a Tre colonne in cronaca di C. Vanzina del 1990.

Oggi Carlo Giuffrè prosegue ancora nella sua attività di regista e attore di teatro.61

 

Ivo Garrani

 Nato ad Indrodacqua di Sulmona in provincia di Aquila il 6 febbraio 1924, ottiene una prima scrittura nel

1943 all’interno della compagnia teatrale di Carlo Tamberlani nella quale rimane fino al 1945. Inizia, poi,

una carriera intensa nelle compagnie Morelli-Stoppa e Torrieri –Carraro e dal 1949 al 1945 lavora con la

compagnia di Gino Cervi e Andreina Pagnani. Nel 1954 è a Milano al Piccolo Teatro dove recita nella nuova

 produzione del Giulio Cesare di Shakespeare con la regia di Strehler che gli affida altri ruoli importanti ne

  La moglie ideale di Marco Praga e in   Nostra dea di Bontempelli. Nel 1960 fonda insieme a Giancarlo

Sbragia e Enrico Maria Salerno la Compagnia degli attori Associati con la quale si dedica al teatro inchiesta

e di cronaca con una nuova messa in scena del Sacco e Vanzetti di Roli. Il debutto nel cinema avviene agli

inizi degli anni cinquanta, come pure quello in televisione di cui anche Garrani può essere considerato un

 pioniere, soprattutto delle messe in onda in diretta. Dopo aver preso parte ad una produzione della commedia

di Giocosa Come le foglie nel 1954, prende parte a diversi sceneggiati a puntate, tra cui ovviamente L’Alfiere 

in cui interpreta il ruolo del colonnello Rodriguez, ufficiale della marina borbonica, padre della bella Renata,fidanzata di Pino Lancia, uomo bonario e rassegnato al corso degli eventi nuovi dai quali, però, preferisce

fuggire piuttosto che affrontarli. Tra gli altri sceneggiati si possono ricordare Capitan Fracassa del 1958,

sempre con la regia di Majano,   L’isola del tesoro nel 1959 diretto ancora da Majano di cui rimane

memorabile la sua interpretazione del pirata dalla gamba di legno John Silver.

Si possono ricordare ancora Umiliati e offesi sempre del 1959 con la regia di Vittorio Cottafavi,  Delitto e

castigo del 1963 nuovamente diretto da Majano e Mastro Don Gesualdo del 1964 per la regia di Giacomo

Vaccari, il primo sceneggiato televisivo realizzato con una tecnica cinematografica. Superlativa rimane la

sua apparizione ne Il giornalino di Gian Burrasca del 1964 con la regia di Lina Wertmuller, dove interpreta

il personaggio autoritario del padre del ragazzino monello, conferendogli anche una forte carica umana che

non traspare nel libro di Vamba.

Si può ricordare ancora la figura di Mussolini nello sceneggiato  La resa dei conti della serie I giorni della

 storia di Luigi Lunari, diretto da Marco Leto nel 1969.

La sua carriera cinematografica comprende parecchi film che spaziano tra il 1952 e l’inizio degli

anni ottanta.Si possono citare i film che portano la regia di Anton Giulio Majano:  La rivale del 

61 Anche per la biografia di Carlo Giuffrè si fa riferimento al già citato  Dizionario del cinema italiano, nel volume dedicato agliattori. Per quanto riguarda le sue interpretazioni televisive valgono le annate del Radiocorriere TV e il volume di M. Letizia

Copantangelo,  La maschera e il video, Rai 1998, che raccoglie tutta la produzione teatrale televisiva dal 1954 a tutto il 1998.

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1956, Terrore sulla città del 1958 e Il padrone delle ferriere del 1959. 62 Accanto a Fabrizio Mioni

sarà tra gli interpreti del già citato Orlando e i paladini di Francia in cui veste i panni di Carlo

Magno.

Aroldo Tieri“Che misurato attore è Aroldo Tieri: ma quale capacità possiede d’improvvisare scatti, umori ombrosi, con

quella sua voce dove la sua origine calabrese affiora appena, educata com’è dalla dizione che pure non lo ha

congelato nei propri canoni.” Così Indro Montanelli definì mirabilmente Aroldo Tieri, grande attore che ben

tutti conosciamo, nato a Corigliano calabro il 28 agosto 1917 e figlio del noto commediografo Vincenzo

Tieri. Diventa ben presto uno degli attori giovani più quotati ed apprezzati in campo cinematografico, ma il

suo vero talento emerge in teatro dove diventa, a poco a poco una delle punte di forza della scena italiana a

cominciare dal suo esordio nella  Francesca da Rimini di Simoni nel 1938 a cui segue il successo ottenuto

con la Compagnia del Teatro Eliseo nella commedia di Shakespeare  La dodicesima notte diretta da Pietro

Sharoff, dove l’attore interpreta il ruolo del giovane Fabiano. Nel dopoguerra continua a recitare in teatro,

  prendendo parte a formazioni importanti accanto ad attori di valore come Gino Cervi, Andreina Pagnani,

Paolo Stoppa, Rina Morelli, Olga Villi e Elena Zareschi.

Attore poliedrico e dalla inesauribile vitalità, viene presto richiesto anche dalla neonata televisione italiana,

dove prende parte a parecchi sceneggiati a partire proprio da  L’Alfiere nel 1956 in cui intepreta il sublime,

ma energico personaggio di Padre Carmelo, coprotagonista del romanzo insieme al giovane ufficiale Pino

Lancia. Seguiranno Le avventure di Nicola Nickleby nel 1958, diretto da Daniele D’Anza in cui veste i panni

  ben differenti dello spietato e crudele Wackford Squeers, sfruttatore di bambini innocenti, e gli originali

televisivi La sciarpa e Paura per Janet , entrambi del 1963 con la regia di Daniele D’Anza.

Seguiranno altri originali televisivi a puntate di carattere giallo sempre firmati da Daniele D’Anza: Melissa 

nel 1966 in cui interpreta il ruolo dell’assassino Felix Hapburn e Giocando a golf una mattina del 1969 in cui

veste i panni di Ed Royce, uno dei personaggi chiave della vicenda.

Lo ritroviamo ancora nel 1967 nello sceneggiato in un’unica puntata Serata con Somerset Maugham della

serie “ Il Novelliere” ancora con la regia di D’Anza.

Aroldo Tieri eccelle anche in numerosissime commedie allestite dalla TV che qui come in teatro diventano

suoi cavalli di battaglia. Possiamo ricordare: L’eroe di Ferruccio Cerio del 1955,  La bisbetica domata e La

cara ombra, rispettivamente del 57 e del 58, sempre dirette dal grande D’Anza e  Il calapranzi di Fenoglio

nel 1968. Assieme all’attrice Giuliana Lojodice ha formato e continua a formare un sodalizio artistico

inossidabile sia in teatro, che in televisione e moltissime rimangono le produzioni in cui i due attori hanno

dato insieme il meglio di se stessi.

62 Si veda il già citato Dizionario del cinema italiano, Vol. Gli attori, alle pp. 222-223 e le recensioni dei diversi sceneggiati televisivi

 pubblicate sulle annate del «Radiocorriere TV»

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Possiamo infine ricordare che nel 1960 Aroldo Tieri è stato, con Lauretta Masiero e Alberto Lionello, il

conduttore della terza edizione di Canzonissima, lo spettacolo abbinato alla lotteria di Capodanno, che

quell’anno portava la firma del regista Mario Landi.

Emma Danieli

 Nata a Buscoldo in provincia di Mantova il 14 ottobre 1936, morta a Lugano il 21 giugno 1999, iniziò ad

affermarsi nel cinema con il film a episodi Siamo donne di A Guarini del 1953, dedicato a momenti salienti

di vita vissuta di quattro attrici di fama internazionale.

Fu una delle più apprezzate annunciatrici della televisione delle origini, una delle più amate “signorine

 buonasera”, attività che le permise di emergere e attirare l’attenzione di alcuni registi di quegli anni che le

offrirono l’opportunità di partecipare ai primi sceneggiati televisivi. Così Alberto Casella le offrì

l’opportunità di prendere parte al primo sceneggiato in assoluto realizzato dalla Rai nel 1954:   Il dottor 

 Antonio tratto dal romanzo di Giovanni Ruffiani, andato in onda in diretta nel novembre di quell’anno e dove

recitavano attori che godevano già un certo prestigio in campo teatrale e cinematografico: Luciano Alberici,

Cristina Fanton e Antonio Ciffariello.

Quindi, Antono Giulio Majano la volle tra le quattro protagoniste dello sceneggiato Piccole donne trasmesso

in diretta nel 1955 e l’anno successivo ne  L’Alfiere dove interpretò la parte della bella e scontrosa Renata

Rodriguez, fidanzata di Pino Lancia, innamorata del suo giovane ufficiale, ma desiderosa di seguire gli ideali

 patriottici e liberali a cui sembrava portare l’invasione garibaldina nel meridione. Nel 1960 fu la protagonista

femminile dello sceneggiato Tom Jones dal romanzo di Fielding con la regia di Eros Macchi. Tra le sue

interpretazioni televisive degli anni sessanta si possono ricordare lo sceneggiato Tarantino sulle alpi del1968 per la regia di Edmo Fenoglio e nel 1969 l’originale televisivo La donna di cuori della serie Squadra

omicidi tenente Sheridan diretto da Leonardo Cortese, in cui vestiva i panni dell’ambigua e affascinante Vera

Davis, protagonista indiscussa di questo giallo di alta classe e di grande successo. Prese parte anche a diverse

commedie prodotte dalla Rai: possiamo menzionare nel 1968  La scomparsa di Leslie Howard diretto da

Majano e, sua ultima apparizione, la piece Nina del 1975 diretta da Adalberto Andreani.

Tra le sue interpetazioni in teatro ricordiamo il lavoro Processo a Oreste in cui Emma Danieli recitò insieme

al grande Vittorio Gassman nel 1959 al teatro greco-romano di Taormina.

Ilaria Occhini

  Nata a Firenze il 28 marzo 1934, è nipote del famoso scrittore Giovanni Papini e figlia di un altrettanto

famoso scrittore, Barna Occhini. Su sollecitazione del regista Luciano Emmer, la giovane attrice si lascia

 prima tentare dalla via del cinema, debuttando nel 1954 nel film Terza liceo con lo pseudonimo di Isabella

Redi. Si iscrive, quindi, come allieva all’Accademia d’Arte drammatica di Roma dove consegue il diploma

nel 1957. Nello stesso anno avviene il suo debutto in teatro con il regista Luchino Visconti che la scrittura

  per la commedia  L’impresario delle Smirne e che la conferma l’anno successivo affidandole il ruolo di

Caterina in una memorabile edizione del dramma Uno sguardo dal ponte. L’anno precedente aveva visto il

suo debutto in televisione proprio con lo sceneggiato L’Alfiere dove Anton Giulio Majano le affidò il ruolo

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della dolce Titina, cugina del protagonista, personaggio relativamente secondario, ma significativo nella

vicenda sentimentale del giovane ufficiale. La sua grande affermazione televisiva avviene, però, nel 1957

quando ancora Majano la scrittura nel ruolo della protagonista per lo sceneggiato Jane Eyre tratto dal famoso

romanzo di Emily Bronte, un classico della letteratura inglese e uno degli sceneggiati migliori della nostra

televisione. Se nel teatro Ilaria Occhini è una presenza costante, altrettanto lo è in televisione dove prende

 parte a numerosi teleromanzi e a opere teatrali adattate per il piccolo schermo. Fra gli sceneggiati e originali

televisivi possiamo ricordare  Il vicario di Wakefield del 1959, diretto da Guglielmo Moranti; Graziella del

1961 diretta da Mario Ferrero;   Delitto e castigo del 1963 ancora diretto da Majano in cui la Occhini

interpretava il ruolo della bela Sonja; nel 1967 è protagonista insieme ad Adriana Asti della magnifica

trasposizione televisiva de La fiera delle vanità tratta dal romanzo di William Theckery firmato ancora una

volta da Majano. Qui la Occhini diede il meglio di se stessa interpretando il ruolo della bella e ingenua

Emmy. .

Ricordiamo ancora Una pistola in vendita diretto da Vittorio Cottafavi nel 1970 e  La barchetta di cristallo 

della serie Il Commissario De Vincenzi del 1977. Seguiranno nel 1978  Diario di un giudice con la regia di

Marcello Baldi e protagonista maschile Sergio Fantoni, fino ad arrivare al grande successo nel 1982 con lo

sceneggiato L’Andreana diretto da Leonardo Cortese.

Tra le opere teatrali realizzate per le televisione, ricordiamo  La casa delle sette torri del 1959 diretta da

Guglielmo Morandi,  La fiaccola sotto il moggio del 1965 diretta da Giorgio De Lullo;  Il processo a Mary

 Dugan del 1969 con la regia di Majano e un bravissimo Corrado Pani nel ruolo del protagonista maschile;  Il 

mercante di Venezia del 1979 diretto da Gianfranco De Bosio. Non si può non ricordare la splendida

interpretazione della Occini ne la Tosca televisiva diretta da Enrico Colosimo nel 1971, tratta dal notodramma di Sardou in cui l’attrice mostrò un forte temperamento drammatico. Infine ricordiamo che Ilaria

Occhini diede vita anche a personaggi duri e aspri come nello sceneggiato  Puccini diretto da Sandro Bolchi

nel 1973, dove impersonava Elvira, la moglie del compositore lucchese, figura determinante nella vicenda

 biografica narrata per il piccolo schermo.

L’atrrice continua a lavorare in teatro; tra le sue ultime interpretazioni ricordiamo Quel pasticciaccio brutto

di via Merulana nel 1996 diretto da Luca Ronconi e trasmesso anche in televisione.

Domenico Modugno

 Nato a Pogliano a Mare il 9 gennaio 1928, morto a Lampedusa il 6 agosto 1994, Domenico Modugno rimane

uno dei più compiuti artisti del XX secolo, nei tre settori: cinema, teatro e televisione, al disopra dei quali si

innesta la sua sfolgorante carriera di cantante e di cantautore che lo rese famoso in tutto il mondo. Qui lo

ricordiamo solo come interprete di alcuni lavori televisivi e teatrali che contribuirono alla sua notorietà,

mettendo in luce la sua bravura di attore, sia in ruoli drammatici, che istrionici. Il suo primo sceneggiato

televisivo è proprio  L’Alfiere dove Majano gli affidò il ruolo di Nunzio Barabba, appuntato sbandato

dell’esercito borbonico, ma riabilitato e nobilitato dalla volontà del regista. Ricordiamo, quindi,

Scaramouche diretto da Daniele D’Anza nel 1965, magnifico esempio di sceneggiato musicale in costumi

secenteschi in cui Modugno ha il ruolo del protagonista; seguiranno, negli anni settanta, le due splendide

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interpretazioni sempre da protagonista, ne Il marchese di Roccaverdina con la regia di Edmo Fenoglio e nel

  Don Giovanni in Sicilia per la regia di Guglielmo Morandi, due personaggi, il primo drammatico e il

secondo fortemente estroso, in cui Modugno si rivelò attore di classe dall’innato dinamismo e dalla sapiente

analisi psiclogica dei rispettivi ruoli. Ricordiamo, infine, nel 1984 la sua drammatica interpretazione nello

sceneggiato Western di cose nostre, regia di Pino Passalacqua, tratto da un racconto di Leonardo Sciascia. Non si può, però, dimenticare il suo grande successo teatrale e televisivo con il musical diretto da Garinei e

Giovannini nel 1961, Rinaldo in campo, dove insieme ad una bravissima Delia Scala, Modugno formò una

coppia unica e irripetibile in uno spettacolo di canto e recitazione mai più dimenticato che voleva essere una

 bonaria esaltazione del patriottismo risorgimentale in chiave umoristico-sentimentale.

Fernando Cicero

Il suo vero nome era Nando Cicero, nato in Eritrea il 22 gennaio 1931 e morto a Roma il 5 agosto 1995.

Pressoché coetaneo di Fabrizio Mioni, aveva iniziato la propria carriera nel cinema, lavorando come attore e

aiuto regista accanto a maestri quali Rossellini e Visconti con il quale esordì nel famoso film Senso, se pure

in un ruolo di secondo piano.

 Nel 1954 è nel cast del film Divisione folgore di Duilio Coletti accanto a Fabrizio Mioni e nel 56, ancora

assieme a Mioni lo ritroviamo tra gli interpreti di Orlando e i paladini di Francia. Seguiranno altri film, tra

cui Salvatore Giuliano di Franco Rosi del 1961 e   Parigi o cara di Vittorio Caprioli del 62; in entrambi

Cicero partecipò anche in veste di aiuto regista. Dal 1966 si dedica completamente alla regia e firma

numerosi film comici di un certo successo popolare. In televisione lo ricordiamo ne L’Alfiere dove compare

solo nella terza puntata nel personaggio del “cattivo”, lo scaltro e invidioso Filippo Monaco che non può

soffrire Pino Lancia e farà di tutto per metterlo nei guai. Qui Fernando Cicero e Fabrizio Mioni saranno i due

eterni nemici, immortalati dal vidigrafo della Rai in questo bellissimo sceneggiato che li vede ancora una

volta compagni di lavoro.

Monica Vitti

Può essere superfluo parlare di un’attrice così nota e sulla quale molto è stato detto; tuttavia qui è giusto

ricordare le sue apparizioni televisive e la sua partecipazione ad alcuni sceneggiati e commedie. Due sono gli

sceneggiati a puntate degli anni cinquanta prodotti dalla Rai ai quali la Vitti prese parte:  L’Alfiere del 1956 in

cui interpretava la regina Maria Sofia di Napoli, consorte del re Francesco II e Mont Oriol  del 1958 con la

regia di Claudio Fino in cui dava volto al personaggio della avvenente e enigmatica Cristiana.

Tra le commedie di prosa possiamo ricordare: Questi ragazzi del 1956, regia di Claudio Fino;  L’imbroglio 

del 1959, regia di Giacomo Vaccari; Le notti bianche del 1962 con la regia di Cottafavi e Il cilindro del 1978

con la regia di Eduardo De Filippo.

Ha preso parte anche a spettacoli di intrattenimento leggero fra cui Mille volti di Eva messo in scena da

Rosiaria Polizzi nel 1978, La fuggitiva scritto da lei stessa nel 1983 e Passione mia del 1985, un omaggio al

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cinema diretto da Roberto Russo in cui l’attrice fa da madrina a giovani talenti usciti dal Centro Sperimentale

di Cinematografia e dall’Accademia di Arte Drammatica.

Da segnalare infine la fiction Ma tu mi vuoi bene? del 1992 realizzato da Marcello Fondato, in cui Monica

Vitti recitava a fianco di Johnny Dorelli.

Antonio Pierfederici

 Nato a La Maddalena (Sassari) il 18 marzo 1919, è stato un attore prevalentemente teatrale.

Intensa, però, fu anche la sua partecipazione a numerosi lavori televisivi prodotti dalla Rai nel corso degli

anni; oltre L’Alfiere in cui Pierfederici sosteneva il ruolo del re Francesco II di Napoli, ricordiamo L’idiota e

 La Piasana rispettivamente del 1959 e del 1960 diretti entrambi da Giacomo Vaccari; Scaramouche del 1965

diretto da Daniele D’Anza;   I fratelli Karamazov del 1969 con la regia di Sandro Bolchi, Una pistola in

vendita del 1970 con la regia di Cottafavi, L’edera del 1974 diretto da Giuseppe Fina, Ritratto di signora del

1975 diretto da Sandro Sequi e  La traccia verde dello stesso anno diretto da Maestranzi. Pierfederici ha

 preso parte anche a diversi sceneggiati di carattere giallo inseriti nelle diverse serie del tenente Sheridan, il

commissario Maigret, Nero Wolf e il commissario De Vincenzi. Numerose anche le opere in prosa allestite

 per la TV alle quali l’attore ha partecipato: Processo Karamazov diretto da Ottavio Spadaro nel 1961, Corte

marziale per l’ammutinamento del Caine diretto da Vaccari nel 1965, Il temporale del 1973 con la regia di

Claudio Fino e Ritratto di ignoto diretto da Mario Ferrero nel 1977.

Enzo Turco

 Nato a Napoli nel 1902 e morto a Roma nel 1983, si dedicò molto presto al teatro, imponendosi

come una delle punte di forza, se pure in ruoli di supporto, dello spettacolo in dialetto napoletano.

Attore istintivo, esuberante e arguto, si afferma rapidamente come spalla essenziale di alcuni comici,

soprattutto di Nino Taranto fin dalla seconda metà degli anni trenta. Si possono ricordare almeno quattro

titoli di commedie teatrali in cui l’attore recitava con il grande mattatore napoletano:  Nuvole del 1848,

 Appuntamento in palcoscenico del 1849, Taranteide (1950) e Cavalcata di mezzo secolo (1951), tutte degli

autori Nelli e Mangini. Nel cinema Enzo Turco è presente dalla fine degli anni quaranta quando viene

richesto sovente per ruoli di secondo piano, da estroverso caratterista per commedie comico-brillanti, sempre

al servizio dell’attore di varietà di turno. Dalla seconda metà degli anni cinquanta si dedica attivamente alla

televisione, partecipando a diverse produzioni; oltre a  L’Alfiere in cui interpreta il ruolo dello scaltro, ma

generoso sergente Lo Russo, lo ritroviamo nella serie a episodi  Aprite: polizia del 1957 diretta da Daniele

D’Anza. Nel 1963 è tra gli interpreti dello sceneggiato  Peppino Girella di Eduardo De Filippo, nel 1965

 partecipa ad uno degli episodi della serie giallo-rosa  Le avventure di Laura Storm con la regia di Camillo

Mastrocinque e Lauretta Masiero nel ruolo della protagonista. Lo ritroviamo, quindi, negli sceneggiati: Luisa

Sanfelice del 1966 con la regia di Leonardo Cortese, Napoli 1860,  La fine dei Borboni del 1970 diretto da

Blasetti,  Le terre del Sacramento del 1970 di Silverio Blasi   Joe Petrosino (1972) per la regia di Daniele

D’Anza e nell’episodio Rapina a mano armata della serie Qui squadra mobile del 1973 diretta da Majano.

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Indice

PrefazionePag. 2

Capitolo I

 Inquadramento storico. Da Ancona a Gaeta. Le operazioni dell’esercito regolare

Pag. 5

Capitolo II

 Il romanzo L’Alfiere di Carlo Alianello

Pag. 8

Capitolo III

 Lo sceneggiato televisivo della neonata televisione italiana

Pag. 10

Capitolo IV

 Da Il dottor Antonio a L’Alfiere

Pag. 13

Capitolo V

 Sceneggiatura e argomento storico

Pag. 17

Capitolo VI

 Immagini e sequenze

Pag. 23

Capitolo VII

 Pino Lancia: un singolare personaggio dell’epopea risorgimentale

Pag. 34

Capitolo VIII

Un frate mistico e un cugino esuberante

Pag. 38

Capitolo IX

 Renata, Titina e Ginevra: tre donne per un giovane ufficiale

Pag. 40

Capitolo X

Una folla di personaggi e un cast di attori eccezionali 

Pag. 42

Capitolo XI

 I temi musicali presenti ne L’Alfiere

Pag. 48

Capitolo XII

 Scenografia e linguaggio

Pag. 52

Capitolo XIII Pag. 56