Recupito - Alfiere Lo Sceneggiato a Soggetto Storico Agli Albori Della Televisione Italiana
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Claudio Recupito
L’Alfiere
Lo sceneggiato a soggetto storico agli albori della televisione italiana
Prefazione
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Perché L’Alfiere
Quando nell’estate del 1994, esattamente all’inizio di luglio, i programmisti del palinsesto di Raiuno presero
l’iniziativa di riproporre nella fascia notturna della programmazione, i vecchi sceneggiati della Rai, L’Alfiere
ebbe il compito di inaugurare la lunga serie che, con alcune interruzioni, si è protratta fino al 1998,
coinvolgendo di seguito anche i palinsesti notturni di Raidue e Raitre. Titolo di questo revival della
televisione del passato era “Percorsi nella memoria” e comprendeva al suo interno non solo i teleromanzi a
puntate, ma anche commedie e varietà che avevano fatto epoca tra gli anni cinquanta e i primi anni ottanta.
L’iniziativa, che ebbe subito un largo riscontro di pubblico nonostante l’orario poco felice delle messe in
onda, prese il via dal fatto che l’archivio storico della Rai cominciava allora a riversare su supporti digitali
parecchio materiale conservato fino a quel momento su pellicola in 16 millimetri con lo scopo di rivalutare
un patrimonio di indubbio valore, lasciato per troppo tempo negli scantinati di via Teulada e rimasto per più
di un decennio ai margini della programmazione. La vecchia cineteca Rai sembrò in quel momento risorgere
e riprendere vita e decine di titoli tra sceneggiati, prosa e varietà riapparvero in quelle ore notturne sui
teleschermi, risvegliando ricordi in coloro che avevano seguito quelle produzioni all’epoca della loro prima
messa in onda e suscitando una certa curiosità in diverse persone che per la prima volta si accostavano ad
esse. A dire il vero, l’iniziativa non venne pubblicizzata né dal Radiocorriere TV, né dai quotidiani che si
limitarono a indicare solo i titoli riproposti nelle pagine dedicate alla programmazione ufficiale di ogni
giorno. Solo dopo alcuni mesi qualche giornale dedicò brevi articoli a questo contenitore notturno che si
riteneva fosse seguito da una schiera di nostalgici o di appassionati della vecchia Rai in bianco e nero.
L’Alfiere, sceneggiato in sei puntate realizzato nel 1956 dal regista Anton Giulio Majano, venne riproposto
consecutivamente dal 3 all’8 luglio 1994 e inaugurò, si può dire, l’omaggio a questo grande regista, padre
dello sceneggiato televisivo, del quale vennero via via riproposti tutti i teleromanzi realizzati nell’arco di
quasi trent’anni. Il penultimo lavoro di Majano che venne riproposto fu I due prigionieri del 1985,
ritrasmesso nella settimana dal 16 al 23 gennaio 1995; dopo quella data prese il via l’altrettanto lunga
riproposta degli sceneggiati di Sandro Bolchi, altra grande firma di teleromanzi indimenticabili. Per motivi a
noi sconosciuti non venne ritrasmesso l’ultimo sceneggiato realizzato da Majano nel 1986: Strada senza
uscita, tratto da un racconto di Martin Russell, più simile a un film TV; forse fu considerato meno
interessante dei lavori precedenti, oppure si trattò di questioni puramente tecniche.
Ad ogni buon conto, oggi lo sceneggiato L’Alfiere è conservato nell’archivio storico della Rai, le attuali
Teche, nell’edificio magazzino situato sulla via Salaria a Roma dove è disponibile su tre supporti:
videocassetta digitale (formato D2 ), videocassetta formato 3 / 4 e pellicola formato 16 millimetri (vecchio
supporto originale ricavato dalla registrazione effettuata con il vidigrafo ottico durante la messa in onda in
diretta del 1956.) Ebbi modo di seguire tutte le sei puntate dello sceneggiato proprio in occasione di quella
replica notturna e, come studioso oltre che appassionato degli sceneggiati televisivi tratti da opere letterarie,
lo ritenni subito ancora valido come lavoro, sia per la bellissima trasposizione che Majano aveva saputo fare
dal romanzo omonimo di Carlo Alianello, sia per la vicenda narrata: la conquista del sud ad opera delle forzegaribaldine nel 1860, vista dalla parte dell’esercito napoletano, vale a dire l’esercito sconfitto. Una visione di
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una porzione di storia del nostro Risorgimento ancora oggi poco studiata e poco approfondita, trasgressiva,
se vogliamo, a maggior ragione poi nel 1956 quando lo sceneggiato andò in onda la prima volta, ma anche
nel 94 in occasione di quell’ultima replica, il che la dice lunga sulla lentezza o meglio, la trascuratezza con
cui è sempre stato portato avanti uno studio obiettivo e il più competo possibile della storia risorgimentale.
Nel contesto della produzione televisiva del teleromanzo a puntate, L’Alfiere non ha certamente mai goduto
di grande notorietà e oggi ben poche persone lo ricordano e la più parte non lo ha mai visto o addirittura non
ne ha mai sentito parlare. Anche il romanzo di Alianello, dopo il primo grande successo che ebbe tra gli anni
quaranta e cinquanta, non è più oggi un libro richiesto e difficilmente è trovabile nelle librerie. Bisogna,
chiaramente, considerare che nel 1956 in Italia circolavano ancora pochi televisori ( il meridione ne era
praticamente escluso); le repliche integrali dello sceneggiato sono state rarissime (prima di quella del 94, se
ne ricorda una sola nel 57, un anno dopo la prima messa in onda) e il susseguirsi negli anni di tantissimi
teleromanzi che ebbero sicuramente più successo e coinvolsero un pubblico più vasto, sono tutte motivazioni
plausibili sullo scarsa popolarità di cui ha goduto nel tempo L’Alfiere. Ma tutto ciò nulla toglie alla sua
validità che rimane indiscussa anche per l’eccezionale cast di interpreti che annoverava, l’accurata
ricostruzione dei costumi e degli ambienti, grazie anche al supporto di un valido scenografo quale era Emilio
Voglino e la bravura di Anton Giulio Majano che seppe realizzare un lavoro imponente e ambizioso in
un’epoca in cui i mezzi e le tecniche a disposizione erano alquanto scarsi. Senza parlare degli studi televisivi
in cui questi primi sceneggiati venivano realizzati; si parla di scantinati o addirittura di garage situati in Viale
Mazzini; quattro pareti e tre telecamere era tutto quello di cui si poteva disporre. Locali, si può dire, di
fortuna in cui le scene si costruivano seguendo rigidi criteri di massima utilizzazione dello spazio
disponibile, vale a dire distribuendo le scene lungo le pareti dello studio e lasciando libero lo spazio centraleo raggruppandole a stella al centro dello studio stesso e mantenere così libero lo spazio periferico. Se
pensiamo poi che il grosso problema nella realizzazione di uno spettacolo televisivo era quello della rapidità
dei cambiamenti di scena che dovevano avvenire in diretta, possiamo comprendere come la fantasia dei
tecnici abbia escogitato un’infinità di ingegnosi meccanismi o metodi di ripresa per illustrare i quali
occorrerebbe un intero volume. Un romanzo quale L’Alfiere che narra una vicenda di guerra e che non può
prescindere da un’ambientazione di carattere militare, resta a tutt’oggi un esperimento di trasposizione
televisiva di grande coraggio e di valore artistico nella storia della Rai. Uno sceneggiato un po’ vecchio stile
pieno di personaggi affascinanti, di avvenimenti, intrecci e passioni; di quelli, per intenderci, che per quasi
trent’anni hanno costituito una consolidata tradizione nel campo dell’intrettenimento televisivo, alcuni dei
quali, forse, sono ancora rimpianti da molti telespettatori. E abbiamo parlato di esperimento non solo per
l’epoca in cui L’Alfiere è stato realizzato, ma anche perché fu il primo tentativo di uscire dagli stessi studi
televisivi e realizzare qualche ripresa in esterni della quale avremo modo di parlare nel corso di questa
trattazione. Un tentativo di unire televisione e cinema, connubio che piaceva molto a Majano il quale
aspirava fin da quegli anni ad un’estensione sempre allargata della ripresa televisiva proiettata anche
all’esterno. La sua formazione anche di regista cinematografico non poteva esimersi da questa aspirazione.
Oggi si parla di cinema e televisione come settori che conservano la memoria storica del loro passato; film e
produzioni televisive diventano documenti, testimonianze di un’epoca, di un costume, di un certo tipo di
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mentalità e di un modo di fare sia uno, che l’altra.. Se questo è valido anche nel senso di sapere valorizzare e
riproporre all’attenzione degli studiosi e del pubblico in generale opere che hanno segnato la storia dello
spettacolo, crediamo che anche lo sceneggiato televisivo dei primi anni di vita della Rai, possa entrarci a
pieno titolo e L’Alfiere di Anton Giulio Majano rimane una pietra miliare ancora in parte da scoprire.
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Capitolo I
Inquadramento storico
Da Ancona a Gaeta
Le operazioni dell’esercito regolare
Felicemente compiuta, con la resa di Ancona la campagna nelle Marche e nell’Umbria, il Re Vittorio
Emanuele II assumeva il 3 ottobre 1860 il comando supremo dell’esercito per iniziare l’avanzata verso le
province meridionali. Il generale Manfredo Fanti, nominato generale d’armata rimaneva a fianco del Re con
la carica di Capo di Stato Maggiore generale, e i due generali Enrico Cialdini ed Enrico Morozzo della
Rocca, rispettivamente comandanti del IV e V corpo venivano nominati generali d’Armata e incaricati di
proseguire, sotto la direzione di Fanti, le operazioni nel regno di Napoli.
Il concetto strategico in base al quale furono date le disposizioni per l’itinerario del corpo principale e delle
colonne fiancheggianti era di uscire al più presto alle spalle dell’esercito borbonico sulla destra del Volturno,
costringere il nemico a battaglia fra il Garigliano e il Volturno e distaccarlo a Gaeta e dal confine
pontificio. Scelta, perciò, come direttrice generale di marcia la via degli Abruzzi che i borbonici avevano
lasciata sgombra, fu deciso di raggiungere questa linea seguendo la litorale adriatica fino a Pescara, poi
risalire questa valle e scendere, quindi, sul Volturno, battervi l’esercito borbonico e congiungere così
l’armata regia ai volontari di Garibaldi.
Dal 7 al 12 ottobre ebbero luogo i primi spostamenti che portarono il IV corpo d’armata a raggiungere il
giorno 13 Pescara. Qui la fortezza, abbandonata in fretta dalle truppe borboniche dopo essere stata da poco
approvvigionata e munita per divenire una base del loro corpo d’operazioni negli Abruzzi, forniva un
eccellente appoggio alla marcia delle truppe italiane, era armata da una cinquantina di pezzi, aveva
magazzini e caserme e costituiva anche una buona testa di ponte sul fiume Pescara allora attraversato da un
ponte di barche lungo circa 80 metri.
I primi scontri tra i due eserciti nemici, piemontese e borbonico, furono quelli del Macerone e di San
Giuliano, entrambi del 26 ottobre, che aprirono ai primi la via verso il Garigliano, dove il comando
borbonico aveva preventivato una difesa ad oltranza. Un fitto cordone del reparto cacciatori fu schierato
lungo la riva destra del fiume, mentre il Re Francesco II, da poco sovrano del Regno delle Due Sicilie,
emanava un proclama nel quale stigmatizzava l’opera delle truppe piemontesi le quali avevano calpestato
ogni diritto delle genti e ogni sentimento di giustizia, invadendo il regno senza nessuna dichiarazione di
guerra e costringendo il supremo comando ad abbandonare la linea del Volturno per far argine all’irrompente
nemico sulla linea del Garigliano.
La battaglia sul fiume si risolse in un grande disastro per le forze borboniche che furono costrette ad una
tremenda ritirata. Dopo il passaggio del Garigliano da parte delle truppe piemontesi, a Francesco II era stato
proposto di attuare il piano di un insurrezione negli Abruzzi per colpire il nemico alle spalle, ma il Re non
volle saperne persuaso invece che fosse più pratico concentrare buon nerbo delle migliori forze a Gaeta e ilresto farlo passare in territorio pontificio.
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Mola di Gaeta e Castellone costituivano allora due lunghe borgate, delle quali, una giaceva sul
prolungamento dell’altra per una lunghezza totale di circa due chilometri fra le colline e il mare.
Sarà qui che la mattina del 4 novembre 1860 le navi piemontesi Carlo Alberto e Governalo apriranno il
fuoco contro la torre di Mola. Ancora una volta l’esercito borbonico dovrà retrocedere e battere in ritirata e
questa volta tutte le sue forze costituite per la maggior parte da soldati napoletani, furono costrette a
concentrarsi intorno e dentro la fortezza di Gaeta, dove il congestionamento delle truppe rese subito difficili
gli approvvigionamenti e l’organizzazione dei numerosi reparti dell’esercito. A Gaeta si stabilì anche la
Corte con il corpo diplomatico, ma vi era anche la popolazione civile.
Il lungo assedio di Gaeta, che vide le truppe napoletane completamente prigioniere di quelle piemontesi in
una lotta all’ultimo sangue che si protrasse dall’11 novembre 1860 al 14 febbraio 1861, non costituisce un
fatto isolato, ma è invece l’episodio più saliente e decisivo della campagna di guerra che si svolse nell’Italia
meridionale. L’episodio di Gaeta ebbe infatti tutte le caratteristiche di una grande azione bellica , ma più
ancora un’importanza politica così rilevante, che l’Italia e le cancellerie europee lo considerarono come
l’ultima scena del dramma che causò la caduta della dinastia dei Borboni di Napoli e l’entrata del
mezzogiorno della penisola nel Regno d’Italia.
Le truppe napoletane resistettero a lungo ai terribili bombardamenti da parte dei piemontesi anche per la
presenza della flotta francese che impediva a quella piemontese di intervenire con facilità, ma quando i
francesi decisero di ritirarsi, timorosi di essere coinvolti in un disastro irreparabile, i soldati assediati nella
fortezza rimasero abbandonati a se stessi e il bombardamento, soprattutto nell’ultimo mese, si trasformò in
una tragica guerra civile dove i napoletani non ebbero più via di scampo. Ma non furono solo le forze militariad essere coinvolte nel drammatico assedio. La popolazione civile di Gaeta non venne risparmiata e la sua
sorte non fu meno drammatica di quella dei soldati. L’artiglieria nemica, colpendo la piazzaforte, colpiva
anche le abitazioni e mieteva vittime tra i civili; molti corpi rimanevano prigionieri o sepolti tra le macerie e
soltanto a sera, cessato il fuoco, si poteva estrarli e soccorrere i feriti. Tra le vittime, con o senza nome, che
le testimonianze dell’epoca riportano, si ricordano le molte famiglie perite nella tremenda esplosione della
polveriera Sant’Antonio (5 febbraio) con oltre cento morti, tra cui una famiglia composta da 11 persone.
Anche il clero subì alcune perdite; ai primi di febbraio, in seguito alle ferite riportate per lo scoppio di una
granata, morirono rispettivamente il cappellano dell’Ospedale succursale dell’Annunziata e un canonico.
Con la resa della piazzaforte, firmata il 14 febbraio 1861 aveva compimento il più devastante e sofferto
assedio subito dalla città. Dopo più di un secolo cessava qui e nel Mezzogiorno d’Italia il tanto discusso
governo della dinastia borbonica e il tre Francesco II si allontanava per sempre verso gli Stati Pontifici a
accompagnato dalla regina Maria Sofia e dai pochi cortigiani rimastigli fedeli.
Al trionfo dei liberali rispondeva alcuni giorni dopo, quasi a calmarne gli entusiasmi, il generale Cialdini
con un suo proclama (17 febbraio) nel quale invitava gli animi a sentimenti di pietà e di realistica
considerazione: “noi combattemmo contro italiani” affermava in esso rivolgendosi ai soldati, «e questo fu
necessario, ma doloroso ufficio; perciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioia, non potrei invitarvi agli
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insultanti tripudi dei vincitori.»1 E in realtà la soddisfazione per il successo militare e politico non poteva non
confrontarsi con l’alto prezzo per esso pagato: la visione di una città devastata e ridotta a un cumulo di
macerie, conseguenza del continuo cannoneggiamento nemico e delle terribili esplosioni delle polveriere, la
sgradevole presenza in essa di centinaia di cadaveri e carogne insepolti o superficialmente inumati e il
diffondersi incontrastato delle epidemie da tifo non incoraggiavano certo a facili ed esaltanti
dimostrazioni.
IL 18 febbraio Vittorio Emanuele II nel discorso di apertura al Primo Parlamento italiano, riunito a Torino a
palazzo Carignano, già sede del Parlamento sardo, fa esplicito riferimento alla caduta di Gaeta, consolandosi
che «là si chiudeva per sempre la serie dei nostri conflitti civili» ed elogia le sue truppe, ora divenute
“pienamente italiane”, per il «nuovo titolo di gloria meritato espugnando una fortezza delle più formidabili.»2
Gaeta, una delle città più danneggiate dalla guerra, è l’espressione emblematica del momento
attraversato dal Mezzogiorno, che ha creduto di trovare nell’unità la facile valorizzazione delle sue
supposte ricchezze e scopre invece la sua arretratezza, remora al rapido sviluppo sognato dai liberali
dopo la caduta dell’assolutismo. Per l’antico reame delle Due Sicilie sono anni duri di adeguamento
ad una posizione subalterna dovuta alla carenza delle strutture ed alla impreparazione della classe
dirigente (impoverita dalle persecuzioni dopo il 1848): sono gli anni in cui si fa lentamente strada la
consapevolezza di una “questione meridionale” .
1 Ordine del giorno Cialdini del 17 febbraio 18612 I cittadini di Gaeta alla Camera dei Deputati, Napoli 1885, p. 11
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Capitolo II
Il romanzo L’Alfiere di Carlo Alianello
Romanzo di grande forza attrattiva e capacità di coinvolgimento, L’Alfiere costituisce, insieme al più
conosciuto L’eredità della priora, la migliore prova narrativa di Alianello: romanzo ricco di personaggi,
situazioni, storie intrecciate, oltre che di un linguaggio vario e corposo, giocato su una gamma di effetti
stilistici diversi, a volte solenni, a volte rapidi e incisivi e dove ogni tanto guizzano anche lampi di sottile
umorismo. Opera di largo respiro, si propone anche come documento originalissimo su un momento
essenziale, drammatico e controverso della storia del Risorgimento italiano e del Sud in particolare: la caduta
del Regno borbonico delle Due Sicilie in seguito alla spedizione garibaldina dei Mille e la sua annessione al
regno sabaudo, già costituitosi in Regno dell’Alta Italia. E’ una sorta di animatissima “commedia umana”
nella quale si mescolano vicende belliche e d’amore, recitano la loro parte piccoli eroi e traditori,
aristocratici e cafoni, cortigiani e camorristi, frati e soldati. E all’interno la Storia si umanizza: Garibaldi
diventa sulla bocca dei suoi eroi familiarmente “don Peppino”, mentre appare, agli occhi dei soldati
borbonici, protetto da un’aura quasi magica perché sembra invulnerabile alle fucilate che gli tirano addosso;
e a sua volta il re Francesco II e la regina Maria Sofia affrontano con dignità malinconica e toccante il
disfacimento del proprio regno, segnato più da tradimenti e vigliaccherie che da autentici aneliti di libertà e
sentimenti di vera italianità da parte della popolazione.
La rivoluzione liberale, le gesta dei piemontesi e di Garibaldi e le loro conseguenze nel meridione sono i
temi che appassionano Carlo Alianello in questo suo primo lavoro e che torneranno approfonditi nelle sue
opere successive.
Il corso degli eventi dalla battaglia di Calatafimi all’assedio di Gaeta (13 novembre 1860 – 13 febbraio
1861), si compie tra dubbi, crisi di coscienza, scelte di comodo, compromessi. Probabilmente il carattere
migliore del romanzo sta proprio nelle profonde contraddizioni in cui si trovano ad agire molti personaggi,
sai tra i principali, che tra quelli secondari.
Protagonista del romanzo è il giovane alfiere dei Cacciatori regi, il barone Don Giuseppe Lancia, chiamato
da tutti Pino, tormentato eroe della coerenza e dell’onore, in un mondo che sta facendo scempio sotto i suoi
occhi di valori e tradizioni umani e politici nei quali egli crede. Pino, liberale nell’animo, una volta diventato
soldato del re, (prima alfiere, quindi tenente), seguirà il suo sovrano fino alla fine, dopo averlo lealmente
servito, a dispetto di ogni convenienza e di qualsiasi logica utilitaristica in nome, soltanto, dell’onore. Onore
che egli terrà alto anche durante l’assedio di Gaeta dove si conclude drammaticamente la vicenda con la
capitolazione dell’esercito napoletano. All’obbligo morale di Pino di rimanere fedele al suo servizio, si
affianca l’obbligo altrettanto morale oltre che religioso di padre Carmelo, un frate di un convento di
Calatafimi, la cui vicenda si svolge parallela a quella del protagonista impegnato sui campi di battaglia.
Costretto a fuggire dal convento a seguito dei disordini seguiti alla battaglia di Calatafimi, padre Carmelo
inizia una sorta di pellegrinaggio in salita, giungendo prima in Calabria e quindi in Campania dove si
incontrerà prima con i soldati garibaldini ai quali si avvicinerà in un primo momento e poi con l’esercito
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napoletano e, quindi, anche con Pino Lancia e seguirà le sorti dei soldati sugli spalti di Gaeta, dove morirà
colpito da una granata mentre sta predicando contro la violenza e le barbarie della guerra. Altri personaggi
affiancano il protagonista in questa epopea storico-militare: il tenente Franco Enrico, figura umanissima,
amico fraterno di Pino, Totò, suo affezionato cugino, tenente delle guardie reali, il colonnello Polizzy,
personaggio realmente esistito, dell’8° reggimento cacciatori, Francesco II e Maria Sofia di Borbone, sovrani
del Regno Delle due Sicilie e le tre donne amate da Pino: la scontrosa e presuntuosa Renata Rodriguez, figlia
di un ex capitano della marina palermitana, la dolce e sensibile Titina, lontana cugina del protagonista e la
sensuale Ginevra, nipote della governante di casa Lancia. Amore contrastato, amore spirituale e amore
carnale sono rispettivamente rappresentati da queste tre figure femminili, la cui presenza si intercala alle
vicende militari, completando la personalità del protagonista nel suo essere uomo oltre che soldato.
Da ultimo possiamo ricordare Mimì Lecaldani, fratello di Titina, personaggio ambiguo e calcolatore, che si
arruolerà a un certo momento nel corpo dei volontari garibaldini di Nino Bixio e Filippo Monaco, giovane
spiantato, invidioso e geloso di Pino e della sua carriera di ufficiale, provocatore e istigatore di risse e di
complotti nei suoi confronti.
L’Alfiere è, quindi, la storia della fase conclusiva della seconda guerra d’Indipendenza vista dall’altra parte,
dalla parte borbonica; non però come si sarebbe portati a credere con intenti rivalutativi, ma prima di tutto
con occhio e animo umano, penetrando nel corso degli eventi come chi, credendoci, sofferse e visse lo
svolgersi dei fatti. “Perché”, disse molto bene Carlo Alianello in un intervista dell’epoca al settimanale
«Radiocorriere», «in una catastrofe politica, in una sconfitta, oltre le vere ragioni e i veri torti che non sono
mai assoluti sia da una parte che dall’altra, esiste come una specie di concorrenza, di fatalità che maturano e
sospingono verso una data conclusione perché così deve essere, così vogliono i tempi, ma non inquinano innessuna delle due parti la bellezza e il valore di una fede data.»
3Qui è tutto l’impegno letterario di Alianello,
il significato e il tessuto del suo romanzo e il suo credo storico e politico.
S.A. R. il principe D. Francesco di Borbone conte di Trapani
3 C. Falchi, In sei puntate il romanzo di Carlo Alianello L’Alfiere, in «Radiocorriere», 18 / 21 marzo 1956, p. 18
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Capitolo III
Lo sceneggiato televisivo della neonata televisione italiana
Tutto è cominciato il 3 gennaio 1954, data di inizio ufficiale delle trasmissioni televisive. Da allora il
televisore è diventato parte integrante dell’arredo domestico degli italiani: come il letto in camera o i fornelli
in cucina. L’avvento della TV segna una vera e propria cesura storica e temporale, un prima e un dopo nel
nostro paese. Grazie ad essa l’Italia si trasforma rapidamente e si modernizza nel bene e nel male. Per merito
della televisione il difficile processo di unificazione linguistica riceve un’accelerazione decisiva, che per
certi aspetti supera gli effetti dell’introduzione dell’obbligo scolastico. La veloce diffusione della televisione
sull’intero territorio nazionale, anche se nelle regioni del sud arriva tre anni dopo l’avvio dei programmi,
causa una rivoluzione culturale senza precedenti.4
Nell’ambito di questa “rivoluzione culturale” si inserisce anche un genere di spettacolo che proprio la
neonata televisione tiene a battesimo: lo sceneggiato a puntate. Molte sono le definizioni che sono state datea questa forma di intrattenimento e parecchio è stato scritto negli anni a proposito dello sceneggiato come
veicolo e trait-d’union tra testo scritto e finzione scenica, la cui popolarità acquisita fin dall’inizio coinvolse
per almeno trent’anni di produzione televisiva intere generazioni di spettatori che seguivano con interesse le
vicende di tanti personaggi catapultati da un’opera letteraria sul piccolo schermo. Oggi va per la maggiore la
parola fiction per indicare una vicenda trasmessa a puntate; alle origini della TV italiana esisteva il termine
sceneggiato, un nome tuttora ricorrente nel linguaggio comune e giornalistico. Lo sceneggiato era
essenzialmente un adattamento letterario: un racconto a puntate tratto da un’opera di narrativa già edita,
un’opera, quindi, d’autore.
Agli albori delle trasmissioni Rai esso veniva girato interamente negli studi televisivi dove erano realizzate
anche le scenografie e dove recitavano gli attori ed era trasmesso in diretta come uno spettacolo teatrale
rappresentato in quel momento su un palcoscenico. In tal senso si è parlato anche di teatro televisivo,
riferendosi non solo alla vasta produzione di commedie che la Rai realizzò nei primi anni di vita, ma anche ai
primi sceneggiati a puntate, trai quali va annoverato anche L’Alfiere diretto da Anton Giulio Majano nel
1956, il lavoro di cui vogliamo occuparci in modo specifico in questo contesto.
A partire da quegli anni pionieristici, il grande repertorio del romanzo nazionale ed europeo è stato riversato
in decine di sceneggiati o teleromanzi (altro termine entrato in uso con l’andar del tempo) destinati tutti a un
grande successo di pubblico e a ottenere una grande popolarità. Il termine teleromanzo stava appunto ad
indicare che questo genere di spettacolo era costituito in prevalenza da lavori tratti da romanzi, più che da
racconti o novelle, benchè anche qualcuna di queste ultime sia stata a volte sceneggiata in più puntate. Si
trattava, in ultima analisi, di una narrazione distesa, dai tempi lenti che dovevano coprire l’arco di alcune
puntate e, ovviamente, di origine letteraria. In tal senso lo sceneggiato si contrapponeva al telefilm di
importazione americana caratterizzato da tempi più veloci e da storie ripetitive, simile più alla fiction di oggi.
4 S. Nespolesi, Fotografie per cinquant’anni di televisione, dal sito di Rai teche: www.teche.rai.it, p. 1
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Il teleromanzo italiano degli anni cinquanta (ma sarà così anche negli anni sessanta e in parte anche settanta)
era interpretato da attori di prevalente origine teatrale e aveva una sua collocazione precisa nel palinsesto
televisivo la domenica sera sul programma nazionale della Rai, l’unico canale televisivo esistente in Italia
fino al 1961. La scansione della messa in onda delle puntate di ogni sceneggiato era, quindi, di una volta alla
settimana nel rispetto rigoroso della scadenza domenicale.
Non è superfluo ricordare che gli sceneggiati degli anni cinquanta e sessanta erano ispirati ad un intento
anche divulgativo, oltre che culturale; l’opera letteraria da cui erano tratti veniva conosciuta dai telespettatori
anche attraverso la sua trasposizione televisiva che invogliava sovente ad acquistare e a leggere il romanzo
indipendentemente dal fatto che si trattasse di un autore italiano o straniero. Non è un caso che molti libri
abbiano acquisito notorietà, grazie all’operazione televisiva che li aveva portati sul piccolo schermo; un
esempio lampante è stato quello de La cittadella di Cronin che proprio a seguito del grande successo avuto
dallo sceneggiato firmato da Anton Giulio Majano nel 1964, divenne un bestseller di primo ordine e il
lavoro televisivo continuò ad entusiasmare il pubblico anche nelle numerose repliche che si succedettero nel
corso degli anni.
La scelta sistematica in prevalenza di testi classici, la cura anche formale del linguaggio e delle scenografie,
la qualità della recitazione hanno indotto moti critici e molti studiosi a vedere in questo genere uno dei canali
principali, sicuramente il più popolare di un progetto pedagogico, elemento portante della prima televisione
italiana. Come ebbe a dire molto bene anche Franco Monteleone in un intervista televisiva: «il romanzo
sceneggiato è contestuale alla nascita della televisione italiana. E’ la forma narrativa con cui si esprime la
televisione italiana. Una formula che deriva dal romanzo d’appendice.»5 Le storie a puntate riscuotevano in
quei primi anni sempre numerosi consensi presso il pubblico, come hanno sempre rilevato i risultati delleindagini compiute dalla Rai dagli anni cinquanta a tutto il decennio del sessanta.
Da ultimo va ricordato che la duratura fortuna di questo genere di intrattenimento e il suo radicarsi nella
cultura di massa italiana non può spiegarsi senza guardare alle sue radici, più articolate e complesse di
quanto spesso si pensi6
Due fondamentalmente i generi da considerare: lo sceneggiato radiofonico approdato
in Italia nell’immediato dopoguerra a opera di Umberto Benedetto e della compagnia di prosa di Firenze, di
impostazione prettamente teatrale e, in un certo senso, la sceneggiata napoletana basata sulla dilatazione
dello spunto narrativo della canzonetta in una storia articolata con più personaggi, ma sempre ruotante su
amori contrastanti e vendette7 L’impianto rigorosamente teatrale, la scelta privilegiata di classici letterari o di
romanzi popolari dell’Ottocento, sono tutte caratteristiche del genere radiofonico che sarebbero stati ereditati
direttamente dalla televisione, arricchendosi man mano delle diverse innovazioni tecnologiche per prendere
le distanze dall’originario modello radiofonico-teatrale. Fu Sergio Pugliese, direttore dei programmi
televisivi fino al 1965, a sperimentare il trasferimento, se così si può dire, della radio in televisione, a dare
alla radio un video, mantenendo come preminente e trainante la stessa connotazione che era della radiofonia:
5 Dal programma: Il mestiere della televisione. Anton Giulio Majano, programma realizzato dal canale Rai Educational nel 1990.
6 P. Ortoleva, M. Teresa Di Marco , Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia, Electa, 2004, p. 237.7 Idem, p. 238
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il teatro. Su quel modello, peraltro, a lui congeniale, Pugliese informò la sostanza strutturale della TV .8 Ma
anche tradizioni cinematografiche, folkloriche, nazionali e regionali diventeranno gli ingredienti dello
sceneggiato televisivo che, pur mantenendo un certo rispetto del testo letterario, riprenderà una caratteristica
propria del romanzo: la capacità di assorbire in sé tutti gli aspetti della vita e della cultura9.
8 A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, 1992, p. 609 Il recente studio di Ortoleva e Di Marco riporta una significativa affermazione fatta negli anni cinquanta da Roger Caillois: Il
romanzo non ha regole. Tutto gli è permesso…Il romanzo si vede incitato dalla sua stessa indole a impegnarsi in vie sempre nuove, atrasformarsi senza posa… purchè narri può variare all’infinito il modo di narrare, p. 238. cfr. R. Caillois, La forza del romanzo,
Sellerio, Palermo 1980.
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Capitolo IV
Da Il dottor Antonio a L’Alfiere
Probabilmente poche persone oggi ricordano che il primo sceneggiato trasmesso dalla Rai nel lontano 1954
fu un Il
Dottor Antonio
, un lavoro tratto da un romanzo dello scrittore italiano Giovanni Ruffini, una vicenda
a carattere sentimentale sullo sfondo di un Risorgimento più fantasioso che reale, mandato in onda in quattro
puntate nel mese di novembre di quell’anno con la regia di Alberto Casella che ne curò anche l’adattamento
televisivo. E’ doveroso ricordare che il ruolo del personaggio protagonista fu interpretato da Luciano
Alberici, attore di teatro della compagnia di Ruggero Ruggeri, scomparso all’età di cinquantun anni nel 1973
proprio mentre recitava sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano10
. Questo sceneggiato, andato in onda
in diretta, è considerato il padre di tutti gli sceneggiati televisivi; purtroppo non venne filmato durante la
diretta e oggi rimangono solo alcune fotografie a testimonianza della sua realizzazione. La neonata
televisione non possedeva ancora la mentalità della conservazione delle proprie produzioni realizzateinteramente negli studi della Rai di Roma; il prodotto televisivo era concepito ancora come una sorta di
sperimentazione al fine di saggiare gli interessi e i gusti del pubblico per capire meglio su quali generi e
forme di spettacolo puntare. La stessa sorte toccherà al secondo sceneggiato realizzato esattamente un anno
dopo: Piccole donne tratto dal ben noto romanzo della scrittrice Louisa May Alcott, un autentico successo
che per la prima volta portava la firma di Anton Giulio Majano che con questo lavoro diede il “la” ad un
genere destinato per almeno vent’anni alla più grande popolarità. Anche qui rimangono solo delle fotografie
a testimonianza degli attori, delle scenografie e dei costumi, fedelissimi allo spirito del romanzo. Si possono
ricordare tra gli interpreti almeno Renato De Carmine, Wanda Capodoglio, Emma Danieli, un esordiente
Matteo Spinola e la rivelazione di un attore come Alberto Lupo, destinato a diventare uno dei più acclamati
divi della TV italiana negli anni successivi. Le quattro “piccole donne” erano intepretate, oltre che da Emma
Danieli, da Vira Silenti, Lea Padovani e Maresa Gallo, una giovane attrice che sarà, poi, per diversi anni la
moglie di Anton Giulio Majano, oltre che interprete di altri suoi sceneggiati11
. Siamo alla fine del 1955, la
Rai ha al suo attivo due sceneggiati il cui successo fu grande ed oggi non ancora valutato in modo definitivo
dal servizio opinioni sorto solo nel 57.
Il 1956 si apre all’insegna di un importante evento sportivo, ma anche televisivo: le olimpiadi invernali
trasmesse in diretta da Cortina d’Ampezzo dal 26 gennaio al 5 febbraio. Tre riprese dirette al giorno dedicate
alle gare più importanti in programma, tramite un vero e proprio centro di produzione completo di tutte le
attrezzature; una redazione di 5 telecronisti provvede ai commenti delle riprese, mentre lo studio per le
interviste e le rubriche sarà creato nei sotterranei dello stadio del ghiaccio di Cortina. In aprile la Rai
10 L’ultima apparizione televisiva di Luciano Alberici fu proprio nel 1973 nello sceneggiato Puccini con la regia di Sandro Bolchi,
dove l’attore, interpretava il ruolo di Tito Ricordi, ultimo discendente della ben nota famiglia fondatrice della famosa casa editricemusicale.11 L’interpretazione forse più significativa dell’attrice Maresa Gallo rimane quella del personaggio della dottoressa Hilda Barras nellosceneggiato E le stelle stanno a guardare tratto dal romanzo di Archibald Joseph Cronin, che Majano diresse nel 1971, uno degli
ultimi grandi teleromanzi della televisione in bianco e nero.
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parteciperà alla XXIV fiera di Milano per documentare l’incremento e il perfezionamento dei suoi impianti
volti a soddisfare sempre meglio le esigenze del pubblico.12
Ma l’avvenimento più sensazionale rimane sicuramente il collegamento in eurovisione da Montecarlo il 19
aprile per le nozze di Grace Kelly con il principe Ranieri di Monaco. Definito dalla stampa internazionale “il
più fiabesco matrimonio del secolo”, la cerimonia sarà seguita con un interesse mai rilevato fino a quel
momento per un fatto di cronaca; sarà questo l’ultimo grande rito mondano non ancora costruito in funzione
delle telecamere .13
In mezzo a questa apertura progressiva verso l’attualità, la Rai decide di proseguire nella sua produzione di
teatro realizzato in studio, incoraggiata dai riscontri positivi dei due anni precedenti. Numerose commedie
andranno in onda in diretta nei primi mesi del 1956 e dal mese di gennaio a giugno saranno realizzati due
nuovi sceneggiati tratti da opere letterarie; dal 12 febbraio al 4 marzo è di scena, la domenica sera alle ore
21, Cime tempestose dal romanzo di Emily Bronte con la regia di Mario Landi in quattro puntate e un cast di
attori che annovera: Massimo Girotti alla sua prima apparizione televisiva, Anna Maria Ferrero, Armando
Francioli, uno dei belli della Rai e del teatro anni cinquanta e Laura Carli, tutti già collaudati in importanti
compagnie di prosa, ma anche non digiuni di cinema. La trasposizione televisiva di questo inquietante e
affascinante libro della letteratura anglosassone avrà un buon successo di pubblico e di critica e sarà il primo
teleromanzo ad essere filmato durante la messa in onda in diretta per mezzo di un dispositivo particolare
chiamato vidigrafo. E’ quindi il primo lavoro a puntate che viene consegnato alla memoria storica e
archivistica della Rai; prova ne è il fatto che verrà replicato in registrazione prima della fine dello stesso
anno e successivamente in qualche altra occasione. L’ultima replica risale all’agosto del 1995, nell’ambito di
un ciclo trasmesso nella fascia oraria notturna su Raidue dal titolo Dal testo all’immagine. Il romanzovittoriano,dedicato ad alcuni romanzi sceneggiati di autori inglesi.
14
Un lavoro che piacque molto alla critica dell’epoca, Angelo D’Alessandro asserì che « la televisione italiana
aveva saputo affrontare con grande impegno e con grande coraggio l’ambizioso disegno di offrire ai milioni
di spettatori che essa ormai conta in Italia una riduzione televisiva del celebre romanzo della Bronte. Sono
così nati quattro spettacoli, ciascuno della durata di un’ora.»”15
E siamo finalmente arrivati al 18 marzo 1956, domenica; alle ore 21 va in onda la prima puntata del quarto
sceneggiato realizzato dalla Rai in due anni di vita: L’Alfiere dal romanzo omonimo di Carlo Alianello e con
la regia di Anton Giulio Majano che firma il suo secondo teleromanzo a distanza di quattro mesi da Piccole
donne. Suddiviso in sei puntate, proseguirà fino al 22 aprile e, fortunatamente viene anch’esso filmato con il
vidigrafo mentre va in onda in diretta dagli studi televisivi di Viale Mazzini di Roma,16
altrimenti oggi non
sarebbe conservato nei magazzini romani della Rai dove attualmente si trova. Al suo apparire, L’Alfiere
suscitò consensi e critiche di diverso genere; non a tutti piacque la visione diversa del Risorgimento italiano
12 Radiocorriere, anno 1956, in particolare il n. 1, 1 / 7 gennaio e il n. 15, 8 / 14 aprile.13 A. Grasso, Storia della televisione, Garzanti, 1997, p. 6714 Il programma aveva per titolo generale il già ricordato Percorsi nella memoria dedicato alle produzioni Rai del passato, sia per quanto riguarda sceneggiati, commedie e varietà televisivi. Cime tempestose venne riproposto dal 1 al 13 agosto 1995. cfr.
«Radiocorriere TV», annata 1995, agosto.15 A. D’Alessandro, La televisione, in «Bianco e nero», n.4, aprile 1956, p. 8716 La scheda completa de L’Alfiere è situata in appendice al presente saggio.
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che l’opera di Alianello metteva in evidenza e alla quale Majano restò fedele: un Risorgimento visto dalla
parte dei vinti e non dei vincitori. Ma proprio questa era la forza innovativa del romanzo e della sua
trasposizione televisiva; molto bene si pronunciò Ludovico Alessandrini che, valutando la produzione Rai di
quel periodo si espresse in questi termini: «In questo variegato panorama di titoli e di autori si distingue e fa
spicco in modo del tutto particolare L’Alfiere di Antono Giulio Majano che, rievocando il dramma di un
ufficiale borbonico fedele, anche nella sventura, al giuramento prestato al suo re, si carica a poco a poco di
significazioni e risvolti ideologicamente “trasgressivi. E’ il volto meno conosciuto del Risorgimento che, per
la prima volta, affiora alla superficie lattiginosa del teleschermo alla vigilia del primo centenario dell’unità
d’Italia. La televisione volta momentaneamente le spalle all’agiografia garibaldina per riaccostarsi senza
autocensure alle più antiche e sotterranee propaggini della “questione meridionale.»17
Altrettanto positivo fu
il giudizio di Renato Fillizzola che in quegli anni scriveva per «La rivista del cinematografo» il quale definì
L’Alfiere un romanzo veramente originale «perché ci racconta una guerra vittoriosa con le parole dei vinti.
Nel nostro caso si tratta della spedizione dei Mille vista con gli occhi borbonici da un alfiere che vive un
dramma interiore e si dibatte nell’alternativa di passare dall’altra parte e guadagnarsi così definitivamente
anche l’amore della ragazza dei suoi sogni oppure restare fedele alla bandiera ed al suo re che ha giurato di
servire fino in fondo. E’ un dramma di individui, un conflitto di idealità diverse che, per quanto abbiamo
finora visto, la riduzione televisiva ha reso con buona efficacia e con una tecnica narrativa che si fa sempre
più svelta e agile.»18
Il critico sottolineava che la messa in onda de L’Alfiere aveva contribuito ad un bilancio
positivo del romanzo sceneggiato per la TV, anche se si poneva la domanda sul perché si scegliessero
sempre lavori ambientati nell’Ottocento e non si tentasse di mettere in scena vicende attuali. D’altra parte
l’esito positivo dei primi due anni di programmazione aveva favorito e incoraggiato, una serie di analoghitentativi che davano alla televisione la possibilità di ricercare una propria identità stilistica e narrativa che
l’affrancasse dai condizionamenti del cinema. In tal senso il teleromanzo a soggetto ottocentesco permetteva
di ricreare negli studi televisivi il clima e la cornice ambientale della letteratura europea di quel periodo,
ampliando sensibilmente la funzione e il ruolo della scenografia televisiva che andava a ricalcare gli schemi
di quella teatrale, nel contesto di uno spettacolo che aveva, però, una sua originalità.
Anche L’Alfiere apparve sui teleschermi come una lunga vicenda di impostazione teatrale, ma con una sua
peculiare diversità: l’argomento di carattere militare in cui si innestavano scene di battaglie e di caserme, di
soldati feriti e morenti, un pullulare di uniformi, bandiere, regolamenti; il tutto andava a formare il tessuto di
uno spettacolo televisivo realizzato secondo i canoni del teatro, ma anche con un tentativo di sbocco nel
cinema. E Majano fu, anche in questo, un innovatore e un precursore del genere: non si limitò ad una regia e
ad una scenografia realizzate totalmente in studio; volle uscire all’esterno e con i pochi mezzi a disposizione,
seppe girare alcune scene in esterni che ancora oggi restano, pur nella loro brevità, dei piccoli capolavori di
regia cinematografica finalizzata alla televisione. Centinaia di comparse vennero utilizzate per le scene di
massa, in particolare quelle che descrivono le battaglie delle quali parleremo tra breve e vennero ricostruiti
17 L. Alessandrini, Lo sceneggiato televisivo e i suoi itinerari, in R. Zaccaria (a cura di), Rai. La televisione che cambia, SEI, Torino
1984, p. 204
18 R. Fillizzola, Quattro romanzi, in «La rivista del cinematografo», aprile 1956, p. 29
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sul modello originale le uniformi dell’esercito napoletano del 1860 e le armi da fuoco ad avancarica in uso
durante le guerre risorgimentali. Un’operazione quasi impensabile per quell’epoca se consideriamo l’esiguità
di mezzi a disposizione e i costi elevati della macchine da presa, oltre naturalmente a quelli della
realizzazione di scenografie e costumi.
Oreste De Fornari, studioso e appassionato di teleromanzi, sintetizzando l’insieme dei tanti personaggi che
appaiono ne L’Alfiere, parlò di «anime belle e soldati tutti d’un pezzo accanto ai quali si muovono generali
cinici e fanciulle evanescenti», riferimento quest’ultimo alle tre protagoniste femminili impersonate da
Emma Danieli, Ilaria Occhini e Maria Fiore.19
Definizione perfetta per un mondo così variegato di figure
coinvolte in questo affresco storico sul processo di unificazione nazionale. Uno sceneggiato che, come il
romanzo da cui è tratto, ci descrive le aspirazioni, le perplessità, le contraddizioni e le crisi esistenziali di
un’umanità che deve misurarsi con l’evoluzione di un’epoca alla quale non è possibile sottrarsi, ma solo, alla
fine, rassegnarsi.
Un fotogramma dello sceneggiato Ottocento con la regia di Anton Giulio Majano trattodall’omonimo romanzo storico di Salvatore Gotta
19 O. De Fornari , Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato TV , Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1990
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Capitolo V
Sceneggiatura e argomento storico
«Ho sentito che voi cercate la libertà e anche io la cerco. E che la andate seguendo per terra e per mare. E
questo è bene. Ma a voi par di essere, fra tutti, i soli, i buoni, i giusti, e di far cosa nuova, cosa pregiata.
Invece no: tutti al mondo cercano la libertà. Solo non tutti a un modo……»20
Queste parole di frate Carmelo a un gruppo di garibaldini nella parte iniziale del romanzo di Alianello,
valgono meglio forse di tante altre a spiegare il significato e il tessuto di questa grande epopea storica e il
messaggio che l’autore e il regista vollero rendere visibile, adattandola insieme per lo schermo televisivo. In
un’epoca, quella degli anni cinquanta, in cui era ancora vivo e vicino in molti italiani il ricordo cruento
dell’ultimo conflitto mondiale, il mettere in scena una vicenda in cui la guerra la fa da protagonista poteva
essere anche rischioso, se fosse venuta a mancare l’intenzione di creare un’opera televisiva che voleva fare
memoria di eventi cruenti della nostra storia italiana per invitare lo spettatore ad una riflessione su valori e
ideali validi in ogni tempo e quindi anche in quegli anni post bellici in cui la neonata TV si proponeva la
missione educativa della massa al consolidamento di quei valori. In tal senso la scelta di un romanzo come
L’Alfiere fu pienamente azzeccata e Anton Giulio Majano nella sua riduzione per il piccolo schermo vi mise
tutto il suo impegno, insistendo sullo spirito della vicenda: l’onore militare, la fedeltà alla parola data, il
desiderio di fratellanza di un popolo, la costruzione di una nazione, tutti valori che anche attraverso la dura
esperienza di una guerra si possono recuperare o realizzare.
Sergio Pugliese, direttore centrale dei programmi televisivi negli anni cinquanta, sosteneva che il mezzo
televisivo potesse contribuire all’educazione del paese inserendo piccole dosi di cultura nella
programmazione.21
Pugliese era certamente interprete di quei modelli culturali rispondenti al moderatismo
cattolico e al conservatorismo liberale che caratterizzavano il panorama politico di quegli anni, e il suo agire
portò con sicurezza la programmazione televisiva verso una finalità educativa che era trasmissione di valori e
di insegnamenti, convogliando sempre più masse di pubblico verso forme spettacolari e di documentazione
sempre migliori e di qualità. In tal senso anche le riflessioni storiche presenti in un romanzo come L’Alfiere e
ben evidenziate anche nella sua trasposizione televisiva diventarono in quel momento strumento idoneo ad
un discorso educativo e insieme culturale.
L’aderenza al dato storico, inteso nei suoi molteplici aspetti, venne rispettato dal regista e dai suoi
collaboratori, come del resto era già presente nel romanzo di Alianello. Così le uniformi dei soldati
napoletani, le armi da fuoco che appaiono in alcune sequenze, le grandiose ricostruzioni di determinati
ambienti realizzate negli studi televisivi, casermatte dell’esercito, sale del palazzo reale di Napoli e di quello
in cui vive la famiglia dell’alfiere, tutto è riportato alla più vicina fedeltà alla realtà storica attraverso uno
studio attento dei vari elementi. Le uniformi dell’8° reggimento cacciatori al quale appartiene Pino Lancia,
inquadrato nella fanteria di linea dell’esercito napoletano, sono ricostruite secondo il modello originale in
20 C. Alianello, L’Alfiere, Osanna Edizioni, Napoli, 200021 La affermazione è riportata anche in C. Ferretti, B. Scaramucci, Mamma Rai, Le Monnier 1977, p. 122
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uso nel 1860. Così gli attori Fabrizio Mioni, Achille Millo e Corrado Annicelli, dovendo impersonare degli
ufficiali dell’esercito, indossano l’abito a falde di panno chiamato giamberga22
ad un solo petto di colore blu
scuro e chiuso da nove bottoni e i pantaloni di un colore più chiaro, tendente al grigio, mentre tutti gli
accessori comprese le spalline da ufficiale sono di colore giallo dorato o d’argento. Il copricapo è invece il
cosiddetto shakot a forma tronco-conica di feltro nero, con visiera e guarnizioni di cuoio nero. In alcune
scene viene sostituito da un berretto piccolo con visiera chiamato berretto di fatica che veniva indossato
quando gli ufficiali non erano sul campo di battaglia. L’attore Carlo Giuffrè indossa la bellissima uniforme di
ussero della guardia reale che prevedeva una giubba corta di colore blu, pantaloni grigio chiaro e shakot
rosso piumato. Caratteristica di tutti gli ufficiali era quella di portare una cravatta di cuoio nero chiusa
intorno al collo e una goletta di metallo applicata al collo dell’abito sulla quale erano impressi i simboli del
reparto militare di appartenenza: nel caso dei cacciatori regi il simbolo erano due cornette incrociate. Il
costumista Fausto Saroli sicuramente con la supervisione di Majano seppe ricostruire tutto questo anche
analizzando testi di storia militare e qualche sequenza di film precedenti, in particolare 1860 di Blasetti che
per diversi aspetti si avvicina a L’Alfiere.
Le uniformi dell’esercito del Regno delle Due Sicilie sono state definite eleganti e lussuose, potremmo dire,
sfarzose. D’altronde non poteva essere diversamente se si pensa che a Napoli in tutte le manifestazioni e gli
avvenimenti più importanti dell’epoca, la presenza dei militari era insostituibile. Valga per tutte l’esempio
della celebre festa di Piedigrotta (citata tra l’altro anche ne L’Alfiere): un’autentica kermesse militare sotto
parvenze religiose. Se si considera poi che in nessun altra organizzazione dello Stato come in quella militare,
la forma è anche sostanza, l’esercito napoletano può essere storicamente ritenuto un valido e affidabile
strumento di guerra. Questo a prescindere dalle sconfitte subite durante la guerra del 1860 e dalle disastrose battaglie narrate e menzionate nel romanzo di Alianello. Uno strumento militare, ancorché valido, spesso può
essere suscettibile di sfortune per una serie di fattori che non sono da imputare necessariamente a carenze
strutturali, a mediocre preparazione e a scarsa organizzazione. Tuttavia, le infauste vicende dell’esercito
napoletano sono da riportare alla mancanza o carenza di vertici militari autorevoli, motivati o capaci di
convogliare le potenzialità ed il valore delle diverse unità verso obiettivi chiari, perseguibili ed importanti.
Così nell’ Alfiere televisivo sono presenti alcune scene, già inserite anche nel libro, in cui vengono citati
ufficiali dell’esercito che non hanno saputo portare a termine il loro compito e hanno battuto in ritirata troppo
presto. Nella prima puntata, nella sequenza dello scontro sul campanile del Duomo di Palermo, il tenente
Franco riferisce a Pino che il generale Lanza ha preparato i piani di ritirata su Messina, obbligando il plotone
ad abbandonare la città. Un’azione che fa sospettare anche una sorta di tradimento. «Qualcuno di quelli che
comandano non vuol dare un dispiacere ai suoi amici liberali. Misteri dello Stato Maggiore!»23
Così si
esprime Franco, confidandosi con l’amico, mentre infuria il combattimento sulla balconata del campanile.
Sempre nella prima puntata nella scena in casa del colonnello Rodriguez, padre della bella Renata, il
colonnello e Pino discutono sullo stato d’assedio di Palermo e della battaglia di Calatafimi di cui alcuni
22 Il termine giamberga deriva dallo spagnolo ed era già in uso alla fine del XVII secolo.23 Lanza Ferdinando: generale borbonico. Nel 1860, ottenuto il comando in capo dell’esercito in Sicilia, non potè resistere alla marciatravolgente dei garibaldini su Palermo e dovette proporre un armistizio il 28 maggio che fu prorogato fino all’8 giugno, data della
capitolazione di Palermo.
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giornali hanno dato la falsa notizia circa la vittoria dell’esercito borbonico. Pino definisce la battaglia un
fatto d’armi di esito incerto, Rodirguez incolpa il generale Landi24
della sconfitta definendolo un mascalzone,
pauroso e disgraziato.«Non ci sono veri generali, ma impiegati e gente di corte che mira solo alla carriera.»
Pino sostiene che i soldati comunque si sono battuti bene. E ancora al termine della seconda puntata, il padre
di Pino si accomiata dal figlio per recarsi a Roma, dove spera di fare affidamento sul Santo Padre, il papa Pio
IX, sicuramente fedele alla causa borbonica. «Il Santo Padre può darci una mano. Lui un generale l’avrebbe:
il generale Lemorciere!»25
E nella stessa puntata, nella scena in cui Pino incontra il cugino Totò all’interno di
un caffè di Toledo, Totò accenna al generale Nunziante26
che si sta allontanando dall’esercito borbonico e
manifesta simpatie verso i liberali e i rivoltosi; accenna al conte d’Aquila, al conte di Siracusa che gridano
“viva Garibaldi” ma non sanno cos’è la costituzione. Sempre all’interno della seconda puntata si accenna
ancora al generale Nunziante nella scena in cui Pino riceve dal padre la lettera di nomina a secondo tenente
concessa proprio dallo stesso generale. Pino comunicherà poi al padre di essersi recato al comando militare
di Napoli a ringraziare per la nomina, ma il generale Nunziante non lo ha voluto ricevere, segno questo della
sua decisione ormai maturata di staccarsi dall’esercito napoletano. Nella quinta puntata, nella scena in cui gli
ufficiali napoletani fanno prigionieri alcuni garibaldini dopo lo scontro di Caiazzo, compare un altro
personaggio storico: il generale Giovanni Battista Cattabeni, comandante del corpo volontari dei Cacciatori
di Bologna, uno dei tanti corpi di cui era formato l’esercito garibaldino. Anche lui viene fatto prigioniero e
Majano ce lo presenta attraverso poche battute come un ufficiale dotato di grande umiltà che sa accettare la
propria sorte di sconfitto e di prigioniero di guerra con un forte senso di dignità, nel pronunciare le parole:
“mi arrendo al più forte”27
Un ultimo esempio, questa volta positivo, lo troviamo al termine della quinta p
iuntata, quando Pino, giunto con il suo plotone alla cosiddetta Torre d’Argento, zona diroccata in prossimitàdi Capua, ricorda il sacrificio del capitano Bozzelli che si è fatto ammazzare con tutta la compagnia del 6°
reggimento cacciatori per bloccare l’avanzata dell’esercito piemontese. «Tutti si ricorderanno un giorno del
capitano Bozzelli che fermò un esercito!» Tutti gli esempi che abbiamo fin qui citato si riferiscono a
personaggi reali, il che contribuisce alla veridicità storica del romanzo che anche nella performance
televisiva non vuole perdere questa connotazione. Interessanti sono, poi, le inquadrature in sovraimpressione
di alcune testate di giornali dell’epoca; così nella quinta puntata vediamo la testata del giornale delle Due
Sicilie, mentre una voce esterna annuncia che l’esercito prende posizione sul Garigliano e subito dopo appare
la testata della Gazzetta di Genova e un’altra voce annuncia la rotta borbonica sul Volturno e la marcia
24 Landi Francesco, generale borbonico agli ordini del duca di Castelcicala, ebbe parte importante nello scontro tra napoletani egaribaldini a Calatafimi. Accusato dai suoi superiori di essersi venduto a Garibaldi, ne fu scagionato dallo stesso generale in unalettera indirizzata diversi mesi dopo al figlio Michele Landi desideroso di riabilitare la memoria del padre.25 Lamorciere Cristoforo Luigi Leone. Il suo nome è legato principalmente alla battaglia di Castelfidardo e all’assedio di Ancona,momenti cruciali che portarono all’unione delle province pontificie delle Marche al regno d’Italia. Nel 1860 fu chiamato dal governo
romano ad assumere il comando di un esercito scarso di numero e vario di provenienza, compito in cui mostrò le sue doti diorganizzatore di cui rimangono tracce nei documenti dell’antico ministero delle armi conservati all’Archivio di Stato di Roma.26 Nunziante Alessandro. Fino al 1860 militò nell’esercito delle Due Sicilie dove fu tenente colonnello d fanteria, comandante la brigata cacciatori, aiutante generale del re e maresciallo di campo. Nel luglio dello stesso anno chiese le dimissioni e nel mese di
novembre fu nominato luogotenente generale nell’esercito italiano e membro del comitato di fanteria e cavalleria.27 Cattabeni Giovan Battista si difese con coraggio durante l’occupazione di Caiazzo a opera del generale borbonico Turr, fu ferito e
ricoverato al vescovado da dove fu poi tradotto con gli altri prigionieri a Capua. Garibaldi lo promosse successivamente colonnello.
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dell’esercito italiano sul Garigliano. Sotto le due testate giornalistiche si vedono sfilare reparti di cavalleria
delle truppe borboniche lungo strade tortuose: è una sequenza presa dal film 1860 di Blasetti.
Non può mancare un cenno alla figura di Garibaldi che non compare mai nello sceneggiato, ma tutti parlano
di lui nel bene e nel male; egli è, si può dire, sulla bocca di tutti. Pino Lancia si irrigidisce in un
atteggiamento di rifiuto ogni volta che ne sente parlare; egli vede in Garibaldi l’uomo che vuole spodestare il
suo re e l’attore Fabrizio Mioni è molto abile nel dimostrare questo senso di refrattarietà e di allontanamento
da un personaggio che non può né stimare, né venerare, come fanno molti altri. C’è chi ne parla con ironia,
un esempio è il colonnello Rodriguez che guarda il corso irreversibile dei fatti con un certo acume e quando
parla di Garibaldi ammicca agli aneliti di libertà e di indipendenza che egli rappresenta, ma lo fa anche per
provocare bonariamente Pino. Ma se ne parla anche come di un uomo che sa il fatto suo: nella già citata
scena al caffè di Toledo, Totò dirà a Pino con molto realismo: «Garibaldi? Quello sì che è un uomo, quello ci
ha fatto fessi tutti quanti!» Alcuni personaggi smaniano dalla voglia di vederlo: la bella Ginevra nella quarta
puntata vuole andare in corteo dietro a lui appena giunge la notizia del suo arrivo a Napoli; la zia Rosa,
governante in casa di Pino, ne parla come di un assistito dagli spiriti, una persona di cui bisogna sempre
parlare bene, altrimenti accadono guai seri; Renata vede il lui la voce dei tempi nuovi; i giovani rivoluzionari
della Basilicata che Pino incontra nella terza puntata credono nelle sue gesta di presunto eroe, più che negli
ideali che rappresenta. Un Garibaldi, quindi, che fa da sfondo a tutta la vicenda, che incombe con la sua
presenza benefica o malefica, secondo i casi, ma alla quale nessuno può sfuggire perché la storia deve
seguire il suo corso. Qui sta la modernità del romanzo e dell’esperimento tentato dalla Rai con l’allestimento
televisivo; non la celebrazione del Risorgimento nazionale, ma le contraddizioni e le sofferenze di un mondo
che sta per crollare e che non ha più la forza di risollevarsi, di un esercito che, come ricorderà ancora Totò inuna sequenza della quarta puntata, “è diventato il servitore di un trono fradicio.” Dovranno passare
ventiquattro anni, prima che i problemi della conquista del meridione ritornino alla ribalta televisiva con
l’altro sceneggiato diretto da Majano L’eredità della priora sempre di Alienello nel 1980 e successivamente
con una grande serata storica proposta dalla prima rete della Rai nel 1982 dal titolo Serata Garibaldi, una
trasmissione che si proponeva di mettere in discussione il personaggio tanto decantato dai libri di scuola e da
una tradizione storiografica troppo scontata, per domandarsi se Garibaldi fosse stato realmente un
condottiero o soltanto un avventuriero esperto di guerriglia, ma incapace di strategie. Un programma che si
proponeva di staccare per una sera da una simbolica parete il bel ritratto del generale nizzardo e provare a
guardarlo con uno spirito più critico e meno compiaciuto, rispetto a quanto si era sempre fatto nell’arco di
molti anni.
In quell’occasione Garibaldi venne definito da Indro Montanelli un avventuroso dotato di straordinario
coraggio e forte intuito, ma un pessimo politico, un personaggio a cui avevano nuociuto i suoi stessi
divinizzatori che ne avevano fatto un dio. E parlando della ben nota battaglia del Volturno, che ne L’Alfiere
rimane sullo sfondo, il generale Ambrogio Viviani, noto studioso di storia militare, definì Garibaldi un abile
stratega che aveva saputo esplorare e studiare il terreno della battaglia, disponendo sul campo le forze in
posizione decisamente vantaggiosa rispetto a quelle borboniche. La televisione ha parlato di Garibaldi in
molte altre occasioni; non si può non ricordare anche il film tv a puntate Il giovane Garibaldi del 1974 con la
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regia di che si proponeva uno studio attento e non romanzato del periodo sudamericano di questo ribelle
condottiero, ricostruendo nel modo più fedele le dinamiche di quelle prime battaglie e l’evolversi della sua
mentalità di uomo libero, indifferente a qualsiasi forma di governo e a qualunque legge, ma solo desideroso
di indipendenza, prima di tutto personale.
Si può, quindi, affermare che L’Alfiere fu la prima occasione televisiva in cui si parlò di un personaggio che
fino ad allora solo il cinema aveva trattato secondo gli schemi più enfatizzanti e apologetici e il cui ritratto di
eroe infallibile nessuno aveva mai tentato di staccare dalle pareti un po’polverose di un Risorgimento
enfattizzato..
E se le vittorie garibaldine sono il segno più evidente di un percorso storico irreversibile e di una tattica
militare che i soldati napoletani non erano più in grado di recuperare, pure nel romanzo di Alianello questi
ultimi hanno un loro riscatto che si identifica nella loro fedeltà al trono che servono e nel radicato senso del
dovere. Sugli spalti di Gaeta, dove si conclude la vicenda, l’esercito napoletano, benchè privo di buoni
comandanti, aveva salvato l’onore delle armi. Come ebbe a scrivere anche Benedetto Croce, «è doveroso
inchinarsi alla memoria di quegli estremi difensori, tra i quali erano nobili spiriti che nel 48 erano andati alla
difesa di Venezia, ma nel 60 non seppero staccarsi dalla bandiera del loro reggimento e come italiani
cadevano uccisi in combattimento contro italiani.»28
Sarà poi il generale piemontese Enrico Cialdini,
protagonista alquanto discusso dei bombardamenti sulla fortezza di Gaeta per più di novanta giorni, a
scrivere una sorta di epitaffio in commemorazione dei caduti di quel tremendo assedio da lui stesso voluto,
dove ricordava che di fronte alla morte si placano le discordie umane e “gli isitinti” (i defunti) sono tutti
uguali agli occhi dei generosi. «Le ire nostre non sanno sopravvivere alla pugna. Il soldato di Vittorio
Emanuele combatte e perdona.»29
Al di là della evidente retorica di questa affermazione che stride serapportata al suo autore, rimane valido il senso di pietà umana che essa può suscitare verso chi è caduto e ha
perduto nel compiere il proprio dovere.
Ne L’Alfiere compaiono anche gli ultimi sovrani di Napoli: Francesco II e Maria Sofia di Baviera. Anton
Giulio Majano concede ad essi uno spazio maggiore di quello che hanno nel libro di Alianello, li
contestualizza meglio nella vicenda del protagonista e in quella storica della caduta del Regno Delle Due
Sicilie, rendendoli commentatori riflessivi di quanto accade sotto i loro occhi e artefici di sagge decisioni.
Sappiamo che Majano amava inventarsi anche scene e situazioni che non si ritrovavano nelle opere letterarie
da cui traeva i suoi sceneggiati, ma sapeva farlo con una logica che rispettava sempre la trama della vicenda
originale. Trattandosi in questo caso anche di personaggi storici, egli è attento a lasciarli in quella loro
dimensione che il copione dello sceneggiato tiene sempre d’occhio.
Rimane, però, di fatto che il vero protagonista di tutto l’intreccio della vicenda è il soldato napoletano
incarnato non solo nel personaggio di Pino Lancia, ma anche in tutti i suoi commilitoni, siano essi ufficiali o
semplici fanti. Nessuno sfugge all’occhio vigile del regista che sa trasfondere in ognuno la propria piccola
28 Il passo è riportato nel volume: C. Annicelli, L’unità d’Italia. Albo di immagini. 1859-1860, ERI, Rai Radiotelevisione italiana,1961, p. 14. La pubblicazione di questo pregevole volume avvenne in occasione del centenario dell’unificazione nazionale.29 Idem, p. 316
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connotazione storica di soldato fedele. Ne L’Alfiere di Majano, quindi, il soldato napoletano ritrova il suo
giusto riscatto.
Come ebbe a scrivere nel 1856 il generale napoletano Carlo Mezzacapo, «il soldato napoletano è vivace,
intelligente, ardito ed in uno assai immaginoso; e però facile ad esaltarsi e correre alle imprese più
arrischiate, ma pur facile a scorarsi. Si sottomette agevolmente alla disciplina, allorché questa muova da un
potere giusto, forte e costante.»30
Se il personaggio di Pino Lancia ne L’Alfiere possiede queste
caratteristiche, bisogna riconoscere che Carlo Alianello e Anton Giulio Majano seppero creare la figura di un
soldato che ha tutte le carte in regola per essere simbolo di tanti giovani napoletani di quell’esercito
borbonico che lottarono fra tante contraddizioni nella difesa di una causa, forse perduta in partenza, ma alla
quale avevano giurato assoluta fedeltà e creduto fino in fondo.
Ufficiale superiore dei Battaglioni Cacciatori 6° Battaglione Cacciatori. Ufficiale in gran tenuta
(a sin.), ufficiale in tenuta giornaliera.
30 «Rivista militare», anno I, vol. I, Torino 1856, relazione del generale Carlo Mezzacapo
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Capitolo VI
Immagini e sequenze
Le brevi cronache dell’epoca riportate sull’annata del Radiocorriere del 1956, ricordano che per poter
avvicinare qualcuno allo studio 2 di Viale Mazzini nei giorni di prova delle diverse scene de L’Alfiere era
necessario aspettare le nove di sera. Fino a quell’ora una folla di personaggi circolava per corridoi e sale
frettolosa e nervosa. Facce note, o meno note, conosciute attraverso il palcoscenico o qualche rivista dedicata
alle promesse e alle speranze del cinema e della televisione; tutti a quell’ora uscivano alla spicciolata stanchi
e provati dalle lunghe ore trascorse sotto i riflettori delle telecamere, in mezzo a copioni, costumi e
scenografie. Anton Giulio Majano usciva sempre per ultimo; l’assistente di studio Fulvio Sarti spegneva le
luci in sala regia e insieme facevano il punto dei lunghi pomeriggi in cui si era provato ininterrottamente
dalle ore quattordici.
Se si fosse trattato di girare un film, sarebbe stato ancora abbastanza semplice. Ma la televisione, si sa, non è
cinema. Agli inserti filmati si può ricorrere solo con molta prudenza e parsimonia per evitare una
contaminazione che non soddisferebbe lo spettatore del cinema e non piacerebbe a quello della TV. Si era
partiti, è vero, con tutta la troupe alla volta di Gaeta, dal momento che ricostruire la fortezza in studio era
impresa impossibile per non dire cervellotica e lì si erano realizzate le scene di massa che costituiscono la
parte finale dello sceneggiato: le brevi sequenze della fase conclusiva dell’assedio di Gaeta in cui i soldati
borbonici tentano l’ultima disperata resistenza contro le truppe piemontesi. Ma il nodo centrale del racconto,
lo svolgersi della vicenda di Pino Lancia, di Frate Carmelo e della bella Renata è stato portato tutto in studio,
ripreso per intero in trecento metri quadrati che era quanto consentivano gli ambienti della TV romana a
quell’epoca. Da qui lo sforzo della sceneggiatura fatta da Majano e da Alianello insieme, per ridurre la
complessità della vicenda entro gli argini della versione televisiva. E da qui lo sforzo non minore degli
scenografi, in particolare dello scenografo Emilio Voglino, che dovettero attrezzare di settimana in settimana
lo studio con sette o otto ambienti completamente diversi, a seconda che il procedere del racconto ogni volta
richiedeva. A questo si doveva aggiungere la falange degli attori che furono la bellezza di settantacinque tra
principali e secondari, elemento che contribuì a fare de L’Alfiere un lavoro inedito, un vero kolossal
televisivo mai tentato prima. Gli autori della riduzione non cedettero davanti ala folla di personaggi del
romanzo e non vollero escludere nemmeno quelli di minore importanza pur di non tradire lo spirito
dell’opera. E quando alla fine, contando i nomi presenti nella sceneggiatura, ci si accorse che erano
settantacinque, si volle quel preciso numero di attori per interpretarne i vari ruoli. Per tutta la durata delle
prove, che proseguirono almeno per cinque settimane, Majano fece muovere un tal numero di persone per
questo teleromanzo fiume, senza contare le comparse.
Il risultato di tutto questo sforzo? Nel 1956 non fu facile definirlo subito; L’Alfiere seguiva di pochi mesi il
grande successo di Piccole donne, ma era un romanzo di tutt’altro assunto e di diverso respiro che non
apparteneva al genere di letture per ragazzine di buona famiglia, né stimolava ricordi di adolescenza o di banchi di scuola. A tredici anni dalla pubblicazione del romanzo di Alianello, la riduzione televisiva del 56
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poteva essere un atto di riconoscimento verso quello che una parte della critica letteraria di allora giudicava
uno dei più significativi romanzi italiani contemporanei e che gran parte del pubblico non conosceva solo
perché ebbe la sfortuna di apparire in un periodo, il 1943, in cui poca gente poteva prendersi il lusso di
interessarsi ai fatti letterari a causa del conflitto bellico in corso.
Realizzato con tutti i mezzi e le risorse possibili per quell’epoca, L’Alfiere rimane da un lato anche un
progetto ambizioso, emblema illuminante dei modi e degli intenti con cui la televisione italiana concepiva lo
sceneggiato da opere letterarie e, dall’altro, il riuscito tentativo di rinnovarne i canoni.
Se si volesse fare un’analisi delle sei puntate che lo compongono, si dovrebbe analizzare la vicenda sequenza
per sequenza, cosa non fattibile in quanto richiederebbe pagine e pagine di descrizione.
Ci limiteremo ad alcuni momenti tra quelli più significativi che meglio mettono in evidenza le capacità
registiche di Majano, l’accurattezza delle scenografie e i gli aspetti più salienti del romanzo.
Un’analisi attenta de L’Alfiere non può prescindere dal discorso del montaggio in diretta di cui Majano fu un
felice precursore; le singole puntate, come ricordato, erano trasmesse in diretta e filmate con il vidigrafo e
nella diretta venivano mandate in onda alcune scene precedentemente girate all’aperto e montate su pellicola
per essere poi inserite all’interno di ogni puntata nel momento preciso in cui lo svolgimento della vicenda lo
richiedeva. Fu questo un esperimento all’avanguardia per la televisione di quel tempo, in cui per la prima
volta veniva tentata una fusione tra teatro televisivo e azione filmata.
Così all’inizio della prima puntata, mentre scorrono i titoli di testa, Majano inserì la scena della battaglia di
Calatafimi presa pari pari dal film 1860 di Alessandro Blasetti, regista conosciuto e stimato dal nostro, il
quale, evidentemente con il pieno consenso dell’illustre collega, potè compiere un’operazione di questo tipo.
Lo spettatore si trova, quindi di fronte ad una sequenza cinematografica vera e propria che lo proietta già inuna nuova dimensione di concepire lo sceneggiato televisivo. E’ una sequenza di cinque minuti commentata
da un accompagnamento musicale composto dal maestro Riz Ortolani31
; una sorta di musica tormentata,
quasi spasmodica che vuole sottolineare l’impeto cruento della battaglia. Ritroveremo lo stesso tema
musicale, su scala ridotta, nella scena dello scontro di Caiazzo nella quinta puntata. Blasetti credeva
nell’importanza della musica al punto da identificare le leggi del racconto cinematografico con quelle del
discorso musicale; «tutto ricade sotto le leggi del ritmo, dei volumi, dei toni che sono le leggi dell’armonia e
dunque della musica.»32
La scena della battaglia di Calatafimi è di un realismo impressionante, se si pensa
che il film di Blasetti risale al 1934; il regista aveva saputo mettere in risalto lo scontro a fuoco tra soldati
borbonici e garibaldini attraverso lunghe carellate e riprese a tutto campo che preludevano la tecnica e lo stile
del futuro cinema neorealista e forse proprio questo aspetto era piaciuto a Majano. All’accompagnamento
musicale di Riz Ortolani si sovrappongono gli spari dei cannoni e dei fucili che creano in tal modo una sorta
di mixage felicissimo.
Tutta la prima parte di questa prima puntata de L’Alfiere presenta un’impostazione più cinematografica, che
teatrale; le prime scene girate in studio che vogliono rappresentare il paese siculo di Partinico dove i soldati
31 Tutta la colonna sonora dello sceneggiato è stata composta dal maestro Ortolani che curò diverse produzioni televisive di Majano
anche negli anni successivi.32 Il Risorgimento in pellicola, Cinemazero, atti a cura di Davide Del Duca, I.R.R.S.A.E, 1998, p. 60
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napoletani, dopo la sconfitta di Calatafimi vengono attaccati dalla popolazione è su una lunghezza d’onda
decisamente cinematografica. E’ una sequenza praticamente inventata da Majano e da Alianello che vuole
evidenziare l’ostilità e la diffidenza della popolazione contadina verso il soldato napoletano e i due
personaggi che vi appaiono ricordano certe figure di contadini delle novelle rusticane di Verga. La
scenografia realizzata in studio rende benissimo l’idea di un borgo contadino della Sicilia e l’atmosfera che
si respira all’interno ricorda alcuni film come il già citato 1860 di Blasetti e Il brigante di Tacca del lupo di
Pietro Germi. La finestra della casa dei contadini ripresa in primo piano da l’impressione che dietro vi sia un
interno; in realtà c’è solo la finestra, l’interno della casa è ricostruita in un altro punto dello studio televisivo.
Ricorda l’attore Achille Millo: «sembrava che i contadini guardassero in lontananza da quella finestra, in
realtà davanti a loro c’erano solo le telecamere posizionate a pochi metri.» Mentre una telecamera riprende
nei particolari l’ambiente ricostruito, si ode una voce maschile che intona una cantilena di sapore locale
accompagnata dalla chitarra. Quindi una seconda telecamera posta in un altro spazio dello studio televisivo
riprende l’interno della casa dei due contadini dall’arredamento spoglio, ma essenziale. L’arrivo dei soldati
napoletani ripresi dapprima di spalle è movimentato e di sicuro impatto drammatico. Le due telecamere
continuano ad alternarsi tra le riprese all’interno e all’esterno della casa, il linguaggio dei personaggi è
serrato e concitato, l’attore Fabrizio Mioni nel ruolo dell’alfiere Pino Lancia si muove con disinvoltura e si
pone subito al centro di una scena in cui appaiono già molti personaggi e diverse comparse che compongono
il reggimento di fanteria da lui guidato. La tensione creata dall’azione movimentata e dall’interrogatorio a
cui i due contadini sono sottoposti soprattutto dopo l’arrivo del tenente Franco Enrico interpretato da Achille
Millo è di un verismo magistrale che unisce ancor più felicemente la teatralità televisiva all’azione
cinematografica. Al momento dell’arrivo di Franco, i soldati appostati nel giardino della casa attendono ilsegnale della regia per fare il saluto militare al loro tenente; i loro sguardi sono chiaramente indirizzati alle
telecamere per coglierne il segnale al momento esatto. Anche questo faceva parte del bello della messa in
onda in diretta. Majano alterna le inquadrature di insieme del plotone militare con dei bellissimi primi piani
sui due attori Mioni e Millo che già in questa prima mezz’ora della prima puntata emergono come gli
interpreti dei personaggi-eroi della vicenda. Si odono, quindi, degli spari provenienti dall’esterno; la
guerriglia fratricida continua e la scena si rianima con i movimenti frenetici della truppa che si appresta a
organizzare la difesa. Un’abile dissolvenza incrociata che apre la scena successiva chiude questa prima
grande sequenza a carattere militaresco. Il regista adotta sovente la tecnica della dissolvenza incrociata lungo
tutto l’arco delle sei puntate di questo sceneggiato; è sicuramente una tecnica di grande utilità nella ripresa in
diretta e nel passaggio da un ambiente ricostruito nello studio televisivo ad un altro attiguo. Inoltre
permetteva allo spettatore di seguire lo svolgimento del racconto in modo più continuativo e serrato,
soprattutto quando nella scena successiva dovevano subentrare personaggi nuovi e un tipo di ambiente
nuovo.
La prima puntata di questo kolossal storico-risorgimentale si conclude con la scena del combattimento tra
soldati napoletani e garibaldini all’interno del campanile del Duomo di Palermo.
L’episodio avvenne storicamente il 29 maggio del 1860 e fu un breve successo per l’esercito napoletano che
si prese una piccola rivincita dopo lo scacco di Calatafimi, scacciando i garibaldini che avevano occupato il
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campanile della cattedrale, benchè tra morti e feriti si trattò di una specie di massacro. E’ la prima grande
scena di scontro militare che troviamo nello sceneggiato ed è interamento girata e ricostruita in studio. E’
una lunga sequenza di impianto teatrale dove Anton Giulio Majano con il supporto di Alianello mette in atto
la sua maestria di regista televisivo, senza mai perdere di vista il cinema di Blasetti e di Piero Nelli.33
Tutta
l’azione è concentrata sul parapetto del campanile al quale si accede per una scala esterna che si intravede
solo per un attimo.
I soldati inscenano lo scontro a fuoco con armi ad avancarica ricostruite che sparano solo con la capsula
senza la polvere da sparo in quanto quest’ultima avrebbe creato davanti alle telecamere molto vicine nuvole
di polvere in quantità tale che sullo schermo televisivo sarebbe apparso solo un gran polverone e null’altro.
Ciò non toglie nulla, però, all’efficacia della scena alimentata anche da voci e rumori che provengono
dall’esterno mandati in onda sulla diretta. E’ soprattutto la telecamera centrale a fare da padrona in questa
scena dove l’azione è concentrata sul parapetto della cattedrale ben visibile in primo piano. I soldati
garibaldini non appaiono in quanto li si immagina appostati alle finestre delle case di fronte al campanile da
dove sparano sull’avversario. Nello scontro a fuoco si inserisce il dialogo tra Pino e Franco sulla situazione
militare del momento seduti sui gradini della balconata; dialogo interrotto per un attimo da un colpo di fucile
che sfiora Pino balzato in piedi all’improvviso. Una sequenza quest’ultima di una frazione di secondi giocata
in modo sapiente dalle veloci inquadrature delle telecamere. Il finale della scena vede tutto il gruppo di
soldati napoletani disposti a semicerchio intorno al parapetto, mentre cessano gli spari e si odono voci in
lontananza. Ma Majano vuole dare un tocco da melodramma a questo finale: Pino Lancia viene ferito a
tradimento da un colpo di fucile sparato da un garibaldino da una finestra di fronte; l’alfiere cade tra le
braccia dei suoi soldati e di Franco e la puntata si chiude sull’immagine di questo gruppo quasi coraleintorno al commilitone svenuto. Al nostro regista piaceva dare ogni tanto un sapore melodrammatico alle
proprie vicende trasportate sul piccolo schermo e sapeva, comunque, farlo sempre al momento giusto. Tutti i
figuranti e gli attori in uniforme si muovono con destrezza e rendono l’idea della dinamicità del
combattimento e la regia da un piccolo spazio anche alle figure anonime, alle comparse appunto.
Nella televisione delle origini la telecamera era montata su un trespolo e manovrata da un cameraman. Dopo
poco tempo furono introdotti i carrelli con ruote guidati dal carellista responsabile degli spostamenti della
telecamera. Accanto a questi operatori vi era il giraffista che sovrastava tutti a cavallo della giraffa, grosso
microfono attaccato ad un braccio lungo fino a dodici metri, il tutto montato su un macchinario a ruote. Certo
è interessante pensare come alcune sequenze de L’Alfiere in cui compaiono tanti personaggi dovessero
essere riprese da operatori che manovravano queste grosse attrezzature in uno spazio chiuso e molto angusto.
Così se volgiamo analizzare qualche scena della quinta puntata che è quella di ambientazione più
prettamente militare, possiamo prendere ad esempio la nota sequenza (che fece anche scalpore all’epoca), in
cui i soldati borbonici capitanati da Pino e Franco catturano, dopo lo scontro di Caiazzo, un gruppo di
ufficiali garibaldini, tutti volontari di Nino Bixio. E’ una scena in cui la vicenda militare si unisce ai principi
religiosi rappresentati dal personaggio del vescovo di Caiazzo che tiene agli ufficiali borbonici una sorta di
33 Piero Nelli, regista cinematografico e di programmi televisivi negli anni sessanta e settanta, aveva realizzato il suo unico film a
soggetto storico-risorgimentale nel 1954: La pattuglia sperduta, ambientato all’epoca della prima guerra d’Indipendenza italiana.
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sermone sui doveri della carità cristiana anche nei riguardi dei prigionieri di guerra. I prigionieri garibaldini,
che il vescovo ha ospitato in una sala del proprio palazzo, sono ripresi di spalle mentre fanno il saluto
militare agli ufficiali borbonici. Quindi vengono inquadrati a mezzo busto ad uno ad uno mentre si
presentano e consegnano le loro sciabole al capitano Morbido e a Pino. Majano sa rendere la tensione
drammatica di questa scena che ritorna a essere teatro televisivo attraverso i gesti, gli sguardi dei personaggi,
i primi piani dei visi e il silenzio assoluto dominato dal rigoroso rispetto delle regole militari da parte di
entrambe le parti nemiche, silenzio rotto solo dal rumore delle sciabole che si appoggiano una sull’altra
sorrette da Pino che con gesto molto studiato le consegna al capitano. Si ritorna ai primissimi piani nel
dialogo successivo tra Pino e il cugino Mimì Lecaldani, (ottimamente interpretato da Nino Manfredi), anche
lui prigioniero garibaldino in cui questo comunica al giovane ufficiale la morte della sorella Titina.
All’espressione cupa e quasi solenne del viso di Manfredi, si unisce in una sintonia perfetta di immagine, il
volto piangente di Fabrizio Mioni che deve però dare al suo personaggio la forza di trattenere le proprie
emozioni interiori di fronte ai prigionieri e ai suoi compagni d’arme. Dietro ai due attori fa da sfondo una
grande finestra con una grata, la cui perfetta inquadratura crea una cornice di intimità al dialogo tra i due
personaggi che alla fine si abbracciano in un gesto di riconciliazione e di addio. L’entrata nella sala del
capitano Polyzzi che ordina l’uscita dei prigionieri dal palazzo per essere scortati a destinazione, riporta la
sequenza ai canoni delle dure leggi di guerra e costringe i singoli personaggi a soffocare i propri sentimenti
umani. Le telecamere si muovono lentamente nello stretto spazio dello studio, ma nessun particolare che
abbia un minimo significato viene trascurato dalla regia, neanche il ritratto del Papa Pio IX appeso sulla
parete centrale della sala. Analoghe tecniche di inquadratura troviamo nella precedente scena dell’incontro
degli ufficiali borbonici con il re Francesco II interpretato dall’attore Antonio Pierfederici nella sede delcomando militare di Capua. Tra l’altro questa scena che apre la quinta puntata è una delle meglio riuscite
anche dal punto di vista della recitazione disinvolta e spontanea degli attori che sanno ricreare un autentico
clima di cameratismo militare e nel contempo di pieno rispetto dell’autorità sovrana e della disciplina che
regnava all’interno dell’esercito non diversa da quella dell’esercito piemontese in cui il re era anche
comandante assoluto delle forze militari. Gli ufficiali che si presentano al sovrano appartengono ai diversi
reparti: fanteria, cavalleria, guardia reale. Sono presenti ovviamente Pino Lancia, passato al grado di secondo
tenente, Franco Enrico e Antonio Lo Bosco, soprannominato Totò, cugino di Pino, l’attore Carlo Giuffrè, che
veste l’uniforme di ussero della guardia del re. Bellissima è l’inquadratura di tutti gli ufficiali schierati che
fanno il saluto militare prima al capitano Polizzy e quindi al re; importante è anche l’accurata ricostruzione
delle uniformi dei vari reparti messe in evidenza dalle riprese a figura intera e a mezzo busto degli attori,
significative le battute di Francesco II su Garibaldi riprese dal testo di Alianello, in risposta alla battuta di un
colonnello che definisce Garibaldi un filibustiere. «Garibaldi non è un filibustiere, è il capo di un principio
politico opposto al nostro, ma vasto, sentito da molti e come tale va combattuto a viso aperto e non
assassinato a tradimento. Che bene ci verrebbe da un assassinio ?»34
E’ una delle poche scene a carattere
militare in cui viene citato Garibaldi e ogni volta sia l’autore che Majano ne parlano con rispetto proprio a
34 C. Alianello, L’Alfiere, Osanna Edizioni, 2000, pp. 305 -306
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sottolineare la lealtà dei soldati napoletani che, pur considerandolo nemico, ne rispettano gli ideali. Questo è
anche il primo grande momento in cui viene inserita la marcia reale scritta da Giovanni Paisiello e arrangiata
dal maestro Riz Ortolani che accompagna nelle ultime due puntate le sequenze più salienti della vicenda fino
alla conclusione sugli spalti di Gaeta.Quando Pino Lancia riuscirà a ricongiungersi con il proprio reggimento nella fortezza di Gaeta all’inizio
della sesta puntata, dopo la disastrosa disfatta del Volturno, lo spettatore si trova davanti il recinto di una
caserma in cui i soldati stanno consumando il rancio durante una sosta dei combattimenti. Tutti lo credevano
morto a causa delle falsa notizia diramata da un sergente opportunista e sono stupiti nel rivederlo, ma il loro
entusiasmo è subito riportato all’ordine dallo stesso Pino nel suo ruolo di tenente. La scenografia è realizzata
su due sezioni: l’esterno del quartier militare dove sono appostati i soldati e la stanza interna ad esso
collegata da una staccionata in cui il tenente Franco (divenuto capitano) sta terminando di vestirsi per
riprendere le operazioni belliche al comando del proprio plotone. Si ritorna al clima militaresco di caserma e
di preparazione ad una grande battaglia con poche speranze di vittoria. La scena è piuttosto movimentata:
sfiora l’ironia nel dialogo tra Franco e il sergente diffamatore costretto a riconoscere che Pino è ancora vivo;
quindi il racconto riprende la propria drammaticità e diventa quasi solenne nel successivo incontro tra Franco
e il generale Polizzy e nel loro dialogo sull’idea di Italia, di libertà e sulle defezioni all’interno dell’esercito
napoletano. Bellissima la battuta pronunciata dal colonnello: «L’Italia si farà ugualmente o con noi o senza
di noi e anche noi con questa uniforme potremo dire un giorno di aver contribuito a unire la patria. Un giorno
tutti lo capiranno, e allora diciamo anche noi Viva l’Italia!.» Dietro ai due personaggi che dialogano, sono
visibili gli altri soldati che si preparano per l’adunata, sollevando zaini e caricando fucili in maniera
frettolosa, quasi a significare l’urgenza del momento. Il suono della tromba che richiama all’adunata ad
opera di un soldato in primo piano conclude la sequenza nella più logica disciplina militare.
Nella carrellata delle scene di ambientazione militare presenti ne L’Alfiere non possono essere trascurate
quelle girate in esterno che sono tre : lo scontro di Caiazzo e la traversata sul fiume Volturno nella quinta
puntata e la scena dell’ultima resistenza borbonica sugli spalti di Gaeta nella sesta puntata. Le prime due
vennero girate nelle vicinanze di Roma in zone di campagna; per la terza sequenza la truppa al completo si
trasferì proprio a Gaeta nei pressi della famosa Torre d’Orlando, la struttura più alta di questa imponente
fortezza militare che si erge a strapiombo sul mare nell’insenatura che ne costituisce l’omonimo golfo. A
titolo di curiosità, possiamo ricordare che a Gaeta Anton Giulio Majano girerà sedici anni dopo, nel 1972,
anche gli esterni di un altro suo sceneggiato poco ricordato: La pietra di luna dal romanzo di Wilkins Collins,
una sorta di vicenda giallo-romantica che ha origine nella lontana India, la cui atmosfera orientale venne
ricreata proprio sul territorio di Gaeta.
Ma già nel 1956 Majano era consapevole della necessità di distinguere il linguaggio dello sceneggiato dal
linguaggio del teatro televisivo. L’uso di inserti filmati, il bisogno di ambientare la storia in spazi veri,
prefigurano fin da quel 1956 la progressiva evoluzione e il tentativo di uscire all’esterno. Come egli stesso
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ebbe a dire, «la televisione ha bisogno di presa immediata, di rappresentare la realtà mentre si snoda davanti
agli occhi dei telespettatori, trasformandola in spettacolo.»35
Il combattimento di Caiazzo avvenne storicamente il 21 settembre 1860 e fu l’ultima vittoria dell’esercito
borbonico contro le forze garibaldine. La sequenza televisiva è molto breve, di due minuti esatti in confronto
della lunga descrizione che ne fa Alianello nel suo libro dove l’episodio occupa sei pagine, ma la regia di
Majano rende perfettamente l’immagine dello scontro. Non era mai stata realizzata per la televisione una
scena di battaglia con armi da fuoco girata in esterni e per la prima volta i telespettatori si trovarono davanti
una vera e propria sequenza cinematografica da film a soggetto storico. Le inquadrature sono dei flash, la
narrazione è molto veloce, ma efficace all’occhio dello spettatore. La macchina da presa dapprima fa una
carrellata lenta sui soldati napoletani distesi a terra mentre sparano; quindi vengono inquadrati Pino, Franco e
il capitano Morbido nel mezzo della sparatoria intenti a prendere le decisioni sul da farsi. Fabrizio Mioni
ripreso a mezzo busto con la sciabola sguainata da ordine al suo plotone di attaccare i garibaldini; gli uomini
in gruppo si lanciano all’inseguimento, correndo in mezzo agli spari dei fucili nemici; Pino è in testa e con
tutto il gruppo raggiunge la barricata nemica sfondandola e passando oltre fino a raggiungere l’arcata
dell’edificio dove si ferma circondato dai suoi uomini al grido di “Viva il re”. L’edificio è un’alta
costruzione sulla sommità della quale sono appostati molti soldati napoletani che sparano verso il basso; è
possibile vedere anche un soldato che precipita dall’alto colpito dal nemico. I garibaldini sono inquadrati per
pochi secondi di profilo mentre sparano appostati ad una muraglia dell’edificio; quindi mentre scendono di
corsa dalla scala dell’edificio per attaccare il plotone nemico e impedirgli di conquistare la barricata. Pur
nella brevità di questa scena il regista riesce a dare l’idea di un combattimento cruento in cui il fumo degli
spari a salve dei fucili per la prima volta appare sullo schermo e avvolge a tratti il luogo dello scontro.Certo a quell’epoca le riprese in esterni erano molto costose; girare per due minuti una sequenza di questo
calibro con l’impiego di tanti figuranti e di molte armi da fuoco deve essere stata una spesa non da poco.
Montata sulla diretta delle riprese in studio di quella puntata, la scena acquistava un realismo sorprendente.
6° battaglione cacciatori a sinistra individuo in tenuta di rotta, a destra sottoufficiale in gran tenuta
35 La citazione è riportata in G. Tabanelli, Il teatro in televisione. Regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione, Eri Rai, 2001, Vol. I, p. 315
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Garibaldi sul Volturno, dipinto di Francesco Mancini conservato
al Museo Nazionale di San Martino di Napoli
Sergio Pugliese nel lontano 1954 asseriva che la televisione, «arte ancora nel suo primo stadio di sviluppo,
deve cercarsi un proprio linguaggio e i propri modi di espressione.(…)In questo primo periodo di
trasmissioni già si sono accumulate varie esperienze e si sono tracciati i limiti, se non altro, entro i quali la
Televisione dovrà agire per trovare e fissare la propria sintassi espressiva.»36
Potremmo dire che Majano due anni più tardi con L’Alfiere avesse già raggiunto un bagaglio di esperienze
messe in atto con maestria e successo nella piena consapevolezza anche dei limiti che il mezzo televisivo
presentava ? Crediamo di si e gli esperimenti tentati proprio in questo sceneggiato ne sono la prova oltre che
la testimonianza della volontà del regista di progredire sulla strada dell’elemento spettacolare curato da
procedimenti e soluzioni registiche nuove, giocando soprattutto sul linguaggio scenografico della ripresa in
esterni.
La sequenza girata sul fiume che narra il momento in cui Pino Lancia è di guardia sul Volturno con i suoi
uomini, è una delle più belle di tutto lo sceneggiato. Il paesaggio circostante è ripreso all’alba, ma
l’atmosfera che si crea sullo schermo è ancora notturna, lunare. Il dialogo tra Pino e una delle sue sentinelle
richiama certi dialoghi del film La pattuglia sperduta di Piero Nelli di impianto neorealista dove il lato
umano dei soldati emerge più volte dai loro discorsi. Il tragitto sulla barca rimane uno dei momenti più alti
della narrazione televisiva di quegli anni. Dapprima abbiamo una ripresa a campo lungo mentre la barca si
allontana dalla riva del fiume; quindi la macchina da presa inquadra Pino e la sua sentinella seduti
sull’imbarcazione; il dialogo tra i due personaggi si fa nostalgico nel ricordare i luoghi della loro infanzia e
le parole di Pino fanno riemergere la sua angoscia per la morte di Titina mentre egli descrive con accenti
poetici il paese di Tito in Basilicata e il sorgere della luna dietro i monti di quella zona. «Hai mai visto salire
36 S. Pugliese, Teatro e linguaggio televisivo, in «Il dramma», 1 maggio 1954, pp. 9-10
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la luna tra le montagne? chiede Pino al suo compagno, La luna sta appesa tra due montagne e un vento
leggero la porta su e sotto è come una chiesa: pace e silenzio, vivi e morti. E uno può solo cantare, parlare
no. Per chi ci sta vicino e non dorme e per chi ci sta in cuore e non dorme. Vivi e morti!» Parole altamente
poetiche nel contesto di una sequenza altrettanto poetica. Il bellissimo accompagnamento musicale
sommesso e lunare che accompagna questo momento del racconto trasmette un senso e un desiderio di pace
interiore che resta unico grazie anche al paesaggio brumoso che circonda i due personaggi, nonché ai
cromatismi del bianco e nero che ci ricordano così da vicino la cinematografia neorealista di Piero Nelli. In
questa scena emerge l’esperienza di un Majano regista cinematografico che si sposa con quella del Majano
regista televisivo. E la conclusione dello sceneggiato non è da meno nel dimostrare la maestria di questo
“padre del teleromanzo” a cui si unisce la valida collaborazione di tutta la truppa televisiva che partecipò alla
realizzazione de L’Alfiere. L’avventura bellica e patriottica di Pino Lancia e dei suoi uomini sta per
concludersi tragicamente: l’esercito piemontese ha occupato la fortezza di Gaeta dove i soldati napoletani
sono stati costretti a ripiegare; la capitolazione della piazza sta per essere firmata dopo tre mesi di duro
assedio e di continui bombardamenti nella fortezza; il generale piemontese Enrico Cialdini ha rifiutato
qualsiasi proposta di armistizio e ha preteso la capitolazione definitiva.37
All’interno della stanza dove Pino è
alloggiato (questi edifici si chiamavano casematte secondo la terminologia militare), ricostruita in studio, è
stato portato l’amico Franco morente in quanto colpito dal tifo esantematico che in quel frangente moltissimi
ufficiali e soldati soprattutto da parte napoletana avevano contratto. Franco è disteso nel letto assistito da
padre Carmelo, Pino sopraggiunge preoccupato per la sorte dell’amico verso il quale ha sempre nutrito
affetto fraterno. Il dialogo a tre è ripreso pressocchè integro dalle pagine del libro e la regia opera dei
bellissimi primi piani sui tre personaggi accomunati dagli stessi sentimenti e dalla sofferenza maggiore diquella fisica: la morte e la distruzione seminate dalla guerra fratricida che sta per terminare. Al dramma
interiore dei tre uomini si unisce quello esterno della capitolazione ormai prossima reso evidente dal rumore
delle cannonate che si odono in continuazione. La recitazione concitata degli attori e il muoversi agitato di
Pino sulla scena, sono interrotti solo dall’arrivo del cugino Totò che si congeda da lui per seguire il re in
territorio pontificio. L’addio di Pino al cugino si congiunge al dramma di Franco morente concentrando così
nel protagonista due momenti dolorosi che vanno a colpirlo negli affetti più cari. L’improvvisa entrata in
scena di un ufficiale che annuncia lo scoppio di una polveriera della fortezza mentre si ode all’esterno la
tromba che annuncia la generale, riporta i personaggi alla dura realtà del momento. Tutti si precipitano fuori,
lasciando Franco momentaneamente solo nel suo letto di dolore.
Lo stacco tra la conclusione di questa scena e la partenza del filmato girato in esterni di quella successiva è
velocissimo e lo spettatore ha l’illusione perfetta di trovarsi improvvisamente sugli spalti della rocca di Gaeta
grazie alla rapidità del montaggio sulla diretta televisiva. La sequenza in esterni è caratterizzata dal
susseguirsi veloce di diversi momenti drammatici: i soldati che combattono sugli spalti della fortezza
correndo tra le muraglie; le granate che scoppiano e avvolgono anche Pino, padre Carmelo e il fedele
37 Enrico Cialdini, noto generale piemontese, volle a tutti i costi assediare l’esercito borbonico e costringerlo alla resa dopo un
estenuante bombardamento di tre mesi nella fortezza di Gaeta. Il suo modo di agire alquanto discutibile gli permise comunque diraggiungere il suo obiettivo e gli valse anche il titolo di duca di Gaeta conferitogli da Vittorio Emanuele II, appena divenuto re
d’Italia.
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bellissima la collaborazione tra i vari operatori, soprattutto i tecnici.»38
Nel contesto di questo teatro filmato,
quale era lo sceneggiato televisivo degli anni cinquanta, L’Alfiere si pone come esempio emblematico anche
dal punto di vista della tecnica di ricostruzione; infatti, come ricorda Folco Portinari, «la preoccupazione
degli sceneggiatori è stata quella della fedeltà umile e ossequiosa fondata sulle tre garanzie della trama, dei
dialoghi e del paesaggio, integralmente mantenuti e riprodotti.» Se questo è vero anche per L’Alfiere, si
potrebbe asserire che Majano e i suoi collaboratori fecero miracoli a quell’epoca e il rispetto delle tre
garanzie citate diede ottime risultati. Lo stesso Majano ebbe a dire che «la vicenda militare venne realizzata
con molta creatività, supplendo così alla mancanza di mezzi.»39
Didascalia: L’arrivo a Mola di Gaeta di un ufficiale incaricato di chiedere l’armistizio e
l’autorizzazione a seppellire i morti
38 Ivo Garrani partecipò a una delle puntate della trasmissione televisiva realizzata per il canale satellitare di Raisat Album, Romanzo popolare condotta da Oreste De Fornari e Gloria De Antoni nel 2002.39 Da Il mestiere della televisione, cit., Rai educational, 1992
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Capitolo VII
Pino Lancia: un singolare personaggio dell’epopea risorgimentale
In una intervista televisiva di alcuni anni fa, Franco Monteleone aveva affermato che uno degli scopi del
romanzo sceneggiato fosse stato quello di proporre una divulgazione storica alle masse in maniera corretta e
appetibile.40
L’Alfiere, teleromanzo a soggetto storico a tutti gli effetti, è stato il primo tentativo di questa
divulgazione che si proponeva, però, di diffondere una faccia anomala dell’epopea risorgimentale, quella dei
vinti, degli sconfitti, di coloro che in un certo senso combattevano contro l’annessione del meridione al resto
dell’Italia, visione comunque corretta e storicamente accettabile per chi voglia studiare la storia in modo
oggettivo. Oggi, come nel 1956, quest’opera divulgativa rimane ancora valida, rivedendo lo sceneggiato,
grazie alla figura coinvolgente del protagonista, il giovane alfiere Pino Lancia che già nel romanzo di
Alianello spicca per la prorompente fede negli ideali in cui crede e che nella trasposizione televisiva diventa
un personaggio unico e irripetibile. Don Giuseppe Lancia (questo il vero nome di Pino), discende da una
famiglia che vanta il titolo baronale, si arruola appena ventenne nell’esercito borbonico e raggiunge il grado
di alfiere in occasione della battaglia di Calatafimi contro le forze garibaldine, per arrivare velocemente a
quello di secondo tenente e poi di primo tenente al termine della vicenda. Il suo reggimento di appartenenza
è l’8° cacciatori, reparto inquadrato nella fanteria di linea dell’esercito napoletano.41
Alianello ha creato un personaggio energico, entusiasta dei propri ideali, coraggioso e sempre pronto a
misurarsi con chi la pensa diversamente o con chi lo provoca, un personaggio, però, anche sensibile,
riflessivo, qualche volta ingenuo, proprio perché molto giovane. Anton Giulio Majano, affidandone il ruolo
al giovane attore Fabrizio Mioni, riesce a mantenere al personaggio le caratteristiche volute dallo scrittore,
pur comunicandogli una vena sentimentale e una sensibilità maggiore rispetto a quella del romanzo. In
questo senso Pino Lancia –Fabrizio Mioni diventa il prototipo di tante figure giovanili maschili che Majano
saprà creare nei suoi teleromanzi successivi: David Copperfield, interpretato da un giovanissimo Giancarlo
Giannini; Arthur Barras, ne E le stelle stanno a guardare, ancora con il volto di Giannini; Dick Shelton ne
La freccia nera nell’interpretazione di un esordiente Aldo Reggiani, Stuart Stark in Una tragedia americana
interpretato da un giovane Gabriele Antonini e, per un certo verso, anche il protagonista del medesimo
sceneggiato, Clyde Griffitz con il volto di Warner Bentivegna; Ottorino Visconti nel Marco Visconti
interpretato da Gabriele Lavia; Costantino Nigra in Ottocento magistralmente “incarnato” da un giovane
Sergio Fantoni e potremmo aggiungere anche un paio di personaggi più maturi interpretati da attori già sulla
soglia dei quarant’anni: il dottor Manson de La cittadella con il ben noto volto di Alberto Lupo e William
Dobbin ne La fiera delle vanità nella sapiente interpretazione di Nando Gazzolo. Questa carellata di volti e
figure che Majano seppe creare allo scopo di dare sempre un’impronta popolare e divulgativa ai suoi lavori,
prende l’avvio appunto con il protagonista de L’Alfiere sul quale si può dire che il regista sperimentò la sua
40 Da Il mestiere della televisione, cit.41 Il grado di alfiere, nella gerarchia militare degli eserciti settecenteschi e ottocenteschi, corrispondeva al livello più basso della
categoria dei tenenti e apparteneva al cosiddetto piccolo Stato Maggiore del reggimento.
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vena creativa in cui il sentimento, lungi dal diventare stucchevole e sdolcinato, diventava un elemento
proprio dei suoi personaggi prediletti che li faceva reali e credibili, convincenti fino in fondo. Majano ama
certi personaggi dei suoi sceneggiati; potremmo affermare che li ama tutti, ma per alcuni ha una predilezione
particolare; quelli che abbiamo citato sono appunto i più amati nei quali lui crede e sa di poter realizzare le
sue convinzioni registiche sul teleromanzo: opera grandiosa e decisamente popolare.42
Fabrizio Mioni si calò
nel ruolo di Pino Lancia con le qualità di un attore giovane che aveva già alle spalle la scuola di un regista
come Visconti e con una prestanza fisica che costituì un suo indubbio vantaggio sullo schermo televisivo.
Alto, biondo, definito da tutti bellissimo, il giovane attore obbedì al volere del regista, dando vita a un
personaggio vivace, coraggioso, esuberante, ma mai forzato nella recitazione, ingenuo e sensibile quando
deve esserlo, in lacrime per la morte di chi gli è caro, innamorato, ma senza mai anteporre questo sentimento
a quello più alto dell’onore e della fedeltà, pronto a sfidare chiunque lo provochi nelle sue convinzioni e a
sacrificare qualunque cosa pur di non rinnegare la sua fede. Mioni è quasi sempre presente sulla scena in
tutte le sei puntate de L’Alfiere, la sua parte non è certo facile né di poca cosa, ma egli superò la prova con
risultati più che soddisfacenti, diventando, se ci è consentito dire questo, un nuovo divo maschile della
televisione italiana che annoverava già grandi nomi. Il fatto poi che questo sia stato il suo unico lavoro di
rilievo in televisione non ne sminuisce l’importanza, anche se lo porta inevitabilmente ad essere ricordato
solo nel ruolo di questo giovane ufficiale borbonico. Majano lo predilige nella propria regia, facendo su di lui
numerosi primi e primissimi piani bellissimi anche dal punto di vista della tecnica registica, studiandone
sempre le espressioni del viso e degli occhi e facendolo sovente sorridere o piangere in modo da farne
trasparire sempre la sua sensibilità interiore e la sua partecipazione alle vicende più o meno drammatiche che
non coinvolgono solo lui, ma anche gli altri personaggi. Così, ad esempio, al termine della seconda puntata,dopo la partenza del padre per Roma, vediamo il giovane alfiere prima appoggiato con aria affranta al
bracciolo di una poltrona e poi in piedi vicino ad una tenda della finestra inquadrato di profilo con un debole
sorriso che gli illumina il viso in un barlume di speranza, mentre in sovraimpressione gli appare la figura
sorridente di Renata, la sua fidanzata. Anche nel precedente colloquio con il padre (interpretato dall’attore
Giuseppe Porelli) sono significativi i primi piani sul giovane attore quando il padre gli rammenta il suo
dovere di tenere alto il nome dei Lancia. Qui Mioni assume un’espressione seria e nobile che ricorda alcuni
ritratti di ufficiali o comunque di militari di un certo grado e l’ alta uniforme che indossa contribuisce a
rendere più evidente questa somiglianza. La divisa dell’esercito napoletano incalza molto bene al fisico
slanciato dell’attore, lo rende elegante e di sicuro impatto scenico. Majano tende sempre a presentarci un
giovane soldato obbediente, sia verso i suoi superiori, che verso il padre nei confronti del quale dimostra una
sottomissione filiale che nel libro di Alianello è meno accentuata. In tal senso possiamo verificare il suo
atteggiamento ossequioso alla presenza dei sovrani Francesco II e Maria Sofia nella quarta e nella sesta
puntata, unito all’atteggiamento quasi rigido del militare che si pone sull’attenti di fronte ad una autorità, il
suo profondo rispetto verso padre Carmelo che diventa, se pure per breve tempo, un confidente spirituale,
42 Abbiamo citato solo personaggi maschili per operare il confronto con il protagonista de L’Alfiere. Ovviamente Majano seppecreare anche figure femminili di grande rilievo e dotate di spiccata sensibilità umana; valgano per tutte tre nomi Jane Eyre, Cristina
Manson e Hilda Barras, rispettivamente con i volti di Ilaria Occhini, Anna Maria Guarnirei e Maresa Gallo.
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l’obbedienza mista a gratitudine verso il suo più diretto superiore, il colonnello Polizzy che nella quinta
puntata gli offre la decorazione dell’ordine militare di San Giorgio a seguito dell’ottimo comportamento
dimostrato sui campi di battaglia.
Ma il nostro personaggio sa dimostrare anche fermezza che lo porta a rasentare l’aggressività allo scopo di
difendere i principi in cui crede; vale in tal senso la drammatica scena della terza puntata quando, ospite del
cugino Mimì Lecaldani, viene a tradimento da questi e dagli altri giovani del gruppo imprigionato in una
masseria di campagna, perché la sua presenza è diventata scomoda su un territorio votato ormai alla
rivoluzione garibaldina e dove tutti si sono ribellati all’autorità borbonica. Pino deve subire una sorta di
processo familiare in cui il cugino, lo zio arciprete e gli altri presunti amici gli fanno capire di aver
congiurato contro di lui per metterlo a tacere. Si crea una forte tensione drammatica; il volto di Mioni si fa
duro, ma anche stupito per la sorpresa del tradimento non previsto e anche gli altri si irrigidiscono in questa
durezza.. Quindi le battute incalzano sulle motivazioni di entrambe le parti; Pino dapprima cerca di dominare
la sua rabbia, poi esplode gridando la sua fedeltà al re e al giuramento prestato. Anche gli altri gli rispondono
alzando la voce e in questo processo fuori aula, la recitazione di Mioni, ma anche dello stesso Manfredi nel
ruolo di Mimì appare forse un po’forzata e meno credibile, soprattutto quando il giovane ufficiale grida la
sua rabbia in faccia all’odioso Filippo Monaco,uno dei giovani del gruppo, e tenta di scagliarsi contro di lui
per fare a pugni. Ritornerà al controllo dei propri nervi subito dopo, quando è obbligato a entrare nella
stanza-prigione che gli è stata riservata e la sua voce prorompe in un singhiozzo. Al di là, comunque, di una
recitazione un po’ di maniera, è interessante lo studio psicologico che Majano porta avanti sul personaggio,
studiando il continuo mutare delle espressioni del viso dell’attore nel passare dallo stupore, al dolore, al
risentimento e alla rabbia. E’ questa l’unica scena in cui Pino alza la voce e dimostra rabbia esteriore, ma èessenziale per mettere in risalto la figura di un giovane incrollabile nelle proprie convinzioni, a discapito di
una certa ingenuità che pure fa parte della sua personalità.
Infine non è da trascurare il suo atteggiamento di rassegnata sottomissione alla scontrosità dimostrata dalla
bella Renata che rifiuta la sua uniforme di ufficiale del re e lo vorrebbe arruolato nell’esercito garibaldino,
simbolo di patria e di libertà. Nel primo colloquio tra Pino e Renata nella prima puntata, quando lei si
imbarca con il padre da Palermo diretta a Napoli, abbiamo davanti un ufficiale distinto e quasi romantico che
vuole solo manifestare il proprio amore alla donna che ama e che è venuto a farle onore mettendosi in alta
uniforme. Il tema musicale, lo stesso che ritroviamo all’inizio di ogni puntata sui titoli di testa, sottolinea il
sentimento interiore del giovane che, rimasto solo al centro della scena dopo la partenza della donna, prima
di risalire la scalinata del porto, richiama alla mente certe inquadrature da film anni cinquanta, dove regia e
accompagnamento musicale si sposano magnificamente nell’evidenziare i sentimenti dei personaggi
protagonisti. Fabrizio Mioni, durante una nostra chiacchierata telefonica, ha detto: «Lo stile di recitazione di
quell’epoca è un po’ superato e può in alcune sequenze far sorridere; anche il mio personaggio, pur
presentando in alcune scene una recitazione spigliata e spontanea, rimane un tantino melodrammatico.
Questo però non toglie nulla all’importanza di rivalutare ancora oggi questi lavori televisivi che possedevano
il pregio dell’ingegnosità e dell’impegno con tutti i mezzi che avevamo a disposizione, oltre che a rimanere
la testimonianza di un costume e di una mentalità che hanno contribuito a fare la storia della televisione
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italiana. La domenica sera era come se l’Italia si fermasse per assistere davanti al televisore alla puntata del
teleromanzo in programma.»
Gli esempi potrebbero continuare a lungo; non possiamo non citare il finale dello sceneggiato: il saluto di
Pino alla bandiera borbonica dopo la capitolazione di Gaeta. Un inquadratura di pochi secondi in cui l’attore
preso di profilo si mette in posa militare con un’ espressione da cui traspare la sua dignità di soldato, ma
anche le tante sofferenze patite a causa del precipitare degli avvenimenti.
E’ l’ultima sapiente inquadratura di Majano che chiude così la vicenda di un personaggio amato
profondamente.
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Capitolo VIII
Un frate mistico e un cugino esuberante
Nella sua lunga e travagliata vicenda Pino Lancia è affiancato da parecchi personaggi, alcuni più
significativi, altri meno, ma tutti coinvolti nella serie di fatti che li portano a continui ragionamenti e
commenti su quanto accade intorno a loro, vedendo sovente deluse le loro speranze o portando in sé desideri
nascosti che i fatti devono poi poter realizzare o distruggere. Abbiamo scelto qui due figure che hanno un
certo peso nella vicenda di Pino e un ruolo abbastanza ampio nell’intreccio complesso del romanzo: Padre
Carmelo interpretato da Aroldo Tieri e Antonio Del Bosco soprannominato Totò che ha il volto di Carlo
Giuffrè.
Padre Carmelo è un frate che abbandona il proprio convento di Calatafimi dopo la sanguinosa battaglia che
coinvolge anche parte della popolazione civile e che dapprima decide di seguire la rivoluzione popolare
portata in Sicilia dalle forze garibaldine, poi si trova coinvolto nelle vicende dell’esercito napoletano e
resterà vicino ad esso sino alla fine. Non è un uomo di parte, come egli stesso affermerà più volte, ma le
vicende della guerra lo hanno obbligato ad operare una scelta per poter rendersi ancora utile nella sua
missione ed egli ha scelto di stare vicino alla parte in quel momento più debole anche psicologicamente: i
soldati napoletani.
Majano vuole, però, farne soprattutto una figura di contrasto con le vicende belliche che accadono intorno a
lui e che egli tende ad osservare sempre con animo distaccato. Le sue considerazioni sono sempre molto
profonde e invitano lo spettatore ad una riflessione impegnativa. Nel romanzo di Alianello abbiamo una
figura meno determinante, un frate un po’ sprovveduto, forse anche vagamente ingenuo, sovente indeciso.
Nella trasposizione televisiva egli diventa un personaggio più concreto, distaccato sì dagli affetti del mondo,
ma inserito nelle vicende degli uomini che lo affiancano e capace di studiare i loro sentimenti, le loro
sofferenze, le loro contraddizioni. Majano gli conferisce una certa umanità che unita ad un forte spirito
religioso, lo rendono difficilmente dimenticabile. Tutti lo stimano e lo rispettano, alcuni lo cercano e hanno
bisogno di lui: Pino, Franco, per non parlare dello sbandato ed eccentrico Nunzio che non può stare senza la
sua continua protezione. Aroldo Tieri seppe entrare in questo ruolo che potremmo definire singolare e
insolito attraverso una recitazione sempre pacata, lenta e meditativa, un’ espressione del volto scultorea,
statica, propria di che osserva, ascolta e interiorizza tutto ciò che ha davanti. Molti sono in tal senso i primi e
primissimi piani che la regia fa su l’attore, diverse le scene in cui l’attore assume atteggiamenti che ricordano
certi quadri a soggetto religioso dell’Ottocento; basti pensare alla prima scena in cui appare nella prima
puntata: il suo essere inginocchiato davanti al catafalco di un altro frate uccisio durante un’imboscata e il suo
stare genuflesso davanti al crocifisso appeso alla parete, mentre all’esterno si ode il suono delle campane.
Nella sua perorazione finale sugli spalti di Gaeta ripresa tale quale dal testo di Alianello, la recitazione
diventa fin troppo teatrale, calca troppo l’accento sull’invettiva gridata e su una gestualità che oggi può fare
un po’sorridere. Tieri, però, è sempre bravissimo e conosce la tecnica giusta di una recitazione che deve
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essere convincente e coinvolgente e che per quell’epoca era perfettamente nella norma. Oggi una teatralità
così accentuata sarebbe fuori moda e saprebbe troppo da melodramma recitato, ma nel 1956 era teatro a tutti
gli effetti.
Su un piano completamente diverso è il personaggio di Antonio Del Bosco, soprannominato Totò, cugino di
Pino Lancia e ussero della guardia reale al seguito del re Francesco II.
Carlo Giuffrè, allora molto giovane, era l’attore ideale per questo ruolo di ufficiale brillante, estroverso, bello
d’aspetto, nonchè elegantissimo nella sua alta uniforme. Nel contesto della vicenda drammatica egli emerge
come il personaggio che sa più degli altri accettare con una certa filosofia l’evolversi dei fatti. Non si mostra
mai pessimista, né vede le cose nella prospettiva più nera; accetta la realtà che ha di fronte con senso del
dovere, ma anche con molto buon senso. Fin dalla sua prima apparizione nella seconda puntata all’interno di
un caffè della cittadina di Toledo dove si incontra con Pino, appare subito con quella sua esuberanza
giovanile che accompagnerà sempre ogni suo successivo ingresso in scena. E’ un momento storicamente
importante: a Toledo è in corso una rivolta popolare che rischia di mettere in difficoltà anche gli ufficiali borbonici, ma Totò non si scompone. Anzi è lui a tenere a freno Pino che vorrebbe mettere subito mano alla
sciabola e intervenire contro i rivoltosi che stanno per irrompere nel locale. Anche nella sua ultima
apparizione nella sesta puntata nel momento drammatico della capitolazione della fortezza di Gaeta, egli si
accomiata dal cugino e dagli altri personaggi con molta serietà, conscio del momento solenne, ma con una
piena e realistica accettazione dei fatti. Il suo compito è anche quello di farsi portavoce storico, di essere
quasi la voce narrante dei fatti storici; così nella quarta puntata dopo l’omaggio reso ai sovrani che lasciano il
palazzo reale di Napoli, egli si intrattiene con Pino a riflettere sugli eventi storici del momento e su quelli
precedenti. Il suo bellissimo e significativo monologo sulla situazione attuale del regno e dell’esercito
napoletano, oltre a fornire un’interpretazione corretta di fatti storicamente accertati, mettono in luce anche la
bravura di Carlo Giuffrè che, da provetto attore di teatro, recita con piena professionalità e con pieno
dominio del personaggio al quale sa dare una robusta intelligenza e un sano realismo, movendosi anche con
disinvoltura di fronte alle telecamere. Giuffrè fa di questo ussero della guardia reale un buon ragionatore
secondo la logica dei fatti. Personaggio signorile, trasparente, sincero con se stesso e con gli altri, Totò è una
bellissima presenza in questo sceneggiato ed è il tipo del napoletano puro sangue che scherza con gli altri al
momento giusto, ma ha anche una sensibilità umana che gli altri sanno cogliere dal suo atteggiarsi naturale e
spontaneo.
Ussari della guardia reale. Individuo di truppa dei reggimenti Ussari in gran tenuta
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Capitolo IX
Renata, Titina e Ginevra: tre donne per un giovane ufficiale
Nel corso del romanzo, così come lo concepì Carlo Alianello, Pino Lancia vive anche una propria vicenda
sentimentale che lo porta ad innamorarsi di tre donne che si pongono sul suo cammino nella parabola storica
da Calatafimi a Gaeta. La prima è la sua fidanzata ufficiale: Renata Rodriguez, figlia di un ammiraglio della
marina borbonica, interpretata da Emma Danieli. Majano ricordava di essersi fissato con questa giovane
annunciatrice della televisione e di averla voluta a tutti i costi per questo ruolo.43
Renata ama Pino, ma rifiuta
la sua uniforme di ufficiale borbonico, lo vorrebbe arruolato nell’esercito garibaldino pronto a combattere
per l’indipendenza e l’unificazione nazionale. L’attrice sa dare al personaggio la scontrosità e la civetteria
che fanno da ostacolo al suo amore per il giovane ufficiale; studia molto bene il proprio ruolo di donna che si
crede superiore all’uomo che ama, ma rimane fondamentalmente una figura tipica degli sceneggiati di quegli
anni, romantica e squisitamente teatrale. Infatti nelle ultime due puntate diventa una donna remissiva,
consapevole dei propri sentimenti e nostalgica, pronta a rinnegare le proprie convinzioni e qui il regista
interviene con le sue manipolazioni e invenzioni; nel romanzo di Alianello, infatti, Renata a un certo
momento esce di scena e Pino non la rivedrà più. Nella trasposizione televisiva, invece, ella lo raggiungerà
nella fortezza di Gaeta per dichiararle finalmente il suo amore. Un espediente, questo che rende poco
credibile il personaggio e, se vogliamo, sfasa una certa logica della vicenda, ma a Majano serve come
ingrediente per dare allo sceneggiato il tocco romantico che non può mancare.
Emma Danieli sa operare questa trasformazione del personaggio e nell’ultima puntata, è una donna oramisolo innamorata del suo tenente all’interno di una sequenza di quelle considerate, all’epoca, strappa lacrime.
A questo proposito Majano ha ricordato più volte che i suoi copioni erano incondizionatamente fedeli alla
struttura e alla sostanza dei romanzi, tuttavia la diversità del mezzo televisivo imponeva accorgimenti
particolari, proprio per fare presa sul pubblico. Su un altro piano si muove il personaggio di Ginevra
interpretato da una giovane Maria Fiore, una figura che nell’economia del romanzo incarna la sensualità
femminile e che nel testo letterario da vita anche a qualche scena che potremo definire scabrosa. Ovviamente
la televisione degli anni cinquanta non poteva permettersi sequenze “piccanti”, ragion per cui Ginevra
diventa una ragazza in apparenza un poco frivola, pronta a prendersi gioco dell’ingenuità di Pino, ma decisaa tendere l’esca per ammaliarlo, anche con la complicità della zia, governante in casa del bell’alfiere. In tal
modo vediamo subito che Ginevra, una volta conquistato il giovane ufficiale, diventa una donna
sinceramente innamorata, per nulla sensuale, ma caso mai timorosa di perdere da un momento all’altro
l’uomo che ora crede suo. Anche lei parteggia per Garibaldi e deve mettere in conto il fatto che Pino la pensa
diversamente e che non è disposto a tradire il proprio onore di soldato neanche per amore e presto deve
rassegnarsi a perderlo e a non rivederlo più. Nello sceneggiato il rapporto tra i due personaggi rimane velato,
sottinteso, discreto; Maria Fiore ha poche battute nel copione e la sua apparizione che è limitata praticamente
43 Da Il programma televisivo. Il mestiere della televisione, cit.
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alla quarta puntata è caratterizzata da molte inquadrature del volto, dal suo muoversi e volteggiare negli
ambienti ricostruiti quasi a dimostrare una passione vissuta con gioia interiore. Il corso irrefrenabile degli
eventi la obbligherà a separarsi da Pino, come pure dovrà separarsene la terza donna che egli incontra: Titina,
sua lontana cugina. Interpretata con grande sapienza scenica da una giovanissima Ilaria Occhini, a
quell’epoca allieva della scuola dell’Accademia di Arte drammatica, Titina appare di fatto solo nella terza
puntata dello sceneggiato, quella dedicata al drammatico soggiorno di Pino nel paese di Tito in Basilicata,
ospite dei lontani cugini Lecaldani e dello zio arciprete Don Celestino. Ella è l’unica figura nel gruppo dei
giovani che circondano il protagonista a dimostrare comprensione e simpatia verso il giovane ufficiale e la
sua presenza di ragazza dolce e sensibile fa da contrasto alla diffidenza e alla freddezza con cui tutti gli altri
accolgono e sopportano la sua presenza. Ilaria Occhini ci mostra una ragazza generosa e altruista, piena di
attenzioni e premure verso Pino e alla fine innamorata di lui al punto di sacrificare la propria vita per salvarlo
dalla trappola in cui è caduto. Infatti Titina muore alla fine della puntata colpita, se pure per sbaglio, da un
colpo di fucile dopo aver liberato Pino dalla prigione in cui gli altri l’avevano rinchiuso per paura che egli
rilevasse il loro complotto di rivoluzionari contro il governo borbonico; il colpo mortale destinato a lui, lo
riceverà lei come sacrificio totale del suo amore. Majano vuole fare di Titina il personaggio interiormente
nobile pronto pagare per gli altri in un contesto di odio e di umana crudeltà che la guerra, ogni guerra porta
con sé e sa mettere in risalto questo suo ruolo molto meglio di quanto avvenga nel romanzo di Alianello dove
Titina è descritta con i tratti di una ragazzina sottomessa alla volontà degli altri. La Occhini ne fa invece una
donna, sottomessa sì, ma decisa ad agire con determinatezza per l’uomo di cui si è innamorata, una figura
drammatica che proprio nel duetto con Pino alla fine della terza puntata da sfogo al suo amore orami
evidente, ma che nello stesso tempo sa che egli non può rimanere con lei, ma deve salvarsi e soprattuttosalvare il proprio onore. E’ un duetto in cui hanno importanza le parole, i gesti melodrammatici (Pino che si
inginocchia davanti a Titina per chiederle di sposarlo), i primissimi piani, gli sguardi dei due personaggi che
si cercano con gli occhi, ma che sanno di non poter rimanere a lungo in quell’intimità fatta di timori e di
gioie nello stesso tempo. Ricorda Ilaria Occhini. «Majano mi diceva sempre che l’elemento importante nella
recitazione era lo sguardo perché da lì traspariva tutto il carattere del personaggio. Era importante avere
sempre presente i movimenti della telecamera in quello spazio angusto di quattro pareti, proprio per non
perdere mai la propria concentrazione sul personaggio, mantenere l’impostazione della voce, essere quel
personaggio per tutta la durata della messa in onda e dare il massimo di se stessi.»
Titina avrà ancora una breve apparizione nell’ultima puntata in una scena completamente inventata dal
regista, in cui ella appare in sogno a Pino addormentato con la testa appoggiata su un tavolo nella sua stanza
nella caserma di Gaeta. Ella gli dirà che non potrà mai essere il suo amore, non lo è mai stato e resterà solo
un suo rimorso perché è morta per salvarlo. Questa apparizione fugace avviene con la tecnica della
sovraimpressione già adottata in altre sequenze. In tal modo viene un po’ vanificato il ruolo del personaggio,
ma è un espediente che il regista mette in atto per far rientrare in scena Renata che dovrà ricongiungersi con
Pino e rivelarsi come l’unica donna destinata a essere veramente sua. Così si conclude la parabola degli
amori del protagonista a cui si immagina resti la certezza di questo amore ritrovato, dopo l’amarezza della
sconfitta militare.
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Capitolo X
Una folla di personaggi e un cast di attori eccezionale
L’Alfiere non è soltanto una vicenda militare, ma è anche una storia di passioni, di lotte interiori, di
ravvedimenti e tradimenti e ogni personaggio vive il momento storico calandolo nella propria intimità e nelle
proprie scelte personali. Majano nella sua trasposizione televisiva volle anche dare spazio a figure che nel
romanzo erano più secondarie o addirittura riabilitare qualche figura che nel testo di Alianello risultava più
negativa e abbruttita dalle contingenze storiche del momento.
Esempio lampante in tal senso è il personaggio di Nunzio Barabba interpretato magistralmente da un giovane
Domenico Modugno ancora poco conosciuto, ma dotato già di spiccanti qualità canore, musicali e di attore.
Nel libro Nunzio è una sorta di sbirro dai modi quasi animaleschi, vendicativo e omicida che finirà fucilato
come altri personaggi pari a lui di alcuni romanzi veristi; Majano lo trasforma in un soldato sbandato
dell’esercito borbonico che, mentre sta per essere ammazzato a sangue freddo dai soldati garibaldini, viene
salvato casualmente da padre Carmelo e da quel momento resterà unito a lui fedele e riconoscente,
seguendolo da Palermo a Gaeta, fino a morire insieme a lui sugli spalti della fortezza nel tentativo di salvarlo
dalle granate dei cannoni. E’ un personaggio istrionico, apparentemente opportunista, sempre sulla difensiva,
ma umanissimo nella sua gratitudine verso il frate e appassionato della sua terra siciliana a cui dedica le sue
bellissime canzoni. Valga come esempio la grande scena all’osteria nella quarta puntata dove Nunzio e padre
Carmelo sostano durante il loro viaggio prima di proseguire verso Capua. Alla agitazione e all’euforia di
Modugno che canta accompagnato dalla sua chitarra e riempiendo la scena continuando a muoversi davantialle telecamere, fa da contrasto la figura scultorea e pacata di padre Carmelo sempre meditativo e riflessivo
di fronte a tutto ciò che avviene intorno a sé. Gli avventori dell’osteria fanno da sapiente coreografia corale a
Modugno e alla sua brillante canzone che fa di questa sequenza una della più animate di tutto lo sceneggiato.
Il cantante-attore sa mettere bene in evidenza anche la sua forte parlata siciliana. Non si può dimenticare la
sua canzone più nota scritta appositamente per L’Alfiere: Lu salinaro che Modugno canta nella quinta
puntata all’inizio della scena che vuole ricostruire la cosiddetta Torre d’argento, luogo diroccato nelle
vicinanze di Capua quasi a ridosso della Via Appia, in cui Nunzio e il frate si sono rifugiati mentre la
battaglia tra borbonici e garibaldini infuria sul Garigliano. E’ una canzone che assomiglia ad una mestacantilena dove affiora la nostalgia per la propria terra, interrotta improvvisamente dagli spari che giungono
dall’esterno e dall’irrompere sulla scena di Pino e dei suoi uomini che riportano l’atmosfera del teatro
televisivo. In una intervista di molti anni dopo, Modugno aveva ricordato che al termine di questa scena
alcuni addetti al trucco dovevano velocemente cambiargli pantaloni, mutande e calze per passare subito in un
altro studio in cui doveva recitare la scena successiva.44
Anton Giulio Majano pretendeva molta dai propri attori; Fabrizio Mioni lo ricorda come «una persona
umanissima e nello stesso tempo esigente”; Achille Millo lo definisce “rigoroso nel tenere la disciplina tra
44 Da: Il mestiere della televisione, cit
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43
gli attori, ma anche dotato di qualità umane eccezionali,» qualità che sapeva anche trasfondere negli attori
stessi e in quei personaggi positivi che erano quasi sempre i protagonisti dei suoi teleromanzi. Così proprio il
personaggio del tenente Franco Enrico interpretato da Achille Millo appare fin dalle prime scene una delle
figure più riuscite e più belle di tutta la storia dello sceneggiato televisivo. Al di là dell’amicizia fraterna che
lega il personaggio a quello del protagonista, facendo di entrambi due ufficiali che condividono fino in fondo
la fedeltà al proprio re, Franco è un uomo sensibile e generoso con più esperienza di Pino e che deve, a volte.
mascherare la sua grandezza d’animo dietro la rigida etichetta della vita militare. Achille Millo seppe dare a
questo personaggio anche la qualità del ragionatore intelligente e di buon senso che cerca di trovare sempre
una valida motivazione alle proprie azioni anche quando non può fare altro che compiere il proprio dovere.
L’attore napoletano recita con una spontaneità e una disinvoltura che rendono pienamente credibile agli
occhi dello spettatore questo giovane tenente tormentato dentro di sé anche da dubbi religiosi e, di fronte a
un modo che crolla, alla ricerca di un significato preciso da dare alla sua esistenza. Nel bellissimo dialogo tra
lui e padre Carmelo nella scena dell’osteria della quarta puntata (inventato completamente da Majano), come
nel suo delirio prima di morire, dubbi, senso del dovere e della fedeltà, bisogno di essere libero dalle
malvagità volute dagli uomini si intrecciano continuamente in uno stile recitativo che lo rende un
personaggio a tutto tondo. La sua battuta finale “io non ho capitolato” prima di ricadere riverso sul letto,
inquadrato in primissimo piano, riassume la fedeltà di tutta una vita in un’espressione del viso quasi
trasfigurata, ma non rassegnata. E nel già citato colloquio con il generale Polizzy sull’imminente
capitolazione della fortezza di Gaeta, alla domanda del generale: «ragazzo mio che cosa pensi di fare ?» Egli
risponderà: «semplicemente il mio dovere, come sempre.» Sovente nello sceneggiato troviamo sequenze
narrative in cui Pino e Franco sono inquadrati insieme, quasi a simboleggiare la loro sintonia di intenti e laloro perfetta unione nella sorte delle vicende militari; sono ufficiali del re e come tali si comporteranno sino
alla fine. Non è, quindi, un caso, che Franco morirà tra le braccia dell’amico e sarà solo con lui in quel
momento; nella logica del contesto narrativo non poteva essere diversamente.
Leandro Castellani ha ricordato che «Majano si applica sin dall’ora zero della nostra TV alla formula dello
sceneggiato, mediandola dalle trascrizioni cinematografiche dei romanzi di vasto successo popolare
realizzate soprattutto dal cinema hollyvoodiano, ma intuendo con chiarezza che le caratteristiche del nuovo
mezzo gli offrono il destro di distendere la materia di un romanzo ben oltre gli stretti limiti imposti dalla
convenzione cinematografica, operando un recupero dell’episodica apparentemente secondaria e soprattutto
dei cosiddetti personaggi minori, delle “seconde” e “terze” storie, che in ogni romanzo popolare
s’intrecciano e interferiscono strettamente con quella principale.»45
Indubbiamente la narrazione a puntate
del teleromanzo giocò un ruolo favorevole agli intenti di Majano e al suo indagare più a fondo nella vicenda
che si era proposto di portare sul piccolo schermo. Egli stesso ebbe a dire: «I miei lavori li ho realizzati due
volte; quando li scrivevo e quando li giravo. Ho sempre letto io le parti agli attori.»46
Era quindi lui a stabilire
quanta parte e quale ruolo definitivo un determinato personaggio dovesse avere nella vicenda. Così ne
L’Alfiere si possono prendere ad esempio i personaggi di Francesco II, della regina Maria Sofia e del tenente
45 L. Castellani, La TV dall’anno zero. Linguaggio e generi televisivi in Italia, Studium, Roma 1995, p. 133.46 Da: Il mestiere della televisione, cit.
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Rodriguez, interpretati rispettivamente da Antonio Pierfederici, Monica Vitti e Ivo Garrani. Nel romanzo di
Alianello i due personaggi maschili non hanno una parte maggiore di quella che trovano nello sceneggiato,
ma il regista sa dare loro uno spessore che li rende più veri e credibili e grazie anche all’interpretazione di
due validi attori quali erano Garrani e Pierfederici, essi acquistano un carattere umano che ne mette in luce
pregi e difetti con una presenza scenica e battute essenziali, ma pienamente efficaci. L’opportunistico
comportamento del tenente Rodriguez e la fermezza militaresca del re Francesco II unita a un pizzico di
ironia che i personaggi lasciano trasparire, sono rese benissimo dai due attori che, nella fedeltà al testo di
Alianello per quanto concerne le loro battute, entrano con disinvoltura nei rispettivi ruoli e creano due figure
da vero teatro, ma pienamente reali nella loro complessa umanità. Un discorso a parte merita la figura della
regina Maria Sofia di Napoli; nel romanzo il personaggio non ha battute, ma è solo descritta con brevi tratti
nelle pagine in cui l’autore parla della partenza dei sovrani da Napoli poco prima dell’occupazione della città
da parte di Garibaldi. Majano la inserisce, invece, in due scene: una nella quarta puntata (quella appunto
dell’abbandono della città partenopea) e una nell’ultima puntata, del tutto inventata, nella fortezza di Gaeta,
quando Pino e la bella Renata si ritrovano per giurarsi la definitiva promessa d’amore. Majano ci presenta
una regina rassegnata, ma pronta ad affrontare il suo destino di sovrana prossima all’esilio con fermezza e
dignità, senza sentimentalismi, né troppi rimpianti. Monica Vitti, allora giovanissima, è una Maria Sofia
dolce e nello stesso tempo regale, sicura delle proprie decisioni, prima fra tutte quella di seguire il marito
nella buona e cattiva sorte. In entrambe le scene in cui appare le sue battute sono poche e concise; l’attrice
realizza il personaggio attraverso gli sguardi significativi e i mesti sorrisi che la regia mette in primo piano;
la sua sensibilità d’animo arriva ad offrire a Pino Lancia il bouqet di fiori che Renata aveva portato per lei e
che il giovane tenente accetta con ossequiosa riverenza. Nella scena di commiato dei sovrani dal palazzoreale di Napoli, Maria Sofia segue il cerimoniale di corte con inchini alle proprie dame e lasciandosi baciare
la mano dagli ufficiali presenti. I movimenti sono molto studiati, da teatro televisivo come tutta l’atmosfera
di questa scena in cui alle battute dei personaggi si alternano anche momenti di silenzio che sottolineano il
clima solenne e drammatico delle decisioni che si stanno prendendo e la gestualità degli attori è molto
rigorosa. Majano vuole una Maria Sofia pienamente regale, ma anche donna dalla quale traspaia la sua
sensibilità femminile, cosa che la Vitti seppe rendere con grande bravura scenica e capacità di recitazione,
calandosi nelle vesti di un personaggio che non ritroveremo quasi più nelle sue successive e numerose
interpretazioni cinematografiche, ma che a quell’epoca le andava a pennello. Così, ripresa a mezzo busto, o
in primo e primissimo piano, Maria Sofia è un personaggio giocato sull’elemento psicologico dove il viso, il
movimento delle palpebre e gli occhi hanno un’importanza fondamentale. Nel 1860 Francesco II di Borbone
aveva 25 anni, Maria Sofia 19; storicamente parlando, nella loro sventura di sovrani spodestati, seppero dar
prova di forza d’animo e dignità non facilmente riscontrabili in altri regnanti degli stati preunitari; Majano
seppe tratteggiare questo loro atteggiamento senza troppe parole, né monologhi da teatro drammatico, ma
lasciando trasparire l’interiorità dei personaggi che in tal modo restano più scolpiti nella memoria del
telespettatore.
Nel 1970 Alessandro Blasetti realizzò per la Rai lo sceneggiato Napoli 1860. La fine dei Borboni inserito nel
ciclo televisivo I giorni della storia. Al di là del fatto che qui la vicenda è vista dalla parte dei vincitori e del
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popolo che si ribella alla dominazione borbonica, i due sovrani interpretati da un bravissimo Bruno Cirino e
dall’attrice tedesca Rosita Torosh sono molto diversi da quelli di Majano. Francesco II è più pungente e
ironico, Maria Sofia è più austriaca e brillante, mentre Monica Vitti ne aveva fatto una donna pienamente
italiana. A distanza di quattordici anni da L’Alfiere la drammatica vicenda degli ultimi borboni di Napolitornava sui teleschermi in uno sceneggiato che, realizzato con tecnica cinematografica, era una sorta di film-
inchiesta, rigorosamente basato, però, su una accertata documentazione storica.
Un altro personaggio singolare di questo Alfiere è quello di Mimì Lecaldani, cugino di Pino, qui interpretato
da un giovane e bravissimo Nino Manfredi, anch’egli come la Vitti in un ruolo che non ritroveremo più nei
personaggi sicuramente più noti e memorabili dei suoi numerosi film. Majano affida a Manfredi un
personaggio drammatico, dal carattere opportunista e ambiguo; egli finge di essere dalla parte di Pino e poi
lo tradisce e congiura contro di lui insieme agli altri giovani passati dalla parte dell’esercito garibaldino, per
riconciliarsi infine con il cugino al momento in cui viene arrestato a Caiazzo e condotto prigioniero con gli
altri volontari nella fortezza di Capua.
Manfredi sa rendere credibile la falsa cortesia del personaggio e il suo iniziale ruolo di mediatore tra Pino e
gli altri giovani che dimostrano subito scarsa simpatia o diffidenza verso di lui. L’attore mette subito in
evidenza il carattere calcolatore dell’uomo che ha già fatto le sue scelte di parte ma non le vuole rivelare
apertamente, le sue false premure verso il cugino che si tramutano in aperta ostilità nella drammatica scena
della terza puntata in cui, dopo la sagra paesana per festeggiare l’inizio della trebbiatura, Pino viene
imprigionato all’interno della masseria da lui, dallo zio arciprete, l’attore Antonio Battistella, e dagli altri per
i quali il giovane ufficiale borbonico è diventato un ostacolo. Durante questo processo sommario, una sorta
di processo fuori aula si potrebbe dire, Manfredi da il meglio di sé per rendere la drammaticità del
personaggio e la sua ipocrisia che finalmente si rivela agli occhi sbigottiti e un po’ ingenui del cugino. I due
personaggi si affrontano alzando la voce, in un alterco di sapore teatrale, ma non per questo meno efficace e
credibile. Majano vuole però un Manfredi dall’aspetto nobile e distinto e gioca molto sul viso dell’attore dal
cui sguardo deve sempre trasparire questo senso di nobiltà. Il personaggio del libro è più rozzo e contadino,
più grossolano nei gesti e nel modo di fare; Manfredi guidato da Majano ne fa un uomo borghese studiato nei
movimenti, che sa parlare con convinzione, anche se freddo, appunto perché calcolatore. Solamente nella
scena dell’arresto dei soldati garibaldini tra i quali Mimì si è arruolato, nella quinta puntata, il personaggio
acquista un carattere rassegnato e quasi patetico, pronto a riconciliarsi con Pino, recandogli anche la dolorosa
notizia della morte della sorella Titina. Ancora una volta i primi piani su l’attore voluti da Majano rivelano il
cambiamento psicologico dell’uomo che ha perduto nella lotta in cui credeva e che ora si consegna inerme al
nemico.
Nella terza puntata de L’Alfiere, che si svolge nella località di Tito in Basilicata nei giorni in cui sul fronte
bellico si combatte a Milazzo, compaiono personaggi che non ritroviamo nelle altre puntate: l’arciprete Don
Celestino, la dolce Titina e i giovani simpatizzanti di Garibaldi interpretati da attori successivamente
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46
destinati ad una futura notorietà: Luciano Melani, Vittorio Congia e Raffaele Meloni, futuro regista anche di
lavori televisivi47
.
Fra tutti, però, spicca, Fernando Cicero, allora venticinquenne, che qui interpreta il ruolo di Filippo Monaco,
un giovane spiantato e vanesio che odia e invidia Pino, ma la cui cattiveria è anche imbevuta di tanta
stupidità. Majano gli riserva una parte pressocchè identica a quella che ha nel libro di Alianello, ma obbliga
il giovane attore a mettere in luce maggiormente la poca intelligenza del personaggio, che non il suo animo
risentito e incattivito. Così nella scena in cui Filippo provoca Pino comunicandogli la sconfitta subita
dall’esercito borbonico a Milazzo e sobillando negli altri giovani l’esaltazione verso Garibaldi, il
personaggio viene prima deriso e preso in giro da tutti i presenti che hanno poca stima di lui, poi dimostra
chiaramente di non avere argomenti convincenti per sostenere le sue presunte tendenze garibaldine e alla fine
non può reagire allo schiaffo che Pino gli affibia con mano decisa, perché gli altri lo trattengono con la forza.
Anche in questo caso il personaggio è giocato sull’atteggiamento e sulle espressioni del volto alle quali il
regista non rinuncia mai. Gli sguardi che l’attore comunica ogni volta che viene ripreso in primo piano
preannunciano sempre il suo desiderio di creare discordia e di provocare Pino, quasi divertendosi alle
reazioni di quest’ultimo. Le battute tra i due giovani mettono in luce come Filippo conosca la debolezza di
Pino che è quella di reagire subito alle provocazioni, e, a volte ingenuamente, di conoscere poco il carattere
infido del suo provocatore verso il quale non sa mostrare indifferenza o ironia come fanno gli altri. Nella
citata sequenza in cui Pino da uno schiaffo a Filippo nel bel mezzo di una partita a carte con gli altri, il
giovane ufficiale è pronto alla rissa violenta e, diremo, a suonarle di santa ragione all’impertinente che si è
permesso di deridere il suo battaglione sconfitto. Nel romanzo la rissa scoppia di fatto e i due giovani fanno
effettivamente a pugni; qui la sequenza diventa teatro drammatico nella tensione che si crea tra i personaggie nel breve monologo di Pino a difesa dell’esercito napoletano che conclude la scena. Nella televisione degli
anni cinquanta le mani addosso non erano ammesse oltre un certo limite! E tuttavia lo sceneggiato è già
moderno nella recitazione proprio in questa terza puntata che vede schierato questo gruppo di giovani
estroversi, forse anche caparbi e pronti a cercare una solidarietà tra loro nello scherzo e nel prendersi gioco
uno dell’altro. Ne restano, ovviamente esclusi, Pino e Filippo, le cui personalità più definite e opposte una
all’altra devono invece far emergere due personaggi che non smentiscono mai la propria drammaticità; il
conflitto interiore che li divide e li rende nemici è sempre presente in ogni scena di questa puntata.
Altri personaggi che potremmo definire minori affiancano le figure principali in questa lunga narrazione
televisiva di storia risorgimentale; ci limitiamo a citarne qualcuno, sottolineando che a tutti Majano da,
comunque, una parte significativa. Il personaggio di Zia Rosa, governante di casa Lancia, che Pino chiama
confidenzialmente zi’ Rosina, ha il volto dell’attrice Tecla Scarano, perfetta nel ruolo di donna del popolo,
napoletana al cento per cento, pronta a dirigere le faccende domestiche, ma anche a fare il proprio interesse,
spacciandosi di fronte all’ingenuo Pino, per chiromante e medium con l’unico scopo di far cadere nelle
braccia del giovane la propria nipote Ginevra. Sul fronte maschile abbiamo il colonnello Polizzy che guida il
reggimento dei cacciatori napoletani a cui appartiene Pino, figura umanissima e di spiccata statura morale,
47 Di Raffaele Meloni possiamo ricordare la regia dello sceneggiato Malombra del 1974, tratto dal romanzo di Antonio Fogazzaro,
con Marina Malfatti e Giulio Borsetti nei ruoli principali.
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interpretato dall’attore Corrado Annicelli che sa dare al personaggio quel sentimento di amorevolezza
paterna verso i propri soldati, che non sappiamo se abbia veramente posseduto nella realtà. A lui fa da
contrasto l’arcigna figura del capitano Morbido, uomo duro e invidioso degli ufficiali più giovani che ha il
volto dell’attore Enrico Glori. Sul versante femminile ricordiamo ancora madamigella Gelsomina Gigliò,
amica e confidente della bella Renata, il cui ruolo è quello di aiutare i due giovani a ritrovare il proprio
amore alla fine della vicenda, con fine psicologia femminile. L’attrice Zoe Incroci, una veterana del
teleromanzo a puntate, ne fa un personaggio sicuro di sé, discreto, ma sempre pronto a intervenire al
momento giusto.
Tutta una schiera di figure, quindi, che avevano il compito di coinvolgere il pubblico e farlo partecipe di una
vicenda ricca di intreccio, ma resa familiare e digeribile per tutti anche attraverso il contributo di tanti
personaggi minori. Come ebbe a dire molto bene Oreste De Fornari, «Majano è stato uno dei pochi grandi
registi di carattere popolare non comico. Era lento, ma sapeva coinvolgere il pubblico.” E Alberto
Bevilacqua definì Majano “un narratore di polso. Teneva il video e ci dava dentro con una impronta e un
impeto un po’ garibaldino, ma che affascinava.»48
La televisione delle origini privilegiava una coscienza popolare che avvertiva il bisogno di nutrirsi ancora di
radici genuine, storiche e culturali di cui il teleromanzo a puntate è stato il contenitore più appetibile.
Il castello di Gaeta. Incapace di fronteggiare la situazione e arrestare l’avanzata dei Mille che dalla
Sicilia puntavano sulla capitale del Regno, Francesco II si rifugiò a Gaeta il 6 settembre 1860
48 Entrambe le citazioni sono tratte dal programma televisivo Il mestiere della televisione, cit.
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Capitolo XI
I temi musicali presenti ne L’Alfiere
Il maestro Riz Ortolani, autore delle musiche di accompagnamento in diverse sequenze de L’Alfiere
ha
sempre sostenuto che la musica è il complemento artistico di ogni sceneggiato. Anton Giulio Majano era
convinto di questo e aveva idee molti chiare in merito. «Allo stesso tema musicale egli chiedeva diverse
versioni.»49
Riz Ortolani ha conservato un ottimo ricordo di Majano e ne parla ancora oggi come di una
persona con cui era possibile vivere un vero rapporto umano basato sul rispetto e la collaborazione reciproca;
era molto esigente e richiedeva a tutti coloro che erano coinvolti nei suoi sceneggiati una mole di lavoro
immenso, ma sapeva dare fiducia e coraggio a tutti. In quegli anni di sperimentazione televisiva in cui si
lavorava febbrilmente alle messe in onda in diretta di qualsiasi spettacolo adattato al piccolo schermo,
Ortolani ebbe il compito di scrivere i temi musicali che dovevano accompagnare la sofferta vicenda militaree amorosa di Pino Lancia.
E’ noto a studiosi, storici e appassionati quanto abbia contato la musica durante il Risorgimento nel suo
evolversi come fenomeno storico e soprattutto patriottico. Bene o male tutti sono a conoscenza del ruolo che
essa ha giocato nelle atmosfere romantiche della cospirazione, della lotta e della guerra, alimentando in ogni
occasione i sentimenti più accesi e gli ideali più coinvolgenti. Tutto lo svolgersi degli eventi risorgimentali,
dalla Restaurazione all’Unità di Italia, è retto più che accompagnato da una colonna sonora che fiancheggia,
esalta e giustifica gesti singoli e collettivi.
Le due grandi fonti cui la musica del Risorgimento ha attinto sono i canti popolari e il melodramma.
Il cinema si è appropriato di queste fonti nella più parte della sua produzione a soggetto storico-
risorgimentale; la televisione, in una dimensione diversa, non ha mancato di seguire questo metodo in quegli
sceneggiati in cui il Risorgimento, visto da varie angolazioni, è presente come momento storico di primo
piano. Basti pensare allo sceneggiato Ottocento realizzato dallo stesso Majano nel 1959, uno dei più grandi
successi della televisione degli anni cinquanta che contribuì alla maggiore notorietà del libro di Salvator
Gotta da cui era tratto. In quel teleromanzo i canti popolari non mancavano e ad essi si univano i temi
originali scritti appositamente che creavano l’atmosfera di un autentico melodramma ottocentesco dove gli
ideali patriottici e i sentimenti dei personaggi si sposavano felicemente gli uni con gli altri.
L’Alfiere presenta un Risorgimento diverso, più militaresco, più riflessivo dove prevale la difesa di un
territorio politico che è solo una porzione di quello nazionale e che vuole, nelle ragioni dei protagonisti,
mantenere la propria indipendenza. Per tali motivi non potevano prevalere temi musicali e canti patriottici
inneggianti l’indipendenza nazionale, ma musiche di commento alla vicenda militare, ai sentimenti a volte
controbattuti dei personaggi e ovviamente alla vicenda amorosa del protagonista. Il tema dominante è quello
che accompagna il sentimento che Pino nutre per la bella Renata, il suo amore non corrisposto e contrastato
continuamente dagli ideali di fedeltà alla causa borbonica a cui il giovane alfiere non vuole rinunciare e che
49 Dallo stesso programma citato.
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la donna non vuole accettare. Il tema musicale è prettamente melodico, ma è una melodia che acquista
gradatamente un certo ritmo e diventa, soprattutto nel finale di ogni puntata dove viene sempre richiamato,
quasi solenne, a voler indicare che la vicenda narrata non si basa solo sull’amore di un ufficiale per la sua
donna, ma anche sull’amore per quei forti valori dell’onore e della fedeltà che sono alla base della vita
militare. All’inizio di ogni puntata, eccetto la prima, mentre scorrono i titoli di testa, questo tema compare
preceduto da alcune battute di impronta militaresca in cui viene richiamato per pochi secondi anche il
famoso inno di Garibaldi; è un’introduzione quasi da ouverture al dramma che si compie gradatamente e che
rimane principalmente un dramma di soldati, di un esercito che combatte per una causa a cui non può
sottrarsi, pena la perdita del proprio senso dell’onore. E d’altra parte non siamo nel contesto di un romanzo
d’amore, ma di una vicenda di guerra che è anche una guerra risorgimentale, il che non è poco. All’inizio
della prima puntata, invece, mentre scorrono le immagini tratte dal film 1860 di Blasetti, abbiamo il già
accennato sottofondo musicale che fa da commento alle sequenze della battaglia di Calatafimi. Qui Riz
Ortolani da sfogo a una musica particolarmente sofferta, decisamente da film di guerra, un tema che si ripete
più volte quasi a sottolineare il continuo svolgersi di una serie di azioni drammatiche che sembrano non
avere mai fine, come accadeva realmente nelle grandi battaglie. E’ un pezzo quasi sinfonico che ritroviamo
anche nella breve sequenza dello scontro di Caiazzo della quinta puntata dove è utilizzato come
accompagnamento alla carica dei soldati napoletani intenti a conquistare le barricate costruite dai garibaldini.
In entrambi i casi citati lo sceneggiato esce dagli ambienti angusti dello studio televisivo e diventa azione
cinematografica grazie anche al supporto della musica che si compenetra con l’azione scenica. E come non
ricordare la bellissima marcia reale che dalla quarta puntata in avanti accompagna le sequenze più belle di
ambientazione militare, comprese quelle in cui è presente il personaggio di Francesco II ? Si tratta di unarrangiamento dell’ Inno al Re delle Due Sicilie composto dal grande compositore napoletano Giovanni
Paisiello negli anni della dominazione borbonica di Ferdinando IV, una sorta di marcia militare, ricordata
nella biografie dell’autore come una delle più belle marce scritte in epoca settecentesca. L’originale di
Paisiello è maestoso e solenne; è un inno vero e proprio che si potrebbe immaginare anche cantato da un coro
accompagnato da un’orchestra, benchè sia sovente eseguito soprattutto da bande musicali. L’arrangiamento
che ne fece il maestro Ortolani ha un’impostazione regale e militaresca insieme, frutto dell’utilizzo di alcuni
strumenti a fiato, di qualche tamburo e dei piatti. Possiede, tuttavia, una sua solennità quasi drammatica, con
cadenze evidenti, il che la rende un pezzo non celebrativo, ma di commento rispettoso a un mondo che sta
crollando, a un regno destinato a soccombere di lì a breve, a un sovrano che deve lasciare il trono. La
ritroviamo anche nel bellissimo finale della sesta puntata: il saluto alla bandiera con le insegne borboniche
prima che venga ammainata sugli spalti della Torre d’Orlando nella piazzaforte di Gaeta. E’ il commento
all’addio di un’epoca storica tramontata per sempre.
Ma ne L’Alfiere sono presenti anche alcune canzoni scritte appositamente dal grande Domenico Modugno, a
quell’epoca già ottimo chitarrista e cantautore di carattere squisitamente popolare. Anton Giulio Majano ha
sempre amato la canzone come completamento dell’apparato musicale dei suoi teleromanzi; il caso di
Modugno non resterà l’unico: nel 1975 troveremo un altro grande cantautore, Herbert Pagani,
prematuramente scomparso, che avrà il ruolo di cantastorie nello sceneggiato Marco Visconti tratto dal
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romanzo di Tommaso Grossi. Le sue bellissime canzoni di sapore medievalesco e dalla melodia molto
orecchiabile fanno da commento alla drammatica storia d’amore tra Ottorino Visconti e la bella e romantica
Bice. Ne L’Alfiere abbiamo già ricordato che Modugno ha un ruolo abbastanza rilevante e le sue canzoni
servono più che altro a completare il personaggio di Nunzio, un uomo un poco estroso e originale che però
nasconde una forte sensibilità e un animo generoso. Le sue canzoni diventano una sorta di meditazione, un
ricordare con nostalgia la sua terra siciliana, un tentativo di addolcire le sofferenze interiori sue e degli altri.
Significativa è la scena nel lazzaretto di Gaeta, nella sesta puntata, dove Modugno canta la sua Amara terra
mia accompagnandosi con la chitarra mentre i soldati feriti vengono condotti a braccia o in barella all’interno
di questo triste “ospedale” per essere curati o per morire con il conforto religioso di padre Carmelo e delle
note di quella canzone che ricorda la loro terra lasciata per sempre. In una precedente scena della stessa
puntata, alla domanda dell’ufficiale Totò che gli chiede perché non si decide anche lui a impugnare un fucile
e a combattere, Modugno risponderà che la chitarra è la sua arma perché con quella lui conforta i suoi
compaesani, ricordando loro l’amata Sicilia, “e ce ne sono tanti qui a Gaeta di quelli che come me hanno
lasciato il loro paese e chissà se mai lo rivedranno un giorno!” La chitarra diventa la compagna fedele di
Nunzio, la sua vera arma. Persino nel momento in cui egli muore abbracciato all’amato fraticello con cui
aveva condiviso un lungo cammino di pericoli e di stenti, l’ultima inquadratura che resta di lui è la sua
chitarra adagiata a terra in mezzo al fumo delle cannonate e alle pietraie dove si sta consumando l’ultimo atto
del lungo assedio.
Nella quarta puntata appare anche un altro cantante che godeva una certa notorietà in quegli anni: Rino
Salviati, autore di numerose canzoni napoletane che egli pure accompagnava sempre con la chitarra. Qui lo
vediamo in una sola scena in cui l’azione è collocata all’interno di un ristorante di Napoli dove Pino Lancia ela frivola Ginevra che in quel momento è diventata la sua ragazza, stanno trascorrendo una serata in
compagnia dell’ex sergente Lo Russo che ha lasciato l’uniforme e ha disertato per entrare in un giro di
camorristi che hanno preso un certo potere politico in città. La scena è divisa in due sezioni: la prima è
dedicata al cantante Salviati che si aggira tra i tavoli della sala cantando la sua canzone Cicerenella dal tipico
sapore napoletano, ma anche mesta e nostalgica. Qui la funzione del canto è puramente di intrattenimento e
l’atmosfera che crea è più simile a quella di certi film anni cinquanta in cui ricorrono sovente scene
all’interno di un luogo pubblico dove qualcuno canta per intrattenere gli ospiti; il prototipo del piano bar di
oggi.
Durante il dialogo tra i tre personaggi seduti al tavolo il suono della chitarra fa da sottofondo e da
accompagnamento e ci fa sentire il lontano fascino di una Napoli popolare.
Un ultimo accenno merita l’altro tema melodico e nostalgico che Riz Ortolani ha inserito in alcune scene
chiave dello sceneggiato: la morte del tenente Franco, la bellissima scena girata sul fiume che abbiamo già
ricordato e il momento in cui Pino viene fatto prigioniero a Tito di Basilicata dai suoi presunti amici nella
terza puntata. E’ un tema in cui la melodia è costruita su un certo ritmo cadenzato che assomiglia a una dolce
cantilena che vuole sottolineare non la drammaticità di quei momenti, ma il rimpianto dei personaggi e le
loro illusioni perdute. Nella scena dove Pino viene rinchiuso nella stanza della masseria,
quell’accompagnamento musicale sottolinea la sua tristezza nel vedersi tradito dai giovani che credeva
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Capitolo XII
Scenografia e linguaggio
Come in tutti i teleromanzi a puntate che si rispettino, anche ne L’Alfiere ha un importanza fondamentale la
cura delle scene e della ricostruzione degli ambienti in cui si svolge la vicenda che qui hanno oltretutto la
caratteristica di avvalersi solamente delle famose quattro pareti in cui gli sceneggiati venivano allestiti.
Emilio Voglino, uno dei primi scenografi della Rai che firmò in questo settore diverse produzione,
conosceva il proprio mestiere e sapeva destreggiarsi con sicurezza e disinvoltura negli spazi angusti degli
studi televisivi. Per L’Alfiere seppe ricostruire con la collaborazone di Paolo Fabriani che si occupava
dell’arredamento, ambienti salottieri dal sapore ottocentesco per le sequenze che si svolgono nella casa di
Pino Lancia e della bella Renata Rodriguez nelle prime due puntate. Divani, poltrone, specchiere che
riflettono a volte i movimenti dei personaggi, mobili in stile d’epoca, il tutto quadra sempre con perfetta
armonia e rende a pieno l’ambiente salottiero in cui gli attori si muovono e agiscono in mezzo ai fili e ai
cordoni delle telecamere che sanno inquadrare spesso particolari che completano la scenografia: un vaso di
fiori sopra un mobile, un quadro appeso alla parete di fronte o il pavimento di una stanza su cui si riflette la
luce proveniente da una finestra aperta sull’orizzonte marino che in realtà è un fondale dipinto. Ma già il
precedente Piccole donne e il successivo Jane Eyre propongono interni di questo tipo; la novità de L’Alfiere
rimane lo sforzo di ricostruire ambienti in cui si svolge la vita militare del reparto del reggimento cacciatori a
cui il protagonista appartiene. I diversi presidi militari di Capua, di Montesecco, di Gaeta nella quinta e sesta
puntata, le cosi dette casermatte della fortezza di Gaeta in cui erano accampati i soldati napoletani, l’ospedale
militare, le prigioni di Palermo, il tutto è stato ricostruito con molta verosimiglianza e con l’ingegno e la
fantasia che Emilio Voglino e Majano sapevano mettere in atto nelle ristrettezze dei mezzi e degli spazi
televisivi. Ci troviamo di fronte ad ambienti chiusi dove non manca mai l’essenziale; nella casamatta in cui
vive Pino nell’ultima puntata, ad esempio, c’è il suo letto, il tavolo, il mobile su cui egli appoggia la sua
sciabola e il cinturone che porta in vita, la feritoia che funge da finestra, un interno da autentica fortezza
militare quale possiamo riscontrare osservando stampe o vecchie fotografie ottocentesche.
Le azioni narrate all’interno dei presidi militari hanno in comune tutte un elemento scenografico: lo stemma
del presidio della singola località che viene inquadrato sempre all’inizio della sequenza. Si tratta di unagrossa placca di metallo a forma di scudo sulla quale è inciso il nome del comune e i simboli regali e che è
appesa alla parete della stanza. Lo stemma del presidio militare di Capua raffigura la corona reale e le
insegne del Regno delle Due Sicilie; quello di Montesecco ha una spada posta di traverso e sullo sfondo la
città di Napoli. Un elemento analogo lo ritroviamo all’inizio dell’ultima puntata all’interno del distretto
militare di Gaeta: qui lo stemma della fortezza presenta ancora la corona reale e lo scudo regale con i tre
gigli borbonici. E’ un modo di attuare una attenta ricostruzione storica che vuole essere il più fedele possibile
alla realtà; Majano lo adotterà ancora nel 1980 ne L’eredità della priora dove pure gli stemmi dei comuni di
varie località appaiono all’inizio di alcune sequenze. Tutto il resto vuole essere solo essenziale: una scrivania
quando occorre, la bandiera con le insegne del regno affissa a un’asta metallica, grosse armature medioevali
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e enormi scudi appesi alle pareti nelle sequenze che vogliono ricostruire l’interno della fortezza militare di
Gaeta. Ogni elemento viene inquadrato lentamente dalle telecamere che hanno anche la funzione di portare
lo spettatore a soffermarsi su ogni particolare quasi a immedesimarlo meglio nella lenta narrazione della
vicenda, tipica degli sceneggiati a puntate. Se oggi non c’è più la disponibilità a seguire l’andamento lento di
questi lavori televisivi, non si può dimenticare, però, la cura e la bravura di questi pionieri della televisione
che sapevano creare dal nulla un ambiente e ci mettevano l’anima nel farlo; amavano i particolari e curavano
le riprese con una precisione che oggi, forse, viene data sovente per scontata.
Abbiamo già parlato della scena del combattimento sul campanile del Duomo di Palermo nella prima
puntata; l’elemento scenografico significativo è costituito dal davanzale dal quale i soldati sparano e che da
l’impressione che sotto vi sia un vuoto che in realtà non esiste, poiché il tutto è costruito a pochi metri dal
pavimento dello studio televisivo. Il presidio militare di Capua, all’inizio della quinta puntata, è una stanza
abbastanza ampia ed elegante; Pino e successivamente il re vi entrano da due porte dietro alle quali non c’è
nulla, anche se si ha l’impressione che altre stanze siano situate al di là di esse. La stessa sensazione si ha
nell’ultima scena della quarta puntata ambientata al presidio militare di Montesecco dove Pino si reca per
chiedere all’ex sergente Lo Russo un salvacondotto per lasciare Napoli e rientrare al suo battaglione. Una
porta e una finestra senza luce costituiscono l’illusione di un ambiente che comunica con l’esterno. Non si
può non ricordare, infine, la sapiente ricostruzione del porto di Palermo nella prima puntata, nel momento in
cui Renata con il padre e la cugina lasciano la città per trasferirsi a Napoli e Pino si reca colà per salutarla. La
pavimentazione che sembra fatta di pietra, l’acqua inquadrata in primo piano che trasmette l’idea di un porto
marittimo, la scalinata che scende verso il basso dove è situato il punto di attacco delle navi, i marinai a piedi
scalzi che armeggiano intorno alla nave con funi e corde, il tutto è ricostruito con una maestria e unaverosimiglianza sorprendenti.
I personaggi agiscono al centro della scena, in mezzo a questo marasma di elementi scenografici e di
movimenti di comparse e di telecamere. La nave non viene inquadrata nella sua interezza; in realtà è una
piattaforma rialzata con una balaustra in legno posta sul davanti che da l’illusione del ponte superiore di una
nave vera e propria. Durante il dialogo tra Pino e Renata, il primo che incontriamo nello sceneggiato, la regia
si sofferma ovviamente sul volto dei due attori, trascurando tutto quello che avviene intorno che passa in
secondo piano, ma nel momento in cui Renata deve accomiatarsi dal fidanzato, richiamata dalla cugina, si
ritorna all’illusione della nave in partenza.
La telecamera inquadra l’attrice di spalle mentre, già salita a bordo, saluta l’ufficiale e lo spettatore vede la
balaustra in legno che gradatamente viene avvicinata dalla telecamera mentre la donna sparisce altrettanto
gradatamente dallo schermo e in questo modo si ha l’impressione che una nave si stia realmente
allontanando da un punto di terraferma. I marinai, dal canto loro, tolgono la passerella di collegamento con il
porto e sciolgono le funi che tenevano l’imbarcazione legata a grossi pilastri. Pino, rimasto al centro della
scena, è inquadrato a figura intera, prima in lontananza, poi più ravvicinato;quindi egli risale lentamente la
scalinata del porto mentre il tema musicale del suo amore per Renata appare per la prima volta in tutta la sua
interezza. L’ultima inquadratura che chiude la sequenza è ancora l’acqua che rasenta la pavimentazione in
pietra. Fabrizio Mioni ricorda che, fra telecamere e carrelli, secchi d’acqua che riempivano lo studio, pareti
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anguste e strette e l’imponente piattaforma simboleggiante la nave che occupava da sola mezzo studio,
questa è stata una delle scene più complicate da realizzare scenograficamente e dove era anche più difficile
muoversi in mezzo a tutto quell’armamentario.
Sicuramente non mancava la genialità degli scenografi e dei registi a quell’epoca !
Può essere interessante spendere qualche parola anche per le stampe a soggetto storico che appaiono
all’inizio di alcune puntate sui titoli di testa e precisamente ci riferiamo alla seconda, quarta, quinta e sesta
puntata. Durante tutto il periodo ottocentesco la stampa e la litografia raffiguranti fatti militari o politici
dell’epoca, napoleonica prima e risorgimentale dopo, hanno avuto una notevole divulgazione e le collezioni
in merito si sono moltiplicate fino ai nostri giorni. All’epoca de L’Alfiere televisivo diversi studi erano già
stati compiuti sul valore di certe collezioni iconografiche, ma erano sicuramente meno noti di quanto lo siano
oggi. Ciò, però, non tolse che alcune pubblicazioni riportassero già alcune litografie che rappresentavano
soprattutto fatti d’arme e scene di battaglie famose del Risorgimento. L’unica tra quelle che appaiono ne
L’Alfiere che abbiamo potuto identificare con esattezza è quella che appare all’inizio della quinta puntata:
una litografia raffigurante un episodio della battaglia di Solferino del 1859 su disegno dell’artista Gabriele
Castagnola e pubblicata su un volume del 1864 dal titolo “Storia d’Italia dal 1815 fino alla proclamazione
del Regno d’Italia raccontata al popolo.”. Raffigura lo schieramento militare austriaco e quello francese sul
campo di battaglia; sullo sfondo appare la torre di Solferino, riferimento cruciale del combattimento, e in
primo piano un gruppo di soldati austriaci prigionieri e uno di francesi che difendono il loro cannone.51
Si può obiettare che l’episodio di Solferino nulla aveva a che vedere con le vicende militari narrate ne
L’Alfiere che risalgono all’anno successivo e si svolgono nell’Italia meridionale; ma probabilmente agli
scenografi e allo stesso Majano era piaciuta questa scena di guerra ottocentesca che non stonava comunquecon l’atmosfera bellica del romanzo e che il bianco e nero della trasmissione televisiva riusciva a rendere
molto bene. Nulla sappiamo invece delle fonti della altre tre stampe: quella che apre la sesta puntata
rappresenta sicuramente una scena dell’assedio di Gaeta dove è riconoscibile la torre di Orlando della
fortezza e al centro le navi sul mare prospiciente il promontorio; interessante quella della seconda puntata:
una nave isolata in mezzo a un mare in tempesta. Espediente anche questo nuovo nella regia televisiva di
quei primi anni che voleva aderire alla fedeltà storica anche attraverso l’impiego di immagini con la funzione
di rappresentare allusivamente luoghi e situazioni della vicenda..
La scenografia di questi primi teleromanzi era una sorta di linguaggio televisivo attraverso il quale si
esprimeva concretamente la trasposizione della vicenda insieme al copione con le battute dei personaggi e il
tutto andava a costituire un vero linguaggio teatrale. Nel caso specifico de L’Alfiere si può parlare anche di
linguaggio misto, intendendo un felice assemblaggio di recitazione teatrale, scenografia di ambientazione
storica e riproduzioni di immagini e suoni che vogliono richiamare la realtà storica; basti pensare anche al
già citato inno reale o alle sequenze del film 1860 di Blasetti inserite nello sceneggiato. Linguaggio
televisivo e linguaggio storico, dunque, per la prima volta appaiono insieme sul piccolo schermo della
neonata TV. Se questa sorta di mixage sia stata positiva oppure no lo possono testimoniare le statistiche
51 Storia d’Italia dal 1815 alla proclamazione del Regno d’Italia raccontata al popolo, Editore Angelo Usigli, Firenze 1864.
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compiute annualmente dalla Rai fin da quei primi anni, raccolte nei cosiddetti quaderni del servizio opinioni
pubblicati anno dopo anno, dalle quali risulta che lo sceneggiato televisivo otteneva sempre un indice di
gradimento tra i più alti. Il tipo di linguaggio proposto per la prima volta dal romanzo di Carlo Alianello avrà
un seguito in altri sceneggiati a soggetto storico di quegli anni: Ottocento del 1959 sempre di Majano, La
Pisana del 1960 con la regia del compianto Giacomo Vaccari, per arrivare a quel capolavoro, purtroppo
andato perduto, che è stato I Giacobini del 1961 dal romanzo di Federico Zardi con la regia di Edmo
Fenoglio. Tutti questi lavori avevano avuto il compito di catapultare alla ribalta del piccolo schermo vicende
della nostra storia patria del Settecento e dell’Ottocento riplasmate dalla penna di scrittori di estrazione
diversa, ma tutti accomunati da una caratteristica precisa: l’aver creato opere letterarie che narrassero la
storia nazionale di quei due secoli. Scenografie ridotte, ambienti ricostruiti, copioni da opera teatrale
costituivano il linguaggio essenziale ed indispensabile ad una produzione televisiva di tutto rispetto.
Come ebbe a dire molto bene in quegli anni il grande attore Giorgio De Lullo, pur riferendosi principalmente
alle trascrizioni televisive di opere teatrali: «i risultati saranno apprezzabili solo se si procederà ad una
spoliazione dei copioni, a scenografie ridotte. Tutto ciò per arrivare immediatamente al nocciolo,
all’essenziale, così da sfruttare intelligentemente il mezzo televisivo in tutte le sue possibilità.»52
Che i risultati ci siano stati e di indubbia qualità, lo ha dimostrato la storia dei primi dieci anni di vita della
Rai.
Lasciamo ancora la parola ad Anton Giulio Majano, riportando una sua quanto mai significativa
affermazione sul genere dello sceneggiato televisivo pronunciata in occasione di un convegno tenutosi nel
1985 e che può essere una felice conclusione di questa lunga illustrazione de L’Alfiere.
«Se il romanzo sceneggiato rispettato nella sua vera struttura, nei suoi dialoghi, nei suoi scontri psicologicidura in eterno, non può morire sotto il peso della concorrenza. Almeno questa è la mia opinione.»
53
L’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli nel 1860 in un dipinto di A. Lacaita
Il tentativo di Francesco II di riprendere il controllo della situazione a Napoli fu sventato dalla vittoria
garibaldina sul Volturno
52 A. A. V. V., Dieci anni di televisione, ERI, Torino 1964.53 La citazione è tratta dall’intervento fatto da Majano duante un convegno tenutosi a Torino nel 1985, cfr. Televisione: la provvisoria
identità italiana, atti del convegno tenutosi il 13 e 14 ottobre 1985 presso la fondazione G. Agnelli a Torino, Fondazione G. Agnelli,
Torino 1985, p.
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Capitolo XIII
Lo stato di conservazione del materiale
Come già accennato nella premessa al presente lavoro, oggi le sei puntate de L’Alfiere sono conservate nei
magazzini delle Teche Rai sulla Via Salaria a Roma, dove è archiviata la più parte della produzione di
cinquant’anni di vita dell’ente televisivo.
E’ interessante compiere un excursus sui materiali e i supporti che oggi permettono all’immensa produzione
Rai di essere conservata e custodita come prezioso patrimonio di una storia che ha contribuito a formare nei
decenni la nostra società. Il catalogo multimediale delle teche, navigabile in tutta la sua completezza in tutte
le sedi regionali della Rai e nelle tre postazioni di Milano, Torino e Roma all’interno di tre grandi
mediateche realizzate da pochi anni, permette non solo di verificare tutto ciò che è attualmente conservato
negli archivi storici della Rai, ma anche di trovare i codici identificativi delle teche dei singoli programmi e i
relativi supporti di conservazione, oltre ad accertare quali programmi sono attualmente digitalizzati e quali
no. Quelli digitalizzati sono visibili integralmente dalle singole postazioni computerizzate collegate al
catalogo centrale delle Teche e collocate nelle sedi suddette.
Cominceremo con il dire che L’Alfiere è stato recentemente digitalizzato e che tutte le sei puntate sono
attualmente visibili all’interno del catalogo multimediale. Si tratta sicuramente di un interessante passo
avanti nella valorizzazione del materiale di quei primi anni di vita della Rai del quale tra l’altro sono rimaste
parecchie produzioni, anche se poco replicate, o in alcuni casi addirittura mai più ritrasmesse
successivamente. Se oggi L’Alfiere è entrato a far parte del patrimonio digitalizzato della Rai, questo
dimostra che vi è stata una sensibilizzazione di un certo peso che ha determinato nei responsabili
dell’archivio storico l’iniziativa di ridare voce a uno sceneggiato tra quelli più trascurati e, forse, più
dimenticati dai palinsesti televisivi, se si eccettua la replica notturna del 1994 di cui abbiamo parlato nella
premessa.
Ma è significativo anche analizzare i supporti di questo sceneggiato situati nei magazzini della Via Salaria
dei quali si allegano nelle pagine seguenti anche due tabelle di esempio che interessano la prima e l’ultima
puntata. Come si può constatare dalle tabelle, tutte le sei puntate sono conservate su più supporti: film in 16
millimetri, nastro magnetico sempre in formato 16, una copia in cassetta formato digitale D2 supporto RVM
e una o due copie in cassetta formato 3 / 4 supporto RVM per ogni singola puntata. Le tabelle descrittive
riportano anche il numero di ogni supporto, il codice del magazzino, la lunghezza delle pellicole e dei nastri
e il numero dei rulli. E’ riportato anche il codice identificatore di teca e la denominazione del centro di
archiviazione che, nel nostro caso, è Roma.
La possibilità di visionare queste tabelle con l’elenco dei vari supporti del materiale conservato è frutto di un
grosso sforzo che le Teche Rai stanno compiendo al fine di far conoscere secondo i sistemi più aggiornati
della tecnologia moderna l’immenso patrimonio di una storia lunga cinquant’anni in cui migliaia di
programmi si sono succeduti sulle tre reti dell’ente televisivo.
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Ma tornando a L’Alfiere, è interessante anche esaminare per ogni singola puntata la tabella analitica
cartacea visibile sempre sul catalogo multimediale. Anche di queste tabelle si riportano qui di seguito gli
esempi relativi alla quarta e alla quinta puntata.
Ognuna delle sei tabelle riporta in un riquadro in alto a sinistra il titolo, l’autore del romanzo, il nome del
regista, il numero della puntata e l’autore delle musiche. Al centro sempre in alto è indicato il codice
identificativo della teca, la durata della puntata, la data di registrazione riferita alla messa in onda del 1956,
la produzione : Rai TV, il luogo di trasmissione : Roma e la data della prima replica avvenuta nel 1957 nel
palinsesto pomeridiano dei programmi per i ragazzi nei mesi di agosto e di settembre. Interessante in questo
riquadro la voce “genere” di fianco alla quale leggiamo: giovani vidigrafo, vale a dire la tecnica con cui ogni
puntata venne registrata durante la diretta del 1956, utilizzando, appunto il vidigrafo ottico.
Nella parte centrale di ogni tabella troviamo un prospetto che riporta il numero dei rulli, dei metri e la durata
della puntata suddivisa nei due o tre rulli che la compongono; sotto sono indicati i nomi dei personaggi e dei
corrispondenti interpreti, riferiti ovviamente a quelli che appaiono in quella puntata riportati nell’ordine di
apparizione, come risulta anche dai titoli di testa.
A destra in alto sono riportate in forma descrittiva le condizioni del materiale originale, vale a dire la
registrazione da vidigrafo. Ad esempio, per la sesta puntata possiamo leggere: «Vidigrafo originale
spuntinato in più parti in tutti i rulli. In due punti fotogrammi di coda bianca nel magnetico. Rigature a
tratti.” Per la terza puntata leggiamo: “Vidigrafo originale con rare rigature; fine rulli rigati.» Sempre in alto
a destra sono indicati i diritti di repertorio con la voce “illimitati” a dimostrazione che la Rai possiede
l’esclusiva dei programmi da lei prodotti. Anche l’analisi di questo materiale cartaceo messo a disposizione
di studiosi e ricercatori è significativa dell’attento esame compiuto sullo stato di conservazione di unmateriale che data quasi cinquant’anni di vita e che fortunatamente è giunto fino a noi.
Il trasferimento delle sei puntate de L’Alfiere su cassetta formato digitale D2 è stato effettuato nel mese di
giugno del 1994, poche settimane prima della replica notturna su Raiuno. Si tratta di cassette di formato
molto grande che vengono riprodotte per mezzo di videoregistratori altamente sofisticati e che possono
essere utilizzate per la messa in onda su qualsiasi canale della Rai, secondo le tecnologie di trasmissione oggi
in uso. Ogni singola puntata ha guadagnato moltissimo in qualità di immagine grazie a questa operazione e,
nonostante che il filmato sia molto datato e non sia stato possibile togliere determinate imperfezioni
formatesi sulla pellicola originale, all’intero sceneggiato è stata restituita una più che dignitosa luminosità
dell’immagine che la tecnica digitale mette in evidenza. Se in qualche sequenza è percepibile una breve
interruzione nel senso che è stato eliminato qualche fotogramma rotto presente sulla pellicola in 16
millimetri, la sostanziale integrità delle sei puntate è rimasta fortunatamente inalterata.
Per completezza ricordiamo che quasi tutti gli sceneggiati di Majano sono attualmente digitalizzati e visibili
sul catalogo multimediale delle teche - Rai: per chi ne fosse interessato alla consultazione, si segnalano in
particolare, La cittadella, E le stelle stanno a guardare, L’eredità della priora, Strada senza uscita e i più
datati Jane Eyre e Capitan Fracassa.
Se si vuole dare credibilità a quanto più volte ripetuto in occasione delle celebrazioni dei cinquant’anni di
vita della televisione, cioè, che la Rai ha generato e alimenta continuità di conoscenze fra diverse generazioni
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di diversa estrazione geografica e sociale, allora possiamo affermare che una delle finalità della
conservazione del suo patrimonio storico attraverso la digitalizzazione del materiale e i nuovi supporti è
quella di mantenere questa continuità tra passato e presente in una sintonia e interazione tra vecchio e nuovo
dove la conoscenza di questo patrimonio è messo alla portata di tutti, perché ognuno ne possa usufruire
secondo i propri interessi specifici di studio, di ricerca, culturali, scientifici o di semplice intrattenimento.
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Scheda anagrafica dello sceneggiato L’Alfiere
Sceneggiato TV
Riduzione da opera letteraria – Tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Alianello
Riduzione e sceneggiatura televisiva di Carlo Alianello e Anton Giulio Majano
Scenografie di Emilio Voglino
Musiche originali e adattamenti musicali di Riz Ortolani
Segretaria di produzione: Marcella Curti Gialdino
Luci: Giorgio Ojetti
Costumi: Fausto Saroli
Arredamento: Paolo Fabriani
Assistente di studio: Fulvio Sarti
Canzoni scritte da Domenico Modugno
Regia di Anton Giulio Majano
Personaggi e interpeti
Pino Lancia Fabrizio Mioni
Frà Carmelo Aroldo Tieri
Franco Enrico Achille Millo
Renata Rodriguez Emma Danieli
Rodriguez Ivo Garrani
Nunzio Domenico Modugno
Mimì Lecaldani Nino Manfredi
Titina Ilaria Occhini
Totò Carlo GiuffrèGinevra Maria Fiore
Barone Lancia Giuseppe Porrelli
Col. Polizzy Corrado Annicelli
Generale Marra Nino Marchesini
Sergente Lo Russo Enzo Turco
Zia Rosa Tecla Scarano
Francesco II Antonio Pierfederici
Maria Sofia Monica Vitti
Gelsomina Zoe Incrocci
Maggiore Sforza Ubaldo Lay
Filippo Monaco Fernando Cicero
Don Celestino Antonio Battistella
Teresa Maria Cristina Mascitelli
Capitano Morbido Enrico Glori
Sergente La Cava Carlo Croccolo
Saverio Vittorio Congia
Mario Gianni Bonagura
Federico Luciano Melani
Ugo Raffaele Meloni
Donna Rosa Edda Soligo
Donna Concettina Rina Franetti
Tenente Vitolo Gianni Minervini
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N. puntate: 6 durata complessiva: 6 ore e 10 minuti
Anno di produzione: 1956
Luogo di produzione: Rai Roma
Data di messa in onda: dal 18 marzo al 22 aprile 1956 – programma nazionale (in prima serata)
Prima replica: dal 7 agosto al 12 settembre 1957 – programma nazionale (palinsensto pomeridiano TV dei
ragazzi
Seconda replica: dal 3 all’8 luglio 1994 – Raiuno (palinsesto notturno)
Gli sceneggiati televisivi di Anton Giulio Majano
Si riporta qui di seguito l’elenco completo e cronologico di tutti gli sceneggiati che il regista Anton Giulio
Majano ha realizzato per la Rai dal 1955 al 1986. Vi sono compresi anche gli originali televisivi, vale a dire
quei lavori a puntate realizzate appositamente per il piccolo schermo, ma non tratti da opere letterarie o
teatrali. Per ognuno è indicato anche la tecnica originale di messa in onda.
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Piccole Donne
dal romanzo di L.M. Alcott; interpreti principali: Emma Danieli, Lea Padovani, Vira Silenti, Maresa Gallo,
Arnoldo Foà, Matteo Spinola, Alberto Lupo, Renato De Carmine
Cinque puntate. Messa in onda in diretta senza nessuna tecnica di registrazione.
1956
L’Alfiere ( si veda la scheda nella pagina precedente)
1957
Jane Eyre
Dal romanzo di C. Bronte; interpreti principali: Ilaria Occhini, Raf Vallone, Ubaldo Lay, Lydia Alfonsi,
Laura Carli, Matteo Spinola, Wanda Capodaglio, Luisa Rivelli.
Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.
1958
Capitan Fracassa
Dal romanzo di Theophile Gautier; interpreti principali: Arnoldo Foà, Lea Massari, Nando Gazzolo, Ivo
Garrani, Scilla Gabel, Giulia Lzzarini, Warner Bentivegna, Alberto Lupo,Leonardo Cortese.
Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.
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1959
L’isola del tesoro
Dal romanzo di Robert L. Stevenson; interpreti principali: Alvaro Piccardi, Ivo Garrani, Arnoldo Foà,
Roldano Lupi, Leonardo Cortese, Riccardo Cucciola, Corrado Pani
Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.
Ottocento
Dal romanzo di Salvator Gotta; interpreti principali: Sergio Fantoni, Lea Padovani, Virna Lisi, Antonio
Battistella, Mario Feliciani, Warner Bentivegna, Giuseppe Paglierini, Lucilla Morlacchi.
Cinque puntate. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo.
I figli di Medea
Originale televisivo di Valdimiro Cajoli; interpreti principali: Alida Valli, Enrico Maria Salerno.
Puntata unica. Messa in onda in diretta e registrazione contemporanea con vidigrafo
1961
Il Caso Mauritius
Dal romanzo di Jakob Wassermann; interpreti principali: Corrado Pani, Virna Lisi, Raoul Grasselli, Alida
Valli, Lauro Gazzolo, Mario Feliciani, Lida Ferro, Franco Graziosi, Aldo Silvani, Albero Lupo.
Quattro puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico. (cancellato nel corso degli anni
sessanta)
1962
Una tragedia americana
Dal romanzo di Theodore Dreiser; interpreti principali: Warner Bentivegna, Giuliana Lojodice, Virna Lisi,
Lilla Brignone, Franco Volpi, Regina Bianchi, Gabriele Antonini, Gianni Santuccio, Luigi Vannucchi,
Roldano Lupi, Andrea Checchi, Sandro Moretti.
Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1963
Delitto e castigo
Dal romanzo di Fedor Dostoevskij; interpreti principali: Luigi Vannucchi, Ilaria Occhini, Ivo Garrani,
Gianrico Tedeschi, Mario Feliciani, Ubaldo Lay.
Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico. (cancellato nel corso degli anni sessanta).
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1964
La cittadella
Dal romanzo di Archibald J. Cronin; interpreti principali: Alberto Lupo, Anna Maria Guarnieri, Luigi
Pavese, Eleonora Rossi Drago, Nando Gazzolo, Laura Efrikian, Carlo Hintermann .
Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1965
David Copperfield
Dal romanzo di Charles Dickens; interpreti principali: Giancarlo Giannini, Anna Maria Guarnirei, Alberto
Terrani, Wanda Capodoglio, Mario Feliciani, Enzo Cerusico, Maria Grazia Spina, Laura Efrikian, Ubaldo
Lay, Ileana Ghione, Elsa Vazzoler.
Otto puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
La donna di fiori
Originale televisivo di Mario Casacci e Alberto Cambrico; interpreti principali: Ubaldo Lay, Andrea
Checchi, Alberto Terrani. Diana Torrieri, Francesco Mulè, Maria Grazia Spina, Carlo Hintermann, Sandro
Moretti, Antonella Della Porta, Laura Tavanti, Luigi Vannucchi.
Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
1967
La fiera delle vanitàDal Romanzo di William Thackerey; interpreti principali: Adriana Asti, Ilaria Occhini, Nando Gazzolo,
Sergio Graziani, Gabriele Antonimi, Roldano Lupi, Maresa Gallo, Didi Perego, Romolo Valli, Andrea
Checchi, Wanda Capodoglio.
Sette puntate: Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
Breve gloria di Mister Miffin
Dal romanzo di Allan Prior; interpreti principali: Cesco Baseggio, Alberto Lupo, Nicoletta Rizzi, Maresa
Gallo, Luisa Rivelli.
Quattro puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1968
La freccia nera
Dal romanzo di Robert Louis Stevenson; interpeti principali: Aldo Reggiani, Loretta Goggi, Arnoldo Foà,
Glauco Onorato, Adalberto Maria Merli, Mila Sonner, Tino Bianchi.
Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
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1971
E le stelle stanno a guardare
Dal romanzo di Archibald Joseph Cronin; interpreti principali: Orso Maria Guerrini, Giancarlo Giannini,
Andrea Checchi, Adalberto Maria Merli, Enzo Tarascio, Anna Maria Guarnirei, Maresa Gallo, Scilla Gabel,
Mario Valdemarin, Loretta Goggi, Anna Miserocchi, Gioacchino Maniscalco.
Nove puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1972
La pietra di luna
Dal romanzo di William Wilkie Collins; interpreti principali: Valeria Ciangottini, Aldo Reggiani, Andrea
Checchi, Maresa Gallo, Giancarlo Zanetti, Mario Feliciani, Enrica Bonaccorti, Lida Ferro.
Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
1973
Qui squadra mobile
Originale televisivo a episodi di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru. (prima serie)
Interpreti principali: Giancarlo Sbragia, Gianfranco Mauri, Bruno Scipioni, Roberta Paladini, Carlo
Alighiero, Valeria Fabrizi, Enzo Turco, Giorgio Favretto, Leo Gullotta.
Sei episodi. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1975Marco Visconti
Dal romanzo di Tommaso Grossi; interpreti principali: Raf Vallone, Gabriele Lavia, Warner Bentivegna,
Pamela Villoresi, Maresa Gallo, Franca Nuti, Herbert Pagani, Gianni Garko, Sandro Tuminelli.
Sei puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico. E’ il primo sceneggiato di Majano
registrato a colori, anche se la prima messa in onda fu ancora in bianco e nero.
1976
Qui squadra mobile
Originale televisivo a episodi di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru (seconda serie)
Interpreti principali: Orazio Orlando, Luigi Vannucchi, Gino Lavagnetto, Paolo Lombardi, Marcello Mandò,
Stefanella Giovannini, Virgilio Gazzolo, Silvia Monelli.
Sei episodi Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
1977
Castigo
Dal romanzo di Matilde Serao; interpreti principali: Alberto Lionello, Eleonora Giorni, Aldo Reggiani, Laura
Belli.
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Quattro puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
1979
Il signore di Ballantrae
Dal romanzo di Robert Louis Stevenson; interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Luigi La Monica,
Giancarlo Zanetti, Mita Medici, Andrea Bosic.
Cinque puntate Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1980
L’eredità della priora
Dal romanzo di Carlo Alianello; interpreti principali: Alida Valli, Giancarlo Prete, Luigi La Monica, Evelina
Nazzari, Ida Di Benedetto, Carlo Giuffrè, Antonella Munari, Erminio Marchesini, Luigi Casellato.
Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico
1981
Quell’antico amore
Dal romanzo La tragica vicenda di Carlo III di Giansiro Ferrata e ElioVittorini e dalla memoria Quell’antico
amore di Carlo Laurenzi.
Interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Giancarlo Prete, Isabella Goldmann, Lia Tanzi, Alida Valli,
Mariella Lo Giudice, Erminio Marchesini, Paola Mannoni, Giorgio Favretto.
Cinque puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1983
L’amante dell’Orsa Maggiore
Dal romanzo di Sergiusz Piasecki; interpreti principali: Ray Lovelock, Orso Maria Guerrini, Ida Di
Benedetto, Alberto Lupo, Mariella Lo Giudice, Gabriele Antonini, Mico Cundari, Lea Padovani, Sandra
Collodel, Paolo Sonetti.
Sette puntate. Messa in onda da registrazione su nastro magnetico.
1985
I due prigionieri
Dal romanzo di Lajos Zilhay; interpreti principali: Ray Lovelock, Barbara Nascimbene, Giancarlo Zanetti,
William Berger, Isabella Goldmann, Glauco Onorato, Alain Cluni.
Sei puntate.
1986
Strada senza uscita
Dal racconto No throug Road di Martin Russell; interpreti principali: Giuseppe Pambieri, Erminio
Marchesini, Lorenza Guerrieri, Giancarlo Zanetti, Renato De Carmine.
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Quattro puntate.
Da ultimo è importante ricordare che Anton Giulio Majano è stato anche regista televisivo di numerose
commedie allestite dalla Rai; se ne contano ben 47 dal 1954 al 1981, tutte di autori più o meno noti italiani e
stranieri e interpretate dai più bravi attori di teatro dei diversi periodi, molti dei quali furono interpreti anche
dei suoi sceneggiati.
Si può ricordare la prima commedia realizzata nel 1954: La signora Rosa di Sabotino Lopez, trasmessa in
diretta senza registrazione, ragion per cui oggi non esiste più. Si possono citare anche la bellissima edizione
de I masnadieri di Friederich Schiller del 1959; Tutto per bene di Luigi Pirandello del 1967 con una
bravissima Raffaella Carrà nel ruolo della protagonista e due commedie gialle: Il processo a Mary Dugan di
Baillard Veiller del 1969 con Ilaria Occhini e Corrado Pani e Doppio gioco di Robert Thomas del 1971 in cui
due grandissimi attori: Marina Malfatti e Ugo Pagliai gareggiavano nei loro duetti in una magistrale
recitazione teatrale.L’ultima commedia realizzata da Majano per il piccolo schermo risale al 1981: Esami di maturità di Laszlo
Fodor; è l’unica registrata a colori, in quanto dal 1974 a quella data il regista non aveva più diretto
commedie, ma solo sceneggiati a puntate e non ne realizzerà più nemmeno in seguito.
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Filmografia di Anton Giulio Majano
A completamento della figura del regista de L’Alfiere, si segnala qui di seguito la filmografia che lo interessa
come regista cinematografico dal 1949 al 1961. Dopo quest’ultima data Majano non si dedicò più al cinema.
1951 L’eterna catena
1953 Una donna prega
1954 La domenica della buoma gente
1954 Cento serenate
1955 La rivale
1957 Terrore sulla città
1949 Vento d’Africa
1959 Il padrone delle ferriere
1960 Seddok (l’erede di Satana)
1961 Lui, lei e il nonno
1961 I fratelli corsi
Precedentemente, dal 1937 al 1949, Majano aveva lavorato come sceneggiatore di alcuni film che portavano
la firma di altri registi, ragion per cui sono meno legati alla sua figura, ma non per questo meno importanti da
ricordare. Anche di essi ricordiamo titoli, anno di produzione e relativi registi.
Condottieri (1937), Regia di Louis Trenker
Uragano ai tropici (1939), Regia di Gino Talamo e Pier Luigi Faraldo
Noi vivi ( 1942 ), Regia di Goffredo Alessandrini
Addio Kira (1942), Regia di Goffredo Alessandrini
Rondini in volo, (1943), Regia di Marc Allegret
Un giorno nella vita, ( 1946), Regia di Alessandro Blasetti
La primula bianca, (1947), Regia di Carlo Ludovico Bragaglia
L’altra, ( 1947), Regia di Carlo Ludovico Bragaglia
Cavalcata d’eroi, (1949), Regia di Mario Costa.
N.B. Majano fu anche autore del soggetto del film L’altra insieme a Gugliemo Morandi. Inoltre fu autore
anche della novella da cui fu tratto il film Uragano ai tropici, adattata per lo schermo insieme ad Antonio
Lattuada.
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Bibliografia
Per quanto riguarda in modo specifico lo sceneggiato L’Alfiere:
L. Alessandrini, Lo sceneggiato televisivo e i suoi itinerari, in R. Zaccaria, (a cura di), La televisione che cambia, SEI, Torino 1984
A. D’Alessandro, L’Alfiere, in «Bianco e Nero», Luglio 1956, pp. 159 – 160
O. De Fornari, Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato TV , Arnoldo Mondadori Editore, Milano
1990, pp. 33 – 35
C. Falchi, In sei puntate il romanzo di Carlo Alianello L’Alfiere, in «Radiocorriere», 18 / 24 marzo 1956, pp.
18 – 25
R. Fillizzola, Quattro romanzi, in «La rivista del cinematografo», aprile 1956, p. 29
A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, 1992, p. 66
A. Grasso, idem, Garzanti, 2000, p. 40
A Grasso, (a cura di), Televisione, Garzanti, 2002, pp. 13-14, ad vocem
Bibliografia di carattere generale sulla storia della televisione, sullo sceneggiato e sul teatro televisivo:
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Abruzzese A., Lo splendore della TV. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Costa e Nolen, 1995
Beaufort J., Il teatro e la Tv possono trovare una via d’intesa?, in «Il Dramma», n. 242, novembre 1956
Bettetini G., La regia televisiva, La Scuola, Brescia 1965
Bettetini G., Sipario! Storia e modelli del teatro televisivo in Italia, VQPT, Eri, Roma 1993
Castellani L., La TV dall’anno zero. Linguaggio e generi televisivi in Italia, Studium, Roma 1995
Colli C., Il cinema in televisione. Problematiche e prospettive tra cineteca e produzione. Atti della tavola
rotonda, Reggio Emilia, 14 marzo 1987
Chiaramente L., La televisione, in «Tempo presente», aprile 1956
Compatangelo M. L., La maschera e il video, Rai, Eri, 1999
D’Alessandro A., La televisione, in «Bianco e Nero», aprile 1956, pag. 87
D’Alessandro A., Lo spettacolo televisivo, Roma, Ateneo, 1957
De Fornari O., Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato televisivo, Mondadori, Milano 1990
Del Buono O., Tornabuoni L., Album di famiglia della TV. 30 anni di televisione in Italia, Mondadori,Milano 1981
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Delli Colli E., Dadaumpa. Storie, immagini, curiosità e personaggi di trent’anni di televisione in Italia,
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Grasso A., Cristalli di massa. I programmi che hanno fatto la televisione in Italia (1954-1966 ), in
Televisione: la provvisoria identità italiana, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1985
Grasso A, Storia della televisione italiana, Garzanti, 2000
A Farassino, Televisione e storia, Bulzoni, Roma 1980
C.Ferretti, B. Scaramucci, U. Broccoli, Mamma Rai, Le Monnier, Firenze 1997
May R., La TV e il cinema, Edizioni Cinque Lune, Roma 1958
Monteleone F, Storia della radio e della televisione italiana, Marsilio, Venezia 2003
Nespolesi S., Fotografie per cinquant’anni di televisione, sito di Rai teche: www. Teche. it
Orteva P, M. Di Marco M. T., Luci del teleschermo. Televisione e cultura in Italia, Electa, 2004
Pugliese S., Teatro e linguaggio televisivo, in «Il dramma», 1 maggio 1954, pp. 9-10
Servizio Opinioni Rai, Indagini sulla comprensione di trasmissioni televisive, Eri, Torino 1969
Simonelli G., Fantasmi del palcoscenico. Presenze teatrali nella televisione italiana di ieri e di oggi , Vita e
Pensiero, Milano 1991
Tabanelli G., Il teatro in televisione, regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione ,
Rai, Eri, 2002 – 2003, 2 Voll.
Televisione: la provvisoria identità italiana, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1985. Atti del convegnotenutosi il 13 e 14 ottobre 1985 presso la Fondazione G. Agnelli a Torino
Veltroni W., I programmi che hanno cambiato l’Italia: quarant’anni di televisione, Feltrinelli, Milano 1992
Vertone S., Azione drammatica e narrazione sullo schermo televisivo, in «Il dramma», Torino. 1 maggio
1954
Zaccaria R., Rai. La televisione che cambia, SEI, Torino, 1984
Più specificatamente sul rapporto cinema e storia:
A.A. V. V., Il Risorgimento in pellicola, (a cura di Davide Del Duca), Cinemazero, 1990
Argentieri M., Cinema. Storia e miti, Pironti, Naopoli 1984
Gori G. M., Insegna col cinema. Guida al film storico, Studium, Roma 1996
Sorlin P., La storia nei film, La Nuova Italia, Firenze 1984
Sulla storia del Risorgimento, in particolare per quel che riguarda la conquista del Sud e le biografie dei
personaggi citati:
Antonicelli F., L’unità d’Italia. Albo di immagini. 1859-1860, Torino Edizioni, Rai, 1961
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A.a. V. v., Dizionario del Risorgimento nazionale, Vallardi, Milano 1933
A. a. V. v., Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, Serie XLII, Il Risorgimento italiano, Vol. V, I
combattenti, E.B.B.I., Istituto italiano Tosi, Roma 1945
Custodero G., Pedone A., L’armata del Sud, Capone Editore, 2003
De Sangro M., I Borboni nel Regno delle Due Sicilie, Capone Editore, 2004
L’esercito delle Due Sicilie (1856 – 1859), «Rivista militare», Quaderno n. 5, 1987
Storia d’Italia dal 1815 alla proclamazione del Regno d’Italia raccontata al popolo, Angelo Usigli Editore,
Firenze 1864
Gaeta e l’assedio del 1860-61. Tempere di Carlo Bossoli: caricature e documenti, catalogo a cura di autori
vari, Centro storico culturale”Gaeta”, 1978
Ministero della Guerra, Stato Maggiore del R. esercito, ufficio storico, L’assedio di Gaeta e gli avvenimenti
militari del 1860-61 nell’Italia meridionale, libreria dello Stato, Roma 1926
Per le biografie degli attori e del regista riportate in appendice, si fa riferimento soprattutto alll’opera:
A.a. V.v., Dizionario del cinema italiano, Gremese Editore, 1998-1999, Voll. Gli attori, Le attrici.
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Appendice
Biografie dei protagonisti
Anton Giulio Majano
(Chieti 1912 – Roma 1994)
E’ considerato il padre del teleromanzo della nostra televisione italiana. Infatti nel 1955, agli albori della
programmazione televisiva, realizzò con Piccole donne dal romanzo di L.M. Alcott, un nuovo genere di
spettacolo destinato ad un immediato e straordinario successo. Da allora fino al 1986 i suoi teleromanzi si
susseguirono numerosi, segnando momenti decisivi nella storia del Rai.
Tra i registi televisivi italiani fu quello che seppe valorizzare lo scrittore napoletano Carlo Alianello del
quale realizzò la trasposizione televisiva di due suoi romanzi: L’Alfiere nel 1956 e L’eredità della priora nel
1980. Per la Rai Majano realizzò 24 sceneggiati a puntate tratti da diverse opere letterarie di autori anche
stranieri, in particolari inglesi e americani: alcuni titoli possono evocare ancora oggi in molti lettori la loro
vita di telespettatori: Jane Eyre (1957), Capitan Fracassa (1958), L’isola del tesoro (1959), Ottocento
(1959), Una tragedia americana (1962), La cittadella (1964), David Copperfield (1965), La freccia nera
(1968), E le stelle stanno a guardare ( 1971), Marco Visconti (1975), fino a L’amante dell’Orsa Maggiore
(1983). Non si possono dimenticare nemmeno i due sceneggiati, purtroppo andati perduti in un’epoca pre-
teche, poiché venne cancellato il relativo nastro magnetico: Il caso Mauritiuz del 1961 e Delitto e castigo del
1963. Al continuo successo decretato dal pubblico ai suoi teleromanzi, Majano dovette sovente subire lacritica e il dissenso di un certo tipo di “pubblico più esigente” che gli rimproverava di eccedere troppo nel
sentimentalismo e nel melodrammatico, se non addirittura nelle sequenze strappa lacrime. In realtà il regista
fu sempre convinto che il teleromanzo, proprio perché era destinato a un pubblico quanto mai eterogeneo,
dovesse sempre sottolineare l’importanza del sentimento umano che guida nel bene e nel male le vicende e le
azioni dei personaggi che secoli di letteratura avevano prodotto. In questo modo era possibile fare maggior
presa sullo spettatore e invogliarlo anche alla lettura e alla conoscenza degli scrittori dei diversi romanzi. In
tal senso il sentimento nelle sue trasposizioni televisive, non diventa mai retorica, non è mai fine a se stesso;
tutt’al più richiama il melodramma, una forma di melodramma recitato che era e rimane arte, in quanto è
teatro televisivo.
Calza molto bene la definizione che diede di lui l’attrice Anna Maria Guarnirei in un’intervista televisiva di
qualche anno fa; «un perfetto illustratore di sentimenti umani»54
Quanto allo stile e al linguaggio, Majano più volte dichiarò che il teleromanzo doveva avere il ritmo,
l’ampiezza e l’apertura analitica del libro. Ragion per cui, confrontare questo genere televisivo con il cinema
non aveva senso logico; piuttosto era possibile creare qualche accostamento al cinema, costruendo sequenze
54 La citazione di Anna Maria Guarnirei è tratta dal programma televisivo Romanzo popolare a cura di Oreste De Fornari e Gloria De
Antoni andato in onda in diverse puntate dedicate allo sceneggiato televisivo nel 2002 sul canale satelittare di Raisat Album, uncanale interamente dedicato agli archivi storici della Rai. Ogni puntata prevedeva la presenza di un attore, interprete di alcuni famosi
sceneggiati televisivi realizzati nel corso degli anni dalla Rai.
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che avessero uno spessore cinematografico. Sicuramente Majano è stato l’interprete più fedele della
televisione delle origini che tentava di trasformare il nuovo mezzo di comunicazione in una sorta di
biblioteca illustrata tramite la quale far conoscere i grandi autori della letteratura mondiale. Attraverso il
romanzo ottocentesco (le cui atmosfere vengono evocate con sapienti dettagli, struggenti giochi narrativi e
intuizioni geniali nei finali) e attraverso feconde intuizioni linguistiche (con cui realizzava spesso con mezzi
artigianali, prodigiosi quadri televisivi), Majano ha rappresentato felicemente le regole fondamentali della
regia televisiva nel teleromanzo, codificando quello che sarà per molto tempo un sicuro modello di
riferimento. Attento perlustratore di alcune delle più belle pagine della letteratura, egli auspicava anche ad un
altro tipo di TV, una TV che sapesse cogliere due elementi: l’attualità in un romanzo in cui i problemi
fossero di estrema contemporaneità e il poliziesco inteso come fatto di cronaca. A tal fine Majano predilesse
autori come Cronin, Dreiser, Wassermann, che nei loro romanzi trattavano gli scottanti problemi della
giustizia sociale, della legalità, della tutela dei diritti dei lavoratori, nonché della ricerca di valori da parte del
mondo giovanile dagli anni tra le due guerre in avanti.
Per il genere poliziesco è d’obbligo ricordare le due fortunate serie a episodi dal titolo Qui squadra mobile
che il regista diresse nel 1973 e nel 1976, primo tentativo riuscito di fare cronaca in chiave giornalistica,
partendo da un indagine per omicidio.55
Da ultimo è significativo ricordare che Majano era stato, in gioventù, ufficiale di cavalleria e la carriera
militare lo aveva portato ad appassionarsi successivamente anche di romanzi storici in cui il tema delle
battaglie risorgimentali aveva un ruolo predominante. La trasposizione televisiva de L’Alfiere ne resta un
magnifico esempio. Molti attori che hanno lavorato con lui in televisione nell’arco di trent’anni lo hanno
soprannominato “il colonnello” proprio perché la sua passata esperienza di soldato lo portava quasi a“comandare” in modo militaresco la troupe con cui lavorava sul set televisivo.
56Ma tutti hanno riconosciuto
in lui la capacità di creare un clima di lavoro dove ognuno si trovasse a proprio agio. Come egli stesso ebbe a
ripetere più volte, «il regista è il primo che deve credere in quello che fa.»
Carlo Alianello
(Roma 1901 – 1981)
Carlo Alianello nacque a Roma il 20 marzo del 1901. Di famiglia di origini lucane, figlio di un colonnello
del Regio esercito italiano, a sua volta figlio di un colonnello dei cacciatori della guardia del Regio esercito
borbonico, ha dedicato la maggior parte della sua opera letteraria alla rilettura del Risorgimento italiano,
trovando nella Basilicata di fine ottocento lo scenario ideale della guerra civile consumatasi nel Sud
all’indomani dell’unità nazionale.
Lo scrittore aveva intuito assai bene come l’unificazione italiana rappresentasse un nodo essenziale per la
storia del mezzogiorno. Aveva, infatti, avvertito come tante voci storiografiche e “interessate” avessero
trascurato un’analisi non ideologizzata della storia del Regno delle Due Sicilie; e, pur rimanendo la sua una
55 La biografia di Antono Giulio Majano è riportata in: A. Grasso, (a cura di), Televisione, Garzanti editore, Milano 2002, p. 406, ad
vocem; G. Tabanelli, Il teatro in televisione, regia e registi: dalle prime trasmissioni in diretta all’alta definizione, Rai, Eri 2002,Vol. I, pp. 23 – 24, scheda biografica.56 Anton Giulio Majano è stato anche assistente e regista cinematografico.
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ricostruzione di romanziere, la conoscenza storica che egli possedeva, gli permise, nei suoi romanzi, di
ripercorrere sempre correttamente i fatti.
Dopo un saggio sul teatro di Maeterlink del 1928, Alianello esordisce con il romanzo L’Alfiere nel 1943,
dove vengono raccontate, dal punto di vista di un ufficiale borbonico rimasto fedele all’esercito di Francesco
II, la guerra e le sollevazioni popolari fomentate dallo sbarco dei Mille in Sicilia.
Il romanzo nasce in un momento di travaglio per l’Italia impegnata nel secondo conflitto mondiale; un libro
tutto scritto di getto in un anno e le cui alterne fortune, di pubblico e di critica, «appaiono come la più valida
dimostrazione di quel suo superiore distaccato umano giudizio.»57
Nel 1952 lo scrittore pubblica Soldati del Re, un romanzo che, sulla scia de L’Alfiere, narra la vicenda di
alcuni personaggi di varia estrazione sociale fedeli anch’essi al loro re Ferdinando II di Borbone nel turbinio
dei moti rivoluzionari del 1848. Seguiranno: Maria e i fratelli del 1955, romanzo di ispirazione cattolica
come il successivo Nascita di Eva del 1966. Nel 1963 esce il suo romanzo di maggior successo e considerato
il suo capolavoro: L’eredità della Priora, vasto affresco e sofferta rievocazione degli eventi che si
svilupparono nel meridione tra il 1861 e il 1862; una sorta di saga del brigantaggio che trova la sua forza e la
sua originalità nella capacità dell’autore di accomunare vincitori e vinti e riscattare tutti in una pietosa
comprensione nel contesto di una Potenza postunitaria sconvolta da una sanguinosa guerra civile. Seguiranno
ancora una specie di diario Lo scrittore o della solitudine del 1970, per tornare poi ai temi meridionali con
La conquista del Sud del 1972 e L’inghippo dello stesso anno. La rivoluzione liberale, le gesta dei
piemontesi e quelle garibaldine e le loro conseguenze nel mezzogiorno d’Italia sono i temi che continueranno
ad appassionare Alianello in tutta la sua produzione letteraria a partire da L’Alfiere e in tutte le opere
successive. Egli è stato anche professore di liceo e collaboratore del “Corriere della Sera”, de “Il Giornale d’Italia” e del “Messaggero”. Fu autore anche di alcune opere teatrali.
Nel 1956 collaborò con Anton Giulio Majano alla sceneggiatura televisiva de L’Alfiere di cui curò anche la
parte dei dialoghi. Da segnalare, inoltre, che nel 1953 aveva collaborato alla sceneggiatura e al soggetto del
film neorealista Maddalena per la regia di Augusto Genina, interpretato da Gino Cervi e Marta Toren, che si
avvaleva della fotografia di Claude Renoir. Morì nel 1981
Alianello è stato a volte accusato di mancanza di una serena visione della storiografia e di una corretta
attenzione alle origini di certi problemi e alle conseguenze delle scelte politiche operate nel meridione, ma
ciò nulla toglie all’esattezza delle sue conoscenze storiche e alla sua sapiente vena di scrittore.
Fabrizio Mioni, giovane protagonista de L’Alfiere
Nato a Roma il 23 settembre 1930, appartenente all’aristocrazia romana, studente di architettura
all’università della capitale, senza conseguirne la laurea, dalla tipologia fisica da classico attore giovane,
Fabrizio Mioni decide di dedicarsi all’attività artistica, quando casualmente conosce il regista Duilio Coletti
che gli affida nel 1954 il ruolo di un ufficiale in un film d’ambientazione bellica: Divisione folgore che narra
la drammatica vicenda di un gruppo di ufficiali paracadutati nel deserto durante la battaglia di El Amein e
57 Clara Falchi, In sei puntate il romanzo di Carlo Alianello L’Alfiere, in «Radiocorriere», 18 / 24 marzo 1956, p. 18.
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dove Fabrizio Mioni interpretava il ruolo del sottotenente Gianluigi Corsini. Segue, subito dopo, l’esordio in
teatro, grazie a Luchino Visconti, accanto ad attori quali Salvo Randone, Lilla Brignone, Lina Volonghi,
Gianni Santuccio e Carlo Cataneo, nella commedia di Giuseppe Giocosa Come le foglie, rappresentata con
enorme successo anche al Teatro Olimpia di Milano il 26 ottobre 1954; qui Mioni interpreta il ruolo del
viziato e smidollato Tommy, giovane scapestrato e personaggio chiave della vicenda. La rappresentazione
nel teatro milanese era una ripresa di una edizione teatrale precedentemente rappresentata a Roma con un
successo ancora più eclatante di quello riscosso nel capoluogo lombardo. Con la stessa compagnia, l’anno
successivo recita anche nella commedia La parigina di Becque diretta da Gianni Santuccio.
E’ pressoché in questo periodo che il giovane attore entra in contatto con la ancor molto giovane televisione
italiana. Anton Giulio Majano, in un intervista di molti anni dopo, ricorda di aver conosciuto Fabrizio Mioni
due giorni prima di iniziare le prove de L’Alfiere durante una festa a casa di Elena Mingucci, un’assistente
alla regia divenuta poi anche regista.«Vidi entrare uno stupendo ragazzo, ricorda Majano, e subito dissi
dentro di me: questo è l’Alfiere. Gli proposi di venire il giorno dopo negli studi della Rai e lo scritturai
immediatamente.»58 E Fabrizio Mioni fu un bravissimo Pino Lancia, protagonista indiscusso dello
sceneggiato, guidato sapientemente dal regista che seppe costruire con l’apporto del giovane attore un
personaggio ingenuo, sensibile, come lo è nel romanzo di Alianello, e con una dose di fascino giovanile che
lo rendeva credibile e persino moderno per quell’epoca. Apparirà ancora in televisione accanto all’attrice
Laura Solari nella commedia in un atto unico L’età delle attrici di J. M. Barrie, andata in onda il 29 gennaio
del 1957 per la regia di Enrico Colosimo. Fabrizio Mioni interpretava il personaggio del giovane Carlo
Roche, unica figura maschile di questa breve piece teatrale, giocata sul rapporto dialettico tra un’attrice
affermata, ma sul viale del tramonto e un giovane che rivede in lei la ragazza una volta amata. Fu quella lasua ultima apparizione sui nostri teleschermi. Questo lavoro televisivo non è mai stato replicato, benchè sia
tutt’ora conservato negli archivi storici della Rai.
Il cinema italiano degli anni cinquanta lo vide ancora tra gli interpreti di due film di un certo rilievo: nel
1956 in Orlando e i paladini di Francia diretto da Pietro Francisci dove Mioni interpretava il personaggio di
Rinaldo; nel 1958 in Le fatiche di Ercole sempre con la regia di Francisci nel ruolo di Giasone. Nello stesso
anno lavorò ancora in teatro come voce narrante nella piece La guerra di Renzo Rossellini, messa in scena al
teatro dell’Opera di Roma.
Poco tempo dopo, con una scrittura della 20th Century Fox, il giovane attore partiva per Hollywood per
prendere parte ad un remake del film L’angelo azzurro di Joseph Von Stenberg del 1930; da quel momento
si può dire conclusa la sua avventura artistica in Italia. Si stabilì così definitivamente negli Stati Uniti dove
continuerà una carriera televisiva e cinematografica.59
58 Dal programma Il mestiere della televisione. Anton Giulio Majano, Rai, 1989. Il programma inserito nel palinsesto di Rai
Educational, ripercorreva la carriera televisiva del regista attraverso una serie a critici e attori, alternate a brevi flash dei principalisceneggiati realizzati da Majano in televisione.59 R. Chieti, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano, Gremese Editore 1991, vol. Gli attori, pp. 328-329.
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Due interpreti dell’Alfiere: Fabrizio Mioni e Maria Fiore
Achille Millo
Nato a Roma il 25 novembre 1921 da una famiglia di origine napoletana, Achille Scognamillo esordisce in
teatro ventenne a fianco di Wanda Capodaglio, mettendosi subito in luce per un tipo di recitazione sobria e
spontanea. Dotato di una bella presenza, di voce calda ed impostata, di temperamento vivace e versatile,
Millo diventa subito uno degli attori giovani più richiesti dal teatro italiano. Viene scritturato da Visconti per
Il matrimonio di Figaro e Delitto e castigo, entrambi rappresentati nel 1946, poi recita accanto a Sara Ferrati
ed è applauditissimo in una bella edizione de L’ereditiera accanto a Enzo Ricci ed Eva Magni dove
impersona il ruolo dell’avido cacciatore di dote, fino a giungere al grande successo nel 1957 nei panni di
Pulcinella nella farsa di Altavilla Pulcinella in cerca della sua fortuna per Napoli per la regia di Eduardo De
Filippo. Ma è scritturato anche dal Piccolo Teatro di Milano per rappresentazioni importanti come
Arlecchino servitore di due padroni per la regia di Strehler nel 1953 e nel 1955 e La mascherata, commedia
di Moravia rappresentata nel 1954 sempre con la regia di Strehler.
Di notevole rilievo è anche la sua attività televisiva, sin dagli albori del piccolo schermo, dove prende parte,
apprezzato interprete, a numerose commedie quali La casa delle sette torri nel 1959 con la regia di
Guglielmo Morandi, Il borghese gentiluomo nel 1957 e Odette nel 1960, entrambe con la regia di Giacomo
Vaccari.
Lo ritroviamo poi in numerosi sceneggiati tra i quali ovviamente L’Alfiere in cui interpreta il ruolo del nobile
e generoso tenente Franco Enrico, amico inseparabile di Pino Lancia, personaggio dal puro sangue
napoletano, eroico e fedele anche lui sino all’ultimo alla bandiera borbonica.
Ritroveremo Achille Millo in altri sceneggiati che hanno fatto la storia della Rai: Tessa la ninfa fedele del
1957 con la regia di Mario Ferrero, I Miserabili del 1964 per la regia di Sandro Bolchi, Il conte di
Monecristo del 1966, regia di Edmo Fenoglio, uno degli sceneggiati di maggior successo in cui Millo
interpretava il ruolo dello scaltro e subdolo barone Danglar. Si possono ricordare ancora : Il Marchese di
Roccaverdina del 1972 diretto sempre da Fenoglio con un eccezionale Domenico Modugno nel ruolo del
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protagonista, Il cappello del prete nel 1970 con la regia di Bolchi e il film tv Sacco e Vanzetti del 1977, per
la regia di Giacomo Colli. Non si piò dimenticare l’edizione televisiva del dramma Il caso Pinedus di Paolo
Levi con la regia di Maurizio Scaparro trasmessa nel 1972 dove Achille Millo recita accanto ad altri due
grandi nomi del teatro: Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice.
Millo è stato anche, si può dire, mattatore di alcuni programmi televisivi a carattere musicale e letterario, in
cui l’attore recitava poesie d’autore e presentava canzoni di cantautori di un certo impegno. Si può ricordare
il programma Note di Natale, andato in onda nel dicembre del 1959, contenitore di poesie e canzoni natalizie
in cui l’attore era affiacato dal noto cantante Fausto Cigliano; L’amore e la guerra del 1969, spettacolo di
recitazione e musica sui più scottanti temi dell’ultimo conflitto mondiale in cui Achille Millo duettava
magnificamente con la celebre cantante Milly. Accanto all’attrice Giulia Lazzarini, fu il conduttore di un
programma di successo dal titolo Parole e musica andato in onda a puntate a partire dal settembre del 1963 e
che ebbe poi una seconda edizione nell’autunno del 1964, programma che abbinava letture di testi teatrali di
scrittori quali Weill, Brecht e Prevert a canzoni d’autore interpretate da nomi noti in quegli anni: Emilio
Pericoli, Carol Danell, Umberto Bindi e Fausto Cigliano.
Meno rilevante è stata la sua carriera cinematografica, iniziata nell’immediato dopoguerra e conclusasi
nell’arco di un decennio. Si possono ricordare i film: Melodie immortali del 1952, regia di G. Gentiluomo e
Carosello napoletano del 1954 di Ettore Giannini.60
Carlo Giuffrè
Nato a Napoli il 3 dicembre 1928, si trasferì a Roma nel 1947 dove si iscrisse all’Accademia d’Arte
drammatica. Una volta diplomato entra nella compagnia teatrale di Eduardo De Filippo in cui già lavorava ilfratello Aldo. Vi rimane fino al 1951 e, sotto la guida di De Filippo, matura rapidamente come attore,
affrontando ruoli sempre più impegnati e affiancando all’attività teatrale quella cinematografica e
radiofonica. Nel 1963 entrerà nella Compagnia De Lullo, Falk, Valli, Albani dove affina le sue doti di attore
mettendo a punto una maniera autoironica che sembra conciliare la sua doppia valenza di comico e di
amoroso. Fra le sue più riuscite interpretazioni di questo periodo si può ricordare il ruolo del Primo attore in
Sei personaggi in cerca di autore di Luigi Pirandello.
E’ molto attivo anche nella televisione delle origini dove lo troviamo sia in spettacoli di varietà: Musica
Hotel , che in sceneggiati: L’Alfiere dove interpreta il ruolo di Totò, il simpatico e brillante cugino di Pino
Lancia, anch’egli soldato del re, personaggio tra i più riusciti del romanzo; I Giacobini con la regia di Edmo
Fenoglio nel 1962 e, nell’era della TV a colori, L’eredità della priora nel 1980, sempre con la regia di
Anton Giulio Majano in cui veste i panni dell’ambiguo e opportunista Don Matteo Guarna, personaggio
drammatico combattuto tra idee liberali e tradizioni borboniche, diametralmente opposto al giovane ufficiale
de L’Alfiere.
60 R. Chieti, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano, cit., pp. 326-327. Sui programmi televisivi a carattere letterario –musicale si possono trovare alcuni articoli sull’annata del Radiocorriere TV del 1963 ai mesi di settembre / ottobre, del 1964 e del 1969,
relativamente ai periodi in cui i programmi citati sono stati mandati in onda.
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Partecipa anche alla registrazione di diverse commedie allestite dalla Rai nel corso degli anni; si possono
ricordare la farsa napoletana Caviale e lenticchie e L’amico delle donne di Alexander Dumas del 1975 dove
recita insieme a Giuliana Lojodice.
La sua carriera cinematografica è pure intensissima: dal film Napoli milionaria del 1950 con la regia di
Edoardo De Filippo, a Il ferroviere di Pietro Germi del 1956, da La ragazza con la pistola di Mario
Monicelli del 1968 fino a Tre colonne in cronaca di C. Vanzina del 1990.
Oggi Carlo Giuffrè prosegue ancora nella sua attività di regista e attore di teatro.61
Ivo Garrani
Nato ad Indrodacqua di Sulmona in provincia di Aquila il 6 febbraio 1924, ottiene una prima scrittura nel
1943 all’interno della compagnia teatrale di Carlo Tamberlani nella quale rimane fino al 1945. Inizia, poi,
una carriera intensa nelle compagnie Morelli-Stoppa e Torrieri –Carraro e dal 1949 al 1945 lavora con la
compagnia di Gino Cervi e Andreina Pagnani. Nel 1954 è a Milano al Piccolo Teatro dove recita nella nuova
produzione del Giulio Cesare di Shakespeare con la regia di Strehler che gli affida altri ruoli importanti ne
La moglie ideale di Marco Praga e in Nostra dea di Bontempelli. Nel 1960 fonda insieme a Giancarlo
Sbragia e Enrico Maria Salerno la Compagnia degli attori Associati con la quale si dedica al teatro inchiesta
e di cronaca con una nuova messa in scena del Sacco e Vanzetti di Roli. Il debutto nel cinema avviene agli
inizi degli anni cinquanta, come pure quello in televisione di cui anche Garrani può essere considerato un
pioniere, soprattutto delle messe in onda in diretta. Dopo aver preso parte ad una produzione della commedia
di Giocosa Come le foglie nel 1954, prende parte a diversi sceneggiati a puntate, tra cui ovviamente L’Alfiere
in cui interpreta il ruolo del colonnello Rodriguez, ufficiale della marina borbonica, padre della bella Renata,fidanzata di Pino Lancia, uomo bonario e rassegnato al corso degli eventi nuovi dai quali, però, preferisce
fuggire piuttosto che affrontarli. Tra gli altri sceneggiati si possono ricordare Capitan Fracassa del 1958,
sempre con la regia di Majano, L’isola del tesoro nel 1959 diretto ancora da Majano di cui rimane
memorabile la sua interpretazione del pirata dalla gamba di legno John Silver.
Si possono ricordare ancora Umiliati e offesi sempre del 1959 con la regia di Vittorio Cottafavi, Delitto e
castigo del 1963 nuovamente diretto da Majano e Mastro Don Gesualdo del 1964 per la regia di Giacomo
Vaccari, il primo sceneggiato televisivo realizzato con una tecnica cinematografica. Superlativa rimane la
sua apparizione ne Il giornalino di Gian Burrasca del 1964 con la regia di Lina Wertmuller, dove interpreta
il personaggio autoritario del padre del ragazzino monello, conferendogli anche una forte carica umana che
non traspare nel libro di Vamba.
Si può ricordare ancora la figura di Mussolini nello sceneggiato La resa dei conti della serie I giorni della
storia di Luigi Lunari, diretto da Marco Leto nel 1969.
La sua carriera cinematografica comprende parecchi film che spaziano tra il 1952 e l’inizio degli
anni ottanta.Si possono citare i film che portano la regia di Anton Giulio Majano: La rivale del
61 Anche per la biografia di Carlo Giuffrè si fa riferimento al già citato Dizionario del cinema italiano, nel volume dedicato agliattori. Per quanto riguarda le sue interpretazioni televisive valgono le annate del Radiocorriere TV e il volume di M. Letizia
Copantangelo, La maschera e il video, Rai 1998, che raccoglie tutta la produzione teatrale televisiva dal 1954 a tutto il 1998.
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1956, Terrore sulla città del 1958 e Il padrone delle ferriere del 1959. 62 Accanto a Fabrizio Mioni
sarà tra gli interpreti del già citato Orlando e i paladini di Francia in cui veste i panni di Carlo
Magno.
Aroldo Tieri“Che misurato attore è Aroldo Tieri: ma quale capacità possiede d’improvvisare scatti, umori ombrosi, con
quella sua voce dove la sua origine calabrese affiora appena, educata com’è dalla dizione che pure non lo ha
congelato nei propri canoni.” Così Indro Montanelli definì mirabilmente Aroldo Tieri, grande attore che ben
tutti conosciamo, nato a Corigliano calabro il 28 agosto 1917 e figlio del noto commediografo Vincenzo
Tieri. Diventa ben presto uno degli attori giovani più quotati ed apprezzati in campo cinematografico, ma il
suo vero talento emerge in teatro dove diventa, a poco a poco una delle punte di forza della scena italiana a
cominciare dal suo esordio nella Francesca da Rimini di Simoni nel 1938 a cui segue il successo ottenuto
con la Compagnia del Teatro Eliseo nella commedia di Shakespeare La dodicesima notte diretta da Pietro
Sharoff, dove l’attore interpreta il ruolo del giovane Fabiano. Nel dopoguerra continua a recitare in teatro,
prendendo parte a formazioni importanti accanto ad attori di valore come Gino Cervi, Andreina Pagnani,
Paolo Stoppa, Rina Morelli, Olga Villi e Elena Zareschi.
Attore poliedrico e dalla inesauribile vitalità, viene presto richiesto anche dalla neonata televisione italiana,
dove prende parte a parecchi sceneggiati a partire proprio da L’Alfiere nel 1956 in cui intepreta il sublime,
ma energico personaggio di Padre Carmelo, coprotagonista del romanzo insieme al giovane ufficiale Pino
Lancia. Seguiranno Le avventure di Nicola Nickleby nel 1958, diretto da Daniele D’Anza in cui veste i panni
ben differenti dello spietato e crudele Wackford Squeers, sfruttatore di bambini innocenti, e gli originali
televisivi La sciarpa e Paura per Janet , entrambi del 1963 con la regia di Daniele D’Anza.
Seguiranno altri originali televisivi a puntate di carattere giallo sempre firmati da Daniele D’Anza: Melissa
nel 1966 in cui interpreta il ruolo dell’assassino Felix Hapburn e Giocando a golf una mattina del 1969 in cui
veste i panni di Ed Royce, uno dei personaggi chiave della vicenda.
Lo ritroviamo ancora nel 1967 nello sceneggiato in un’unica puntata Serata con Somerset Maugham della
serie “ Il Novelliere” ancora con la regia di D’Anza.
Aroldo Tieri eccelle anche in numerosissime commedie allestite dalla TV che qui come in teatro diventano
suoi cavalli di battaglia. Possiamo ricordare: L’eroe di Ferruccio Cerio del 1955, La bisbetica domata e La
cara ombra, rispettivamente del 57 e del 58, sempre dirette dal grande D’Anza e Il calapranzi di Fenoglio
nel 1968. Assieme all’attrice Giuliana Lojodice ha formato e continua a formare un sodalizio artistico
inossidabile sia in teatro, che in televisione e moltissime rimangono le produzioni in cui i due attori hanno
dato insieme il meglio di se stessi.
62 Si veda il già citato Dizionario del cinema italiano, Vol. Gli attori, alle pp. 222-223 e le recensioni dei diversi sceneggiati televisivi
pubblicate sulle annate del «Radiocorriere TV»
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Possiamo infine ricordare che nel 1960 Aroldo Tieri è stato, con Lauretta Masiero e Alberto Lionello, il
conduttore della terza edizione di Canzonissima, lo spettacolo abbinato alla lotteria di Capodanno, che
quell’anno portava la firma del regista Mario Landi.
Emma Danieli
Nata a Buscoldo in provincia di Mantova il 14 ottobre 1936, morta a Lugano il 21 giugno 1999, iniziò ad
affermarsi nel cinema con il film a episodi Siamo donne di A Guarini del 1953, dedicato a momenti salienti
di vita vissuta di quattro attrici di fama internazionale.
Fu una delle più apprezzate annunciatrici della televisione delle origini, una delle più amate “signorine
buonasera”, attività che le permise di emergere e attirare l’attenzione di alcuni registi di quegli anni che le
offrirono l’opportunità di partecipare ai primi sceneggiati televisivi. Così Alberto Casella le offrì
l’opportunità di prendere parte al primo sceneggiato in assoluto realizzato dalla Rai nel 1954: Il dottor
Antonio tratto dal romanzo di Giovanni Ruffiani, andato in onda in diretta nel novembre di quell’anno e dove
recitavano attori che godevano già un certo prestigio in campo teatrale e cinematografico: Luciano Alberici,
Cristina Fanton e Antonio Ciffariello.
Quindi, Antono Giulio Majano la volle tra le quattro protagoniste dello sceneggiato Piccole donne trasmesso
in diretta nel 1955 e l’anno successivo ne L’Alfiere dove interpretò la parte della bella e scontrosa Renata
Rodriguez, fidanzata di Pino Lancia, innamorata del suo giovane ufficiale, ma desiderosa di seguire gli ideali
patriottici e liberali a cui sembrava portare l’invasione garibaldina nel meridione. Nel 1960 fu la protagonista
femminile dello sceneggiato Tom Jones dal romanzo di Fielding con la regia di Eros Macchi. Tra le sue
interpretazioni televisive degli anni sessanta si possono ricordare lo sceneggiato Tarantino sulle alpi del1968 per la regia di Edmo Fenoglio e nel 1969 l’originale televisivo La donna di cuori della serie Squadra
omicidi tenente Sheridan diretto da Leonardo Cortese, in cui vestiva i panni dell’ambigua e affascinante Vera
Davis, protagonista indiscussa di questo giallo di alta classe e di grande successo. Prese parte anche a diverse
commedie prodotte dalla Rai: possiamo menzionare nel 1968 La scomparsa di Leslie Howard diretto da
Majano e, sua ultima apparizione, la piece Nina del 1975 diretta da Adalberto Andreani.
Tra le sue interpetazioni in teatro ricordiamo il lavoro Processo a Oreste in cui Emma Danieli recitò insieme
al grande Vittorio Gassman nel 1959 al teatro greco-romano di Taormina.
Ilaria Occhini
Nata a Firenze il 28 marzo 1934, è nipote del famoso scrittore Giovanni Papini e figlia di un altrettanto
famoso scrittore, Barna Occhini. Su sollecitazione del regista Luciano Emmer, la giovane attrice si lascia
prima tentare dalla via del cinema, debuttando nel 1954 nel film Terza liceo con lo pseudonimo di Isabella
Redi. Si iscrive, quindi, come allieva all’Accademia d’Arte drammatica di Roma dove consegue il diploma
nel 1957. Nello stesso anno avviene il suo debutto in teatro con il regista Luchino Visconti che la scrittura
per la commedia L’impresario delle Smirne e che la conferma l’anno successivo affidandole il ruolo di
Caterina in una memorabile edizione del dramma Uno sguardo dal ponte. L’anno precedente aveva visto il
suo debutto in televisione proprio con lo sceneggiato L’Alfiere dove Anton Giulio Majano le affidò il ruolo
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della dolce Titina, cugina del protagonista, personaggio relativamente secondario, ma significativo nella
vicenda sentimentale del giovane ufficiale. La sua grande affermazione televisiva avviene, però, nel 1957
quando ancora Majano la scrittura nel ruolo della protagonista per lo sceneggiato Jane Eyre tratto dal famoso
romanzo di Emily Bronte, un classico della letteratura inglese e uno degli sceneggiati migliori della nostra
televisione. Se nel teatro Ilaria Occhini è una presenza costante, altrettanto lo è in televisione dove prende
parte a numerosi teleromanzi e a opere teatrali adattate per il piccolo schermo. Fra gli sceneggiati e originali
televisivi possiamo ricordare Il vicario di Wakefield del 1959, diretto da Guglielmo Moranti; Graziella del
1961 diretta da Mario Ferrero; Delitto e castigo del 1963 ancora diretto da Majano in cui la Occhini
interpretava il ruolo della bela Sonja; nel 1967 è protagonista insieme ad Adriana Asti della magnifica
trasposizione televisiva de La fiera delle vanità tratta dal romanzo di William Theckery firmato ancora una
volta da Majano. Qui la Occhini diede il meglio di se stessa interpretando il ruolo della bella e ingenua
Emmy. .
Ricordiamo ancora Una pistola in vendita diretto da Vittorio Cottafavi nel 1970 e La barchetta di cristallo
della serie Il Commissario De Vincenzi del 1977. Seguiranno nel 1978 Diario di un giudice con la regia di
Marcello Baldi e protagonista maschile Sergio Fantoni, fino ad arrivare al grande successo nel 1982 con lo
sceneggiato L’Andreana diretto da Leonardo Cortese.
Tra le opere teatrali realizzate per le televisione, ricordiamo La casa delle sette torri del 1959 diretta da
Guglielmo Morandi, La fiaccola sotto il moggio del 1965 diretta da Giorgio De Lullo; Il processo a Mary
Dugan del 1969 con la regia di Majano e un bravissimo Corrado Pani nel ruolo del protagonista maschile; Il
mercante di Venezia del 1979 diretto da Gianfranco De Bosio. Non si può non ricordare la splendida
interpretazione della Occini ne la Tosca televisiva diretta da Enrico Colosimo nel 1971, tratta dal notodramma di Sardou in cui l’attrice mostrò un forte temperamento drammatico. Infine ricordiamo che Ilaria
Occhini diede vita anche a personaggi duri e aspri come nello sceneggiato Puccini diretto da Sandro Bolchi
nel 1973, dove impersonava Elvira, la moglie del compositore lucchese, figura determinante nella vicenda
biografica narrata per il piccolo schermo.
L’atrrice continua a lavorare in teatro; tra le sue ultime interpretazioni ricordiamo Quel pasticciaccio brutto
di via Merulana nel 1996 diretto da Luca Ronconi e trasmesso anche in televisione.
Domenico Modugno
Nato a Pogliano a Mare il 9 gennaio 1928, morto a Lampedusa il 6 agosto 1994, Domenico Modugno rimane
uno dei più compiuti artisti del XX secolo, nei tre settori: cinema, teatro e televisione, al disopra dei quali si
innesta la sua sfolgorante carriera di cantante e di cantautore che lo rese famoso in tutto il mondo. Qui lo
ricordiamo solo come interprete di alcuni lavori televisivi e teatrali che contribuirono alla sua notorietà,
mettendo in luce la sua bravura di attore, sia in ruoli drammatici, che istrionici. Il suo primo sceneggiato
televisivo è proprio L’Alfiere dove Majano gli affidò il ruolo di Nunzio Barabba, appuntato sbandato
dell’esercito borbonico, ma riabilitato e nobilitato dalla volontà del regista. Ricordiamo, quindi,
Scaramouche diretto da Daniele D’Anza nel 1965, magnifico esempio di sceneggiato musicale in costumi
secenteschi in cui Modugno ha il ruolo del protagonista; seguiranno, negli anni settanta, le due splendide
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interpretazioni sempre da protagonista, ne Il marchese di Roccaverdina con la regia di Edmo Fenoglio e nel
Don Giovanni in Sicilia per la regia di Guglielmo Morandi, due personaggi, il primo drammatico e il
secondo fortemente estroso, in cui Modugno si rivelò attore di classe dall’innato dinamismo e dalla sapiente
analisi psiclogica dei rispettivi ruoli. Ricordiamo, infine, nel 1984 la sua drammatica interpretazione nello
sceneggiato Western di cose nostre, regia di Pino Passalacqua, tratto da un racconto di Leonardo Sciascia. Non si può, però, dimenticare il suo grande successo teatrale e televisivo con il musical diretto da Garinei e
Giovannini nel 1961, Rinaldo in campo, dove insieme ad una bravissima Delia Scala, Modugno formò una
coppia unica e irripetibile in uno spettacolo di canto e recitazione mai più dimenticato che voleva essere una
bonaria esaltazione del patriottismo risorgimentale in chiave umoristico-sentimentale.
Fernando Cicero
Il suo vero nome era Nando Cicero, nato in Eritrea il 22 gennaio 1931 e morto a Roma il 5 agosto 1995.
Pressoché coetaneo di Fabrizio Mioni, aveva iniziato la propria carriera nel cinema, lavorando come attore e
aiuto regista accanto a maestri quali Rossellini e Visconti con il quale esordì nel famoso film Senso, se pure
in un ruolo di secondo piano.
Nel 1954 è nel cast del film Divisione folgore di Duilio Coletti accanto a Fabrizio Mioni e nel 56, ancora
assieme a Mioni lo ritroviamo tra gli interpreti di Orlando e i paladini di Francia. Seguiranno altri film, tra
cui Salvatore Giuliano di Franco Rosi del 1961 e Parigi o cara di Vittorio Caprioli del 62; in entrambi
Cicero partecipò anche in veste di aiuto regista. Dal 1966 si dedica completamente alla regia e firma
numerosi film comici di un certo successo popolare. In televisione lo ricordiamo ne L’Alfiere dove compare
solo nella terza puntata nel personaggio del “cattivo”, lo scaltro e invidioso Filippo Monaco che non può
soffrire Pino Lancia e farà di tutto per metterlo nei guai. Qui Fernando Cicero e Fabrizio Mioni saranno i due
eterni nemici, immortalati dal vidigrafo della Rai in questo bellissimo sceneggiato che li vede ancora una
volta compagni di lavoro.
Monica Vitti
Può essere superfluo parlare di un’attrice così nota e sulla quale molto è stato detto; tuttavia qui è giusto
ricordare le sue apparizioni televisive e la sua partecipazione ad alcuni sceneggiati e commedie. Due sono gli
sceneggiati a puntate degli anni cinquanta prodotti dalla Rai ai quali la Vitti prese parte: L’Alfiere del 1956 in
cui interpretava la regina Maria Sofia di Napoli, consorte del re Francesco II e Mont Oriol del 1958 con la
regia di Claudio Fino in cui dava volto al personaggio della avvenente e enigmatica Cristiana.
Tra le commedie di prosa possiamo ricordare: Questi ragazzi del 1956, regia di Claudio Fino; L’imbroglio
del 1959, regia di Giacomo Vaccari; Le notti bianche del 1962 con la regia di Cottafavi e Il cilindro del 1978
con la regia di Eduardo De Filippo.
Ha preso parte anche a spettacoli di intrattenimento leggero fra cui Mille volti di Eva messo in scena da
Rosiaria Polizzi nel 1978, La fuggitiva scritto da lei stessa nel 1983 e Passione mia del 1985, un omaggio al
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cinema diretto da Roberto Russo in cui l’attrice fa da madrina a giovani talenti usciti dal Centro Sperimentale
di Cinematografia e dall’Accademia di Arte Drammatica.
Da segnalare infine la fiction Ma tu mi vuoi bene? del 1992 realizzato da Marcello Fondato, in cui Monica
Vitti recitava a fianco di Johnny Dorelli.
Antonio Pierfederici
Nato a La Maddalena (Sassari) il 18 marzo 1919, è stato un attore prevalentemente teatrale.
Intensa, però, fu anche la sua partecipazione a numerosi lavori televisivi prodotti dalla Rai nel corso degli
anni; oltre L’Alfiere in cui Pierfederici sosteneva il ruolo del re Francesco II di Napoli, ricordiamo L’idiota e
La Piasana rispettivamente del 1959 e del 1960 diretti entrambi da Giacomo Vaccari; Scaramouche del 1965
diretto da Daniele D’Anza; I fratelli Karamazov del 1969 con la regia di Sandro Bolchi, Una pistola in
vendita del 1970 con la regia di Cottafavi, L’edera del 1974 diretto da Giuseppe Fina, Ritratto di signora del
1975 diretto da Sandro Sequi e La traccia verde dello stesso anno diretto da Maestranzi. Pierfederici ha
preso parte anche a diversi sceneggiati di carattere giallo inseriti nelle diverse serie del tenente Sheridan, il
commissario Maigret, Nero Wolf e il commissario De Vincenzi. Numerose anche le opere in prosa allestite
per la TV alle quali l’attore ha partecipato: Processo Karamazov diretto da Ottavio Spadaro nel 1961, Corte
marziale per l’ammutinamento del Caine diretto da Vaccari nel 1965, Il temporale del 1973 con la regia di
Claudio Fino e Ritratto di ignoto diretto da Mario Ferrero nel 1977.
Enzo Turco
Nato a Napoli nel 1902 e morto a Roma nel 1983, si dedicò molto presto al teatro, imponendosi
come una delle punte di forza, se pure in ruoli di supporto, dello spettacolo in dialetto napoletano.
Attore istintivo, esuberante e arguto, si afferma rapidamente come spalla essenziale di alcuni comici,
soprattutto di Nino Taranto fin dalla seconda metà degli anni trenta. Si possono ricordare almeno quattro
titoli di commedie teatrali in cui l’attore recitava con il grande mattatore napoletano: Nuvole del 1848,
Appuntamento in palcoscenico del 1849, Taranteide (1950) e Cavalcata di mezzo secolo (1951), tutte degli
autori Nelli e Mangini. Nel cinema Enzo Turco è presente dalla fine degli anni quaranta quando viene
richesto sovente per ruoli di secondo piano, da estroverso caratterista per commedie comico-brillanti, sempre
al servizio dell’attore di varietà di turno. Dalla seconda metà degli anni cinquanta si dedica attivamente alla
televisione, partecipando a diverse produzioni; oltre a L’Alfiere in cui interpreta il ruolo dello scaltro, ma
generoso sergente Lo Russo, lo ritroviamo nella serie a episodi Aprite: polizia del 1957 diretta da Daniele
D’Anza. Nel 1963 è tra gli interpreti dello sceneggiato Peppino Girella di Eduardo De Filippo, nel 1965
partecipa ad uno degli episodi della serie giallo-rosa Le avventure di Laura Storm con la regia di Camillo
Mastrocinque e Lauretta Masiero nel ruolo della protagonista. Lo ritroviamo, quindi, negli sceneggiati: Luisa
Sanfelice del 1966 con la regia di Leonardo Cortese, Napoli 1860, La fine dei Borboni del 1970 diretto da
Blasetti, Le terre del Sacramento del 1970 di Silverio Blasi Joe Petrosino (1972) per la regia di Daniele
D’Anza e nell’episodio Rapina a mano armata della serie Qui squadra mobile del 1973 diretta da Majano.
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Indice
PrefazionePag. 2
Capitolo I
Inquadramento storico. Da Ancona a Gaeta. Le operazioni dell’esercito regolare
Pag. 5
Capitolo II
Il romanzo L’Alfiere di Carlo Alianello
Pag. 8
Capitolo III
Lo sceneggiato televisivo della neonata televisione italiana
Pag. 10
Capitolo IV
Da Il dottor Antonio a L’Alfiere
Pag. 13
Capitolo V
Sceneggiatura e argomento storico
Pag. 17
Capitolo VI
Immagini e sequenze
Pag. 23
Capitolo VII
Pino Lancia: un singolare personaggio dell’epopea risorgimentale
Pag. 34
Capitolo VIII
Un frate mistico e un cugino esuberante
Pag. 38
Capitolo IX
Renata, Titina e Ginevra: tre donne per un giovane ufficiale
Pag. 40
Capitolo X
Una folla di personaggi e un cast di attori eccezionali
Pag. 42
Capitolo XI
I temi musicali presenti ne L’Alfiere
Pag. 48
Capitolo XII
Scenografia e linguaggio
Pag. 52
Capitolo XIII Pag. 56