Numero 6/2009

52
6 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Novembre/dicembre 2009 – Anno X Forse, il modo migliore di parlare oggi del Mezzogiorno d’Ita- lia è di ricordare che si tratta, per l’appunto, non solo sul piano geografico, di una parte dell’Italia. Può apparire una banalità, ma non lo è per nulla. Ne deriva che la storia italiana del Mez- zogiorno non comincia affatto con l’unificazione politica della penisola nel 1861. Comincia, invece, con gli inizi stessi della sto- ria italiana dell’Italia, ossia molto, molto prima… a pag. 5 Nord e Sud d’Italia, una prospettiva storica sulla lunga durata Giuseppe Galasso Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino Giorgio Napolitano Un’Europa più unita e integrata o il declino […] Crescita competitiva, coesione sociale e civile (spa- zio di libertà, sicurezza e giustizia, presidiato dalla Carta dei diritti fondamentali), salvaguardia del comune retag- gio culturale, e politica estera e di sicurezza comune: sono queste le nuove frontiere del processo di integra- zione europeo. In tale direzione si è tuttavia proceduto nel corso degli ultimi dieci anni… a pag. 11 Dal luglio del 2008, l’Unione per il Mediterraneo (UpM) costituisce il nuovo quadro politico-istituzionale delle relazio- ni euro-mediterranee. Fondata ufficialmente in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo di Parigi del 13 e 14 luglio 2008, allo scopo di imprimere… a pag. 19 Il necessario governo dell’Europa e la “quadriga” nata a Lisbona Pier Virgilio Dastoli Nel secondo decennio del secolo, l’Unione europea avrà un volto nuovo, anzi un volto a tre teste – come il Cerbero dan- tesco – rappresentate nei primi cinque anni dal belga Her- man Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo, dal portoghese José Manuel Barrosoa pag. 14 L’Unione per il Mediterraneo e le prospettive per il “sistema Italia” Luisa Pezone Dossier IL CENTRO SIDERURGICO DI TARANTO COMPIE 50 ANNI Federico Pirro a pag. 41 NEL MESSAGGIO DI FINE 2009, il Presidente della Re- pubblica ha posto in partico- lare evidenza tra gli obiettivi dell’azione pubblica, il Mez- zogiorno e i giovani. L’Italia potrà inoltrarsi in una fase di sviluppo, se il Mezzogiorno avrà ridotto le distanze della sua economia e dei suoi as- setti sociali dal resto del Pa- ese. Quanti tra gli esperti re- stano alla ricognizione di una struttura duale Nord-Sud, non possono intendere che le po- polazioni della penisola com- prendano due diversi livelli di cittadinanza, a seconda dei luoghi di origine e di esisten- za. Perché a questo siamo ri- dotti.… a pag. 3 Mezzogiorno e giovani nel messaggio del Presidente della Repubblica Francesco Paolo Casavola

description

Rivista Mezzogiorno Europa

Transcript of Numero 6/2009

Page 1: Numero 6/2009

6Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Nov

embr

e/dic

embr

e 20

09 –

Ann

o X

Forse, il modo migliore di parlare oggi del Mezzogiorno d’Ita-lia è di ricordare che si tratta, per l’appunto, non solo sul piano geografico, di una parte dell’Italia. Può apparire una banalità, ma non lo è per nulla. Ne deriva che la storia italiana del Mez-zogiorno non comincia affatto con l’unificazione politica della penisola nel 1861. Comincia, invece, con gli inizi stessi della sto-ria italiana dell’Italia, ossia molto, molto prima… a pag. 5

Nord e Sud d’Italia,una prospettivastorica sullalunga durataGiuseppe Galasso

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Giorgio NapolitanoUn’Europa

più unita e integratao il declino

[…] Crescita competitiva, coesione sociale e civile (spa-zio di libertà, sicurezza e giustizia, presidiato dalla Carta dei diritti fondamentali), salvaguardia del comune retag-gio culturale, e politica estera e di sicurezza comune: sono queste le nuove frontiere del processo di integra-zione europeo. In tale direzione si è tuttavia proceduto nel corso degli ultimi dieci anni… a pag. 11

Dal luglio del 2008, l’Unione per il Mediterraneo (UpM) costituisce il nuovo quadro politico-istituzionale delle relazio-ni euro-mediterranee. Fondata ufficialmente in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo di Parigi del 13 e 14 luglio 2008, allo scopo di imprimere… a pag. 19

Il necessario governo dell’Europae la “quadriga” nata a Lisbona

Pier Virgilio DastoliNel secondo decennio del secolo, l’Unione europea avrà

un volto nuovo, anzi un volto a tre teste – come il Cerbero dan-tesco – rappresentate nei primi cinque anni dal belga Her-man Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo, dal portoghese José Manuel Barroso… a pag. 14

L’Unione per il Mediterraneoe le prospettive per il “sistema Italia”

Luisa Pezone

DossierIL CENTRO SIDERURGICO DI TARANTO COMPIE 50 ANNIFederico Pirroa pag. 41

Nel Messaggio di fiNe 2009, il Presidente della Re-pubblica ha posto in partico-lare evidenza tra gli obiettivi dell’azione pubblica, il Mez-zogiorno e i giovani. L’Italia potrà inoltrarsi in una fase di

sviluppo, se il Mezzogiorno avrà ridotto le distanze della sua economia e dei suoi as-setti sociali dal resto del Pa-ese. Quanti tra gli esperti re-stano alla ricognizione di una struttura duale Nord-Sud, non

possono intendere che le po-polazioni della penisola com-prendano due diversi livelli di cittadinanza, a seconda dei luoghi di origine e di esisten-za. Perché a questo siamo ri-dotti.… a pag. 3

Mezzogiorno e giovani nel messaggiodel Presidente della RepubblicaFrancesco Paolo Casavola

Page 2: Numero 6/2009

Nuove povertà 2010. l’Ue non poteva scegliere anno migliore per la lotta alla povertà Anna Rea » 25

AmbieNte la questione climatica diventa geopolitica globale Anna Maria Valentino » 28

ANAlisi la triplice “riserva” al Trattato di lisbona Barbara Guastaferro » 33

euroNote Andrea Pierucci » 48

sommario

Dopo un decennio le opere di Lello Esposito tornano ad illustrare significativamente questa rivista. Un decennio che ha consacrato defini-tivamente lo scultore-pittore napoletano come uno degli artisti più rappresentativi nel pano-rama dell’arte mondiale.

Esposito lavora da circa trent’anni sulle tradizioni della città di Napoli e sui simboli che la rappresenta-no: Pulcinella, il Corno, l’Uovo, il Teschio, il Vulcano, San Gennaro…

“Artista di culto”, come ama autodefinirsi, ha improntato il suo percorso artistico ad una continua ricerca sull’identità napoletana e più estesamen-te mediterranea, sugli archetipi della città, sul suo immaginario culturale, pervenendo di volta in volta a sempre più intense e multiformi reinterpretazioni della tradizione.

Plasmando instancabilmente diversi tipi di ma-teriali, dall’argilla, al bronzo, fino alla più recente sperimentazione con l’alluminio, Lello Esposito ha affrancato le icone partenopee dai tradizionali cano-ni interpretativi, liberandole dagli stereotipi ed eleg-gendole definitivamente a simboli di una metamorfosi universale. Quel Pulcinella oleografico, folcloristico con cui ha scelto di intraprendere il suo suggestivo viaggio nell’arte e nella tradizione, è stato progres-sivamente svuotato dei significati noti e riformulato attraverso una dinamica interazione ed integrazione con la sensibilità contemporanea e con lo scenario urbano ed esistenziale presente. Tramandando la tradizione con un linguaggio decisamente attuale,

Lello coniuga il presente con il passato, esaltando la Metamorfosi come processo di Rigenerazione, come Rinascita, e in definitiva come elemento essenziale della condizione umana.

Ispirato da un amore profondo per la propria cit-tà, ne ha denunciato le sofferenze, le paure, le an-gosce e i dolori, con il suo Pulcinella incatenato, col Pulcinella in croce, con quello in ginocchio… Ma ne ha nel contempo espresso l’energia vitale, come ad esempio nel Pulcinella che vomita spaghetti e demoni della scultura “Moto rigenerativo”.

L’incessante trasformazione di contenuti e signi-ficati (in un Pulcinella-contenitore che rappresenta un punto fermo nell’inarrestabile divenire), si è armonizzata con la continua sperimenta-zione di tecniche e modalità artistiche dif-ferenti, attraverso la fusione di materiali diversi, della scultura con la pittura; col fare scultura sulla tela e viceversa, in una ul-teriore enfatizzazione della metamorfosi, del mutamento…

Nel suo studio, che ha sede nelle cinquecentesche Scuderie di Palazzo San Severo in piazza San Domenico Maggiore, c’è una collezione perma-nente di sue opere che raccontano di Napoli, della sua storia, della sua identità, della sua cultura. La cultu-ra che Lello ha portato in giro per il mondo: a New York, Londra, Parigi, Marsiglia, Berlino, Bonn, Madrid, Bu-dapest, Tokyo; per il desiderio di con-

frontarsi con la cultura di altri Paesi e perché – come lui stesso dice – si sente “cittadino del mondo”. Con una predilezione per l’America, che ha da sempre ispirato il suo “sogno napoletano, un sogno sul mo-dello americano”.

Proprio per gli Stati Uniti, in occasione dell’ele-zione del presidente Obama, Lello ha creato un’impo-nente opera, Libertystaffs : si tratta di un’installazione costituita da una bandiera a stelle e strisce dipinta su tela (392x190 cm), che fa da sfondo a 232 aste in alluminio, ciascuna sovrastata da una testa del-la Statua della Libertà. Il riferimento è evidente: le aste rappresentano i 232 anni di storia dell’Indipen-

denza degli Stati Uniti, dalla dichiarazione di Indi-pendenza del 4 Luglio 1776. “Sono stato ispirato dal rispetto che hanno gli americani per le istitu-zioni e dall’elezione di Obama, un afroamericano che ha raggiunto il gradino più alto: l’avverarsi di

un grande sogno. Oggi per me è una sfida nella sfida parlare in napoletano ed andare in giro per il mondo continuando a lanciare segnali universali, anche attraverso l’amore per la mia città”.

Ancora un’evoluzione in questo affasci-nante percorso artistico, ancora un espe-rimento su materiali e su simboli, ancora un’occasione, per il nostro artista, per ribadire un valore assoluto e universale, quello della Libertà, da sempre celebrata nelle sue opere.

Stefania Di Biase

Page 3: Numero 6/2009

3

dalla prima pagina

… A partire dal dopoguerra, lo sfor-zo per industrializzare il Mezzogiorno, per dotarlo di grandi infrastrutture, per sostenerne e promuoverne la imprenditorialità, si è come esauri-to, lasciando ovunque relitti, quasi tracce di un esercito in ritirata. La questione meridionale è tornata ad essere un tema accademico, non po-litico. Quanto ai giovani, confidare soltanto nella rappresentatività loro di un futuro puramente temporale e biologico varrebbe a lasciare le cose a speranze senza progetto. Occorrono analisi e decisioni. L’esito di una pri-ma modernizzazione del Mezzogior-no è visibile nella diffusa istruzione delle generazioni nuove, a seguito della scolarizzazione di massa. Ma quali effetti ne sono venuti per l’oc-cupazione?

È innegabile che se cresce la disponibilità di giovani con titoli di scuola media superiore, di laureati di vario livello, di specializzati, de-vono in proporzione aprirsi maggiori opportunità sul mercato del lavoro. Questo nel Mezzogiorno non è acca-duto. La risorsa strategica tradiziona-le per i giovani meridionali, diplomati e laureati, era rappresentata dai con-corsi nella pubblica amministrazione. Quanti magistrati, funzionari, inse-gnanti meridionali si sono diffusi nel Paese per servirlo, dall’Unità in poi, e insieme realizzare proprie vocazioni e progetti di vita. L’offerta del sistema pubblico, da un canto si è ridotta, a mano a mano che ad essa si sono an-dati rivolgendo anche i giovani delle regioni del Nord, dall’altro si è profon-damente alterata per la proliferazione delle amministrazioni locali. La previ-sione di un abbattimento della spesa pubblica, specie per quanto riguarda le quantità del personale, supplito

dagli strumenti tecnologici, è un ul-teriore dato di aggravamento di que-sto settore del mercato del lavoro. Nel settore privato, oltre le tradizio-nali professioni liberali, inflazionate, attraggono le attività di intermedia-zione e dei servizi dell’economia del terziario, in una sproporzione cre-scente tra imprese societarie nazio-nali e piccole locali. Nella selezione non domina il merito, ma il privilegio della raccomandazione autorevole,

del peso della famiglia, del legame clientelare. Quando non si sia prov-veduti d’altro, non resta che chiedere un lavoro operaio, in via di sparizione dalle grandi fabbriche, che una fret-tolosa deindustrializzazione ha sman-tellato, e in sopravvivenza in aziende artigianali o di media tecnologia.

Non ci si è mai interrogati sulle funzioni di controllo sociale del lavo-ro di fabbrica e di educazione mo-rale oltre che della creatività delle

botteghe artigiane. Nella incapacità di legare funzioni economiche e fini etico-sociali da parte di chi ha avuto responsabilità di grandi scelte collet-tive, ha avuto campo libero la crimi-nalità organizzata. Perché in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, lo Stato contrasta con affanno la sovranità concorrente della malavita? Certo, lo spaccio di droghe, il controllo de-gli appalti pubblici, le tangenti sui piccoli imprenditori e commercianti, fanno una mole di affari che surroga economie stentate e che soprattut-to non danno lavoro. Basti pensare a quali bacini di reclutamento, di inoc-cupati, disoccupati, di tecnicamente esclusi da ogni mercato di lavoro le-gale, può rivolgersi la criminalità or-ganizzata. Non solo lo Stato, ma la società intera, con tutte le sue forze delle famiglie, della scuola, della cul-tura, dei media, delle associazioni, della religione, può competere con qualche risultato duraturo con le or-ganizzazioni criminali. E allora, se un cambiamento dovrà realizzarsi, esso dovrà essere un successo di nuove generazioni, che dovranno essere

Se un cambiamento

dovrà realizzarsi, esso dovrà essere un successo di nuove

generazioniFrancesco Paolo Casavola

Page 4: Numero 6/2009

4educate non a convivere, ma a lottare contro questo terribile male. Educa-re i giovani significa non quello che è stato fatto finora, aprir loro le scuole, gli accessi alle Università per poi la-sciarli alle strettoie del lavoro preca-rio o sotto retribuito o agli espedienti di professioni parassitiche.

Si deve ricominciare con percor-si scolastici ed universitari severi e selettivi, nei quali emergano veri ta-lenti intellettuali e qualità morali in grado di armarli adeguatamente in serie competizioni meritocratiche. Per questo la scuola dovrà tornare ad essere il luogo primario della disci-plina sociale. Oggi eredita ancora il disordine dei decenni della contesta-zione studentesca, successivamente degradata nel bullismo.

Agli insegnanti, demotivati an-che nella non riconosciuta dignità del loro compito, per retribuzioni e carriere, dovrebbe essere restitui-ta una funzione civile di formazione e non soltanto tecnica di istruzione. Altrimenti che varrà avere moltitu-dini di scolarizzati senza responsa-bilità alcuna verso la società e ver-so le proprie personali coscienze? Il Mezzogiorno, ma la diagnosi vale per tutta la Nazione, soffre dell’as-senza di azione di una vera classe dirigente.

Dove si formano le classi diri-genti, se non nei luoghi in cui si ap-prendono le strutture della realtà con razionalità e disciplina?

Siamo pronti a riconoscere che la Francia deve la sua classe dirigente alle scuole nazionali di amministra-zione, ai grandi politecnici, che gli inglesi formano il loro ceto politi-co nei più prestigiosi loro colleges, eccetera, eccetera. Come è nostro ricorrente vizio di provinciali, dimen-tichiamo che cosa sono stati i nostri licei-ginnasi, che nomi di grandi pro-tagonisti della nostra storia naziona-le si leggono nei loro annali.

Invece di pasticciare demagogi-camente su riforme e controriforme

scolastiche, restauriamo severità e dignità in tutte le nostre scuole, di borgata e di città; in tutte le Uni-versità, di provincia e di metropoli. Faremo un più giusto avvenire per i giovani, ma soprattutto faremo che qualcuno guidi lo sviluppo della so-cietà nazionale, non più del Sud e del Nord, con competenza. Troppi leader

improvvisati scambiano per disegni razionali escogitazioni furbesche per ottenere consensi interessati. E a tanto si riducono perché l’onestà intellettuale e morale o si apprende a praticare tra i banchi di scuola o non la si incontra se non per irriderla come ingenuità di concorrenti o av-versari. Puntare sui giovani significa

preparare al Paese una classe diri-gente degna della sua missione. Da questa meta per ora siamo lontani.

Gli uomini migliori, contro l’en-fasi dei giovanilisti contemporanei, sono i superstiti testimoni di lontane generazioni. Dobbiamo dar loro degli eredi, tuttora altrettanto lontani.

DALLA PRIMA

Page 5: Numero 6/2009

5Segue dalla prima pagina

E su questo punto ora ci fermeremo, sia pure assai brevemente.

Che vuol dire, intanto, “storia ita-liana dell’Italia”? In realtà, si tratta solo di non confondere la storia italia-na con quella romana o con altre sto-rie precedenti, e di cogliere, invece, appieno il carattere tutto europeo e moderno della storia nazionale italia-na, in cui quella meridionale rientra. Carattere europeo non perché le sto-rie delle nazioni europee siano sta-te tutte uguali fra loro. Al contrario, ognuna di esse ha le sue particolari-tà, che la rendono irriducibile a ogni altra; e per questo nessuna di esse può fungere da modello delle altre e tutte sono anomale rispetto alle al-tre. Nessuno studioso crede più al modello francese o al duopolio fran-co-inglese quale metro inderogabile della normalità o dell’anomalia delle storie nazionali europee. Molti, tutta-via, ancora insistono nel definire ano-male le storie di questo o quel paese rispetto al presunto modello francese o franco-inglese; e proprio l’Italia è stata ed è fra i paesi più spesso in-dicati come anomali in questo senso. Nello stesso tempo nessuna nazione europea sfugge alla constatazione del carattere storico della sua forma-zione e della sua vicenda o delle sue prospettive in ogni momento di tale vicenda. E perciò, nel parlare di tali nazioni, non bisogna pensare solo a quelle rappresentate negli Stati na-zionali europei del XIX e XX secolo. Alcune nazioni si cominciarono a de-lineare, ma il corso della loro storia le portò poi a dissolversi o a confluire nell’alveo di altre storie nazionali o a configurarsi come elementi o com-ponenti di altre nazioni o ad ancora altri destini, per cui è complesso, dif-ferenziato, molteplice il panorama di tutte, nessuna esclusa, le nazioni eu-ropee. Nessuna di esse è un monolite compatto e omogeneo. Tutte sono, in certo qual modo, nazioni multinazio-nali, fatte cioè di varii elementi, cia-

scuno dei quali ha, in atto o in poten-za, la struttura, non solo culturale, di una vera e propria nazione, e spesso (lo si vede bene per gli antichi Stati pre-unitari in Italia e Germania, ma è lo stesso ovunque) una personali-tà politico-istituzionale definita e di lunga durata.

Specificità e storicità, dunque, e irriducibilità e plasticità delle moder-ne nazioni europee. Il caso italiano lo rivela appieno. Anche nella cro-nologia. Una storia italiana si delinea, infatti, a partire dal VI secolo, nella stessa fase storica in cui cominciano a emergere, fra il V e il IX secolo, le storie degli altri popoli la-tini e germanici e di alcuni popoli slavi.

Per l’Ita-lia, decisiva e punto di inizio più verisimi-le d’ogni altro fu

certo la discesa, nel 568, dei Longo-bardi nella penisola, poiché essi si po-sero subito al di fuori di ogni rapporto istituzionale e sociale con la tradizio-ne romana e affermarono tutt’un’altra condizione di civiltà.

In particolare, va qui ricordato che all’invasione longobarda risalgono al-meno quattro elementi rimasti poi co-stanti nella storia italiana: la rottura

dell’unità politica del paese che dura-va, grazie a Roma, da sei o sette se-coli, e fu poi ricomposta solo tredici secoli dopo, nel 1861; l’enucleazione, in luogo di questa infranta unità, di due grandi zone, che furono allora la bizantina e la longobarda, ma diven-nero poi le due grandi ripartizioni del Nord e del Sud del paese, formando due aree diverse sia sul piano politico che su quello culturale e sociale; l’af-fermazione, rispetto ai poteri politici centrali e sovrani, di forti tendenze centrifughe in cui si espressero un particolarismo e un policentrismo in-domabili; una conflittualità fra il pote-re politico e quello ecclesiastico, che alla fine portò all’appello pontificio ai Franchi contro i Longobardi, ma rimase poi costante e in sostanza

irrisolta in tutta la storia d’Italia.Storia che, certo, non ripercorre-

remo qui, ma noteremo che, in Italia come in tutta Europa, nei secoli dal X al XIV fu più intensa e vivace la dia-lettica in cui si configurarono le nuo-ve o potenziali nazioni in gestazione da tempo. Dialettica che non si esaurì in quei secoli, ma consente agli sto-rici di cogliere già allora allo stato

nascente la nuova fisionomia na-zionale di un’Europa, che era già

l’attuale Europa occidentale, settentrionale e centrale, e

quindi pur essa diversa da quella dei tempi romani.

Anche il nucleo del-la nazionalità ita-

liana nel frattem-po maturata era

già evidente. Gli abitanti

del paese non fu-

r o n o p i ù

Nel periodo pre-unitario fu assidua

e ininterrotta la componente

meridionale nella formazione e nelle vicende della nazione

italianaGiuseppe Galasso

MEZZOGIORNO

Page 6: Numero 6/2009

6chiamati itali o italici, come nell’età antica, o lombardi (dai Longobardi) o romani (nei territori non longobar-di), ma italiani, con un termine che appare tra il secolo XII e il XIII, ma che ebbe una fulminea e totale for-tuna, e che da solo dice quanto or-mai le genti del paese si sentissero un popolo nuovo, al quale occorreva e si addiceva un nome nuovo. E così pure si avviarono tutte le espressio-ni più tipiche dell’italianità, a comin-ciare dalla lingua (che dopo Dante, Petrarca e Boccaccio è ormai quella che rimarrà come lingua nazionale) e dalla tradizione artistica e lettera-ria per finire alle forme più originali della vita pubblica (il Comune, la Si-gnoria, la monarchia meridionale, la Curia romana) e, in ultimo, all’idea di uno spazio politico italiano in Eu-ropa e all’idea della “storia d’Italia” come spazio storiografico ad esso corrispondente.

Più rilevante è, peraltro, il fatto che questa ormai già più che infante nazione italiana, da un lato conquista ben presto in Europa e nel Mediter-raneo un primato economico, cultu-rale e civile durato poi fino ai primi del XVII secolo, dall’altro si biparti-sce al suo interno, sul piano econo-mico e finanziario, con una chiara differenziazione di funzioni. Da un lato, il Nord, come paese avanzato, produttore ed esportatore di prodot-ti manifatturieri, di servizi e di noli, di risorse finanziarie e di personale legato a queste funzioni e, ben pre-sto, legato anche all’esercizio di at-tività manageriali, imprenditoriali, mercantili, bancarie, tecnicamente qualificate nell’area meridionale. Dall’altro lato, il Sud: produzione ed esportazione di materie prime, di se-milavorati e di prodotti agricoli, im-portazione di gran lunga prevalente in tutti gli altri settori.

Un tipico regime da “scambio ine-guale”, dunque, già in atto fra il XIII e il XIV secolo, promosso dalla logi-ca della grande espansione dell’eco-nomia mediterranea ed europea di allora, ma insieme sollecitato dalla stessa monarchia meridionale. Per i sovrani del Sud le città italiane del Nord e del Centro divennero sia ban-ca che fornitrici e concessionarie di servizi e attività rispondenti alla loro qualità di massime potenze economi-che del tempo. Con gli Angioini, tra ‘200 e ‘300, questo stato di cose si consolidò e si ampliò, per raggiunge-re il massimo livello di diffusione e di compenetrazione con la società me-ridionale nel ‘500 e nel ‘600, quando ne furono protagonisti assoluti i ge-novesi. I forestieri, genovesi soprat-tutto, ampliarono, inoltre, questa pe-netrazione nel Mezzogiorno, in tutti i modi possibili, partecipando alla vita pubblica, e, insomma, formandovi un consistente elemento allogeno. Alla fine, quel che si verificò non fu, però, una promozione delle attitudini di quei forestieri nella società meridio-nale, bensì una loro più o meno lenta napoletanizzazione.

Questa unità economico-finanza-ria funzionale della penisola è poco presente negli studi e nella cultura corrente, legata all’idea che l’unica unità italiana prima del 1861 sia sta-ta quella linguistica (della lingua col-ta), culturale, artistico-letteraria. In realtà, l’Italia ha formato un sistema economico su scala peninsulare di non minore importanza ed entità. Fu, anzi, proprio questo sistema economi-co peninsulare a costituire l’impulso e il tramite di non pochi aspetti della stessa unità culturale.

Secondo la logica dello “scambio ineguale”, la dipendenza dal grande mercato e dalle sue mutevoli congiun-ture e la subalternità a grandi e picco-li operatori dominanti su quel mercato caratterizzarono, perciò, almeno dalla seconda metà del ‘200 lo status del Mezzogiorno nel quadro mediterra-neo ed europeo. Ovviamente, dipen-

denza e subalternità non significava-no affatto passività e immobilità. La storia del Mezzogiorno proseguì pie-na e complessa in ogni tempo. In qual-che fase storica – come nel ‘500 – fu anzi tale da dare l’impressione di un avvio a uno sviluppo autonomo e au-tosufficiente, risolutivo per superare la dipendenza e la subalternità di cui si è detto.

Cospicua parimente fu sempre la parte del Mezzogiorno nel più genera-le sviluppo della nazionalità italiana. Per il loro già notato carattere stori-co, in Europa gli svolgimenti nazionali sono fenomeni complessi in perpetuo svolgimento, per cui le nazioni non na-scono mai già tutte bell’e compiute, come tali, fin dai loro primi albori. Il loro germogliare e fiorire non è mai un evento o un chiuso complesso di eventi. Al contrario, è un processo graduale e costante che segue le sue logiche e muta di continuo prospettive e impulsi, senza orizzonti e mete rigide e univoche, e non sempre con un pie-no parallelismo dei varii piani del loro essere storico (etnico e culturale, poli-tico e istituzionale, economico e ma-teriale, sociale e morale): anzi, talora, senza neppure presentare alla luce della storia tutti i molti loro elementi di formazione e di svolgimento.

La realtà nazionale italiana, qua-le poteva essere nel contesto storico europeo (e fu rilevante e preminente), si manifestò, d’altra parte, con con-seguenze rilevanti soprattutto per il Mezzogiorno, quando venne meno il primato italiano in Europa, e il pa-ese, già da quattro o cinque secoli all’avanguardia della civiltà europea, ne passò alla retroguardia, e si ritrovò obbligato a una rincorsa dell’Europa avanzata che non si può dire del tutto conclusa neppure oggi. Ciò accadde nel corso del ‘600; e il Mezzogiorno scontò allora duplicemente la “de-cadenza” italiana: la scontò come paese italiano, e la scontò come pa-ese dipendente e subalterno rispetto all’Italia del Centro-Nord che ne era il tramite con l’Europa.

MEZZOGIORNO

Page 7: Numero 6/2009

7Da allora il posto prima occupa-

to nella vita economica del Mezzo-giorno da altri italiani fu largamente preso da stranieri (francesi anzitutto, inglesi, svizzeri, belgi, tedeschi etc). non, però, con la stessa intensità, diffusione e capacità di penetrazio-ne. L’italianità, dopo tutto, contava, e inoltre l’Italia, anche nei rapporti tra le diverse parti della penisola, non era più quella ricca di energie e di iniziative dei secoli precedenti. Tuttavia, fu proprio allora che in varie parti d’Italia si cominciò a prendere seriamente coscienza della “deca-denza” italiana dai fastigi rinasci-mentali e a misurare la distanza, or-mai, da un’Europa che, Inghilterra e Francia in testa, appariva maestra e modello di modernità. Con la presa di coscienza nacque anche la volontà di recuperare il tempo perduto. Rico-struire un primato italiano in Europa era impensabile. Ma rimettersi al passo con la modernità maturata in Europa appariva, a ragione, possibi-le oltre che auspicabile; e in questa rincorsa all’Europa consistette quel che fu prima definito “rinnovamento” dell’Italia e, poi, nella sua fase culmi-nante, il Risorgimento, tout court.

Di questa vicenda il Mezzogiorno fu pienamente partecipe e protagoni-sta di primo piano. Qui, anzi, la vicen-da si colorì di toni molto alti quando il Regno di Napoli tornò all’autonomia dinastica con l’avvento al trono dei Borboni nel 1734. Per più di due se-coli, dal 1501, il Regno era apparte-nuto a dinastie straniere. Le vicende della grande politica europea vi por-tarono, infine, i Borboni, e Giannone scrisse allora, con una frase davvero memorabile, che ai napoletani si of-friva una occasione che non dovevano perdere, perché un’altra simile non si sarebbe avuta neppure per i seguen-ti mille anni.

L’occasione era, è chiaro, quella di un radicale e decisivo progresso del Mezzogiorno, il cui modestissimo grado di sviluppo rispetto all’Europa occidentale e ad altre parti d’Italia

era ormai evidente. Cessata nel 1707 l’appartenenza alla Corona di Spagna, le responsabilità dell’arretratezza me-ridionale furono attribuite al malgo-verno e allo sfruttamento spagnolo. Era una tesi discutibile, ma aveva il grande pregio di stimolare lo spirito del paese a rovesciare le condizioni dovute a responsabilità addossate a stranieri. Per tutto il ‘700 quest’idea animò un forte slancio della Corona e della cultura napoletana a grandi di-segni e a una cospicua azione di rifor-ma. In linea con una grande espansio-ne dell’economia europea, anche nel Regno vi fu allora una forte ripresa. Certo, però, alla fine del ‘700 non si poteva parlare di una trasformazione del paese rispondente alle visioni e alle speranze dei riformatori e degli intellettuali.

Poi, col terribile choc della rivolu-zione francese e dei suoi svolgimenti, a Napoli si ruppero l’accordo e la sin-tonia fra la dinastia e gli intellettuali riformatori, ossia il grande punto di forza del ‘700 napoletano. Tralascia-mo qui di ricordare il nodo del 1799, tranne che per due punti: a) che la storia napoletana non finì allora, come alcuni ipercatastrofisti amano ripetere, ma proseguì vigorosa nei decennii seguenti; b) che i cosiddet-ti “patrioti” del ’99, clamorosamente sconfitti sul piano politico immediato, ancor più clamorosamente vinsero sul piano storico, poiché la sostanza e il grosso delle loro idee riformatrici tro-varono subito dopo attuazione con la conquista napoleonica del Regno nel 1806 e durante il regno di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat, e anche dopo di loro il dinamismo na-poletano proseguì, sebbene ormai in nuove direzioni.

Ferdinando IV tornò, infatti, a regnare, ma, per gli accordi stipulati dai vincitori per la resa dell’esercito murattiano, dové assicurare il man-tenimento dei nuovi ordinamenti del Regno. Si ebbero così alcuni anni di governo con un indirizzo più continu-ista che di restaurazione. Di nuovo,

ma non segnava un ritorno al passa-to, non vi fu che la proclamazione del Regno delle Due Sicilie con la “legge fondamentale” dell’8 dicembre 1816. Il re voleva chiudere la parentesi co-stituzionale cui era stato obbligato in Sicilia nel 1812. Facendo di Napoli e Palermo un solo Stato, e uno Stato nuovo, il problema di tener fede alla costituzione siciliana non si poneva più. All’apparenza, il Regno di Napoli, che era già il maggiore Stato italiano, veniva ancora ingrandito. In effetti, però, l’unificazione fu un atto grave e senza futuro. I due Regni meridio-nali erano separati da secoli. La Sici-lia non aveva nessunissima volontà di fondersi con Napoli, tre volte più grande, sicché con esso l’isola sa-rebbe stata sempre in minoranza. Di fatto, una nazione siculo-napoletana non nacque mai e, anzi, la riluttanza siciliana all’unificazione del 1816 fu una delle massime palle di piombo al piede sia della dinastia che del Mez-zogiorno napoletano.

A base della restaurata Corona borbonica rimase allora soprattutto la lealtà dinastica. Il mondo napole-onico e rivoluzionario era tramontato. In tutta Europa i sovrani erano stati restaurati, anche se nessuno tornò all’antico regime pre-1789. I Borboni erano ormai a Napoli dal 1734, e così in Sicilia; e un sentimento borbonico (più forte a Napoli) si era formato. E allora perché già nel 1820 si verificò un’insurrezione? È un problema com-plesso. Nell’Europa post-napoleonica, malgrado la forte intesa conservatri-ce formata dalla Santa Alleanza (Au-stria, Russia e Prussia, con l’appoggio inglese), non solo sopravvivevano le idee liberali e democratiche; non solo i sovrani restaurati dovettero accet-tare le trasformazioni post-1789, ma prese vigore anche l’idea di nazione. Le idee liberali e nazionali finirono, anzi, per diffondersi ovunque, e il Mezzogiorno partecipò sia delle une sia delle altre.

La rivoluzione del 1820 nacque su queste basi. Ferdinando I fu co-

stretto ad accettare l’idea di una co-stituzione e a sottoscriverla e giurar-la. La costituzione poi non durò per il voltafaccia del re, ma anche per le debolezze del liberalismo napoleta-no di allora.

Ebbe inizio così quella che si può definire la vera restaurazione napoletana. Una ripresa si ebbe solo con Ferdinando II, asceso al trono nel 1830, i cui inizi furono molto pro-mettenti. Al Regno fu, comunque, assicurata una buona sistemazione tributaria e finanziaria. Vi fu una sta-bilizzazione sia della spesa pubblica, sia della moneta. Si strinsero vari trattati commerciali (taluni impor-tanti). Si tentò l’avvio di varie mani-fatture e si mirò a costruire una serie d’infrastrutture indispensabili per lo sviluppo. Insomma, ci fu una più at-tiva opera di governo, e il pensiero economico napoletano si pose con nuovo vigore i problemi materiali e strutturali del Regno.

Bisogna, peraltro, anche rifar-si all’atmosfera italiana del tem-po. Dopo le delusioni dei moti del 1820-21 e del 1830-31, tornava a manifestarsi l’aspettativa latente, ma mai cessata, e più forte di quanto si crede, di una politica diversa dagli schemi della restaurazione. Erano gli anni in cui Mazzini dava inizio con la Giovine Italia alla sua rivoluzionaria azione storica. Mazzini sosteneva la tesi radicale di un’Italia unita, de-mocratica e repubblicana, ma anche negli ambienti moderati, di gran lunga prevalenti in Italia, si cercava qualco-sa di nuovo e diverso dal grigiore sof-focante della restaurazione. Fu così che anche a Napoli si delineò un rifor-mismo moderato, e i primi anni di Fer-dinando II parvero andare, come si è detto, in questo senso, per cambiare, però, già alla fine degli anni ’30, per l’idea che fosse difficile mantenere un indirizzo riformatore nel Regno senza cedere in qualche modo alle correnti innovatrici e, nel contempo, che fosse pure difficile mantenere la sicurezza e la stabilità del Regno e della Corona

MEZZOGIORNO

Page 8: Numero 6/2009

8senza uno scudo europeo solidissimo come quello offerto da Vienna e dalla Santa Alleanza.

Il re fu acuto in questa sua per-cezione; ma non nel capire che la so-cietà, la cultura e lo spirito europeo e italiano stavano maturando lentamen-te ma fatalmente grandi richieste e spinte riformistiche, com’era accadu-to nel ’700. Quando poi nel 1839 fu siglata l’entente cordiale tra Francia e Inghilterra, protagoniste della rivo-luzione industriale e di netto orienta-mento liberale, il problema divenne più grave. Quell’intesa fu un grande fatto della politica europea, e non solo sul piano diplomatico, sul quale durò, in sostanza, fino alla seconda guerra mondiale. L’orientamento filo-austria-co del re comportava quindi una divari-cazione rispetto all’ala marciante della storia europea.

I fatti del 1848, decisivi per le sor-ti del Regno, vanno visti alla luce di

questi elementi. Ferdinando II avvertì il pericolo delle rivoluzioni di quell’‘‘an-no dei miracoli’’ per i regimi vigenti in Europa. Quando, inaspettatamente, primo fra i sovrani italiani, nel febbraio 1848 concesse la costituzione, non era certo diventato liberale. Pensò solo di superare così le agitazioni manifesta-tesi anche nel Regno. Il motivo nazio-nale s’era diffuso largamente in tutta la borghesia meridionale. Fu questa la parte d’Italia in cui ebbero maggio-re fortuna le idee politiche di Gioberti, che orientava l’opinione moderata alla causa nazionale e liberale, vagheg-giando una confederazione italiana presieduta dal Papa. Era un sogno irrealistico e le vicende del ’48 lo di-mostrarono, dissolvendo le fortune del giobertismo ma rafforzando, a livello nazionale, l’opinione moderata.

A sua volta, il liberalismo napo-letano fallì nel 1848 come nel 1820, e facilitò, con le sue debolezze e di-

visioni, il ritorno a un regime assolu-tistico dopo che il 15 maggio 1848 il re, represse le agitazioni nella capita-le, mise in frigorifero, per così dire, la costituzione appena concessa.

Intanto l’Austria, dove la rivolu-zione del 1848 aveva cacciato il Met-ternich, si era ripresa, e si era conclu-sa con la doppia disfatta di Custoza e Novara la guerra di Carlo Alberto, che tanto entusiasmo aveva acceso in tutt’Italia. Ciò incoraggiò Ferdinando II nel suo nuovo assolutismo, e ruppe per l’ennesima volta il rapporto tra la di-nastia e la parte più dinamica e attiva del Regno. Il re pensava che la facilità della repressione del 15 maggio, come del tentativo dei fratelli Bandiera in Calabria nel 1844 e di quello di Pisaca-ne nel 1857, attestasse la nettissima prevalenza della monarchia sulle forze avverse. Ma intanto si diffondeva in tutta Europa un’opinione assai nega-tiva verso i Borboni, mentre dopo il ’48

il ritmo delle realizzazioni e dell’attività di governo di Ferdinando II apparve di qualità nettamente inferiore rispetto al periodo precedente e i problemi di fondo del Mezzogiorno furono larga-mente elusi, proprio mentre l’Italia e il Mezzogiorno vivevano un intenso de-cennio di mutamento etico-politico. Il confronto con altre parti della penisola divenne allora dirimente per l’opinione meridionale più al passo con la cultura e le tendenze generali dell’Europa. Per di più, le nuove idee, se non una vera e propria adesione, riscuotevano un vivo interesse nella borghesia, soprattutto provinciale, che era ormai la principa-le struttura sociale del Regno, e che, come la borghesia urbana, aspirava a un progresso graduale e senza avven-ture, di cui dopo il 1848 non vedeva nel governo di Ferdinando II nessun avvio, e ancora meno una promessa. Anzi, la mancata percezione, da parte del re, della diffusione di queste idee e ten-

MEZZOGIORNO

Page 9: Numero 6/2009

9denze moderate dev’essere riguar-data come una ragione preminente di logoramento del regime borbonico negli anni ’50; e conta, a mio avviso, molto di più della stessa rottura del re coi liberali nel 1848, per cui il Cro-ce disse che in quell’anno il Regno era ormai “finito in idea”. Sentendosi sicu-ro tra l’acqua santa e l’acqua salata, com’egli amava dire, il re non percepì poi neppure la progressiva affermazio-ne dell’idea italiana dopo i disastri del ‘48, e tanto meno che essa si faceva ormai sempre più strada anche nel Re-gno, specie in Sicilia; e ciò per gli even-ti posteriori non contò meno della sua meno felice azione di governo e della sua deficiente percezione delle opinio-ni dominanti nel Mezzogiorno, sempre più insoddisfatte del governo.

In Italia tra il ’46 e il ’48 l’eroe ita-liano era stato Pio IX; poi lo divenne Carlo Alberto; e poi Vittorio Emanuele II, che mantenne, malgrado gli allet-tamenti austriaci, lo statuto liberale del ’48. Quella fu una fortuna di Casa Savoia. L’altra fu di aver trovato in Cavour uno statista di alto rango eu-ropeo. Nella penisola ormai l’indipen-denza nazionale non era più discus-sa. Si discuteva solo se il nuovo stato dovesse essere unitario o federale, monarchico o repubblicano. E non fu quindi tutta un “miracolo” e un’improv-visazione la rapidissima unificazione del 1859-1861.

Si dovrebbe dire semmai che venne confermato in questa repenti-na unificazione un punto essenziale: e cioè che non fu il Risorgimento a inventare e a costruire la nazione ita-liana, bensì che, al contrario, fu l’an-tica nazione italiana a covare e a far sbocciare il suo Risorgimento.

Fu appunto in questo quadro che si ebbe, infine l’impressionante collasso del Regno nel 1860. Se si vuole un paragone storico, si pensi al crollo del fascismo il 25 luglio o al crollo italiano dell’8 settembre 1943, e parlare per questo di tradimenti, eccessi, ingiustizie storiche, crudeli esorbitanze dei vincitori, è compren-

sibile, ma non spiega nulla. Di tutto l’apparato statale borbonico la sola parte che si salvò con onore e che merita rispetto fu quello che a torto fu deriso come‘‘l’esercito di France-schiello’’. Certo, la diversa perso-nalità di Ferdinando II (morto poco prima) e di Francesco II, un giovane gentiluomo inappuntabile e pieno di buone intenzioni ma inadeguato e impreparato a quei frangenti, ebbe la sua parte. Ma è più che dubbio che lo stesso Ferdinando avrebbe potuto far fronte all’urto risolutivo con la grande onda storica naziona-le e liberale dell’unità italiana. Un’on-da in cui si muovevano appieno an-che i napoletani che dall’esperienza del ’48 avevano tratto la conclusiva convinzione che i Borboni remavano contro la forza di una nuova storia, e non credevano più possibile con essi non solo un orientamento nazionale italiano, ma neppure l’instaurazione nel Regno di un vero regime libera-le e una politica di grande ammo-dernamento. Quei napoletani (i De Sanctis, i Settembrini, gli Spaventa, i Poerio, gli Imbriani e tantissimi al-tri) non amavano Napoli e il Mezzo-giorno meno di coloro che rimasero di altra idea, conoscevano a fondo il loro paese e non affrontarono a cuor leggero il passaggio da napoletani a italiani. E ciò anche perché nel far-si italiani essi si sentirono ancor più realizzati anche come napoletani, e tra l’antica patria minore e la nuova maggiore non avvertirono alcun con-flitto o repulsione. Né più né meno di come oggi andiamo diventando euro-pei senza cessare di essere italiani, francesi etc.

Assidua e ininterrotta nel periodo pre-unitario, dunque, la partecipazio-ne o, meglio, la componente meridio-nale nella formazione e nelle vicende della nazione italiana. Che al momen-to dell’unità le due parti del paese si trovassero in condizioni diverse era noto a tutti, anche se lo si attribuiva al malgoverno locale e straniero in un Mezzogiorno, reputato sempre, per

sua natura, ricco e felice. Punti sui quali solo con due basilicatesi si co-minciò a mutare idea. Giustino Fortu-nato illustrò, come è ben noto, le con-dizioni naturali largamente infelici di questo paese; Nitti ne documentò il grande sacrificio fatto all’unità italiana con le sue riserve auree e col durissi-mo peso fiscale a cui lo si assoggettò dopo l’unificazione.

Il problema non è cambiato molto dal loro tempo a oggi. L’Italia e il Mez-zogiorno hanno fatto passi da gigante nel loro sviluppo moderno, ma la dif-ferenza tra Nord e Sud è rimasta pro-fonda, e pone un problema di dualismo strutturale, che, si sa, non ha l’uguale in nessun altro paese europeo. Il Sud colonia del Nord, perché la differenza fra loro si è determinata solo nell’unità e a causa dell’unità? Il Nord soggetto a un tributo ingrato, cospicuo e con-tinuo per sostenere l’inefficienza (e peggio) dei meridionali, la cui inferio-rità di sviluppo sussisteva già tutta al momento dell’unità?

Interrogativi parziali, insufficien-ti, che spiegano ben poco, mentre la “questione meridionale” continua, nelle sue forme attuali, e si profila intanto una “questione italiana” ri-spetto all’Europa, se il paese non rivede a fondo i suoi progetti di ul-teriore sviluppo economico e civile e non risolve problemi che, al chiuder-si dell’attuale crisi globale, rischiano di infittirsi e crescere, non diradarsi e diminuire. È indispensabile che per allora non risulti maggiore lo scarto tra il livello medio di sviluppo dell’Ita-lia e un mercato mondiale sempre più affollato di temibili concorrenti. E questa sfida non la può vincere da solo il Nord chiudendosi nel guscio d’oro del suo sviluppo attuale; né se la può risparmiare il Sud, accon-tentandosi di tante piccole cose alla giornata. Se il Sud va meglio, il Nord diventa subito più forte, continuando a essere il Nord di un grande paese. E, così pure, se il Nord va avanti, anche il Sud sta meglio, perché nel comu-ne progresso più facili e vantaggiose

sono le integrazioni e le parificazioni. Questo si intendeva un tempo parlan-do della “questione meridionale” come “questione nazionale”. Ma, per tutto ciò, non occorre evocare o rievocare nessuna “questione”, settentrionale o meridionale che sia. Al punto in cui siamo, la questione è più che mai ita-liana; ed è ai problemi dell’Italia di oggi unitariamente considerati che occorre applicarsi con larghezza e lungimiranza di vedute: i problemi dell’ «Italia consi-derata come un solo paese», secondo una bella espressione di Cavour nel 1848, quando l’unità appariva anco-ra lontana, e già se ne era compresa, però, la profonda ragione storica e la forza di trasformazione e di potenzia-mento per tutti gli italiani.

Che fu, poi, anche la lezione poli-tica non peritura dei due già ricordati Fortunato e Nitti, intransigenti, come tutti i più autorevoli meridionalisti, nell’affermare il principio dell’unità italiana.

Essi sapevano che nel Mezzogior-no le partite più importanti si erano sempre decise grazie a forze ester-ne. Così per l’affermazione dello Stato moderno con la monarchia spagnola; così per le riforme vagheggiate nel ‘700 grazie alla conquista napoleonica del Regno; così per la causa liberale nel 1860 grazie alla sua identificazio-ne con la causa nazionale italiana. Del resto, anche in Italia l’intervento fran-cese era stato decisivo per il successo delle riforme al tempo di Napoleone I e della causa nazionale e liberale al tempo di Napoleone III. In altri termi-ni il collegamento con le ali avanzate della civiltà politica europea era sta-to un elemento decisivo per l’avanza-mento del paese; e questa lezione, dopo centocinquant’anni di unità, e nonostante tutte le delusioni e gli ar-gomenti in contrario, vale appieno an-cor oggi per l’Italia rispetto all’Europa e per il Mezzogiorno rispetto all’Italia e all’Europa.

Intervento pronunciato al Convegno di Rio-nero in Vulture il 3 ottobre 2009 con la partecipa-zione del Presidente della Repubblica.

MEZZOGIORNO

Page 10: Numero 6/2009
Page 11: Numero 6/2009

11

dalla prima pagina

…tra pesanti incertezze e re-sistenze. Sarebbe facile e pe-noso farne qui la cronistoria. Le esitazioni sono state supe-rate su un tema cruciale: quel-lo dell’allargamento dell’Unio-ne a tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale già incap-sulati nel blocco sovietico, e a qualche altro ancora, portando da 15 a 27 il totale degli Stati membri. Non si può dire che sia mancata la consapevolez-za della necessità di ben più robuste impalcature istituzio-nali per sostenere la costru-zione europea: lo dice il dibat-tito che sul finire degli anni ’90 portò all’apertura del proces-so costituente. E l’idea di una Costituzione europea rispon-deva all’esigenza non solo del rafforzamento e della riforma delle istituzioni dell’Unione, ma a quella di una consape-vole e coerente ridefinizione del progetto europeo, parten-do dalle scelte del Trattato di Maastricht. Il fallimento del Trattato costituzionale sca-turito dalla Convenzione di Bruxelles e già taglieggiato dalla successiva Conferenza Intergo-vernativa, resta la prova più clamoro-sa del prevalere, tra i vecchi e nuovi Stati membri, di fatali contraddizioni e riluttanze.

E ora che ci compiacciamo per la conclusione del defatigante iter di ratifica del ben più modesto Trattato

di Lisbona, dobbiamo avere il corag-gio di guardare in faccia alle incogni-te e alle sfide cui è esposto il futuro dell’Europa. In primo luogo, l’incogni-ta della stessa traduzione in atto delle sia pur limitate innovazioni sancite dal Trattato che sta per entrare in vigore: per quel che concerne il modo di con-

cepire la figura del Presidente stabile del Consiglio Europeo specie nel suo rapporto con l’istituzione comunitaria per eccellenza, la Commissione; per quel che concerne la caratterizzazio-ne, il governo, l’efficienza di quest’ulti-ma, nonché l’effettivo dispiegamento dei poteri attribuiti all’altra autentica

istituzione comunitaria, il Parlamen-to; e infine, per quel che riguarda la concretizzazione del ruolo del Vice-Presidente della Commissione che concentrerà in sé la responsabilità della politica estera e di sicurezza comune e, specificamente, del nuovo servizio diplomatico europeo.

O c c o r r e c o e r e n z a d e l l ’ U n i o n e su quel che intende essere: un’alleanza tra Stati, o un sistema d’integrazione fondato sull’esercizio in comune di una sovranità condivisa | Giorgio Napolitano

EUROPA

Page 12: Numero 6/2009

12In secondo luogo, la sfida ri-

lanciata, o meglio riproposta come non mai con drammatica chiarezza, dall’esplodere, nel 2008, di una così profonda crisi finanziaria ed econo-mica mondiale, e dal delinearsi di una nuova configurazione degli as-setti di governo del mondo. Tale sfi-da dovrebbe imprimere il massimo di determinazione e di coerenza nell’at-tuazione del Trattato di Lisbona e nell’ulteriore sviluppo del processo di integrazione. Mi soffermerò rapi-damente, avviandomi alla conclusio-ne, solo su alcuni dei problemi che ne scaturiscono.

L’Unione Europea ha dato impulsi e contributi che non possono essere negati allo sforzo complessivo della comunità internazionale per far fron-te alla recente crisi: ma il luogo delle decisioni fondamentali si è spostato dal G8, nel quale il peso dell’Europa era indubbiamente rilevante, al G20, e non c’è bisogno di sottolineare come un peso determinante abbia-no già acquistato le nuove potenze emergenti, in special modo dell’Asia, accanto ai maggiori protagonisti del vecchio G8, innanzitutto gli Stati Uni-ti. Il baricentro si è spostato lontano dell’Europa; la necessaria riforma delle istituzioni internazionali, a par-tire da quelle di Bretton Woods, vol-ta a renderle più rappresentative e a rivederne gli equilibri, porrà anch’es-sa questioni assai serie ai paesi che rappresentano attualmente in ordine sparso l’Europa.

Il mondo conobbe una svolta vent’anni fa, con la caduta del Muro di Berlino, ma è via via cambiato come allora non era possibile pre-vedere. È diventato sempre di più interdipendente e davvero globale: la controprova incontestabile l’ha data precisamente la crisi dilagata nell’ultimo biennio. Ed è nello stesso tempo maturata l’esigenza di un go-verno largamente condiviso del pro-cesso di globalizzazione, a fini di più equo e diffuso accesso ai suoi frut-ti e alle sue opportunità, di cresci-

ta sostenibile, di stabilizzazione e pacificazio-ne in vaste regioni nel-le quali oggi si concentra-no tensioni e minacce (come quella del ter-ror ismo di mat r i - c e fondamentalista isla-mica) da disinnesca-re nell’interesse ge-nerale.

I n q u e s t o mondo globale, così diverso da quello in cui n a c -que a m e t à Nove-cento il disegno di unità europea, come può quel che abbiamo costruito, l’Unione a 27, con tutto il ricco patrimo-nio del suo acquis, por-si all’altezza delle sue responsabilità e poten-zialità? Ebbene una delle condizioni per riuscirvi sta di certo nella sua capacità di aprirsi più decisamente alle nuove realtà del mon-do d’oggi, di dare ben al-tra consistenza, organi-cità e credibilità al suo muoversi e opera-re nel sistema del-le relazioni inter-nazionali. Da un lato, il parlare con una voce sola in tutte le sedi isti-tuzionali in cui ci

si confronta e si decide da prota-

gonisti della po-litica e dello sviluppo mon-

diale. Dall’altro lato, tenere sal-damente le fila di tutte le reti e le forme che le

sue relazioni ester-ne sono venute as-

sumendo: accordi di associazione, partenariati, vertici periodici, che già abbracciano attori di tut-

ti continenti. Dare in questo quadro un ri-

lievo priorita-rio all’area

mediterranea e, nell ’ac-c e z i o n e più ampia

( c o m p r e n -dente l’Asia meridionale) , mediorientale,

perché at tra-verso le saldature e le siner-

gie che lì possono realizzar-si l’Europa ha l’opportunità di

collocarsi e di pesare nel nuovo grande flusso di risorse e di traffi-

ci, nel nuovo grande moto di svilup-po che parte dalle maggiori realtà asiatiche.

Evitiamo un equivoco che in qualche modo circola. Una cosa è l’ampliare e arricchire l’insieme delle relazioni esterne – a co-minciare dalla “politica di vici-nato” – dell’Unione Europea, altra cosa è lavorare a nuo-vi allargamenti dell’Unione stessa, aprirsi all’adesio-ne di nuovi Stati membri. Quest’ultimo discorso ha, nella fase storica attuale e nel futuro prevedibile, solo due

svolgimenti

possibili: i negoziati con i paesi dei Balcani occidentali, a partire dalla Croazia, e il negoziato con la Turchia, messo in forse nei suoi sviluppi e nei suoi esiti dai ripensamenti di alcuni Stati membri dell’Unione e spesso evocato come motivo di inquietudine dell’opinione pubblica.

Ora, noi sappiamo che l’allarga-mento dell’Unione da 15 a 27 – ac-compagnato da “atrofia” dell’evo-luzione istituzionale dell’Unione – è stato considerato da autorevoli am-bienti ed esponenti europeisti come una “fuga in avanti”, fonte di “squili-brio tra lo spazio e la sua governabi-lità”. Così si è espresso, ad esempio, in un suo bel libro Silvio Fagiolo, uno dei maggiori artefici del tessuto di-plomatico della costruzione europea. Tenendo conto di queste valutazioni e preoccupazioni, l’essenziale è, io credo, un chiarimento che deve veni-re dai vertici dell’Unione quale essa oggi è. Accanto alle risposte che si attendono dalla Turchia su tutte le materie del negoziato, tocca all’Unio-ne mostrarsi netta e coerente su quel che intende essere: una tradizionale alleanza tra Stati, sorretta da regole di libero scambio in un mercato più o meno unificato, o un sistema d’in-tegrazione fondato sull’esercizio in comune di una sovranità condivisa in campi fondamentali. Nel secondo caso – provvedendo a tutti gli ade-guamenti necessari per evitare la diluizione e la paralisi della capaci-tà di decisione e d’azione dell’Unio-ne – l’adesione della Turchia potrà rappresentare una tappa di gran-de importanza per l’affermazione e l’espansione del ruolo dell’Europa. Ma riprendo ora il filo dell’esposizio-ne ribadendo la necessità di dare cor-po sul serio a una politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea. Fu una forzatura illusoria il porsi quest’ob-biettivo col Trattato di Maastricht? Parlerei piuttosto di un’intuizione an-ticipatrice, cui avrebbe dovuto e deve ancora seguire un forte supplemento di volontà politica. Il che è indispen-

EUROPA

Page 13: Numero 6/2009

13 EUROPA

sabile anche per progredire, come Unione, ben più conseguentemente di quanto non si sia fatto finora ver-so “una politica di difesa comune” e una vera e propria “difesa comune” (come la si definì, con formula pro-pria di quel tempo, nel Trattato di Maastricht): ho in altra sede, a Lon-dra nello scorso maggio, tentato un bilancio degli sforzi compiuti e dei loro limiti, indicando la via da battere per porre l’Unione Europea in grado di farsi carico della propria difesa e anche della sicurezza collettiva. Ho detto allora e ripeto oggi che si tratta di responsabilità e di oneri che l’Euro-pa non può lasciare sulle spalle degli Stati Uniti. Solo così si può aver voce, com’è giusto, nella definizione di un nuovo concetto di sicurezza globale, e solo così si può consolidare quell’al-leanza transatlantica che anche in un mondo tanto mutato resta pietra angolare della collocazione interna-zionale dell’Europa unita.

Delle potenzialità dell’Europa, di quel che l’Europa rappresenta, ha dato una felice sintesi il ministro degli esteri britannico David Miliband in un discorso di poche settimane fa:

“I paesi dell’Unione Europea so-stengono quasi il 40% del bilancio delle Nazioni Unite e quasi i due terzi dell’aiuto allo sviluppo mondiale. Il mercato unico ci dà una decisiva in-fluenza nei negoziati sul commercio o sull’ambiente. Abbiamo 2 milioni e mezzo di uomini e donne in armi e 40 mila diplomatici che operano in 1.500 missioni diplomatiche nel mondo.”

Ecco, su questo potenziale si può dunque far leva perché l’Euro-pa conti nel mondo globale: purché si riconosca, per trarne tutte le con-seguenze, quel che Miliband ha det-to a proposito del Regno Unito: o ci impegniamo insieme a “guidare una forte politica estera europea o – per-dendoci nell’orgoglio, nella nostalgia o nella xenofobia – vedremo decli-nare il nostro ruolo nel mondo”. Se è vero per il Regno Unito quel che ha rilevato il suo ministro degli esteri, il

rilievo vale per ogni, anche grande, Stato membro dell’Unione Europea. E qui si tocca il nodo cruciale. L’Euro-pa-potenza, l’Europa attore globale, resterà un’espressione retorica, una semplice enunciazione velleitaria, se l’Unione resterà prigioniera delle nostalgiche, impotenti pretese degli Stati nazionali, dei loro governi, delle loro classi dirigenti, delle loro forze politiche, nel tentativo di coltivare ciascuno sue antiche prerogative e irriducibili diversità, di conservare e far pesare ostruzionismi e poteri di veto all’interno dell’Unione.

L’Europa è rimasta in questi mesi assurdamente sospesa all’incerto consenso di tre, due, uno dei suoi Stati membri per la ratifica ed entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Non può, di fronte a decisioni fondamenta-li che l’attendono, rimanere sospesa al conseguimento dell’unanimità, ri-nunciando agli strumenti che l’espe-rienza della costruzione comunitaria e le norme del nuovo Trattato le of-frono per andare avanti alla velocità e sui contenuti che una parte impor-tante dei suoi Stati membri sia pron-ta a definire.

Liberarsi di quegli ormai fatali im-pedimenti e freni, dare nuovi sviluppi al processo di integrazione, significa pronunciarsi per un’Europa federale? Questa domanda, e le possibili rispo-ste, rischiano di apparire un ritorno a dispute del passato tra schemi dot-trinari inconciliabili. La prospettiva di una Federazione europea era stata nettamente indicata come approdo cui tendere nella Dichiarazione Schu-man del 9 maggio 1950, cioè nell’atto di nascita della Comunità. Nei decen-ni successivi essa era stata ancora evocata, poi cancellata; aveva finito per prevalere l’idea che – per dirla con Jacques Delors – l’Europa non potesse che “avanzare mascherata”. Il processo di integrazione europeo presentava caratteri di assoluta ori-ginalità, anzi unicità, non conosceva precedenti, come Unione di Stati e di popoli, o come possibile Fede-

razione di Stati-nazione, quasi un ossi-moro. Lo sboc-co finale resta-va indefinibile. Così di fatto si è proceduto fino a ieri.

Ebbene, oggi da un lato questo modo di procede-re appare sem-pre più insostenibi-le, di fatto e politi-camente. Dall’altro intervengono, e non possono essere igno-rate, provocazioni di alto livello, come quel-le contenute nella sen-tenza del giugno scorso della Corte costituzio-nale tedesca: “L’Unione Europea – la cui libertà d’azione si è costante-mente e considerevol-mente accresciuta – ha in alcuni campi” (così recita la sentenza) “un profilo che corrisponde a quello di uno Stato federale”, ma conser-va delle procedure e una struttura che restano “nel solco di un’organizza-zione internazio-nale”, “seguono essenzialmen-te il principio dell’eguaglian-za tra Stati”, lasc iano “ la r esp ons ab i -lità primaria dell’integra-zione nelle mani delle istanze co-stituzionali nazionali”. Di qui la

sollecitazio-ne a sciogliere il

nodo.A me pare

tuttavia che la que-stione vada affron-tata non in termini

di risoluzione – ripe-to – di una vecchia disputa dottrinaria, ma in termini di rispo-sta a una irresistibile e urgente necessità sto-

rica. O l’Unione Europea farà un balzo in avanti

sulla via dell’integrazione affermandosi come sogget-

to unitario capace di leader-ship insieme con altri sull’arena

mondiale, o “diventeremo spetta-tori” in un mondo guidato se non da un improbabile G2, Stati Uniti e Cina, da loro e altre potenze in im-petuosa crescita.

E dunque: o un’Europa più uni-ta, più integrata, più consapevole delle proprie virtù e potenzialità, più risoluta ad avanzare anche non tutta insieme, o il declino. Questa volta, forse, prospetta-re un’opzione così drammatica non è fuori luogo, e può suscita-re una nuova ondata di convin-zioni e sentimenti europeistici, può far scendere in campo nuo-ve energie.

“L’Europa nel mondo di metà Nove-cento e nel mondo d’oggi” Stralci dalla Lectio Magistralis in occa-sione del conferimento della lau-rea Honoris Causa In Politiche ed istituzioni dell’Europa Università degli Studi di Napoli “L’Orientale 14 novembre 2009.

Page 14: Numero 6/2009

14Segue dalla prima pagina

…confermato alla presidenza della Commissione europea e dalla britan-nica Catherine ashton come Alto Rappresentante della politica estera e della sicurezza europea.

Per usare la famosa espressio-ne di Henry Kissinger, i leader dei paesi terzi e delle organizzazioni in-ternazionali dovranno ora scegliere fra il centralino del Consiglio nel Pa-lazzo Justus Lipsius al quale rispon-derà la segreteria di Van Rompuy ed il centralino della Commissione nel Palazzo Berlaymont al quale rispon-deranno le segreterie di Barroso e di lady ashton anche se gli uffici dell’Alto Rappresentante si troveran-no a fianco del Berlaymont nel Palazzo Charlemagne.

In politica estera, l’Unione eu-ropea ha già avuto tre teste duran-te il primo decennio del secolo, da quando i governi dei paesi membri nominarono – nell’ottobre 1999 ed in applicazione del Trattato di Am-sterdam – l’allora segretario generale della NATO, lo spagnolo Javier sola-na Madariaga, come il loro Alto Rap-presentante della politica estera e della sicurezza comune (“Mr. Pesc”), un incarico che gli fu rinnovato nel 2004 insieme a quello di segretario generale del Consiglio.

In queste sue funzioni e laddove la sua presenza era prevista dal Trat-tato, solana ha accompagnato per dieci anni e l’uno dopo l’altro venti presidenti di turno del Consiglio eu-ropeo o del Consiglio dei ministri de-gli affari esteri e, l’uno dopo l’altro, due presidenti della Commissione eu-ropea o due commissari europei alle relazioni esterne.

Figura tipicamente intergoverna-tiva, la presenza di solana è stata intermittente e sovente silenziosa perché il suo ruolo non era richiesto nei vertici bilaterali con paesi terzi o organizzazioni regionali dove invece era stabilmente presente il “duo” rappresentato dal Presidente della

Commissione europea e dal Presiden-te di turno del Consiglio europeo così come è stato anche durante l’ultimo semestre di presidenza svedese del Consiglio europeo in occasione dei vertici bilaterali con la Cina, l’India, la Russia, gli Stati Uniti ed il Brasile od in occasione del G8 a Coppito e del G20 a Pittsburgh. Significativa-mente, il Presidente della Commissio-ne era sempre affiancato nei vertici bilaterali sia dalla commissaria alle relazioni esterne Benita ferrero Waldner che dalla commissaria al commercio internazionale Catheri-ne ashton.

Malgrado il suo silenzio, solana ha arricchito in questi anni le riflessio-ni sulle priorità dell’Unione europea non solo in politica estera ma anche sulle questioni della sicurezza e della difesa europee con relazioni usate più dai think tank internazionali che dalle ottuse suscettibilità nazionali delle di-plomazie e degli ambienti governativi dei paesi membri.

Usando ancora l’espressione di Kissinger, in politica estera l’Unio-ne europea è passata da tre centra-lini di cui due a Bruxelles (Consiglio e Commissione) ed uno nella capitale del paese che deteneva la presiden-za semestrale del Consiglio europeo a due soli centralini.

Qualcuno paventa giustamente il rischio che alla troika sopravvenga ora una quadriga sulla quale vorranno salire – almeno nei nei primi sei mesi del 2010 – Van Rompuy, Barroso, Catherine ashton e Zapatero, l’ul-timo dei quali alla testa di una presi-denza dei consigli “di settore” privati di competenze in materia di politica estera ma pur responsabili di dossier internazionalmente sensibili come il cambiamento climatico, l’energia, gli affari economici e finanziari e la co-operazione allo sviluppo. Lo stesso Zapatero ha del resto preannuncia-to alcune iniziative importanti della “sua” presidenza come la creazione di una sorta di CIA europea (che si chiamerebbe cu-riosamente “CECA”) limitata per ora ai paesi di una prima coope-razione raffor-zata.

Con rare eccezioni (in Italia giu-lano amato, Mario Monti e loren-zo Bini smaghi), le scelte effettuate dai governi prima con la conferma di Barroso ratificata da una confor-tevole maggioranza nel Parlamento europeo e poi con la nomina di Van Rompuy e di Catherine ashton – la sola a dover superare le forche cau-dine della ratifica parlamentare nella sua funzione di prima vicepresidente della Commissione – sono state cri-ticate da tutti i commentatori perché considerate di “basso profilo”.

In Italia del resto è sopravvissuto a lungo e nonostante le sue pessime performance internazionali un parti-to bi-partisan pro-Blair – un leader considerato watusso rispetto ai nu-merosi euro-pigmei paventati da The Economist – un partito che aveva

Avendo rinunziato ad una vera

competizione elettorale, le famiglie politiche

europee hanno accettato la prosecuzione nella

nuova legislatura europea di una specie di “grande coalizione”

e cioè un’alleanza fra popolari, socialisti

e liberaliPier Virgilio Dastoli

EUROPA

Page 15: Numero 6/2009

15avuto un suo effimero momento di gloria nel luglio 2005 quando il pri-mo ministro britannico aveva preso trionfalmente le redini del Consiglio europeo per consegnarle alla succes-siva presidenza austriaca con un ben magro bottino.

Si sa che in vista delle decisioni europee, l’opzione di Silvio Berlu-sconi è stata a lungo limitata alla nomina di Blair alla presidenza sta-bile del Consiglio europeo nonostan-te i segnali che pur dovevano essere pervenuti a Palazzo Chigi dell’acco-glienza tiepida se non fredda che tale candidatura riscuoteva nelle capitali più importanti come Madrid, Parigi e Berlino. Ma Berlusconi poteva contare non solo sull’acquiescenza dei suoi ma anche su simpatie extra-governative sia nel mondo dell’eco-

nomia (Il Sole 24 Ore aveva plaudito ad una indispensabile operazione di marketing ) che fra gli spin doctor del centro-sinistra.

Il governo italiano si è così pre-sentato al tavolo dei negoziati senza carte di scambio e senza candidature autorevoli né italiane né di altri paesi per poter partecipare credibilmente alle trattative europee nell’irragio-nevole illusione che le non-scelte ita-liane avrebbero favorito future can-didature italiane come la presidenza dell’Eurogruppo per giulio Tremonti o della BCE per Mario draghi.

In Italia, del resto, la stampa e gli ambienti politici sono caduti nell’in-ganno ottico di chi ha creduto che al tempo dei negoziati fra le diploma-zie nazionali si stesse sostituendo quello fra le famiglie politiche e che l’Unione europea – in vista dell’en-trata in vigore del Trattato di Lisbo-

na – fosse diventata miracolosa-mente quello “spazio pubblico

europeo” sognato da Jurgen Habermas.

Così non è stato sia perché i partiti politici europei – ed in particolare i so-

cialisti, i

liberali ed i verdi, che pur ne avrebbe-ro tratto i maggiori vantaggi – hanno colpevolmente rinunziato ad usare le elezioni europee del giugno 2009 per condizionare le scelte dei governi usando anzitempo le innovazioni del Trattato di Lisbona sia perché le fila delle apparenti trattative fra i parti-ti erano tirate dai leader dei governi come è stato chiaro nella riunione conclusiva dei socialisti europei dove il governo di Sua Maestà ha rinunzia-to alla inesistente candidatura di Tony Blair per ottenere il posto di Alto Rap-presentante della Politica Estera e del-la Sicurezza sapendo di poter contare non solo sull’acquiescenza della gran-de maggioranza degli altri socialisti ma anche sul favore di leader europei che socialisti non sono come Nicolas sarkozy e angela Merkel.

Avendo rinunziato ad una vera competizione elettorale, le famiglie politiche europee hanno accettato anzitempo la prosecuzione nella nuo-va legislatura europea di una specie di “grande coalizione” e cioè un’alle-anza fra popolari, socialisti e liberali che richiama sia nella sua composi-zione politica che nei colori della ban-diera (nero, rosso e giallo) l’attuale sistema politico in Belgio.

Nella partita delle nomine euro-pee, iniziata già male con l’elezione del polacco Buzek alla presidenza del Parlamento europeo, il governo italiano ha scelto il cavallo sbagliato ed è uscito rapidamente dall’ inner circle di chi avrebbe poi determinato le scelte finali.

Archiviate le procedure di nomina dei nuovi leader europei, si tratta ora di valutare le loro capacità effettive nel quadro del nuovo sistema istitu-zionale dell’Unione europea e delle sfide alle quali l’Unione sarà chiama-ta a dare delle risposte nei prossimi cinque anni.

Per quanto riguarda il Consiglio europeo, il nuovo Presidente ne pre-siede e ne anima le riunioni, ne assi-cura la preparazione e la continuità “in cooperazione con il Presidente

della Commissione” ma anche sulla base del lavoro del “Consiglio affa-ri generali” la cui presidenza spetta ogni sei mesi ad un paese diverso, si adopera per facilitare la cooperazio-ne fra i suoi 27 ex-colleghi, presenta una relazione al PE a conclusione di ogni Vertice ricevendo un voto po-litico rivolto al passato ma anche di raccomandazioni per il futuro, e assicura la rappresentanza esterna dell’Unione europea per le sole ma-terie relative alla politica estera e di sicurezza comune “fatte salve le at-tribuzioni dell’Alto Rappresentante degli affari esteri”.

Il “duo” composto dal Presidente del Consiglio europeo e dal Presiden-te della Commissione continuerà dun-que a rappresentare l’Unione europea ai vertici internazionali, l’uno per le materie relative alla PESC e l’altro per le materie comunitarie ivi compresa ora una parte rilevante delle relazioni esterne grazie anche alla personalità giuridica dell’Unione europea ed alla scomparsa della distinzione fra Unio-ne e Comunità europee.

Come prima e più di prima, il duo dei presidenti sarà affiancato dalla vi-cepresidente della Commissione eu-ropea ora anche Alto Rappresentante degli affari esteri e presidente stabile del Consiglio dei ministri degli esteri dei paesi membri.

Scomparirà invece o piuttosto dovrebbe scomparire dai vertici inter-nazionali la figura del Capo di Stato o di governo del paese che ogni sei mesi continuerà ad assicurare la pre-sidenza del Consiglio affari generali e dei consigli specializzati se sarà evi-tato il rischio della quadriga, che si preannuncia all’inizio della presiden-za spagnola perché il presidente del Consiglio europeo vuole che i vertici si svolgano tutti a Bruxelles ed il capo del governo spagnolo vuole mantene-re le date ed i luoghi decisi in Spagna prima dell’entrata in vigore del Trat-tato di Lisbona.

Vedremo come funzionerà nei prossimi anni la convivenza fra i tre

EUROPA

Page 16: Numero 6/2009

16presidenti e se fra di essi prevarrà la cooperazione leale o la competizio-ne. Sulla base dell’esperienza non si può escludere – ed anzi sarebbe auspicabile – che i governi dei paesi membri decidano nel 2014 (quando la presidenza di turno del Consiglio se-mestrale nella seconda metà dell’an-no spetterà all’Italia) di utilizzare la possibilità non preclusa dal Trattato di Lisbona di nominare la stessa per-sonalità alla presidenza della Com-missione europea ed alla presidenza del Consiglio europeo.

Per facilitare questa possibilità, sarebbe democraticamente opportu-no che le famiglie politiche europee si preparino alle elezioni europee del 2014 facendo quel che non hanno fat-to nel 2009 e cioè proponendo agli elettori un candidato alla presidenza della Commissione/presidenza del Consiglio europeo associando il suo nome ad un programma “di governo” e ad un eventuale ticket con il vice-presidente della Commissione/Alto rappresentante degli affari esteri nel caso di una pre-costituita coalizione.

L’idea di un’elezione del Presiden-te della Commissione associata alle elezioni europee fu già lanciata nel 1998 da Tommaso Padoa schioppa attraverso la Fondazione di Jacques delors Notre Europe e fu poi ripresa durante i lavori della Convenzione gi-scard sulla Costituzione europea sia dal rappresentante del governo irlan-dese John Bruton che dalla rete di organizzazioni non governative raccol-ta all’interno del Forum permanente della società civile. Alla vigilia delle ultime elezioni europee, la proposta fu inutilmente indirizzata ai partiti europei da Notre Europe, dall’Istituto Affari Internazionali, dal Movimento Federalista Europeo, dal gruppo di lavoro sulla democrazia europea ani-mato da giuliano amato e stefan Collignon e dal sito di economisti espresso da lavoce.info.

Per quanto riguarda Herman Van Rompuy, avevano ragione giulia-no amato, lorenzo Bini smaghi e

Mario Monti quando avevano mes-so in luce le necessarie qualità del Presidente del Consiglio europeo, fa-cilitatore di consenso, più chairman che presidente delle riunioni al Ver-tice dei capi di Stato o di governo, garante della continuità dei lavori del Consiglio europeo più che uomo di marketing.

L’ex primo ministro belga ha pro-babilmente tutte queste qualità ed è certo una buona cosa che ad un inca-rico potenzialmente intergovernativo sia stato chiamato il rappresentante di un paese che, sia nella Conven-zione europea che nelle successive conferenze intergovernative del 2003-2004 e del 2007, si sia battuto contro questa nuova figura istituzionale nel timore che la bilancia dei poteri euro-pei potesse pendere troppo a favore dei governi.

Su Catherine ashton più che su Herman Van Rompuy sono stati scagliati gli strali delle critiche e delle ironie della stampa internazionale con l’eccezione di quella del suo paese che ha presto dimenticato i rischi degli eu-ropigmei. Con ironia britannica, Lady ashton ha rivolto le sue prime atten-zioni negative sui risultati svolti pro-prio da Tony Blair come rappresen-tante del c.d. “quartetto” per il Medio Oriente solennemente costituito da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite ma fino ad ora incapace di trovare una soluzione duratura alle tensioni fra arabi e israeliani.

Come l’incarico di Presidente del Consiglio europeo è stato attribuito al rappresentante del paese che più si era battuto contro questo incarico, così l’incarico di Alto Rappresentante è stato assegnato ad una cittadina del paese che contro questa figura “mo-struosa” a metà strada fra il comuni-tario e l’intergovernativo, nell’eviden-te timore che il primo avrebbe preval-so sul secondo.

La nomina di lady ashton sep-pellisce del resto definitivamente un altro “mostro” a tre teste e cioè la troika fino ad ora formata – per il

“governo” della politica estera e della sicurezza comune – dal ministro degli esteri del paese che ha gestito ancora sotto presidenza svedese il Consiglio dell’Unione, l’Alto Rappresentante della PESC ed il commissario europeo alle relazioni esterne.

Una e trina, lady ashton girerà da sola per il mondo ricoprendo con-temporaneamente gli incarichi di pri-ma vicepresidente della Commissione europea, di Alto Rappresentante degli affari esteri e della politica di sicurez-za e di presidente del consiglio dei mi-nistri degli esteri, della difesa e della cooperazione allo sviluppo

A questo titolo, l’Alto Rappre-sentante esprimerà la posizione dell’Unione europea in materia di po-litica estera e di sicurezza nelle orga-nizzazioni internazionali ed in partico-lare di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite se i paesi membri dell’Unione europea avranno raggiun-to una posizione comune e nella mi-sura in cui essi rispetteranno il prin-cipio del Trattato di Lisbona secondo cui “gli Stati membri sostengono at-tivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà re-ciproca e rispettano l’azione dell’Unio-ne in questo settore”.

Si può ragionevolmente sperare che su lady ashton possa agire lo stesso effetto che spinse nel 1162 il cancelliere del Re enrico ii, l’eccle-siastico Thomas Becket – divenuto vescovo di Canterbury su richiesta dello stesso re – a combattere stre-nuamente per l’esenzione del clero dalla giurisdizione politica, attirando-si così l’odio del suo monarca. Con il vivo auspicio che né gordon Brown né david Cameron – se dovesse vin-cere le prossime elezioni legislative nel Regno Unito – decidano di invia-re loro sicari nel Palazzo Berlaymont a Bruxelles come avvenne per il povero Becket il 29 dicembre 1170 nella Cat-tedrale di Canterbury.

Comunque vadano le cose fra i “cavalieri della quadriga”, è opinione

diffusa che l’Unione europea dovrà vi-vere a lungo sperimentando i pregi ed i difetti del sistema istituzionale intro-dotto con il Trattato di Lisbona. Nes-suno dei governi dei paesi membri e nemmeno il Parlamento europeo – al quale il Trattato di Lisbona attribuisce il potere di chiedere delle modifiche ai trattati – immaginano di poter riapri-re il cantiere delle riforme istituziona-li che è rimasto di fatto aperto dalla Conferenza intergovernativa sull’Atto Unico europeo nel 1985 alla firma del Trattato di Lisbona nel 2007.

Chiuso il cantiere delle riforme istituzionali si apre ora quello del passaggio dalle fallimentari strategie di Lisbona (2000-2005 e 2005-2010) all’obiettivo Europa 2020, della revi-sione delle politiche comuni ed in par-ticolare di quelle con conseguenze fi-nanziarie pluriennali insieme a quello della trasformazione del bilancio euro-peo nella parte che riguarda le spese ed in quella che concerne le entrate dove è aperta da tempo la questione di vere imposte europee e dell’intro-duzione degli Union-bond suggeriti da altiero spinelli nel 1981, proposti da Jacques delors dieci anni dopo ed infine ripescati da giulio Tremonti a nome del governo italiano.

L’Unione sarà probabilmente in grado di sopportare il modesto choc delle adesioni di Croazia ed Islanda con un processo che si concluderà a metà di questa legislatura, ma le prospettive dell’allargamento a tutti i Balcani Occidentali (Serbia, Mace-donia, Bosnia-Erzegovina, Montene-gro, Albania e forse Kosovo) e poi alla Turchia – con l’aumento della cultura slava ed il peso della presenza etni-ca e religiosa mussulmana – porran-no nuovamente sul tavolo dei gover-ni e del Parlamento la questione non risolta o forse resa più complicata dal Trattato di Lisbona del governo dell’Unione europea.

Ma questa è un’altra storia e per narrarla sarà opportuno tornare alle idee ed alle proposte di altie-ro spinelli.

EUROPA

Page 17: Numero 6/2009
Page 18: Numero 6/2009
Page 19: Numero 6/2009

19Segue dalla prima pagina

…un nuovo impulso alla politica mediterranea dell’UE a tredici anni dalla nascita del “Partenariato Euro-Mediterraneo” (PEM)1 e a quattro anni dall’avvio della Politica Europea di Vici-nato (PEV)2, l’UpM comprende i venti-sette paesi membri dell’Unione Euro-pea e sedici partner mediterranei3.

L’UpM ha visto la luce dopo un per-corso costitutivo lungo, faticoso ed ar-ticolato, nel corso del quale l’originario progetto francese ha conosciuto una serie di modifiche ed adattamenti im-posti dalle dinamiche comunitarie.

L’iniziale proposta francese di Unione Mediterranea (UM)4, lanciata da Sarkozy fin dai primi mesi del 2007 durante la campagna elettorale per

1 Il PEM, lanciato alla Conferenza di Barcel-lona del novembre 1995, si proponeva di “tra-sformare il Mediterraneo in un’area di dialogo, scambio e cooperazione che garantisca pace, stabilità e prosperità” e stabiliva l’ambizioso obiettivo di realizzare un partenariato tra le due sponde fondato su tre pilastri: dialogo politico e di sicurezza; cooperazione economica e finanzia-ria; partnership sociale, culturale ed umana.

2 La PEV nacque allo scopo di costruire un quadro per il rafforzamento delle relazioni politiche ed economiche dell’UE con quei pa-esi che, con l’ingresso dei nuovi dieci membri nel 2004 e con la conseguente ridefinizione dei confini comunitari, erano destinati a diventare i “nuovi vicini” dell’Unione allargata: Ucraina, Bielorussia, Moldova, paesi del Caucaso e del Mediterraneo.

3 Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Cro-azia, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Mauritania (paese non mediterraneo), Monaco, Montenegro, Siria, Territori Palestinesi, Tunisia, Turchia. La Libia ha lo status di osservatore.

4 Il primo progetto francese di ristruttura-zione dei rapporti euro-mediterranei aveva la de-nominazione di Unione Mediterranea, in quanto destinata, nelle intenzioni di Sarkozy, a rimanere distinta dall’UE e limitata alla partecipazione dei soli paesi rivieraschi. Successivamente, il piano francese assunse la denominazione di Unione per il Mediterraneo, a sottolineare il suo pieno reintegro nel solco comunitario e il coinvolgi-mento di tutta l’Unione Europea nell’iniziativa promossa da Parigi.

l’Eliseo, ripresa al momento del suo insediamento, precisata nel corso dei primi mesi del suo mandato ed impo-sta al centro del dibattito diplomatico europeo, si proponeva di elaborare “un nuovo modello di governance” nei rap-porti euro-mediterranei che, di fronte agli esiti modesti scaturiti dal Processo di Barcellona, fosse ristretto ai soli pa-esi rivieraschi e fondato su un “approc-cio basato su progetti concreti”, che costituissero la base di partenza per un più ampio percorso di cooperazione ed integrazione nell’area mediterranea. La prima iniziativa di Parigi, pertanto, nasceva come un disegno contrappo-sto al quadro comunitario, a carattere intergovernativo, e traeva le sue mo-tivazioni in massima parte dalle de-lusioni suscitate dalle politiche euro-mediterranee dell’ultimo decennio, il PEM e la PEV.

Il lancio del progetto di Unione Mediterranea attivava un doppio bi-nario di analisi e di confronto. Da un

lato, infatti, si apriva un ampio dibatti-to tra analisti, studiosi, esponenti della società civile e dell’opinione pubblica, sia nei paesi europei che nei partner mediterranei, focalizzato sulle carenze e gli ostacoli incontrati nel dialogo tra le due sponde del Mediterraneo dal 1995 in poi. Tale dibattito, già in corso almeno dal 2005, anno del decennale di Barcellona, rappresentava un’occa-sione di approfondimento e di rifles-sione interna all’UE sulla necessità di ripensare ed aggiornare le politiche comunitarie verso l’area, ed ha avuto il merito indiscutibile di rilanciare l’at-tenzione sulla cooperazione euro-me-diterranea che, tra la crisi del Processo di Barcellona e il “basso profilo” della PEV, sembrava in una fase di profonda stanchezza e sfiducia.

Dall’altro, prendeva avvio un arti-colato processo di confronto politico-

diplomatico in merito alla proposta francese di UM. La Germania e la Gran Bretagna la contrastavano apertamen-te, timorose di un progetto che mirava, nella loro valutazione, a servire gli inte-ressi particolari di Parigi con le risorse comunitarie. La Turchia le si oppone-va duramente, considerandola un’al-ternativa indigeribile al suo ingresso nell’UE, un orizzonte strategico da sempre lontano dall’idea d’Europa di Sarkozy. I Paesi Membri Mediterranei (PMM), come la Spagna e l’Italia, pa-ventandone l’impatto negativo sulla coesione europea e sulla solidità del Partenariato, la accoglievano tiepida-mente e mettevano in campo una stra-tegia di “riduzione del danno” al fine di ricondurre progressivamente l’UM nell’ambito comunitario. I paesi della sponda Sud la valutavano con atten-zione ma anche con diffidenza, attirati

L’Unione per il Mediterraneo

al momento può essere considerata come

un tentativo apprezzabile, per quanto farraginoso in alcuni suoi aspetti,

di superare limitie contraddizioni

del Processo di BarcellonaLuisa Pezone

EUROPA

Page 20: Numero 6/2009

20dalla possibilità di un nuovo corso delle relazioni con l’Unione Europea ma an-che timorosi di un indebolimento del “Processo di Barcellona”.

La nascita dell’ UpM, nel luglio del 2008, rappresentava il momento conclusivo di questo doppio proces-so. L’esito finale riconduceva l’iniziale idea francese nel canale europeo e la privava dei suoi elementi di esplicita rottura rispetto alle politiche euro-mediterranee condotte dopo il 1995, a cominciare dall’elegibilità geografica limitata ai paesi rivieraschi.

Molti dei suoi aspetti più innovati-vi e significativi si sono tuttavia mante-nuti anche nella nuova configurazione dell’UpM: la natura essenzialmente intergovernativa; l’eguaglianza tra i membri europei e mediterranei all’in-terno di un contesto di accentuata “co-ownership e il tentativo di condividere il processo decisionale e gestionale tra le regioni al Nord e al Sud del Medi-terraneo; l’approccio fortemente tec-nico- progettuale5; l’apertura alle varie componenti della società civile; una certa flessibilità geografica che po-trebbe aprire la strada a forme di co-operazione rafforzata, limitata soltan-to ai membri più interessati a specifici settori. Si tratta di elementi ereditati, in larga parte, dall’originale proposta francese, che ci consentono di affer-mare che la nuova organizzazione eu-

5 L’identificazione degli ambiti di inter-vento progettuale dell’UpM ha rappresentato il risultato di un processo lungo e complesso, parallelo alla faticosa evoluzione diplomatica che ha scandito il cammino dell’UpM. Alla fine la Dichiarazione di Parigi del luglio del 2008 indi-viduava i settori prioritari nei seguenti sei: il di-sinquinamento del Mediterraneo; la costruzione di autostrade marittime e terrestri per migliora-re le fluidità del commercio fra le due Sponde; il rafforzamento della protezione civile; lo sviluppo di energie alternative e la creazione di un piano solare comune; gli incentivi all’alta formazione e alla ricerca, con la proposta di creazione di un’università euro- mediterranea; il sostegno alle piccole e medie imprese.

ro-mediterranea non è stata comple-tamente svuotata rispetto all’iniziale idea francese, ma solo adattata alle esigenze comunitarie.

Ad un anno e mezzo dalla sua na-scita, i progressi compiuti sulla strada della piena funzionalità dell’UpM appa-iono ancora esigui e limitati per poter esprimere un giudizio compiuto sulla bontà e l’efficacia delle innovazioni apportate al quadro delle relazioni tra l’UE e i Paesi Terzi Mediterranei (PTM). Una serie di difficoltà e condiziona-

menti hanno infatti pesato in manie-ra determinante nei primi mesi di vita dell’UpM. In primo luogo, le accese difficoltà di rendere operativo il nuo-vo quadro istituzionale e di suscitare il necessario interesse politico dei Paesi partner del Sud. In secondo luogo, la scarsità degli incentivi e delle risorse finanziarie, che la recessione economi-ca globale ha reso ancora più evidente. Infine, l’impatto negativo giocato dai conflitti regionali del Mediterraneo e del Medio Oriente, a cominciare dalla

questione israelo-palestinese ancora lontana da una realistica prospettiva negoziale.

Si tratta di nodi irrisolti che te-stimoniano della permanenza, anche nell’ambito dell’UpM, di gran parte di quegli elementi tradizionalmente individuati come fattori di debolezza delle politiche euro-mediterranee. Nel complesso, l’ Unione per il Mediterra-neo al momento può essere conside-rata come un tentativo apprezzabile, per quanto farraginoso in alcuni suoi aspetti, di superare limiti e contraddi-zioni del Processo di Barcellona, ma la reale efficacia delle novità da essa ap-portate al quadro delle relazioni euro-mediterranee non può ancora essere compiutamente valutata.

Nonostante le difficoltà, sia eso-gene che endogene, che hanno pesato sui suoi primi passi, l’UpM ha suscitato fin dall’inizio l’interesse e l’attenzione di quei settori istituzionali, economici ed imprenditoriali del “sistema Italia” tradizionalmente presenti nel Medi-terraneo.

L’ UpM, infatti, come accennato, presenta alcuni elementi in grado di costituire il quadro ideale per dare un nuovo e più deciso impulso all’azione italiana nel Mediterraneo, sia sul ver-sante politico che su quello economi-co-commerciale.

In primo luogo, la connotazione prettamente tecnica e progettuale della nuova organizzazione, che indivi-dua gli ambiti prioritari di intervento in settori economici e sociali di partico-lare rilevanza strategica: l’ambiente, con particolare riferimento alla lotta all’inquinamento nel Mediterraneo; i trasporti; la protezione civile; le energie alternative, con il progetto di “Piano Solare Mediterraneo”; l’alta formazione e la ricerca, nel cui am-bito è stata prevista l’istituzione di un’Università Euro-Mediterranea; lo sviluppo economico, sociale ed im-

EUROPA

Page 21: Numero 6/2009

21prenditoriale dell’area mediterranea. In secondo luogo, la flessibilità regio-nale di tali progetti che potranno inve-stire tutti o solo una parte dei partner, a seconda del loro grado di interesse e di coinvolgimento nello specifico settore di intervento. Questa sorta di “cooperazione a più velocità” nel Mediterraneo potrebbe consentire alle realtà italiane di porsi in prima fila nell’implementazione dei progetti con i paesi della sponda Sud. In ter-zo luogo, la decisa apertura, prevista nell’UpM, agli attori non statali, come le autorità locali, le imprese e le orga-nizzazioni non governative, costituisce un quadro istituzionale di estremo in-teresse per l’Italia, in cui la forte cre-scita della cooperazione decentrata ha già permesso ad enti, istituzioni, autorità locali e organizzazioni della società civile di assumere una for-te proiezione internazionale, spesso con il Mediterraneo come area di in-tervento privilegiata.

Per questi motivi, la Fondazione Mezzogiorno Europa, in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, ha condotto una ricerca, di recente pub-blicazione6, volta a valutare, oltre che gli scenari internazionali aperti dalla costituzione dell’Unione per il Medi-terraneo, le prospettive, le ricadute e i benefici che una piena realizzazione dell’ UpM potrà avere per il “sistema Italia” nel Mediterraneo.

Partendo dagli elementi costitutivi dell’UpM sopra descritti, la ricerca del-la Fondazione Mezzogiorno Europa ha cercato di fornire una mappatura delle principali iniziative in corso tra alcuni settori del mondo economico e pro-duttivo del nostro paese e i Paesi del Mediterraneo, delle possibilità di ulte-

6 M. Pizzigallo (a cura di), L’Italia e l’Unione per il Mediterraneo, Napoli, Fondazione Mezzo-giorno Europa, 2009.

riori sviluppi di interesse bilaterale e delle aspettative riposte nella nascente Unione per il Mediterraneo. Pur avendo un’impostazione di ampio respiro, l’in-dagine si è concentrata soprattutto su alcuni settori di rilevanza strategica: l’energia, con particolare riferimento alle fonti rinnovabili; l’agricoltura, so-prattutto per quel che riguarda le prati-che innovative e gli scambi commercia-li; le politiche di trasferimento tecnolo-gico, in modo particolare la produzione industriale ad elevato valore aggiunto; il rapporto credito-impresa; l’innovazio-ne tecnologica, di processo e di prodot-to; l’analisi dei criteri di managerialità; le politiche di cooperazione culturale multilaterale e bilaterale, soprattutto in riferimento agli scambi di docenti e studenti dei Paesi mediterranei.

L’indagine si è articolata attraver-so tre quesiti che sono stati sottoposti alle principali realtà italiane operan-ti nel bacino mediterraneo. La prima domanda ha riguardato i progetti o gli accordi bilaterali in corso con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo; la seconda ha inteso rilevare le prospet-tive e le aspettative future di progetti, accordi e trattative con questi Paesi; la terza ha indagato le attese e i van-taggi che l’ UpM potrebbe recare alle realtà interessate.

Per offrire una panoramica suffi-cientemente completa, pur senza al-cuna pretesa statistica, delle realtà italiane operanti nel Mediterraneo, è stato individuato come destinatario delle interviste un campione rappre-sentativo composto da enti, istituzio-ni ed imprese particolarmente attivi nell’area mediterranea, alcuni con un forte radicamento territoriale7, altri

7 Regione Campania, Università degli Studi di Palermo, Università degli Studi di Bari, Uni-versità degli Studi della Basilicata, Università della Calabria, Camera di Commercio di Potenza, Confindustria Brindisi, Confindu-

con una più accentuata proiezione in-ternazionale8.

L’insieme di questi enti ha permes-so di fornire un quadro sufficientemen-te preciso sia delle relazioni esistenti tra alcune realtà economiche e socia-li italiane e i paesi del Mediterraneo, sia del possibile impatto che l’ “Unione per il Mediterraneo” potrà avere su di

stria Calabria, Confindustria sicilia, Unione Industriali Napoli, Banca Monte dei Paschi di siena, SDI Group, Gruppo Editoria-le “Il Denaro”.

8 Ambasciata d’Italia in Marocco, Amba-sciata d’Italia in Tunisia, iCe – Tunisi, Isra-el-Italy Chamber of Commerce and Industry, Camera di Commercio Italiana in Egitto, Ca-mera di Commercio Italiana in Marocco, foR-MeZ – C.a.i.M.e.d, MEDREC, Osservatorio EuroMediterraneo e del Mar Nero.

esse. La raccolta di dati oggettivi, di pareri e punti di vista dei soggetti in-teressati, ha consentito di sviluppare un’ analisi ragionata dei fabbisogni e delle opportunità future che il che il sistema economico e produttivo ita-liano dovrà essere in grado di cogliere nei rapporti con la sponda meridionale del Mediterraneo. Per ovvie ragioni di opportunità ed affinità, lo studio si è focalizzato soprattutto su soggetti af-ferenti al contesto meridionale, senza però trascurare, visto il forte riscontro

Page 22: Numero 6/2009

22suscitato dall’ UpM a livello naziona-le, altre realtà territoriali direttamente interessate ad un rafforzamento della dimensione mediterranea dell’Unio-ne Europea.

L’elaborazione delle risposte for-nite dagli enti ha offerto molteplici spunti di riflessione per i tre elementi dell’indagine.

Per quanto riguarda i progetti e gli accordi in corso con i Paesi della Sponda sud, è da registrare un gran numero di iniziative poste in essere in tutti i settori di riferimento.

Una posizione privilegiata spetta all’ambito culturale, oggetto di con-crete forme di collaborazione, che prevedono, oltre allo stanziamento di borse di studio e alla realizzazione di corsi post – lauream congiunti, in-tense attività di scambio di docenti e di studenti, al fine di garantire un flusso continuo di conoscenze e di informazioni tra le due Sponde del Mediterraneo.

Altro ambito di grande interesse è il settore energetico, in particola-re quello delle energie rinnovabili, strettamente connesso con l’attua-lissimo tema della tutela ambien-tale e paesaggistica. Uno degli ele-menti di maggiore affinità tra i pa-esi Mediterranei è infatti la grande valenza del patrimonio naturale, una ricchezza da difendere e da mettere a frutto nella maniera meno invasiva possibile. Non è un caso, infatti, che la principale richiesta dei Paesi del Maghreb, nell’ambito dei futuri pro-getti targati UpM, riguardi il trasfe-rimento di tecnologia per la realizza-zione di impianti fotovoltaici, eolici e geotermici. La produzione di energia “pulita” libererebbe molti di questi Paesi da una stringente dipendenza energetica, tanto più se si conside-rano le caratteristiche fisiche e cli-matiche dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per le quali il sole

e il vento costituiscono una “materia prima” a basso costo e a massimo rendimento. Per tali motivi, dunque, proprio sul settore energetico vertono i progetti futuri di molti enti, e anche l’Italia guarda con favore allo sviluppo delle energie rinnovabili, cercando di trarre giovamento dalla condivisione di conoscenze ed esperienze con la sponda Sud.

Per quanto concerne le prospet-tive future di progetti e accordi, l’in-dagine ha segnalato grandi possibilità di incremento degli scambi commer-ciali con i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, soprattutto nell’ ot-tica della creazione della futura zona euro-mediterranea di libero scambio prevista dal Partenariato Euro-Me-diterraneo. Tali paesi, infatti, sono stati oggetto, negli ultimi anni, di un progressivo e sorprendente aumento dell’ interscambio con il nostro Pae-se, fino a raggiungere livelli altissimi come nel caso dell’ Egitto.

Un altro elemento da tenere in debita considerazione, inoltre, come segnalato dalle nostre Ambasciate e dalle Associazioni di industriali pre-senti sul territorio, è la grande spin-ta di rinnovamento che da qualche anno coinvolge Paesi come il Maroc-co e la Tunisia, i cui Governi hanno recentemente iniziato a promuovere e favorire un vasto piano di riforme in vari ambiti, in primo luogo quelli della semplificazione amministrativa e dell’ottimizzazione dei sistemi di produzione. In quest’ultimo campo, soprattutto, le conoscenze scientifi-che e tecnologiche dei paesi europei si rivelerebbero preziose, soprattutto se accompagnate da programmi di re-sponsabilizzazione civile e sociale.

In tema di sviluppo, l’attività di cooperazione rivolta a contesti pro-blematici come quelli che ancora permangono in molte zone del Nord Africa e del Medio Oriente potrà ave-

re benefici effetti anche a livello poli-tico- diplomatico. Da sempre infatti il nostro Paese si è distinto per il signi-ficativo contributo offerto nelle aree di crisi del Mediterraneo, e l’attività dei nostri connazionali è sempre sta-ta accolta con grande favore in tutti i Paesi della Sponda Sud.

Per quanto riguarda, infine, le at-tese verso l’Unione per il Mediterra-neo, la nuova “creatura” euro-medi-terranea ha incontrato grande favore presso tutti i soggetti interpellati. In generale, è emersa con evidenza la convinzione della notevole opportuni-tà che essa può rappresentare per gli interessi economici e sociali italiani. In particolare, l’indagine ha segnalato un consenso pressoché unanime nei confronti dell’ UpM, le cui ricadute positive potranno ir-radiarsi a vari livelli: dal pia-no economico per gli enti e i gruppi imprenditoriali coin-volti, a quello socio-culturale per la società civile, a quello politico con il ricollocamen-to del Mediterraneo al centro di un più ampio sistema di rela-zioni. Particolarmente apprezzata è risul-tata la dimensione tecnica e proget-tuale dell’UpM, così come la sua for te proiezione al coinvolgimento della società civile nelle sue molteplici articolazioni.

La ricerca, quin-di, ha evidenziato con chiarezza un alto livel-lo di attese dei settori italiani maggiormen-te dinamici nell’area mediterranea nei con-fronti dell’ UpM, le cui iniziative non do-

vranno porsi in concorrenza con quel-le comunitarie, ma in supporto ad esse, per promuovere una più appro-fondita rete di relazioni tra i paesi del-le due sponde del Mediterraneo.

Per tali motivi, è lecito formulare l’auspicio di un forte impegno italia-no, nell’ambito dell’Unione Europea, nel delicato e complesso passaggio dalla fase delle dichiarazioni a quella operativa dell’UpM, al fine di contri-buire a creare quel quadro rinnovato delle relazioni euro-mediterranee che potrà consentire al “sistema Italia” di dispiegare tutte le sue potenzialità nel Mediterraneo.

Responsabile Ufficio Progetti, Studi e Ri-

cerche della Fon-dazione Mezzo-giorno Europa.

Ha curato e coordinato varie pub-blicazioni in

tema di ener-gia, microcre-

dito, Europa e lavoro.

EUROPA

Page 23: Numero 6/2009

Lavoriamo per ampliare i tuoi orizzonti.Camere di commercio d’Italia per l’internazionalizzazione delle imprese.Aiutare le imprese italiane a portare i loro prodotti sui mercati mondiali, questo è l’impegno delle Cameredi commercio. Uno sforzo sostenuto da molteplici iniziative: dall’organizzazione di missioni commercialiall’accesso a iniziative e programmi comunitari, dalla realizzazione di accordi internazionali all’assistenzaper l’attrazione di investimenti, fino al portale www.globus.camcom.it. Azioni realizzate anche grazie alSistema camerale italiano all’estero. Tante opportunità per un Made in Italy senza confini.

www.unioncamere.itwww.cameradicommercio.it

exe UC 205x250-mezzogiorno europa-internaz 3-06-2009 11:39 Pagina 1

Page 24: Numero 6/2009
Page 25: Numero 6/2009

25

quando si discute di povertà sembra che il primo meccanismo che si inneschi nelle nostre te-ste, nel nostro sub-cosciente, sia quello di ricercarla altrove, lontana da noi, distante nello spazio e nel tempo, come una paura ancestrale che non riconosciamo, un senso di colpa mal celato verso un fenomeno doloroso ed inac-cettabile o, peggio ancora, come una realtà che rite-niamo non appartenerci, quasi inesistente. Allo-ra, auto-assolvendoci, nel-la rassicurante convinzione di aver scampato il pericolo, cerchiamo e collochiamo la povertà unicamente in epo-che passate, in società diver-se, rispetto alla moderna, di-namica e tecnologica società del benessere.

La stessa “fame” in Africa sembra quasi “irreale” perché non ci appartiene, non è tan-gibile nella nostra quotidiani-tà, (eccezione fatta per chi ogni giorno lotta e dedi-ca la sua vita o parte di essa alla causa in Afri-ca, nelle regioni asiati-che o sui nostri stessi territori) e le immagini, provenienti dalla “ter-ra madre”, se pur dure, atroci, strazianti, si me-scolano velocemente ad altre nuove immagini, in-calzanti, violente ed altret-tanto strazianti, provenienti

dalle diverse parti del mondo e dalla stessa società del be-nessere. Di fronte a questa re-pentina serie di informazioni, di emozioni e di sentimenti troppo fugaci per mettere radici, sembra non restarci altro che la placida rasse-gnazione.

In verità, il fenomeno povertà è molto più vicino a noi di quanto vogliamo

convincerci: non parlo solo di quella povertà, palesemente eviden-

te, alla quale ahi noi! siamo quasi tristemente abituati, che prende le facce ed i corpi infreddo-liti dei mendicanti di stra-da, dei senza tetto raggo-mitolati sotto le stazioni o dei chiassosi nomadi rom, di cui pullulano gli angoli dimenticati delle nostre periferie, ma parlo della povertà entrata nelle case di famiglie “insospettabi-li”. La povertà, infatti, è

divenuto il problema prin-cipale di tutto il mondo e si è

diffusa anche ai cosiddetti pa-esi industrializzati e non più nel-

le vecchie forme. La crisi globale prima finanziaria e poi economica e sociale, scoppiata sul finire del 2008, ha fatto il resto, aggravando e peg-giorando le condizioni di vita di milio-ni di persone, persino di coloro che fino a poco tempo prima pensavano di appartenere al cosiddetto ceto medio. E se si è nei fatti cancella-

ta questa categoria economica e di status, possiamo immaginare cosa è avvenuto per tutti gli altri cittadini e per i tantissimi immigrati. In tale di-rezione, l’Unione Europea non poteva scegliere anno migliore (2010) da de-dicare alla lotta alla povertà.

Se si analizzano le ultime sta-tistiche, (dati ISTAT 2008), infatti, vediamo che in italia vivono più di otto milioni di poveri (il 13,6%) e quasi tre milioni di essi sono in condizione di assoluta povertà, (4,9%) ciò vuol dire che non pos-sono conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Nel-la pratica questo significa che ci sono donne, uomini e bambini che non riescono ad avere un’alimenta-zione regolare e corretta; che non hanno a disposizione un ambiente sano nel quale vivere; non possono permettersi cure adeguate, cambio di vestiti ecc.

E se è vero, che gli ultimi dati ci annunciano che non ci sono stati au-menti rilevanti e che il tasso di po-vertà è stabile, ciò non riguarda le regioni del Meridione, in cui già si registravano percentuali alte di po-vertà assoluta rispetto alla media nazionale e che, nel 2008, sono au-mentate significativamente passan-do dal 5,8 al 7,9%.

in Campania, poi, i dati sono davvero drammatici e registrano un aumento della povertà relati-va di 5 volte maggiore rispetto al resto del Paese, con delle per-centuali che passano dal 21, 3 al 25,3%. Per intenderci 1 campano su 4 è indigente. Solo la Sicilia e la

Basilicata registrano dati peggiori.Dai dati si rileva che la pover-

tà al Sud è fortemente associata ai bassi livelli di istruzione, ai bassi profili professionali e all’esclusione dal mercato del lavoro. L’incidenza di povertà tra le famiglie con due o più componenti in cerca di occupazione (35,8%) è di quasi quattro volte su-periore a quella delle famiglie dove nessun componente è alla ricerca di lavoro (9,9%).

Anche per i giovani la situazione è più grave nelle nostre regioni dove sono concentrati il 69,3% per un to-tale di 1 milione 146 mila giovani ; così come per gli anziani: nel Sud è povero il 27,7% degli anziani di cui il 57,8% sono donne.

Da queste statistiche si con-fermano due fatti a noi noti: il mai decollato sviluppo economico delle regioni meridionali e la nostra ende-mica mancanza di occupazione. L’as-senza di lavoro, infatti, è una delle cause principali della povertà, oltre al reddito nullo o all’indebitamento, chi non lavora non ha risorse e stru-menti necessari né per vivere, né per accrescersi.

Il lavoro, e quando si dice lavo-ro s’intende un lavoro di qualità, con orari e stipendi regolari, nel pieno rispetto della dignità dell’uomo, è il perno principale su cui si radica la crescita economica, culturale e civi-le di una popolazione.

Nelle regioni del Mezzogiorno, a partire dalla Campania, non ave-re un lavoro può significare vita di stenti e povertà, soprattutto se poi si ha da mantenere più di un figlio,

2010L’Unione Europea non poteva

scegliere anno migliore da dedicare alla lotta alla povertà

Anna Rea

NUOVE POVERTÀ

Page 26: Numero 6/2009

26NUOVE POVERTÀ

ma molto spesso significa anche allargare l’esercito della malavita, che cerca manovalanza proprio tra i disoccupati, i giovani in difficoltà e molto spesso con una preparazio-ne scolastica bassa. Impreparazione dovuta sopratutto alla dispersione nella scuola primaria e all’abbando-no scolastico che, nella solo provin-cia partenopea, registra percentuali tra le più alte d’Italia, con 1 ragazzo su 5 che decide di lasciare gli studi obbligatori.

In queste condizioni, quindi, l’ascesa nella malavita è facile nel Mezzogiorno, facili ed esosi sono i guadagni e facile è ritrovarsi morto ammazzato in una pozza di sangue a soli 30 anni.

Se si estremizza il senso della parola povertà, anche scegliere la malavita significa essere “pove-ri”: poveri di conoscenza, di au-tostima, di alternative, di modelli positivi da seguire, poveri nel ri-spetto della sacralità della vita, poveri perché privi di valori, di senso civico, di sentimenti per se stessi, per la propria famiglia e per la propria città.

Il Mezzogiorno, in effetti, vi-sto da questa angolatura sem-bra “divorare” i propri figli, e se non lo fa, li scaccia, li costrin-ge ad allontanarsi per una vita più dignitosa e che più si avvicini possibilmente alle loro aspirazioni. Non è un caso che ogni anno, solo in Campania, emigrano 20 mila giovani laureati e non, alla ricerca di lavoro.

Coloro che restano, (se non decidono di di-ventare invisibili, rinun-ciando definitivamente a cercare lavoro) ed un la-voro ce l’hanno: resisto-no, si fanno largo come possono in una realtà economica, culturale, piena di chiaroscuri ed

in cui le insidie sono davve-ro tante.

Una delle insidie più deleterie per la crescita sia professionale che economica dei nostri giovani è il lavoro nero: sono 329 mila i lavora-tori in nero, un altro primato tutto “made in Campania”.

E se per i giova-ni “di queste parti” il futuro non è mai sta-ta cosa facile, ades-so anche gli over cin-quanta, gli occupati un tempo “sicuri”, con la scudisciata d’oltreoce-ano della crisi econo-mico- finanziaria sono in bilico e rischiano di restare senza lavoro e senza nuove opportu-nità perché fuori dal mercato. In Campa-nia, dove il tasso della disoccupazio-ne è quasi il doppio rispetto a quello nazionale (13,4 % contro una me-dia nazionale del 7,9 %) , gli effetti della crisi si contano attraverso la perdita di migliaia di posti di lavoro, solo nel pri-mo trimestre 2009 si sono registrati 33 mila posti di lavoro in meno e dai dati in nostro possesso si-curamente l’anno si chiude con il dop-pio dei posti di la-voro persi; mentre i cassa integrati, a partire dai lavoratori della Fiat fino ad ab-bracciare tutte le realtà produttive da Napoli a Caser-

ta, da Salerno a Benevento fino ad Avellino, sono più di 21 mila.

Cassa integrati che vanno a som-marsi ad altrettanti, se non addirittu-ra in un numero maggiore, lavoratori difficili da “statisticare”, i quali non godono di cassa integrazione e di nessuna altra forma di ammortizzato-ri: i lavoratori del commercio, dei ser-vizi e delle tantissime piccole aziende con i contratti atipici, (solo questi ultimi orami raggiungono gli oltre 9 milioni di persone sul territorio nazionale).

E se da un lato ci sono i cassa integrati e i disoccupati protagonisti di un sempre più profondo disagio e malessere sociale, l’altra faccia della medaglia della crisi è quella di un’impresa affranta. Basti pensare che quest’anno ci lascerà con quasi 2000 aziende chiuse sul territorio regionale e quelle imprese, medie e piccole, che continuano a restare in piedi sono davvero in serie difficol-tà, con le banche che tentennano a dare risorse e con i pochi incentivi e i pochi strumenti messi a disposizione dal Governo nazionale.

Altro dato negativo per l’intero Paese, rispetto all’Europa ad esem-pio, sono i redditi bassi. l’incidenza della popolazione a basso reddi-to è del 20% : 4 punti percentuali in più rispetto ai 15 principali Paesi europei (16%).

La situazione più critica è quella dei minori: nel nostro Paese l’in-cidenza dei minori nelle famiglie a basso reddito è del 25% questo valore, rispetto a quello della Roma-nia, è il più alto d’Europa, seguono la Polonia e la Spagna (24%).

Per quanto riguarda, infine, gli anziani: l’incidenza degli anziani a basso reddito è pari al 22%, un valore di poco inferiore a quello del-la Grecia.

Tutti questi dati sono importanti perché mettono a nudo una realtà, quella italiana, per niente rosea e che rimandano alla povertà, non affatto lontana come “volevamo credere”.

I redditi bassi, la disoccupazio-ne, il lavoro nero, la chiusura delle imprese, il blocco della produttività e quindi delle ricchezze, sono tutti sintomi che preavvisano una condi-zione di disagio, di malessere diffu-so, di disuguaglianze economiche e di esclusione sociale estesosi anche in quegli strati della società prima indiscussi.

Oggi ci si ritrova nel bel mezzo di un mercato del lavoro stravolto: con i cinquantenni disoccupati e difficilmente riassorbibili e i giova-ni con pochi soldi e senza certezze per il futuro.

La globalizzazione, infatti, ha creato nuove forme se vogliamo di “povertà provvisoria” che sono strutturate nelle nuove figure con-trattuali e lavorative dei cosiddetti flessibili, precari, lavoratori a tempo determinato.

Il mio non è un giudizio comple-tamente negativo sulla flessibilità, quanto piuttosto sull’utilizzo sbaglia-to ed irresponsabile che di essa si fa oggi, a partire proprio dall’ Italia.

I nostri giovani si ritrovano a più di trent’anni con tante cognizioni nel-la testa, ma con poche risorse, senza uno stipendio decente, senza un lavo-ro decente e col morale nei calzini!

Immaginiamo un giovane lavora-tore flessibile che guadagna (se è for-tunato) circa 800 euro al mese e che decide di andare via di casa perché è stanco di sentirsi un “bamboccio-ne”: tra fitto, tasse da pagare, spese da affrontare, di sicuro non arriva a fine mese e di sicuro non ha nessu-na intenzione di metter su famiglia. Questo giovane, esempio di lavora-tore flessibile, vive in uno stato di semi-povertà rispetto ad una socie-tà, come la nostra, esigente, veloce e competitiva.

E se l’Italia è una cenerentola per tasso di povertà e disagio socia-le rispetto al panorama europeo, le regioni del Mezzogiorno lo sono ri-spetto all’Italia.

In Campania, infatti, possia-

Page 27: Numero 6/2009

27mo affermare che la crisi ha ucciso “un uomo morto”o comunque seria-mente cagionevole: le conseguenze sono state doppiamente sentite in una regione con ferite già aperte e che vede, oltre alle percentuali in negativo di cui parlavo prima, seri problemi anche in quei comparti del pubblico e del sociale in cui non do-vrebbero venir meno, strutture, stru-menti e risorse.

Faccio riferimento, in primis, al sacrosanto diritto alla salute, messo a repentaglio da un deficit esoso nella nostra sanità e alla mancanza di quei servizi essenziali nel settore, che co-stringe, nei casi più estremi, a quel fenomeno di “emigrazione sanitaria” per il quale i cittadini campani sono costretti a rivolgersi ad altre struttu-re ospedaliere nazionali.

E se la sanità è un settore con preoccupanti e seri disservizi a disca-pito della salute pubblica, nemmeno gli altri settori del sociale, come as-sistenza agli anziani, alle fasce più deboli, fino agli asili nido per i nostri bambini, risplendono per efficienza.

Non è di certo un bel quadro quello che ritrae la Campania stanca, sporca ed impoverita, e se le istitu-zioni locali hanno in parte le loro re-sponsabilità, l’attuale Governo non sembra abbia dato il via ad un piano consistente di check-out dalla crisi del Mezzogiorno e dell’Italia. Se pen-so alla social card dell’anno scorso, per esempio, e la metto a confronto con le reali problematiche dei lavo-ratori e dei cittadini, mi rendo conto che si è trattato davvero di una so-luzione irrisoria e farsesca!

Ma social card a parte, con la nuova finanziaria per il 2010 si è cercato di dar vita ad un “pacchetto welfare” semplicemente per medica-re le ferite della crisi, per lenire il do-lore e non per “guarire” il Paese dalla malattia. E poi, non dimentichiamoci che proprio nel settore dedicato pret-tamente alle politiche sociali (quindi famiglia, anziani, bambini e strati so-ciali a disagio) nel 2009 si sono qua-

si dimezzate le risorse. Ecco, queste sono le luci e le ombre di un Governo che predica bene e razzola male!

Le Organizzazioni Sindacali di CGIL CISL e UIL Nazionali per fron-teggiare le problematiche legate alla povertà, alle disuguaglianze e all’esclusione sociale hanno costi-tuito un Osservatorio per l’attua-zione della legge 328/2000 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Analizzando la crisi ed i suoi effetti sulla popolazione dei lavora-tori e dei cittadini italiani, a partire dall’occupazione e dall’accresciuto impoverimento delle famiglie, e non potendo ipotizzare la durata e le ul-teriori conseguenze della crisi, CGIL, CISL e UIL hanno tracciato le linee per un piano, che al di là degli ammor-tizzatori sociali, affronti in maniera strutturale il problema Povertà.

Il Piano, proposto alle Regioni e al Governo, è articolato in più punti e parte da:

a) dall’investimento di nuove ri-sorse per il sostegno al reddito e il potenziamento dei servizi pubblici; b) definizione dei mezzi per una politica di responsabilizzazione e di inclusione sociale e lavorativa dei beneficiari; c) estendere in una successiva fase la consistenza delle prestazioni e l’au-mento delle risorse a tutta la platea delle persone; d) riordino e coordina-mento della molteplicità degli istituti già esistenti di contrasto alla povertà per renderli più efficaci ed efficienti; e) attivazione di un sistema di moni-toraggio di controllo e verifica nazio-nale e regionale.

Certo, le OO.SS. da sole non pos-sono nulla contro un fenomeno come la povertà che davvero attraversa tutto il globo, i diversi strati sociali, le diverse età e che assume aspetti e caratteristiche sempre diverse di luogo in luogo. Proprio per queste ragioni le risposte che merita questo fenomeno non possono essere solo quelle egregie che esprimono solida-rietà, ma devono strutturarsi in azioni

concrete di politiche attive di welfare e

soprattutto di svi-luppo economico

a carattere glo-bale, europeo e allo stesso tempo diffuse sui singoli ter-ritori. Nel ter-

ritorio, infatti, si può meglio monitorare il fenomeno, di-verso di realtà in realtà ed è nel territorio che si devono sviluppare le azioni da co-ordinare a li-vello nazionale ed europeo, per meglio costruire politiche sociali e di sviluppo.

Fondamen-tale è il buon uso delle risor-se pubbliche dei Fondi Strutturali 2007/2013, gli u l t imi per la Campania, ver-so pochi ma mi-rat i proget t i ; l’impiego della spesa pubblica ordinaria deve essere orien-tato verso for-me non di pura assistenza, ma per progetti at-tivi di welfare; così come il r i lancio del -le azioni di im-presa deve es-sere finalizzato alla loro respon-sabilità sociale. Altra azione da

non trascurare è quella riguardante una sana politica contrattuale tra le parti, non solo a livello nazionale, ma anche a livello territoriale (come previsto nell’ultimo accordo gennaio 2009) per aumentare la produttività aziendale e del territorio.

Sono queste a mio avviso le ri-sposte, sia pure non esaustive, ma di sicuro tra le più adeguate per inver-tire la rotta.

Alla vigilia del 2010, proclamato anno per la lotta contro la povertà deve esserci inevitabilmente l’ausi-lio, il sostegno dei diversi soggetti in campo: non è retorica affermare in questo caso l’unione fa la forza!

L’unione degli intenti e la forza dei soggetti per affrontare un pro-blema di non facile soluzione, soprat-tutto quando la platea dei “poveri” si allarga e include nuove figure di disa-giati giovani e vecchi.

L’anno nuovo ha di sicuro una bel-la ed ardua battaglia da combattere e l’Europa si è posta degli obiettivi validi ed ambiziosi, come quello di promuovere una società che favori-sca una buona qualità della vita, il be-nessere sociale e le pari opportunità, il ché vuol dire occupazione di quali-tà; servizi sociali e sanitari efficienti; strumenti efficaci contro le disugua-glianze e le discriminazioni; tutela e difesa dei diritti per tutte le fasce più deboli, dall’infanzia, alle donne, alla protezione degli anziani.

Ognuno deve fare la sua parte: soggetti politici, imprenditoriali, as-sociazione non governative, organiz-zazioni sindacali e società civile.

La povertà riguarda tutti noi: non è lontana; non appartiene all’altro; ma riguarda l’uomo, i suoi diritti, la sua dignità.

La lotta contro la povertà signifi-ca lotta per lo sviluppo e la crescita sana delle popolazioni senza distin-zione di razza, di sesso, di religione, di cultura e di nazionalità.

Segretario generale della UIL di Napoli e Campania.

NUOVE POVERTÀ

Page 28: Numero 6/2009

28

Fallimento storico, delusione, punto morto – sono solo alcune delle definizioni adoperate recentemente dalla stampa italiana e internazionale per descrivere l’esito del vertice Onu sul clima tenutosi a Copenaghen lo scorso dicembre. Eppure, nonostan-te dal punto di vista degli accordi non siano emersi nè date nè termi-ni vincolanti per incentivare i Paesi coinvolti a ridurre concretamente le emissioni nocive, il vertice è stato considerato da più parti una tappa

intermedia fondamentale, che per-metterà di puntare per l’anno pros-simo a risultati decisivi; mentre dal punto di vista geopolitico c’è già chi ha visto nelle modalità in cui si sono svolti gli incontri tra i diversi leader il segno inequivocabile di una svolta negli equilibri mondiali.

Pochi giorni prima che l’incontro avesse luogo, scriveva su Science Sir David King, direttore della Scuola di Impresa e Ambiente dell’Universi-tà di Oxford nonchè ex consulente

scientifico di Blair e Brown: “Il peg-giore risultato possibile a Copena-ghen sarebbe un protocollo debole che non risolve niente. Il migliore ri-sultato possibile sarebbe un accordo per ritardare il protocollo finale per un altro anno. Entro la data in cui i partecipanti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si incontreranno in Messico nel dicembre 2010, potremmo esse-re finalmente nella posizione di isti-tuire un protocollo che abbia il pote-

re di risolvere la peggiore crisi che gli umani abbiano dovuto affrontare collettivamente”1.

1 ‘The Climate in Copehagen’, Science 4 dicembre 2009: ”The worst possible outcome at Copenhagen would be a weak protocol that solves nothing. The best outcome would be an agreement to delay the final protocol for an-other year. By the time the parties to the UN’s Framework Convention on Climate Change meet in Mexico in December 2010, we could finally be in a position to set up a protocol with the power

Copenaghen La questione climatica

diventa geopolitica globaleAnna Maria Valentino

AMBIENTE

Page 29: Numero 6/2009

29Allo stesso modo anche il conte-

stato Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, alla fine del vertice, ha esortato tutti i paesi a sottoscri-vere formalmente l’Accordo emerso a Copenaghen per “cominciare a la-vorare nella direzione di un trattato legalmente vincolante nel 2010”2, guardando al prossimo meeting pre-visto per il dicembre di quest’anno a Mexico City. Anche se invece, stan-do a quanto presentato nella sedu-ta finale del vertice, la data per la prima valutazione e messa a punto dell’accordo in termini più vincolan-ti potrebbe essere invece il 2015, un anno dopo lo svolgimento del quinto Intergovernmental Panel on Clima-te Change (IPCC) – il quarto si era tenuto nel 2007 – e proprio le sue conclusioni allarmanti avevano dato l’impulso all’incontro di Copenaghen3. Non che non siano evidenti le de-bolezze dell’Accordo raggiunto così a fatica e attraverso modalità non largamente condivise: “È facile sen-tirsi delusi dall’accordo promosso da Obama alla Convenzione quadro del-le Nazioni Unite sui cambiamenti cli-matici a Copenaghen”, ammette un editoriale su Nature il 24 dicembre4. Il documento che ne è risultato infatti non solo non costituisce un trattato, ma non è neanche chiaro se possa essere definito un accordo globale: promosso da una manciata di nazio-ni – Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Sud Africa – è stato presentato come un fatto compiuto davanti al resto dei 193 paesi presenti, pochi dei quali erano stati consultati.

Molti ambientalisti e un numero

to solve the worst crisis that humans have ever faced collectively”.

2 United Nation Climate Change Confe-rence Copenhagen – Cop15 – sito web ufficia-le: http://en.cop15.dk/news/view+news? newsid=3086

3 ‘After Copenhagen’, Nature 24 Decem-ber 2009

4 Ibidem

consistente di paesi in via di sviluppo hanno criticato aspramente anche il contenuto dell’Accordo, sottoline-ando il fatto che, anche se venisse applicato in pieno, non basterebbe a limitare l’aumento del riscaldamento globale entro i 2 °C nell’arco del se-colo, obiettivo minimo del summit. Secondo una previsione realizzata dal consorzio statunitense Climate Interactive anzi, se l’impegno dei go-verni nei prossimi rimanesse quello dichiarato a Copenaghen, si rischie-rebbe un aumento della temperatura di 3.9 °C entro il 2100.

Ad essere particolarmente scon-tenti sono soprattutto i paesi in via di sviluppo, che dopo la presentazione dell’Accordo chiuso dagli Stati Uniti e dalle potenze emergenti hanno dato battaglia tutta la notte – in partico-lare Sudan, Venezuela, Nicaragua, Cuba, Bolivia, Costarica, Tuvalu. Lu-mumba Stanislaus Di-Aping, porta-voce del Sudan e rappresentante del G77, il gruppo dei paesi in via di svi-luppo, ha denunciato l’accordo da cui deriverà una “devastazione dell’Afri-ca e delle piccole isole”5; il G77 spin-geva invece per una soglia massima condivisa di aumento della tempera-tura di 1.5°C.

Oltre al limite dell’aumento della temperatura fissato a 2°C, l’unico al-tro punto fissato dall’Accordo com’è noto è la promessa di una somma di circa 30 bilioni di dollari nel corso dei prossimi tre anni e di 100 bilioni an-nuali entro il 2020 che si dovranno riversare dai paesi ricchi ai paesi in via di sviluppo per aiutarli ad investire in progetti ecosostenibili. Non è ben chiaro però da chi e come verranno elargiti questi fondi, che per quanto abbondanti secondo alcuni scienziati sarebbero comunque insufficienti.

Nonostante tutto questo però, come sostiene ancora Nature in un editoriale che commenta a caldo l’esi-

5 John M. Broder, “Many Goals Remain Unmet in 5 Nations’ Climate Deal” The New York Times 19 dicembre 2009

to del vertice, bisogna riconoscere che “per la prima volta nella storia tutti i paesi maggiormente responsa-bili delle emissioni di gas nocivi hanno sottoscritto un accordo di cooperazio-ne per affrontare la più grande sfida dei nostri tempi. Nonostante tutti i suoi difetti, l’accordo è un importan-te passo avanti”6, firmato anche e soprattutto dalle grandi potenze che non avevano sottoscritto Kyoto, sep-pure senza quei vincoli decisivi (che però, come ha osservato cinicamente il Presidende Obama, non sono serviti a molto7). Tanto più che a Kyoto c’era solo il 30% del pianeta, a Copena-ghen siamo arrivati all’85%.

“Non è quello che speravamo, ma è un inizio”, ha detto a Copenaghen Mohamed Nasheed, Presidente delle Maldive, stato membro dell’Allean-za dei piccoli stati insulari che come il G77 aveva spinto per una soglia massima di 1.5° in più entro il 2100. “Spero che tutte le nazioni sostenga-no l’accordo e non facciano collassare queste negoziazioni”8.

“La cosa più importante in questo momento è continuare a muoversi”, ha aggiunto sempre in quella sede John Holdren, consigliere scientifico di Obama, “Non stiamo a discutere per i prossimi cinque anni su qual’è l’obiettivo ideale. Cominciamo ad andare nella giusta direzione”9. Una

6 Cit. Nature 24 December 2009:”Nonethe-less, for the first time, all of the world’s largest greenhouse-gas emitters have signed up to a framework for cooperation on the biggest chal-lenge of our time. For all of its shortcomings, the accord is an important step forwards”.

7 Mario Platero, “E Obama ha rilanciato sul nuovo modello G-2”, Il Sole 24Ore 20 di-cembre 2009

8 Jeff Tollefson, “World looks ahead post-Copenhagen”, Nature 22 dicembre 2009: “This is not what we have been seeking, but it is a beginning. I beg all nations to please back this document and do not let these talks collapse”.

9 “The most important thing to get done at this moment is to get moving. Let’s not argue for the next five years what the perfect goal is. Let’s get going in the right direction”.

dichiarazione forse discutibile ma che si può comprendere meglio se si pensa alle regole di funzio-namento degli organismi delle Nazioni Unite, tramite i quali può essere estremamente comples-so raggiungere un accordo che soddisfi gli interessi di 193 pae-si diversi.

Se è vero quindi che per ora tutto è lasciato alla buona volontà delle singole nazioni, o quasi, l’Eu-ropa seppure sia stata tagliata fuori dai giochi di Copenaghen di-mostra già in questi giorni di non voler perdere tempo. È dei primi giorni di gennaio infatti la notizia di una nuova rete di energia rin-novabile che unirà diversi paesi del Nord Europa per assicurare un approvigionamento continuo a prescindere dalla disponibilità momentanea delle diverse fonti. Seimila chilometri di cavi in gran par-te sottomarini collegheranno infatti in un’ unica rete le pale eoliche di Gran Bretagna e Danimarca, la centrale a maree della Francia, l’energia idroe-lettrica della Svezia e i pannelli sola-ri tedeschi10. Nello stesso tempo in area mediterranea è in preparazione il progetto “Desertec”: un mosaico di nuove centrali per la concentra-zione dell’energia solare posizionate in diverse aree desertiche del Nord Africa e del Medio Oriente, dal Ma-rocco alla Giordania, che sempre tra-mite cavi sottomarini promettono di fornire entro il 2020, almeno il 15% della richiesta di energia elettrica in Europa, fornendo un quantitativo no-tevole di energia all’Europa, oltre a redistribuirne una parte nei ‘luoghi di produzione’11 (le percentuali non sono del tutto chiare). A finanziare questo progetto del Sud però è ancora una volta la Germania, sia come Stato

10 Elena Dusi, “Ecco l’ Europa unita dell’ eco-energia”, La Repubblica 6 gennaio 2010

11 ht tp ://www.deser tecitaly.alter vi-sta.org/

AMBIENTE

Page 30: Numero 6/2009

30che attraverso grandi compa-gnie private – la Siemens, la Deutsche Bank, Mu-nich Re assicurazio-ni, le compagnie elettriche E.On e Rwa – spinge per rendere con-creto l’ obiettivo di Copenaghen: coprire entro il 2020 il 20% del fabbisogno energe-tico in fonti rinnova-bili. L’Italia sta parte-cipando per ora alla fase ideativa e progettuale di Desertec attraverso la colla-borazione del Centro Aerospa-ziale Tedesco (Dlr) con il Club di Roma, ma diversi tra ecologisti e scienziati preferirebbero una maggiore diffusione di piccoli impianti domestici a questo pro-getto faraonico che prevede un investimento di 400.000 miliardi di euro in dieci anni12.

Quali che saranno gli impegni e le iniziative dei singoli paesi, di sicuro però l’effetto del vertice di Copenaghen non si farà sentire sulle sole questioni climatiche. In gioco nell’incontro internazionale c’erano anche ruoli e rapporti di forza sullo scenario della gover-nance globale13. “A Copenaghen Obama ha ingoiato qualche rospo, ma ha fatto avanzare in territorio nuovo il suo modello di leadership a due con la Cina”, sottolinea Ma-rio Platero su Il Sole 24Ore. “E ha aggiunto Brasile, India e persino il Sud Africa”. Diventano quindi at-

12 Come argomentato ad esempio sul sito http://www.libreidee.org/2009/09/desertec-dal-sahara-lenergia-solare-per-leuropa/, che ipotizza anche possibili problemi di gestione e interazione con i governi dei paesi ospitanti le centrali.

13 Mario Platero, ”E Obama ha rilancia-to sul nuovo modello G-2”, Il Sole 24Ore 20 dicembre 2009

to-ri sem-pre più im-portanti i cosiddet-t i p a e -s i BR IC – Brasi-le, Rus-sia, India e Cina – c o m e sono sta-te defini-te qualche anno fa le principali eco-nomie emergen-ti; con la differen-za che alla Russia sembra essersi sostituito il più giovane e dinamico Sud Afri-ca, mentre la Cina ha assunto una leadership quasi incontrastata14.

Quando esponenti del governo ci-nese hanno dichiarato a Copenaghen di voler adottare misure condivise (al-meno tra i membri del Piano d’azione

14 Come argomentato ad esempio in John C. Hulsman, “L’Occidente è finito perchè l’Ameri-ca vuole allearsi con la Cina”, I Quaderni speciali di Limes, supplemento al n. 4/2009

d i B a l i ,

t r a i qu a -li troviamo Messico e Corea del Sud ) per monitora-re la ridu-zione delle emissione inquinanti, un grande passo avan-

ti si è fatto nella direzione

di un accordo globale. In Cina

si è andato affinan-do in tempi recenti un

sistema interno di misura-zione delle principali attività che ri-guardano il settore energetico / am-bientale, migliorando gli standard di affidabilità delle rilevazioni statisti-che, allargando il principio di respon-sabilità ai soggetti sociali e normando le politiche sul clima. La Cina sta ac-quistando un viatico formidabile per attrarre un mercato di interesse ge-ostrategico sia sul piano delle tecno-logie verdi, valutabile secondo le sti-me della China Greentech Initiative in centinaia di miliardi di dollari l’anno,

sia sul piano della leadership a due con gli USA.

Un effetto geopoli-tico la crisi economica

l’ha avuto: ha accor-ciato le distanze tra Stati Uniti e Cina, entrambi decisi a consolidare una tregua su un mo-dello di comple-mentarietà, laddo-

ve l’Europa rischia di essere relegata

ai margini, anche per il peso pressoché nul-

lo in qualità di fornitore di risparmio globale (Harold

James, The creation and destruc-tion of value, Harvard University Press). Quando Hu Jintao abbandonò lo scorso luglio 2009 il G8 dell’Aquila, a proposito di accordo sul clima la de-legazione cinese si fece portavoce dei paesi emergenti con un’autorevolez-za per niente diminuita dall’assenza forzata del leader, anzi fece allegare agli atti l’invito a ripensare un “siste-ma monetario internazionale plurale” progressivamente sganciato dal dol-laro ancora dominante nelle Banche centrali e nelle transazioni economi-che internazionali. E l’Europa? La sua sembra essere una preoccupazione ancora molto relativa, l’avvento di una nuova era giocata su un tavolo a due non ha prodotto un copyright del suo modello di “economia sociale di mercato”, mentre l’Italia è fuori pista e non mostra segni di ripensamento. In tempi di crisi economica anche la scelta di rifinanziare il Fondo Moneta-rio Internazionale ha visto in arretra-mento politico la rappresentanza eu-ropea e in forte ascesa Cina e Brasile. E l’Italia latita nel garantire un budget adeguato dentro il FMI candidandosi a un ruolo ininfluente, forse per bat-tere altre strade fuori dall’Europa e dagli accordi di Copenaghen?

Docente di “Storia contemporanea” e di “Econo-mia dell’ambiente”presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.

AMBIENTE

Page 31: Numero 6/2009
Page 32: Numero 6/2009
Page 33: Numero 6/2009

33

1. PremessaIl 30 giugno 2009, il BundesVer-

fassungsGericht (BVG), chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costi-tuzionale della legge di autorizzazio-ne alla ratifica del Trattato di Lisbo-na con la Legge fondamentale tede-sca (LF), ha emesso una sentenza1 che è stata sottoposta ad una certa “inflazione da commento”, dettata fondamentalmente da due ragioni. La prima è che la pronuncia si è innesta-ta in una congiuntura abbastanza de-licata per il processo di integrazione europea. Essa, infatti, ha preceduto di pochi mesi il secondo referendum irlandese (svoltosi il 2 ottobre 2009), il cui esito sappiamo esser stato mol-to atteso non solo perché l’Irlanda aveva in prima battuta bocciato per via referendaria il Trattato, ma per-ché altri Stati, tra cui la Polonia e la Repubblica ceca, avevano vincolato la ratifica del Trattato stesso al sud-detto esito. La seconda è che il BVG perviene alla sua conclusione, che dichiara la sostanziale compatibili-tà della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona con la Legge fondamentale tedesca, attra-verso 147 pagine di sentenza in cui si susseguono riflessioni sulla storia dell’integrazione europea, sulle teorie della democrazia e della sovranità ad essa sottese, sulla natura dell’ordina-mento giuridico comunitario e sulla relazione sempre dialettica che con

1 BVerfG, 2 BvE 2/08, 2 BvE 5/08, 2 BvR 1010/08, 2 BvR 1022/08, 2 BvR 1259/08, 2 BvR 182/09, sent. del 30 giugno 2009 (Trattato di Li-sbona). Il testo della sentenza è disponibile sia in lingua tedesca che in lingua inglese sul sito di ASTRID, www.astrid-online.it

esso intrattengono gli Stati, definiti ancora gli unici “signori dei Trattati” (paragrafo 231). In questo richiaman-do la altrettanto importante senten-za della stessa Corte pronunciata in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht.

In altri termini, il “si” al Tratta-to di Lisbona da parte dei giudici di Karlsrhue non arriva senza “ma”. Per questa ragione, una lettura accorta della sentenza dovrebbe poter sof-fermarsi tanto sugli esiti della pro-nuncia quanto sui contenuti della sentenza stessa. Sul versante degli esiti, appare condivisibile la posizio-ne dell’ex Avvocato generale Giusep-pe Tesauro, il quale ha invitato ad accantonare letture “catastrofiche” di una sentenza che, respingendo le censure d’ incostituzionalità sulla legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona, non avreb-be posto alcun freno al processo di ratifica.2 Processo che infatti non si è arrestato, ma ha visto al contrario lo sciogliersi delle riserve della Po-lonia e della Repubblica ceca3 subito dopo il “si” al Trattato espresso dal popolo irlandese nella recente con-sultazione referendaria. Sul versan-

2 G. Tesauro, Prefazione a a. LucareLLi e a. PaTroni Griffi (a cura di), Dal Trattato costituzio-nale al Trattato di Lisbona. Nuovi studi sulla Co-stituzione europea, Napoli, ESI, 2009.

3 Il percorso della Repubblica ceca è stato in realtà più tortuoso, data la ritrosia a ratificare il Trattato manifestata dal Presidente Klaus anche dopo il referendum irlandese. La riserva della Repubblica ceca è stata finalmente sciolta durante il recentissimo Consiglio europeo di Bruxelles (29-30 ottobre 2009), avendo questo stato ottenuto un “opt-out” dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

te dei contenuti, invece, non è possibile biasimare quan-ti hanno dato una lettura estremamente critica di una sentenza la cui motivazione “ruota in-torno a due fondamen-tali concetti: natura dell’Unione euro-pea e natura dello Stato democratico… declassa(ndo) la pri-ma e glorifica(ndo) il secondo”.4 I pri-missimi commen-ti, infatti, deli-neano un’Unio-ne europea at-tanagliata dal “g u i n z a g l i o t e d e s c o ” 5 . Unione che, secondo i giu-d i c i d i K a r l -srhue, avrebbe raggiunto con il Trattato di Lisbona il “punto massimo dell’inte-grazione che è compatibile con la Costituzione tedesca”.6

4 s. cassese, L’Unione europea e il guinza-glio tedesco, in Giornale di diritto amministrati-vo, n. 9/2009.

5 s. cassese, ibidem.6 M.P. chiTi, Am Deutshen Volke. Prime note

sulla sentenza del BundesVerfassungGerichr del 30 giugno 2009 sul Trattato di Lisbona e la sua attuazione in Germania, pubblicato in www.astrid.eu. Si veda anche il commento di L.s. rossi, Il processo di integrazione al capolinea? La sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona, pubblicato in www.eu-ropeanrights.eu

In buona sostanza, il BVG dichiara conformi al dettato costituziona-le la legge di autorizza-zione alla ratifica del Trattato di Lisbona

(Zustimmungsge-setz zum Vertrag von Lissabon ) e la legge che emenda

la Costituzione ap-portando modifiche

agli articoli 23, 45 e 93 LF (Gesetz zur Änderung des Grundge-setzes «Arti-kel 23, 45 und 93»). La legge che estende i poteri dei due rami del Par-lamento tede-

sco negli affari europei (Gesetz

über die Auswei-tung und Stärkung der

Rechte des Bundestages und des Bundesrates in Angelegen-heiten der Europäischen Union ), deve essere invece modificata prima che si possa procedere alla ratifica del trat-tato, in quanto essa viola le norme co-stituzionali sancite dall’articolo 38.17 e 23.18 della Costituzione (par. 207).

7 Ai sensi dell’articolo 38 della LF, “i deputati del “Bundestag” sono eletti a suffragio universale, diretto, libero, eguale e segreto. Essi sono i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandato né da direttive e sono soggetti soltanto alla loro coscienza”.

8 Ai sensi dell’articolo 23 della LF, “per la realizzazione di un’Europa unita, la Repubblica

La triplice “riserva” apposta al Trattato di Lisbona Riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale tedesca del 30 giugno 2009

Barbara Guastaferro

ANALISI

Page 34: Numero 6/2009

34Sebbene sia possibile stemperare let-ture apocalittiche in merito al futuro del processo di integrazione, ritengo che la Corte, nel momento in cui di-chiara la costituzionalità della legge di autorizzazione alla ratifica del Trat-tato di Lisbona, invita allo stesso tem-po ad apporre almeno tre “riserve” all’approvazione del Trattato.

2. La triplice “riserva” apposta al Trattato di Lisbona

Uno dei passaggi cruciali della sentenza, a mio avviso, è il paragra-fo 226. In esso la Corte stabilisce: “It is true that the Basic Law grants the legislature powers to engage in a far-reaching transfer of sover-eign powers to the European Union. However, the powers are granted un-der the condition that the sovereign statehood of a constitutional state is maintained on the basis of an inte-gration programme according to the principle of conferral and respecting the Member States’ constitutional identity, and that at the same time the Member States do not lose their ability to politically and socially shape the living conditions on their own re-sponsibility”.

In questo passaggio, la Corte enuncia un principio cardine della

federale tedesca collabora allo sviluppo dell’Unione europea che è fedele ai principi federativi, sociali, dello Stato di dirit to e democratico, nonché al principio di sussidiarietà e che garantisce una tutela dei diritti fon-da mentali sostanzialmente paragonabile a quella della presente Legge fondamentale. La Federazione può a questo scopo, mediante legge approvata dal “Bundesrat”, trasferire diritti di sovranità. Per l’istituzione dell’Unione europea, per le modifiche delle norme dei trattati e per le regolazioni analoghe, mediante le quali la presente Legge fondamentale viene modificata o integrata nel suo contenuto oppure mediante le quali tali modifiche e integrazioni vengono rese possibili, si applica l’art. 79, secondo e terzo comma” (questo articolo, oltre a prevedere la necessità dell’approvazione con due terzi dei voti in ambedue i rami del Parlamento, contempla anche dei limiti espliciti alla revisione costituzionale, ossia un vero e proprio nucleo indefettibile della Costituzione).

Legge fondamentale, ossia il principio di apertura al diritto europeo (Europarechtsfreu-ndlichkeit ), contenuto ap-punto nell’articolo 23 LF, che consente il tra-sferimento di diritti sovrani ad un ente sovranazionale da par te del Parla-mento tedesco. La sensazione è che questo principio, sul quale si fon-da la partecipazione dello Stato tedesco al processo di integrazione, venga in qual-che modo “temperato” da tre riserve: una riserva di sovrani-tà, una riserva di identità co-stituzionale ed una riserva di configurazione nazionale dello spazio pubblico.

3. La riserva di sovranitàIl paragrafo 226 sovramen-

zionato dispone che è vero che è la stessa Costituzione a consen-tire il trasferimento di diritti so-vrani all’Unione europea, ma que-sto trasferimento deve avvenire a condizione che non venga lesa la sovranità dello Stato tedesco. Esito possibile soltanto se il potere pubblico comunitario agisca nel completo rispet-to del principio di attribu-zione delle competenze (testualmente, “on the basis of an integration programme accord-ing to the principle of conferral”). Questo principio cardine del diritto comunitario, richiede che le istitu-zioni comunitarie agi-scano esclusivamente nei limiti delle competenze che sono loro conferite dal Trattato. L’Unione, dunque, non potrebbe esser dotata di Kompetenz/Kompetenz, ossia della competenza ad estendere

autonomamen-te le proprie

c o m p e -t e n z e (par. 233) in quanto alla base d i ogni d e l e g a d i s o -vranità non pos-sono che

esservi gli Stati membri

che ne sono i titolari, restan-do gli unici “si-gnori dei Tratta-ti” (“Herren der Verträge”, nelle parole della Cor-te nel par. 231). La Corte stessa si autoproclama “custode” di que-sta sorta di “ri-serva di sovrani-tà”, arrogando-si, attraverso il cosiddetto “ultra vires review”, il

potere di verifica-re che la normativa

comunitaria non sia adottata in violazione

del principio di attribu-zione delle competenze

(par. 240). Complementare all’enunciazione di questa riser-

va di sovranità è anche lo svuota-mento della portata innovativa del

Trattato di Lisbona e la configurazio-ne dell’Unione europea quale mera “associazione di Stati sovrani” e del potere pubblico comunitario come potere esclusivamente “derivato” (par. 231).

4. La riserva di identità costituzionale

Analogo ragionamento la Corte fa per quanto riguarda il

nucleo indefettibile di valori che con-nota l’identità costituzionale tedesca. La delega di sovranità all’Unione eu-ropea che la Legge Fondamentale consente attraverso l’articolo 23, che dà “copertura costituzionale” al fenomeno comunitario, può esse-re, secondo il menzionato paragrafo 226, persino “far-reaching”, ma deve avvenire nel pieno rispetto dell’iden-tità costituzionale tedesca. Anche in questo caso, è la Corte che si rende disponibile, attraverso il cosiddetto “identity review” (par. 240) ad attuare una sorta di “scrutinio di costituzio-nalità” della normativa comunitaria eventualmente lesiva dei principi fondamentali della Carta costituzio-nale tedesca.

Ai sensi del paragrafo 240, l’azio-ne delle istituzioni europee non può in alcun modo ledere i principi contenuti nell’articolo 1 LF, relativo alla dignità umana, e nell’articolo 20 LF, relativo ai caratteri distintivi dell’ordinamen-to tedesco (federale, democratico e sociale). Articoli entrambi dichiarati inviolabili dall’articolo 79 LF, il quale non fa che porre dei limiti espliciti alla revisione costituzionale sancendo che “Non è consentita alcuna modifica della presente Legge fondamentale che riguardi l’articolazione della Fe-derazione in Länder, il principio della partecipazione dei Länder alla legi-slazione o i princìpi enunciati agli ar-ticoli 1 e 20”.

In questo modo, la cosiddetta Ewigkeitsklausel contenuta nell’ar-ticolo 79 LF, ossia la “clausola di eternità”, che appunto sottrae alla “disponibilità” di qualunque potere politico i principi fondamentali della Costituzione tedesca, viene applica-ta anche all’ordinamento giuridico co-munitario. Ed in modo “funzionalmen-te distorto”9, in quanto una clausola concepita per evitare il ritorno a pagi-ne drammatiche della storia tedesca attraverso derive dittatoriali, viene

9 Questo il parere di s. cassese, op. cit.,

ANALISI

Page 35: Numero 6/2009

utilizzata come “parametro di costi-tuzionalità” dell’azione comunitaria. I limiti espliciti alla revisione costi-tuzionale contenuti nell’articolo 79 LF, in altri termini, vengono trasla-ti su scala comunitaria. Per quanto l’Unione europea soffra di un “de-ficit democratico”10, l’accostamento con i regimi dittatoriali, anche solo concettuale e presunto, che deriva da quest’operazione, è stato giudi-cato inopportuno.11 Specialmente alla luce del fatto che il “potere pubblico” cui questi “limiti” vengono frapposti è costituito da un ordinamento, quel-lo comunitario, che fa della “pace” la sua teleologia costitutiva.

5. La riserva di configurazione nazionale dello spazio pubblico

L’ultima riserva al Trattato di Li-sbona che si evince a mio avviso dal paragrafo 226 riguarda la configura-zione nazionale dello spazio pubbli-co. Il trasferimento di diritti sovrani all’Unione europea è consentito a condizione che gli Stati membri “do not lose their ability to politically and socially shape the living conditions on their own responsibility”. Lo Stato di-venta l’unica arena nella quale realiz-zare la dialettica maggioranza-oppo-sizione, la formazione di un’opinione pubblica e la fruizione dei diritti di cit-tadinanza. La realizzazione dell’Unio-ne non può esplicarsi un modo che non consenta agli Stati membri di “retain sufficient space for the poli-tical formation of the economic, cul-

10 La questione meriterebbe una trattazio-ne a parte che non è possibile effettuare in que-sta sede. La Corte dedica infatti molti paragrafi, non poco contraddittori, alla declinazione che il principio democratico potrebbe o dovrebbe as-sumere su scala comunitaria, avallando talvolta una mutazione morfologica dello stesso, talvolta una configurazione simile a quella assunta all’in-terno dello Stato nazionale.

11 c. schonberGer, Lisbon in Karlsruhe: Maastricht’s Epigones At Sea, in Special Sec-tion of the German Law Journal, vol. 10, n. 8, 2009, p. 1208.

tural and social circumstances of life” (par. 249). Lo Stato deve preservare uno “spazio sufficiente” in particolar modo in quei settori nei quali la de-cisione politica non può affrancarsi da un processo di “autorappresen-tazione normativa” configurabile comunque all’interno di una co-munità coesa. In questi settori, che riguardano la difesa, l’uso della forza, le politiche di bilancio, la coo-perazione in materia penale, la deci-sione politica “particularly depend on previous understanding as regards culture, history and language and which unfold in discourses in the space of a political public that is organised by party politics and Parliament” (par. 249, corsivo aggiunto).

Se alcuni commenta-tori hanno interpretato gli innumerevoli paragrafi che la sentenza dedica a questi “sensitive issues”, materie sensibili, come un tentativo di interpretare in maniera “re-strittiva” le nuove competenze di cui l’Unione sarà dotata grazie al Trattato di Lisbona12, c’è qual-cosa nel ragionamento della Corte che non è a mio avviso ascrivibile esclusivamente al conflitto di attri-buzione tra competenze comunitarie e competenze degli Stati membri. In questi passaggi, l’intento della Cor-te non è custodire gelosamente la sovranità dello Stato tedesco in al-cuni settori, ma sottolineare che in determinati settori il dispiegarsi di un’autentica sfera pubblica discorsi-va non può prescindere da un comune trascorso storico- culturale – e valo-riale (ciò a mio avviso è dimostrabile dall’intensità con la quale la Corte utilizza termini quali “previous un-derstanding”, “cultural roots and va-lues”, “language” – par. 249 e 251). Per questo credo che il BVG delinei

12 osì ad esempio L.s rossi, op. cit.

una “riserva di configurazione nazio-nale dello spazio pubblico” che non può essere sussunta dalla “riserva di sovranità”. La Corte sembra de-nunciare quella che Paul Magnette ha definito la “compartimentazione” dello spazio pubblico, ossia la con-figurazione ancora frammentata ed ancorata agli Stati nazionali della sfera pubblica comunitaria, nell’asse-rire che nel processo di integrazione “the public perception of factual is-sues and of political leaders remains connected to a considerable extent to patterns of identification which are related to the nation-state, lan-guage, history and culture” (par. 251). Pertanto, la cautela con cui invita a trasferire competenze alla Comunità in settori “sensibili”, deriva anche dal-

la consapevolezza che anche l’Unione europea potrebbe esser priva di ciò che, per dirla con Habermas, “manca alla comunità inclusoria dei cittadi-

ni cosmopolitici” ossia quell’ “auto comprensione etico-politica, pro-pria dei cittadini di qualunque comunità democratica”.13

6. ConclusioniQuesto breve commento, che

non intende entrare nel merito dei dettagli della sentenza14, dimostra

come la Corte costituzionale te-desca in qualche modo intende consolidare la sua funzione di “guardiano” della Costituzione, riservandosi di controllare che il “potere pubblico comunita-rio” non agisca in violazione del principio delle compe-tenze attribuite e non leda i principi costitutivi dell’iden-tità costituzionale tedesca. Il BVG, dunque, pur nel dare via libera alla ratifica del Trattato

di Lisbona rigettando l’ecce-zione di costituzionalità, pone

in realtà dei limiti, delle “riserve” al processo di integrazione. Riser-

ve che riguardano da un lato l’intan-gibilità del nucleo indisponibile che caratterizza l’identità costituzionale tedesca, dall’altro l’integrità della sovranità statuale.

Ma la Corte, nell’enucleare inve-ce quella che ho definito la “riserva di configurazione nazionale dello spazio pubblico”, delinea il Parlamento na-zionale quale unico “luogo logico” possibile dove esplicare l’autode-terminazione collettiva della comu-nità politica.

13 J. haberMas, La costellazione post-nazio-nale, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 95.

14 Mi sia concesso rinviare, per un appro-fondimento, a b. GuasTaferro, Il Trattato di Lisbo-na tra il “custode” della sovranità popolare e il “custode” della democrazia: la triplice “riserva” apposta al Trattato dalla Corte costituzionale te-desca, in corso di pubblicazione.

ANALISI

Page 36: Numero 6/2009

36E ancor di più, nel motivare la

parte del dispositivo che invece di-chiara l’incostituzionalità (per vio-lazione degli articoli 38.1 e 23.1 LF) dell’atto che estende i poteri del Par-lamento tedesco per quanto attiene agli affari europei, sembra voler con-ferire gran parte della responsabilità politica del processo di integrazione nelle mani del Parlamento tedesco.

La Corte ha infatti decretato la necessità di una modifica dell’at-to in questione (par. 410) in quan-to questo non dotava il Parlamen-to tedesco di sufficienti “diritti di partecipazione” nel trasferimento di competenze sempre più ampie alle istituzioni europee. Violando in tal modo sia l’articolo 38, il quale, nello stabilire che “i deputati del “Bundestag” sono eletti a suf-fragio universale, diretto, li-bero, eguale e segreto”, suggella un legame imprescindibile tra il popolo, titola-re del pouvoir constituant, e l’assemblea rappresen-tativa che ne è unica espressio-n e , c h e l’articolo 23. Que-sto ar ti-colo, nel dare “co-pertura co-stituzionale” al fenomeno comunitario, ossia nel di-chiarare esplici-tamente che la “re-alizzazione dell’Europa unita” c o -stituisce un finalità dell’ordinamen-to, stabilisce che la Federazione può trasferire diritti di sovranità esclusi-vamente mediante legge approvata dal “Bundesrat”. Secondo la Corte, il ruolo del Parlamento verrebbe in-

vece particolarmente offuscato in alcune procedure contemplate dal Trattato di Lisbona che consentireb-bero una sostanziale modifi-ca del Trattato stesso senza ricorrere alla procedura di re-visione ordina-ria, la quale ga-rantisce inve-ce un congruo coinvolgimento dell’assemblea rappresentativa del popolo tede-sco. La Corte, dun-que, invita il Parlamen-to, massima

espressione di sovranità popolare, ad appropriarsi della cosiddetta “responsabilità di integrazione” (In-tegrationsverantwortung ) della qua-le è titolare ai sensi dell’articolo 23 LF, anche nei casi in cui si assiste ad una sostanziale modifica dei Tratta-ti istitutivi attraverso procedura di

revisione non ordinaria (par. 411). Questa responsabilità dovrà espli-carsi tramite la previa autorizzazio-

ne legislativa del proprio esecutivo in seno

al Consiglio ogni qual volta si do-

vranno atti-vare quelle clausole che consentono nelle paro-le della Cor-

te, “uno svi-luppo dinami-

co dei Trattati” (par. 411).15

In conclusio-ne, san-

15 Ci si riferisce in particolar modo alla procedura di revisione semplificata prevista dall’articolo 48.6 TUE, alla “clausola passerel-la” generale (art. 48.7 (3) TUE) ed alle clausole passerella speciali ed alla clausola di flessibi-lità prevista dall’articolo 352 TFUE.

cendo la necessità di una previa autorizzazione legislativa dell’at-tività comunitaria, da un lato, e la facoltà di una sorta di “controllo di costituzionalità” sulla normativa comunitaria, dall’altro, la Corte, at-traverso questa pronuncia, pone in qualche modo lo Stato, atto origi-nario e costitutivo del processo di integrazione europeo, a monte e a valle del processo stesso. Se il dirit-to alla prima parola spetta al Parla-mento nazionale, che deve sempre autorizzare il proprio esecutivo ad agire nell’arena sovranazionale, il diritto all’ultima spetta alla Corte, che si riserva addirittura di “non applicare” all’interno del territorio nazionale la normativa comunitaria che sia in contrasto o con il principio di attribuzione delle competenze o

con il nucleo indefettibile dell’iden-tità costituzionale tedesca (par.

241), con non poche conse-guenze per il principio di

uniforme applicazione del diritto comunitario.

I n q u a l u n q u e modo lo si voglia in-terpretare, l’esito di questa pronuncia è non solo quel-lo di approvare “con riserva” il Trattato di Li-sbona, ma an-che quello di la-sciare che sia-no da un lato il “custode” della sovranità popo-lare, ossia il Par-lamento nazio-

nale, dall’altro il “custode” della Co-

stituzione (ossia la Corte costituzionale)

ad assecondarne od imbri-gliarne lo sviluppo.

Professore a contratto di “Storia e politica dell’integrazione europea” nell’Università de-gli Studi di Napoli “L’Orientale”.

ANALISI

Page 37: Numero 6/2009

Aziende Consorziate e Sedi Operative

SA CampaniaNAPOLI - Via Nardones, 14

SA Emilia RomagnaBOLOGNA – Via Rivani, 35

SA LiguriaSAVONA – Viale della libertà, 57

SA LombardiaMILANO – Res. Ontani, 462BERGAMO – Via Casalino, 27

SA PugliaBARI – Via N. Piccinni, 12

SA ToscanaFIRENZE – Via S. L. Cherubini, 13CASCINA (PI) – Viale Europa, 60

SA SardegnaSASSARI – Via Principessa Iolanda, 2

SA SiciliaPALERMO – Via A. Borrelli, 3

Sede legale e direzionale:

ROMA - Via della Minerva, 1Tel 06.69797134 - Fax 06.69190617

affidabilitàsicurezza

competenzaprofessionalità

Il Consorzio CSA si occupa dellagestione delle problematiche tecnologiche,pratiche e normative in materia di archivie fornisce consulenza specialistica conhardware e software di propriaprogettazione, avvalendosi del letecnologie più avanzate nel campo deltrattamento e delle elaborazioni delleinformazioni (banche dati testuali,ipertestuali e di immagini, sistemi per lostorage delle informazioni su supportomagnetico ed ottico).

Il Consorzio CSA interviene su archivistorici e correnti, predisponendo uncorretto impianto archivistico edelaborando sistemi di gestione elettronicadei documenti di facile applicazione e difacile utilizzo; tali sistemi garantisconoun’elevata adattabi l i tà ai cr i ter id’ordinamento archivistico in uso pressol’Ente, criteri che vengono sempresalvaguardati.

Il Consorzio CSA offre servizi per lagestione “del documento” ad ampiospettro, realizzando una serie di progettinel settore degli Archivi correnti e storicie fornendo i seguenti servizi:

Riordino e ottimizzazione degli impiantiarchivistici in forma elettronica;

Schedatura, catalogazione e data entryper creazione di banche dati;

Custodia e Gestione Informatizzatadegli archivi cartacei in locali attrezzati,ubicati strategicamente su tutto il territorionazionale;

Monitoraggio delle movimentazioni;

Predisposizione degli elenchi di scartoed attuazione delle procedure;

Creazione e gestione di archivi digitali;

Consultazioni on line con monitoraggiodegli accessi;

Gestione del protocollo informatico eworkflow con archiviazione digitale dellacorrispondenza;

Rilevamento e gestione informatizzatadel contenzioso per la PA;

Analisi e studio delle criticità archivistiche;Proposta progettuale nel rispetto della

normativa vigente;Formazione del personale d’archivio

all’utilizzo delle procedure informatiche.

Affidare il servizio di custodia e gestionedegli archivi al Consorzio CSA vuol dire:

Conoscenza dei documenti d’archivio diproprietà dell’Ente;

Certezza nella ricerca delle informazionicon consultazione del documento in temporeale;

Rientrare negli standard di sicurezzadelle normative vigenti in materia;

Risparmio degli investimenti peradeguamento dei locali, acquisto diattrezzature a norma, assunzione dipersonale specializzato, acquisto emanutenzione di sistemi per la gestionedocumentale;

Recupero di spazi e di personale dadestinare ad altre attività;

Miglioramento del servizio a favoredell’utente sia in termini di tempo che difruibilità;

Eliminazione rischi connessi alla perditadi documenti;

Sicurezza informatica, per cui l’archiviodigitale viene mantenuto secondo le piùsevere procedure di sicurezza, conparticolare riguardo alle procedureanti-intrusione e anti-manomissione.

Page 38: Numero 6/2009

Corsi master per neolaureati, per facilitarne un inserimento qualificato nel mondo del lavoroMDGI - Master in Direzione e Gestione di Impresa MILD - Master in International and Local DevelopmentHRM - Master in Human Resource Management CUMA - Master in Cultural Management MAM - Master in Auditing & Managerial accounting

Corsi master executive per Imprese (EMBA) e Pubbliche Amministrazioni (EMPM) per accompagnare lo sviluppo di carriera delle alte professionalità, dei dirigenti, dei knowledge worker

STOA’ School of Management del Sud,con una vocazione internazionale

STOA’ è tra le prime Business School italiane, con oltre 2000 giovani diplomati master con un tasso di occupazione del 90% in posizioni di prestigio e 8000 dirigenti, imprenditori, dipendenti pubblici e privati che hanno rafforzato le proprie competenze manageriali.

STOA’ - Istituto di Studi per la Direzione e Gestione di ImpresaVilla Campolieto - Corso Resina, 283 - 80056 Ercolano (NA)tel. +39 081 7882111 - fax +39 081 [email protected] - www.stoa.it

Formazione e assistenza agli Enti Locali, alla Pubblica Amministrazione, alle aziende di Servizi Pubblici Locali nei loro processi di innovazione e ammodernamento, sostenendoli nel ruolo di operatori di sviluppo economico e sociale del territorio

Formazione e consulenza alle Imprese nell’implementazione di progetti di sviluppo e innovazione di processo/prodotto

Diffusione e divulgazione di cultura manageriale attraverso ricerche, eventi, seminari e occasioni di apprendimento sviluppate anche in modalità on-line

Sul modello delle più importanti School of Management, STOA’ realizza:

Page 39: Numero 6/2009
Page 40: Numero 6/2009
Page 41: Numero 6/2009

41| DOSSIER |

di Federico Pirro[Università di Bari]

Quando nella seconda metà degli anni ’50 del ’900 il massiccio incremento dei consumi di accia-io creò nel nostro Paese le condizioni per avviarvi il secondo ciclo di investimenti pubblici nel compar-to – dopo quello impostato da Oscar Sinigaglia e culminato con la ricostruzione a Genova dello stabi-limento di Cornigliano e l’entrata in esercizio nel ’53 del suo treno continuo – la Finsider del gruppo Iri, che avrebbe poi costituito l’Italsider impostando un ambizioso disegno di rinnovamento e di concentrazio-ne societaria, raccolse l’indicazione del Governo che aveva proposto di realizzare un IV Centro siderurgico a ciclo integrale da localizzarsi nel Sud.

La scelta definitiva compiuta nel 1959 cadde su Taranto, ed è opportuno sottolineare che ad essa concorsero anche le rappresentanze pugliesi e ta-rantine di grandi forze politiche e sociali – dai nuovi gruppi dirigenti della Democrazia cristiana al Partito comunista – che, per quanto duramente contrappo-

Il centro siderurgico di Taranto compie

cinquant’anniStoria della più grande fabbrica manifatturiera italiana

per numero di addetti diretti, tra le maggiori a livello europeo e mondiale. Il ruolo per il successo di questa

impresa dei lavoratori, delle forze politiche, delle istituzioni

Page 42: Numero 6/2009

42 | DOSSIER |sti sul piano locale e nazionale, finirono invece per convergere sull’obiettivo di ottenere l’insediamento del nuovo impianto proprio nel capoluogo ionico, sol-lecitando con le loro iniziative le Autorità governati-ve ad assumere una decisione che, peraltro, non era del tutto scontata circa l’individuazione del sito. In una particolare congiuntura socioeconomica come quella di Taranto – a fronte della grave crisi che ne aveva colpito dal secondo dopoguerra l’Arsenale del-la Marina Militare e l’industria navalmeccanica con espulsioni emorragiche di ‘arsenalotti’ e di operai del-la Franco Tosi dai loro cantieri – i settori più avanza-ti della DC, da una parte, e i movimenti popolari e i partiti della Sinistra che ne esprimevano la coscien-za rivendicativa, dall’altra, non puntavano affatto ad uno sviluppo industriale qualsiasi nell’area urbana, ma si battevano perchè vi fosse localizzato proprio un grande complesso dell’industria di base come la siderurgia. Significativo in tal senso fu il convegno organizzato in città il 28 dicembre del 1958 dalle Ca-mere del lavoro pugliesi, dal Movimento di Rinasci-ta e dalla Fiom, aperto da una relazione di Giorgio Napolitano nella quale si rivendicava l’intervento propulsivo dell’industria siderurgica pubblica, chia-mata a rompere l’ormai visibile situazione di declino economico del capoluogo ionico1.

Taranto, dunque, venne candidata da un am-pio schieramento di forze politiche e sociali e dalle stesse Istituzioni ecclesiastiche locali ad ospitare il IV Centro non solo per la sua favorevole posizione geografica – che era un prerequisito fondamentale per una siderurgia a ciclo integrale come quella na-zionale imperniata su stabilimenti costieri – ma anche perché vantava da oltre un sessantennio una con-solidata tradizione navalmeccanica, inaugurata sin dall’agosto 1889 con l’entrata in esercizio del vasto Arsenale della Marina Militare, cui nel 1914 si erano affiancati i già ricordati cantieri navali della Franco Tosi; in città, pertanto, preesisteva all’insediamen-to della nuova fabbrica una consolidata tradizione tecnica e professionale di lavorazione dell’acciaio in grandi volumi che finiva col rappresentare il milieu più fertile per il nuovo insediamento.

La scelta di localizzare nel Meridione tale com-

1 Giorgio Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’au-tobiografia politica, Bari, Editori Laterza, 2005, pp.50-52.

plesso nasceva nel contesto della nuova politica promossa dalla legge 634 del 29 luglio del ’57, de-stinata ad avviare il ‘secondo tempo’ dell’Intervento straordinario nelle regioni del Sud, imperniato sull’in-dustrializzazione, dopo il ‘primo tempo’ del setten-nio 1950-1957, fondato sul binomio riforma-agraria-infrastrutture ed iniziato nell’agosto del 1950 con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno ai sensi della legge 646.

Con la 634, invece – preceduta da un lungo di-battito fra esponenti politici e di associazioni impren-ditoriali su chi dovesse assolvere il ruolo di forza mo-trice dello sviluppo industriale nelle aree meridionali, se cioè lo Stato con le imprese da esso controllate o l’industria privata – il legislatore, com’è noto, stabilì fra l’altro che le aziende a Partecipazione statale – il cui Ministero era stato istituito nel 1956 – avrebbe-ro dovuto insediare nei territori del Sud il 60% dei loro nuovi investimenti sino a raggiungervi il 40% di quelli globali: una scelta qualificata che, ponendo le premesse per un significativo allargamento della base territoriale dell’apparato industriale nazionale, avrebbe poi dato l’avvio dalla fine degli anni ’50 ai processi di nuova industrializzazione concentrati nei ‘poli di sviluppo’ che con varia intensità hanno poi interessato molte zone del Mezzogiorno nell’ultimo cinquantennio, e che costituiscono tuttora la spina dorsale dell’industria meridionale i cui settori ad alta intensità di capitale conservano un rilievo strategico per l’intera economia del Paese.

Lo stabilimento di Taranto – la cui prima pietra fu posta il 9 luglio del 1960 alla presenza del Capo dello Stato Giovanni Gronchi e del Ministro dell’Industria Emilio Colombo – prevedeva inizialmente l’installa-zione di un treno continuo per nastri, affiancato da un treno lamiere e dal tubificio n.1 per tubi saldati di grande diametro che partì nell’ottobre del 1961, prima cioè dell’entrata in esercizio dell’intero complesso. A monte, l’acciaieria – alimentata da due altiforni con 4 cokerie e 2 convertitori LD da 300 tons – costitui-va un complesso produttivo con una capacità iniziale di 3 milioni di tonnellate all’anno. Il Centro, inoltre, fu dotato di uno sporgente nel porto con fondale per l’attracco di navi di grandi dimensioni, di 2 scaricatori

di banchina, di una linea di convogliatori a nastro e di un tronco ferroviario per trasporto di materie pri-me e prodotti finiti.

Il nuovo impianto era progettato per la produ-zione di lamiere per navi, allora in forte espansione, e di tubi saldati e sbozzati per terzi, la cui doman-da in quel periodo si manteneva sostenuta sia per i pozzi petroliferi del Medioriente che per i gasdotti sovietici. Una parte dei semilavorati sarebbe affluita al Nord e rilavorata a Novi Ligure e a Cornigliano. A ridosso poi del Centro, nel piano regolatore dell’area provinciale redatto dalla società di progettazione Tek-ne, presentato nel 1961 al Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, si prevedevano opportunità di inve-stimenti in una vasta gamma di attività fornitrici di servizi e manutenzioni al complesso dell’Italsider e soprattutto in comparti trasformatori ‘a valle’ delle sue produzioni, individuati utilizzando la matrice si-derurgica nazionale.

Nel 1968 poi, in previsione di un ulteriore incre-mento della domanda di acciaio, il Cipe deliberò il potenziamento del sito che aumentò la sua capacità produttiva portandola ad oltre 4,5 milioni di tonnel-late l’anno con nuove cokerie, il rafforzamento degli impianti di agglomerazione, un terzo altoforno, un altro convertitore LD, una prima colata continua per bramme e un laminatoio a freddo; vennero potenziate inoltre le strutture portuali e l’occupazione diretta si incrementò di oltre 3.600 unità, salendo dalle 5.786 del 1968 alle 9.430 del 1970.

In questo stesso anno poi venne deciso il ‘rad-doppio’ dello stabilimento con un ulteriore investi-mento di 1.326 miliardi per raggiungere una capaci-tà produttiva di 11,5 milioni di tonnellate di acciaio grezzo all’anno, grazie a due nuovi altiforni, fra i qua-li l’imponente Afo 5, fra i più grandi del mondo, una seconda acciaieria con 3 convertitori e due nuove colate continue, un secondo laminatoio sbozzatore, il treno nastri n.2, il treno lamiere n.2 e il tubificio n.2. L’occupazione diretta, pertanto, salì negli anni successivi dalle 9.430 unità del 1970 – con 15.000 nelle ditte appaltatrici – alle 21.000 del 1976, affian-cati da 12.191 indiretti. Sotto il profilo industriale la scelta di puntare innanzitutto ad un incremento della

Page 43: Numero 6/2009

43

produzione dei coils faceva sì che una parte dei se-milavorati affluisse poi per essere rilavorato a Novi Ligure – che si sarebbe affermato in tal modo come un importante centro Italsider per la rilaminazione e i rivestiti – e a Cornigliano. Un limite produttivo, come vedremo in seguito, che il Gruppo Riva – nuovo proprietario e gestore del IV Centro dal 1o maggio del 1995, dopo la sua privatizzazione – pur conservan-done le funzioni di fornitore di prodotti intermedi per altri impianti di lavorazione suoi o di terzi nel Nord Italia, sin dal 1996 si è impegnato almeno in parte a superare con piani di riassetto e innovazione delle capacità del sito.

L’impianto – che già all’indomani del suo ‘rad-doppio’, ma soprattutto a partire dall’inizio degli anni ’80 avrebbe visto periodicamente il suo top manage-ment impegnato in lunghi processi di razionalizzazioni strutturali, innovazioni tecnologiche e miglioramenti gestionali, ricorrendo anche a progressive riduzioni degli organici diretti e indiretti, sempre concordate però con Governo e Sindacati – dopo aver toccato la punta massima dei suoi addetti nel 1980 con 21.785 unità e 10.561 negli appalti esterni, quindici anni più tardi, dopo lunghe fasi di ristrutturazioni finalizzate a recuperi di efficienza e contenimento dei costi impo-sti anche dalla Comunità Europea, al momento della sua privatizzazione nella primavera del 1995 occu-pava 11.796 persone, cui si affiancavano poco più di 3.000 nelle attività indotte.

Lo stabilimento di Taranto: una cattedrale nel deserto?

L’insediamento del grande complesso venne accompagnato sin dalla sua entrata in esercizio dal-la querelle sulle ‘cattedrali nel deserto’ e sui loro mancati o limitati effetti indotti ‘a monte’ e ‘a val-le’ sull’economia locale. Taranto, come si è visto in precedenza, aveva già una robusta tradizione indu-striale nella navalmeccanica che, segnandone anche l’assetto urbanistico, aveva contribuito a formare la coscienza di classe e lo spirito pubblico ‘di apparte-

nenza’ di intere generazioni di operai e di vasti stra-ti della popolazione; pertanto, non era classificabile come zona industrialmente ‘desertica’.

Tale polemica è venuta periodicamente riemer-gendo nel dibattito sul Mezzogiorno sino ai giorni no-stri – quando si intreccia con la forte denuncia dell’im-patto ambientale ascritto all’impianto siderurgico – e può trovare una sua composizione, alla luce di analisi approfondite sui volumi di domanda effettiva di beni e servizi attivati dalle industrie di base per i loro cicli produttivi e sulle dimensioni della massa salariale ag-giuntiva spesa dai lavoratori di quegli impianti. Tutto-ra condivisibili appaiono al riguardo le osservazioni di coloro i quali, analizzando la struttura dei costi in-termedi per vari comparti manifatturieri, hanno posto in risalto, per quel che concerne la valutazione degli effetti ‘a monte’, come la siderurgia – e con essa la chimica – sia un settore che per unità di prodotto lordo fa rispetto agli altri il massimo uso in primo luogo di materie prime importate dall’estero, e il minimo con-sumo di beni intermedi reperibili sul mercato interno; di questi ultimi, inoltre, solo una quota relativamente meno elevata costituisce domanda effettiva rivolta ad altre industrie manifatturiere, ragion per cui con-tenuto risulta il grado di integrazione ‘a monte’ degli impianti dell’industria di base col tessuto industriale preesistente nelle aree di insediamento.

Eguale discorso è stato compiuto analizzando gli effetti ‘a valle’, dal momento che nel comparto side-rurgico e in quello chimico il valore aggiunto risulta una quota relativamente contenuta della produzione lorda, così come relativamente più ridotta è la per-centuale del valore aggiunto destinata a stipendi e salari. Ne deriva che più limitata che in altri settori risulti la domanda finale attivata tramite i redditi da lavoro erogati agli occupati in quegli stabilimenti2. E

2 M.D’Antonio-G.P.Cesaretti, Tavole intersettoriali dell’eco-nomia italiana 1959-1969 a prezzi costanti, Milano, Franco An-geli, 1975.

se è vero poi che le produzioni siderurgiche e chimi-che di base rappresentano input di attività manifat-turiere di seconda lavorazione – costituendo così un prerequisito per una loro crescita in loco e a ‘valle’ delle prime – è pur vero, però, che la struttura indu-striale meridionale e pugliese in particolare, che nei primi anni Sessanta avrebbe potuto giovarsi di quelle produzioni, non era in condizioni in quel momento – e non lo sarebbe stata ancora a lungo negli anni suc-cessivi – di intraprendere la via dello sviluppo accele-rato che un processo di integrazione ‘a valle’ avrebbe reso possibile, né la politica degli incentivi avrebbe potuto sortire effetti rilevanti al riguardo.

Infatti, pur essendo innegabile che le agevola-zioni predisposte con l’Intervento straordinario finis-sero anche con la legge 853 del 1971 con l’operare in senso più favorevole alle iniziative capital intensive, è inconfutabile tuttavia che l’ambiente urbano meri-dionale sino all’inizio degli anni ’70 avrebbe frapposto ostacoli non facilmente sormontabili alla localizza-zione da parte dell’imprenditoria esterna, o all’atti-vazione da parte di quella interna, di produzioni di beni finiti destinati a mercati vasti, concorrenziali, a elevata instabilità, e come tali bisognosi di continue innovazioni nelle scelte merceologiche e del marke-ting e per i quali, pertanto, si rendeva necessaria la pronta fruibilità di servizi alle imprese, oltremodo specializzati. Una tale accumulazione di know-how, generata da un lungo processo di sviluppo e di dif-ferenziazioni produttive, era largamente reperibile invece soltanto in determinati ambienti ubicati nel-le aree metropolitane delle regioni di più intensa e antica industrializzazione.

Una valutazione perciò più equilibrata sulla fun-zione assolta nel Sud ed in Puglia dai grandi stabi-limenti dell’industria di base pubblica e privata, e della siderurgia in particolare, deve concordare con l’affermazione secondo cui dagli investimenti nella siderurgia, nella chimica e nella petrolchimica degli anni Sessanta non fosse realistico attendersi rapi-damente significativi effetti moltiplicativi, al di là di

| DOSSIER |

Page 44: Numero 6/2009

44 | DOSSIER |quelli direttamente connessi alla realizzazione degli impianti e alla loro manutenzione affidata a picco-le, medie e grandi aziende, anch’esse in molti casi provenienti dall’esterno.

Tale situazione è in parte mutata nell’ultimo trentennio quando, a partire da alcuni ‘poli’, si sono venuti consolidando in varia misura segmenti di atti-vità indotte, a volte anche abbastanza lontane dagli epicentri dei grandi insediamenti.

Naturalmente la constatazione dei limitati effetti indotti almeno nel primo quindicennio di esercizio delle nuove fabbriche e la presa d’atto, sia pure a posteriori, della loro relativa attivabilità inerente alla natura stessa di quegli investimenti, non deve esaurire la valutazione che può essere già formulata sulle scelte operate Sud, nel quindi-cennio 1960-1975, in particolare dal sistema delle imprese a Partecipazione statale. Un giudizio che se vuole pervenire ad una sintesi interpretativa più convincente deve recuperare, ad avviso di chi scrive, almeno un duplice ordine dì considerazioni, alcune di ordine economico e altre invece di carat-tere politico-sociale.

Nel primo deve rientrare la consapevolezza che l’impresa pubblica – pur con i limiti che spesso ne hanno contrassegnato l’attività nel periodo ricorda-to – ha operato nel Mezzogiorno col fine di insediarvi e stabilizzarvi la presenza di attività manifatturiere in misura maggiore di quanto le sole forze impren-ditoriali private, locali o esterne all’area, avrebbe-ro potuto consentire, favorendo così la diffusione di produzioni concorrenti con quelle operanti nelle aree più sviluppate del Paese.

Fra le considerazioni invece di natura politico-sociale, bisogna inserire quella concernente la co-stituzione di una nuova classe operaia – che per li-velli di qualificazione professionale, concentrazione produttiva e problematiche rivendicative si sarebbe venuta differenziando nettamente dalle vecchie ‘ma-estranze’ dei primi anni Cinquanta – e quella riguar-dante la modernizzazione che l’intervento dell’indu-stria pubblica avviava nelle classi dirigenti regionali, e in primo luogo nell’allora partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, con l’affermarsi in essa di settori decisi a battersi perché l’iniziativa statale dispiegasse sino in fondo funzioni di forza motrice dello sviluppo, là dove invece l’imprendito-ria privata locale, per propri limiti strutturali, non riusciva ad assolvere tale ruolo.

La formazione della nuova classe operaia del ‘polo’ industriale nell’area di Taranto dopo il declino della navalmeccanica. Organizzazioni sindacali, lotte, obiettivi e risultati: una visio-ne di sintesi.

Dal 1960 al 1975 pertanto – dapprima con la costruzione e l’avvio in esercizio e poi con l’amplia-mento e il ‘raddoppio’ del IV Centro siderurgico – ven-ne creata a Taranto quella che è stata una delle più forti concentrazioni di lavoro salariato di fabbrica nel Mezzogiorno, ed oggi rimasta la maggiore dell’inte-ro Paese, nonostante i periodici, massicci processi di ristrutturazione e ammodernamento che dall’inizio degli anni ’80 hanno interessato lo stabilimento sino alla sua privatizzazione: un’efficientizzazione degli impianti proseguita e intensificata con la gestione del Gruppo Riva che, però, è tornato ad incremen-tarvi l’occupazione.

Non potendo in questa sede per intuibili limiti di spazio ricostruire le varie fasi di un periodo più che quarantennale di lotte sindacali – che hanno visto protagonisti in varia misura gli operai e i tecnici di-pendenti dell’azienda e quelli invece con qualifiche di-verse e fra loro più divisi, dipendenti da ditte esterne impiegati nella costruzione, nell’ampliamento e nel-le manutenzioni degli impianti – è possibile tuttavia sottolineare che per la qualità degli obiettivi via via prescelti, per l’ampiezza dei movimenti popolari su-scitati in momenti ‘epocali’ della storia locale e per i risultati conseguiti, quelle lotte hanno finito spes-so col travalicare l’ambito provinciale, diventando in alcune fasi storiche un riferimento per l’intero Mo-vimento sindacale italiano.

I punti più qualificanti di quelle lotte sono di-ventati nel corso degli anni i problemi della sicurez-za e della democrazia in fabbrica, la difesa dei livel-li occupazionali, le nuove forme di organizzazione del lavoro progressivamente indotte dai massicci processi di automazione, l’impegno profuso per la modifica del sistema degli appalti nelle subfornitu-re – con l’obiettivo di farle assegnare in prevalenza dall’Italsider ad aziende locali, anche al di là a volte di una attenta verifica dei loro costi comparati – e la periodica gestione sino al ’92-’93 di complessi piani di mobilità sui quali il Movimento Operaio tarantino si è venuto cimentando, anticipando spesso pratiche e piattaforme diventate poi in altri contesti aziendali e territoriali prassi consolidate del sindacalismo con-federale italiano.

Momento significativo nell’impegno delle orga-nizzazioni sindacali locali fu fra il 1974 e il 1977 la

Page 45: Numero 6/2009

45| DOSSIER |forte mobilitazione – per fronteggiare l’emergenza occupazionale causata dalla fine dei lavori del ‘rad-doppio’ – con le forze politiche, sociali e istituzionali culminata nell’esito positivo della famosa “Vertenza Taranto”, finalizzata al reimpiego degli addetti in esu-bero e ad una prima diversificazione dello sviluppo nell’area ionica. Da ricordare poi il completamento di quella che – facendo seguito ad una nuova riduzione di manodopera nella fabbrica – venne denominata nel 1989-1991 ‘Operazione integrata Taranto’, con i piani di reindustrializzazione finanziati dalla legge 181/89; ed infine, in vista della privatizzazione, l’Accordo di programma del ’93 con il finanziamento statale di interventi infrastrutturali per 250 miliardi di lire da realizzarsi nella città. I risultati ottenuti con le piat-taforme alla base delle vertenze territoriali appena ricordate hanno contribuito a generare nel tempo un sia pur parziale arricchimento del tessuto produttivo e dello stock di capitale fisso locale con la costruzione, fra l’altro, del molo polisettoriale nel porto di Taranto su cui alcuni anni più tardi sono state avviate attività di transhipment con l’insediamento del grande termi-nal container della multinazionale Evergreen.

Questo è il ricco patrimonio di cultura dello svi-luppo e di promozione di sensibilità collettive ai pro-blemi della crescita che l’intero sindacalismo indu-striale tarantino ha accumulato nel corso degli oltre tre decenni di proprietà pubblica dello stabilimento, contribuendo così non solo alla storia del Movimen-to operaio italiano, ma più in generale a quella delle forze politiche pugliesi, meridionali e nazionali. Da questo patrimonio anche oggi nelle relazioni fra l’Ilva ormai privata, Sindacati, Istituzioni, associazioni da-toriali e centri di ricerca continuano ad essere attinti utili riferimenti per il perseguimento di uno sviluppo socialmente condiviso ed ecosostenibile che è la nuo-va difficile sfida in cui ormai da tempo è impegnata l’area industriale tarantina nello scenario affascinan-te e complesso della globalizzazione.

Dopo la privatizzazione: le nuove relazioni in-dustriali con la proprietà privata, il grande ri-cambio generazionale degli addetti e il passag-gio dalla conflittualità alla condivisione degli obiettivi di rilancio.

Al momento della privatizzazione (maggio 1995) lo stabilimento impiegava 11.796 persone dirette, cui si affiancavano circa 3.000 addetti nelle attività indotte. Ma a partire dal luglio del 1997 l’applica-zione della normativa sui rischi derivanti dall’espo-sizione all’amianto avrebbe dato inizio ad uno spet-

tacolare turn over che sino al dicembre del 2005 ha comportato il prepensionamento complessivo di 7.800 unità e un profondo ricambio generazionale del personale, destinato a condizionarne fortemente competenze e cultura aziendale.

La grande fabbrica – che a fine 2008 occupa-va 12.853 persone con poco più di 5.000 nelle at-tività indotte, a loro volta variabili a seconda delle necessità dell’azienda committente – genera una ricaduta economica sul territorio fra salari corri-sposti, approvvigionamenti, pagamento di tributi e acquisto di servizi vari, pari a circa il 75% del pil della provincia di Taranto e al 20% di quello dell’in-tera Puglia: inoltre, l’export siderurgico dell’area è da anni ormai la prima voce in valore delle vendite all’estero della regione.

L’incremento di occupati, almeno nei primi anni successivi al ’95, rappresentò non solo il risultato della stabilizzazione e dello sviluppo degli assetti industriali dello stabilimento, ma anche l’esito di una politica condotta dalla nuova proprietà che, raccogliendo forti sollecitazioni delle organizzazioni sindacali, ampliava le attività dirette dell’Ilva, prima svolte da molte aziende dell’indotto, con l’assun-zione dei loro addetti ed aumentandone così la ga-ranzia occupazionale. Com’era prevedibile, i diversi criteri gestionali dell’impresa privata – rispetto alle prassi consolidate di quella pubblica – generarono inevitabilmente, nella complessa fase di transizio-ne e di ‘adattamento’delle vecchie e nuove leve di operai alle mutate modalità di esercizio della fab-brica, prolungate tensioni nelle relazioni industriali, anche se poi nel corso degli anni esse sono venute evolvendosi positivamente, proprio a seguito del grande ricambio della forza lavoro, con l’ingres-so – in sostituzione dei quadri operai e dei tecnici con mature esperienze sindacali e forte coscienza di classe – di molte migliaia di giovani con titoli di studio anche più elevati, ma spesso privi, com’era naturale, di esperienza rivendicativa.

Ma già dalla prima metà degli anni Duemila il serrato confronto azienda-rappresentanze sindacali di fabbrica – alle quali comunque venivano iscri-vendosi i neoassunti, sia pure aderendo ai singoli Sindacati in proporzioni e con motivazioni molto diverse da quelle delle generazioni di dipendenti che li avevano preceduti – si è istituzionalizzato per risolvere soprattutto i problemi connessi al miglioramento delle condizioni di sicurezza e am-bientali all’interno del sito. È maturata inoltre la consapevolezza, comune a direzione aziendale e

sindacati, che uno stabilimento di quelle dimensio-ni – restituito dal Gruppo Riva ad una piena capaci-tà competitiva con altri in esercizio in Europa e nel mondo – risulta efficacemente gestibile, pur nella dialettica delle varie posizioni, solo con la condivi-sione di fondo tra proprietà, management e mae-stranze dei target posti alla base del suo esercizio: e proprio le buone performance reddituali conse-guite nel tempo dal grande impianto – in un duris-simo scenario competitivo europeo e mondiale del settore siderurgico – hanno confermato la condivi-sione degli obiettivi di efficienza e produttività, il cui raggiungimento ha sinora garantito al territorio le positive ricadute economiche cui si è fatto cen-no in precedenza.

E tale confronto dialettico ma costruttivo si sta rivelando ancor più utile e necessario in una pesante congiuntura economica come quella avvia-tasi dall’ultimo trimestre del 2008, da quando cioè, per la prima volta dal maggio 1995, la fabbrica ha conosciuto il massiccio ricorso alla cassa integra-zione guadagni ordinaria e straordinaria per alcune migliaia dei suoi addetti.

I grandi investimenti dopo la privatizzazione per potenziare gli impianti, adeguarvi i sistemi di sicurezza e contenerne l’impatto ambientale sul territorio.

Lo stabilimento tarantino ha una capacità pro-duttiva ufficiale, riconosciuta dalla Unione Euro-pea, di 11,5 milioni di tonnellate di acciaio grezzo all’anno.

Prima della privatizzazione, l’impianto solo per brevi periodi aveva raggiunto picchi di circa 8,5 mi-lioni di tonnellate/anno, utilizzando così parzialmente le capacità a sua disposizione, ed operando in gran parte come fornitore di prodotti intermedi per altri trasformatori pubblici e privati.

Dopo l’acquisizione del controllo da parte del Gruppo Riva – oggi il primo produttore di acciaio in Italia, quarto nell’Unione Europea e decimo nel mon-do – sono stati realizzati dal 1996 e sino alla fine del 2009, piani di riassetto e sviluppo impiantistico con investimenti per oltre 4 miliardi di euro, totalmente autofinanziati – corrispondenti al 74% di quelli rea-lizzati nello stesso periodo in tutti gli stabilimenti del Gruppo – e finalizzati ai seguenti obiettivi:- miglioramenti tecnologici per una più adeguata

utilizzazione delle capacità installate. Si è perse-guito infatti l’obiettivo fondamentale di portare le produzioni dello stabilimento in linea con le

Page 46: Numero 6/2009

46 | DOSSIER |sue potenzialità, aumentandone i volumi per una più elevata redditività di esercizio, e facendone in tal modo una fabbrica sempre più capace di confrontarsi con altri competitor internaziona-li;

- verticalizzazione di parte delle produzioni con beni a più alto valore aggiunto (linee di rivesti-mento per elettrozincati e per zincati a immer-sione). Tale obiettivo è divenuto prioritario per conquistare e conservare posizioni di preminen-za nei settori qualitativamente più avanzati del mercato siderurgico mondiale, sia per tecnologia di prodotto che per servizio ai clienti;

- salvaguardia della salute dei dipendenti con il progressivo miglioramento delle condizioni di sicurezza – in un sito che ha presentato elevati livelli di incidentalità, anche a causa del mas-siccio turn-over del personale – con l’adozione di sistemi sempre più avanzati di prevenzione e protezione e di misure antinfortunistiche, con-formi agli standard internazionali di riferimen-to. L’adozione di tali sistemi di sicurezza è stata estesa anche alle imprese terze operanti nello stabilimento e, nel caso di gravi inadempienze, si è giunti anche all’espulsione delle aziende che se ne erano rese responsabili3;

- deciso recupero di standard ecologici allineati e in alcuni casi superiori alle disposizioni delle nor-mative vigenti. Il miglioramento delle condizioni ambientali all’interno e all’esterno della fabbrica, raccogliendo le proposte sindacali e le crescenti sollecitazioni del territorio, è stato e rappresen-ta tuttora l’impegno prevalente dell’azienda per adeguare il più possibile gli impianti alle migliori tecnologie esistenti4.Dopo la privatizzazione, infatti, il Gruppo acqui-

rente si è trovato nella necessità di affrontare ra-dicalmente una situazione che presentava rilevanti carenze, con un piano di investimenti ambientali, che, tra il 1995 e il 2008, ha consuntivato spese per 907,5 milioni di euro, pari quasi al 23% del totale in-vestito su Taranto.

La politica di interventi seguita negli ultimi anni per limitare l’impatto ambientale si è così indirizzata verso la realizzazione di impianti in linea con le Best Available Techniques-BAT, ovvero le migliori tecniche

3 ILVA, Rapporto ambiente e sicurezza 2009, Taranto 2009, pp. 89-115.

4 Ivi, pp. 23-86.

disponibili. E proprio in accordo alle Linee guida BAT emanate con decreto ministeriale, l’azienda ha defi-nito, attuandolo progressivamente, un grande piano di interventi per la prevenzione integrata dell’inqui-namento mirante alla sistematica riduzione: a) delle emissioni in atmosfera; b) delle emissioni solide (re-sidui, sottoprodotti e rifiuti); c) del carico inquinante nelle acque di scarico; d) delle sostanze pericolose (amianto e pcb). Elementi qualificanti di tali interventi sono stati, fra gli altri, i seguenti:- nuovo sistema di desolforazione dei gas di co-

keria che ha radicalmente ridotto le emissioni di ossidi di zolfo dai camini;

- interventi di ristrutturazione e miglioramento delle batterie dei forni a coke, tesi alla minimiz-zazione delle loro emissioni globali, con investi-menti pari al 46% del totale di quelli realizzati nell’intero sito in campo ecologico ed ambien-tale;

- adozione di un avanzato sistema di depolvera-zione dei fumi con nuovi elettrofiItri al camino dell’impianto di agglomerazione;

- drastico contenimento delle emissioni polverose dei parchi primari;

- attività di bonifica dell’amianto e di sostituzione dei trasformatori in apirolio, in conformità alla normativa vigente;

- installazione di una rete di monitoraggio all’esterno e all’interno dello stabilimento in via di ulteriore potenziamento;

- realizzazione di nuove discariche 2 B e 2 C nel perimetro della fabbrica;

- costruzione di un impianto per la produzione di urea, il cui impiego nel processo di produzione consente di abbattere le emissioni di diossina nei limiti fissati da una legge della Regione Pu-glia del 2008.Sono state in tal modo definite e perseguite

politiche di risanamento ambientale, che, peraltro, le dimensioni e la tipologia dei macchinari – non-ché l’oggettiva trascuratezza dei problemi emersi registratasi nel quinquennio precedente la privatiz-zazione – hanno reso attuabile in un tempo tecnico non breve, con una spesa sino ad ora consuntivata di 907,5 milioni di euro. Il Gruppo Riva, raccogliendo così le sollecitazioni di Istituzioni, Sindacati ed opi-nione pubblica locale per una soluzione dei problemi ambientali – che, peraltro, si erano protratti in parte irrisolti per oltre trent’anni prima della privatizzazio-ne, generando poi inevitabili e persistenti tensioni sociali – ha concertato con Governo ed Enti locali le priorità e la modulazione degli interventi necessari al miglioramento delle condizioni ambientali, nella consapevolezza peraltro che le oggettive esigenze tecniche e temporali di approntamento delle misure previste, per essere efficaci, non possono prescindere dal rispetto delle migliori pratiche operative e delle più avanzate tecnologie oggi disponibili al mondo per stabilimenti di pari dimensione.

Una considerazione conclusivaOggi il sito siderurgico del capoluogo ioni-

co – grazie agli investimenti realizzati dal 1996 per i miglioramenti tecnologici, la sicurezza degli addetti e il contenimento del suo impatto sull’ecosistema provinciale – continua ad essere il maggiore e fra i più competitivi a ciclo integrale a livello europeo, uno dei più imponenti a livello mondiale e la più grande fabbrica manifatturiera italiana per numero di addetti diretti, superando quelle del Gruppo Fiat a Mirafiori. Il Mezzogiorno e l’intero Paese, pertanto, potranno continuare a giovarsi di una risorsa impiantistica strategica per la loro economia, grazie alla lungimi-ranza di coloro che si batterono perchè le Partecipa-zioni statali la insediassero a Taranto e all’impegno imprenditoriale del Gruppo Riva che dal maggio del 1995 ne ha ulteriormente valorizzato le capacità pro-duttive in logiche di ecostenibilità.

Page 47: Numero 6/2009
Page 48: Numero 6/2009

48

Euronotedi Andrea Pierucci

Il TraTTaTo dI lIsbona è In vIgore dal 1o dIcembre 2009

Il fatto di essere assai poco entusia-sti delle nomine ai vertici dell’Unione europea non dovrebbe nascondere un elemento positivo: finalmente il Trat-tato di Lisbona è entrato in vigore e le istituzioni e gli Stati membri sem-brano prenderlo sul serio ed anche avere una certa fretta ad assumere le decisioni necessarie al suo primo funzionamento. Salvo altre crisi (il Parlamento europeo lascerà passare senza difficoltà la nuova non fortissima Commissione?) siamo sulla via della nor-malizzazione istituzionale; l’Unione avrà così la possibilità di concentrarsi su una serie di questioni fondamentali che altrimenti rischiano di rendere ancora più difficile il nostro futuro, basti pensare alla crisi sociale che, per generale ammissione (da ultimo la Presidente Marcegaglia l’ul-timo dell’anno), è solo agli inizi.

Questo non c’impedisce di fare qualche riflessione sulle stesse no-mine. La nomina di Barroso ha avuto luogo in settembre, con una maggioranza parlamentare aleatoria per tutte le ragioni che dicevamo nel numero preceden-te di questa rivista. La sua principale debolezza consisteva nell’astensione del gruppo socialista (S e D) che creava una vera difficoltà all’Unione per i prossimi anni. La nomina di Herman Van Rompuy, primo ministro belga, a primo Presiden-te del Consiglio europeo non è stata una sorpresa. Si tratta di un personaggio della politica belga che è considerato da alcuni un “vecchio mediatore” e, da al-tri, un estremista fiammingo; da tutti è considerato piuttosto debole. La scelta dei governi certamente e, sospetto, del Presidente della Commissione, è stata quella di avere un Presidente debole o, più precisamente un “chairman” invece di un “President” (fuor di metafora: uno che presieda le riunioni e non … rom-pa). Non hanno torto: se nella terna vi sono troppe primedonne, i vari personaggi saranno più occupati a guardarsi in cagnesco che a lavorare; in questo senso la posizione espressa da Mario Monti non fa una grinza. Uomo ormai di esperien-za, il Presidente della Commissione, ma certo non famoso per i suoi grandi slanci politici, uomo di mediazione (alla meglio) il Presidente del Consiglio europeo, il personaggio forte ce l’aspettavamo tutti in politica estera. Ed ecco la Baronessa Catherine Ashton nominata super Mme PESC, rappresentante dell’Unione euro-pea per la politica estera, presidente del Consiglio affari esteri, vice presidente della Commissione, alla testa di 5.000 funzionari provenienti dalle istituzioni e dalle diplomazie nazionali. Uhm…Una persona di sicura esperienza europea, di alcuni mesi(!), senza base elettorale e conosciuta ai più solo da quando fu no-minata molto recentemente, in sostituzione di Mandelson, commissario al com-mercio internazionale. Difficile è stato anche il suo debutto il 2 dicembre davanti al Parlamento europeo (ma nella sessione del 16 dicembre secondo alcuni com-mentatori è andata anche peggio) che non è sembrato convinto del “carattere vago” (citazione della stampa specializzata) dei suoi interventi. Però non si può

mai dire: dei nani nazionali sono diventati bra-vi personaggi europei, dei giganti nazionali

sono diventati nani europei. Tuttavia ci si aspettava davvero

qualcosa di più, non foss’altro che un po’ di slancio da parte dei governi dopo l’incubo Lisbona, dopo una crisi che sta colpendo ferocemente i cittadini e mol-

ti lavoratori. Bah! Cerchiamo comunque qualche ragione di ottimismo. È vero che

in un sistema politico complesso come quel-lo europeo un solo “padrone” potrebbe essere

meglio di una cacofonia – che già gli Stati mem-bri producono ad ogni piè sospinto. È anche vero

che questo equilibrio favorisce, al livello esecutivo, la sola istituzione propriamente comunitaria e incaricata di

promuovere l’interesse ed il bene comune, la Commissione. È vero che il Parlamento eletto controlla meglio la Commissione

di altre strutture intergovernative: dunque non c’è solo da stracciarsi le vesti. Chi si contenta gode? No, credo che anche in questa situazione

sia bene ammettere la speranza; d’altra parte l’Europa ha sempre avuto paura delle sue decisioni, ha peccato di timidezza, ma, alla fine le cose sono andate meglio di quanto si temeva.

Ma la debolezza delle scelte si è fatta sentire immediatamente. La comuni-tà internazionale, non ha perso tempo per dare un paio di schiaffoni ad uno dei paesi membri fra i più restii ad avere una vera politica europea, la Gran Breta-gna, con l’esecuzione di un suo cittadino in Cina e con la minaccia di un “pugno” da parte del presidente iraniano. Ben più grave è invece la ripresa a tutto tondo della politica di potenza old style di Stati Uniti e Russia, i primi con l’incapacità di affrontare l’Afghanistan altrimenti che con la forza militare, la seconda annun-ciando un riarmo offensivo per far fronte all’(ex!) scudo spaziale americano.

all’orIzzonTe non c’è un nuovo TraTTaTo

L’ottimismo s’impone anche perchè oramai siamo su questo terreno e dob-biamo combattere le battaglie di questa Europa, almeno per un certo tempo. Abbiamo avuto un lungo periodo (oltre vent’anni) nel quale ci si poteva atten-dere una successiva riforma dei Trattati, forse risolutiva di difficoltà e contrad-dizioni. oggi, il Trattato di lisbona e gli atti giuridici e politici connessi non aprono una nuova stagione di riforme. Certo, sarebbe difficile imma-ginare oggi un altro incubo come quello dei referendum – di quei referendum, violati dai problemi nazionali, dal populismo o da interventi massicci di potenze straniere – dei Presidenti reticenti a titolo personale (ma si può?), dei tribunali, finalmente sempre, per fortuna, testimoni della legalità del Trattato. Si tratta di uno scenario nuovo. O meglio, si tratta del ritorno ad uno scenario nel quale lo slogan “tutto il Trattato, nient’altro che il Trattato” torna di moda. La differenza, come si diceva, risiede nel fatto che oggi siamo davanti ad un Trattato costituzio-nale, cioè ad un documento che ammette un continuo sviluppo nel quadro delle sue regole. Certo, non sono convinto che ci troviamo davanti ad un Trattato che non ha debolezze, limiti e incongruenze; di conseguenza, è evidente che entro un certo tempo si porrà seriamente il problema di un ulteriore riforma. Scaldia-

Page 49: Numero 6/2009

49mo i motori! Quel che mi pare certo è che non si tratta di un tema all’ordine del giorno durante l’attuale legislatura del Parlamento europeo.

Quattro grandi temi, a cominciare dalla politica esteral’ottimismo s’impone, a mio parere, anche perché il Trattato dev’es-

sere concretamente applicato. Si tratta, sempre a mio avviso, di quattro grandi temi che debbono essere affrontati e che, per la verità, cominciano ad essere affrontati con ben altra grinta. Il primo riguarda la politica estera e di sicurezza comune, al quale ho accenato. Riverremo su questo tema quando vi saranno elementi nuovi da discutere.

Lo spazio di libertà, sicurezza e giustiziaIl secondo, il programma “di stoccolma” discusso da Consiglio e Parla-

mento in novembre e dicembre e ripreso Consiglio europeo del 10 dicembre, apre scenari nuovi in materia di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, concretamente di politica di sicurezza, di asilo e d’immigrazione, peraltro rendendo omaggio al ruolo, interno ed internazionale, del Parlamento.

PIù dIrITTI Per unmodello socIale aggIornaTo

la Carta dei diritti, a mio parere la terza questione centrale per il futuro dell’Unione, generalmente nettamente più avanzata delle corrispondenti carte nazionali ed internazionali, dovrà essere messa in pratica. Molte delle sue dispo-sizioni hanno un carattere di diretta esigibilità, ma altre sono più “programmati-che”, nel senso che esigono un’azione concreta da parte delle istituzioni. Anche questo sarà un terreno di battaglia politica (speriamo!) importante. Abbiamo la possibilità di rivedere il sistema dei diritti ed aggiornarlo concretamente. Questo vale in generale (per esempio in materia di diritti al proprio corpo biologico), ma anche in materia di diritti economici e sociali. Diversamente da altri strumenti in questa materia, infatti, la Carta ha un notevole contenuto innovativo in questo settore. Insieme alla “clausola sociale” ed alle disposizioni in materia di servizi d’interesse generale, la Carta dovrebbe consentire di riesaminare il nostro modello sociale. A differenza dei “gridi selvaggi” di chi vorrebbe mettere fuo-ri gioco il nostro modello, ridurre la parte del PIL destinata alla solidarietà e, dunque, imbarbarire un po’ il nostro mondo, un esercizio di revisione, nel con-testo abbastanza rigido di un sistema di garanzie del tipo di quelle offerte dalla Carta, è possibile attraverso un dibattito più sereno. Bisognerà che le parti so-ciali, padroni e sindacati, facciano un grande sforzo di modernità, partendo dai bisogni e dai diritti dei cittadini, piuttosto che dai timori di perdere qualcosa di acquisito o dalla speranza di “far fuori” lo Stato e le relative tasse. La lezione ci viene dall’attuale azione per superare la crisi. Gli ammortizzatori sociali si sono rivelati non solo socialmente necessari, ma anche economicamente preziosi per rallentare e ridurre gli effetti della crisi. Senza di essi, il calo dei consumi sarebbe stato ben più drammatico e la crisi economica ben più profonda.

Per inciso, la stessa Unione sembra essere stata scossa dalla crisi per altro verso, avendo – meglio tardi che mai – approvato la creazione di tre agenzie di controllo del credito.

I cittadini nel cuore delle istituzioni: una speranzaInfine, abbiamo un quarto aspetto molto importante e, questa volta, di sicuro

interesse anche per il pubblico: la riforma istituzionale. Non ne farò un esa-

me completo: troppo lungo e complesso e ancora da approfondire. Mi limiterò a citare due cose. La prima è il rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali, che, senza ledere le prerogative del Parlamento europeo (in genere, risulta as-sai rafforzato), potranno dire la loro, anche in contrasto con i rispettivi governi, nel corso delle procedure legislative. La seconda è lo spazio riconosciuto alla società civile, sia in fase di consultazione che in fase di proposta legislativa. In sostanza si dovrebbe aprire, finalmente, il dibattito sulle iniziative europee non lasciandolo più chiuso nel tradizionale circuito istituzionale. È una risposta, cer-to, all’allontanamento dei cittadini dall’Europa (e dalla politica in generale), ma è anche uno strumento di efficacia normativa importante. Si tratta ora di vedere se i diretti interessati sapranno farne uso, da un lato, e se la politica non si chiu-derà a riccio per escludere queste “interferenze”. I soggetti attivi, per quel che riguarda la società civile sono quelli tradizionali, sindacati, associazioni, ONG e quelli nuovi, quali le reti virtuali, e, sul piano istituzionale il Comitato economi-co e sociale europeo che è il naturale punto di riferimento. Si badi, per evitare malintesi, il sistema europeo resta fondato, come dice lo stesso Trattato, sulla democrazia rappresentativa; tuttavia l’apertura alla “democrazia partecipativa” è una novità di grande rilievo.

Per Il mezzogIorno: cIascuno è arTefIce della forTuna sua

Vorrei brevemente, ma spero che ci sarà modo di tornarci sopra, sottoli-neare che questo Trattato non è neutro neanche per quel che riguarda le sorti del mezzogiorno italiano e, in genere, delle aree europee che hanno bisogno di una promozione del proprio sviluppo economico e sociale. Sono soprattutto le disposizioni istituzionali che concernono queste aree. È abbastanza chiaro che l’Europa, in materia d’interventi regionali si troverà a gestire la penuria: alcuni dei nuovi membri premono addirittura per garantirsi l’intera posta, escludendo i 15 vecchi membri dagli aiuti regionali. Con Croazia, Serbia, Macedonia, Islanda, …. Turchia sarà ancora più complicato. È abbastanza chiaro che chi non sarà sul “mercato” del negoziato in modo efficiente, sarà fuori gioco. Non basta l’impe-gno dell’Italia in quanto tale. Le istituzioni del mezzogiorno e la stessa società civile dovranno essere sul terreno e svolgere una battaglia. Vi sono strumenti nuovi per farlo: è un treno che non può essere perso.

un Programma Per la commIssIone euroPea

Nei prossimi mesi, forse il 1° febbraio, entrerà in funzione la nuova Commis-sione. Il Presidente è noto, Barroso, così come i membri che saranno proposti al Parlamento; di essi si conosce anche il futuro portafoglio che Barroso vuole attribuire a ciascuno di loro. Molti PPE, molte donne (9), personaggi di spicco e personaggi secondari sono ben bene mischiati nel nuovo esecutivo europeo. È di nuovo questione di dire se si tratta di una Commissione debole o di una Commis-sione forte: davvero un giudizio è prematuro, anche se l’apparenza non è di grande forza. Qualcosa di più lo si capirà dopo che in gennaio i vari Commissari (candida-ti) saranno stati esaminati nelle audizioni parlamentari; quella procedura, per intendersi, che fece saltare la candidatura Buttiglione. Nulla è scontato; il Parla-mento potrebbe anche pregare Barroso di cambiarne qualcuno. Vedremo.

Page 50: Numero 6/2009

50Quel che mi sembra più interessante è segnalare che il Presidente Barroso

e la sua Commissione dovranno presentare degli orientamenti programma-tici di legislatura. La questione è in piedi da luglio, allorché Barroso presentò al Parlamento un documento, forte nelle premesse e strettamente senza interesse nelle conseguenze concrete. Su questa base si è avuto un si parlamentare, come si ricorderà, con l’astensione dei socialisti. Nel frattempo, è iniziata la discussione sulla futura strategia di lisbona, la strategia economico sociale per l’Europa che ha avuto 10 anni d’incerti risultati. A questo proposito si è espresso il Co-mitato economico e sociale europeo con alcune proposte di rinnovamento della strategia che vanno nel senso, fra l’altro, di rafforzarne le disposizioni istituzio-nali: è chiaro che non è possibile fare una politica economica e sociale lasciando ad ogni governo la possibilità di non rispettare gli accordi presi in sede europea. Il nuovo Presidente del Consiglio europeo, sulla stessa lunghezza d’onda, ha an-nunciato per febbraio un Consiglio europeo straordinario sulla governance eco-nomica. D’altra parte, il Comitato ha messo l’accento sul fatto che, almeno per i prossimi cinque anni, la strategia di sviluppo economico e sociale e quella per uscire dalla crisi coincidono. Il nuovo documento di Barroso “Europa 2020” va in questo senso e accoglie anche l’insistenza del Comitato circa l’economia verde (Copenhagen, anche con un risultato assai poco brillante, oblige) come motore della ripresa; sul sociale, ancora una volta, scommette sulla “flessisiscurezza” una specie di parolina magica per permettere di licenziare senza scrupoli, tanto il sistema garantisce (più o meno) un reddito e assicura uno sforzo di reimpiego. Il dubbio è fra il Paradiso e l’Inferno. Se davvero dovesse funzionare in tutti i pa-esi, forse sarebbe una gran bella cosa. L’alternativa è purtroppo drammatica: non vorrei che la conclusione fosse semplicemente la fine delle garanzie dei lavoratori e la mano libera delle imprese di agire in uno spazio di totale libertà (solo per le imprese però). Quanto al documento stesso molti criticano il fatto che, benché formalmente aperto ad una consultazione pubblica rischia di non provocare un vero dibattito (Rete europea contro la povertà, in particolare).

Anche qui la parola chiave è vedremo. A gennaio si discuterà in Parlamento un primo discorso programmatico del Presidente e poi la Commissione formulerà un programma. Riuscirà il Presidente ad assicurarsi la maggioranza necessaria (dunque anche con i socialisti), oppure resterà ostaggio della destra, compresa la destra fascista (scusate, non si dice!) o antieuropea? Una previsione non è facile. Vista però la grande propensione del gruppo socialista a cambiar ban-diera (dopo aver acclamato D’Alema, al primo stormir di fronde americano ha acclamato con lo stesso calore un altro candidato al posto della politica estera), Barroso ha buone possibilità di vincere. In fondo, forse la miglior cosa è chiudere anche questa vicenda istituzionale ed avere finalmente una nuova Commissione non condannata a gestire gli affari correnti.

Pm: Il 2010 è l’anno euroPeo conTro la PoverTà

Purtroppo l’Europa è colpita da un flagello aggravato dalla crisi: un aumento sensibile della povertà. Non si tratta tanto o solo della povertà relativa (disoccu-pazione, basso salario) ma di una sorta di povertà strutturale, di totale o quasi mancanza di reddito, di emarginazione, di miseria anche morale che colpisce ormai un gran numero di europei. Basta guardarsi attorno nelle nostre città e si vedono grandi quantità di mendicanti o di persone ridotte ad una vita assai grama. Mol-te di esse vengono da ambienti già di per sé sfavoriti o maltrattati dalla società, quali immigrati e Rrom. La crisi ha nettamente aggravato questa situazione. Un

“anno europeo” non risolve il problema, certo, ma almeno pone il problema sotto gli occhi di tutti. E mi sembra un’ottima cosa. È impressionante notare come, specie nelle elezioni locali, i problemi della povertà siano sovente trattati come problemi di sicurezza (per chi non è povero o è meno povero) e raramente come problemi da affrontare e risolvere per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei poveri. Insomma si torna all’idea povero=cattivo; il problema vero è dunque quello di ga-rantire i buoni borghesi contro chi ha poco o nulla e che, data la loro strutturale cattiveria, sono essenzialmente pericolosi. Caricatura della realtà?

l’acqua, InfIne

La notizia è italiana. Con un Decreto legge si permette, grosso modo, la pri-vatizzazione dell’acqua. In sostanza, i comuni sono ben bene imbrigliati nelle loro scelte di gestione dell’acqua. La giustificazione del decreto e della necessità ed urgenza (?) vengono legate all’attuazione di direttive europee. Come fa notare Al-berto Lucarelli non sembra che sia proprio così; anzi, sul piano sterttamente giuri-dico, avanza, secondo me giustamente, addirittura dei rilievi di legittimità rispetto ad una delle direttive invocate dal medesimo decreto. Da un altro punto di vista, invece, si capisce l’urgenza di prendere una misura che sembra proprio andare a vantaggio della privatizzazione (alla quale aspirano, in particolare, grandi imprese francesi), prima dell’entratta in vigore del Trattato di Lisbona. Quest’ultimo docu-mento rovescia, infati, o comunque modifica radicalmente la relazione fra il diritto della concorrenza ed il diritto delle autorità locali di gestire i servizi d’interesse ge-nerale, almeno quelli nei quali il valore economico non è l’aspetto prevalente. Nel Trattato in vigore fino al 30 novembre la concorrenza era uno dei principi del Trat-tato, mentre i servizi generali erano si e no citati en passant. Nel nuovo Trattato, quello in vigore attualmente, sia la concorrenza che i servizi d’interesse generale sono affrontati in due protocolli di identico valore giuridico e politico. In particolare, il Trattato afferma niente di meno che dei “valori comuni dell’Unione” nel campo dei servizi d’interesse generale. Giova citarli. Il primo si riferisce a “il ruolo essenziale e l’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali (da notare questo specifico riferimento ai poteri locali) di fornire, commissionare e organiz-zare servizi di interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze dei cittadini”. Il secondo riguarda le differenze di esigenze e preferenze degli utenti, specie in relazione a “situazioni geografiche, sociali e culturali diverse”. Infine, il Trattato sembra esigere, a titolo dei valori comuni, “un alto livello di qualità, sicurez-za e accessibilità economica, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utente”. Resta poi la competenza degli Stati a fornire, commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico. Ora, fare una dettagliata analisi della relazione fra il protocollo sulla concorrenza ed il protocollo sui servizi d’interesse generale richiederebbe ben altro approfondimento. Tuttavia è assolutamente innegabile che cambi, così come aveva detto il promoto-re del protocollo Sarkozy (noto anarchico anche lui ?), il rapporto fra concorrenza e fornitura di servizi pubblici a vantaggio di una maggiore libertà delle autorità lo-cali in materia e, finalmente, dei diritti e delle “preferenze” degli utenti. Invece di fare decreti che cerchino di evitare le nuove disposizioni del Trattato, si potrebbe applicare a questo settore il concetto di democrazia partecipativa contenuto nel Trattato stesso. Più che sempre, i Trattati dell’Unione non “fanno”, ma aprono spazi di lotta politica sovente molto più avanzati di quello che desidererebbero certi poli-tici e certi gruppi economici. Chissà se i nostri politici (quelli che attualmente non sostengono questo governo, PD in testa) ci penseranno o si limiteranno a dire che Berlusconi è cattivo, il che può essere anche vero nonostante il lancio del Duomo di Milano, ma gli garantisce l’eternizzazione del potere.

Page 51: Numero 6/2009

Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218

Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878

Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMEZIA TERME

Domus Luce Corso Italia, 74 COSENZA

Godel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331

Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1‑2 ROMA – Tf. 066797460

Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – BRUxELLES

Libreria La Conchiglia Via Le Botteghe 12 80073 CAPRI

Libreria Cues Via Ponte Don Melillo Atrio Facoltà Ingegneria FISCIANO (Sa)

C/o Polo delle Scienze e delle Tecnologie – Loc. Montesantangelo NAPOLI

H3g – Angelo Schinaia C/o Olivetti Ricerca SS 271 Contrada La Marchesa BITRITTO (Ba)

Libreria Colonnese Via S. Pietro a Majella, 32‑33 – 80138 Napoli – Tel. +39081459858

Le Associazioni, le biblioteche, gli Istituti:Ist. Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652

Associazione N:EA Via M. Schipa, 105‑115 NAPOLI – Tf. 081660606

Fondazione Mezzogiorno Europa Via R. De Cesare 31 NAPOLI – Tf. +390812471196

Archivio Di Stato Di Napoli Via Grande Archivio, 5 NAPOLI

Archivio Di Stato Di Salerno P.zza Abate Conforti, 7 SALERNO

Biblioteca Universitaria Via G. Palladino, 39 NAPOLI

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Piazza Cavalleggeri 1 – Firenze

Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III” P.zza del Plebiscito Palazzo Reale – NAPOLI

Mezzogiorno Europa

Periodico della Fondazione

Mezzogiorno Europa – onlus

N. 6 – Anno X – Novembre/dicembre 2009

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

Via R. De Cesare 31 – Napolitel. +39 081.2471196 fax +39 081.2471168

mail‑box: [email protected]

Direttore responsabileAndreA GeremiccA

Art directorLuciAno Pennino

Comitato di redazioneosvALdo cAmmArotA

cetti cAPuAno

LuisA Pezone

mArco PLutino

ivAno russo

eirene sbrizioLo

mAnueLA siAno

Coordinamento e segreteriaottAviA beneduce

uLiAnA GuArnAcciA

Consulenti scientificiserGio bertoLissi, WAndA d’A Les sio, mAriAno d’Antonio, vittorio de cesAre, biAGio de GiovAnni, enzo Giustino, GiL berto A. mArseLLi, GustAvo minervini, mAssimo rosi, AdriAno rossi, FuLvio tessitore, serGio veLLAnte

Stampa: Le.g.ma. (Na) – Tel. +39 081.7411201

La rivista la puoi trovare presso

Come abbonarsiil costo dell’abbonamento annuale è di € 100,00 (sei numeri); il costo di una copia è di € 20,00.

la sottoscrizione di un abbonamento può avvenire: direttamente presso la sede della fondazione, previo appuntamento;oppure inviando i propri dati – insieme al recapito al quale si desidera ricevere la rivista e alla copia della ricevuta del versamento –

attraverso il modulo online disponibile sul sito www.mezzogiornoeuropa.it, o via fax al numero +390812471168.La quota può essere versata:

sul c.c.p. n. 34626689 intestato a: Centro di iniziativa Mezzogiorno europa oNlUs; oppure tramite bonifico intestato a fondazione Centro di iniziativa Mezzogiorno europa oNlUs presso Banca Prossima via Manzoni ang. Via Verdi, 20121 MilaNo

filiale 5000 c/c 10008974 IBAN: IT03 S033 5901 6001 0000 0008 974 BIC: BCITITMXL’ABBONAMENTO DECORRE DAL NUMERO SUCCESSIVO ALLA DATA DI PAGAMENTO

Page 52: Numero 6/2009

GRUPPO SISIsocietà internazionale sviluppo investimento

studio di consulenza per il supporto all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese

Tel. +39 081 19723693 www.russia-bielorussia.com

“Accompagnamo la tua impresain Russia”