Numero 6/2005

48
Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico del Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa Novembre/Dicembre 2005 Anno VI Numero 6 Direttore ANDREA GEREMICCA Art director LUCIANO PENNINO EURONOTES pag. 42 Napoli, la sua storia, le sue prospettive Gli interventi di PIERO CRAVERI, GUIDO TROMBETTI, MARIANO D’ ANTONIO, AURELIO LEPRE, MASSIMO LO CICERO, FULVIO TESSITORE, ANDREA GEREMICCA nel dibattito aperto da «Il Mattino» sulla “conversarsione” di ROSARIO VILLARI col direttore di Mezzogiorno Europa. In appendice Andrea Geremicca Giuseppe Galasso Benedetto Gravagnuolo Massimo Marrelli Rosa Russo Jervolino Biagio de Giovanni Antonio Bassolino Paolo Macry Umberto Ranieri Giorgio Napolitano NAPOLI, PROBLEMI E PROSPETTIVE Atti del Convegno promosso da in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Palazzo Serra di Cassano • 21 Novembre 2005

description

Rivista Mezzogiorno Europa

Transcript of Numero 6/2005

Page 1: Numero 6/2005

Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico del Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa • Novembre/Dicembre 2005 • Anno VI • Numero 6 • Direttore ANDREA GEREMICCA – Art director LUCIANO PENNINO

EURONOTES pag. 42

Napoli, la sua storia, le sue prospettiveGli interventi di PIERO CRAVERI, GUIDO TROMBETTI, MARIANO D’ ANTONIO, AURELIO LEPRE,

MASSIMO LO CICERO, FULVIO TESSITORE, ANDREA GEREMICCA nel dibattito aperto da «Il Mattino»sulla “conversarsione” di ROSARIO VILLARI col direttore di Mezzogiorno Europa.

In appendice

Andrea GeremiccaGiuseppe Galasso

Benedetto GravagnuoloMassimo Marrelli

Rosa Russo JervolinoBiagio de GiovanniAntonio Bassolino

Paolo MacryUmberto Ranieri

Giorgio Napolitano

NAPOLI,

PROBLEMI

E PROSPETTIVE

Atti del Convegno promosso da

in collaborazione conl’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

Palazzo Serra di Cassano • 21 Novembre 2005

Page 2: Numero 6/2005
Page 3: Numero 6/2005

CONVEGNO

L’appuntamento di oggi non vuole essere un convegno programmatico, nel quale assemblare i diversi tasselli di un ‘dise-gno generale’. Vuole proporre una rifles-

sione del tutto aperta su alcuni aspetti della realtà napoletana. Due in particolare: l’assetto urbano, la qualità della vita a Napoli e nell’area metropolitana (sarà trattato nelle relazioni di Benedetto Grava-gnuolo), e il sistema economico, i problemi dello sviluppo, dell’occupazione, della nuova produttività di quest’area (ne parlerà Massimo Marrelli). In un duplice contesto: storico-politico, e dunque Napoli nella nuova questione meridionale e nella realtà in movimento del Mezzogiorno e dell’Europa (ascol-teremo la relazione del Prof. Giuseppe Galasso), e socio-culturale, a cominciare dal rapporto tra società, politica ed istituzioni (il tema sarà affrontato da Paolo Macry), all’interno del quale uno degli aspetti salienti è costituito dal rappor-to tra intellettuali e i st it uzion i. Che tuttavia non riassume ed esauri-sce l’intera que st io -ne, come invece è sembra-to emer-gere nel dibattito, pure in-teressan-te, apparso sulla stam-pa di questi giorni. Perché la questione del rapporto società-istituzioni-politica, e la questione della for-mazione delle classi dirigenti

è un tema assai più complesso (ascolteremo in pro-posito Biagio de Giovanni). Riflettere su questi temi significa, in definitiva, riflettere sulle condizioni della democrazia a Napoli, sullo stato del dibattito politico e culturale nella nostra realtà, sulla parteci-pazione della società alle decisioni delle istituzioni, al governo della città.

Ecco, questo è ‘il contesto’ entro il quale ci pro-poniamo di affrontare le singole ‘questioni’ oggetto della relazioni.

La presenza del Presidente della Giunta Regiona-le Antonio Bassolino, del sindaco Rosa Russo Jervo-lino e di Giorgio Napolitano – al quale rinnoviamo le nostre affettuose congratulazioni e i nostri auguri di buon lavoro per la recente nomina di senatore a

vita – contribuiscono a dare alla discussione un rilievo ed un’importanza partico-

lari sotto il profilo istituzionale, culturale e politico, perché

le cose che cerchiamo di dire hanno senso

se diventano oc-casione e testi-

monianza di scambio, di

confronto, d i r e c i -proco ri-conosci-m e n t o (e, per-ché non d i r lo?, d i r e -c iproco

affetto e stima) tra

p e r s o n e i m p e g n a -

te con ruol i diversi su un

obiettivo comune: il bene della città,

gli interessi della col-lettività.

Andrea Geremicca

OCCORRONO AN

ALISI VERE

NON DISCORSI

CONSOLATORI

[3]

Page 4: Numero 6/2005

[4]

Sono certo che i relatori non me ne vorranno, se rendo noto che l’impostazione e i conte-nuti di questa discussione hanno avuto una ‘gestazione’ non breve e non sempre facile,

attraverso più incontri per vedere se ciascuno, nel proprio campo, nella propria autonomia e a partire dalle proprie posizioni, poteva dare l’idea dello spirito che ci ha messo assieme e della volontà che ci anima, di tentare un’analisi non rituale, non consolatoria, ma vera, responsabile, trasparente, anche se talvolta con qualche asprezza. La città attraversa una fase critica, difficile, complessa, ma vogliamo evitare giudizi radicali, estremi, che possono sfociare nella cattiva propaganda. Non è vero che ‘va tutto male’, e non è vero che ‘va tutto bene’. Il tempo non si è fermato, non siamo più ai primi anni Novanta, la carica propulsiva degli inizi delle Giunte di centro sinistra si è in parte esaurita e una nuova fase si prospetta: necessaria, possibile, ricca di opportunità. I problemi sono tanti, ma sono anche tante le forze in campo, disponibili ad un impegno civile negli interessi della città. Molte scelte vanno portate avanti con rinnovato slancio e molte altre vanno riviste con spirito aperto, altrimenti non si esce dallo stallo.

Come avrete notato, non è prevista una relazione sulla sicurezza, la legalità, la lotta alla criminalità organizzata. Non si tratta di sottovalutazione, ma di una scelta. Convinti – e non sarebbe neppure il caso di dirlo – che la questione riveste una importanza primaria, speciale e specifica, abbiamo deciso di promuovere a breve sul tema un semi-nario aperto, con la partecipazione di esperti e operatori sul campo che si confronteranno sul-le esperienze in corso da noi e in Europa e sulle politiche necessarie – per-ché di questo si tratta, e non di interventi più o meno episodici – per battere la camorra, l’usura, la violenza diffusa. La questione sarà comunque presente già stasera, quando le re-lazioni affronteranno i problemi del ter-ritorio, del-le periferie, della quali-ficazione ur-bana, del lavoro e dello sviluppo.

Page 5: Numero 6/2005

Che Napoli formi una questione a sé nel-l’ambito della questione meridionale non è una scoperta o un’idea recente. Se n’era già accorto, più di cento anni fa, il Nitti, che nel

1903 scrisse il suo Napoli e la questione meridionale. Il fatto che a un secolo da Nitti si possa riproporre senza sorpresa il tema nella stessa formulazione da lui data ha un suo ovvio ed evidente valore, e non semplifica il problema. Ma si può parlare di questo problema allo stesso modo che un secolo fa?

Conviene fissare intanto alcuni punti relativi al senso complessivo degli sviluppi della Napoli con-temporanea. Possiamo, ad esempio, affermare che Napoli ha perduto dopo la seconda guerra mondiale gli ultimi resti della sua plurisecolare centralità e dei suoi privilegi nel Mezzogiorno, e non ha riacquistato una fisionomia effettivamente sostitutiva di quella perduta; un tempo vi si concentrava una gran parte dei redditi pubblici e privati e delle attività produttive, finanziarie e di scambio del Mezzogiorno, mentre oggi essa rappresenta una quota alquanto minore della ricchezza prodotta e fruita nel Mezzogiorno; i ripetuti tentativi di industrializzare la città non hanno conseguito risultati decisivi, e le attività tradizionali hanno continuato a costituire gli assi portanti del-l’economia cittadina; l’antica struttura creditizia della città è finita col passare in mani aliene, accentuando il fenomeno della mancata utilizzazione in loco del-le risorse finanziarie del Sud; di molto si è ridotta anche la parte della città nella vita intellettuale del Mezzogiorno, si è ridotto il ruolo extra-provinciale dei suoi giornali, né vi è maturata una casa editrice di dimensioni veramente nazionali; la fruizione culturale vi è rimasta limitata, ed elevato è rimasto il tasso di evasione dell’obbligo scolastico; sul piano urbanistico, distrutto o danneggiato un prezioso pa-trimonio paesistico e storico-urbano, non si è riusciti a ridisegnare la città secondo la sua reale fisionomia attuale e le sue più certe e auspicabili esigenze; nella trasformazione da metropoli del Regno a città italiana non si è avuta la città metropolitana che ci si poteva aspettare, né una vera e propria città regionale, come è invece accaduto per altre ex-capitali italiane; si è trasformata e ingigantita la malavita organizzata, che ha riadattato, ai fini del suo crescente potere, le stesse sue vecchie collusioni con la società “per bene” e con varii settori delle strutture pubbliche.

Queste indicazioni portano a credere che, mentre

fino a Nitti si poteva ancora supporre che da una solu-zione dei problemi del Mezzogiorno sarebbe derivato più o meno automaticamente qualcosa di analogo per i problemi di Napoli, oggi non lo si può più dire.

Dunque, tutto negativo l’ultimo secolo o seco-lo e mezzo di storia della città? Il buon sen-so basta a escludere una tale affermazione. Gli elementi che si possono addurre sono

molteplici, e tali da comporre una serie di punti di grande interesse. Mi asterrò dall’indicarli in dettaglio, ma mi pare che, se ci applichiamo a dare una formu-lazione definita del positivo di Napoli in tale periodo, possiamo agevolmente constatare che il positivo non è ravvisabile e formulabile con altrettanta chiarezza del negativo. Gli elementi di criticità appaiono essersi accumulati con forte tendenza sinergica, mentre gli elementi positivi non appaiono congiunti che per eccezione nella loro incidenza e nel loro significato: non hanno formato e non formano, come suol dirsi, sistema, e ben lo si vede dall’affanno con cui la città vive ormai da troppo tempo la sua storia.

In ogni caso, il venir meno di un rapporto pieno tra “questione napoletana” e “questione meridionale” non è un punto da poter in alcun modo ignorare, ma non è neppure vincolante fino ad escludere qualsiasi relazione tra le due “questioni”. In altri termini, la Napoli di oggi molto più di quella di ieri sembra stare al tempo stesso dentro e fuori del Mezzogiorno: dentro, perché l’appartenenza all’area meridionale l’ha vincolata da sempre e la vincola tuttora alla stessa condizione generale; fuori, perché alle antiche speci-ficità di Napoli, per cui già Nitti parlava di “Napoli e la questione meridionale”, se ne sono aggiunte altre.

Questa considerazione impone di prendere atto che una funzione meridionale di Napoli non è più pensabile oggi che sulla base di una idea multipo-lare del Mezzogiorno, e ciò accresce la necessità di superare una riflessione su Napoli concentrata essenzialmente, se non esclusivamente, nel quadro meridionale. Però, nella misura in cui il rapporto fra questione napoletana e questione meridionale rimane stretto, occorre che ci si chiarisca sulle prospettive del quadro meridionale, mentre per la parte debordante dal quadro meridionale è altrettanto ovvio che qual-siasi opzione debba avvenire senza tensione o, ancora peggio, contraddizione con la restante funzione me-ridionale della città.

Giuseppe Galasso

CONVEGNO

NAPOLI E LA

QUESTIONE

MERIDIONALE

[5]

Page 6: Numero 6/2005

Su entrambi i piani – quello meridionale e quello extra-meridionale – l’inderogabile necessità è di porsi al passo con le reali tendenze e potenzialità del mondo contem-

poraneo: di non inseguire, cioè, prospettive in ritardo storico. Non già che non ci si debba più porre i pro-blemi nascenti dal non essere montati sui treni della storia di ieri o dell’altro ieri. È stato affermato che, «dopo aver perso per ben tre volte il treno dell’indu-strializzazione», Napoli si è trovata negli ultimi tempi dinanzi a «un nuovo treno epocale», che le passava accanto: «il treno della società post-industriale» (De Masi). È una preoccupazione più che fondata, ma la mancata industrializzazione non autorizza a fare a meno di considerarne le conseguenze e a ritenere, quindi, possibile o utile «il salto dal pre-industriale al post-industriale» (idem). È fuorviante citare la so-lita Silicon Valley, «passata direttamente dai frutteti ai laboratori». Nel caso della famosa Valley il salto è stato possibile non solo grazie alla presenza di grandi università moderne e grazie alla «spinta endogena di una classe dirigente intelligente, consapevole, colta, protesa verso il futuro, capace di sognarlo, proget-tarlo, realizzarlo» (idem). Lo sviluppo della Valley fu, infatti, dovuto anche al convergervi di forze e di risorse tutt’altro che soltanto locali o regionali, anzi derivanti dall’intero spettro operativo e prospettico di un paese di avanguardia nella tecnologia e nella potenza economica, quali sono gli Stati Uniti, in cui i treni precedenti erano stati tutti bene e tempestiva-mente utilizzati.

Per Napoli, insomma, qualsiasi avvenire se ne voglia disegnare, è indispensabile porsi il problema della sua reale capacità produttiva, dell’effettiva con-sistenza della sua “economia reale”. Io non esiterei ad avanzare l’ipotesi che Napoli, con un milione di abitanti, non ha una struttura economico-produttiva valida ed effettiva in un contesto economico contem-poraneo superiore a quella di una città di 650-700.000 abitanti. In altri termini, l’economia cittadina ha una dimensione inferiore all’incirca di un terzo rispetto alla dimensione demografica della città.

È un calcolo azzardato; ma è utile supporlo. Esso interferisce con il problema della disoccupazione napoletana, che più di ogni altro denuncia lo stato effettivo delle cose. Non oso azzardare un altro calcolo a vista; ma non si va certo troppo lontano dal vero valutando almeno a 100.000 persone (tra disoccupati, sottoccupati e in attesa di prima occupazione) il fab-bisogno cittadino di un’occupazione che, senza essere del vecchio tipo ad vitam e immutabile, non abbia neppure, però, i connotati attualmente dominanti di precarietà e di insicurezza in tanta parte del mondo del lavoro napoletano, e oggi resi più acuti e gravosi

CONVEGNO[6]

Page 7: Numero 6/2005

dalla fatale concorrenza (il termine non è dei più felici) degli extra-comunitari.

Un tale volume dell’offerta di lavoro può essere as-sorbito in un regime di economia post-industriale, di soft-economy (per così dire) invece che di hard-economy? Ma, anche ammesso che sia possibile, ciò non significa che si possa non porsi il problema dello sviluppo di una struttura produttiva cittadina forte e attiva o fare come se l’aver perduto i treni della industrializzazione non comporti alcuna conseguenza. Non si tratta – è evidente – di pensare a grandi stabilimenti o fabbri-che; ma di realizzare a Napoli un circuito di attività che rispondano ad almeno alcune delle funzioni a cui l’economia materialmente produttiva continua a rispondere ovunque. Nessun errore sarebbe maggiore e peggiore del credere che i processi, ormai consta-tati un po’ ovunque, di deindustrializzazione delle aree più strettamente urbane e (all’apparenza) delle economie più avanzate si risolvano in una radicale assenza di hard-economy.

Non è possibile ritenere che le qualità negative attribuite ai napoletani da una lunga tradizione di ste-reotipi e di pregiudizi corrispondano a una definizione qualitativa non «estranea alla società post-industriale così come fu [estranea] a quella industriale» (De Masi). La società post-industriale non sarà altro che una società industriale potenziata ed evoluta, e richiederà ancora maggiore impegno e fatica. Se i napoletani non erano buoni per l’industrializzazione, non lo saranno neppure per il post-industriale. Ed è anche vero che i tempi della politica e dell’azione pubblica sono a Napo-li lenti in maniera esasperante, ma questo (e altro che si può osservare al riguardo) ha poco a che fare con l’industriale, il post-industriale e con qualsiasi altro regime economico. Qui è la politica a dover fornire prove effettive di capacità migliori che finora.

La considerazione deve allargarsi a questo punto a una scala più ampia di quella cit-tadina. Benché Napoli costituisca da tempo un’area metropolitana ciò non ha prodotto

pressoché nulla sul piano della politica per la città, sia a livello centrale che a livello periferico. Su que-sto piano si è avuto un solo provvedimento di reale importanza, e cioè l’ampliamento della circoscrizione comunale, auspicato da Nitti e realizzato in periodo fascista con altri intenti e parzialmente. Che la città si sia trovata a disporre tempestivamente di un sistema di trasporti a scala metropolitana, fu molto di più il frutto di iniziative private che di azioni pubbliche. Senonché, una prassi metropolitana è un requisito indispensabile, oltre che per la grande azione di go-verno cittadino necessaria per Napoli, anche per fare della città un rinnovato punto di riferimento rispetto

sia al Mezzogiorno che all’esterno. A questo scopo la determinazione istituzionale dell’area metropolitana con propri organi e poteri è, quindi, un pre-requisito indispensabile della funzione sia meridionale, sia regionale, sia extra-meridionale di Napoli.

Anche su quest’ultimo punto è necessario in-dugiare. È, infatti, necessario chiedersi se si debba rinunciare del tutto a una reciproca e sinergica inte-grazione almeno dei punti forti del Mezzogiorno in una visione di funzionalità italiana, mediterranea, europea, definita senza indulgere a nessuna retorica o miraggio, come fin troppo si fa, specie quando si parla di Mediterraneo.

Il rapporto con Bari e con la riviera pugliese più attiva appare, ad esempio, sostanzialmente debole. Non si tratta di ristabilire una non più proponibile centralità meridionale di Napoli, bensì un certo grado di interconnessione e di reciproca sinergia funziona-le dell’area meridionale, che dalla disarticolazione della sua vecchia struttura napoli-centrica ha finito col ricevere danni non minori dei vantaggi. In tale prospettiva un buon metodo può essere considerato il coordinamento delle Regioni meridionali, lanciato dal presidente Bassolino, se esso, più che fungere da istanza di colloquio o di contestazione con Roma, si dedicherà a individuare – nei campi in cui le Regioni hanno già competenze e risorse – i settori, i program-mi, le realizzazioni da cui ci si può ripromettere, oltre che un miglioramento interno al Mezzogiorno stesso, un guadagno di sua presenza, ruolo, attività nel qua-dro italiano, mediterraneo ed europeo.

A questo riguardo non è, per la verità, ancora chiaro che cosa il coordinamento delle Regioni me-ridionali voglia. Per pressioni particolari sul Governo c’è già la conferenza Stato-Regioni. D’altra parte, il fine di una iniziativa di tale portata non può essere solo quello di ottenere più fondi da Roma e da Bruxelles. Varie regioni meridionali hanno forte interesse a rapporti extra-meridionali, come la Campania, ad esempio, su molte materie, con il Lazio. Tra alcune Regioni meridionali vi sono, poi, ragioni più strette di reciproco legame: ad esempio, fra Calabria e Si-cilia; e vi sono iniziative di respiro già largamente extra-meridionale e consolidate: si pensi alla Fiera del Levante. Insomma, non sarà facile conciliare esigenze e aspettative molto differenziate.

Vi sono, comunque, alcune cose in cui è un torto e una colpa delle Regioni di non aver fatto finora quanto potevano. Ad esempio, per il coordinamento dei piani paesistici regionali fra Regioni confinanti e su progetti di valorizzazione turistico-culturale interregionale. Oppure per il potenziamento delle comunicazioni fra le varie parti del Mezzogiorno, in primo luogo fra il versante tirrenico e quello adriatico. Oppure per

CONVEGNO[7]

Page 8: Numero 6/2005

un coordinamento generale delle iniziative volte a realizzare attrezzature e servizi di interporti e porti, oltre che un coordinamento della gestione di quelle già esistenti O altro (fra cui la ricerca), e ancora di più, se si affrontasse insieme, ad esempio, il problema dei rifiuti, del quale è da temere un progressivo aggravamento.

Tutti questi punti rientrano già nella com-petenza regionale. Sarebbe molto serio e vantaggioso cominciare a coordinarsi su impegni propri e non solo su rivendicazioni,

per quanto legittime.Naturalmente, ciò presuppone che non si ritenga

“obsoleta” la “questione meridionale”, e si ritenga, invece, sempre attuale l’esigenza che essa non riman-ga, come più o meno sempre finora, una “questione”, appunto, a sé, da trattare a parte, e che diventi dav-vero materia risolta nella linea generale di governo, nei piani e interventi nazionali di politica economica e finanziaria.

Era ciò che già Nitti sugge-riva: niente lavori pubblici fret-tolosi o concessioni grandiose, ma una politica nazionale che, in quanto tale, giovasse al Sud come aveva giovato al Nord. Si badi bene: si deprecano i «lavori pubblici frettolosi», non i lavori pubblici tutti. Si tratta, cioè, dei lavori pubblici non legati alle necessità infrastrutturali fondamentali; si tratta delle «concessioni grandiose» (il pon-te sullo Stretto potrebbe essere un esempio, a nostro avviso, in questa materia). Come avrebbe potuto Nitti e come potrem-mo noi dire altrimenti per un Mezzogiorno di cui erano e sono note le grandi carenze infrastrutturali?

L’altro versante del pro-blema, ossia quello della pro-spettiva extra-meridionale di Napoli, può avere numerose versioni.

Per noi la più immediata è quella di una integrazione funzionale con Roma. Non è un’idea nuova. Fu già affacciata negli ambienti di “Nord e Sud” tanti anni fa, e io stesso ne illu-strai in più di una occasione il

fondamento pratico. Ma non lo ricordo per una banale rivendicazione di diritti di autore, bensì per constatare ancora una volta che non è una crisi di idee a rendere infelici i discorsi sul Mezzogiorno e su Napoli. Nono-stante i “numeri” eccezionali che l’asse Roma-Napoli ha per sé, non se ne è fatto finora, nulla. Solo di recente risultano contatti tra il presidente Bassolino e il sindaco Veltroni, ai quali è da augurare che segua l’indispen-sabile conforto dei fatti.

Il caso Roma-Napoli è, peraltro, solo il più rilevante tra quelli di possibili connessioni extra-meridionali. Ve ne sono, ovviamente, altri di non minore importan-za, e per altre città e zone del Mezzogiorno. Non mi soffermo su di ciò. Aggiungo solo due considerazioni. La prima è che in questa ricerca di connessioni extra-meridionali Napoli è una risorsa per se stessa, ma lo è anche per tutto il Mezzogiorno. La seconda è che,

come per il caso Napoli-Roma, è indispensabile che qualsiasi iniziativa parta da una base reale già ravvisabile.

È qui il senso accettabile di quell’“abolizione” del Mez-zogiorno, di cui si è troppo parlato. Il senso consiste nel rompere i cancelli per cui dopo 150 anni di unità italiana esso è ancora nella negativa condizione di polo debole del dualismo italiano; consiste nel sovvertire la vecchia geo-grafia della sua condizione di area sottosviluppata e nel sostituirla con una fitta rete di nuove connessioni e rela-zioni all’interno e all’esterno dell’area meridionale, con Napoli e senza Napoli, libe-rando così sia Napoli che il Mezzogiorno dagli ultimi resti del loro reciproco e alla lunga deteriore condizionamento. Si possono avere molte idee di Mezzogiorno. Bisogna averne. Ma si creda pure che autentica e imprescindibile è l’idea del Mezzogiorno di cui parliamo da un secolo e mezzo. Non ce ne possiamo né tediare, né liberare, se non tagliando in modo risolutivo il nodo che essa postula. E questo vale sia per Napoli che per l’intero Mezzogiorno.

CONVEGNO[8]

Page 9: Numero 6/2005

CONVEGNO

SVILUPPO UR

BANISTICO

E AREA MET

ROPOLITANA

Benedetto Gravagnuolo

Napoli sta attraversando una delicata fase di transizione, in bilico tra sviluppo e declino. Da un lato gli strumenti urba-nistici recentemente approvati mostrano

le potenzialità di una crescita pianificata, dall’altro gravano ancora sul futuro della città, come una spada di Damocle, i problemi irrisolti. Tra i tanti si stagliano due questioni-chiave: la criminalità e la disoccupazione, che rappresentano due preoccupanti sintomatologie di un profondo malessere sociale, a loro modo interrelate.

Lasciando ad altri studiosi, più compenti in materia, l’approfondimento analitico di questi mali endemici, dalle lunghe e rizomatiche radici, limiterò alcune considerazioni sullo specifico ruolo che una lucida strategia urbanistica può giocare nella prospet-tiva dello sviluppo economico e della riqualificazione delle aree degradate di Napoli, riconducendole a tre questioni fondamentali:

1. gli strumenti di pianificazione e la necessità di una strategia a scala metropolitana;

2. le potenzialità e i limiti della pianificazione comunale;

3. l’incremento della partecipazione democratica e accelerazione dei processi.

Prima di parlare della necessità di un disegno sovracomunale, dobbiamo intanto prendere atto degli strumenti recentemente varati. In particolare, il 10 giugno 2004 è giunto al

termine l’iter della Variante Generale al Piano Regola-tore. Si tratta di un risultato molto importante poiché di questo strumento, che si configura come un vero e proprio piano regolatore, vi era grande necessità; e anche perché per tutto il ’900 sono stati varati soltanto due Piani Regolatori, uno nel ’39 e l’altro nel ’72.

Non meno significativa, a mio avviso, è la legge 16, varata nello stesso anno dal Consiglio Regionale della Campania, che ha introdotto uno snellimento nelle procedure dell’elaborazione dei piani regolatori, i quali hanno assunto la denominazione di PUC (piano urbanistico comunale) ed ha legittimato le giunte co-munali a varare l’attuazione dei PUA, i piani attuativi, a condizione che non siano in contraddizione rispetto al PUC. Si tratta di un importante passo in avanti se si considera che al PRG del ’72 non hanno mai fatto seguito piani esecutivi attuativi. Manca ancora all’ap-

pello, tra gli strumenti urbanistici, il PTCP, piano di coordinamento della Provincia, il quale è attualmente in corso di rielaborazione perché vi è stato un ripen-samento su alcuni aspetti specifici, ma anche perché la legge 16 della Regione è intervenuta attribuendogli competenze inedite, che richiedono una revisione del progetto originario.

Proprio il PTCP, a mio avviso, rappresenta una risposta a quello che la legge 142/90, riguardante le Aree Metropolitane, iposta-tizzava senza però realizzare. Il modello

dell’area metropolitana prevedeva la dissoluzione dei comuni in un’unica realtà amministrativa, segmentata al suo interno in unità, corrispondenti, appunto, ai vari comuni. Recentemente la riforma sul decentra-mento amministrativo ha ridotto a dieci le ventuno circoscrizioni, realizzando in qualche modo il criterio della legge 142/92. Naturalmente non vi è stata la dissoluzione del Comune, cosa che personalmente ritengo assolutamente irrazionale e illogica. Ma al di là dell’aspetto “giuridico”, il dato di fatto è che siamo di fronte ad una conurbazione urbana di tre milioni di abitanti, composta dalla città di Napoli e da più di ottanta comuni. Questa realtà metropolitana, secondo un termine ultimamente “a la page” tra gli urbanisti, è definita “meta-polis”. Personalmente, riferendomi a Napoli, preferisco la definizione tradizionale di “metropoli diffusa”. Quest’area, all’interno della quale ogni giorno si spostano centinaia di migliaia di citta-dini, nel corso degli ultimi anni è stata interessata da forti fenomeni di migrazione dal centro alla periferia, non solo sul fronte demografico (circa centomila persone negli ultimi dieci anni hanno lasciato Napoli per la provincia), ma anche sul fronte aziendale, come testimoniano gli esempi del CIS di Nola, dell’Ikea, del Polo della Qualità di Marcianise (che si trova su territorio casertano, ma che è una “creatura” di ideazione napoletana collocata ai margini dell’area metropolitana), e la nascita dell’area industriale di Arzano. In altri termini, stiamo assistendo ad un fenomeno di migrazione aziendale che, da un lato potrebbe essere considerato come il raggiungimento di quel “riequilibrio” che auspicava il Rossi-Doria, e come la fine del “napolicentrismo”; ma che d’altro canto pone delle questioni e degli interrogativi. Il trasferimento o la chiusura di fabbriche altamente inquinanti è stato assolutamente opportuno, ma tutta-

[9]

Page 10: Numero 6/2005

via resta il problema di non condannare la città ad un destino “turistico-terziario”. La “metropoli diffusa”, naturalmente ha necessità di una pianificazione. E la pianificazione in parte sta trovando realizzazione in tempi rapidi e con successi notevoli, com’è avvenuto nel campo dei trasporti. La realizzazione della metro-politana regionale e di quella napoletana svolge un ruolo fondamentale nel limitare l’uso delle automobili. Ravviso tuttavia il ritardo ideologico con cui una parte della sinistra continua a demonizzare l’uso della macchina privata, e rifiuta di progettare e costruire i parcheggi d’interscambio, rallentando di fatto un disegno equilibrato dell’area metropolitana.

Per quanto riguarda la Variante Generale al Piano Regolatore di Napoli, credo che essa debba essere considerata come un punto di partenza e non come un punto di arrivo.

Spesso invece, la necessità di difendere le “cose fatte” ci induce a considerarlo un traguardo. Il processo decisionale di questo piano è stato lungo: gli indi-rizzi di pianificazione che la giunta Bassolino diede nel giugno ’94 delimitano un intervallo di dieci anni esatti tra il momento dell’ideazione e quello del varo. Questo ritardo, secondo me, non solo è indicativo dell’estrema lentezza dei processi decisionali che inte-ressano la nostra città rispetto all’Europa, ma denota anche un modo “vecchio” di concepire l’idea di Piano Regolatore. Ancora una volta, il risultato è un piano in linea con la legge del 42, astrattamente cartesiano, che cerca in se stesso una coerenza al di là della com-plessità della realtà su cui deve intervenire. Tuttavia in quanto quadro astratto, atemporale e non precisato nei suoi finanziamenti, la Variante può fi-nalmente liberare il dibattito da una di-scussione sulla città ideale e cominciare a discutere di priorità concrete e di cosa vogliamo fare nei prossimi anni, e in base a quali risorse. Questo delle prio-rità non è un pro-blema irrilevante, anzi, secondo me ha lo stesso peso della questione delle rego-le, nell’ambito della decisione democra-

tica. Le regole non devono essere considerate al pari dei libri sacri, e bisogne rifuggire dal feticismo dei parametri intangibili. Se assumiamo la logica per verificare le regole, possiamo capire che il banco di prova della qualità del Piano sarà la sua attuazione. Prendiamo ad esempio Napoli Est, area per la quale il Piano prevede l’eliminazione delle grandi industrie inquinanti: senza arrivare all’evocazione di una nuova Silicon Valley, è evidente che l’obiettivo sarà quello di favorire l’insediamento in quella zona di industrie leg-gere ad alto impiego di manodopera. Per raggiungere questo obiettivo, è del tutto ovvio che le sole regole non sono sufficienti, soprattutto perché non sono regole “nittiane”. Se infatti le confrontiamo con la legge del Risorgimento, che ha industrializzato Na-poli Est, ci accorgiamo che essa prevedeva incentivi, defiscalizzazioni, insomma una vera e propria politica dell’industrializzazione. Si avverte allora la necessità di un organismo che produca un progetto, e che poi verifichi se le regole che sono state scelte dal Consiglio Comunale siano di ostacolo all’industrializzazione, in modo da apportare le eventuali modifiche.

Allo stesso modo va affrontato il discorso di Bagnoli. Per quell’area ritengo sia assolutamente con-divisibile l’idea del grande parco, che tenga assieme nuove istanze e memoria del luogo. Resta tuttavia incomprensibile, sotto il profilo strettamente logico, il porto – canale che non solo sarebbe, secondo il parere di alcuni esperti, non funzionale alla navigazione, ma soprattutto andrebbe a lacerare quella linea di costa, che invece costituisce la stessa ragione d’esse-re del piano. È difficile affrontare questi argomenti

senza trovare chiu-sure aprioristiche, in nome delle decisioni del Consiglio Comu-nale. Il Consiglio Co-munale deve poter ridiscutere, laddove ciò si rende neces-sario, anche perché esistono strumenti, come le varianti o gli accordi di program-ma, sanciti anche dalla legge 16, che potrebbero correg-gere alcuni aspetti. La mia tesi è pro-prio questa, e cioè che non è necessario stravolgere il Piano, ma si può interve-nire con modifiche

CONVEGNO[10]

Page 11: Numero 6/2005

finalizzate all’attuazione di quelli che sono i suoi fini fondamentali.

Veniamo ora a quella che è, a mio avviso, la questione più importante dell’intero discorso sulla città, e cioè la periferia nord. Nel caso di Scampìa, la colpa non può

essere data all’abusivismo, come normalmente si fa per Pianura. Nella periferia nord il “mostro” è stato generato scientemente dalla ragione di enti pubblici, che in modo assolutamente scoordinato hanno accu-mulato case su case, alle quali negli anni ’80 hanno aggiunto scuole e parchi, privilegiando la quantità e ignorando la qualità. Quello che manca a Scampìa è la città. La gente è esasperata perché non ha una piazza, non un riferimento urbano. A Scampìa non ci sono strade, ma solo arterie di scorrimento veloce. La protagonista del film “Le occasioni di Rosa”, di Sal-vatore Piscicelli, lungo la “camminata”, che è un po’ l’emblema di quel film, non trova un bar, un negozio, un luogo di aggregazione; trova solo l’aberrazione della “quantità” e della “sommatoria” che richiede oggi una revisione concettuale dell’urbanistica e un ritorno su certe questioni.

Per quan-to riguarda il Centro Storico sta per partire l’esperimento de i “ ba s s i”, che è stato già sperimentato con successo al Lisbona e a Barcellona, nel Barrio Alto. La riconversione dei bassi, che sono inadatti all’uso abita-tivo, in locali commerciali, è un’idea sem-plice, ma può r e c u p e r a r e perfettamente quel territorio.

Detto que-sto, vado a de-finire quello che per me è il nodo centrale dell’intero di-

scorso sulla città. A mio avviso è necessario tenere insieme l’incremento della democrazia e la velocità del processo decisionale. Apparentemente si tratta di un ossimoro, una contraddizione in termini, ma è quello che serve. Questo significa passare dall’idea di government all’idea di governace, in cui le ammi-nistrazioni perdono la sensazione di dover decidere in solitudine ciò che va fatto nel superiore interesse collettivo, e accettano di ascoltare i soggetti della città. In questo senso la più bella metafora della governance è il dipinto di Ambrogio Lorenzetti da Siena, sugli effetti del buon governo, In quel quadro non si vede un podestà, ma dei cittadini che stanno cambiando la loro città. Per fare questo avremmo bisogno di struttu-rare dei momenti di partecipazione democratica alle scelte urbanistiche. La città è la polis, la res pubblica, la cosa comune per eccellenza. A Berlino hanno co-struito lo Stadtforum: nella Sala degli Orsi, mentre si discuteva del Piano Regolatore, le forze competenti, gli intellettuali più rappresentativi, ma anche i sem-plici cittadini hanno potuto discutere con sistematicità le questioni salienti. Non vorrei essere tacciato di esterofilia, ma veramente credo che forum di questo

tipo possano ser-vire a discutere degli argomenti di interesse ge-nerale. A Napoli il dissenso, pur trovando spazio sulle pagine dei g ior na l i , non riesce ad essere produttivo. Ecco perché a mio avviso è neces-saria una strut-turazione della partecipazione c he con s ent a l’ascolto delle c o m p e t e n z e , e dei cittadini. Nel contempo però è necessa-rio prendere atto del fatto che la democrazia non è unanimismo, e accelerare i pro-cessi decisionali, in modo da non perdere il passo con i tempi.

CONVEGNO[11]

Page 12: Numero 6/2005
Page 13: Numero 6/2005

IL NODO

DELL’ECONO

MIA

Una completa analisi della situazione eco-nomica campana non sarebbe possibile da affrontare in questo ambito; mi limiterò di conseguenza a mettere in evidenza

alcuni punti. Innanzi tutto vorrei affrontare una tesi che di recente sta acquistando sempre maggior peso anche tra gli economisti della sinistra come Nicola Rossi: tale tesi tende a sostenere che le diverse forme di intervento pubblico nel Mezzogiorno, e in partico-lare quelle che hanno sostituito le vecchie forme di intervento straordinario, non hanno prodotto effetti rilevanti per lo sviluppo ma anzi hanno inutilmente sperperato risorse che avrebbero potuto essere me-glio impiegate.

Alla base di questa affermazione sta il confronto tra il livello del PIL pro-capite del Mezzogiorno con quello del resto d’Italia, che, dopo anni d’inter-vento pubblico, vede il divario tra i due valori non ridotto in maniera sostanziale. A mio parere, questa affermazione è non soltanto superficiale ma anche profondamente errata logicamente.

Per quanto riguarda il primo punto, fare riferi-mento esclusivamente al PIL pro-capite come indica-tore del grado di successo di un processo di sviluppo territoriale è molto pericoloso e rischia di condurre a gravi errori di valutazione. Si pensi agli interventi di dotazione infrastrutturale non producono effetti sul PIL pro-capite se non nella fase di investimento (temporaneo) e che però favoriscono il processo di crescita, per esempio, attraverso una riduzione del costo di trasporto solo con un lag temporale e cioè dopo che le imprese hanno realizzato tale riduzione di costo (incremento permanente del PIL); altrettanto dicasi sugli interventi in formazione, ecc.

Il secondo punto riguarda invece il fatte che l’affermazione suddetta non ha riprova logica; basta porsi la domanda “cosa sarebbe successo al PIL procapite del Mezzogiorno senza le politiche di intervento?”.

Si pensi solo all’esistenza di un moltiplicatore di domanda e si provi a considerare quale sarebbe stato il livello del reddito meridionale senza l’in-vestimento pubblico. Né nel nostro caso varrebbe l’argomentazione della presenza di un effetto di crowding out degli investimenti privati da parte della spesa pubblica, giacchè nel mezzogiorno gran parte degli interventi si sono configurati nella forma di “cofinanziamenti”.

Il secondo punto su cui vorrei soffermarmi riguarda più in generale il problema dell’eco-nomia reale nel Mezzogiorno e, in particolare, a Napoli, con un particolare riguardo alla efficacia

delle politiche pubbliche e alle possibili correzioni del-le stesse. Senza voler ripercorrere le numerose analisi che da anni si propongono sul problema economico meridionale (si vedano quelle della SVIMEZ, di autori come Giannola e altri, ecc), vorrei concentrarmi su alcune considerazioni.

a) Il primo aspetto riguarda una breve analisi delle politiche fin qui effettuate e una loro considera-zione critica.

b) Il secondo punto che a tale proposito si pone è quello relativo a quali possano e debbano essere le funzioni e le prerogative che un Comune (come Napoli) può svolgere per favorire il processo di sviluppo.

Nel 2004 l’andamento del mercato del lavoro in Italia si è caratterizzato per un sensibile rallentamento nella dinamica dell’occu-pazione ed una contestuale accelerazione

della tendenza alla riduzione del numero delle per-sone in cerca di occupazione.

Il dato complessivo del 2004 conferma, per il secondo anno consecutivo, una profonda divarica-zione negli andamenti dell’occupazione nelle due ripartizioni territoriali (Sud e Centro-Nord). Pur in un contesto di rallentamento della crescita dell’eco-nomia, il numero delle persone occupate è infatti aumentato, nel Centro-Nord, di 187 mila unità, pari all’1,2%, mentre si è ridotto di circa 23 mila unità nel Mezzogiorno (-0,4%) (Tab. 1).

Il Mezzogiorno dopo aver creato nel corso del triennio 2000-2002 di espansione dell’occupazione ben 350 mila posti di lavoro aggiuntivi, evidenzia nell’ultimo biennio difficoltà nel mantenere lo stock di occupazione creato nella fase precedente: tra il 2002 e il 2004 gli occupati sono calati di 48 mila uni-tà. Il persistere di una fase di crescita lenta sembra quindi manifestare con maggiore intensità i suoi effetti sulla dinamica dell’occupazione meridionale, confermando anche la scarsa rilevanza che nel Sud assumono le misure di flessibilizzazione del mercato del lavoro (sia quelle già a regime della legge Treu sia quelle in fase di avvio della legge 30 del 2003, la c.d.

Massimo Marrelli

CONVEGNO[13]

Page 14: Numero 6/2005

Legge Biagi) in assenza di un adeguata dinamica del prodotto dell’area.

Nel Mezzogiorno si è interrotto il trend positivo dell’occupazione che aveva interessato nel periodo 2000-2002, anche se con diversa intensità, tutti i grandi settori dell’economia ad eccezione dell’agricoltura.

Nel corso del 2004, il rafforzamento di una ten-denza espansiva delle sole costruzioni (5,2%) viene ampiamente compensato dalla flessione degli occu-pati negli altri settori. Va in particolare segnalato il dato negativo fatto segnare dal terziario (-0,3%), non tanto per la sua entità (-13 mila addetti) ma perché riguarda il settore che aveva trascinato la crescita sino alla fine del 2002 con tassi del 2% annui e incrementi assoluti di quasi 100 mila occupati l’anno. Il calo degli occupati in quest’ultimo settore, dopo anni di crescita sostenuta, costituisce un importante campanello d’allarme e sembra riflettere le accresciute difficoltà delle famiglie meridionali nel mantenere un adeguato livello di spesa per consumi. In particolare, la forte flessione della componente indipendente del terziario potrebbe celare una tendenza alla ri-immersione di attività commerciali che in una fase economica più positiva si erano regolarizzate.

Un altro importante elemento di cambiamento di quadro rispetto agli anni precedenti è costituito dalla forte crisi dell’industria meridionale: nel corso del 2004, infatti, gli addetti dell’industria in senso stretto si sono ridotti del 3,9%, (circa 34 mila posti di lavoro in meno). Tale dato interrompe una lunga fase di incremento dello stock di occupazione industriale impiegata nell’area e evidenzia le crescenti difficoltà che il sistema industriale meridionale sta incontran-do nel nuovo quadro competitivo internazionale, caratterizzato dall’affermarsi di nuovi competitori quali la Cina e l’India. Proprio il modello di specia-lizzazione dell’industria meridionale, sbilanciato sui settori tradizionali sempre più esposti alla competi-zione dei paesi caratterizzati da più bassi livelli di costo del lavoro, rischia di penalizzare fortemente le prospettive di ripresa occupazionale dell’intera area meridionale.

Molte regioni del Sud hanno fatto registrare una contrazione dello stock complessivo di manodopera occupata: l’Abruzzo (-3,2%) ha realizzato il peggior risultato tra le regioni italiane, in conseguenza di un trend sempre negativo nei quattro trimestri, anche se in attenuazione, dovuto principalmente alla riduzio-ne degli occupati nei servizi (18 mila, pari al -5,4%). La Campania (-0,8%), dopo una fase centrale del 2004 di sostanziale tenuta occupazionale, nel quarto trimestre ha registrato il peggior risultato tra tutte le regioni del Sud; tale risultato è principalmente dovuto al settore industriale che ha fatto segnare

nel 2004 una riduzione degli occupati del 7,6%, pari a 21 mila occupati in meno rispetto al 2003.

La spesa pubblica dell’aggregato complessivo costituito da Stato, Regioni, Province, Comu-ni e Aziende sanitarie ha registrato nel 2002 una riduzione rispetto all’anno precedente

pari, a livello nazionale, al 5,1% nei valori costanti, passando da 5.210 a 4.944 euro pro capite. Il fenome-no ha riguardato entrambe le circoscrizioni ma con intensità diversa: il calo della spesa pubblica è stato infatti più forte nel Mezzogiorno, dove ha raggiunto l’8,9%, che nel Centro-Nord, 3,1%. Tale andamento è stato determinato da una maggiore riduzione sia delle spese correnti (meno 6,1% rispetto a meno 1,7%) che di quelle in conto capitale (meno 21% rispetto a meno 10,9%): riguardo a queste spese va tuttavia sottolineato che esse avevano registrato nel 2001 un incremento particolarmente forte, più elevato nel Mezzogiorno. Secondo le valutazioni effettuate per il 2003, vi sarebbe in tale anno una ripresa della spesa per investimenti che favorirebbe la crescita della spesa pubblica nel Mezzogiorno.

In entrambe le aree determinante ai fini degli andamenti descritti è stata la spesa dello Stato, soprat-tutto nella componente della spesa in conto capitale, caratterizzata da forte variabilità da un anno all’altro. Al di là delle variazioni annuali, ha rilievo confrontare i livelli di spesa del Mezzogiorno rispetto a quelli del Centro-Nord: è da tale confronto che emergono gli ele-menti strutturali che caratterizzano la distribuzione territoriale della spesa pubblica nel nostro Paese. Essi consistono in un livello di spesa pubblica più basso nel Mezzogiorno, per una percentuale variabile tra l’11,3% del 2002 e il 2,6% del 1997, che è la risultante di una spesa pro capite più elevata per quel che riguarda lo Stato (più 8,4% nel 2002) e più bassa per quel che riguarda gli Enti territoriali (meno 19,3% sempre nel 2002) (Tab. 2).

Il divario rispetto al Centro-Nord è minore per le spese correnti che per quelle in conto capitale. Inoltre, mentre per le prime il differenziale mostra una rela-tiva stabilità (con una variabilità che va dal 4 al 10%), per le seconde passa da un valore positivo negli anni 1997 e 1998 a valori negativi negli anni successivi con un evidente peggioramento della situazione relativa: nel 2002 il livello pro capite del Mezzogiorno risulta inferiore a quello del Centro-Nord del 22%. Tale peggioramento ha riguardato sia la spesa dello Stato, con riduzione del vantaggio relativo di cui godeva il Mezzogiorno (più 29,7 % nel 2002 rispetto a più 111,9% nel 1997), che la spesa degli Enti territoriali, con un differenziale negativo che ha raggiunto nel 2002 il 33% (13,6% nel 1997).

CONVEGNO[14]

Page 15: Numero 6/2005

I dati commentati indicano una concentrazione della spesa per investimenti nel Centro-Nord e un sottodimensionamento della stessa nel Mezzogiorno: nonostante l’apporto delle risorse nazionali e comuni-tarie specificatamente destinate al suo sviluppo essa risulta pari nel 2002 al 29,8% del totale nazionale (31% nel 2003 secondo le nostre valutazioni), percentuale inferiore al peso demografico dell’area (36%) e alla percentuale del 45% che rappresenta l’obiettivo fis-sato nei documenti governativi per imprimere una forte accelerazione allo sviluppo del Mezzogiorno (Tab. 3).

Dal confronto con il 1997 emerge una riduzione della quota di spesa in conto capitale effettuata nel Mezzogiorno (dal 38% del 1997 al 30% circa del 2002). La riduzione è stata particolarmente sensibile per la spesa dello Stato la cui quota è scesa dal 55% nel 1997 al 42% del totale nel 2002, percentuale questa che non si discosta molto dall’obiettivo del 45%. Nel caso degli Enti territoriali, invece, la loro quota sul totale (26,7% nel 2002 e 27,9% nel 2003) è nettamente inferiore al peso demografico dell’area, che dovrebbe rappresen-tare l’obbiettivo minimo da realizzare. La necessità di una intensificazione dell’attività di investimento degli Enti meridionali, al fine del raggiungimento di una distribuzione più adeguata all’obbiettivo di riduzione degli squilibri interni al Paese, è anche dettata dalla considerazione del peso di questi Enti sulla spesa in conto capitale complessiva del Mezzogiorno, pari a circa il 70%: nel Centro-Nord esso arriva a superare l’80%.

Dal breve quadro su riportato sia sul mer-cato del lavoro, sia sulla qualità e quantità dell’intervento pubblico, la situazione meridionale, e Campana in particolare, non

sembra particolarmente foriera di “buone novelle”. Tuttavia, un elemento rilevante va evidenziato. L’in-tervento pubblico finora effettuato, sia pure ancora molto nella forma di intervento “ a pioggia” (troppi “assi”, “azioni” e “misure”), e che nnon ha permesso alla regione Campania di posizionarsi in maniera competitiva sul mercato dei capitali internazionali, ha avuto come effetto quello di “ispessire” la matrice input-output regionale. Ciò significa, in parole povere che investimenti effettuati nella Regione esplicitano i loro effetti maggiormente all’interno dell’economia locale e in maniera meno rilevante nelle economie delle altre Regioni o dell’estero. I coefficienti di im-portazione sono adesso più piccoli. La concentrazione degli interventi in pochi grandi progetti produrrebbe oggi effetti economici positivi sull’economia regionale di dimensioni più rilevanti che non nel passato.

Numerose analisi sulla competitività internazionale hanno isolato una serie di fattori determinanti l’attrattività di un territorio per gli investimenti diretti

esteri. In particolare si isolano ormai concordemente i seguenti fattori:

1. Dinamica Regionale composto da Sviluppo del PIL pro capite Creazione di posti di lavoro

2. Potenziale di Mercato composto da Mercato raggiun-gibile attraverso il traffico affari e merci Occupati nei servizi (in rapporto alla forza lavoro totale)

3. Costi composto da PIL per abitante Costi lordi mensili di manodopera

4. Potenziale di Qualificazione composto da Rapporto fra forza lavoro in entrata ed in uscita Centri di Ricerca e Sviluppo, ogni 1000 ab. Studenti delle facoltà tecniche e scientifiche per 1000 ab.

5. Qualità della Vita composto da Misurazione di 8 gas di scarico per 1000 ab. e per Km. quadrato Posti letto in alberghi ogni 1000 ab. Posti letto negli ospedali ogni 1000 ab. Vittime di incidenti stradali ogni 1000 ab. Tasso di criminalità.

In un lavoro recente di Arnone4 (dell’IMF) la Campania si colloca ai primi posti delle Regioni Meridionali (al secondo posto dopo la Basilica-ta) e prima del Paese Basco ma dopo Galles e

Irlanda.Tale graduatoria è destinata a migliorare in previ-

sione dei nuovi flussi di traffico provenienti dall’Est e della presenza del sistema portuale campano, degli interporti, Tav e dei corridoi 5 e 8 della UE.

Saprà la Regione cogliere tali opportunità di sviluppo?

Quali sono le competenze di un Comune per favorire lo sviluppo?

Dall’elenco dei fattori riportati nel paragrafo prece-dente sembra evidente cosa un Comune come Napoli possa e debba fare.

Fondamentalmente si possono isolare i due fattori Qualità della vita e Logistica – Infrastrutture locali.

L’opportunità del sistema Porto-Interporto-Napoli Est e del sistema Bagnoli-Alta Tecnologia- Turismo risulta evidente.

Due grandi progetti da sviluppare in tempi molto brevi, senza diluzione delle risorse in una miriade di altri piccoli interventi. Questa è l’opportunità e la sfida.

CONVEGNO[15]

Page 16: Numero 6/2005

CONVEGNO

Nei giorni scorsi ho pensato molto al taglio da dare al mio intervento di oggi, e poiché tutto sommato, anche nella fantasia col-lettiva, il sindaco incarna un po’ il ruolo

di “difensore della verità”, alla fine ho optato per un contributo ancorato in modo preciso a dati statistici, in modo che la mia lettura della realtà napoletana non venisse ritenuta una lettura di parte.

Concordo con quanto Andrea Geremicca afferma nel suo intervento sul “Mattino” di oggi (21/11/2005, n.d.r.), e cioè che la cosa più sciocca da farsi è dividersi tra quanti dicono che va tutto bene, e quanti viceversa dicono che non va bene nulla. Credo che noi ammi-nistratori, così come abbiamo il dovere di rispondere in pieno delle decisioni per cui abbiamo potestà e competenza istituzionale a decidere, allo stesso modo non siamo tenuti a rispondere delle decisioni che non ci competono. Certamente però abbiamo il dovere di prestare attenzione alle critiche che dal mondo della cultura e dalla società civile ci vengono mosse. E allora qual è la Napoli con la quale il sindaco e la Giunta devono quotidianamente fare i conti? Come è stato testé ricordato, si tratta di una metropoli di un milione di abitanti, a sua volta collocata in un’area urbana di più di tre milioni di abitanti. Senza far torto a nessun’altra città, credo di poter affermare che Napoli è l’unica vera area urbana del nostro territorio nazionale, perché diversamente da Roma e Milano, tra la città e la cosiddetta “corona di spine”, rappre-sentata dalla provincia, non vi è nessuna soluzione di continuità. La città costituisce un continuum con i piccoli centri, in un rapporto di scambievole e reci-proca problematicità, e basta pensare al problema di traffico, per rendersi conto di cosa parlo.

A questo proposito, anticipando una riflessio-ne che mi ero ripromessa di fare più tardi, colgo l’occasione per dare conto di un’im-portante scelta operata dal Comune, che è

quella del decentramento amministrativo, ormai defi-nitivamente portato a compimento. Io credo molto nel decentramento amministrativo, sia come sistema di efficienza dell’azione amministrativa, sia come stru-mento di partecipazione. I dieci Municipi istituiti, pur non esonerando il Comune dalle sue responsabilità, costituiscono uno strumento forte di partecipazione. È lecito chiedersi, a tale proposito, come mai il Comune di Napoli non si è posto il problema, che pure era nel

programma del sindaco, di creare dal punto di vista istituzionale l’Area Metropolitana. Sostanzialmente non ci si è mai riusciti per due motivi. Anzitutto non è stato mai sciolto appieno il nodo delle Province e del rapporto tra esse e l’Area Metropolitana. In secondo luogo perché probabilmente la dimensione comunale è talmente radicata nella coscienza, nella cultura, nella storia del nostro paese, che risulta veramente difficilissimo scardinarla. Personalmente poi, nutro il convincimento che il prossimo parlamento metterà mano con vigore al tema delle aree metropolitane, finendo probabilmente col cambiarle in “consorzi di comuni”. In ogni caso, la dimensione metropolitana dei problemi non è stata assente dal nostro modo di vedere e di lavorare. Penso ad esempio alla metro-politana su ferro, che serve tutta l’area, e alla politica per i rifiuti solidi urbani, che è uno dei problemi che attanaglia la nostra realtà.

Noi siamo una città che ha un’altissima den-sità abitativa, il comune di Napoli occupa il 10% dell’intero territorio provinciale, e ha su di sé il 32% degli abitanti dell’intera

provincia. Le famiglie che risiedono nel Comune sono circa 330.000 con un numero di componenti pari a 3,3 contro la media nazionale di 2,6. La maggior parte di queste famiglie vive con un solo stipendio, oppure con una pensione sociale, o addirittura sono senza reddito fisso. Da una analisi condotta dal Comune è risultato che più di 37000 famiglie hanno diritto a quello che doveva essere il cosiddetto reddito minimo di inserimento, che poi con la finanziaria 2004 è diventato reddito di ultima istanza, e che, mai reso esecutivo dal Governo, è stato poi realizzato dalla Regione Campania come reddito di cittadinanza. Tra queste famiglie, più di 17000 sono senza reddito fisso. Quando questo dato è arri-vato in Comune, sono rimasta sgomenta e incredula, e mi sono domandata come faccia tutta questa gente a vivere! La risposta è che vive di lavori precari e saltua-ri, e che le donne di casa vanno a fare le pulizie, senza alcuna assicurazione. Ma al di là del dato oggettivo, pensate al rischio sociale che 17000 famiglie senza reddito fisso rappresentano per la città! Saltando per ragioni di brevità il “problema-casa”, che a Napoli è gravissimo, e che in tutte le graduatorie di percezione dei problemi viene subito dopo quelli della sicurezza e dell’occupazione, passiamo in rassegna il “problema-lavoro”. Secondo i dati delle “Note sull’andamento del-

LA CITTÀ CO

N LA QUALE

CI MISURIAM

O OGNI GIORN

O

Rosa Russo Jervolino

[16]

Page 17: Numero 6/2005

l’Economia in Campania” del 2004, pubblicate dalla Banca d’Italia a maggio di quest’anno, il tasso di disoccupazione della cit-tà di Napoli è del 18,9%, contro la media nazionale del 10,8%, e supera di oltre sei punti quello delle altre province della Campania. Se poi consideriamo il red-dito disponibile pro capite, abbiamo che esso è spesso in linea con gli standard ragionali campani, ma è sensibilmente più basso di quello nazionale.

A questo punto viene da do-mandarsi se quel lo del la

città di Napoli non sia un quadro completamente negativo. La risposta è no: fortunatamente ci sono, a mio avviso, alcuni ele-menti che inducono alla speranza. Qualche mese fa l’assessore Oddati ha compiuto un’attenta analisi circa le opportunità della città di Napoli, in un’ottica di marketing territoriale. Da questo esame viene fuori che il comune di Napoli è il più giovane d’Italia, e che la scuola, malgrado un’evasione scolastica non ancora superata soprattutto in certe zone, vede un forte tasso di scolarizzazione, con 53,9 iscritti ogni 1000 abitanti. La mia personale esperienza diretta, inoltre, mi dice che la scuola a Napoli è particolarmente viva e vivace, attiva e rispondente a molte delle istanze del territo-rio. Abbiamo un numero elevato di laureati, con un equilibrio abbastanza buono tra materie umanistiche e materie tecnico-scientifiche. In sé, questo dato non è indicativo di una cosa positiva, perché è in parte determinato dall’ elevato livello di disoccupazione. Tuttavia, il fatto che i nostri ragazzi studino e siano preparati costituisce in ogni caso un potenziale e una possibilità di soluzione del problema della disoccupa-zione delle classi più giovani. Naturalmente a questo proposito c’è il problema della “fuga” dei giovani laureati, che molto spesso sono costretti a cercare lavoro fuori dalla nostra città e dalla nostra regione. Lo sforzo dovrebbe essere quello di instaurare un meccanismo che permetta ai giovani laureati di fare le proprie esperienze formative, e mi riferisco alle

scuole di specializzazione, ai master e a progetti come Erasmus, che li portano spesso anche all’estero, e poi gli consenta di metter-le a frutto qui da noi.

Ma quali sono le pro-spettive per questi gio-vani? Come è stato det-to poc’anzi, negli ultimi vent’anni Napoli ha subito un processo di deindu-strializzazione rapida, è stata privata anche di un istituto bancario di riferimento di carattere locale. Occorre tuttavia sottolineare che le dinami-che delle piccole e medie imprese, sono al momen-to dinamiche favorevoli. L’indagine da noi condotta denota una buona densità imprenditoriale a livello comunale. Il 41% delle imprese private della pro-vincia sono localizzate a Napoli, e si tratta di un numero elevato di imprese

in tutti i settori, con una prevalenza del terziario: io sono d’accordo con l’affermazione che Napoli non può essere soltanto una città turistica, pertanto questa distribuzione su tutti i settori mi rassicura. Abbiamo poi un numero sostanzialmente elevato di giovani tra gli imprenditori (sette nuovi imprenditori su cento hanno meno di trentacinque anni), un buon numero di imprese “femminili”, e registriamo in termini percentuali, una crescita superiore rispetto alla media nazionale nel settore delle piccole e medie imprese.

Qualche riflessione rapidissima sull’azio-ne dell’amministrazione comunale nei confronti della realtà che vi ho appena illustrato. Con la massima umiltà, penso

che si poteva fare di meglio e di più. In ogni situazione si può fare di meglio e di più. Tuttavia sono convinta che, considerato il non facile contesto in cui abbiamo operato, è stato fatto tutto il possibile. Noi ci siamo trovati in una situazione che è nota a tutti: la politica nazionale ha ignorato completamente il problema Mezzogiorno. Dal 2001 ad oggi abbiamo subito un progressivo contrarsi delle disponibilità di bilancio. In termini di tagli di trasferimenti, abbiamo avuto 165 milioni di euro in meno. Su questo dato però occorre

CONVEGNO[17]

Page 18: Numero 6/2005

fare una certa attenzione, perché alcuni vincoli sono imposti dal Patto di stabilità. L’art.22 della finanziaria 2006, se verrà approvato così com’è stato presentato, e cioè ponendo un blocco alla spesa del 6,6 nominale (ma l’ANCI ha già calcolato che sarà molto più eleva-to), di fatto ci impedirà di spendere circa 128 milioni di euro di spesa corrente, e 25 milioni in conto capitale. Tenete conto che noi abbiamo sempre avuto rispettato il patto di stabilità.

Stamattina ho espresso a Letta, invitandolo a Napoli in occasione dell’inaugurazione della sta-gione teatrale del S. Carlo, tutta la mia gratitudine per l’interessamento e la sensibilità che ha sempre manifestato nei nostri confronti. Dico questo a testimonianza del fatto che non vado in polemica aprioristica con il governo, riconoscendo che alcuni dei suoi esponenti, e penso in particolare al ministro per le infrastrutture, hanno manifestato una certa apertura verso i problemi della città. Però indubbia-mente, volendo fare un’analisi oggettiva dei fatti, noi non possiamo non tener conto de tagli operati dal governo di centrodestra.

Capitolo Bagnoli. Non passa giorno che io non apra i giornali trovando qualche riferimento ai ritardi su Bagnoli. Natu-ralmente qualsiasi critica alla lentezza

come caratteristica della nostra amministrazione mi trova pienamente d’accordo. Tuttavia va ricordato che Bagnoli ha avuto stanziati con la finanziaria del 2000, che io stessa votai da parlamentare, 75 milioni di euro per la bonifica, pagabili a partire dal gennaio 2001, ma chi sa perché il ministero dell’ambiente li ha erogati alla fine del 2003, ritardando operazioni anche le più semplici! In questo asfittico contesto finanziario, quello che sostanzialmente ci ha permesso di andare avanti è stata la forte sinergia con la Regione ed un fortissimo aumento della capacità di spesa dei fondi europei, anche questi passati per la Regione. Con queste risorse a disposizione ci siamo regolati come qualsiasi amministrazione che abbia un senso della realtà: attenzione ai problemi specifici di ogni giorno, e attenzione ai grandi problemi in senso economico, il primo dei quali è stato l’uscita dal dissesto. Su questo fronte anche il bilancio 2005, con tutte le difficoltà, ha accantonato 75 milioni di euro per uscire comple-tamente dal dissesto e soddisfare tutti i crediti. Si è inoltre rinegoziato il debito ed effettuata una nuova emissione di BOC. Sul piano istituzionale, abbiamo compiuto un grande passo avanti sulla via del conso-lidamento della democrazia sul territorio, attraverso il decentramento. Poi abbiamo completato il Piano Regolatore Generale, e se 10 anni sono sembrati molti, non dobbiamo dimenticare che altre città ce ne hanno

impiegati di più. Qualcuno ha detto che s è trattato di un piano non discusso, a me non pare: esiste un isti-tuto proprio della legge di pianificazione, che prevede la possibilità per i cittadini di far pervenire le loro osservazioni, e l’amministrazione ha dovuto tenere queste osservazioni, che sono pervenute a centinaia, nella debita considerazione. Si è anche detto che il Piano regolatore è uno strumento statico, ma mi tocca smentire anche questo punto, visto che grazie alla legge urbanistica della Regione abbiamo approvato cinque piani urbanistici esecutivi, tra cui Bagnoli, il Centro Direzionale e la Mostra d’Oltremare, per oltre 460 ettari di terreno cittadino. Abbiamo scelto e per-corso la strada del coinvolgimento del capitale privato all’interno dell’azione della pubblica amministrazione, una strada che ci ha condotto alla definizione di due project financing, per la realizzazione di Porto Fiorito e per il raddoppio del Centro Direzionale di Napoli, e non è cosa da poco. Su un altro fronte, proprio l’altro giorno è venuto il direttore generale dell’UNESCO, il quale ha confermato che non solo Napoli resterà nella lista di quell’agenzia delle Nazioni Unite, ma che in essa verrà inclusa anche la Mostra d’Oltremare. Tra le numerose opere di restauro realizzate con i fondi a disposizione del Comune, vorrei ricordarne una su tutte, il cui risultato è sotto gli occhi di tutti, e cioè la ristrutturazione dell’Albergo dei Poveri, che sarà aperto al pubblico tra pochi giorni. Poi c’è il progetto SIRENA, che ha visto l’impiego da parte del Comune di 72 milioni di euro, ed ha generato, per il meccanismo del cofinanziamento pubblico – privato, investimenti per 200 milioni di euro.

Mi fermo qui perché il tempo a nostra disposizione è poco, e io devo necessa-riamente concludere. Vorrei però aggiun-gere una cosa. Io credo che il discorso di

una sfida di Napoli e per Napoli rientri in quello che è il nostro stesso dovere. Mi sento però di chiedere una cosa, che poi è la stessa che chiede anche Andrea Geremicca nel suo articolo sul Mattino di oggi, e cioè di evidenziare il dato di fatto che il centrosinistra, che governa attualmente i tre livelli istituzionali locali afferenti alla realtà napoletana, Comune, Regione e Provincia, nel bene e nel male ha messo un’opera un piano, e lavora alla sua realizzazione. Dall’altra parte c’è il nulla. Ogni giorno, in Consiglio Comunale, io sperimento l’assenza di qualsiasi piano alternativo con il quale confrontarmi. Mi rivolgo allora agli intellettuali, del cui aiuto abbiamo sempre bisogno, per chiedere loro anche critiche, ma che siano critiche costruttive. Io credo che sia necessario abbandonare la logica del disfattismo, perché davvero non porta a niente.

CONVEGNO[18]

Page 19: Numero 6/2005
Page 20: Numero 6/2005

IL TEMA DEL

LA

CLASSE DIRIG

ENTE

Considero importante l’iniziativa di riflessio-ne organizzata da “Mezzogiorno-Europa”, alla presenza dei vertici dell’Amministra-zione regionale e comunale, una cosa, biso-

gna dirlo, non consueta e che dimostra, certamente, una generale esigenza di confronto. Ma un confronto, per esser tale, deve esse improntato a una visione aperta e, se necessario, critica delle cose, svolta in uno spirito non conformistico che è segno di rispetto verso interlocutori di così alto livello istituzionale. Il conformismo sarebbe segno, esso sì, di scarso rispet-to, di poca considerazione, come se la classe politica dirigente dovesse esser blandita, e sentisse il bisogno di spirito cortigiano. Certo, un confronto aperto con chi ha massime responsabilità di direzione politico-amministrativa, soprattutto in sedi decentrate come sono Comune e Regione, è sempre difficile, intanto per una ragione, starei per dire, topologica. Si tratta di vedere come possono incontrarsi ed eventualmente intrecciarsi i diversi punti di vista da cui si guarda la realtà oggetto di osservazione, punti di vista non solo diversi ma da un certo punto di vista addirittura opposti. Perché dico “opposti”? Per una ragione che ho appreso dal “Principe” di Machiavelli, da quella “Dedica” “Ad Magnificum Laurentium Medicem” nella quale il segretario fiorentino disegna le vedute che si aprono, a seconda che si sia “bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti”, oppure ci si collochi “alto sopra i monti” e da lì lo sguardo si allunghi su tutta la pianura. Ma Machia-velli aggiunge che per vedere (e dunque compren-dere) il luogo alto bisogna porsi in basso e viceversa, il che indica che da quel punto di vista “basso” dal quale i relatori di questa iniziativa (e io sicuramente) guardano le cose, qualcosa si può capire e dire di ciò che sta in alto, qualcosa che chi sta in alto magari non riesce a vedere, perché altro è il cono di luce che si apre dinanzi al suo sguardo. Per uscir di metafora, può accadere che ciascuno, dal proprio luogo, riesca a dire qualcosa che l’altro non vede, e che l’utilità dell’incontro sia proprio nel fatto che da questi due

punti di veduta si giunga a incontrarsi, e a intrecciare un effettivo confronto. Ideale sarebbe un risultato di questo genere, giacchè una situazione democratica si arricchisce se “alto” e “basso” si incontrano, si riescono a “leggere” vicendevolmente, tenendo poi conto di queste diverse letture. Se ciò non avviene, e si resta nella incomprensione e nella reciproca estra-neità, allora la situazione democratica può apparire bloccata, due circoli viziosi che si avviticchiano su se stessi, in modo che nessuno dei due prenda linfa dall’altro. Pura riflessione di metodo? No, come spero si veda. Già qui vorrei fosse intesa la speranza che l’incontro dei punti di vista, verificandosi, permetta a tutti di collocarsi in un luogo più condiviso, in uno spazio che diventi sempre più dialettico, insieme armonico e conflittuale. Lo stato delle cose, oggi, è certo quello di un diffuso malessere, e anche (se mi permettete) di una certa insofferenza alla critica che sembra presente nella classe politica di governo. Ecco una prima cosa che “dal basso” mi sembra di poter vedere.

Ma è giunto il momento di entrare nel me-rito. Dov’è il punto generale di difficoltà che si scorge, attraverso una sensazione che non ha neanche bisogno di esser

molto argomentata? Nella povertà, anzitutto, dello “spazio pubblico” del confronto, che è insieme causa ed effetto di quella insofferenza rilevata. Che intendo per spazio pubblico? Qualcosa che non coincide in tutto e per tutto con la “società civile”, giacché io lo penso come il luogo che può contribuire a formare la ricchezza sia delle vita istituzionale sia di quella che si concentra, appunto, nel termine più strutturato di società civile, quasi un luogo intermedio fra le due, e perciò decisivo perché è quel luogo dove le idee si formano, entrano in relazione, confliggono, dialo-gano, cercano di comprendersi per poi ricollocarsi in punti determinati e strutturati, quel luogo dove classi dirigenti diffuse si legittimano e prendono poi le loro differenti strade. Da questa relazione,

Biagio de Giovanni

CONVEGNO[20]

Page 21: Numero 6/2005

istituzioni e società possono formarsi più forti, più garantite rispetto al rischio di reciproco isolamento. Un rischio quanto mai presente, ecco il punto. Per-ché mai?, questa è la domanda attualissima. Provo a rispondere con massima concisione, ben sapendo che l’impoverimento dello spazio pubblico non è solo problema nostro, e intendo dire napoletano o campano, ma generale, nazionale e forse anche più che nazionale. Esso consegue, in Italia, e perciò qui prende forma più acuta, alla dissoluzione traumatica dei partiti politici cui abbiamo assistito, o euforici o sorpresi o indignati o preoccupati, all’avvio degli anni novanta. Nessun rimpianto, ben s’intende, per il punto cui eran giunte le cose. Ma il dato resta, nella sua traumaticità. Da quella dissoluzione, che ho voluto semplicemente richiamare come ovvia premessa, provenne ciò che è ancora sotto gli occhi di tutti. Un leaderismo esasperato, accentrato, che fu quasi una risposta obbligata alla dispersione della cosa pubblica e del pubblico potere sotto l’attacco del potere giudiziario. Nacque allora la teoria del partito personale, che almeno in parte ebbe a Napoli un luogo di elezione e di elaborazione. Crebbe la di-mensione carismatico-esistenziale del leader politico, con una conseguenza di cui subito si incominciarono ad avvertire le conseguenze: l’assorbimento della politica nella forma del potere pubblico, quasi la sua istituzionalizzazione, per cui alla forza di un dirigente dotato di forza “esistenziale” (per usare una espressione di Leo Strauss) corrispose, da un lato l’auspicata univocità della decisione, dall’altro l’indebolimento del confronto pubblico e l’avvio di una costruzione sistemica, da giudicare soprattutto dal lato della sua concentrata efficacia piuttosto che da quello della sua alta progettualità politica. Si dispersero le culture politiche che si erano fatte va-lere nella loro specificità storica, a vantaggio di uno sbilanciamento verso la politica-amministrazione. Si potrebbe applicare, a questa fase, tutto o quasi quel-lo che Max Weber descrisse scrivendo sulla forma carismatica della legittimazione politica. Sarebbe interessante approfondire, ma difficile farlo in questa sede, anche perché conviene subito annotare ciò che questa situazione iniziò a determinare in rapporto al tema della formazione della classe dirigente. Il conflitto sulle idee sembrò sparire, o essenzialmente ridursi. Ho sempre pensato alla ricchezza politica e

culturale che germina dal conflitto delle idee. Un caos, dal quale nasce l’ordine, ma un ordine più articolato e ricco di quello che si forma fuori di esso; una tensione, cui il già ricordato segretario fiorentino attribuiva potenza costruttrice di politica e di virtù repubblicana. E, del resto, che cosa è stata la polis se non – insieme- armonia e conflitto? Per che cosa è diventata “polis” se non per questo? Dunque, la riduzione del conflitto, come libero conflitto politico nel quale si forma l’intelligenza delle cose, appariva subito come potentemente riduttivo del controllo democratico sul potere pubblico, che aveva sempre di meno qualcosa fuori di sé con cui misurarsi, e tendeva a una sorta di avvitamento in se stesso, sempre più “funzione”, sempre meno progetto aperto.

Estremizzo, naturalmente, come non si può non fare in un intervento sintetico, che vuole restituire il sentimento con cui molti di noi hanno vissuto quella fase. Ma una conseguenza ulteriore di quel-lo stato di cose va accennata: il conflitto non sparì (non avviene mai, nella condizione umana), ma si rinchiuse, per così dire, nella struttura del potere, si internò nelle sue stanze, fu sempre meno aperto confronto di idee, sempre più, invece, lotta interna, piuttosto opaca, introversa, intorno alla quale ha incominciato ad aleggiare il vero nemico della vita pubblica: il conformismo, che non rifiuta quella lotta interna, purché non metta in discussione la fedeltà al capo. C’è una definizione terribile del conformista in un celebre testo di Max Weber: “la rinuncia dei seguaci alla propria anima e la loro proletarizzazione spirituale”. Un effetto che può esser facilitato da un potere sistemico che aleggia su tutto, che si muove fra decisionismo e populismo, e che finisce con l’essere il vincolo non dichiarato del confronto e del conflitto, per cui il vero nemico sta dentro, si aggira nelle medesime stanze, prende la figura del concorrente interno e si misura sulla maggiore o minore vicinanza al capo carismatico. Sto esaminando, si intende, una sorta di idealtipo che solo per qualche verso si applica alla situazione di cui voglio illuminare qualche dato, ma queste estremizzazioni forse convengono per mostrare le radici di una involuzione che sicuramente c’è stata e che restituisce il senso profondo di una difficoltà la quale tocca la fenomenologia del potere, le sue implicazioni, i suoi effetti.

CONVEGNO[21]

Page 22: Numero 6/2005

Ma a questo punto voglio esser ben chiaro. Non rivendico un più o meno generico democraticismo, non penso affatto a una vichiana “piazza d’Atene” in permanente

discussione, né lamento la sua assenza. La cerniera dello spazio pubblico, che ho richiamato come una necessità, è tutt’altra cosa, esso può anche decadere verso il paventato democraticismo, ma personalmente lo voglio intendere come luogo di formazione delle idee, reso possibile da un potere pubblico che intende misurarsi con qualcosa che non nasce da se stesso ma ha altre fonti, altre radici. Potrebbe essere, almeno per quel che a lui compete, responsabilità del potere pub-blico agire nella direzione indicata, giacchè più esso è propositivo di alta politica anche amministrativa, e di progettualità, più in quel luogo “basso” che esso riesce a guardare si possono “formare” energie e idee da far vivere nella loro autonomia, in modo che la successiva sintesi sia forte e piena di umori. Se il potere pubblico, invece, si chiude in se stesso, sempre meno attraver-sato dalla politica e dalla progettualità, sempre più diffidente verso l’esterno e verso ogni critica, incline alla cooptazione, inseguendo solo un astratto progetto di mera efficienza, allora esso perde progressivamente il rapporto con le idee e la fede con cui è nato, secondo una sorta di vera e propria necessità segnalata così da Weber nella sua rappresentazione del professionista politico che perde la fede. “Nella sua professione il peccato contro lo Spirito Santo comincia quando tale aspirazione al potere smarrisce la cause per cui esiste, e diviene un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamente al servizio della causa”. “Giunto al potere, lo stato maggiore dei seguaci di un capo che abbia combattuto per una fede è perciò particolarmente incline a degenerare in una mediocre schiera di profittatori”. Ecco il vero nodo, che come spesso capita solo i classici riescono a portare a luce, lavorando sulle componenti eterne della storia umana, e si potrebbe dire dell’animo umano. Ora, perché l’aspirazione al potere non smarrisca le cause per cui esiste, al di là di ogni mera consapevolezza soggettiva del capo, è necessario che si rafforzi una energia esterna al sistema e che il capo carismatico vi contribuisca, con sforzo quasi autocontraddittorio perché la linea di tendenza spontanea non va in que-sta direzione, ma in quella opposta che immagina, specchiandosi inconsapevolmente nella propria falsa coscienza, di burocratizzare lo spazio pubblico, im-mettendolo nel sistema di potere attraverso le mille risorse che lo stesso sistema induce.

È qui che nasce una questione che mi piace chia-mare “etico-politica”, e che non intende confondersi con il consunto e consueto schema della “questione morale”, termine verso il quale ho maturato da molto

tempo una sana diffidenza e la cui immagine si con-fonde con il volto di un pubblico ministero diventato famoso, verso il quale mi concedo il lusso di una to-tale idiosincrasia. Non si tratta, insomma, dell’onestà “personale” del politico, cosa che non oso nemmeno mettere in discussione e che conduce in tutt’altro ambito di problemi, ma di quell’altra onestà “che non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo”, secondo l’icastica riflessione di Benedetto Croce. Insomma, il peccato contro “l’etico-politico” irrompe nel momento in cui la capacità del politico carismatico si rovescia contro se stessa, esasperando la dimensione personale-esistenziale, riducendo progressivamente la sua creatività, non contribuen-do alla costruzione di un proprio “altro” in cui non debba semplicemente specchiarsi immaginando di ritrovare se stesso. Non sottovaluto affatto la difficoltà di pensare e agire in questa direzione, ma forse è qui che veramente si manifesta la forza del leader, il suo essere un leader storico, capace di una costruzione non effimera. La difficoltà sta nel fatto che un simile atteggiamento sembra dover contraddire a quelle che vengono considerate “leggi” della politica, che stanno – a dire di molti- in un nesso esclusivo e quasi violento fra politica e potere. E sicome questo nesso effettivamente c’è, quella difficoltà è reale. Ma sono ugualmente convinto che essa non può costituire alibi. La misura di una politica che voglia permanere non può essere d disegnata solo su quella difficoltà. E di certo il fatto stesso che ogni sistema chiuso e troppo personalizzato, in una situazione democratica, si avvolge prima o dopo in una crisi, dovrebbe dirla lunga sulla rappresentazione del nostro tempo, sulle sue accelerazioni, sulla necessità di prevederle. Ma qui il discorso ci condurrebbe troppo lontano, ed è neces-sario ritornare su interrogativi più determinati.

Nel quadro che ho descritto, si disegna un nodo assai aspro nel rapporto fra classi dirigenti diffuse e potere pubblico. Rap-presentato come ho cercato di farlo, il

potere pubblico non stimola la formazione di classi dirigenti diffuse. Di più: esso tende verso la riduzio-ne della classe dirigente a classe politica e dunque a una tendenziale riduzione di quest’ultima nei confini storico-culturali di un “ceto”. Ceto dirigente non è, in senso proprio, la stessa cosa di classe dirigente. La classe dirigente è per definizione aperta, e la migliore rappresentazione che ne abbiamo avuto, per il nostro Meridione, è nella “Napoli” di Francesco Saverio Nitti e nella “Rivoluzione meridionale” di Guido Dorso. Si immaginava, in quei testi, pur così lontani strategica-mente fra loro, che fosse impossibile una rinascita del

CONVEGNO[22]

Page 23: Numero 6/2005

Mezzogiorno senza formazione di classi dirigenti, o innervate nell’ orizzonte che si poteva innestare nella rinascita “industriale” di Napoli, o nella elaborazione dorsiana dell’autonomismo, collocata fra Cattaneo e Mazzini. Quasi mi scuso per questo troppo veloce ri-ferimento a temi sui quali varrà ben la pena di tornare, ma vorrei solo che fosse chiara l’ampiezza non mera-mente elitistica del concetto di classe dirigente, e come essa entri in sofferenza nella sua riduzione “cetuale”, che è incontestabilmente sotto i nostri occhi. Tutto sembra contribuire a questa riduzione: la debolezza culturale, assolutamente anomala, dell’opposizione politica; il metodo invalso della cooptazione: burocra-tizzazione + esperti; la povertà, più volte sottolineata, dello spazio pubblico; l’introversione carismatica della legittimazione; la spoliticizzazione come cifra rappresentativa delle nostre società; e così via, tante cose restano nella penna. Ora questa riduzione così aspra e spesso opaca potrebbe trovare una propria giustificazione soltanto in presenza di una singolare e particolarissima “efficacia” dell’esercizio del potere. Solo una esasperata visione funzionalista, cui corri-spondessero efetti ben visibili nella realtà, potrebbe in parte giustificare lo stato di cose esistenti. Ma è questa la situazione in cui ci troviamo?

A me non pare. Ora, fuori da una visione fun-zionalistica del potere, difficilmente immaginabile, peraltro, in una situazione come quella meridionale (dove “l’ambiente” preme alle porte del “sistema”, per ricordare Luhmann) solo una ricostruzione più diffusa della politica può provare a rispondere alla crisi immanente, senza giurare che ci possa riuscire. E tuttavia perché il tema è concretamente sul tappeto, e non è mero richiamo idealtipico a una politica che non può più esistere? Perché siamo a un difficile pas-saggio storico, in una fisionomia fluida delle cose, nella presenza di spazi vuoti da riempire e di macerie che occupano indebitamente spazi in formazione, nella lun-ga fase di costruzione dei poteri delle regioni. Proprio perchè non c’è solo continuità nella forma organizzata di questo potere, proprio perché da parecchi anni (e sia pure nella forma confusa del dibattito italiano) si sta ridefinendo l’organizzazione istituzionale di tutti i poteri, proprio per ciò il tema della formazione delle classi dirigenti si erge come tema primario. Comunque si voglia chiamare quello che si sta disegnando (fede-ralismo, decentramento, devoluzione, regionalismo rafforzato), di sicuro le cose sono destinate a mutare sotto i nostri occhi, e il vero rischio è che entro i nuovi (almeno in parte) contenitori penetri il vecchio vino, rimescolato, riciclato, chimicamente rielaborato, e non sprizzi il nuovo da nuove vigne, o almeno da un ripensamento delle connessioni fra gli elementi dispersi, una volta diversamente collegati fra loro. Il

personalismo carismatico può rappresentare solo in parte una garanzia di unità, ma può essere sopratutto un blocco per quel nuovo livello di formazione delle classi dirigenti di cui si avverte il bisogno. Non si nega affatto (tutt’altro!) la necessità di una azione dall’alto, e anzi senza di essa assai poco potrebbe muoversi “in basso”. La riduzione “regionale” della dimensione politica non garantisce affatto (anzi!) una sua ripresa democratica, e immediatamente può esser matrice di spoliticizzazione. Se le novità istituzionali si abbat-tono (non trovo altra espressione) sullo stato di cose esistente, il futuro di molte regioni sarà compromesso, per cui il processo di rinnovamento nella formazione delle classi dirigenti assume una tinta di drammatica urgenza, il che significa che esso va assunto come problema in se stesso, nella sua autonomia. Il potere pubblico dovrebbe rendersi consapevole di questa urgenza, e mostrare buona e convinta volontà per av-viare risposte. C’è una questione di qualità, e a questa non è facile rispondere generalmente, stante la ovvia continuità burocratica degli apparati. Ma su due aspetti si può influire: sulla formazione dello spazio pubblico, su cui ho concentrato l’attenzione principale in questo intervento, che significa stimolo al confronto, presenza diretta dei vertici istituzionali nel dibattito pubblico, attenzione per la critica, fine delle insofferenze “dispo-tiche”, liberazione dei partiti dalla cappe di piombo in cui sono stati inchiodati, un processo complesso da cui potrebbero giungere novità; e l’altro aspetto è nel-l’espansione dei centri di eccellenza formativa, giacché forse il principale problema di una classe dirigente diffusa e moderna è nella internazionalizzazione della sua formazione, nell’allargamento delle sue vedute che devono misurarsi con un mondo vasto e difficile, anche oltre i confini nazionali. Per far l’esempio più ripetuto (e in parte anche più vero, purché si escluda la retorica, e non è facile) il processo di internazionalizzazione della classe dirigente campana dovrà in parte giocarsi verso il Mediterraneo, probabilmente attraverso una rete di collegamenti inter-regionali meridionali, come qualcuno disse tempo fa.

Ma, a parte qualsiasi specificazione, qui difficile a svolgersi, Il tema complessivo è ineludibile. Si è d’accor-do, su questo? Si coglie il senso delle critiche? Oppure, dietro di esse si deve per forza di cose vedere muoversi chi sa quale interesse personale, chi sa quale volontà distruttiva, chi sa quale faida di partito? Rivendico, personalmente, insieme la passione e il distacco con cui parlo di queste cose. Ma sarà questa una ragione sufficiente perché “dall’alto” l’attenzione si acuisca? Anche io, personalmente, ritengo di poter apprendere molte cose da chi vede il problema “dall’alto”, secon-do la metafora che ho utilizzato all’inizio. E di poter eventualmente modificare qualche considerazione più

CONVEGNO[23]

Page 24: Numero 6/2005

accuminata. Consegno questo piccolo testo al dibattito pubblico, alla ricerca anche di punti di incontro.

E infine, qualche breve spunto di riflessione su Napoli. La città ha particolare bisogno di un confronto pubblico, per una ragione che attiene profondamente alla forma della

sua crisi attuale. Napoli ha subito un tracollo della sua vecchia identità, produttiva e culturale. È ancora grande città storica, abitata dai napoletani, come se avesse mantenuto quella specificità che molte altre città hanno perduto, o almeno hanno visto incrinarsi, nel loro tramutarsi in “metropoli”, anonime e omolo-gate. Eppure, questa persistente identità fa più fatica che mai a misurarsi con una prospettiva, e dunque rischia di disperdere la forza che il persistere di quella determinatezza originaria potrebbe ancora offrirle. Restare grande città può significare memoria, cultura depositata nella sua mente collettiva, senso di una prospettiva, ripresa di un ruolo nella cultura e nella politica nazionali. Ma le cose non stanno affatto così, per cui il vero problema di Napoli può stare in una omologazione anonima, in uno spostamento della periferia verso il centro, che è tipico movimento in una direzione destorificante, dato l’anonimato della periferia napoletana. Il fatto è che sia la periferia sia il centro sono produttivamente destrutturati, per la caduta del sistema di connessioni virtuose che esiste-vano fra industria e istituti di ricerca soprattutto con conseguenti ricadute sull’insieme urbano. E dunque, che la periferia invada il centro, come già mi è capi-tato di scrivere, fa parte di quella indicata perdita di storicità cui si oppone la resistenza di una vecchia identità originaria che, isolata in sé, rischia ulteriore regressione: una napoletanità senza la forza di Napoli alle spalle. La città è in declino, ma la risposta può essere solo alta, proprio perché nella città sono restati come i residui e talvolta le macerie di un vecchio ruolo nazionale e meridionale, e questo problema non può essere aggirato semplicemente rinunciando ad esso. È per questa ragione che Napoli ha bisogno di idee, di progettualità politica, di mobilitazione delle intelli-genze, non di semplici rappezzi per impedire il rischio di una rottura sociale. In questi anni, si deciderà molto del suo destino, giacchè quel “sistema dell’anonimato” avanzante, cui mi sono riferito, è talmente invasivo e accelerato da poter occupare molto di ciò che gli si oppone ancora, e il tempo stringe, e il rinnovamento necessario ritarda, come mostrano il deserto di Na-poli-Est, le incertezze su Bagnoli, la crisi dei settori a tecnologia fine, l’indebolimento degli istituti di ricerca, la disoccupazione giovanile qualificata che è quasi condanna di una intera generazione, l’assenza di Napoli nel dibattito nazionale, forse per la prima volta

in maniera così clamorosa, la sua immagine che si è tradotta, con evidenti esagerazioni nell’un caso e nel-l’altro, dall’euforico rinascimento al buio dell’illegalità e della violenza. Non tutto è ombra, naturalmente, come prima non tutto fu luce. Una grande città non si annulla all’improvviso nelle spire delle sue intro-versioni. Oggi, spesso, la virtualità del dibattito vede o luci o ombre, aut-aut, e questo, certo, non è fondato. Ma il dato dominante è il declino e la crisi che oscura la prospettiva. Insisto perciò sulla necessità delle idee, e della mobilitazione delle intelligenze, ma ciò riporta a quel problema da cui la mia riflessione è partita: lo spazio pubblico, lo stimolo che può dare il confronto con la classe politica, il reciproco ascolto, l’impegno che è anche culturale per l’utilizzo dei fondi europei (qualità, non solo quantità), il sostegno alle università e alla ricerca, l’accelerazione per i progetti in via di attuazione, giacché si tratta anche di una battaglia contro il tempo, per tutte le ragioni indicate. Su que-ste cose, e su molte altre, la visione dall’alto e quella dal basso possono incontrarsi. Sarebbero importanti alcuni segnali, e provo conclusivamente a indicarne qualcuno. La lotta al conformismo; lo stimolo a ridare un’anima alla politica, in modo da immaginare che ritorni una ispirazione che spinge a vivere “per” la politica e non solo “di” politica, anche qui parafra-sando Weber; il rilancio dei progetti concreti che già stanno in campo; lo sforzo per riattivare la mediazione dei partiti come un luogo di elaborazione e di lotta politica sulle idee e la prospettiva, non luoghi di co-rale e conformistica approvazione di politiche decise altrove. Mi rendo conto che tutto ciò può essere inteso come mera retorica e che la verità sia quella che si legge nell’oracolo di Isaia: “Una voce chiama da Seir in Edom: Sentinella!Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: Verrà il mattino, ma è ancora notte.Se volete domandare ritornate un’altra volta”. Ma le ragioni indicate nel mio breve ragionamento dovrebbero convincere che, comunque, i problemi posti sono reali, anche se la loro soluzione può ap-parire impossibile. La democrazia oggi ha due vie dinanzi a sé: il populismo, che è la controfaccia del potere pubblico chiuso in se stesso, e una democrazia solidale. Napoli ha nel suo Dna ambedue queste cose. Si tratta di scegliere una via prevalente e praticarla. Ma se non si prende sul serio lo stallo in cui siamo, il risveglio sarà duro, l’emarginazione immanente, la periferia degradata e ribellistica detterà legge al centro, a un centro senza idee e senza progetti. Si dovrebbe muovere da un comune interesse per il futuro della città, tutti ne facciamo parte, e abbiamo in modi diversi lavorato in essa e qualche volta per essa. Forse è il momento di trovare un momento alto di collaborazione tra forze diverse.

CONVEGNO[24]

Page 25: Numero 6/2005

NON SMARRIAM

O IL SENSO

DEL CAMMINO

COMPIUTO

Vorrei anzitutto ringraziare Giorgio Napolita-no, Andrea Geremicca e Umberto Ranieri per l’invito e per aver voluto organizzare questo momento di riflessione. Ritengo sia giusto

procedere come oggi si sta facendo, e cioè consideran-do la questione napoletana nel suo contesto storico, ma anche in un contesto più generale, meridionale, nazionale, e in qualche modo anche mediterraneo ed internazionale.

È evidente che, nel poco tempo che abbiamo a di-sposizione, potranno essere approfonditi soltanto alcuni elementi di riflessione.

In questo senso, penso sia opportuno dare il giusto rilievo ai passi in avanti compiuti dalla realtà napole-tana in questi anni, ed evidenziare i problemi seri che siamo riusciti a risolvere. Lo sottolineo perché una delle tendenze più naturali e consolidate che riscontriamo, è quella a non vedere o quantomeno a sottovalutare i pro-blemi più ardui, nel momento in cui si ottiene qualche risultato; e viceversa a smarrire il senso del cammino compiuto, e non riconoscerlo in quanto tale, nei momenti di particolare difficoltà. È un problema delicato e di fondo che abbiamo davanti a noi, ed io penso che debba opportunamente compiersi uno sforzo alla ricerca di un equilibrio, non nel senso burocratico del termine. Da sempre, il giusto sta nel mezzo. Naturalmente può capitare che di volta in volta l’accento possa cadere su un passo in avanti compiuto, piuttosto che su una difficoltà incontrata, ma un conto è l’accento che viene messo mantenendo un consapevole equilibrio, e un altro conto è assimilare all’ultima impressione l’intera realtà delle cose. Oggi mi pare che questo equilibrio ci sia, e pertanto è possibile vedere sia i passi in avanti che i problemi seri.

Tra i passi in avanti, certamente va enumerata la definizione di alcune regole, importanti per il territorio e dunque potenzialmente per lo sviluppo della città. Le regole di governo del

territorio non necessariamente portano con sé lo svi-luppo, però sono importanti. Queste regole riguardano principalmente il Piano Regolatore Generale della città: Napoli, pur con tutti i suoi problemi è stata la prima grande città italiana, dopo la riforma del 1993, a dotarsi di un piano regolatore generale. Inoltre, la legge urbanistica regionale consente di fare qualcosa che per anni non si è potuto fare. Essa permette infatti di poter approvare in Giunta, una volta definito in Consiglio Comunale lo

strumento urbanistico generale, gli strumenti esecutivi di grandi territori e parti della città.

Questo importantissimo passaggio, noi siamo riusciti a farlo, e la visione d’insieme della città che emerge dal Piano Regolatore Generale e dalla Legge Urbanistica, è una visione giusta, equilibrata anche sotto il profilo delicatissimo delle periferie. Lo abbiamo fatto prima di altre città italiane, e di importanti metropoli europee, non soltanto di Parigi, che bruciava qualche giorno fa, o di Londra, che meno eclatantemente qualche tempo fa è stata costretta ad istituire il coprifuoco per i ragazzi.

Per le grandi periferie noi abbiamo fatto le scelte giu-ste: i parchi, gli spazi, le strutture sportive, e soprattutto i trasporti metropolitani. E però non siamo riusciti a toccare ed intaccare altri problemi fondamentali. Le que-stioni che si incontrano nelle grandi periferie attengono sia a problemi economici sia a problemi di identità e di libertà. Questo dato di fatto ha rappresentato il nostro principale punto di difficoltà, nonostante avessimo ben individuato nella mancanza di complessità sociale, in nodo essenziale da sciogliere per le periferie, ma anche per il centro storico. Questo è vero per qualsiasi grande città, e per Napoli in maniera particolare. Per questo mo-tivo immaginammo di portare a Scampìa e a S. Giovanni l’Università, i Servizi Sociali, e soprattutto trasporti e metropolitana. Era giusto, perché quello che non serve nei grandi quartieri di periferia è avere una monoclasse sociale. È questo che crea frustrazione in certi quartieri, e cioè la difficoltà ad avere una stratificazione ed una complessità sociale. È questo che ci siamo sforzati di fare, contrastando quello che è successo in altre grandi città italiane, vale a dire l’espulsione dal centro della città delle parti più popolari, e in qualche modo persino di un pezzo dell’ identità cittadina. Basta andare in grandi città storiche e culturali italiane, per vedere che i centri storici non sono più abitate dagli strati più popolari.

Circa i limiti della nostra azione, io penso che anche in questo caso dobbiamo avere piena consapevolezza, ed es-sere obiettivi nell’individuare ciò che non ha funzionato. Da questo punto di vista, penso sia evidente la contrad-dizione che a Napoli, ad un certo punto si è espressa. Il processo di crescita civile, “etico-politica”, come ha detto Biagio De Giovanni, che è stato molto forte in città, si è scontrato con l’assenza di un cambiamento più profondo della struttura economica. E ciò ha determinato una sorta di “corto circuito”. La mancanza di crescita economica ha coinciso con gli anni di governo del centrodestra; ma ha riguardato, è doveroso dirlo anche i governi di

Antonio Bassolino

CONVEGNO[25]

Page 26: Numero 6/2005

centrosinistra, per ciò che riguarda l’area meridionale e napoletana in particolare. Per questo motivo io credo che debba costituire un fondamentale punto programmatico dell’Unione di centrosinistra quello della stesura di un programma decennale di riqualificazione delle grandi aree urbane, dei grandi quartieri popolari e dei centri storici. Lo sforzo deve essere quello di tenere assieme e coordinare scelte e risorse nazionali con scelte e risorse regionali e locali. È esattamente quello che stiamo cercan-do di fare attualmente, attraverso il Coordinamento delle Regioni Meridionali, con l’intento di dare ad esso una dimensione non soltanto rivendicativa, ma altresì capace di mettere in sinergia le potenzialità su scala interregio-nale. Prima di venire qui ho effettuato un giro di prova sull’Alta Velocità Roma-Napoli che entrerà in funzione la prossima settimana. Si tratta di qualcosa che cambierà di molto lo stato delle cose: la possibilità di spostare persone e merci da Roma a Napoli in un’ora soltanto. In questa prospettiva noi abbiamo già cominciato a lavorare, tra Regione e Regione, e tra Città e Città, per elaborare una visione d’insieme, attraverso gli assessorati preposti, per capire in che maniera possa essere “ripensato” un territorio di tre milioni di abitanti, all’interno del quale ci si sposta in un’ora soltanto.

Vanno ripensate questioni culturali, mobilità, spostamenti: è questa la ricerca che ci vedrà impegnati nei prossimi mesi, per l’individua-zione di alcuni grandi progetti strategici sui

quali concentrare gran parte delle nostre risorse. Abbia-mo imparato a spendere meglio: un terzo del nostro PIL è frutto di migliori politiche pubbliche regionali e locali.

La sfida che adesso abbiamo davanti a noi è di indi-viduare per la programmazione nuova, fino al 2013, due o tre progetti impegnativi per riorganizzare il territorio. Io penso che tra questi vada incluso un progetto di grandissimo impegno nel campo delle infrastrutture e della logistica. Un grande progetto che contempli: Alta velocità, grandi metropolitane, porti, aeroporti, e consen-ta altresì di “unire” i due mari, Tirreno e Adriatico, per fare del Mezzogiorno una grande piattaforma logistica dentro il Mediterraneo e avere una forte dimensione internazionale. C’è moltissimo da fare, perché se è vero che tra pochissimo sarà possibile andare da Roma a Napoli in un’ora, occorrono però ancora quattro ore per andare da Napoli a Bari. Noi dobbiamo fare in modo che anche questa distanza possa essere coperta, com’è possibile, in un’ora e quaranta al massimo. Se questo sarà possibile, allora è evidente che lo spostamento veloce di persone, ma soprattutto di merci, da Roma a Napoli e a Bari potrà portare anche nel centro-sud, per la prima volta, quegli effetti che nel nord ha prodotto l’asse Milano-Torino-Genova.

Un altro grande progetto deve riguardare la ricerca

e l’innovazione, che rappresentano l’unico modo per riprendere un giusto discorso produttivo ed industriale, senza il quale, e su questo siamo tutti d’accordo, non regge una realtà di milioni di abitanti. Infine, deve esserci un progetto che riguardi le strutture culturali e sociali. Strutture, dunque, non solo iniziative sociali, in grado di raccontare una identità, e anche di creare nuovi lavori. Su queste questioni va sollecitato il massimo della discussione, e va ad esse riservato il massimo dello spazio pubblico, che è qualcosa di più vasto e più ampio del potere pubblico e istituzionale.

Bisogna riconoscere che oggi non siamo allo stesso punto di dieci anni fa. Non c’è un sistema politico a pezzi, come dieci anni fa. Ci troviamo invece in una situazione nella

quale, nel corso di più di dieci anni, un sistema politico si è riformato, in gran parte in modo equilibrato.

E di fronte a noi c’è il tema delicatissimo di come avere uno spazio pubblico nell’ambito del quale un rinnovato sistema politico e partitico – che non ha più le basi di massa di una volta, e che non potrà comunque più avere la funzione che ha avuto per interi decenni della storia italiana, – può riuscire ad esprimere la propria funzione senza nostalgie per il passato e senza ricreare un rapporto squilibrato tra partiti ed istituzioni. Penso che questo sia un tema che riguarda noi, ma riguarda anche il Paese nel suo insieme, ed il nuovo governo che, mi auguro, uscirà dalle prossime elezioni politiche. C’è bisogno di muoversi, secondo il mio punto di vista, per trovare nuove strade. Le primarie devono essere garantite da regole certe, perché sarebbe paradossale far seguire una scoperta e valorizzazione, da una rimessa in discussione. Occorre dunque regolamentare le primarie, intendendole come spazio pubblico più largo, come uno degli spazi pubblici più larghi.

Infine, nuovi equilibri vanno individuati riguardo al delicatissimo tema del territorio. Io sto spingendo affin-ché al referendum sulla devolution si arrivi anche per via regionale, perché ritengo giusto che oltre ai cittadini che raccolgono le firme, sia importante che le regioni stesse chiedano il referendum.

Così si rende più chiaro che l’alternativa alla devo-lution risiede in un nuovo equilibrio tra federalismo temperato ed un nuovo centro statale. Perché più lo Stato è autorevole, più questo serve anche al territorio, per praticare una più ricca democrazia.

È in questa visione che dobbiamo muoverci, consa-pevoli di tutti i nostri limiti e difetti, e anche delle corre-zioni che è giusto apportare. Di questo dobbiamo avere piena coscienza, per cercare assieme, ognuno per la sua parte di responsabilità, di guardare avanti, riflettendo sull’esperienza fatta e cercando insieme di delineare un cammino più giusto.

CONVEGNO[26]

Page 27: Numero 6/2005

ISTITUZIO

NI,

POLITICA

, SOCIETÀ

Chi volesse tracciare un bilancio di quanto ha funzionato e di quanto non ha funzionato in un’esperienza di governo lunga dodici anni, forse dovrebbe partire proprio da

questo elemento di singolarità: l’eccezionale durata nel tempo delle amministrazioni napoletane di centrosinistra. Ovvia-mente, non è ragio-nevole addebitare ad una coalizione, come fosse una colpa, l’inin-terrotta gestione del potere locale dal 1993 ad oggi. Il problema è che, per una somma di ragioni, il centrosi-nistra napoletano ha finito per configurarsi come un sistema senza alternanza.

È stato spesso ri-petuto come la più ri-levante novità della seconda repubblica sia stata l’introduzione dell’alternanza di governo. Seb-bene difettosa per qualità degli schieramenti e scarsa legittimazione reciproca, l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra ha introdotto una prassi politica che abilita gli elettori a verificare l’operato di un governo e responsabilizza il ceto politico, rispetto ai pro-grammi e alle realizzazioni. Per un paese che viene da una lunga tradizione di maggioranze fondate su un centro ipertrofico e imprescindibile, si tratta di novità rilevanti.

Ora, a me sembra che il sistema politico napoletano abbia vissuto e viva tuttora una stagione priva di al-ternanza. E che molte delle inefficienze addebitate alle amministrazioni locali si spieghino anche – se non soprattutto – con questo deficit. Ovvero con la man-canza degli stimoli provenienti da un’opposizione cre-dibile e (appunto) alternativa. Nell’ultimo decennio, il centrodestra locale ha mostrato tratti di eccezionale debolezza, non riuscendo mai a mettere seriamente in discussione la tenuta del centrosinistra. E, natural-mente, la mancanza di un’alternativa attendibile ha prodotto danni gravi. Senza il controllo e l’urgenza di un’opposizione, è difficile che la maggioranza agisca come se esistesse un mercato politico competi-

tivo e che, per risolvere i problemi sul tappeto, attui scelte innovative. Riforme e innovazione selezionano l’elettorato, producono fratture nel corpo elettorale, costituiscono insomma un rischio che accetterà di correre soltanto chi sia pressato da una forte opposi-zione. Più in generale, il blocco dell’alternanza ha de-

terminato quella caduta verticale del conflitto politico e sociale, che Biagio De Giovanni ha richiamato in più oc-casioni. Un fenomeno, questo, che riflette e aggrava la debolezza e la scarsa articolazione delle classi dirigenti cittadine. Non è perciò inutile chiedersi a cosa si debba questo collo di bottiglia, che dal si-stema politico finisce per riflettersi sull’intera società napoletana.

Nell’ultimo decennio, il centrosinistra na-poletano ha prodotto due distinti sistemi politico-amministrativi. Il primo, che riguarda la prima sindacatura di Antonio

Bassolino, quella iniziata nel 1993, potrebbe essere definito “modello giacobino-comunitario”. Il secondo, che parte dalla seconda sindacatura di Bassolino e ar-riva fino alla giunta di Rosa Russo Jervolino, “modello di grande coalizione”.

Il modello giacobino-comunitario, che si fondava su un’alleanza interpartitica (sbilanciata a sinistra) ma che rivelò assai presto un’ispirazione sostanzialmente non-coalizionale, venne costruito – con indubbia sagacia politologica – su una serie di elementi: (1) la forte discontinuità politica ed etica rispetto al passato; (2) messaggi, invenzioni simboliche e pratiche di tipo comunitario; (3) una progettualità estremamente am-biziosa, che venne divulgata con slogan ad alto tasso comunicativo; (4) la sottolineatura di un Mezzogiorno orgoglioso e autonomistico, identificato con i suoi nuovi sindaci.

A monte, tuttavia, il principale carattere sistemico del quadro politico era, grazie ad un contesto comples-sivo molto particolare e (si può dire oggi) irripetibile,

Paolo Macry

CONVEGNO[27]

Page 28: Numero 6/2005

la sindacatura Bassolino nasceva, di fatto, senza pro-spettive di alternanza. Mi riferisco agli effetti della bufera di Mani Pulite, ovvero alla radicale dispersione del vecchio pentapartito, delle sue organizzazioni, del suo ceto dirigente. Un vuoto politico epocale. Ma non poco determinante, nell’emergere di un sistema senza alternanza, fu anche l’atteggiamento della destra, la quale, candidando a Palazzo San Giacomo la giovane Alessandra Mussolini, mirava ad assicurarsi il proprio zoccolo duro. Naturalmente l’obiettivo fu raggiunto e, in verità, non furono pochi i voti raccolti dalla Mussolini. Ma si trattava pur sempre del tradizionale serbatoio della destra napoletana. La quale, lanciando la candidatura della nipote del Duce, cominciava a manifestare la propria incapacità di andare oltre i propri storici confini (un limite che, fatte le debite proporzioni, dura ancora oggi). Alessandra Musso-lini portava un messaggio esplicitamente populista, ma, in questo modo, chiudeva la destra in una sorta di ghetto politico e depotenziava alla radice l’ipotesi che, intorno ad essa, potesse radunarsi una parte dell’opinione moderata e conservatrice, in vista di un’alternativa di governo.

Altrettanto importante, nel prender forma del mo-dello giacobino-comunitario, fu la nuova normativa dell’elezione diretta. Nell’Italia dei primi anni Novanta

(chi non lo ricorda?), i sentimenti antipolitici e antipartitici erano diffusi, forti, talvolta isterici, e dunque chi poteva presentarsi come eletto direttamente dal popolo godeva di un impagabile differenziale di prestigio. Ovve-ro, in ultima analisi, di un forte peso politico. A Napoli, questa situazione prese le forme di una intensa personalizzazione del-l’amministrazione municipale e s’intrecciò con l’insistenza basso-liniana sull’identità comunitaria: e ambedue i fenomeni, com’è ov-vio, depotenziarono alla radice tanto il conflitto politico quanto lo stesso conflitto sociale.

Frattanto, emergeva (e si stabilizzava nel discorso politi-co) la “retorica dell’anno zero”, ovvero un’idea di forte discon-tinuità tra la prima e la seconda repubblica, la quale finì per negare – anche culturalmente ed emotivamente – la normalità dell’alternanza. Com’è spesso capitato in questo paese, anche

nel messaggio politico del primo bassolinismo l’ipo-tesi stessa dell’alternanza venne denunciata come un pericolo assoluto: se l’avvento del nuovo governo cittadino era la promessa della ricostruzione di una città eticamente e politicamente in macerie, allora l’alternanza diventava niente di meno che un ritorno all’inferno.

Infine, fu cruciale la rapida e generalizzata coop-tazione della borghesia intellettuale e dei salotti. Un fenomeno che contribuì non poco ad impedire ogni alternanza culturale, e non solo nell’area della destra ma anche nell’opinione pubblica di centro e di sinistra. Come ha ricordato Biagio De Giovanni, a Napoli ini-ziò a prendere consistenza un clima di conformismo e la buona società finì per essere più realista del re. Detto questo, non può negarsi che il sistema giaco-bino-comunitario fu molto efficiente, arrivando a raccogliere, nel 1997, un consenso al suo leader che superò il settanta per cento dei voti.

Il quadro si venne modificando con la seconda sindacatura di Bassolino e, successivamente, con la sua conquista della Regione. Il modello, fondato su una forte leadership personale, slegata

dai partiti, entrò in crisi sia a Roma con Prodi, che a Napoli. Ma a Napoli fu possibile realizzare un accordo

CONVEGNO[28]

Page 29: Numero 6/2005

strategico tra la sinistra e i gruppi di estrazione demo-cristiana, e questo determinò la riorganizzazione (e la riformulazione) del blocco di governo nella forma di quello che chiamo “il modello di grande coalizione”. Certo, si trattò di un blocco caratterizzato da forti ten-sioni, come tutti ricordano. Ciò nonostante l’accordo tra sinistra e cattolici ha sempre tenuto e tiene tuttora, grazie soprattutto ad un leader come Ciriaco De Mita, il quale – a differenza di Clemente Mastella, che talvol-ta ha giocato su più tavoli – scelse una volta per tutte di stare organicamente dentro il centrosinistra. Giocò, con coerenza, su un tavolo soltanto. E questa decisione si è rivelata strategica, perché ha stabilizzato le com-ponenti cattoliche all’interno delle amministrazioni di centrosinistra di Napoli e della Campania.

Ma così, per la seconda volta in dieci anni, il centrodestra locale perdeva la possibilità di costruire una coalizione alternativa. Non aveva modo, in so-stanza, di fare quel che era brillantemente riuscito sul piano nazionale a Silvio Berlusconi: usare i territori elettorali e dirigenziali di matrice cattolica come ter-reno di caccia per la costruzione del centrodestra. A Napoli e in Campania, invece, voti e organizzazioni di provenienza democristiana rimasero – e sono tuttora – nei confini del centrosinistra. Gardati a vista (e in genere con successo) da De Mita in per-sona. Inutile aggiungere che la sommatoria tra il sistema bassoliniano e la rete demitiana è risultata elettoralmente insuperabile e, nei fatti, ha reso ogni progetto di alternanza assai poco realistico. Al di là dei limiti politici (che pure sono evidenti) del centrodestra regionale.

Va aggiunto che il modello di grande coalizione ha avuto, rispetto al passato, i suoi caratteri specifici: un ruolo molto meno strategico della società civile; il ridimensionamento dei grandi progetti, sostituiti da una sorta di pragmatismo nelle scelte di governo; una mediazione tra i partiti che, ovviamente, ha significato compromessi e spar-tizioni; il sostanziale abbandono delle politiche identitarie (anche perché, nel frattempo, questo modello era diventato – da municipale – regionale, e si sa che la Campania presenta ben poche coesioni culturali e strut-turali sulle quali costruire una politica dell’identità). Infine – ma non è la

cosa meno importante – venne meno ogni sotto-lineatura della discontinuità e ogni retorica del-l’anno zero, per il buon motivo che, nel frattempo, era tornato in gioco un pezzo non marginale di quella classe politica che, fino a pochi anni prima, era stata stigmatizzata con pesanti accuse morali.

Quale giudizio può essere espresso, oggi, sugli esiti ultimi di un’esperienza nata nel lontano 1993? Direi che, visto a volo d’uccello, il modello della grande coali-

zione rischia di avere tutti i difetti di disomogeneità che sono tipici di alleanze allargate ad una pluralità eccessiva di partiti, e continua peraltro ad essere ca-ratterizzato dalla mancanza di un’alternativa. In un simile quadro, non c’è troppo da stupirsi se la politica locale diventi semplice gestione di reti di potere. E se manchi ogni dibattito nella società civile.

Una considerazione, tuttavia, va aggiunta. Pur con i suoi limiti (ultimamente sottolineati e talvolta enfatiz-zati da molti commentatori), il quadro politico odierno sembra più aperto ad una prospettiva di alternanza di quanto non fosse negli anni ’90. Ha perso quell’enfasi di discontinuità etica che rischiò di diventare una sorta di trappola ideologica. Ha dismesso un linguaggio comunitario che resta insidiosamente permeabile all’antipolitica. Ha infine portato alla luce le diversità, contigenti e strategiche, delle due anime del centrosi-nistra, quella socialista e quella cattolica. Tutto sembra indicare come il quadro stia diventando più mosso e, sia pure a costo di ricorrenti conflittualità, meno irri-gidito in un sistema monocratico e monoculturale. Le stesse critiche che piovono, spesso molto aspre, sulla giunta municipale ne sono un segnale. Comunque si giudichi il fenomeno, ci sono pochi dubbi sul fatto che l’opinione pubblica cittadina è diventata, nei confronti

dei propri amministratori, più critica e più esigente di quanto non fosse die-

ci anni orsono. E probabilmente non è un male che oggi,

senza che nessuno se ne scandalizzi, sia possibile disturbare

il manovra-tore.

CONVEGNO[29]

Page 30: Numero 6/2005

OCCORRE UNA

PROFONDA

RIFORMA DEI

PARTITI

Con l’incontro di stasera intendiamo contri-buire ad avviare una ricerca sulle attuali condizioni economiche e civili di Napoli oltre i sentimenti opposti dell’euforia o

del disincanto che caratterizzano troppo spesso la discussione sullo stato della città.

Un punto ai promotori dell’incontro appare chiaro: un approccio maturo ai problemi di Napoli è quello in cui la consapevolezza della complessità delle questioni si accompagna allo sforzo per indicare soluzioni. Questa è l’ispirazione che sorregge il nostro incontro. Le relazioni che hanno introdotto i nostri lavori ci hanno richiamato alla complessità e serietà dei problemi in cui si dibatte Napoli. Vorrei osservare tuttavia che la consapevolezza della portata dei pro-blemi che in noi è ben presente e che, direi, ci assilla è altra cosa da un pessimismo paralizzante sulle sorti di Napoli.

Da cosa muove la nostra riflessione? La città avverte che rie-mergono nodi struttu-rali irrisolti sul piano economico e civile che compromettono una prospettiva di rilan-cio. Forte è il rischio di decadenza di Napoli come “città che produ-ce”. Questo, in estrema sintesi, il punto di fondo della nostra analisi. Lo abbiamo detto tante volte in questi anni, Galasso e Marrelli lo hanno ripetuto questa sera: una grande città, con un milione di abi-tanti, e con un retroterra che totalizza tre milioni di cittadini residenti, non può sopravvivere senza un’adeguata base produttiva. Questa è la questione con cui dobbiamo fare i conti e che a noi pare sia stata sottovalutata in questi

anni. Napoli è stata, a suo modo, una città produttiva e industriale. L’industria ha caratterizzato per quasi un secolo l’economia della città, ed ha conosciuto una certa estensione persino negli anni dell’aggressione edilizia.

Galasso ha ricordato Nitti, probabilmente la perso-nalità più moderna della classe dirigente liberale dei primi due decenni del secolo scorso. Nitti si propose uno straordinario obiettivo, a conferma che la poli-tica non può essere sganciata da visioni strategiche: trasformare Napoli da luogo di consumo in centro di produzione. E la sua grande idea, insieme alla scelta di localizzare una forte presenza industriale nell’area occidentale, fu quella di far sorgere tra il porto e lo sterminato hinterland un quartiere industriale. Per quasi un secolo questa visione ha retto, poi le cose sono mutate, e la deindustrializzazione ha sconvolto

l’organismo produttivo della città. Questo era già evidente negli anni ’80, quando altre città industriali dell’occiden-te hanno conosciuto la trasformazione delle loro tradizionali attività produttive. A Napoli, alla deindustrializzazio-ne non ha fatto seguito l’emergere di un nuovo profilo produttivo. Di qui il rischio della deca-denza di Napoli.

Il centrosinistra ha cercato, ammini-strando Napoli nel corso del decen-

nio, di fare i conti con questo enorme proble-ma. La chiave di volta è stata individuata nel ridisegno produttivo delle due antiche aree industriali. In realtà, l’impresa si è rivelata più ardua di quanto si potesse ritenere. All’ori-gine delle grandi diffi-

Umberto Ranieri

CONVEGNO[30]

Page 31: Numero 6/2005

coltà incontrate nel promuovere l’insediamento di attività produttive a oriente ed occidente di Napoli c’è il fatto che la localizzazione di nuove imprese segue la bonifica abitativa, il riequilibrio tra presenze uma-ne e servizi, la crescita di infrastrutture moderne. In questa direzione occorreva concentrare gli sforzi. Questo era il salto di qualità da compiere. Su questo terreno si sono incontrate le maggiori difficoltà. Una analisi veritiera della situazione di Napoli deve con-durre ad una ricerca effettiva delle ragioni dello stallo di ambiziosi programmi di riorganizzazione urba-nistica e produttiva di territori decisivi della città. A Bagnoli è stato probabilmente un errore affidare il disinquinamento delle aree dell’Italsider ai quattro-cento operai mentre invece sarebbe stato necessario ricorrere a competenze specifiche da ricercare anche su scala internazionale. A dieci anni di distanza, la prospettiva di quell’area appare ancora incerta, ed altrettanto nebuloso sembra il futuro dell’altra grande area industriale della città, quella orientale. Questi sono i fatti, e la questione non è di poco conto, ai fini di una ripresa della città sotto il profilo produttivo. La ripresa economica di Napoli e del Mezzogiorno dipende sempre di più dalla dotazio-ne di infrastrut-ture materiali ed immateriali, di un arricchimento del capitale umano, del ripristino di ef-fettive condizioni di sicurezza. Sono questi i fattori deci-sivi da potenziare per attrarre inve-stimenti. Su questo terreno nei prossi-mi anni si gioche-rà la partita e sarà sempre più ardua, perché l’allarga-mento ad Est del-l’Unione europea crea un mercato di enormi proporzio-ni con condizioni in alcuni casi più favorevoli per at-trarre investimenti. È importante che nei discorsi su Na-poli torni il tema del rapporto della

nostra città con i paesi della riva sud del mediterra-neo. Ma occorre dirsi la verità: oggi la città appare ancora priva di quelle caratteristiche necessarie per partecipare da protagonista alla politica euromedi-terranea.

Come colmare questo vuoto? Sarebbe suicida rinunciare ai progetti più ambiziosi di rior-ganizzazione di parti importanti della città. Non possiamo tuttavia correre il rischio di

ritrovarci tra due anni a discutere come se fossimo ancora all’anno zero. Cosa c’è da rivedere e cambiare per superare l’impasse ed entrare in una fase più stringente della realizzazione dei programmi? Quali aspetti tecnici, urbanistici, finanziari bisogna rive-dere? Si tratta di programmi la cui realizzazione tra l’altro è essenziale per affrontare il nodo cruciale della riqualificazione delle periferie. Pensiamo ai quartieri a nord di Napoli: tra il rione Berlingieri e Scampìa si attestano realtà sociali tra le più difficili, dal punto di vista sociale e civile, dell’intera nazione. Si impone uno sforzo più concreto, più fattivo per realizzare piani di riqualificazione che non possono risolversi, per l’amor

di Dio, in ulteriore edilizia abitativa. In questa sede io avverto il dovere di porre la necessità di una verifica di come stanno le cose a Scampia. Cosa ne è del progetto di ri-qualificazione teso a l supera mento della atroce condi-zione di vita che si svolge nelle Vele? L’ipotesi di collo-cazione in quella parte della città di facoltà universita-rie, per esempio, era una prospettiva del tutto irrealistica e velleitaria? Può darsi lo fosse, ma allora occore dire con chiarezza che si è sbagliato e pen-sare ad altre scelte per Scampia.

Da questo pun-to di vista più che un unico grande

CONVEGNO[31]

Page 32: Numero 6/2005

progetto per Napoli c’è bisogno di un lavoro su parti della città, un lavoro che mobiliti risorse non solo pubbliche. Concordo con Gravagnuolo. Penso che sulla base di una effettiva convergenza tra Regione, Comune e Provincia, debbano essere definiti i piani di attuazione della variante al PRG incominciando dalle aree più degradate del centro urbano. Poi, naturalmente, occorrerà lavorare per invertire la tendenza alla chiusura della città su se stessa. Va spezzata la trama della storia di una città costretta da secoli a “gonfiarsi”, a sottrarre spazio ad ogni altra attività che non sia edilizia abitativa per una popolazione prigioniera nel suo perimetro urbano. Noi non riuscimmo a spezzare questa trama malgrado eroici sforzi, nemmeno con le scelte del dopo terremoto.

Vorrei infine dire poche cose su due ultime questioni. Va mantenuto fermo l’orienta-mento a impedire qualunque coinvolgi-mento, da parte del Comune, come della

Provincia e della Regione del resto, in pratiche di avviamento al lavoro condizionate dai gruppi di pressione. La via maestra per affrontare la questione dei senza lavoro a Napoli va individuata nel poten-ziamento della riqualificazione dei processi di for-mazione per i più giovani e nella adozione di misure universali a sostegno dei senza lavoro che appaiono di difficile collocazione. So bene delle difficoltà, ma io credo che l’amministrazione pubblica abbia già pagato un prezzo enorme alle pratiche di assunzioni imposte con il ricatto della pressione violenta. Guai se si cedesse ancora una volta.

Credo che si dovrebbe riflettere sulla esperienza dell’ASIA e sui problemi che ha determinato alla tormentata vicenda del sistema di raccolta dei rifiuti un meccanismo di assunzione condizionato, almeno in parte, dalla preoccupazione di ricollocare frazioni di LSU. L’altra importante questione è rappresentata dalle società partecipate. Credo si debba lavorare per un comune fonte autorevole nella definizione delle regole, ma leggero nella gestione. Un comune che non confonda regole e gestione. Ecco perché sono auspicabili processi di privatizzazione che in modo serio e trasparente permettano di liberare il Comune da compiti cui possono più efficacemente assolvere privati con l’obiettivo di migliorare il ser-vizio, di ridurne il costo per i cittadini e di liberare il comune da impegni finanziari gravosi consentendo di utilizzare risorse rese così disponibili in altre direzioni. In questo quadro si rende opportuna una verifica attenta delle condizioni in cui operano le società in cui è presente il comune, dell’efficacia del servizio reso.

Io concordo infine con l’affermazione di Giuseppe Galasso circa l’esistenza di una dimensione meridio-nale che non può essere annullata o rimossa ed entro la quale va collocata la riflessione su Napoli.

Troppo a lungo in questi anni si è sostenuto l’ine-sistenza ormai di una questione meridionale. C’è stata una indulgenza alla tesi che altre fossero le priorità della politica italiana. A spingere in questa direzione sono stati molti. Certamente l’influenza leghista ha pesato fortemente. Basterebbe in questa sede riflette-re sul fatto che i grandi assi infrastrutturali decisivi per le sorti del mezzogiorno vanni ben oltre i confini delle singole regioni per cogliere il permanere di una dimensione meridionale che non può essere né aggirata né ignorata.

La consapevolezza di ciò e la necessità di battersi per la realizzazione di infrastrutture strategiche per il sud impone prima di tutto un uso diverso di quella sede di coordinamento interregionale costituita dalla Conferenza Stato Regioni.

Per concludere, il ruolo della politica. Il nostro timore è che la politica napoletana tenda a chiudersi in se stessa, a separarsi dalla società e dalle aspirazioni profonde

che l’attraversano. Il rischio è creare un diaframma con l’opinione pubblica. Si è manifestata inoltre in diverse occasioni una difficoltà della politica ad interloquire con chi si interroga criticamente sullo stato della città. Si avverte un impoverimento della politica con una estrema personalizzazione da un lato ed un sostanziale declassamento del ruolo e della funzione dei partiti. Crisi dei partiti che si manifesta spesso con il prevalere al loro interno di gruppi dirigenti non selezionati sulla base del merito e della rappresentatività ma unicamente dal grado di fedeltà a notabili e potentati. Fenomeni del genere toccano anche un partito come i Ds. C’è bisogno che le forze politiche riconquistino un ruolo. Ma questo può avvenire solo sulla base di una riforma profonda del modo di essere e di funzionare dei partiti; del-l’affermarsi di metodi e indirizzi che permettano un rapporto più aperto con la società, una rottura dei meccanismi di riduzione dei partiti a strumento di gruppi e notabili.

Occorre essere molto precisi su questa materia. Avverto le difficoltà a indicare un strada seria e con-vincente di riforme delle attuali formazioni politiche. Considero questo un enorme problema. Mi auguro che “Mezzogiorno Europa” decida di dedicare una iniziativa di riflessione e di ricerca a questo tema. Forse questo invito ai compagni e agli amici di Mez-zogiorno Europa è il modo migliore di concludere questa serata di discussione su Napoli.

CONVEGNO[32]

Page 33: Numero 6/2005

NON BISOGNA

TEMERE

IL CONFRON

TO

Giorgio Napolitano

CONVEGNO

La rivista Mezzogiorno Europa, che Andrea Geremicca anima con fervore ineguagliabile, ha dimostrato già in altre occasioni di svolge-re una funzione a mio avviso necessaria ed

importante, volta ad incanalare critiche, ma anche sol-lecitazioni e riflessioni, in modo da costituire un ponte, per usare la terminologia di Biagio De Giovanni, tra il potere pubblico e lo spazio esterno ad esso. Sappiamo che questo a Napoli è stato molto difficile negli ultimi tempi, e ciò rende veramente meritoria l’iniziativa di oggi, la quale spero possa lasciare una traccia, anche sotto il profilo dei comportamenti effettivi, in tutti gli interlocutori che abbiamo ospitato in questo incontro.

Vorrei iniziare il mio intervento sottolineando es-senzialmente come un punto di particolare e inedita difficoltà sia oggi costituito dal fatto che i problemi dello sviluppo, per Napoli e per il Mezzogiorno, devo-no essere affrontati non in un’Italia e in un’Europa che crescono, ma in un’Italia che non cresce, e in un’Europa che stenta a crescere. Ciò rende il contesto generale più arduo, però apre anche una finestra di opportunità. Io credo che se noi vogliamo uscire dalla crisi che atta-naglia l’Unione Europea, dobbiamo pensare anche a nuove politiche e a nuove soluzioni istituzionali. Se vogliamo far uscire l’Italia da un giudizio di declino, che al di là di ogni retorica si tocca con mano ed è reale, dobbiamo pensare a nuove strategie di svilup-po. È sullo sfondo di tali strategie che va collocato il problema di Napoli, e per altri aspetti anche quello del Mezzogiorno. Credo inoltre che dobbiamo riuscire a far valere, in una prospettiva politica che ci auguriamo sia più favorevole, certe priorità, una delle quali è la cosid-detta “questione Napoli”. In Italia non c’è nessun’altra conurbazione simile alla nostra, nessun’altra area ur-bana in condizioni così ardue, così critiche. Questo è un tema che deve diventare essenziale nella ricerca di nuove strategie per lo sviluppo del paese. Coloro che governeranno l’Italia a partire dalle prossime elezioni dovranno riuscire a collocare questo tema come prio-ritario nella loro agenda, oppure la situazione è desti-nata ad aggravarsi in modo difficilmente recuperabile, qualunque sforzo si faccia al livello locale.

Ogni contributo da parte di chi governa la Cam-pania, e più in generale da parte di chi governa nel Mezzogiorno, deve dunque inquadrarsi in un contesto nazionale ed europeo. In questo senso, mi pare che Antonio Bassolino abbia raccolto lo spunto offertogli dalla relazione di Gravagnuolo, affermando l’idea che

il Coordinamento delle regioni meridionali debba assumere in maniera crescente un ruolo propositivo, enucleando proposte e progetti, con quel tanto di interrelazione tra le regioni meridionali che è neces-sario e possibile.

Per quel che riguarda la città di Napoli, come op-portunamente osservava Umberto Ranieri, la caduta di ogni sviluppo industriale degno di questo nome è un assillo, nonostante negli ultimi anni si sia manifestata una certa fertilità sul fronte della nascita delle imprese e della creazione di un certo tessuto imprenditoriale. Le nuove imprese sorte negli ultimi tempi ancora non costituiscono una “massa critica” che spinga a considerare Napoli come una città che produca e non si limiti ad essere luogo di infrastrutture e servizi, o una meta turistica. Questa grossa questione non può essere affrontata se non in una prospettiva di politiche nazionali ed europee. Su questo terreno le parole-chia-ve sembrano essere ricerca e innovazione. A livello nazionale ed europeo non c’è nessuno che manchi di sottolineare la necessità della ricerca e dell’innovazione, per recuperare posizioni sul terreno della competi-tività. Però, poiché a questo proposito tanti parlano di progetti, e anche Bassolino lo ha fatto poc’anzi, io

[33]

Page 34: Numero 6/2005

credo che bisognerebbe prestare un po’ di attenzione al modo in cui questi progetti vengono avanti. Più volte si è fatto riferimento a Napoli est ed a Bagnoli come luoghi di incubazione per nuove iniziative nel campo della ricerca e dell’innovazione. A questo proposito però sarebbe opportuno domandarsi se quei progetti, visto che è passato un certo tempo dalla loro elaborazione, abbiano ancora una loro validità e vitalità. È stato più volte affermato che i progetti volti a fare crescere un nuovo tessuto imprenditoriale e una nuova presenza produttiva nell’area napoletana, sono legati alla questione urbanistica. Non dobbiamo allora nasconderci che i dieci anni che sono trascorsi per l’approvazione del Piano, hanno rappresentato un costo. La lentezza è un costo. Naturalmente il discorso sulle responsabilità va fatto: non va dimenticato che c’è stato uno stillicidio dei finanziamenti promessi dal Governo nazionale, e addirittura formalmente impegnati per Bagnoli. Tuttavia, più che discutere sulle colpe di ciascuno, sarebbe più opportuno par-lare di come recuperare il ritardo e uscire da questa situazione, anche nell’aspettativa di un Parlamento nazionale e di un Governo più sensibili all’esigenza di sorreggere questi progetti, e più in generale ad una priorità della “questione napoletana”.

Si possono concentrare energie politiche ed istitu-zionali su questi progetti? Io credo che sia indispensa-bile ottenere questo risultato, e che a tal fine sia neces-sario evitare, da parte del governo locale, e regionale in particolare, ripiegamenti sull’amministrazione del consenso. Nessuno deve gridare allo scandalo per il fatto che si coltivino, da parte di chi governa, reti di influenza e di potere, come le ha chiamate Macry. Questo ovviamente fa parte dei diritti inderogabili della politica. Tuttavia, se l’allargamento del consen-so diviene assillo prevalente in chi governa, e se in questo sforzo non si garantisce la trasparenza della gestione, allora diventa altra cosa, e ne va di mezzo la qualità della democrazia. Su questo punto bisogna ragionare, evitando di chiudersi nella difesa zelante di tutto quello che è gestione attuale del potere e del governo da parte delle forze politiche che ne hanno la responsabilità, e nel rifiuto della critica, talvolta condotta con molta asprezza.

Credo che questi temi debbano interessare anche la riflessione istituzionale. Molta parte delle energie rischia di essere assorbita dalle tensioni tra gli organi di gover-no e gli organi rappresentativi. Nel corso degli anni ’90 abbiamo portato avanti riforme nell’ordinamento degli enti locali,che io difendo nella loro ispirazione; colgo tut-tavia alcuni nodi che sono rimasti irrisolti, e richiedono una riflessione. Se non troviamo il modo di coordinare il rafforzamento dell’esecutivo con la valorizzazione delle assemblee rappresentative, corriamo il rischio di

assistere a “compensazioni” improprie della caduta di ruolo dei Consigli, delle assemblee rappresentative e legislative. Credo sia importante, a distanza di alcuni anni, tentare di fare il punto sull’applicazione della legge 241/1990, e di tutti i decreti attuativi che ad essa hanno fatto seguito negli anni successivi, con impegni molto stringenti, volti a garantire la semplificazione dei provvedimenti amministrativi e la trasparenza nella gestione delle nomine. È una questione di fondamentale importanza, che deve accompagnare l’individuazione di progetti per lo sviluppo.

Naturalmente questo tipo di questioni riguarda da vicino i partiti. Sono d’accordo con Biagio De Giovan-ni nell’affermare il ruolo essenziale dei partiti nella formazione dei quadri dirigenti: è un ruolo, questo, che non può in alcun modo essere sostituito da una “onnipotenza” delle istituzioni e delle loro espressioni di governo, ed è un ruolo che i partiti stessi devono ritrovare. Non si tratta di un sentimento di nostalgia verso i partiti di una volta. Io credo, in generale, che la nostalgia possa anche essere un sentimento non indegno, se non diventa velleitaria attesa del riprodursi del passato. Ma se da un lato è bene procedere senza guardarsi indietro, dall’altro è necessario rifuggire da chiusure nel conformismo e nell’uniformità, altrimenti i partiti non riusciranno a dare un contributo alla defi-nizione d uno spazio pubblico più largo del semplice potere pubblico.

Discutere di queste cose è importante, e non bisogna temere il confronto neanche quando esso diventa conflitto e contrappo-sizione dura tra posizioni differenti.

Infine vorrei soffermarmi su un altro punto, sol-levato da Paolo Macry nella sua relazione. Noi non abbiamo, in questa fase, e già da alcuni anni, una dialettica di alternanza nella città e nella regione. Naturalmente io non credo che ci si possa tutti far carico dell’inadeguatezza dello schieramento poli-tico di centrodestra ad assolvere al proprio ruolo di opposizione per l’alternanza. Credo però che occorra fare attenzione a non concepire quella che Macry ha definito una “visione coalizionale” del governo locale e regionale come tentativo di assorbimento dell’opposizione. Credo altresì opportuno richiamare l’opposizione alle sue responsabilità e a fronteggiare con convinzione le sfide che essa è capace di produrre, sfuggendo alla tentazione di perseguire l’obbiettivo di rassicuranti e ambigue forme di unanimismo.

Credo che oggi si sia fatto un buon lavoro, e si sia avuta una buona discussione.

Oggi c’è stato dialogo. L’auspicio è di continuare su questa strada per determinare prospettive valide, per Napoli e per la Campania.

CONVEGNO[34]

Page 35: Numero 6/2005

[35]

ROSARIO VILLARI e Andrea Gere-micca, nella loro conversazione su Napoli apparsa sul Mattino di ieri, mettono nella sostanza il dito sulla piaga. Critiche alla classe politica, agli intellettuali, ai ceti professionali non sono mai mancate e tuttora non mancano, anche se, e questo ultimo caso non fa eccezione, restano gene-riche, sempre uguali pur nella loro semplice verità. La sostanza delle osservazioni di Villari e Geremicca sta invece nel fatto che ora le osser-vazioni sui diversi segmenti della società civile e politica vengono con-nesse. E mostrano che il problema vero sta nella destrutturazione dei processi di comunicazione, scambio e osmosi che devono caratterizzare un organismo sociale e attraverso cui si producono idee, iniziative, si con-frontano interessi collettivi e privati, si fanno opposizioni: tutto ciò che fa viva una società e consente la sua evoluzione. Questi processi, per esse-re tali, debbono nascere dal contrasto e dalla discussione, attraverso cui la pubblica opinione si fa un’idea di ciò che c’è in gioco. In questo Napoli non è mai stata né Londra, né Parigi, ma è molto peggiorata. Abbiamo intellet-tuali pagati (detti consulenti) e non, interessi privati e collettivi che più di prima si muovono solo sottotraccia e al meglio esprimono dinamiche e propositi corporativi. È certo deplo-revole quanto di recente successo in alcuni Ordini professionali, ma alme-no lì emergono contrasti d’interesse, che nella politica rimangono coperti da provocazioni e mediazioni. Napoli manca di un’opposizione degna di questo nome. E ha una maggioranza politica dotata di ampio consenso che tende ad assorbire in sé le istanze

che dovrebbero essere proprie della società civile. È un regime di tipo salazariano.

Voglio ricordare un caso emble-matico, quello di Diametro, un’as-sociazione di intellettuali e liberi professionisti e qualcosa d’altro, che si autodefinì lobby, salvo che proprio una lobby ha la sua legittimità nel-l’interagire coi processi decisionali quando è esterna ad essi, non quan-do, com’era il caso di Diametro, altro non è che una costola dei pubblici poteri locali, perché in questo caso

richiede un’aggettivazione diversa. Il caso è emblematico, anche per-ché durò lo spazio di un mattino, subito riassorbito dalla mediazione interna alla politica, vera dannazione del sistema napoletano e campano: nessuno comanda, tutti partecipano alla spartizione continua del potere. Chi figura al comando non governa ma naviga, mostrando esperienza di acque palustri. Risultato: la funzione politica viene meno e ad essa si sostituisce una logica di interessi cor-porati o semplicemente preminenti. Donde il paradosso che a Napoli non c’è politica, anche se moltissimo continua a dipendere da essa. Villari evoca la storia degli anni ’50, quando c’era tensione tensione intellettuale e polemica politica, si producevano idee, si confrontava il futuro della città con altre realtà, si guardava fuori per

cercare modelli ed esempi al fine di imitarli e affrontare i problemi che stavano innanzi. Ricordo solo che Francesco Compagna inaugurò la sua rivista, Nord e Sud, con un articolo di Ugo La Malfa intitolato, «Europa e Mezzogiorno», perché Napoli si sen-tiva parte di ambedue queste realtà. Oggi Napoli, dice bene Villari, non guarda che al suo «particulare». Ma se Villari approfondisce la memoria, quella Napoli non era tutta Napoli. Era la Napoli dell’opposizione comunista e socialista e quella felicemente creativa di alcune piccole minoran-ze laiche. La Napoli che deteneva il potere pubblico, quella laurina e poi democristiana e di centrosinistra, non aveva certo queste aperture e passioni.

Molta acqua è passata sotto i pon-ti, una lunga storia che gli intellettuali dovrebbero incominciare a ripensare criticamente, perché proprio lì sta la chiave di ciò che oggi accade. E nel farla si constaterebbe che una profonda metamorfosi è avvenuta. Io sono stato consigliere regionale e comunale negli anni ’80 e posso testimoniare che ancora allora, mal-grado accordi sotto banco vi fossero e la gestione del potere fosse quella assai malsana del dopo terremoto, c’era ancora opposizione e dialettica politica.

Ora il cerchio si è chiuso, tutti hanno imparato a usare la lampada di Aladino. La verità è che a Napoli nella sostanza c’è continuità, quanto al modo d’essere del potere locale e alla sua gestione, salvo che non vi sono più antidoti ad esso. Poiché comunque siamo in democrazia, l’effetto conseguente ed inevitabile è la putrefazione.

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

di Piero Craveri

Page 36: Numero 6/2005

[36]

QUALCHE TEMPO fa, in primavera, in un intervento sulle colonne del Mattino, Raffaele La Capria riflet-teva sul silenzio degli intellettuali napoletani. E si aprì un dibattito sulle tesi del grande scrittore. Con le prime nuvole dell’autunno torna il discorso sugli intellettuali. Insieme all’influenza. Insidioso e debilitante come l’influenza. Ma con la certezza che in quindici giorni passa, come l’influenza. E tutto torna come prima. Ci deve essere pure una ragione che va oltre il puro sadismo giornalistico per questo eterno ritorno. Eppure il tema dell’impegno politico degli intellettuali è già stato sviscerato ampiamente.

Fin dal drammatico resoconto di Platone della difesa e morte di Socrate. Forse il vero problema è che quando si parla di «intellettuali» ognuno pensa ad un particolare fe-notipo. Forse bisognerebbe aggior-nare la definizione. Il tema ultimo, sollecitato dalla conversazione tra Rosario Villari e Andrea Geremicca apparsa domenica sul Mattino e ri-preso dall’intervento di ieri firmato da Piero Craveri, mi pare essere il conformismo degli intellettuali napoletani.

Come si manifesta il conformi-smo degli intellettuali? Parlando solo di temi generali. O tacendo. Evitando temi concreti. Praticando al più lo sport della lamentazione. Anche la parola «crisi» della società napoletana viene maneggiata con cura dagli intellettuali. Come un medicinale con molte controindica-zioni. Ricordo anche quanto affermò La Capria, sottolineando come gli intellettuali a Napoli siano astratti ed avulsi dal contesto sociale. Perso-

nalmente non credo si possa ridurre tutto al conformismo. Che al più può riguardare coloro che con il potere politico hanno una frequentazione quotidiana.

Né penso sia plausibile il solito rilievo sull’astrattezza degli intellet-tuali. Il problema è più complesso. In realtà molti si sono rifugiati in una dimensione esclusivamente pro-fessionale e scientifica. Mi spiego meglio. Penso alle centinaia e centi-naia di ricercatori che dedicano allo studio ed alla ricerca ore ed ore tutti i santi giorni.

Nelle biblioteche. E nei labora-tori. Non mi pare siano conformisti. O, sotto sotto,si ritiene che queste centinaia di soggetti non sono degni del magico appellativo di intellettua-le? O che non sono interessati alle sorti della città? O che sono astrat-ti? Nessuno può sostenerlo. Non vorrei nell’analisi faccia capolino un errore metodologico. Se sei un «intellettuale doc», devi frequentare i palazzi. Se frequenti i palazzi sei inevitabilmente un conformista. Se sei un «intellettuale doc», sei un conformista.

Penso invece che il ripiegamento sulla propria dimensione culturale sia stata, in molti casi, una neces-sità vitale per non abbandonare il campo. Perché fare ricerca seria a Napoli è dieci volte più difficile che a Milano o Torino. Cento volte più difficile che a Boston.

I nostri ricercatori contribui-scono a mantenere vitale questa città. Talvolta anche respingendo le facili seduzioni di centri stranieri. Piuttosto la domanda è un’altra. Perché mille fili d’erba non fanno un prato?

di Guido Trombetti

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

Page 37: Numero 6/2005

[37]

NELLA CONVERSAZIONE che ha avuto con Andrea Geremicca, pubblicata sul Mattino di domenica scorsa, Rosario Villari, eminente storico e profondo conoscitore della società meridionale, coglie nella situazione napoletana una tendenza all’ar-roccamento da parte del mondo della cultura: «Un atteggiamento difensivo – dice Villari – che si tra-duce spesso in una chiusura verso il nuovo e verso l’esterno, una insuf-ficiente attenzione verso l’Europa e il mondo, verso gli altri, verso i giovani» e aggiunge «questo atteg-giamento è anche di una parte della classe dirigente». Mi sia permesso di svolgere quest’accenno di Villari anche perché altri temi mi appaiono, a confronto con l’arroccamento delle classi dirigenti, meno rilevanti.

Sono, a mio avviso, questioni di scarso respiro, interne al confronto tra i gruppi politici della sinistra napoletana che si è acceso negli ultimi tempi anche in vista delle prossime elezioni politiche ed amministrative. La chiusura, direi l’esclusione soprattutto dei giovani diplomati e laureati che si affacciano sul mercato del lavoro, è da sempre una costante delle classi dirigenti del Mezzogiorno ma sono divenu-te pratiche asfissianti soprattutto negli ultimi anni, a Napoli come in altre realtà meridionali. La stagna-zione economica, la conseguente mancanza di sbocchi professionali tanto per i giovani che hanno con-seguito un diploma o una laurea cosiddette deboli (ad esempio, nelle discipline umanistiche) quanto per quelli dotati di un titolo di studio superiore cosiddetto forte (nelle discipline tecnico-scientifiche),

sono nel Mezzogiorno alla radice di questi fenomeni di emarginazione dei giovani, fenomeni che vengono tuttavia esaltati dal controllo mono-polistico delle attività professionali, del lavoro intellettuale, da parte di gruppi agguerriti e chiusi insediati nelle amministrazioni pubbliche, nella scuola, nelle Università, negli ordini professionali.

A Napoli e in altre città meridio-nali sono sempre più diffusi i casi di nepotismo, di sfacciato familismo: nell’università le cattedre passano da padre a figlio o a parente acquisi-to, nelle professioni liberali gli studi sono tramandati con la relativa clien-tela ai giovani rampolli di affermati medici, avvocati, ingegneri, notai, architetti. Siamo giunti al punto che in alcune facoltà universitarie i pa-renti stretti dei cattedratici lavorano e fanno carriera a stretto contatto di gomito con i genitori mentre in passato i baroni universitari avevano almeno il pudore di avviare i loro cari ad insegnamenti diversi e in sedi distanti.

A seguito di queste pratiche poco commendevoli ma ormai molto diffuse, i giovani diplomati o laureati meridionali hanno dinnanzi a sé tre strade possibili da percorrere. Una è quella del conformismo e dell’acquiescenza ai desiderata dei potenti, atteggiamenti con i quali alcuni giovani, che, come si dice,

non hanno santi in paradiso, tentano di filtrare attraverso le maglie strette della selezione di classe. L’altra è quella del mugugno se non della ri-volta, che però condanna gli indocili, quelli che non stanno al gioco, al-l’esclusione oppure ad attività mar-ginali. La terza alternativa è quella di emigrare, di trasferirsi altrove, al Centro-Nord oppure all’estero, dove c’è maggiore mobilità sociale, dove si apprezzano di più il talento e l’impegno nel lavoro piuttosto che i natali e i circuiti di relazioni della famiglia d’origine.

Il risultato di tutto ciò è un im-poverimento del tessuto civile e produttivo del Mezzogiorno dovuto allo spreco se non alla perdita delle migliori competenze. La politica e le istituzioni governate dai politici come entrano in questo discorso, come influenzano il mercato del lavoro intellettuale? In passato la politica è riuscita e sovente tuttora riesce ad aprire varchi ai giovani ma pure ai meno giovani seri e motivati tendenzialmente esclusi.

C’è riuscita e ci riesce ancora quando è una politica autentica-mente innovativa, quando spalanca le stanze chiuse della burocrazia e vi immette con regolari concorsi i più meritevoli, quando non cede alle pressioni di gruppi ristretti, delle clientele a caccia di impie-ghi pubblici, quando agisce per stimolare le attività autenticamente produttive, quando apre il territorio alla competizione economica inter-nazionale.

Queste sono, a mio avviso, le cartine al tornasole della politica democratica, che rompe con le caste e dischiude le porte ai meritevoli.

di Mariano D’Antonio

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

Page 38: Numero 6/2005

[38]

NON CE NE SAREBBE bisogno, perché basta guardarsi intorno e ascoltare i commenti quotidiani dei cittadini. Ma se uno studioso equilibrato come Piero Craveri, a conclusione del suo intervento sul Mattino di lunedì, ha evocato la minaccia della «putrefa-zione», vuol dire che la situazione napoletana è davvero molto grave e non si scorgono vie d’uscita.

Un altro osservatore imparziale, Paolo Macry, sul Corriere del Mezzo-giorno di domenica ha ricordato che a Napoli la politica si è ridotta a «pura gestione del potere» attraverso una «rete di influenze culturali, clientele professionali, interessi economici», con progetti che spesso si riducono «a operazioni artistico-mediatiche co-stosissime e non prioritarie». Certo, si tratta spesso di voci isolate, anche se esprimono quello che pensano ormai in molti, e non sono ascoltate. Ma se anche si sviluppasse un forte movimento d’intellettuali, non credo che i risultati sarebbero diversi. Sono convinto che a Napoli abbiamo anco-ra una concezione degli intellettuali falsamente gramsciana, perché ci riferiamo, in genere, ai filosofi, agli storici, ai sociologi, agli scrittori, agli artisti, e in definitiva a tutti quelli che lavorano nel settore umanistico. E dico falsamente, perché gli intellet-tuali che avevano realmente contato nel Risorgimento erano stati per Gramsci quegli organizzatori politici moderati che «erano insieme capi d’azienda, grandi agricoltori e am-ministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali». Di questo genere d’intellettuali c’è sempre sta-ta scarsità a Napoli. Ce n’erano pochi (ancor meno di oggi) anche negli anni Cinquanta, di cui mi sembra

che Rosario Villari abbia tracciato un’immagine troppo positiva. Certo il dibattito culturale, imperniato intor-no alle riviste Cronache meridionali e Nord e Sud era vivace, ma gli intel-lettuali che scrivevano sulle pagine di Cronache meridionali cercavano di adattare alla realtà del Mezzogiorno modelli che era nati in altre parti d’Italia e fuori dell’Italia, e quelli rac-colti intorno a Nord e Sud erano ricchi di idee, ma privi di forza politica nella città, laurina e democristiana, cultrice della napoletanità. Alla quale veniva contrapposta una Napoli industriale che era frutto in gran parte dell’in-tervento statale e non dell’attività degli imprenditori napoletani. Una napoletanità che sta riemergendo in forme impressionanti anche a sinistra dopo la scomparsa di quell’industria e della classe operaia. Quella sinistra che negli anni Cinquanta cercava, pur con molti errori, di guardare al futuro, oggi sogna spesso il ritorno al passato, come se fosse possibile, e desiderabile, far rivivere la città delle

strade percorse soltanto da carrozze (e da accattoni). E celebra le tradizio-ni, tutte le tradizioni, anche quelle che un tempo gli intellettuali di sinistra combattevano, vedendo giustamente in esse un residuo di un passato che non andava celebrato ma soltanto studiato, per liberarsene. Una na-poletanità che si accompagna a una mediterraneità che rischia di essere altrettanto deleteria, perché il Medi-terraneo non viene considerato tanto per le nuove possibilità commerciali aperte dallo sviluppo economico dei nuovi giganti dell’Asia, quanto come ponte verso l’Africa, in grado di fa-vorire un rimescolamento di civiltà, dal quale, si dice, avremmo tutto da guadagnare. E che invece ci allon-tanerebbe ancora di più dal centro dell’Europa. La questione napoletana non è una novità: fu posta già cen-trotrenta anni fa da Pasquale Villari, come questione definita sociale, ma che riguardava essenzialmente la criminalità, la camorra. Oggi essa è anche molte altre cose e la soluzione è diventata ancora più complessa. Gli intellettuali, nell’accezione corrente, possono fare poco o nulla.

Analisi, convegni, assemblee, manifesti non sono mai serviti a niente e non vedo perché potreb-bero servire oggi. Ci vorrebbe una classe dirigente nuova, di politici e imprenditori, che chiedesse allo Stato soltanto il mantenimento della legalità e si affidasse, per il resto, alle proprie forze, con concreti progetti di sviluppo economico, e non con dispendiose manie di grandezza. Forse, sarà la forza stessa della crisi che stiamo attraversando a imporre alla fine questa soluzione. Se si farà ancora in tempo.

di Aurelio Lepre

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

Page 39: Numero 6/2005

[39]

PIERO CRAVERI, intervenendo sul Mattino nella discussione sulla clas-se dirigente napoletana, ha usato una espressione forte che è assoluta-mente condivisibile: putrefazione. La ragione di questo esito catastrofico, per il futuro della città, è evidente: si tratta della riduzione asfittica della classe dirigente ad un ceto politico selezionato per cooptazione. Una tendenza che segna, in termini molto pesanti, una lunga stagione, ormai ultradecennale. La metafora emblematica di questa situazione opprimente, e delle sue origini, ci è stata offerta per caso. Fallisce una gara per la individuazione dei progetti da realizzare nell’area di Bagnoli.

Ne nasce la eventualità che si debba rinunciare ad alcuni fondi europei per la realizzazione di quei progetti che sono coerenti con il disegno urbanistico tracciato nella variante del Piano regolatore ge-nerale, elaborata da Vezio De Lucia, nella prima giunta municipale di Bassolino, ed approvata quasi dieci anni dopo dal consiglio comunale. Quella variante detta i percorsi che la Bagnolifutura dovrebbe ora realizzare tecnicamente. Non tutto il male viene per nuocere, hanno commentato il presidente degli in-dustriali, Gianni Lettieri, ed uno de-gli attuali assessori, Nicola Oddati. Forse questo piccolo, ed involontario stop, potrebbe offrire la possibilità di riflettere sulla razionalità degli obiettivi indicati nella variante del Prg e condurre la nostra città verso soluzioni migliori: più utili per tutti. Questa opinione è assolutamente condivisibile ma si presenta in ter-mini antitetici rispetto all’opinione

dominante, fino a pochi giorni or sono, che si può riassumere in questi termini: un piano, regolatore, esiste; è il frutto di un lungo e tormentato iter che ha raccolto formalmente un ampio consenso; realizziamolo per quello che è, anche se non è il migliore dei piani possibili. Perché, invece, realizzare il piano sarebbe un errore e, dunque, se quell’errore si potesse evitare sarebbe meglio? Per alcuni evidenti motivi. La variante del Prg per Bagnoli tratta il proble-ma dell’area come quello di un buco nero. Si rimuove l’acciaieria, si sosti-tuisce con un grande parco, alcuni alberghi, un piccolo porto turistico (forse) ed una ridotta volumetria di edifici civili e commerciali. Quella variante dimentica che il buco nero confina con il grande quartiere di Fuorigrotta, ricco di infrastrutture e di servizi per la città, ad esempio la Mostra d’Oltremare e le università. Quella variante dimentica che il buco nero si trova tra Posillipo e Pozzuoli: due straordinari punti di eccellenza, ambientale e paesistica, e che potrebbe rappresentare un salto di qualità nell’intera struttura urbana di Napoli. Quella variante dimentica anche che ad est della città esistono aree della medesima importanza, lo sviluppo delle quali andrebbe realizzato in parallelo ed in relazione con lo sviluppo di Bagnoli. Ma, soprattutto, l’impianto del Prg dimentica che le città vivono e prosperano quando si fondano su scelte che siano in grado di generare le risorse economiche necessarie per alimentare il processo che si vuole porre in essere. Ignorare l’eco-nomia e sostituirla con la volontà di potenza, che spesso degenera nel

delirio di potenza, non è una buona idea. Tutte queste cose non sono una novità per i napoletani ma, nel lungo ed oscuro decennio alle nostre spalle, chiunque vi abbia fatto cenno, e non sono stati pochi, è stato indi-cato come un visionario da tenere ai margini dei processi decisionali cittadini. Il fatto che si possa riaprire, almeno in termini ipotetici, l’interro-gativo sulla opportunità di realizzare un disegno fragile e mediocre per il solo fatto che esso sia stato approva-to in sede amministrativa, diventa un segnale significativo: forse si è incrinata la monolitica certezza sulla infallibilità del nostro ceto politico che, ormai, sostituisce di fatto tutte le funzioni di una classe dirigente degna di questo nome. Se si accetta questa diagnosi, tuttavia, si arriva inevitabilmente ad una sgradevole conclusione. Lo stile nella direzione politica delle cose cittadine, e regio-nali, deve cambiare radicalmente. Ma deve cambiare radicalmente anche il comportamento civile della classe dirigente. La politica, come insegna la fisica, può invadere, ed invade, gli spazi vuoti. Intellettuali e docenti universitari, liberi professio-nisti, giornalisti, dirigenti d’azienda, parroci e presidenti di club, e ogni altro e qualificato esponente della classe dirigente, sono altrettanto responsabili di aver lasciato vuoti quegli spazi o di averne tollerato l’occupazione. Per questo motivo, e purtroppo, il fatto che Piero Craveri abbia evocato il rischio della putre-fazione della città, in assenza di un ragionevole e radicale cambiamento nei comportamenti di quella classe dirigente, non è una forzatura ma solo una lucida testimonianza.

di Massimo Lo Cicero

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

Page 40: Numero 6/2005

[40]

CONDIVIDO L’IRONIA assai seria di Guido Trombetti quando sostiene, sul Mattino, che il dibattito sul ruolo e sul silenzio degli intellettuali a Napoli sia un fatto periodico come le annuali epidemie di influenza. Provo a fare anche io qualche osser-vazione, partendo da una mia antica convinzione. Ritengo che la parola «intellettuale» e il ruolo di chi se ne copre siano due cose oggi suffi-cientemente negative. Le maschere di un noioso gioco mandarinesco. L’intellettuale è figura nata quando la filosofia decise di andare «a soc-corso dei governi» nel Settecento riformatore. Forse, allora, fu un fatto positivo perché contribuì a definire un capitolo dell’etica più o meno ignoto: l’etica pubblica. Da allora la situazione è molto cambiata, fino ad arrivare ai regimi di propaganda nei quali viviamo. In questi l’apparire fa sempre più aggio sull’essere e, posto dinanzi a ciò, l’intellettuale è diventato sempre più impegnato ma come consigliere del principe.

Spesso subdolamente amman-tandosi di apparente spregiudica-tezza per infinocchiare i «borghesi», ossia i ben pensanti e i qualunquisti. Ed allora serve davvero lamentare il silenzio degli intellettuali, specie in una realtà come Napoli, già di per sé proclive alla spettacolarità, all’evento che appare e non è? La realtà di Napoli, anche quella culturale, è fatta di molti catafalchi barocchi di cartapesta, con facciate ornatissime che non hanno nulla dietro e servono solo ad imbastire la scena di uno spettacolo, come quello dell’intellettuale impegna-to. E allora, non è un fatto positivo il silenzio degli intellettuali? Mi

meraviglia che uno studioso acuto come Mariano D’Antonio centralizzi il problema intorno al familismo e al nepotismo del mondo universita-rio. Non nego che cose del genere esistano e vadano condannate, combattute, estirpate. Ma è questo il problema. Credo proprio di no e penso di aver qualche titolo a dirlo. Se facessimo i nomi, se elencassimo queste patologie ci accorgeremmo che, certo assai negative, esse sono una marginale minoranza della vita universitaria, che è fatta di impegno scrupoloso, di rigore critico, di ope-rosità produttiva, affidata al lavoro continuo, tenace, silenzioso (a Napoli più difficile che altrove) di centinaia e centinaia di giovani ricercatori e dei loro maestri, veri documenti di etica della responsabilità. Valutiamo i tanti studiosi (non intellettuali) che non hanno disertato, che non hanno esitato ad assumere pubbli-che responsabilità, nella politica, nel giornalismo, nel governo di enti pubblici e privati di ricerca. Mi dispiace che uno studioso autore-vole come Rosario Villari sia stato tirato in campo, anziché invitare a riconsiderare le sue sottili analisi di storico del Sud, che tanti temi offrono alla discussione vera della questione Napoli e del Mezzogiorno. Che è ben complessa, ma non può essere riportata al salzarismo come ha fatto Piero Craveri in un momento di umor nero che ben capisco, per-ché tante volte lo avverto anche io. Qui il problema è la solitudine della politica e di chi ha, governando, un progetto e non trova le condizioni per attuarlo, per confrontarsi, per essere criticato ma non con le inutili chiacchiere dell’impegno o

del disimpegno degli intellettuali. Queste condizioni non vi sono per una ragione di fondo, che ha provo-cato e può provocare drammatiche conseguenze. Qui manca una classe dirigente capace di incidere perché mancano le condizioni strutturali del suo incidere, al di là della qua-lità delle persone. Ciò dà spazio allo sviluppo di un contro-sistema, quello del malaffare, della camorra che diventa sempre più invasiva. Ma allora, per esempio, perché non discutiamo seriamente di quanto cerca di fare il sistema bancario per creare un leva di giovani dirigenti in grado di capire, indovinare e gover-nare le esigenze di una nuova realtà produttiva? Perché non ragioniamo sulla contraddizione di una giovane imprenditorialità vogliosa e creativa, che fatica a innovare perché non tro-va il sistema, non riesce a fare quel “sistema integrato Napoli”, che pre-dico da tempo? Penso che sia questo il discorso da fare. Non altri.

di Fulvio Tessitore

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

Page 41: Numero 6/2005

[41]

FRANCAMENTE NON CREDO che si pos-sa dire che il rilievo dato in questi giorni dal Mattino alla conversazio-ne con lo storico Rosario Villari sulla crisi della città dentro la crisi delle grandi aree urbane nel mondo e l’ir-risolta questione meridionale, e il di-battito che ne è seguito, siano come l’influenza. «Con le prime nuvole dell’autunno torna il discorso sugli intellettuali – scrive nell’esordio del suo intervento il rettore della Fede-rico II Guido Trombetti – insidioso e deleterio come l’influenza. Ma con la certezza che in quindici giorni passa, come l’influenza». Invece io penso che le cose non stiano così e che le previsioni non siano queste

Perché il dibattito tocca un nervo scoperto della realtà napoletana, che chiama in causa il rapporto tra società civile, politica e istituzioni; gli spazi, il peso e il ruolo della pub-blica opinione nella vita cittadina; i canali di formazione della nuova classe dirigente. Il nervo scoperto toccato dal dibattito del Mattino e dalla riflessione che si terrà do-mani a Palazzo Serra di Cassano è questo.

È lo stato della democrazia a Napoli come in tutti i luoghi di concentrazione umana nel mondo moderno. Una democrazia debole, ingessata, estenuata, povera di par-tecipazione e radicamento sociale, ai margini dei luoghi del potere, incapace di promuovere idee, con-trasti, confronti, sintesi, innovazioni. In questa situazione ha poco senso entrare nel dibattito politico a testa bassa e a gamba tesa, giocare raso terra, palleggiarsi le responsabilità da una parte all’altra del campo tra intellettuali, partiti e istituzioni. Il pro-

blema semmai è quello di riaprire un circolo virtuoso tra cultura e politica, tra saperi, competenze e responsabi-lità di governo a tutti i livelli, con un solo vincolo: il rispetto pieno della reciproca autonomia e dei diversi ruoli, senza arroganze (non c’è nulla di più insopportabile dell’arroganza del potere) e senza vassallaggi (oggi non c’è niente di più inflazionato dei «consiglieri del principe»). Sono per ciò del tutto d’accordo con Piero Craveri quando scrive che nella conversazione con Villari «le osser-vazioni sui diversi segmenti della società civile e politica vengono con-nesse. E mostrano che il problema vero sta nella destrutturazione dei processi di comunicazione, scambio e osmosi che devono caratterizzare un organismo sociale e attraverso cui si producono idee, iniziative e tutto ciò che fa viva una società e consente la sua evoluzione». Invece Fulvio Tessitore dichiara «dispia-cere» per il fatto che «uno studioso autorevole come Rosario Villari sia stato tirato in campo, anziché invitare a riconsiderare le sue sottili analisi di storico del Sud, che tanti temi offrono alla discussione vera della questioni Napoli e del Mezzogiorno». Non capisco. Villari è stato tirato in campo proprio per questo, per aiutarci a fare una discussione seria

sulla realtà e i problemi della città nel loro contesto storico. «Napoli ha una grande tradizione culturale e ha dato un grande contributo alla crescita civile del paese»: Villari lo dice in premessa, e nel loro contesto geo-politico, perché quando si parla di Napoli ci si riferisce ad un’area che va ben oltre l’ombra del suo mu-nicipio. Esprimendo apprezzamento alle personalità che sono intervenu-te nel dibattito aperto sul Mattino dalla conversazione della rivista «Mezzogiorno Europa» con Rosario Villari, vorrei esprimere un duplice auspicio. Primo. Non dividiamoci tra chi dice che a Napoli va tutto a scatafascio, perché non è vero e così si fa solo (cattiva) propaganda, e chi sostiene che va tutto nel migliore dei modi, perché anche questo non è vero e così non si aiuta chi ammini-stra la città e la regione in condizioni difficilissime per ragioni storiche e per responsabilità (anche) nazionali che non possono essere ignorate e taciute.

Secondo. Evitiamo di circoscrive-re il dibattito e la critica sulla que-stione-Napoli alle sole forze culturali e politiche di centrosinistra, perché così non faremmo che accentuare il paradosso di un sistema politico bipolare nel quale tuttavia sembra esistere un solo polo, dato che quello di centrodestra è del tutto assente e silente: senza idee, iniziative e proposte. E non faremmo che accen-tuare l’anomalia di una democrazia dell’alternanza nella quale tuttavia non c’è segno di una seria alterna-tiva programmatica e politica che assolva all’indispensabile ruolo di stimolo e di controllo sull’attività di chi ha l’onere del governo.

di Andrea Geremicca

NAPOLI,LA SUA STORIA,

LE SUE PROSPETTIVEIL DIBATTITO SU

«IL MATTINO»

Page 42: Numero 6/2005

I N F O

La crisi dell’Unione non si arrestaEURONOTES di Andrea Pierucci

Consiglio europeo informaledi Hampton Court

******

[42]

L’attualità istituzionale di queste settimane è certa-mente caratterizzata dalla questione cruciale delle pro-spettive finanziarie dell’Unione per il periodo 2007-2013. Brevemente, vorrei ricordare di che si tratta. L’Unione, come la maggior parte degli Stati e delle organizzazioni pubbliche o private del mondo, giustifica le proprie en-trate e le proprie spese grazie ad un bilancio annuale. Tuttavia, l’ordine di grandezza delle entrate (e dunque delle spese complessive) nonché la ripartizione della spesa per grandi capitoli si effettua in una prospettiva pluriennale. Quest’ultima procedura, detta appunto delle «prospettive finanziarie» permette cioè di determinare la dimensione del bilancio dell’Unione per i sette anni a venire ed anche di definire la dimensione e la struttura dell’azione politica dell’Unione. Questo metodo è stato inventato nell’ottobre del 1993, sulla base di un accor-do interistituzionale fra Parlamento, Commissione e Consiglio che permetteva di evitare l’annuale conflitto di bilancio, che era stato molto utile alla fine degli anni 70-inizio anni 80 per consolidare il ruolo del Parlamento europeo, ma che oramai era diventato soltanto un incubo politico-burocratico. La procedura è stata confermata set-te anni dopo, e poi di nuovo nel 1999 con “Agenda 2000” uno storico documento proposto dalla Commissione, che apriva le porte ad un bilancio per l’Europa allargata. Siamo al termine del periodo e, dunque, bisogna rifare le prospettive finanziarie.

Esaminiamo i vari problemi. Il primo riguarda l’affer-mazione un po’ insensata fatta da alcuni Stati membri del tutto pro europei, quali la Germania e la Francia, di voler limitare il bilancio dell’Unione all’1% del PIL. Beh, in pe-riodo di ristrettezze finanziarie potrebbe quasi sembrare normale, se non fosse che nello stesso momento (la scorsa primavera) i vari governi, primo fra tutti quello francese, ai rispettivi paesi di ratificare una Costituzione che ac-cresceva chiaramente il ruolo (e dunque il fabbisogno) dell’Unione. Governi come quello francese, poi, sempre allo stesso momento, chiedevano il mantenimento ed il rafforzamento della politica agricola (quasi 50% del bilan-cio) contro i negoziati in sede Organizzazione Mondiale del Commercio, fortemente voluti dallo stesso governo, che esigevano una riduzione della spesa agricola francese e, com’è ovvio, il rafforzamento delle politiche d’avvenire come la ricerca. La logica e la matematica sono, si sa, delle opinioni; si badi, la posizione francese, mutatis mutan-dis, possiamo benissimo attribuirla a molti altri governi. Molto significativa si è rivelata la posizione britannica.

Come si ricorderà, dal 1984 la Gran Bretagna riceve un ristorno molto importante sui propri versamenti alle casse comunitarie, in ragione della struttura delle im-portazioni che sembrerebbe penalizzare la Gran Bretagna e, soprattutto, della necessità di smorzare l’ostilità della Signora Thatcher. Da allora i governi britannici hanno difeso strenuamente questo anacronistico privilegio e continuano a farlo anche adesso. Nelle prime proposte britanniche si suggeriva di ridurre il bilancio, ridurre piuttosto brutalmente le spese agricole (delle quali sono beneficiari la Francia, soprattutto, ed altri paesi conti-nentali), aumentare i fondi per la ricerca e, soprattutto, non toccare il ristorno britannico.

Il secondo riguarda proprio la questione dell’am-pliamento. L’Unione ha ben fatto delle promesse ai suoi nuovi membri, che hanno aderito in cognizione di causa, sapendo cioè che era scontato un certo orientamento di bilancio a loro vantaggio. Toccherebbe dunque mante-nere gli impegni. Questi stessi paesi, in giugno scorso, avevano addirittura accettato una piccola riduzione degli impegni per chiudere sulle prospettive finanziarie; ma è impensabile che accettino di cambiare le carte in tavola in piena partita.

Il terzo punto riguarda l’urgenza della definizione delle prospettive finanziarie per consentire ai destinata-ri finali dei fondi dell’Unione, ed in particolare ai nuovi Stati membri ed alle regioni più deboli dei quindici, di effettuare la loro programmazione, poiché tutto il siste-ma dei fondi strutturali è basato sulla programmazione. Inoltre, per quel che riguarda le regioni al limite (quelle cioè che rientrano per pochi punti di PIL nel numero di quelle dell’attuale obiettivo 1) si tratta addirittura di sapere se beneficeranno dei fondi o meno.

La Commissione europea aveva già lanciato un segna-le d’allarme, quando era parso probabile che le prospet-tive finanziarie dovessero slittare ed aveva chiesto che, anche senza le cifre, i nuovi regolamenti dei fondi fossero discussi fino a trovare un accordo politico. Ciò avrebbe, nonostante tutto, favorito la programmazione ed avrebbe permesso, appena adottate le prospettive finanziarie di pubblicare i detti regolamenti.

La situazione, tuttavia, appare più grave dopo le pro-poste britanniche di questi giorni, che puntano su una riduzione del bilancio, in particolare penalizzando i dieci nuovi paesi membri attraverso la riduzione dei crediti destinati ai fondi strutturali con la giustificazione che, tanto, quei paesi hanno difficoltà di assorbire gli aiuti.

CRISI SULLE PROSPETTIVE FINANZIARIE DELL’UNIONE EUROPEA

EURONOTES di Andrea Pierucci

Page 43: Numero 6/2005

I N F O[43]

La reazione unanime è stata molto forte. In particolare, il Presidente della Commissione Barroso ha paragonato Blair non a Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, ma allo Sceriffo di Nottingham che rubava ai poveri per dare ai ricchi! Al di là della felice battuta, è abbastanza chiaro che lo scontro di bilancio diventa ormai politico, specie se si pensa ad una presidenza bri-tannica che non ha realizzato moltissimo e, soprattutto, che non ha fatto niente (diversamente da quanto previsto al Consiglio europeo di giugno) per rilanciare almeno il dibattito sulle politiche europee. Questa estrema difficol-tà di fissare il pacchetto finanziario per i prossimi sette anni crea una crisi maggiore che si aggiunge alla crisi della Costituzione. L’Europa, in questo modo, rischia di uscirne ulteriormente indebolita, ma non come sperano i nazionalisti, a profitto degli Stati membri (che invece ne risulterebbero indeboliti), ma a vantaggio degli Stati Uniti e degli altri partners internazionali. Le reazioni non sono tuttavia entusiasmanti. La più decisa è stata quella del Primo Ministro belga che chiede (oserei dire poeticamente) la rapida creazione degli Stati Uniti d’Eu-ropa a partire dagli Stati che hanno adottato l’Euro. Chi dice meglio?

Il Consiglio europeo di dicembre non s’annuncia dunque eccezionalmente buono; anzi il rischio di un fallimento non è remoto. L’Austria e poi la Finlandia riprenderanno la presidenza: speriamo che il detto “pic-colo è bello” sia vero!

Una buona notizia: il bilancio 2006 potrebbe essere invece rapidamente approvato, grazie ad un compromes-so fra il Consiglio e la delegazione del Parlamento euro-peo, guidata da Gianni Pittella, relatore per il bilancio.

ACCORDO IN SENOAL PARLAMENTO

SUL PROGETTO REACH(sicurezza dei prodotti chimici)

Dopo un accanito dibattito e l’esame di oltre 1500 emendamenti, il Parlamento europeo ha approvato il rapporto dell’On. Sacconi (DS) che ha consentito un accordo sulle modifiche da apportare alla proposta della Commissione europea in materia di sicurezza per i pro-dotti chimici. Il compromesso è stato possibile solo gra-duando gli obblighi delle imprese rispetto alle quantità dei diversi prodotti immessi nel mercato. Il Consiglio se n’occuperà nei prossimi giorni. Non è escluso che la

procedura si possa concludere con un’approvazione del testo del Parlamento europeo.

FALLIMENTO EUROMEDITERRANEO?

La stampa riporta il fallimento del vertice di Barcel-lona che celebrava, nella settimana del 21-27 novembre, il decimo anniversario della politica euromediterranea. In particolare, si lamenta la mancanza di un accordo su una dichiarazione completa ed impegnativa sul terrori-smo. Subito si erano presentati i distinguo fra terroristi e resistenti (a proposito, ho letto tempo fa articoli di fuoco di intellettuali italiani su questa distinzione: chi la faceva era alleato dei terroristi! Sono contento di ve-dere che tali amici dei terroristi si nascondono anche alla Casa Bianca, se è vero che gli Americani cercano un contatto ed una sorta di negoziato con i nemici irakeni non terroristi), ma, soprattutto, si erano presentate grandi difficoltà per definire valori condivisi. Non c’è stata l’auspicata – e molto ambiziosa – dichiarazione comune sul futuro, proprio per via delle questioni legate al terrorismo ed alla resistenza, ma si è accolta (da parte dei 35 partecipanti) una dichiarazione conclusiva della Presidenza (Blair e Zapatero) che esprime condanna per tutti i tipi di terrorismo. Quest’affermazione, debole di suo, ha però rappresentato, secondo il vice presidente della Commissione europea, Frattini, un interessante passo avanti, che esclude l’idea di fallimento. È certo che la prospettiva di raggiungere la pace nel Mediter-raneo (orientale!) e una condivisione chiara di valori fra la sponda Nord e quella Sud e Est non si realizzerà di certo molto rapidamente e senza drammatici sforzi di comprensione. Ed è anche vero che da una parte bi-sogna pur cominciare.

COMITATO DELLE REGIONI

Il Comitato delle Regioni, nell’attuale composizione, termina la sua funzione il 25 gennaio a mezzanotte. I governi designano in questi giorni i nuovi membri ed il 16 e 17 febbraio il nuovo Comitato farà la sua riunione costitutiva. Con tutta probabilità, secondo al regola della rotazione fra PSE e PPE, il sindaco di Dunkerque e capo gruppo socialista, Michel Delebarre succederà al PPE Peter Straub. Alla testa del gruppo socialista dovrebbe istallarsi Mercedes Bresso.

Page 44: Numero 6/2005
Page 45: Numero 6/2005
Page 46: Numero 6/2005

MEZZOGIORNO EUROPAPeriodico del Centro

di Iniziativa Mezzogiorno EuropaN. 5 – Anno VI – Novembre/Dicembre 2005

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

Via S. Lucia, 76 – Napolifax 081.2471196 – tel. 338.4386584

mail-box: [email protected]

Direttore responsabile:ANDREA GEREMICCA

Redazione:OSVALDO CAMMAROTA,

CLAUDIO D’AROMA, MARCO PLUTINO,

CLAUDIO POMELLA, IVANO RUSSO,

EIRENE SBRIZIOLO

Consulenti scientifici:SERGIO BERTOLISSI, WANDA D’ALES-SIO, MARIANO D’ANTONIO, VITTORIO DE CESARE, BIAGIO DE GIOVANNI, ENZO GIUSTINO, GILBERTO A. MAR-SELLI, GUSTAVO MINERVINI, MASSIMO ROSI, ADRIANO ROSSI, FULVIO TESSI-TORE, SERGIO VELLANTE

AbbonamentiOrdinario Euro 51, 65

Sostenitore Euro 129, 111 copia (p. vend.) Euro 5, 16

Grafica e videoimpaginazioneLuciano Pennino (Na)

(www.lucianopennino.com) tel. 348.2687179

StampaLe.g.ma. (Na) – Tel. 081.7411201

MEZZOGIORNO EUROPA del Centro di iniziativa Mezzogiorno EuropaLA RIVISTA SI PUÒ TROVARE PRESSO:

Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf.0815521436 Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf.0812405411 Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf.089253631 Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf.0668803248 Via Dante, 91/95 BARI – Tf.0805219677 Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf.091587785Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377 Via Merliani, 118 – NAPOLI – Tf. 0815560170 Via Caduti sul Lavoro, 41-43 CASERTA – Tf. 0823351288 Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274 Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218 Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764Loffredo Via Kerbaker, 18 – 21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521Marotta Via dei Mille, 78 – 82 NAPOLI – Tf.081418881Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693Pisanti Corso Umberto I, 34 – 40 NAPOLI – Tf. 0815527105Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf.082536027Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf.0824317109Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81 – 83 CAMPOBASSO – Tf. 087498787 Isola del Tesoro Via Crispi, 7 – 11 CATANZARO – Tf. 0961725118Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMETIA TERMEDomus Luce Corso Italia, 74 COSENZAGodel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1-2 ROMA – Tf. 066797460Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – Bruxelles

Le Associazioni e gli Istituti:Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652Associazione N:EA Via M. Schipa, 105 – 115 NAPOLI – Tf. 081660606Intra Moenia Piazza Bellini, 70 NAPOLI – Tf. 081290720Centro Mezzogiorno Europa Via S. Lucia, 76 NAPOLI – Tf. 0812471196

LA RIVISTA

Le opere che illustrano questo numero sono oggetti, quadri, sculture e manifesti di artisti degli anni ’20-’30.

[46]

Page 47: Numero 6/2005
Page 48: Numero 6/2005